Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABRUZZO

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

TUTTO SULL'AQUILA E L'ABRUZZO

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

GLI AQUILANI E GLI ABRUZZESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?

 

Quello che gli Aquilani e gli Abruzzesi non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che gli Aquilani e gli Abruzzesi non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

PARLIAMO DI TERREMOTI.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

LE DONNE ABRUZZESI.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

TERREMOTO: I 27 PROCESSI TRA CROLLI, RICOSTRUZIONE E INFILTRAZIONI.

IL MALE DELL'AQUILA? GLI AQUILANI.

ABRUZZESI ALLA RISCOSSA.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

TERREMOTO: VERGOGNA!!! IL VERGOGNA ALLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE DEGLI SCIENZIATI, NON E’ CHE E’ SOLO QUESTIONE MONETARIA ATTINENTE I RISARCIMENTI?

ABRUZZO A LUCI ROSSE.

POVERO ABRUZZO!

MAGISTRATI: MACCARONE E SCHETTINI, FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA.

L’AQUILA MASSONE.

ABRUZZO MAFIOSO.

OTTAVIANO DEL TURCO - STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA’.

LE RISATE SULL'AQUILA.

TERREMOTO DELL’AQUILA: CONDANNATI I MEMBRI DELLA “COMMISSIONE GRANDI RISCHI”.

Terremoto, la santa truffa.

POST SISMA: LA POLIZIA PROTESTA.

EDILIZIOPOLI E TERREMOTO.

DOSSIER ABRUZZO: MAFIA E CORRUZIONE.

SCANDALO CONCORSI PUBBLICI.

MAGISTROPOLI IN ABRUZZO.

LA SUA PROVINCIA.

PARLIAMO DI CHIETI

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI.

LA SENTENZA DELLO SCANDALO.

CHIETI E LA MASSONERIA.

CONCORSOPOLI. ESAMI E CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.

PARLIAMO DI PESCARA

VERGOGNE IN TV. MULTA AL QUESTORE TRA STRISCIA E LE IENE.

DINASTOPOLI. LE DINASTIE DI PESCARA.

MAGISTROPOLI. IN CHE MANI SIAMO. QUANDO I BUONI TRADISCONO.

PESCARA E LA MASSONERIA.

PESCARA E LA MAFIA.

CONCORSOPOLI. SCANDALO CONCORSI PUBBLICI.

PARLIAMO DI TERAMO

VIGILI URBANI. CI VUOLE CORAGGIO A PARLARNE.

TERAMO MAFIOSA.

TERAMO E LA MASSONERIA.

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

Vendetta di Vasto, i farmaci e l'arma. E quella cupa scoperta sull'eredità, scrive il 4 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. "Ho sbagliato, mi sono rovinato la vita". Lo ripete di continuo Fabio Di Lello, lo ha ripetuto ieri davanti al suo avvocato che è andato a trovarlo in carcere, dove è rinchiuso in isolamento dopo che ha freddato con tre colpi di pistola Italo D'Elisa, il 22enne che a luglio scorso aveva travolto e ucciso in un incidente stradale la moglie di Di Lello, Roberta Smargiassi. In cella Di Lello è apparso confuso e dispiaciuto, ma è riuscito comunque a ricostruire con il suo legale che cosa gli sia passato nella testa quando ha esploso quei colpi con la sua calibro 9: "È successo tutto in modo imprevedibile - ha detto al suo avvocato, riportato dal Corriere della sera - Non volevo uccidere. Stavo tornando con la mia macchina dal campo di calcio del Cupello. A un certo punto ho visto il ragazzo in bicicletta. Veniva in senso opposto, ci siamo guardati". Di Lello aveva tirato dritto, ha visto però il ragazzo fermarsi al bar, così ha parcheggiato ed è sceso dall'auto. Di prima intenzione Di Lello sostiene di non aver avuto nessuna intenzione di uccidere, voleva solo parlare con quel ragazzo che da quel giorno ritiene che lo provocasse ad ogni occasione. Cosa facesse per provocarlo, però, non ha mai saputo spiegarlo. E così è successo di nuovo quando si è avvicinato l'ultima volta: "Mentre stava tornando a riprendere la bici, mi sono avvicinato a lui. Quando mi ha visto ha fatto il provocatore, come sempre. Non ci ho visto più. Sono tornato in macchina, ho preso la pistola e l'ho ucciso". Da quel tragico incidente che gli ha strappato via la moglie, Di Lello aveva cominciato una cura psichiatrica, assumeva psicofarmaci eppure a settembre gli è stato permesso di comprare una pistola, con regolare porto d'armi. Secondo gli inquirenti, fino a quel momento non c'era il minimo sospetto che potesse arrivare a un gesto estremo come quello. I sospetti che Di Lello avesse premeditato l'omicidio aumentano con l'ultima scoperta portata in procura dall'avvocato della famiglia della vittima, Pompe Del Re: "Lo scorso primo dicembre - ha detto l'avvocato - Fabio Di Lello si è spogliato di tutti i suoi beni per intestarli ai genitori. Questo deporrebbe a favore della premeditazione del gesto. Potrebbe averlo fatto per non essere aggredito nel patrimonio dopo il delitto che stava forse meditando".

Tragedia di Vasto, il testimone: lo scambio di battute tra Di Lello e D'Elisa prima della sparatoria, scrive il 4 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. A Vasto si celebrano i funerali di Italo D'Elisa, il 22enne ucciso a colpi di pistola per vendetta da Fabio Di Lello, l'uomo che aveva perso la moglie Roberta, travolta e uccisa. E nelle ore del cordoglio emergono nuovi dettagli sulla vicenda. Dai verbali, certo, ma anche da un testimone oculare citato da Il Messaggero, il quale non solo ha assistito la sparatoria, ma ha visto e soprattutto udito ciò che la ha preceduta. Di Lello avrebbe incrociato D'Elisa, che - pare - gli avrebbe riservato uno sguardo di sfida. Quantomeno gli sguardi si sono incrociati, come non accadeva da tempo. A quel punto Di Lello lo ha apostrofato: "Hai ancora il coraggio di farti vedere in giro?". La risposta del ragazzo: "Lasciami stare, non puoi farmi nulla". Pochi istanti dopo i tre colpi di pistola, fatali, davanti al Cafè and wine bar di Viale Perth. Di Lello, insomma, avrebbe sfruttato il primo momento, o quasi, in cui era riuscito a fronteggiare Italo, che da mesi, vittima di una campagna d'odio, non si faceva vedere in città. Dopo lo scambio di battute di cui vi abbiamo dato conto, Fabio sarebbe tornato alla sua auto per prendere la pistola, con la quale ha poi ucciso a sangue freddo Italo, che era un volontario della Protezione civile (da qui, la pettorina che si vede nelle foto).

Tragedia di Vasto, Fabio Di Lello aveva un complice che lo ha avvertito: "Italo è al bar", scrive il 5 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. Il giorno successivo ai funerali di Italo D'Elisa, l'indagine sulla tragedia di Vasto si arricchisce di due elementi che potrebbero rivelarsi decisivi. Uno in particolare: la presenza di un complice che avrebbe aiutato Fabio Di Lello a compiere la sua vendetta a colpi di pistola contro il ragazzo che aveva travolto e ucciso sua moglie. Pare infatti che qualcuno abbia avvertito il killer del fatto che D'Elisa si trovasse a quel maledetto bar, al Drink water cafè dove è stato ucciso. Una telefonata, rapida: "L'omicida di tua moglie è al bar". Poi, il raid e l'omicidio. La procura di Vasto ha infatti chiesto un incidente probatorio, che verrà effettuato nella mattinata di lunedì, per verificare le telefonate fatte e ricevute dal cellulare di Di Lello (verranno inoltre documentati traffico e contenuti del computer dell'uomo). Si vuole insomma scoprire se qualcuno, mercoledì pomeriggio, abbia davvero scatenato la sua furia omicida (una circostanza che, trapela da fonti vicine alla procura, potrebbe essere facilmente confermata). Si cerca dunque il complice che, come spiega Pompeo Del Re, avvocato del ragazzo assassinato, "ha segnalato gli spostamenti del povero Italo". C'è poi la seconda novità, che riguarda la premeditazione. Tutto depone contro Di Lello. In particolare tre punti. Il primo, il fatto che all'inizio di dicembre abbia deciso di donare i suoi beni e la sua casa ai genitori. Dunque l'acquisto della pistola, avvenuto un mese dopo la morte della moglie, pistola che ha sempre tenuto in auto. Infine, i continui post su Facebook nei quali manifestava la sua sfiducia nella giustizia e quello che per gli inquirenti sarebbe "un chiaro desiderio di vendetta". Tra punti che con assoluta probabilità giustificheranno l'aggravante della premeditazione, dalla quale l'omicida sta provando a difendersi, parlando di un raputs. Se la premeditazione venisse confermata, Di Lello rischia l'ergastolo.

Vasto, i genitori di Fabio Di Lello: “Avevamo chiesto il ricovero perché stava male. Roberta era incinta”. Il giorno dopo i funerali di Italo d'Elisa e il silenzio dell'uomo che lo ha ucciso per vendicare la morte della moglie si aggiungono due nuovi particolari a questa storia di rancore e morte. I genitori del fornaio diventato killer avevano chiesto a uno degli specialisti che lo avevano in cura perché depresso di farlo ricoverare e confermano che la donna aspettava un bambino, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 febbraio 2017. Il giorno dopo i funerali di Italo d’Elisa e il silenzio di Fabio Di Lello, l’uomo che lo ha ucciso per vendicare la morte della moglie, si aggiungono due nuovi particolari a questa storia di rancore e morte. I genitori del fornaio diventato killer avevano chiesto a uno degli specialisti che lo avevano in cura perché depresso di farlo ricoverare e confermano che Roberta Smargiassi era incinta e che avrebbe comunicato la notizia a tutta la famiglia il giorno dopo. A Corriere e Repubblica Lina e Roberto Di Lello, che non hanno trovato il coraggio di andare al funerale di D’Elisa ma hanno inviato fiori, raccontano di aver tentato di sottrarre il figlio a quell’ossessione che lo ha portato il 1 febbraio a impugnare la calibro 9, regolarmente detenuta, e sparare tre colpi contro il 22enne che il 1 luglio dell’anno scorso aveva investito con la sua Punto nera il motorino della donna. “Fabio stava male, molto male… – racconta la donna ai cronisti – L’incidente ha cambiato la vita di tutti. Fabio non è riuscito ad accettare la morte di Roberta. Andava al cimitero anche di notte, saltava il muro e stava lì con lei. Sempre, notte e giorno. Poi ha smesso con le notti ed entrava alle 7 del mattino, quando aprivano i cancelli, tornava a mangiare un boccone, poi di nuovo lì fino alle 6 di sera, l’orario di chiusura. Un’ossessione: suo fratello lo invitava a Roma e lui rifiutava: “E poi chi ci sta con Roberta?”. Gli dicevo Fabio tu non puoi vivere così, ma lui si arrabbiava”. Il medico aveva spiegato ai genitori che per ricoverarlo sarebbe stato necessario il suo consenso. L’ex calciatore dilettante dal giorno della morte della moglie continuava a chiedere giustizia: ma D’Elisa, al momento dell’incidente, non era ubriaco né drogato. E comunque l’udienza preliminare era stata già fissata a sei mesi dai fatti.

Il padre di Fabio, che ieri davanti al giudice per le indagini preliminari non ha ripetuto la versione fornita ai suoi avvocati e cioè che il ragazzo lo aveva sfidato, spiega di provare vergogna verso tutti e che il figlio era ossessionato da Italo: “Io l’accido quello lì”. Ma l’uomo dice di non aver saputo dell’arma, anche se Fabio aveva da tempo il porto d’armi: “Non sapevo che avesse una pistola. Lui aveva il porto d’armi sportivo perché andava a tirare al poligono. Dovevano toglierglielo. Chissà dove l’ha presa poi la pistola”. “Io so che a sei mesi dal lutto o ti riprendi o finisci nel tunnel e Fabio è finito nel tunnel. Non ce l’ha fatta anche perché non accettava certe cose che leggeva sull’incidente prima di Natale, tipo che Roberta non aveva il casco allacciato eccetera. Da quei giorni è andato sempre più giù” aggiunge la signora. La donna ricorda anche come ha saputo quello che era avvenuto. Il padre di Roberta ha chiamato: Vieni qui perché è successa una cosa grave. Oddio, si è ucciso, ho pensato. Sono corsa al cimitero e lui mi è venuto incontro. Mi ha abbracciato fortissimo, così forte da lasciarmi i segni qui. “Ti voglio bene”, mi ha detto. Aveva ucciso il ragazzo… Ma perché, perché l’hai fatto? Non potevi fare una scazzottata che almeno non moriva nessuno?”. “Questa è stata una guerra, ci sono tre famiglie distrutte dal dolore. Roberta è morta e – dice il signor Di Lello – ora è morto anche quel ragazzo e io sento un grande dolore per lui e per la sua famiglia. Devono morire i vecchi, non i giovani. Non so più cosa dire, cosa pensare. Spero almeno che torni la pace fra tutti”.

La claque dei giustizieri, una tragedia italiana. Omicidio Vasto: legale Di Lello: "D'Elisa non ha mai chiesto scusa". Intervista di Jean Paul Bellotto. Dopo l'incidente nel quale ha perso la vita Roberta. "Italo D'Elisa non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi".  Così, intervistato da Radio Capital, l'avvocato Giovanni Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l'incidente, ora difensore del marito, Fabio Di Lello, che ha sparato a D'Elisa.

Vasto, parla il padre di Italo: "Hanno ucciso un morto: contro di lui una campagna d'odio". Angelo D'Elisa racconta suo figlio dopo l'incidente nel quale ha travolto e ucciso una giovane donna: "Abbiamo scritto alla famiglia di Roberta. Non ci hanno risposto", scrive Paolo G. Brera. Seduto sul sedile posteriore dell'auto del suo avvocato, Angelo D'Elisa ha lo sguardo perso nel vuoto. Ha appena nominato il perito di parte, tra poco inizierà l'autopsia sul corpo di suo figlio. Abbassa il finestrino. Accenna persino un sorriso; gentile, stravolto.

È troppo tardi, Angelo, ma cosa direbbe all'uomo che ha ucciso suo figlio?

"Hai ammazzato un morto. L'odio non porta a niente".

Era inevitabile?

"L'unica cosa che dovevano fare, Italo e Fabio, era incontrarsi. Parlarsi, abbracciarsi e piangere insieme. Magari sarebbero diventati amici, erano due persone buone. Insieme avrebbero cancellato questa maledetta campagna d'odio che seppellirà mio figlio e distruggerà del tutto anche lui: tutti noi, da allora, abbiamo sempre convissuto con il dolore per la morte di Roberta. Ne siamo ancora addolorati, sa? Anche oggi, dopo quello che è successo".

Come stava Italo, dopo quell'incidente? Alcuni dicono che era a pezzi, altri che faceva le impennate davanti a Fabio.

"Stava male, malissimo. Chiunque di noi se si trovasse in una situazione così tragica come starebbe? È un inferno. Aveva paura a uscire di casa. Si era chiuso in se stesso, poi un giorno mi ha detto: non ce la faccio più, voglio uscire, ho bisogno di aria".

Che vita faceva? Aveva una fidanzata?

"C'era qualche ragazza che gli girava intorno, ma nessuna fissa. Nessuna che gli stesse accanto e lo aiutasse, e d'altronde in questa situazione aveva altro a cui pensare che l'amore".

Impennava in motorino davanti a Fabio?

"Ma quale motorino! Non ce l'ha, e non aveva più la patente. L'auto non l'ha nemmeno toccata. Era in uno stato di shock pazzesco, non vi rendete conto".

Dov'era andato, mercoledì pomeriggio?

"Alla ciclabile sulla riserva di Punta Aderci".

Che ragazzo era, suo figlio? A Vasto c'è chi dice "poverino" ma anche che "Fabio ha fatto bene".

"Non ho parole, per queste persone: Fabio Di Lello ha commesso un atto osceno. Italo era un ragazzo buono, semplice. Era sempre disponibile. Le assicuro, una persona di cuore. Aveva la passione per i vigili del fuoco e per il volontariato nella Protezione civile. Quest'estate, un paio di mesi dopo l'incidente c'era stato il terremoto. Era distrutto, ma voleva partire, sognava di andare là a dare una mano. Papà - mi disse - non ci posso mica andare, con sto guaio sulle spalle come faccio? Non posso nemmeno guidare...".

Torniamo all'incidente.

"La rivedeva tutte le notti, quella donna. Quelle immagini, quella scena orrenda non si dimenticano. Ma io gli dicevo: forza e coraggio, Italo, piano piano passerà. Cercavo di tenergli su il morale. I medici mi dicevano di aiutarlo, rischiava di chiudersi definitivamente in sé stesso. Nessuno può sapere cosa si prova, se non lo vive".

Lo perseguitava l'odio o il rimorso?

"Entrambi, credo. Si metteva a letto, e dopo due ore si svegliava di soprassalto con quell'immagine negli occhi. E poi di giorno tutto questo odio. Il sito in cui lo attaccavano con parole orribili aveva 1500 adesioni, tantissime in una cittadina come Vasto che ha 40mila abitanti".

Quando è stata l'ultima volta che lo avete visto?

"Mia moglie è distrutta. L'ha visto l'ultima volta a pranzo. C'ero anche io: stavo uscendo per andare a lavorare e lui le ha detto: mamma, vado a farmi un giretto in bicicletta, è una bella giornata. Provo a svagarmi un po'. Non è più tornato".

Avevate paura che potesse succedere?

"Veramente ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Vivo in un paese civile. Ma certo sentivo tante voci in giro. C'era chi mi diceva che dovevo difendermi perché avrebbe fatto quello che poi ha fatto davvero, sì".

In questi mesi suo figlio era stato emarginato dalla comunità di Vasto?

"Sì, e le pugnalate più gravi sono proprio quelle che non ti arrivano direttamente. Quelle che ti colpiscono alle spalle. Lo hanno lasciato solo, e si sono divertiti alle sue spalle sui social network".

Cosa le disse, dell'incidente?

"In ospedale mi disse: non correvo, te lo giuro, non sono scappato, ho chiamato subito i soccorsi. È stato un dramma".

Forse non siete riusciti a comunicarlo a Fabio e alla famiglia di Roberta?

"Abbiamo scritto subito una lettera di condoglianze, con il nostro dolore per quello che era accaduto. L'abbiamo firmata tutti".

Vi hanno risposto?

"No, nessuna risposta. E sono iniziate le fiaccolate, le pagine su Facebook. Neanche se mio figlio fosse stato un killer di professione. Era un bravo ragazzo di vent'anni, non un super ricercato di mafia".

L'oscura tentazione di giustizia fai da te: "Hai fatto bene Italo andava ucciso". Dopo l'assassinio del 22enne, sui social network si moltiplicano i commenti a sostegno del killer Denuncia della Procura: «Clima di odio morboso», scrive Manila Alfano, Venerdì 3/02/2017, su "Il Giornale". A Vasto sventolano ancora gli striscioni dai balconi che chiedono «giustizia per Roberta» e ci sono parole pesanti e insulti che rimbalzano addosso all'impazzata. Il giorno dopo la vendetta resta l'odio che non si placa. Una campagna di odio intorno al ragazzo ucciso per vendetta. Subdola, silenziosa, partita dalla rete e solidale solo nel voler spingere avanti chi, infine, ha sparato sperando di trovare sollievo. Restano tre famiglie distrutte, ognuna ha perso un figlio. Roberta Smargiassi morta a 34 anni, investita da Italo D'Elisa, il 22enne che non si era fermato al semaforo rosso, ucciso l'altro ieri da Fabio Di Lello, marito di lei, che l'ha freddato con tre colpi al cuore. Era distrutto da un dolore che niente è servito a lenire. Intorno parole che diventano coltelli. C'è il popolo della rete, scatenato, esaltato che scrive, commenta, condivide. A sostegno dell'uomo che davanti ad un immenso dolore non ha retto e si è vendicato. I commenti sui social che fanno paura: «Hai fatto bene». «Siamo con te». «Lo avrei fatto anche io». «Quando la giustizia non arriva bisogna farsi giustizia da sè». A Radio Capital l'avvocato Giovanni Cerella, il difensore di Fabio Di Lello butta benzina sul fuoco: «Italo D'Elisa, dopo l'incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi». Italo che era stato sottoposto a tutte le analisi e non era stato trovato né in stato alcolico né sotto effetto di sostanze. Non resta in silenzio neppure l'arcivescovo della diocesi di Chieti- Vasto, monsignor Bruno Forte: «Con un intervento rapido della giustizia e una punizione esemplare, la tragedia si sarebbe potuta evitare. La magistratura deve fare il suo corso ma nel modo più rapido possibile. Una giustizia lenta è un'ingiustizia». C'è un dolore che cresce e che monta, che si può solo immaginare, che cova al buio la notte, diventa chiodo fisso. È rancore e rabbia e frustrazione, disperazione nera. Ci può essere un'umana empatia, per un giovane marito che perde tutto. Vasto non solo si era stretto accanto a lui, si era proprio schierato con lui. Manifestazioni con cortei per «chiedere giustizia» da parte dei familiari di Roberta, con Fabio in testa, scontri sui social, liti mediatiche, la fiaccolata passando davanti all'ospedale fino al Palazzo di Giustizia, la preghiera nella Cattedrale San Giuseppe. Si organizzavano partite di calcetto sotto alla sigla «Giustizia per Roberta». E la rete, Internet, Facebook, hanno propagato l'onda di rabbia, impotenza, dolore. Per il procuratore della Repubblica di Vasto Giampiero Di Florio è grave. Parla di clima di odio, ingestibile per una mente indebolita da una perdita del genere. «Claque di morbosi - dice Di Florio - che ha portato avanti un'incomprensibile campagna di Giustizia in assenza di un procedimento entrato nell'aula del Tribunale e quindi di una discussione indirizzata. Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, invece hanno alimentato il suo sentimento della vendetta ogni giorno». Da quando aveva perso la moglie, Fabio Di Lello non aveva più avuto pace. La sua vendetta si è consumata mercoledì pomeriggio, dopo mesi di dolore e rancore. Fabio che non si rassegnava a una vita davanti andata in frantumi senza neppure il tempo di un ciao. Su Facebook aveva messo un'immagine del film «Il gladiatore», accanto la foto di lei, sorridente, una colomba di pace e la scritta: «giustizia per Roberta». Dopo l'esecuzione non ci hanno messo molto i carabinieri a trovarlo. Sono andati al cimitero e lo hanno trovato vicino alla tomba della moglie; l'arma con cui ha ucciso Italo era vicino alla tomba. «La mia Roberta mi è stata rubata, rubata ai propri sogni». Fabio si sfogava e scriveva nello spazio dedicato ai lettori del portale zonalocale, una messa in suffragio per la moglie. «Mi chiedo, dov'è giustizia? Mi rispondo, forse non esiste! Non dimentichiamo, lottiamo, perché non ci sia più un'altra Roberta». Segnali di un malessere che nessuno ha fermato.

L'omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d'amore, scrive Francesco Merlo il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Stiamo attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c'è solo l'odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d'amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l'assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità. La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c'è la forte complicità ambientale. C'è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l'ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook. E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d'Italia di sentire l'incitamento e l'applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un'incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta". Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all'odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell'assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D'Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L'omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l'ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l'imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l'incidente. Stava sul motorino e quell'altro l'ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c'era stata nella scelta di non rispettare il semaforo. Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D'Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita. Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l'aiuto dell'ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto. Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l'amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell'individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all'odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C'è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall'esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà ...Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c'è mai nella viltà dell'agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo.

Le scarpe nuove per i terremotati? Vanno ai migranti. Scandalo in Abruzzo. Dopo averle abbandonate in un magazzino, 5mila paia di scarpe "Vans" raccolte da CasaPound finiranno alle associazioni che si occupano di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 01/02/2017, su "Il Giornale". Oltre 5mila scarpe di marca destinate ai terremotati sono state donate alle associazioni che si occupano di accoglienza. Ovvero ai migranti. È l'ultima, assurda puntata di una storia di sprechi e mancati controlli, burocrazia e negligenze, che ha finito col penalizzare gli sfollati del sisma dell'Aquila del 2009. Privandoli di scarpe, giacche e pantaloni che ora verranno indossati dagli immigrati. Facciamo un passo indietro e torniamo a quei drammatici momenti della primavera del 2009, quando una scossa di magnitudo 6.3 piegò il capoluogo abruzzese. Nel pieno dell'emergenza, il 5 agosto CasaPound riceve dall'azienda di abbigliamento statunitense «Vf International Sagl» un'ingente donazione destinata ai terremotati. Si trattava di 5.493 paia di calzature della «Vans», un vero e proprio tesoro in una situazione in cui un paio di scarpe avrebbero potuto fare davvero la differenza. CasaPound le affida all'amministrazione del Comune di Poggio Picenze che, in attesa di poterle distribuire, le stipa nel bocciodromo del paese. Per qualche motivo, però, nessuno si occupa di consegnarle agli sfollati e così inizia un tour di spostamenti infinito: a gennaio 2011 le calzature vengono portate in un magazzino comunale a l'Aquila e nel 2012 approdano nell'Autoparco Comunale. Un viavai ingiustificato con l'unica conseguenza di far cadere nel dimenticatoio quei doni dal valore complessivo di 39.175 euro. E infatti, col tempo, il magazzino si riempie di sampietrini e materiale elettorale, nascondendo le scarpe sotto la sporcizia. Solo nel febbraio dell'anno scorso gli agenti del Nipaf della Forestale si accorgono, casualmente, degli scatoloni colmi di beni intonsi e mai utilizzati. L'assurdo ritrovamento fa scattare le indagini coordinate dal pm Roberta D'Avolio. Nessuno però si assume la responsabilità di tanto spreco e nel fascicolo non ci sono indagati. Così, nel frattempo, i mesi passano e l'attenzione mediatica sollevata dal consigliere di circoscrizione Francesco De Santis pian piano si spegne. Fino a quando, pochi giorni fa - nel bel mezzo dell'emergenza neve che ha investito l'Abruzzo -, le autorità decidono di liberare le «Vans» dal blocco burocratico che le aveva imprigionate e di donarle ai bisognosi. Una nota positiva, direte. Certo, ma con una sorpresa. Alcune scarpe, infatti, sono state destinate ad associazioni impegnate nell'emergenza del recente sisma del Centro Italia, ma la maggior parte sono finite alle associazioni che gestiscono l'accoglienza. E andranno così a rivestire i richiedenti asilo ospitati nei centri profughi dispersi in tutto l'Abruzzo. La decisione di «preferire i migranti agli italiani» ha irritato (e non poco) i vertici abruzzesi di CasaPound che quelle scarpe si era impegnata a raccogliere: «Siamo sconcertati - scrive in una nota il responsabile abruzzese, Simone Laurenzi -. La volontà degli italiani di aiutare i propri compatrioti è stata tradita ancora una volta dalle istituzioni».

I 28 milioni donati con gli sms ai terremotati non sono ancora arrivati a destinazione, scrive il 19/01/2017 Ilario Lombardo su "La Stampa”. Nel giorno in cui la terra è tornata a tremare con forza nelle zone dell’Italia centrale, già fiaccate da uno sciame infinito, si viene a scoprire che i 28 milioni di euro donati dagli italiani per i terremotati di Marche, Lazio e Abruzzo sono ancora fermi nel conto aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto conto al governo di questi soldi raccolti attraverso sms e bonifici bancari durante il question time alla Camera, in un botta e risposta tra la deputata Laura Castelli e il neo-ministro dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro. E così veniamo a sapere che, per una logica che appare puramente burocratica, i soldi ci sono ma non si possono toccare: il «protocollo d’intesa per l’attivazione e la diffusione dei numeri solidali», firmato con le società di telefonia che raccolgono gli sms solidali, e disponibile sul sito della Protezione civile, prevede un percorso preciso che sembra non tener conto del freddo, della neve, delle esigenze del territorio, dei bisogni della popolazione, del terrore delle nuove scosse. Come ricorda Finocchiaro in aula, prima si deve predisporre un’analisi dei danni nelle singole regioni e poi si sottopone a un comitato di garanti, che deve verificare il rispetto delle norme nell’utilizzo dei fondi. Alla fine, i soldi dovrebbero arrivare. «Una procedura incredibilmente lenta che stride rispetto all’emergenza - spiega Castelli – il paradosso è che la solidarietà resta ostaggio della burocrazia». In effetti, la particolare conformazione montuosa del territorio, la prevedibilità della stagione rigida dalla quale non si scappa, avrebbe dovuto rendere la macchina della solidarietà più flessibile per mettere a disposizione i 19 milioni di euro raccolti (in due tranche, al 30 novembre 2016) via sms tramite il numero 45500, e i quasi 8 milioni arrivati con bonifico bancario al 10 gennaio 2017. Il primo terremoto, di questa lunga serie che ha sconvolto il cuore del Paese, è del 24 agosto. Se si tiene conto solo di questo evento, quello più indietro nel tempo, e delle prime donazioni via cellulare chiuse il 9 ottobre, si contano 15 milioni fermi da oltre tre mesi. E tre mesi valgono come tre anni per chi non ha una casa e vede la neve sommergere le macerie senza che dia l’illusione di dimenticare. Per dire, altre forme di raccolta fondi, promosse da aziende private, hanno già prodotto risultati concreti e visibili. Il 29 gennaio, salvo proroghe, si chiuderà la terza donazione tramite sms, che, partita il 31 dicembre, ha già fruttato oltre un milione di euro. Sono 2 euro per ogni messaggio. Servono per ricostruire case, scuole, per salvare allevamenti e colture. L’importante è farli arrivare presto a chi sono destinati.

Quando, dove e perché si usano i soldi degli sms solidali. Secondo un accordo siglato con le società di telefonia, la raccolta si chiuderà a meno di proroghe il 29 gennaio: 28 milioni di euro raccolti finora, scrive Monica Rubino il 19 gennaio 2017 su "La Repubblica". La polemica è montata sui social ma il caso è stato sollevato dai 5stelle che, dopo il nuovo sisma che ha scosso il Centro Italia flagellato dalla neve, hanno accusato il governo di aver messo in naftalina i fondi per i terremotati raccolti dalla Protezione civile con gli sms solidali invece di utilizzarli subito per fronteggiare l'emergenza. Ma come funziona veramente il meccanismo delle collette di solidarietà per le popolazioni colpite dal terremoto? Quando e come si possono usare quei soldi? Ecco le risposte della Protezione civile.

Dove vanno a finire i soldi raccolti con gli sms? Le donazioni raccolte tramite il numero solidale 45500, nonché i versamenti sul conto corrente bancario attivato dal Dipartimento della protezione civile, confluiscono nella contabilità speciale intestata al commissario straordinario aperta presso la Tesoreria dello Stato.

A che cosa servono? Le somme servono a finanziare gli interventi di ricostruzione nei territori. Quindi è esclusa ogni utilizzazione per scopi emergenziali. Alla fine della raccolta viene nominato un Comitato di garanti, che ha il compito di valutare e finanziare i progetti presentati dalle Regioni in accordo con i Comuni interessati. Del progetto viene seguito anche tutto l'iter della realizzazione. Ad esempio in Emilia, dopo il terremoto del 2012, i fondi solidali sono stati usati per ricostruire scuole e palestre.

Quando si possono usare? Secondo un accordo siglato con le società di telefonia, che raccolgono gli sms solidali e versano i proventi senza alcun ricarico sul conto corrente della Protezione civile, la raccolta si chiuderà a meno di proroghe il 29 gennaio. Fino a che non si sa con esattezza quanti soldi siano stati raccolti (finora la cifra si aggira attorno ai 28 milioni di euro) non si può decidere quali progetti finanziare. Gli operatori che hanno aderito all'iniziativa senza scopo di lucro sono Tim, Vodafone, Wind, 3, Postemobile, Coopvoce, Infostrada, Fastweb, Tiscali, Twt, Cloud Italia e Uno Communication. 

Casette per i terremotati: 18 e piene di bla bla bla. Mentre la gente dell'Italia centrale crepa guardando una casa che nessuno gli sistema, la malapolitica impera e il populismo ne detta l'agenda, scrive Giorgio Mulè il 3 marzo 2017 su Panorama. Dovremmo vivere il tempo della palingenesi della politica, e cioè un tempo del rinnovamento. Un’esigenza di rinascita legata principalmente alla necessità di depotenziare la disaffezione verso il Palazzo e con alcune derivate specifiche per ogni schieramento riassumibili così: nel centrosinistra Matteo Renzi sa di dover riparare al disastro del referendum e alla caduta della sua leadership; i 5Stelle, alla luce dell’avvilente gestione del Campidoglio, sono coscienti della crisi scatenata dall’accusa di incapacità di governare; il centrodestra non può sfuggire all’obbligo di tornare a essere un fronte unito e coeso se vuole riproporsi come forza di governo. Ad oggi, quel che manca in assoluto è la capacità di adempiere al primo compito che ci si aspetta dalla politica: scrivere un’agenda e rispondere così al compito principale richiesto a chiunque aspiri a guidare il Paese: qual è la visione dell’Italia? Invece, è il populismo a dettare l’agenda con la rincorsa spasmodica a inseguire l’avversario sul terreno del consenso immediato. Valga per tutti il mistificazionismo dei vitalizi, che rappresenta certamente un’odiosa stortura del sistema ma che non dovrebbe essere collocata in cima ai pensieri di partiti e movimenti. E invece il dibattito è tutto concentrato lì con uno scambio interminabile di accuse sterili, di battute ottime per i social network e i programmi televisivi. Se invece l’agenda fosse quella del Paese reale, tanto per restare ai fatti della stretta attualità, pensate che dopo quasi due lustri non si sarebbe approvata la legge sul fine vita? O che il provvedimento su concorrenza e liberalizzazioni starebbe ancora a galleggiare, non a caso, dentro un minestrone chiamato "decreto milleproroghe"? O che altri correttivi sulla giustizia (ragionevole durata dei processi, intercettazioni, diffamazione) non riuscirebbero a vedere la luce? Non è "colpa" del bicameralismo se per approvare una legge sono necessari in media almeno sette mesi: la responsabilità è in capo solo e soltanto alla malapolitica. E nulla c’entra il bicameralismo se il terremoto, con la tragedia della gestione dell’emergenza e della ricostruzione, non viene issato dagli schieramenti come vessillo della capacità di dare risposte concrete al Paese. Ma vi rendete conto che dopo sei mesi sono state consegnate agli sfollati soltanto 18 casette di legno? Che allevatori, artigiani e cittadini senza più un tetto sono ancora abbandonati al loro destino? Quale iniziativa concreta si è vista dopo che Panorama ha fatto ascoltare l’ammissione unilaterale della sconfitta da parte di Vasco Errani, commissario straordinario del governo per la ricostruzione? Nessuna, il vuoto pneumatico. L’incapacità della politica è rinchiusa tutta in quelle 18 casette di legno perché nessuno ha saputo tagliare le unghie alla burocrazia e nessuno ha pensato di predisporre una reale corsia di emergenza per rimettere in moto le regioni colpite dal sisma. Nell’agenda attuale trovate invece formulette semantiche vuote: al reddito di cittadinanza si oppone il lavoro di cittadinanza. Oppure alla palingenesi si preferisce il palindromo: al Pd si contrappone il Dp. Fino al prossimo insulto sui vitalizi. Mentre la gente dell’Italia centrale crepa, proprio così crepa, mentre guarda una casa che nessuno gli rimette in piedi. 

Amatrice, il villaggio donato agli sfollati rimasto nei container. Posti letto per quattrocento persone. Il piano appoggiato dalla Croce Rossa. Ma tutto si è arenato. L'ira del sindaco. Dietro lo stop i dubbi della Protezione civile, anche se ufficialmente nessuno ha detto no. Alla fine la società che si era offerta di realizzare il campo ha deciso di rivolgersi altrove, scrive Fabio Tonacci il 5 marzo 2017 su “La Repubblica”. La più grossa donazione ai comuni terremotati del Centro Italia non s'ha da fare. E non si capisce perché. Si tratta di un intero campo di moduli abitativi che potrebbe ospitare 400 persone: 14 palazzine per un totale di 5mila metri quadrati di camere con bagno e riscaldamento, spazi comuni, cucine. Un piccolo villaggio smontabile e multiuso, dunque. Che sarebbe stato utilissimo durante l'ultima emergenza maltempo, quando chi aveva finalmente trovato il coraggio di rientrare nelle propria casa piombò di nuovo nella paura per i terremoti del 18 gennaio e finì a dormire nelle tende della Protezione civile, sotto un metro di neve. Eppure, la pratica della donazione finora più consistente (il campo vale un milione di euro) si è persa nel labirinto della burocrazia. "Io m'arrendo... ma che devo fare?", ringhia Sergio Pirozzi, il primo cittadino di Amatrice. Da due mesi insegue quei moduli, senza successo. E ora non sa nemmeno più con chi si deve arrabbiare. Il "campo dono" non è nuovo. È stato fabbricato otto anni fa e utilizzato prima in Somalia e poi, più di recente, nei cantieri della metropolitana di Milano. Da tre anni giace impacchettato in 37 container da quaranta piedi all'Interporto di Livorno. E da qui che bisogna cominciare a raccontare questa storia. Da Livorno, dove ha sede la Ciano International, un'azienda che si occupa del catering nelle basi della Nato e delle Nazioni Unite. A inizio anno i dirigenti della Ciano si rivolgono a Maurizio Scelli, ex deputato di Forza Italia ed ex capo della Croce Rossa italiana: vogliono donare quei container ad Amatrice, sostengono che siano conservati molto bene. Scelli, con il quale hanno collaborato già in Iraq, li mette in contatto con Pirozzi. "Ero entusiasta della proposta", ricorda il sindaco. "La mia idea era di farne due centri di Protezione civile nei comuni vicini ad Amatrice: a Posta e a Cittareale. Due aree attrezzate al servizio dell'Alta Valle del Velino, che potevano ospitare i volontari e, alla bisogna, gli sfollati". Siamo a metà gennaio, e tutto lascia presupporre che la donazione andrà a buon fine. Un'azienda con una certa reputazione internazionale regala un intero campo smontabile ai terremotati. Si offre pure di montarlo gratuitamente nel cratere. Con l'intercessione di Scelli, la Croce Rossa mette a disposizione i tir per trasportarlo da Livorno nel Lazio. E ci sono i sindaci di Posta e Cittareale che hanno trovato sia i terreni dove installarlo, sia chi getterà il cemento dove saranno piazzati. Ancora Pirozzi: "A quel punto decido di coinvolgere la Protezione civile nazionale, che mi rimanda a quella del Lazio. Da lì in avanti, le cose sono diventate confuse". Il primo a esprimere dubbi pare essere in realtà un dirigente della Protezione civile Toscana, tanto che l'ingegnere della Ciano Andrea Chiesa scrive un messaggio a Scelli: "La tipologia della nostra donazione (non essendo moduli abitativi pronti alla consegna) non rientra nei loro interessi visto che hanno acquistato e che stanno continuando ad acquistare moduli abitativi nuovi". Da Amatrice, però, insistono per averli. Allora da Roma, intorno a metà febbraio, sempre la Protezione civile manda a Livorno due funzionari per verificarne lo stato di conservazione. "Li ho portati all'Interporto e ho fatto vedere loro il materiale", dice l'ingegner Chiesa. "Mi hanno detto che avrebbero scritto una relazione per i loro superiori entro un paio di giorni. Da allora non li ho più sentiti". Da Amatrice lo staff del sindaco si agita e sollecita più volte la Protezione civile del Lazio per il trasferimento. Oggi no, domani no, dopodomani forse. Nell'attesa, si diffonde la convinzione che non vogliano il campo perché non è nuovo. Che esista, cioè, una precisa disposizione che vieti, nonostante l'emergenza, l'acquisizione di materiale usato. "Assolutamente falso", dichiara a Repubblica Carmelo Tulumello, direttore dell'Agenzia regionale di Protezione civile del Lazio. "La verità è che quel campo è una struttura mastodontica che richiede cementificazione e opere di urbanizzazione. Non c'era la garanzia dello stato in cui si trova, perché durante l'ispezione i moduli erano visibili soltanto in parte. E poi chi li avrebbe smaltiti 37 container navali?". Il punto è che non si riesce a capire chi abbia materialmente fermato l'operazione. Perché da una parte Tulumello sostiene di non avere posto alcun veto, e di aver fatto "solo delle osservazioni ai Comuni su cui ricadeva l'onere della gestione del campo". Dall'altra Pirozzi e gli altri sindaci aspettavano un via libera, che non è arrivato. Nessuno ha detto formalmente no, ma nessuno si è preso la responsabilità di accettare la donazione. L'epilogo è di pochi giorni fa: la Ciano sta cercando qualcun altro cui potrebbe servire un campo abitabile da 5mila metri quadrati e 400 posti.

Dio non è abruzzese. Dopo il terremoto e la tragedia all'hotel Rigopiano, lo schianto dell'elisoccorso. Dio, perché tante piaghe sull'Abruzzo? Scrive Tony Damascelli, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". Dal libro del profeta Isaia: «Ricordatevi i fatti del tempo antico, perché io sono Dio e non ce n'è altri. Sono Dio, nulla è uguale a me. Io dal principio annunzio la fine e, molto prima, quanto non è stato ancora compiuto; io che dico: Il mio progetto resta valido, io compirò ogni mia volontà! Io chiamo dall'oriente l'uccello da preda, da una terra lontana l'uomo dei miei progetti. Così ho parlato e così avverrà; l'ho progettato, così farò». Il progetto, dunque. Ma quale progetto? Dove è Dio in Abruzzo? Non si hanno notizie da quelle parti della presenza del Creatore perché ormai tutto è distrutto, esistenze e dimore, natura e oggetti, il Creato formato dal nulla, nulla è tornato a essere. Il terremoto di Montereale, la valanga di Rigopiano, l'elicottero precipitato nella nebbia di Campo Felice, il tempo malvagio, il buio del lutto e dell'assenza di elettricità, il freddo, il gelo, il silenzio della morte e quello del mattino disperato, quando la luce fa capire che non è stato un incubo ma è vero tutto, maledettamente vero, tragicamente effettivo come il passare dei secondi, dei minuti, di ore che sembrano ormai inutili da vivere. Non nominare il nome di Dio invano, secondo comandamento. Ma non è invano che oso nominarlo, è proprio perché il pontefice di Roma ha detto che Dio è vicino all'Abruzzo. In che senso è vicino? A chi è vicino? Quando lo è stato? Durante il tempo imprevisto e terribile dei terremoti, che sono stati e sono ancora mille e più di mille? Quando la montagna di neve si è staccata per correre giù, sconvolgendo e travolgendo tutto quello che avrebbe incontrato lungo il pendio? Quando l'aria umida si è fatta nebbia fitta così ingannando l'elicotterista, precipitando nel vuoto. Nelle preghiere di chi chiede a che ora tutto questo sarà finito? Nelle candele accese, presenze di calore e di fede, fragile memoria per chi è scomparso? Nei volti dei disgraziati, sfigurati dallo strazio, dal dolore eterno? Uomini e donne che hanno perduto figli, madri, mogli, mariti e, insieme, la grazia, la benevolenza di Dio, perché questa è davvero la disgrazia, l'assenza di quell'atto di amore divino. La colpa è degli uomini, d'accordo, la responsabilità è degli atti delinquenziali, di chi costruisce abusivamente sulle macerie, di chi sfrutta la miseria altrui, di chi commette reati e, maledetto lui, trova la via d'uscita a differenza di quelle povere vite sotto la slavina dell'albergo o ancora altrove, sepolte prigioniere della neve mortale. Dove era, ancora, Dio, sull'autostrada verso Verona, sopra, di fianco, dentro quell'autobus magiaro che ha bruciato i corpi dei ragazzi in gita? Prevedo la risposta, la ascolterò ma è la stessa che viene ripetuta quando un fatto luttuoso colpisce e cancella in modo feroce, ingiusto anche, un'esistenza. Poi rileggo la Bibbia e il passo di Isaia (46:9) e chiedo perché «io compirò ogni mia volontà». La volontà di cancellare la vita di un infante o quella di un uomo di grandi speranze? No, non credo, non penso, lo escludo. Allora diventa un esercizio impossibile, un muro da scalare ogni minuto, con il vento cattivo che soffia contro. È il destino, è un Dio anonimo, che nessuno conosce, l'alibi per proseguire.

GLI ANGELI DI RIGOPIANO TRADITI DAL CAMBIO TURNO: BUCCI E DE CAROLIS NON DOVEVANO ESSERE SUL VELIVOLO, scrive Mercoledì 25 Gennaio 2017, Stefano Dascoli su "Leggo". Walter Bucci e Davide De Carolis, abruzzesi di L'Aquila e Teramo, su quell'elicottero non dovevano esserci ieri mattina: due cambi turno hanno disegnato un destino tragico. Ettore Palanca, romano, aveva scelto Campo Felice per trascorrere il suo giorno di riposo: il suo infortunio sulla neve ha innescato il drammatico schianto dell'elisoccorso del 118 dell'Aquila. Sono tre delle sei storie di questa assurda vicenda, di un velivolo che si alza come tante volte, atterra sulle piste da sci, soccorre un ferito, ma al momento del decollo percorre pochi chilometri e si schianta. Tra le vittime c'è, appunto, il romano Ettore Palanca, 50 anni, sposato con Roberta, un figlio piccolo. Il suo è un destino doppiamente sfortunato. Si è infortunato mentre sciava, riportando la frattura di tibia e perone. Una volta visitato, la centrale del 118 dell'Aquila ha optato per l'intervento dell'elicottero. Quell'elicottero che avrebbe dovuto soccorrerlo e che invece si è trasformato nella sua tomba. Ettore lavorava come maitre al ristorante L'Uliveto del Rome Cavalieri, l'albergo a cinque stelle di Monte Mario. La moglie è una sua collega, al front desk. Uno strazio nello strazio: ha saputo della morte del marito mentre era al lavoro. Capelli brizzolati, tifoso della Juventus, era attaccato alla famiglia e appassionato di sport: Ettore amava la corsa, che lo aveva portato a partecipare alla Roma-Ostia, e il calciotto. Ma soprattutto amava la montagna. «Proprio l'altro giorno mi ha detto che sarebbe andato perché amava sciare, mentre non gli piaceva molto il mare. Era un tipo allegro, salutava sempre tutti» ha ricordato ieri un suo collega. L'Abruzzo, ovviamente, ha pagato il prezzo più alto. Tra le sei vittime c'è Walter Bucci, una sorta di eroe della montagna: centinaia di interventi alle spalle, una disponibilità e una passione che non hanno mai conosciuto confini. Un dato, su tutti: era stato tra i primi ad arrivare a Rigopiano, una volta appresa la notizia della valanga che ha spazzato via l'hotel. Lì era rimasto ulteriormente, per giorni, come medico del 118. Rianimatore, 57 anni, sposato e con due figlie, ieri non doveva essere su quel volo: fatale è stato un cambio turno. Stessa sorte per Davide De Carolis, il 39enne teramano, sposato e con una figlia piccola, che a 13 anni era già nel Cai e a 21 gestiva un rifugio sul Gran Sasso. Anche la sua è stata una vita tutta dedicata alla montagna: gestiva un ristorante nella sua Santo Stefano di Sessanio che, sebbene sepolta dalla neve, non ha esitato ad abbandonare nei giorni scorsi per andare a scavare a Rigopiano. A Roma aveva trascorso la sua infanzia Giuseppe Serpetti, 58 anni, aquilano. Un omone buono cresciuto con la passione del soccorso in elicottero, coltivata fin da giovanissimo. Lascia la moglie Lucia e due figli piccoli, di 7 e 8 anni. Alla guida dell'elicottero c'era Gianmarco Zavoli, 47 anni, di San Giuliano a Mare (Rimini), dove viveva. Pilotava l'Agusta modello Aw139. Era un appassionato ciclista, iscritto alla Cicli Matteoni. Nel tempo libero partecipava a escursioni su strada con il team amatoriale. Mario Matrella, 42 anni, di Foggia, tecnico di volo, era l'esperto del verricello. Viveva a Putignano, in provincia di Bari. Lascia la moglie e quattro figli. Dipendente della Inaer Aviation spa, ma con un passato da tecnico dell'Alidaunia, faceva parte anche del soccorso alpino.

STRAGE HOTEL RIGOPIANO: DOPO UNA SETTIMANA E’ FINITA, scrive il 26 Gennaio 2017 "Prima Da Noi". La parola fine arriva ad una settimana esatta dalla valanga che ha travolto tutto: attorno alle 23 di ieri i vigili del fuoco tirano fuori da quel groviglio di macerie, neve, tronchi d'albero e detriti i corpi degli ultimi due dispersi. Quel che resta dell'hotel Rigopiano, a questo punto, è ormai solo un monumento all'orrore sotto il Corno Grande del Gran Sasso d'Italia. Che fosse questo, il finale, lo si era capito ormai da un paio di giorni e mercoledì se ne è avuta la certezza: nei discorsi ufficiali, nelle dichiarazioni ai tg, non c'erano neanche più quelle parole formali che servivano a lasciare aperta comunque una seppur minima speranza. E l'unico obiettivo rimasto a chi stava scavando senza sosta da giorni, era quello di trovare prima possibile tutti i corpi sepolti sotto la neve e le macerie. Per chiudere finalmente la macabra conta delle vittime, restituire i corpi alle famiglie e abbandonare prima possibile quella montagna piena di dolore. La svolta è arrivata lunedì notte e da allora, in 48 ore, i vigili del fuoco hanno tirato fuori da quel che resta dell'hotel 18 vittime; 9 le hanno estratte martedì e 9 mercoledì. Queste ultime sono sei donne e tre uomini: i loro corpi, come la maggior parte di quelli usciti da quell'inferno poche ore prima, erano incastrati tra pilastri, pezzi di cemento, neve e tronchi. Ed erano tutti in un unico ambiente: quello dove, prima che sul Rigopiano si abbattessero centinaia di tonnellate di neve, era il bar. I vigili del fuoco, in quella zona, c'erano arrivati due giorni fa. Erano entrati passando dalle cucine e lì avevano avuto già un brutto presentimento: alcuni di quegli ambienti erano rimasti miracolosamente intatti, ma non c'era nessuno. «Speravamo di trovare qualcuno ancora vivo - hanno ripetuto fino a ieri - anche se sapevamo bene che stavano per lasciare l'albergo e dunque erano tutti radunati da un'altra parte. Però magari qualcuno era tornato indietro, o si era attardato per qualche motivo in cucina. E se fosse stato così si sarebbe forse salvato». Concluse le verifiche nelle cucine, gli Usar, gli specialisti delle ricerche tra le macerie, sono passati al bar. Un'ampia zona tra la sala del camino, dove c'erano alcuni dei sopravvissuti, e l'area ricreativa, dove sono stati estratti vivi i tre bambini. Ma lì dentro la situazione era molto peggio: un unico groviglio di macerie e neve. E di corpi. Qualcun altro, invece, lo hanno recuperato nella zona dove erano le camere: quattro piani venuti giù completamente e schiacciati uno sull' altro. E gli ultimi due, un uomo e una donna, li hanno trovati sempre lì: nella zona tra il bar e la hall. Dove tutti gli ospiti e i dipendenti dell'albergo attendevano l'arrivo dello spazzaneve che avrebbe dovuto portarli via. Ma il mezzo non si è mai visto e al suo posto è arrivata la valanga maledetta. Alla fine di una giornata lunghissima, i morti sono quindi 29, quindici uomini e quattordici donne. Sommati agli 11 sopravvissuti, fanno tutte e quaranta le persone che mercoledì pomeriggio si trovavano nel Rigopiano. Non c'è più nessuno da cercare. Almeno non c'è più nessuno di ufficiale da rintracciare. Per questo le ricerche sono state sospese ieri notte, anche se è probabile che riprenderanno in mattinata per bonificare l'intera area ed escludere con certezza che non vi siano altre persone che non erano finite in nessun elenco. Delle 29 vittime, 20 sono state identificate: si tratta di 9 donne e 11 uomini: Rosa Barbara Nobilio e suo marito Piero di Pietro, Nadia Acconciamessa e il marito Sebastiano di Carlo, l'estetista dell'hotel Linda Salzetta, Paola Tommasini, Ilaria De Biase, Luana Biferi, Jessica Tinari, Sara Angelozzi, Marinella Colangeli, il maitre dell'hotel Alessandro Giancaterino, il cameriere Gabriele D'Angelo, Stefano Feniello, Marco Vagnarelli, l'amministratore dell'hotel Roberto Del Rosso, il receptionist Alessandro Riccetti, il rifugiato senegalese Faye Dame, Claudio Baldini, Emanuele Bonifazi. Gli ultimi 9 corpi da identificare sono all'obitorio dell'ospedale di Pescara, dove i parenti attendono di poterseli riportare finalmente a casa. Per i duecento uomini che hanno scavato per giorni, dopo aver capito che non ci sarebbe stato più nessuno vivo, ritrovarli tutti era l'unico obiettivo. E ci sono riusciti. E' finito lo strazio di una macabra e luttuosa contabilità, non finirà tanto presto, invece, lo stillicidio delle ricostruzioni di eventuali responsabilità che sembrano annidarsi ovunque. Uno stillicidio di omissioni e sviste che tutte insieme hanno creato la valanga che è venuta giù. Marco Tanda, il pilota 25enne della Ryanair originario di Gagliole (Macerata) e la fidanzata Jessica Tinari, di Lanciano, sono fra le vittime della slavina di Rigopiano. Il corpo di Marco è stato riconosciuto ieri sera dal fratello Gianluca: «ora che Marco non c'è più - le sue uniche parole - è il momento del silenzio». I due fidanzati sono stati ritrovati senza vita nella sala tv dell'albergo distrutto. Tanda era cresciuto a Castelraimondo, ma si era poi trasferito a Roma con la famiglia.

HOTEL RIGOPIANO. SOPRAVVISSUTI E VITTIME: TUTTI I NOMI. E' finita. Undici sopravvissuti, 29 morti, zero dispersi.

Tra la notte di mercoledì 25 gennaio e giovedì 26 la tragica contabilità della strage all'hotel Rigopiano è terminata. L'ultimo disperso è stato trovato. Cadavere, come tutti gli altri da sabato mattina in poi. Sono quindi 29 le vittime in quel resort travolto da una slavina mercoledi' di una settimana fa. Non ci sono più dispersi da cercare, le ultime speranze - già molto, molto ridotte - sono cadute intorno a mezzanotte, quando la prefettura di Pescara ha dato notizia del recupero del corpo di un uomo e di una donna. Degli ultimi corpi che mancavano all'appello. Un comunicato, due righe per dire appunto 29 vittime e 0 dispersi.

I SUPERSTITI SONO 11

I superstiti recuperati in macchina, all’esterno dell’hotel:

Il cuoco Giampiero Parete (che ha lanciato l’allarme) e il manutentore dell’hotel Fabio Salzetta.

I superstiti recuperati vivi sotto le macerie:

Adriana Vranceanu, 37 anni, (moglie di Parete) e il figlio Gianfilippo sono stati i primi ad essere stati estratti il 20 gennaio, venerdì mattina, e sono arrivati all’ospedale di Pescara nel primo pomeriggio.

Nella serata del 20 gennaio sono arrivati altri tre bambini: Ludovica Parete (che si è ricongiunta così ai suoi parenti già in salvo), Edoardo Di Carlo, 9 anni di Loreto e Samuel Di Michelangelo, 7 anni.

Sabato mattina, 21 gennaio, poco prima delle 6, in ospedale a Pescara sono arrivati Francesca Bronzi 25 anni di Montesilvano e i fidanzati di Giulianova Vincenzo Forti di 25 anni e Giorgia Galassi di 22 anni.

Alle 10.30 è arrivato in ospedale anche Giampaolo Matrone di 33 anni di Roma. I soccorritori lo hanno trovato grazie alla strumentazione della Scientifica che ha segnalato la presenza del suo cellulare.

LE VITTIME SONO 29

Mercoledì 25 gennaio, poco prima della mezzanotte, si sono spente definitivamente tutte le speranze di ritrovare qualcuno ancora in vita e sono stati recuperati tutti i 29 corpi dei dispersi. 

Il primo ad essere stato trovato è stato Alessandro Giancaterino, 42 anni, meitre dell’hotel Rigopiano. Lascia la moglie Erika e un bimbo di 9 anni.

Seconda vittima identificata Gabriele D’Angelo, 30 anni, cameriere del resort e volontario della Croce Rossa.

Deceduti anche Nadia Acconciamessa, e Sebastiano Di Carlo, genitori del piccolo Edoardo, ricoverato in ospedale da venerdì sera. I due gestivano due pizzerie, una Loreto Aprutino e l'altra a Penne, aperta da poco. Oltre al piccolo Edoardo, che era in vacanza con loro, lasciano altri due figli, uno di 16 anni e l'altro di 20 al quale sarà affidato il sopravvissuto. 

Non ce l'ha fatta nemmeno Barbara Nobilio, di 51 anni, anche lei di Loreto Aprutino.

Identificati martedì 24 gennaio anche il marito Piero Di Pietro, 53 anni, dirigente di Tua, l'azienda unica di trasporto regionale abruzzese. I due coniugi erano partiti per questa breve vacanza insieme ai loro amici Di Carlo. 

Lunedì 23 gennaio era stata invece estratta dalle macerie, senza vita, Linda Salzetta, 31 anni di Penne che lavorava al centro benessere dell'hotel. Per il prossimo 7 maggio erano in programma le sue nozze. Linda era la sorella di Fabio, il manutentore che insieme a Parete ha dato l'allarme. «Ci mancava solo il terremoto, spero di tornare a casa ma non so come. Non ci libereranno», il suo ultimo sms ad un’amica. 

Identificato dopo un lungo strazio per la famiglia anche Stefano Feniello, 28 anni, della provincia di Salerno, fidanzato di Francesca Bronzi (salvata). Nei giorni scorsi i familiari per quasi 24 ore avevano atteso l’arrivo del ragazzo in ospedale perchè la prefettura, per errore gli aveva annunciato che era stato trovato in vita.

Senza vita sono stati ritrovati anche Paola Tomassini, 44 anni, e Marco Vanarielli. I due avevano terminato la loro vacanza e stavano per far ritorno nelle Marche, dove vivevano. Vagnarelli era un dipendente dell'Ariston, mentre la compagna, originaria di Montalto Marche, lavora per la società Autogrill.

«Non ci posso credere, noi rimaniamo quassù per sempre», aveva detto lei la mattina del 18 gennaio, in un video che la ritrae immersa nella neve a poche ore dalla valanga che ricoprirà l'hotel Rigopiano. Il loro ultimo segnale è stato un accesso su Whatsapp alle 16.35 di mercoledì. Poco dopo, la valanga che ha travolto tutto e tutti.

L’ultimo corpo identificato nella giornata di martedì è stato quello del proprietario dell'hotel Roberto Del Rosso. Il suo ultimo messaggio alla moglie era stato inviato il giorno della tragedia, due minuti prima delle 17. L’uomo aveva raccontato che non si era quasi accorto delle forti scosse di terremoto della mattina perché impegnato a spazzare la neve.

La giornata più drammatiche sono state sicuramente quelle di martedì 24 di mercoledì 25 gennaio. Le macerie dell'hotel hanno continuato a restituire in rapida successione solo cadaveri. I soccorritori hanno estratto l'ultimo corpo, il 29° poco prima della mezzanotte. 

Dunque non ce l'ha fatta Valentina Cicioni, 32 anni, moglie di Matrone, ancora in ospedale dopo un intervento al braccio. La donna era di Mentana, infermiera al blocco operatorio del policlinico 'Gemelli' di Roma. Su Facebook aveva pubblicato poche ore prima della tragedia le immagini del resort innevato.

Tra le vittime anche Tobia Foresta, 60 anni, dipendente della direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Pescara e sua moglie Bianca Iudicone, 50 anni, ClaudioBaldini e la moglie Sara Angelozzi di Atri.

Nell'hotel c'erano anche Domenico Di Michelangelo, 40 anni, di Chieti e Marina Serraiocco, 36 anni di Popoli. Loro sono i genitori di Samuel, il bimbo tratto in salvo nella sala da biliardo insieme ad altri due bambini. Nei giorni scorsi il sindaco di Osimo, che aveva citato fonti di polizia e della famiglia, i due adulti si sarebbero salvati ma i loro nomi non sono mai comparsi nella lista diffusa dalla Prefettura.

Recuperati anche Marco Tanda, 25 anni, di Macerata, pilota di Ryanair e la fidanzata Jessica Tinari, 24 anni, di Vasto. E poi ancora i coniugi Luciano Caporale, 54 anni, Castel Frentano e Silvana Angelucci, 46 anni, entrambi parrucchieri di Castel Frentano. 

Sepolti dalla valanga anche Emanuele Bonifazi, 31 anni, di Pioraco, e il portiere della struttura Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni, l’estetista dell’hotel Cecilia Martella, la responsabile del centro estetico Marinella Colangeli, Ilaria Di Biase, 22 anni, era da tre anni impegnata nell’attività di cuoca e aveva vinto la selezione per prestare servizio in hotel, Luana Biferi dello staff e calciatrice dell'Acqua e  Sapone, di Bisenti che poco prima della tragedia aveva scritto su facebook agli amici «Sono bloccata a Rigopiano con tre metri di neve... e il terremoto». 

Il 22 gennaio una coppia di turisti tornata a casa prima della tragedia ha segnalato la probabile presenza all’interno dell’hotel di un extracomunitario che non figura in nessuna lista. Parlavano di Faye Dame, impiegato tuttofare arrivato dal Senegal con la voglia di crearsi una nuova vita.

Rigopiano, da Giorgia Galassi e Stefano Feniello, storie di chi torna e di chi non ce l'ha fatta. Il 28enne originario di Salerno è l'unico, tra le due coppie intrappolate nella stanza dell'hotel, ad essere morto, scrive L'"Ansa" il 25 gennaio 2017. Speranze, illusioni, gioia, rabbia. La vicenda di Rigopiano ha incrociato destini diversi per storie simili. Tanto da scatenare analogie e confronti. Nel ventre della montagna di neve che ha mangiato il Rigopiano c'erano anche due coppie di fidanzati, intrappolati a pochi metri di distanza: Giorgia Galassi e Vincenzo Forti, Francesca Bronzi e Stefano Feniello. Tra loro l'unico a non essere sopravvissuto è Stefano Feniello, 28enne originario di Valva (Salerno). Già prima che il corpo privo di vita venisse estratto dalle macerie, suo padre Alessio gridava la sua disperazione: "Quelli che sono morti sono stati uccisi, quelli che ancora non si trovano sono stati sequestrati contro il loro volere. Avevano le valigie pronte e volevano rientrare". E intanto aspettava notizie del figlio. Proprio lui, a cui venerdì sera, forse a causa di un errore nelle comunicazioni, le autorità, tra cui il Prefetto, avevano detto che Stefano era vivo e faceva parte di un gruppo di cinque persone in arrivo in ospedale. "A sentire il nome di mio figlio sono caduto faccia a terra - racconta - il giorno dopo ho penato fino al pomeriggio e ho atteso che qualcuno mi venisse a dire guardate abbiamo sbagliato". Poi la rabbia nel giorno dell'identificazione del corpo del figlio: "È una settimana che sono qui in ospedale". A non darsi pace era anche Francesca Bronzi, la 25enne di Pescara. La sua vita è cambiata mentre beveva un tè col fidanzato Stefano. Lo sconforto aveva di nuovo preso il sopravvento, dopo la gioia esplosa quando erano stati comunicati i nomi di cinque persone estratte dai resti dell'hotel, tra cui quello di Stefano. Un errore di comunicazione, forse, all'origine dell'informazione errata. Era la prima vacanza insieme per Stefano e Francesca. Lui aveva compiuto 28 anni martedì e lei, per il compleanno, gli aveva regalato due giorni di relax nella storica struttura di Rigopiano. Subito dopo la notizia della valanga, i due papà si erano messi in marcia per cercare di raggiungere il luogo del disastro. "E' una tragedia, ho mia figlia lì sotto - aveva detto Gaetano Bronzi con le lacrime agli occhi - era andata a fare una giornata con il ragazzo, c'è suo padre qui accanto a me. Volevano passare un week end, ma sono rimasti su". "Non erano mai venuti qui - aveva detto papà Alessio - Ma la speranza c'è ancora e noi aspettiamo. Non ce ne andremo". E ora le due famiglie criticano i metodi di comunicazione e le poche informazioni. Parlano di "mancanza di organizzazione", i Bronzi. "Nessuno ci fa sapere niente, apprendiamo informazioni solo dai giornalisti. Nessuno si degna di dirci nulla", ripetevano i Feniello. E non potevano fare altro che attendere. Tra muri di neve in quella stessa stanza d'albergo, immobili, al buio, senza poter comunicare con gli altri e senza udire alcun suono o rumore, neanche quelli dei soccorritori. Vincenzo era insieme alla fidanzata, Giorgia Galassi, 22 anni, per passare qualche giorno all'insegna del relax. Entrambi sono stati recuperati e ora sono in buone condizioni. Ora tutto è affidato a testimonianze, acquisizioni, documenti, autopsie. E se in quell'albergo a stabilire la sorte di Stefano è stata la roulette del caso, lo decideranno i magistrati.

Hotel Rigopiano, Francesca Bronzi scopre in diretta a Porta a Porta che il suo fidanzato è morto, scrive “Libero Quotidiano” il 26 gennaio 2017. Il lutto e una beffa tremenda. La tragedia dell'Hotel Rigopiano arriva nello studio di Porta a Porta, dove c'è Francesca Bronzi, che intervistata parla del suo fidanzato, Stefano Feniello, e della speranza di ritrovarlo vivo. Ma la speranza si spegne nel corso della diretta di martedì sera: arriva la conferma che uno dei corpi recuperati in serata è proprio di Stefano, riconosciuto grazie a un tatuaggio.

Bufera a Porta a Porta: Francesca parla del fidanzato disperso, ma lui è già morto. Bruno Vespa segue la tragedia di Rigopiano ma con una puntata registrata. Quando va in onda su Rai1 l'intervista alla sopravvissuta Francesca Bronzi, che spera di ritrovare ancora vivo il fidanzato, arriva la conferma: Stefano Feniello è tra le vittime, scrive Chiara Cecchini il 25 gennaio 2017 su "Today". Era l'ottobre 2010. Davanti a milioni di telespettatori la madre di Sarah Scazzi fu informata in diretta che sua figlia non era scomparsa, come si temeva e in fondo ancora si sperava in quel momento, ma era stata uccisa e del suo omicidio si era autoaccusato lo zio Michele Misseri. Successe a "Chi l'ha visto?", la tv-verità per eccellenza. Il bello e l'osceno della diretta, la necessità di fare informazione e servizio pubblico (mentre i concorrenti mandavano in onda puntate registrate su altri temi) ma anche il dilemma etico e il buonsenso di chiudere in tempo il collegamento, di allontanare le telecamere, di non riprendere il viso impietrito di Concetta Serrano. Sul Corriere della Sera Aldo Grasso difese la scelta di Federica Sciarelli. "Con le telecamere ormai accese 24 ore su 24, in una società organizzata attorno ai media, nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo, è inutile chiedersi se questo strazio collettivo in diretta andasse fermato o no. Da tempo viviamo nel post-Vermicino", scrisse il critico di via Solferino, cercando di contestualizzare un episodio che aveva aggiunto una nuova pagina alla lunga e atroce storia della spettacolarizzazione del dolore in tv. Sono passati sette anni. Altri milioni di telespettatori seguono con il cuore in gola i tremendi aggiornamenti dall'hotel Rigopiano, che ormai continua a restituire solo morti. Bruno Vespa e il suo Porta a Porta sono "sul pezzo", ma con una puntata registrata. Nessun collegamento fiume dai luoghi della tragedia modello Vermicino, niente "telecamere ormai accese 24 ore su 24", solo l'intervista a Francesca Bronzi, una dei sopravvissuti alla tragedia del resort distrutto dalla slavina. La giovane, estratta viva e trasportata all'ospedale di Pescara, racconta quelle 50 ore passate nel buio e al freddo, stringendo la mano del fidanzato Stefano Feniello. Al momento della registrazione della puntata, Feniello era ancora nella lista dei dispersi. Mentre il racconto di Francesca, e la sua speranza di poter riabbracciare il suo Stefano, si diffonde su Rai1 arriva la tragica conferma: il ragazzo è morto, suo padre lo ha riconosciuto ufficialmente da alcuni tatuaggi. Aveva un senso quell'intervista, in quel momento, in quel contesto, "nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo"? Tra gli "strumenti multimediali" citati da Grasso ormai c'è anche Twitter e proprio sul social network si è sfogata la rabbia di chi ha assistito all'ennesimo scollamento tra realtà e informazione. "#francesca scusa per come sei stata USATA da #vespasciacallo credimi non siamo tutti così!..non tutti gli #abruzzesi sono così #portaaporta", tuona un utente.

Morte di Stefano Feniello all’hotel Rigopiano, lo straziante racconto della fidanzata, scrive Angela Bonora su "Info Cilento" il 25 gennaio 2017. La giovane Francesca Bronzi, durante un noto programma Rai, racconta la sua testimonianza della valanga all’Hotel Rigopiano. Lei e il suo fidanzato Stefano Feniello avevano deciso di passare una notte fuori per festeggiare in modo romantico il compleanno di lui. A Stefano, originario di Valva provincia di Salerno, questo compleanno però gli è costato la morte. È stato il padre infatti, a riconoscere il suo corpo attraverso un tatuaggio. Francesca durante l’intervista a “Porta a Porta”, racconta che tutti gli ospiti dell’Hotel Rigopiano erano terrorizzati per aver avvertito circa 5 scosse fino a quel momento. Erano stati più volte rassicurati dal personale della struttura sulla stabilità dell’albergo, ma nonostante questo erano tutti in attesa che arrivasse uno spalaneve per liberare la strada. Francesca continua dicendo che prima del boato, lei era di fronte al suo fidanzato davanti al caminetto, quando hanno avvertito un forte rimbombo ed un urto che ha fatto spostare lei di alcuni metri in avanti, da quel momento riusciva a vedere solo il braccio di Stefano attraverso la torcia del cellulare. Durante le 50 ore passate sotto le macerie Francesca dichiara “ero al buio, in uno spazio piccolissimo, senza acqua né cibo, sono stata sempre rannicchiata con le ginocchia al petto”, per fortuna accanto a lei c’era un’altra coppia di fidanzati Vincenzo Forti e Giorgia Galasso, che le passano della neve per potersi dissetare. I giovani, appena hanno sentito dei rumori provenire dalla superficie, hanno gridato aiuto molte volte fino a quando i vigili del fuoco li hanno salvati. La giovane Francesca con le lacrime agli occhi, dopo aver raccontato l’orribile tragedia che l’ha divisa per sempre dal suo amore, conclude rivolgendo un ringraziamento ai suoi soccorritori, in particolare ad alcuni di loro.

Gossip Barbara D'Urso criticata in tv da Giorgia Galassi dell'hotel Rigopiano, scrive il 25 gennaio 2017 Domenico Mungiguerra, Esperto di Tv e Gossip su "it.blastingnews.com". Giorgia Galassai, sopravvissuta alla tragedia dell'Hotel Rigopiano attacca Barbara D'Urso in tv. Colpo di scena durante la diretta tv di oggi 25 gennaio di #Pomeriggio 5, la trasmissione di #Barbara D'Urso che in questi giorni sta continuando a tenere alta l'attenzione sulla tragedia dell'Hotel Rigopiano: diverse le vittime che sono state estratte morte dalla struttura così come diversi sono state anche le persone che miracolosamente sono state estratte vive dall'Hotel. Ebbene durante la diretta di oggi di Pomeriggio 5 la D'Urso ha avuto la possibilità di intervistare la coppia di sopravvissuti di questa tragedia: parliamo di Giorgia Galassi e del suo fidanzato Vincenzo Forti, i quali al termine della conferenza stampa ufficiale che hanno fatto per parlare alla stampa di quanto è accaduto in quelle ore in cui sono stati sommersi sotto la neve all'interno dell'albergo, hanno concesso un'intervista alla conduttrice del talk show di Canale 5. Ebbene le gossip news rivelano che nel momento in cui Giorgia Galassi si è collegata in diretta con Barbara D'Urso ha subito mosso una critica alla conduttrice di Pomeriggio 5 per una lettera che lei avrebbe letto nel corso dei giorni scorsi, presentandola al pubblico da casa come una missiva scritta da Vincenzo Forti, fidanzato della Galassi. Ebbene la donna ha precisato che quella lettera non è stata scritta dal suo compagno e quindi quanto letto dalla D'Urso non era vero. A quel punto, però, ecco che la padrona di casa di Pomeriggio 5 ha preso la parola e si è difesa dalle accuse e dalle critiche di Giorgia Galassi, affermando che in realtà lei si è solo limitata a leggere quanto riportato in questi giorni sui vari quotidiani, tra cui Corriere della Sera e La Repubblica. A quel punto la reazione della sopravvissuta dell'#hotel Rigopiano è cambiata e ha precisato che non sapendo questo particolare, muoveva la sua crtica contro chi ha riportato queste false notizie, affermando di non avere nulla contro la D'Urso e ringraziandola per la possibilità che le è stata data di fare chiarezza in diretta tv.

Rigopiano, trovati due corpi nel caminetto trascinati della valanga. Le persone recuperate, tutte senza vita, sono salite a 29 e all'interno dell'albergo non dovrebbe esserci più nessuno, scrive Marta Proietti, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Il bilancio delle vittime dell'hotel Rigopiano è salito a 29 e quasi sicuramente all'interno della struttura non c'è più nessuno. Nella straziante ricerca, i vigili del fuoco hanno trovato due persone dentro il caminetto, con le mani davanti al volto probabilmente per proteggersi dai crolli del soffitto. Dalle prime ricostruzioni sembra sia stata la forza della valanga a spingerli dentro a quella che è diventata la loro tomba. Al momento non è ancora possibile identificarli perché i volti sono totalmente sfigurati.

La mappa dell'hotel-cimitero: uno per uno, dov'erano i morti, scrive il 27 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Una mappa agghiacciante e allo stesso tempo commovente. E' quella che pubblica oggi il quotidiano Il Messaggero sulle vittime dell'hotel Rigopiano. Una per una, nome per nome con tanto di numerino, il quotidiano romano mostra dove sono state trovate le vittime della slavina dello scorso 28 gennaio. Stanza per stanza: si scopre così che ben 13 di loro erano distribuite tra la reception la hall, dov'erano in attesa dello spazzaneve che avrebbe dovuto arrivare per aprirgli la strada verso la fuga e la salvezza, ma che non è mai arrivato lassù. Dieci erano nella zona bar, una tra quella e la sala biliardo. Una al bancone del bar e tree in cucina, al lavoro. Nessuno al ristorante. Nelle camere stavano in pochi. E quelli si sono salvati, perchè stavano più in alto, nella parte di hotel colpita solo in parte dalla massa di neve. Tutti quelli che invece erano giù in attesa di partire sono invece morti.

Rigopiano, alcune vittime trovate con il cellulare in mano altre con il volto coperto dal gomito. Le operazioni per il recupero dei corpi all'hotel Rigopiano sono ormai concluse. Ora, i soccorritori raccontano dettagli agghiaccianti su come sono state trovate quelle 29 persone prive di vita, scrive Serena Pizzi, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". La tragedia dell'hotel Rigopiano è una di quelle tragedie che si farà fatica a dimenticare, due giorni dopo dal recupero di tutti i corpi rimasti sepolti sotto la slavina che ha travolto il resort, emergono particolari terribili di quella morte arrivata all'improvviso. I soccorritori hanno raccontato alla stampa scene che rimarranno impresse nella memoria per la loro drammaticità e allo stesso tempo per la loro quotidianità. Sì perché gli ospiti dell'hotel Rigopiano, che mercoledì 18 gennaio hanno perso la vita sotto cumuli di macerie e neve, stavano trascorrendo un normale mercoledì pomeriggio. "Gli angeli" che hanno salvato 11 persone, ma che non hanno potuto fare nulla per altre 29, hanno confessato di aver trovato nella tomba glaciale dell'hotel Rigopiano corpi totalmente schiacciati dalle macerie e dal peso della valanga. Nella cucina, invece, - si legge su il Messaggero - c’erano le due cuoche ancora intente nella preparazione dei cibi. La slavina le ha colte all'improvviso e allo stesso modo la morte se le è portate via. Anche l’addetto al ricevimento si trovava sul posto di lavoro, nella reception della struttura. Il giovane, probabilmente si occupava anche del bar, collocato nella stessa stanza, perché aveva ancora in mano il braccio della macchina del caffè quando è stato trovato. Gli ospiti, invece, erano radunati nella hall del resort. Alcuni di loro erano seduti accanto al camino che in quel momento ardeva. Quel camino che tanto era amato perchè riscaldava, probabilmente, è costato la vita a quelli che gli sono finiti contro. Altri ancora sono stati trovati dai soccorritori con in mano il cellulare. Forse stavano aspettando il segnale per mandare un messaggio per rassicurare i parenti o forse per inviare messaggi di aiuto. Tanti forse e nessuna risposta. La furia della slavina non ha risparmiato nessuno. Alcuni corpi sono stati trovati fra le ante delle porte. Poi, c’è stato anche chi è morto con il volto coperto dal gomito per ripararsi dai crolli. Un'immagine terribile. Quasi tutte le vittime indossavano un abbigliamento sportivo da montagna. Altre, invece, sono state estratte senza indumenti. Tra le macerie sono emersi molti effetti personali di uomini e donne rimasti sepolti e dei sopravvissuti. C’era una bambola, un accendino, dei fogli, brandelli di borse, materassi, scarpe, valige, giochi, tanti giochi. Tutti testimoni di vite vissute e spezzate. Ora, le operazioni di recupero delle vittime si sono concluse. La "zona rossa" sarà presidiata ancora per qualche giorno, per consentire di concludere la seconda fase, cioè quella dello smontaggio di tutte le attrezzature utilizzate dai soccorritori. "Le operazioni di soccorso all’hotel Rigopiano sono state tra le più complesse che abbiamo mai gestito - ha dichiarato il direttore centrale delle emergenze dei Vigili del fuoco, Giuseppe Romano - un crollo di un edificio di 4 piani sotto una valanga in uno scenario di terremoto, con l’impossibilità di arrivare sia via terra che via aria e con le comunicazioni difficili".

Il racconto dei superstiti a Rigopiano: "Salvi mangiando neve". Giorgio e Vincenzo prigionieri per 58 ore della neve al Rigopiano: "Quando sono arrivati i soccorsi abbiamo urlato", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Il tavolino, la tazza di tè, la tranquillità di una vacanza particolare. Sì, c'era tanta neve. Ma quando cadono i fiocchi pensi solo a qualcosa di bello, forse romantico. Non ad una tragedia. Giorgia Galassi e Vincenzo Forti invece hanno vissuto la tragedia della valanga che ha travolto l'hotel Rigopiano. Erano lì sotto. A lottare tra la vita e la morte. In attesa che qualcuno, come poi successo, li salvasse. Di fronte ai microfoni dei giornalisti, Giorgia e Vincenzo hanno ripercorso quelle drammatiche ore. "Quando la batteria del telefonino si è scaricata siamo piombati in un buio profondissimo, ermetico - dice Vincenzo - Non si vedeva più nulla e ci si poteva orientare solamente con la voce". Grazie a quella flebile luce i due fidanzati sono riusciti a capire dove si trovassero e a vedere la parete di ghiaccio che sarebbe diventata la loro fonte di acqua necessaria per sopravvivere. Con loro c'era anche Francesca Bronzi, la fidanzata di Stefano Feniello morto intrappolato sotto le macerie. "Il terremoto di quella mattina si era sentito molto forte e aveva terrorizzato gran parte degli ospiti. Piangevo di paura", ammette Giorgia. La sua mano è sorretta da quella di Vincenzo: "Quelli dell’albergo — dice il ragazzo, riportato da Repubblica — ci ripetevano che non c’era pericolo. Poi ci hanno invitato ad aspettare nella sala grande, accanto al camino, il posto più sicuro della struttura. Eravamo seduti su un divanetto a bere un tè. Che ci potesse essere un rischio valanghe? Nessuno ne ha parlato, non ci abbiamo pensato. Abbiamo sentito un boato tremendo, abbiamo pensato a un sisma, ma in un baleno ci siamo trovati sotto la neve". Sotto quella coltre di detriti, neve e alberi la più grande sofferenza, dicono i superstiti, era la sete. "Per fortuna che abbiamo trovato subito la parete di ghiaccio e neve - racconta Giorgia - Ogni volta che ne staccavo un pezzo — racconta Giorgia — ne passavo la metà a Francesca: soffrivamo maledettamente la sete". Ma dicono di non aver mai avuto paura di non farcela: "Sapevamo che qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi". E infatti li hanno tirati fuori. Un miracolo. Quando hanno capito che li avevano individuati hanno "urlato come dei matti". "Un pompiere toscano che ci ha aiutati e sorretti - ricorda Giorgia - e parlato con noi per tutto il tempo. 'State tranquilli, ci ha detto subito, noi non ce ne andremo mai di qui, se non insieme a voi'. Non me lo dimenticherò mai". Sulla morte di Stefano Feniello perdurano alcune polemiche. Il padre nei giorni scorsi ha denunciato la poca chiarezza con cui sono state date le comunicazioni ai familiari su dispersi, morti e sopravvissuti. Ma soprattutto Francesca, la fidanzata di Stefano, continua a dire che lui era lì accanto a lei. Che ha visto la sua mano con l'orologio che gli aveva regalato. Eppure, Giorgia e Vincenzo dicono che lì con loro il ragazzo non era presente. Ma solo Francesca. "Probabile che si tratti di una sorta di piccola allucinazione", spiegano dall’ospedale di Pescara Repubblica. Un modo per riempire il vuoto dell'assenza di Stefano. Quel fidanzato che ora purtroppo nessuno le riporterà indietro.

Rigopiano, i superstiti: “Così siamo sopravvissuti”, scrive Maddalena Carlino su "L'Unità TV" il 22 gennaio 2017. Le storie di chi è riuscito a sopravvivere si mescolano a quelle di chi non ce l’ha fatta. Undici sopravvissuti, cinque corpi senza vita recuperati e 24 dispersi segnalati: è questo il bilancio attuale della tragedia dell’hotel Rigopiano. Le storie di chi è riuscito a sopravvivere si mescolano a quelle di chi non ce l’ha fatta. Dolore e sollievo si uniscono così nel dramma dell’Hotel Rigopiano. Drammatiche le testimonianze di chi è rimasto imprigionato per 58 ore sotto i ghiacci: “La paura, il buio, la fame. Ci siamo salvati succhiando neve”, racconta Giorgia Galassi, la donna giuliese scampata insieme al fidanzato Vincenzo Forti dopo due giorni di prigionia sotto le macerie de Rigopiano di Farindola. “Il momento peggiore – racconta Giorgia – è stato il secondo giorno lì sotto. Eravamo chiusi in una scatola, senza la cognizione del tempo. Non sentivamo rumori da fuori. Continuavamo a dissetarci succhiando ghiaccio, ma non mangiavamo, e le forze e le speranze cominciavano a venire meno”. Poi quei rumori che non erano più solo scricchiolii del ghiaccio, le voci. “Allora abbiamo cominciato a bussare sul soffitto a più non posso. Loro ci hanno chiamati. Io subito ho urlato “sono Giorgia e sono viva”. Ed è stata la cosa più bella che abbia mai detto”. “E’ stata una bomba, mi sono ritrovato i pilastri addosso. Ero seduto sul divano e i pilastri sono scivolati in avanti tagliandolo in due. Ci siamo salvati per questo”. Così invece Vincenzo Forti ha raccontato all’amico Luigi Valiante, l’esperienza della valanga. Con l’amico pescatore che è andato a trovarlo ha ripercorso tutti i momenti della tragedia: “Io sono rimasto senza scarpe. Indossavo i leggings che mi aveva prestato la mia fidanzata. In un attimo ci siamo ritrovati in tre in un metro quadrato. Ci siamo abbracciati, nutrendoci di neve”. Poco distante Forti sentivano anche le voci di un altro ragazzo e dei bambini, con i quali non è stato possibile comunicare. “La paura è stata tanta e abbiamo pregato”, ha detto il sopravvissuto. Triste e drammatico il destino che unisce Edoardo e Samuel, anche se per il secondo c’è ancora la speranza che possa riabbracciare entrambi i genitori. Otto e sette anni, i due bambini sono ora al caldo e coccolati dopo la tragedia che li ha travolti il 18 gennaio quando l’immensa valanga ha spazzato via l’hotel di Farindola, dove erano in vacanza con le loro famiglie. Sono riusciti a venire fuori da quell’inferno di neve. Tratti in salvo dai soccorritori, sono stati portati all’ospedale di Pescara. Fisicamente stanno bene. La loro tempra è forte. Hanno superato anche una leggera ipotermia ma, dicono i medici che li tengono sotto osservazione “psicologicamente sono provati”. I due bimbi in ospedale attendono le loro mamme e i loro papà. Solo nel tardo pomeriggio di sabato la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire. Viene riconosciuta la terza vittima: è la mamma di Edoardo, Nadia Acconciamessa, 48 anni, moglie di Sebastiano Di Carlo. Lei dipendente della Asl di Pescara, lui titolare di una pizzeria a Loreto Aprutino (Pescara). Di Sebastiano nessuna notizia, fino a stasera: è lui una delle vittime recuperate nelle ultime ore. Nessuna informazione, invece, sui genitori di Samuel Di Michelangelo, il piccolo della famiglia del poliziotto, Domenico, 41 anni, di Chieti, e Marina Serraiocco, che vivono a Osimo (Ancona). Risultano ancora tra i dispersi. Nella notte sono poi state estratte vive altre quattro persone, due uomini – Giampaolo Matrone (lievemente ferito) e Vincenzo Forti – e due donne, Francesca Bronzi e Giorgia Galassi. “Abbiamo altri segnali da sotto la neve e le macerie – ha detto il funzionario dei vigili del fuoco Alberto Maiolo – stiamo verificando. Potrebbero essere persone vive, ma anche le strutture dell’albergo che si muovono sotto il peso della neve”. “Le tenevo la mano, poi nulla” riferisce Giampaolo Matrone uno degli 11 sopravvissuti. Ha raccontato con parole strazianti ai soccorritori di come ha dovuto lasciare la moglie lì. “Le stringevo la mano e le parlavo per tenerla sveglia perché volevo che rimanesse sempre vigile. La chiamavo, poi a un certo punto non l’ho sentita più e ho capito che mi stava lasciando”. Vicino a lui, Matrone ha raccontato di un’altra donna che non dava segnali di vita. Parla anche il manutentore, Fabio Salzetta: chiamavo ma nessuno ha risposto “Ho cercato di chiamare qualcuno fino a quando ha fatto buio. Ma nessuno rispondeva. Poi ha continuato a nevicare, è venuto giù un altro mezzo metro di neve. Era troppo rischioso rimanere là”. Fabio Salzetta, il manutentore dell’hotel Rigopiano, racconta per la prima volta quei momenti maledetti. “Erano tutti raggruppati nella speranza di andarsene ma non avevamo paura, nessuno si immaginava che potesse succedere una cosa cosi'”. Ma cosa ricordi? “Neve, neve e basta”. Nella serata di venerdì, la prefettura di Pescara aveva fornito un elenco di cinque nomi, indicandoli come quelli che si trovavano sotto le macerie, erano stati individuati e dovevano essere estratti vivi: oltre a Matrone, Bronzi, Forti e Galassi anche Stefano Feniello, del quale al momento non ci sono notizie. Il bilancio ufficiale delle vittime è salito a cinque: ai primi due corpi recuperati, quello del maitre dell’hotel Alessandro Giancaterino e del cameriere Gabriele D’Angelo, si sono aggiunti quelli estratti nella notte dai soccorritori: Nadia Acconciamessa e Sebastiano Di Carlo, genitori del piccolo Edoardo, che si è salvato e Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino (Pescara), che era in vacanza con il marito, di cui non si hanno ancora notizie. All’appello, infine, secondo quanto reso noto dalla prefettura di Pescara mancherebbero 23 persone, tutte disperse.

Estratta viva dall'hotel di Rigopiano, Giorgia viene insultata su Facebook. Giorgia Galassi è stata estratta viva dalle macerie dopo 58 ore insieme al fidanzato Vincenzo Forti. Entrambi sono in buone condizioni, scrive Marta Proietti, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". È una dei sopravvissuti alla tragedia dell'hotel Rigopiano e ha voluto condividere su Facebook la sua gioia e gratitudine. Ma il popolo del web, invece di essere felice per lei, ha deciso di riempirla di insulti. "Giorgia Galassi si sente rinata". Inizia così il post della studentessa di Giulianova che ha fatto infuriare gli utenti. La ragazza è stata estratta viva dalle macerie dell'hotel Rigopiano dopo 58 ore sotto la slavina insieme al fidanzato Vincenzo Forti e condotta all'ospedale di Pescara in condizioni di salute buone. Ha continuato Giorgia: "Volevo ringraziare tutte le persone che si sono preoccupate per me in questi giorni e che mi sono state vicine col pensiero. Grazie a tutti". E un cuoricino rosso. Gli internauti hanno accusato Giorgia di mostrare poca empatia verso i suoi compagni di vacanza di cui ancora non si conoscono le sorti. "Ma un minimo di sensibilità per chi è ancora là sotto non le passa per il cervello e per il cuore?" commenta uno degli iscritti a Facebook sotto il post della studentessa di scienze dalla comunicazione. Mentre invece un altro non ha preso bene neanche i ringraziamenti della ragazza: "Non ringraziare le persone che ti sono state vicine con il pensiero, ma ringrazia Dio e i soccorritori", le suggerisce. Fortunatamente molte altre persone hanno preso le difese di Giorgia. "Se questa ragazza ha già trovato la forza, almeno apparente, di andare avanti e vivere la sua vita normalmente, tanto di cappello!" commenta una donna, mentre un'altra spiega: "E come sempre tutti bravi a parlare, criticare e giudicare quando non si è dentro una situazione".

Rigopiano, dalla neve recuperate tutte le vittime: sono 29. Gentiloni: "Sui soccorsi fatto tutto il possibile". Recuperati tutti corpi, tra loro anche l'amministratore dell'albergo Roberto Del Rosso e il receptionist Alessandro Riccetti.  11 le persone tratte in salvo. Il premier difende la macchina dei soccorsi. In un colloquio col nostro giornale, la funzionaria che disse: "La valanga sull'albergo inventata da imbecilli" risponde alle accuse. Procura: "Nei risultati delle prime sei autopsie, molti morti per schiacciamento, altri per varie concause: schiacciamento, asfissia, ipotermia. Nessuno deceduto per solo assideramento", scrive il 25 gennaio 2017 "La Repubblica". E' il bilancio finale: 29 vittime, 11 sopravvissuti. Non c'è più nessuno da salvare all'hotel di Rigopiano è un immenso cantiere che di ora in ora ha fatto emergere nuove vittime.  Nella notte sono stati recuperati i corpi di tre uomini e questa mattina i vigili del fuoco hanno estratto all'interno della struttura crollata due donne e un altro uomo senza vita, non ancora identificati.  Nel pomeriggio, poi, il cadavere di un'altra donna e, in serata, gli ultimi. Sono 11 le persone salvate. Tra le vittime recuperate c'è anche l'amministratore del Gran Sasso Resort Roberto Del Rosso. "Viveva praticamente lì, non lo abbandonava mai" dicevano a Contrada Mirri, l'avamposto più vicino all'hotel. Fino a sei, sette anni fa era in società con i fratelli. Poi si era ricomprato tutto e aveva ristrutturato il resort con la piscina, la spa, il centro benessere. Ed è stato trovato anche il corpo del suo collaboratore, Alessandro Riccetti, 33 anni, il receptionist ternano dell'albergo. Nelle ore precedenti erano stati identificati anche i corpi di Paola Tomassini, Marco Vagnarelli, Piero Di Pietro e Stefano Feniello, quest'ultimo erroneamente inserito in una prima lista di persone salvate. E mentre il premier Gentiloni, in audizione al Senato, difende la macchina dei soccorsi, con "una capacità di reazione del sistema all'altezza di un grande paese", anche la Procura oggi 'assolve' i soccorsi dalle accuse di eventuali ritardi: "Dalle autopsie su sei vittime risulta che nessuno di loro è morto solo per assideramento. Molti hanno perso la vita subito per schiacciamento". La pm: "Autopsie per sei vittime, nessuno morto per solo ipotermia". "Abbiamo i risultati delle prime sei autopsie: molti morti per schiacciamento, altri per varie concause concorrenti: schiacciamento, asfissia, ipotermia. Nessuno, a quanto ci risulta, morto per solo assideramento", così riferisce nel punto pomeridiano con la stampa il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini. Dunque, aggiunge la pm, in questi primi sei casi eventuali ritardi nei soccorsi non sarebbero stati causa diretta di morte. "Ma altre sei autopsie sono in programma, e comunque le eseguiremo su ogni vittima", aggiunge Tedeschini. La pensa diversamente il legale di parte della famiglia di una delle vittime, Gabriele D'Angelo: "Sul mio assistito non ci sono segni di traumi, né di asfissia come emorragie congiuntivali - spiega Domenico Angelucci, medico di parte della famiglia D'Angelo, "secondo noi è morto per assideramento e se fosse stato soccorso entro due ore probabilmente poteva essere salvato". In un palatenda gremito da centinaia di persone si sono svolti a Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, i funerali religiosi di Sebastiano Di Carlo, 49 anni, e Nadia Acconciamessa, 47 anni. In prima fila il figlio della coppia, Edoardo, di 8 anni, scampato alla sciagura e fino a ieri ricoverato all'ospedale di Pescara. Accanto a lui i parenti, tra cui il fratello Riccardo poco più che ventenne, al quale il bambino dovrebbe venire ora affidato. C'é anche l'altro fratello, Piergiovanni, sedicenne. Tra le due bare di legno marrone una foto dei Di Carlo abbracciati e sorridenti. E Loreto Aprutino, poche migliaia di abitanti, piange da ieri quattro vittime, dopo il riconoscimento del corpo di Piero Di Pietro, che si va ad aggiungere tra le vittime alla moglie Barbara Nobilio. Le due coppie erano amiche ed erano andate assieme in vacanza all'albergo sul Gran Sasso. Gentiloni al Senato "Soccorritori esemplari, no capri espiatori": "Siamo orgogliosi dei soccorritori. All'inizio le azioni sono state ritardate in modo drammatico per l'impossibilità di usare elicotteri, per il rischio di altre slavine e per le condizioni della viabilità. E avete visto in che modo l'albergo è stato poi raggiunto alle 4,30 del mattino. Da allora, è stato messo in atto ogni sforzo possibile umano, organizzativo e tecnico per raggiungere l'albergo, per trovare i dispersi e cercare di salvare vite umane. Abbiamo mostrato una capacità di reazione del sistema all'altezza di un grande paese. Nella nostra memoria rimarranno impresse le immagini dei lutti che ci hanno colpito ma anche le immagini dei soccorritori, cittadini italiani esemplari, due di loro hanno perso la vita". Così il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni riferendo in aula al Senato sulla situazione di emergenza in Centro italia e sulla slavina dell'hotel Rigopiano. "Ci sono stati ritardi, malfunzionamenti, responsabilità? Saranno le inchieste a chiarire questo punto. La verità serve a fare meglio, ma non ad avvelenare i pozzi. Non condivido la voglia di capri espiatori e giustizieri". E ancora: "A Rigopiano c'è stata una coincidenza micidiale che non si ricorda a memoria d'uomo, con le scosse di terremoto e una nevicata di dimensioni eccezionali". Dighe, 40 in tutta l'area del sisma ma no a voci incontrollate: "Abbiamo lavorato con il ministero delle Infrastrutture per la verifica della tenuta delle 40 dighe nella zona interessate dal sisma, dighe che vengono verificate di prassi ogni volta che si verifica una scossa di magnitudo superiore a quattro. E che quindi sono state ripetutamente verificate negli ultimi mesi. Evitiamo il diffondersi di voci incontrollate su rischi esagerati". "Black out di energia, cause da verificare": "Nel momento di picco della crisi, il 19 gennaio, le utenze non allacciate hanno raggiunto il numero considerevole di 177mila, oggi ne sono rimaste solo alcune centinaia nel Teramano. E' giusto, da parte del governo, verificare quanto abbiano inciso le circostanze eccezionali o quanto ciò abbia messo in luce problemi più generali di manutenzione", dice Gentiloni. La protesta del senatore-sindaco "Basta! Ditemi quanto tempo ho a disposizione per parlare, altrimenti sfascio tutto e me ne vado! Come si fa a parlare con questa lucetta che ti lampeggia davanti!". Così sbotta in aula il senatore marchigiano di Fi, Remigio Ceroni, sindaco di Rapagnano, comune della provincia di Fermo colpito dalle scosse, "apprezziamo i toni di Gentiloni" dice Ceroni "ma noi sindaci vogliamo essere consultati". Intanto, in un colloquio con Repubblica, risponde alle polemiche la funzionaria della prefettura che aveva ignorato l'allarme sulla valanga, la telefonata disperata di Quintino Marcella, definendola una "bufala" inventata da imbecilli. "Ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante è avere la coscienza a posto, e io ce l'ho".

HOTEL RIGOPIANO, LA TRAGEDIA MINUTO PER MINUTO. I punti fermi di quella giornata maledetta, scrive il 24 Gennaio 2017 Alessandra Lotti su "Prima da Noi".

HOTEL RIGOPIANO, 6° GIORNO SPERANZE DIETRO UN MURO. 15 MORTI, 11 SALVI, 14 DISPERSI. Ore lunghissime, passate dai sopravvissuti ad aspettare aiuto, vissute con fatica e lavoro da parte dei soccorritori impegnati a fronteggiare condizioni meteo estreme, trascorse via via con maggiore apprensione da parte di chi aspettava notizie. E' la giornata che ha portato alla tragedia dell'hotel Rigopiano, iniziata con un altro dramma, un nuovo sciame sismico che per la quarta volta dal 24 agosto ha squassato l'Italia centrale.

ORE 5.00 – Esonda il fiume Pescara, segnale evidente di quella ondata di maltempo che ha colpito in modo particolare l'Abruzzo pescarese, con nevicate anche a bassa quota e pioggia che ha appesantito la neve caduta in abbondanza nelle ore precedenti.

18 GENNAIO 2017

ORE 9.00 – L’hotel Rigopiano scrive sulla propria pagina Facebook un post "Causa maltempo le linee telefoniche sono fuori servizio! Vi invitiamo a contattaci all'indirizzo info@hotelrigopiano.it".

ORE 10.25 - Prima scossa di terremoto, di magnitudo 5.3, con epicentro nell'aquilano. Scattano i soccorsi in tutto il centro Italia ma ci si accorge subito che il problema maggiore non sono i nuovi crolli, ma le condizioni meteo.

ORE 11-14 – Seconda forte scossa con epicentro, ancora una volta nell’aquilano. Magnitudo 5.4. La neve alta in molte zone, compreso il versante adriatico del Gran Sasso, impedisce di operare agli uomini della protezione civile, mentre continua a nevicare.

ORE 11.27 – Terza forte scossa. Magnitudo 5.3. Altro problema la mancanza di corrente, che disturba anche le comunicazioni.

ORE 13.00 – Alcuni clienti, tra i quali Stefano Feniello, chiamano a casa per informare i parenti che hanno già caricato le auto e pagato il conto perché torneranno a casa. Aspettano il passaggio dello spazzaneve. Sono tutti radunati nella hall.

ORE 13.30 – E’ questa l’ora precisa in cui il presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco, sostiene di aver scritto al Governo Gentiloni per ottenere nuovi mezzi spazzaneve.

ORE 13.57 – I clienti pranzano e il direttore dell’hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso che si trova a Pescara, invia una email alla polizia provinciale (che poi la inoltrerà al presidente della Provincia alle 15.44) nella quale si chiede l’intervento dello spazzaneve perché «la situazione è diventata preoccupante». In quel momento in contrada Rigopiano c’erano 2 metri di neve, i telefoni fuori uso, e i clienti «terrorizzati per le scosse» come scrive Di Tommaso sono disposti a trascorrere la notte in macchina. A quest’ora con le pale e il loro mezzo lo staff dell’hotel era riusciti a pulire il viale d'accesso, dal cancello fino alla Ss42.

ORE 14 - La sorella del proprietario Roberto Del Rosso incontra il presidente della Provincia, Antonio Di Marco, e viene rassicurata sul fatto che entro sera sarebbe andata una turbina a liberare la strada.

ORE 14.33 – Quarta forte scossa. Magnitudo 5.1.

ORE 15.00 - L'arrivo dello spazzaneve viene posticipato alle 19.00. I clienti si agitano. Stefano Feniello chiama alla mamma arrabbiato e racconta, come riferito dal padre: «non riusciamo a tornare a casa perché quei pezzi di merda che dovevano pulire non si sono degnati di arrivare».

ORE 15.44 - La Polizia Provinciale di Pescara inoltra alla Provincia l’email di aiuto firmata da Di Tommaso quasi 2 ore prima. Il presidente Di Marco la leggerà comunque il giorno seguente ritenendola superata perché dopo l’invio del direttore lui aveva avuto un colloquio diretto con la sorella del titolare.

ORE 17.08 - Parte la prima chiamata di Giampiero Parete dall'Hotel Rigopiano: viene agganciata da un operatore del 118 di Chieti, che chiede a Parete di attendere in linea, ma la linea cade immediatamente.

TRA LE 17.08 E LE 18.20 - Parete riesce a contattare il 113 e lancia l'allarme: in questo stesso arco di tempo Di Tommaso viene contattato per sapere se è vero che si è verificata una valanga. Ma lui non sa niente perché si trovava a Pescara.

ORE 17.40 - «E' caduto, è caduto l'albergo», è l'appello disperato di Giampiero Parete al telefonino con Quintino Marcella, suo datore di lavoro.

ORE 18.00 - Inizia ad arrivare l'allarme alle centrali operative: «C'è un hotel completamente isolato in una frazione di Penne». Marcella ha difficoltà a farsi credere, in particolare dalla prefettura di Pescara che due ore prima aveva ascoltato il direttore dell'albergo non riscontrando problemi.

ORE 19.00 - Le avanguardie dei soccorritori arrivano in contrada Cupoli a 11 km da Rigopiano. Ma la neve raggiunge già i due metri e i telefoni non prendono.

ORE 22.00 – La colonna dei mezzi imbocca l'ultimo tratto di strada: mancano 9 km all'hotel ma la salita si ferma.

ORE 23.00 - Ultimo contatto della notte di Giampiero Parete con Quintino Marcella. Lo richiama la mattina, una volta raggiunto dai soccorritori e messo sull'elicottero.

19 GENNAIO 2017

ORE 0.00 - Quattro uomini del soccorso alpino e della Guardia di Finanza partono con gli sci con le pelli di foca per raggiungere sotto la bufera di neve Rigopiano.

ORE 4.00 - Dopo avere letteralmente scalato muri di neve arrivano all'hotel e si rendono conto della situazione. Ma, intanto, salvano i due superstiti Fabio Salzetta e Giampiero Parete.

ORE 6.30 – E’ l'alba quando arrivano i primi elicotteri che portano a valle i due uomini: inizia la faticosa ricerca dei dispersi.

ORE 9.30 – Viene estratto il corpo della prima vittima. E’ Alessandro Giancaterino, dipendente dell’hotel.

ORE 12.00 - La colonna dei mezzi dei soccorsi arriva a poche centinaia di metri dall'albergo. Dopo 20 ore, facendo l'ultimo tratto a piedi, raggiungono il luogo del disastro.

ORE 15.00 – I primi soccorritori arrivati ritornano verso valle dopo aver ricevuto il cambio: «Non c'è più niente».

Hotel Rigopiano: chi sono le vittime e i dispersi della slavina. È salito a 15 il bilancio dei morti: 9 uomini e 6 donne. 14 le persone di cui non si hanno notizie. Compreso un giovane senegalese, scrive Ilaria Molinari il 24 gennaio 2017 su Panorama. Sono 6 giorni che la tragedia dell'Hotel Rigopiano, resort a 4 stelle di Farindola in provincia di Pescara sommerso sotto una slavina, tiene con il fiato sospeso l'intera Italia. Il lavoro instancabile dei Vigili del Fuoco e del Soccorso Alpino ha consentito finora di estrarre vive 9 persone (oltre alle 2 scampate alla slavina) e tre cuccioli di cane figli delle due mascotte della struttura, ma restano ancora 14 dispersi, tra turisti e personale. C'erano 40 persone nell'hotel Rigopiano quando la valanga, nel pomeriggio di mercoledì, ha investito la struttura: 28 ospiti, di cui 4 bambini, e 12 dipendenti, compreso il titolare Roberto Del Rosso e il rifugiato senegalese Faye Dane. E la tragedia c'è. È la tragedia del piccolo Edoardo, vivo, ma che ha perso sotto la neve i genitori Nadia e Sebastiano. È la tragedia di Gabriele e Alessandro, cameriere e capo dei camerieri dell'Hotel, morti nel luogo a cui dedicavano la maggior parte della loro giornata. È la tragedia di tutte le famiglie che ancora non sanno se i loro cari sono vivi o meno.

Le vittime. Sono 15 i corpi estratti senza vita dalla neve, 9 uomini e sei donne: quelli di Nadia Acconciamessa e di Sebastiano Di Carlo, madre e padre del piccolo Edoardo tratto in salvo, quello di Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino (Pescara) in vacanza con il marito di cui non si hanno tracce. A queste tre vittime si aggiungono Gabriele D'Angelo, cameriere dell'hotel e Alessandro Giancaterino, capo dei camerieri e del bar dell'albergo. D'Angelo, volontario della locale Croce rossa, era conosciuto da diversi soccorritori presenti nel centro di coordinamento allestito al Palazzetto dello Sport di Penne.  Infine, 5 uomini e tre donne estratte morte il 23 e il 24 gennaio e ancora non identificate insieme al corpo di Linda Salzetta, l'estetista del Rigopiano e sorella di Fabio, il tuttofare dell'hotel. Linda "si doveva sposare il 5 maggio". Lo ha detto una parente della giovane dopo il funerale a Farindola di Alessandro Giancaterino, dello stesso paese di Linda. "Per guadagnarsi un pezzo di pane, guarda che fine che ha fatto", ha commentato la parente della ragazza morta.

I dispersi. Ancora 14 i dispersi tra cui il titolare della struttura Roberto Del Rosso. Tra loro ci sono Marco Vagnarelli e Paola Tomassini di Castignano (Ascoli Piceno) che si trovavano nella località abruzzese per una vacanza di due giorni e stavano per ripartire alla volta del Piceno. Vagnarelli è un dipendente dell'Ariston, mentre la compagna, originaria di Montalto Marche, lavora per la società Autogrill. Nessuna notizia anche di Stefano Feniello indicato come una delle persone che avevano dato segni di vita sotto le macerie, di Domenico Di Michelangelo, 41enne poliziotto, e dalla moglie Marina Serraiocco, entrambi di Osimo in vacanza con il figlio Samuel estratto vivo. Non si hanno notizie poi di Emanuele Bonifazi, 31 anni, di Pioraco, dipendente dell'hotel, e Marco Tanda, 25 anni, residente a Macerata. Era con la fidanzata abruzzese Jessica Tinari, anche lei dispersa. Tra i dispersi c'è anche un altro cittadino umbro: è Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni. Risulta dispersa anche una coppia di Castel Frentano (Chieti). Si tratta di Luciano Caporale, 54 anni, e la moglie, Silvana Angelucci, 46 anni, entrambi di professione parrucchieri. La coppia era giunta in hotel domenica pomeriggio per ripartire martedì sera ma, a seguito del peggioramento delle condizioni meteorologiche, ha deciso di trattenersi fino a mercoledì. I figli della coppia, unitamente ad altri famigliari, sono già in viaggio verso Penne al centro di coordinamento per avere notizie certe sulla sorte degli scomparsi.  All'appello manca anche un giovane senegalese, Faye Dame, che aveva da poco rinnovato il suo permesso di soggiorno presso gli uffici della Questura di Torino dove risulta residente. L'uomo, 42 anni, aveva ottenuto il rinnovo del permesso esibendo il contratto di lavoro con l'albergo. Incensurato, agli uffici della Questura risulta regolare in Italia dal 2009. 

Le testimonianze. "Sono salvo perchè ero andato a prendere una cosa in automobile" ha riferito ai medici Giampiero Parete, 38 anni, che ieri ha lanciato l'allarme per la valanga che ha travolto l'hotel. La moglie e i due figli di Parete sono sotto le macerie dell'albergo. "È arrivata la valanga - ha detto ancora ai sanitari il 38enne, ricoverato in Rianimazione - sono stato sommerso dalla neve, ma sono riuscito a uscire. L'auto non è stata sepolta e quindi ho atteso lì l'arrivo dei soccorsi". L'uomo residente a Montesilvano (Pescara), è cosciente ed è assistito dal personale della Rianimazione dell'ospedale di Pescara e dagli psicologi della Asl. È arrivato in stato di ipotermia, ma il quadro clinico non è preoccupante. È stato lui ieri a lanciare l'allarme al suo datore di lavoro. Poi la lunga attesa dell'arrivo dei soccorsi, insieme all'altro superstite. "Giampiero e tutti gli altri ospiti dell'albergo avevano pagato ed avevano raggiunto la hall, pronti per ripartire non appena sarebbe arrivato lo spazzaneve" ha raccontato poi Quintino Marcella, ristoratore. Gli avevano detto che sarebbe arrivato alle 15, ma l'arrivo è stato posticipato alle 19. Avevano preparato già le valigie, tutti i clienti volevano andare via". Così Quintino Marcella, ristoratore e datore di lavoro di Giampiero Parete, superstite della valanga sull'hotel Rigopiano. E' proprio al ristoratore che Parete ha lanciato l'allarme dopo la valanga.

I giornali stranieri. La tragedia segna l'apertura dei più importanti siti web di informazione del mondo: dalla Cnn alla Nbc News, dalla Bbc ad Al Jazeera, dal Telegraph al Guardian, da El Pais alla Vanguardia. I titoli rispecchiano l'ansia dei soccorritori: "Molti dispersi", scrive la Bbc, "si temono molti morti dopo che una valanga ha sepolto un hotel in seguito ad una scossa di terremoto", riferisce la Cnn. Con un taglio poco più basso la notizia è riportata anche dal Washington Post, che a sua volta titola su "decine di dispersi", così come il New York Times, il Wall Street Journal e Le Monde, mentre Le Figaro titola con "numerosi morti". La tragedia è riportata in homepage anche su Times of India, Russia Today, il Japan Times.

Rigopiano: allarme ignorato, spazzaneve in ritardo, mezzi senza gasolio, elicotteri fermi, le 4 falle dei soccorsi. Le istituzioni respingono però le accuse: situazione eccezionale, scrive Michael Pontrelli su Tiscali News il 19 gennaio 2017. La Procura di Pescara ha aperto una indagine per omicidio colposo sulla vicenda della valanga che ha travolto l’hotel Rigopiano a Farindola sul Gran Sasso. Le cose da chiarire sono tante in particolar modo sulla tempestività dei soccorsi. Secondo le prime ricostruzioni uno dei superstiti, Giampiero Parete, avrebbe raccontato che tutti i clienti erano pronti a lasciare l’hotel già dal primo pomeriggio perché in un primo momento era stato detto loro che lo spazzaneve sarebbe arrivato alle 15. L’arrivo è stato successivamente posticipato alle 19. Quattro ore di ritardo fatali dato che la prima notizia sull’avvenuta tragedia è stata data da Parete tramite sms ad un amico, Quintino Marcella, alle 17.40. Perché l’invio dello spazzaneve è stato ritardato? Seconda area grigia riguarda poi la tempestività della messa in moto della macchina dei soccorsi. "Quando ho dato l’allarme all’inizio non volevano credermi, la dirigente della prefettura di Pescara per due volte mi ha risposto che non era successo nulla" ha raccontato Quintino Marcella (come testimoniato dall'audio video di sopra). La partenza della carovana dei soccorsi è avvenuta intorno alle ore 20 come documentato dalla diretta dell'emittente televisiva locale Il Centro. Dal momento dell'invio dell’sms di allarme di Giampiero Parete a Quintino Marcella alla messa in moto dei soccorsi sono trascorse perciò oltre 2 ore. Si poteva fare più in fretta? I primi soccorritori sono giunti all’Hotel poco prima delle 4 e mezzo del mattino. Sulle operazioni hanno inciso le terribili condizioni meteorologiche. I mezzi di soccorso, comprese le ambulanze, diretti all'hotel Rigopiano sono rimasti bloccati a circa 9 chilometri dall'albergo. La neve caduta, almeno due metri, ha impedito loro di proseguire. I soccorritori hanno dovuto marciare per ore nella neve. Durante le operazioni non sono però mancati gli imprevisti. La prima colonna di soccorsi è rimasta bloccata per mancanza di gasolio e ha potuto riprendere grazie alla taniche di carburante trasportate a piedi dagli uomini della Protezione Civile. Questo rallentamento era evitabile? Secondo quanto appreso dall'Ansa l'ex base operativa degli elicotteri del Corpo Forestale dello Stato di Rieti, presso l'aeroporto Ciuffelli, nonostante l'emergenza risulta chiusa con ben tre elicotteri fermi. Il blocco, che si protrae da giorni, sarebbe dovuto al passaggio, dopo la riforma Madia, di uomini e mezzi della Forestale ai Carabinieri e ai Vigili del Fuoco. Durante l'emergenza sisma del 24 agosto la base e il suo personale avevano garantito l'operatività con decine di interventi di soccorso nelle zone terremotate, anche a supporto delle squadre del Soccorso Alpino. Sarebbe stato possibile superare gli impedimenti burocratici e far volare gli elicotteri? Altro aspetto poco chiaro che sarà sicuramente approfondito dalla magistratura riguarda l'allerta valanghe emesso giorni fa dal Meteomont, cioè il servizio nazionale prevenzione neve e valanghe, che indicava livello 4, il massimo è 5, di pericolo nella zona del Gran Sasso. Il rischio emesso è stato rispettato o valutato? C'erano le condizioni per far emettere dagli enti locali le ordinanze di evacuazione nelle zone a rischio? Gli uomini delle istituzioni hanno respinto qualsiasi accusa. “In azione uomini valorosi che hanno lavorato in condizioni al limite” ha affermato il numero uno della Protezione Civile Fabrizio Curcio. “Situazione eccezionale” gli ha fatto eco il ministro dei Trasporti Graziano Delrio. Per il premier Gentiloni si è creata una "tenaglia senza precedenti" tra terremoto e maltempo e “di fronte a questa morsa tutte le istituzione dello Stato si sono mobilitate". Ma il fronte istituzionale non è compatto. La presidente della Camera, Laura Boldrini ha definito “intollerabili le inefficienze e i ritardi sugli aiuti”. Anche l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso ha utilizzato parole dure riferendosi all’emergenza maltempo che imperversa nelle zone terremotate parlando di “Stato assente” e di "punto più basso" per la macchina dei soccorsi. Gli uomini che ieri hanno marciato tra muri di neve e un vento gelido per arrivare il prima possibile all'hotel Rigopiano sono degli eroi. Questo va detto senza se e senza ma. Purtroppo però l'eroismo dei singoli non basta se chi guida la macchina dei soccorsi non è efficiente al 100%. Sarà compito della magistratura fare chiarezza su quanto accaduto e dare una risposta ai dubbi che purtroppo rimangono nonostante le rassicurazioni dei vertici istituzionali. 

Soccorsi in ritardo. La scoperta imbarazzante: la verità sulla turbina rotta, scrive il 22 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Sarà l'inchiesta della procura di Pescara a chiarire se la tragedia dell'hoterl Rigopiano poteva essere evitata e chi non ha fatto fino in fondo il proprio dovere. Nel giorno dei primi interrogatori e del sopralluogo dei magistrati sull'area del disastro, il procuratore Cristina Tedeschini concentra l'attenzione su chi aveva il compito di disporre l'evacuazione dell'albergo, dopo che era stata diramata l'allerta meteo, e chi poi doveva liberare le vie d'accesso. Nel mirino ci sono le comunicazioni partite dall'hotel nelle ore precedenti la slavina di mercoledì scorso, oltre che quelle partite dalla provincia verso Palazzo Chigi. Tra le attrezzatture a disposizione della provincia di Pescara è noto che ci fosse una sola turbina del 1988, oltre che un Unimog, un camioncino in grado di tagliare l'erba d'estate e spalare la neve d'inverno, nelle disponibilità dell'ente pescarese dal 2000. Questo mezzo però si è rotto lo scorso 7 gennaio e da allora nessuno avrebbe autorizzato la spesa, variabile tra i 10 mila e i 25 mila euro, per poterlo riparare, nonostante la neve fosse cominciata a cadere copiosa. Uno dei dettagli che i magistrati dovranno chiarire è il motivo per cui dopo le richieste d'aiuto siano passate diverse ore prima che i mezzi di soccorso si muovessero. L'allarme del cuoco di Rigopiano è partito alle 17.40, raccolto dal suo datore di lavoro, Quintino Marcello che a sua volta ha chiamato la Prefettura. Alle 18, quando ormai l'emergenza è conclamata, l'Anas riceve la richiesta di una turbina idonea, l'unica funzionante in zona, visto che quella della provincia è inutilizzabile. Quel mezzo però doveva fare gasolio e svolgere tutta una serie di adempimenti tecnici, quindi è arrivato sulla strada provinciale solo alle 19.30. Ha dovuto superare 28 km ostruiti da neve, detriti, rami sechi per raggiungere la destinazione 12 ore dopo.

L'inchiesta: una turbina rotta da 12 giorni e l'altra ferma nel parcheggio. I primi testimoni rivelano: nessun mezzo a Rigopiano e uno lasciato spento a Penne. L'ansia dei clienti dopo le scosse, la mail del direttore: "Sono terrorizzati, vogliono stare fuori", scrive il 22 gennaio 2017 “La Repubblica”. Nel giorno della valanga sull’Hotel Rigopiano, una turbina della Provincia di Pescara avrebbe dovuto ripulire la neve proprio nella zona del resort di Farindola. Ma è stato impossibile: quella turbina è rotta dal 6 gennaio scorso ed è ferma in un’officina. Un’altra turbina sarebbe stata pronta a intervenire già dal primo pomeriggio dello stesso mercoledì ma è rimasta ferma a Penne in attesa di ordini che non sono mai arrivati. Sembra una favola e, invece, lo hanno raccontato i primi testimoni chiamati dai carabinieri del Nucleo investigativo e dai forestali. L’inchiesta, per omicidio colposo plurimo e disastro colposo, punta dritta alla strada bloccata da un muro di neve. Quel muro che ha rallentato la corsa dei soccorsi. Turbina rotta e strada bloccata: la procura va a caccia dei responsabili. E presto potrebbero partire i primi avvisi di garanzia. Quello che è successo dopo le scosse di terremoto della mattina e prima della slavina (intorno alle 17) è scritto nella mail spedita dall’amministratore dell’albergo Bruno Di Tommaso alla Provincia, alla Prefettura, alla polizia provinciale e al Comune di Farindola intorno alle 13. La mail, sequestrata dagli investigatori, racconta la paura dei clienti: «I clienti sono terrorizzati dalle scosse sismiche e hanno deciso di restare all’aperto. Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino alla ss 42». E poi, «chiediamo di predisporre un intervento al riguardo». I racconti dei testimoni dicono che la Provincia ha due turbine: una a Passo Lanciano e l’altra a Rigopiano. Ma la turbina di Farindola è rotta dal 6 gennaio scorso e la Provincia non avrebbe i soldi per aggiustarla: una cifra compresa tra 10 e 25 mila euro. E, dal 6 fino al 18 gennaio, giorno della tragedia, nessuno ha pensato di sostituire quel mezzo con un altro e lasciando scoperta la zona di Farindola. Nonostante l’allerta meteo della Protezione civile sulle forti nevicate in arrivo; nonostante l’allerta valanghe che a partire da lunedì scorso segnala un pericolo sempre crescente; nonostante le scosse di terremoto del 18 gennaio che a Farindola si sono sentite forti. Dodici giorni di niente, poi, la tragedia. Eppure, proprio nella mattinata di mercoledì, un’altra turbina, dell’Anas, ha spalato neve anche nell’area vestina, lungo la strada statale 81 a Penne che è di competenza dell’Anas. Poi, in attesa di indicazioni dalla Prefettura di Pescara, nel primo pomeriggio, la turbina è rimasta ferma nel parcheggio della casa cantoniera di Penne. Impossibile non notarla e così hanno riferito i testimoni agli inquirenti. Se fosse stata avvertita, la turbina dell’Anas avrebbe potuto pulire in tempo anche la strada per Rigopiano? Forse sì: secondo l’Anas, nella stessa giornata, la turbina ha lavorato anche a Guardiagrele, Bucchianico, Fara Filiorum Petri, Pianella e, infine, a Penne. Farindola dista da Penne 20 chilometri. Ieri mattina, il procuratore capo Cristina Tedeschini e il pm Andrea Papalia sono andati sul luogo della tragedia, accompagnati dal comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri Massimiliano Di Pietro e dal tenente colonnello dei carabinieri forestali Annamaria Angelozzi. Una visita per studiare di persona l’albergo distrutto dalla slavina. «È una ferita grande per l’Abruzzo, questi sono morti nostri». Poi, la Tedeschini ha parlato del rischio valanghe e del conseguente disastro colposo: «Le valanghe sono cicliche: prima o poi ritornano. Ci sono luoghi dove le valanghe sono elemento costituente. Ecco perché bisogna capire cosa sia stato fatto al di là del semplice censimento del rischio, ossia: chi censisce i rischi e come li gestisce. Il solo censimento di un luogo a rischio valanga potrebbe non bastare». Il pm Papalia ha conferito al medico legale Ildo Polidoro l’incarico delle autopsie. 

Terremoto Centro Italia, sindaci del Teramano: “Lasciati soli, senza elettricità. Gli spazzaneve? Abbiamo dovuto noleggiarli”. Tanti Comuni abruzzesi sono senza energia elettrica e con i cittadini bloccati dalla neve alta 3 metri. "Impreparazione imbarazzante nel coordinare i lavori. La nevicata era prevista, mica come il terremoto", dice il primo cittadino di Valle Castellana. A Prati di Tivo un assessore ha accolto tutti gli abitanti del paese nel suo hotel. La turbina che dovrebbe liberarli è ferma a Pietracamela. Antonio Paride Ciotti, che amministra Villa Santa Lucia: "Case a rischio slavina", scrive Valerio Valentini il 21 gennaio 2017 "Il Fatto Quotidiano". “Rigopiano è senz’altro la tragedia peggiore. Ma non è sola”. Tra le poche cose che Giuseppe Del Papa, il sindaco di Cellino Attanasio, riesce a dire, prima che la comunicazione s’interrompa, c’è questa. La linea è molto disturbata: c’è tempo solo per comunicare le informazioni più importanti. Ed evidentemente, per il primo cittadino di questo piccolo Comune del Teramano, rivendicare l’attenzione dei media è una priorità: “Non possiamo permettere che un solo evento, per quanto impressionante, oscuri la sofferenza di altre migliaia di persone”.

Non c’è solo Rigopiano. Parlando con i cittadini e gli amministratori di tanti Comuni abruzzesi arroccati tutt’intorno al massiccio del Gran Sasso, sui versanti aquilano e teramano, ce lo si sente ripetere decine di volte. “Raccontate anche i nostri drammi”. Storie di paesi e frazioni isolate, di strade sommerse dalla neve, di attese e di rabbia per aiuti che sembrano non giungere mai, o che quando finalmente arrivano si presentano sotto la forma di mezzi vecchi e inadeguati, ruspe che non servono o turbine che s’inceppano dopo pochi minuti di lavoro. Drammi che piccoli lo sono soltanto se si fa riferimento alla dimensione dei paesini che li vivono; storie periferiche solo perché i nomi di certi Comuni – Cermignano, Pietracamela, Capitignano – suonano così strani, quasi esotici. Ma l’emergenza che queste comunità stanno affrontando è reale: terremoto e maltempo hanno condannato all’isolamento e al buio, per giorni, un numero impensabile di cittadini dell’entroterra abruzzese. E se nel nord della provincia dell’Aquila, nei pressi dell’epicentro delle scosse del 18 gennaio, la situazione va lentamente migliorando, alle pendici dei Monti della Laga, ai confini con le Marche, e un po’ dovunque nella Val Vomano le testimonianze che si raccolgono sono preoccupanti. “L’emergenza è grave, e le forze in campo per risolverla insufficienti”, ammette chi è impegnato in queste ore nella sala operativa allestita dalla Prefettura di Teramo. “Inutile girarci intorno. Se si evita di fare polemica, è solo per calcoli politici: molti sindaci, e magari anche qualche alto dirigente della Provincia, non se la sentono di sparare contro il proprio stesso partito”.

Valle Castellana. L’intero paese isolato con una bimba malata. Il sindaco: “Ieri ho sbroccato con la Protezione civile, ma non è servito” – Era già stato duramente colpito dai terremoti del 24 agosto e del 20 ottobre scorsi, questo Comune teramano di meno di mille abitanti a una manciata di chilometri dal confine marchigiano. “Ma la tragedia, stavolta, è anche peggiore”, dice al telefono un residente di Valle Castellana, prima che la telefonata s’interrompa. Da lunedì 16 gennaio, gli abitanti del paese sono tagliati fuori dal mondo, privi di energia elettrica e bloccati da cumuli di neve alti fino a 3 metri, nelle frazioni più montagnose. Come Pietralata, dove una bimba soffre da giorni, pare, di febbre altissima. Pare, perché le notizie sono frammentate: riuscire a parlare con chi si trova lì è praticamente impossibile. A risponde subito, al telefono, è invece il sindaco, Vincenzo Esposito, che è a Teramo per richiedere l’intervento dell’Esercito e della Protezione civile. Ed è furioso: “Ieri ho sbroccato durante una riunione qui alla sala operativa. C’è una impreparazione imbarazzante nel coordinare i lavori. Le attese sono enormi, e la nevicata era abbondantemente prevista: mica come il terremoto”. Il tutto aumenta la frustrazione. “Ricevo telefonate dei miei concittadini che mi rivolgono preghiere, lacrime, insulti. Non ce la faccio più”. Solo nella serata di venerdì, tramite un elicottero dell’esercito, sono stati portati i primi medicinali ai residenti di Pietralta e Valle Castellana. Ma per aprire una via d’accesso, e di fuga, ci servirà ancora tempo. I tecnici dell’Enel parlano di lavori che procedono a rilento anche per il rischio continuo di slavine e valanghe. Da Trento sono arrivate delle turbine: ma sulla strada da Ascoli a Valle Castellana hanno subìto dei guasti e sono state costrette a fermarsi.

Prati di Tivo. L’assessore accoglie tutti nel suo albergo: “Siamo 23, tra cui un cardiopatico. Siamo salvi, ma c’è il rischio di slavine” – Mirko De Luca è l’assessore al Turismo di Pietracamela, borgo montano di 271 abitanti: il comune più piccolo della provincia di Teramo. Ma Mirko De Luca è anche il gestore di un hotel che si trova nella frazione di Prati di Tivo, a due passi dagli impianti sciistici. È in questo hotel che De Luca ha accolto tutti gli abitanti del paese: “Con il nostro gatto delle nevi siamo andati a recuperare casa per casa, residence per residence, tutte le 23 persone che ora stanno qui da noi. Da più di 5 giorni, con 4 metri di neve e le minime che sfiorano i meno 10. Per fortuna siamo riusciti a far partire il generatore elettrico del mio albergo, e ora attendiamo i soccorsi”. Che però tardano ad arrivare. “Venerdì mattina siamo stati raggiunti da un elicottero dei Vigili del Fuoco: ne sono scesi 4 pompieri per verificare quale fosse la nostra condizione. Ci sarebbe poi una turbina, che però è ferma a Pietracamela e, ci dicono, dovrà lavorare almeno per 20 ore, salvo imprevisti, per venirci a liberare”. Prima del tardo pomeriggio di sabato, dunque, inutile sperare. “Tra noi c’è anche un cardiopatico: non accusa gravi problemi, per ora, ma comunque non stiamo tranquilli. E poi c’è l’altro rischio”. Quale? “Quello delle slavine. Nelle scorse ore se ne è già staccata una molto grande, che fortunatamente non ha investito il centro abitato. Ma altre potrebbero verificarsene. La situazione è molto difficile”.

Isola del Gran Sasso, dove l’isolamento è totale. “Un anziano è morto sotto un capannone. Strutture d’emergenza allertare in ritardo” – Se negli altri Comuni sommersi dalla neve un contatto, benché a fatica, lo riesce a stabilire, con Isola del Gran Sasso – 5mila abitanti e il santuario di San Gabriele come centro di gravità – non sembra proprio possibile. Neppure per la stessa Prefettura di Teramo. “Il sindaco? Neanche noi riusciamo a comunicarci in modo stabile. Sono saltati i ponti radio. Non funzionano né i fissi né i mobili”. Soltanto nella mattinata di sabato una residente, che a Isola gestisce un ristorante, riesce a rispondere via WahtsApp: “La situazione è drastica. Un uomo anziano è morto sotto un capannone. Intere frazioni sono del tutto isolate. Le linee telefoniche sono saltate. Vediamo arrivare solo adesso i primi soccorsi, grazie all’Esercito”. Dopo 6 giorni dall’inizio dell’emergenza. Come se lo spiegano, a Isola del Gran Sasso, questo ritardo? “Le nevicate sono state oggettivamente straordinarie. Ma qui erano previste. Le strutture dei soccorsi sono state allertare in ritardo”. Il cellulare del primo cittadino Roberto De Marco, nel frattempo, continua a risultare irraggiungibile. Ma tutto ciò non vale solo per i giornalisti. Roberto è un universitario nato e cresciuto a Isola che ora studia a Bologna: “E’ da giorni che va avanti così. Provo ad avere notizie dei miei famigliari, ma non riesco a parlarci a telefono”. La ricerca di amici e parenti corre allora su Facebook, su pagine collettive dove si chiede conto di una cugina, di una amica invalida, di una zia ultranovantenne, dove s’invoca l’intervento di un medico. Si organizzano perfino delle staffette: “Per favore, ogni due ore qualcuno si rechi nella stazione dei Carabinieri a riportare ciò che ci diciamo online, perché lì sono senza telefono e senza internet”.

Cellino Attansaio e Cermignano. “Siamo abbandonati a noi stessi. Proviamo a sbrigarcela da soli” – Quando scopre che a contattarlo è un sito web, il sindaco di Cermignano non trattiene un urlo di sollievo: “Finalmente! Ma allora esiste qualcuno che s’interessa di noi!”. È un sollievo amaro, però, quello di Santino Di Valerio, che subito si corrompe in protesta: “Siamo stati abbandonati da tutti. C’è un’incapacità a tutti i livelli: non capiscono il dramma che stiamo vivendo. Gli aiuti arrivano in ritardo, e calati dall’alto. Il risultato è che l’emergenza viene gestita da persone che qui non hanno mai messo piede”. Cermignano è un Comune di circa 1.700 abitanti a metà strada tra Teramo e Atri. L’isolamento in cui si trova da domenica notte è lo stesso che patisce, pochi chilometri più a est, Cellino Attanasio. Il primo cittadino, Giuseppe Del Papa, al telefono sfoga una rabbia che è quasi desolazione: “Ma che Italia è questa? Non sappiamo più nemmeno affrontare una nevicata a gennaio che, per quanto straordinaria, era comunque ampiamente prevista? Riceviamo aiuti col contagocce, senza un minimo di coordinamento e per giunta attraverso macchinari obsoleti”. A Cellino una turbina è arrivata, infatti, ma si è rotta dopo pochi minuti di attività. “Era vecchissima”, sentenzia Del Papa, che prosegue: “Ci sentiamo lasciati soli. Alla fine abbiamo provveduto in proprio: abbiamo noleggiato da ditte private dei mezzi spalaneve. Ma aprire così le vie nel centro storico sarà difficilissimo. E nel frattempo, da ormai quasi una settimana, restiamo senza energia elettrica”. Chi può, da questi paesi scappa, nell’attesa che si superi la crisi. Come Cesare, che venerdì mattina è riuscito a raggiungere la Statale e ha portato i suoi genitori sulla costa: “Ma io sono fortunato, perché abito vicino alla strada principale. Chi sta nelle frazioni interne, è condannato a restare”.

Villa Santa Lucia, a pochi chilometri da Farindola. “Una slavina minaccia il centro abitato” – “Magari la valanga non investirà le case: ma preferisco lanciare un allarme di troppo piuttosto che correre il rischio di dover contare i morti”. Antonio Paride Ciotti, sindaco di Villa Santa Lucia, risponde così quando gli si chiede se davvero il suo Comune possa essere travolto dalla slavina staccatasi da Monte Cappucciata. E del resto Rigopiano è a pochi chilometri di distanza, impossibile non fare paragoni. Anche se qui siamo in provincia dell’Aquila, non lontani dalla Rocca di Calascio, set di molti film e pubblicità. “Per il momento la slavina è a distanza dalle case. Ma per precauzione ha chiesto una verifica alle forze dell’ordine. Monitoriamo l’evolversi della situazione”. Gli abitanti di Villa Santa Lucia, poco più di cento, da giovedì hanno ritrovato anche la corrente elettrica, grazie a dei gruppi elettrogeni. Una delle strade che porta a paese è ormai sgombra: “Si va verso il meglio, speriamo”.

Capitignano e Campotosto: “Non più isolati, ma le scosse non si fermano. Situazione difficilissima” – Sull’altro versante del massiccio del Gran Sasso c’è l’epicentro del terremoto del 18 gennaio. Montereale è rimasto bloccato per quasi 2 giorni, la strada che saliva dall’Aquila era bloccata all’altezza di Arischia. Ancor più grave, però la situazione a Campotosto, Comune di 540 abitanti sparsi nelle varie frazioni tutt’intorno all’omonimo lago: a 1.400 metri d’altitudine. La vicesindaco Gaetana D’Alessio mercoledì aveva protestato: “Sentiamo scosse in continuazione, ma siamo impossibilitati a uscire: siamo bloccati dentro casa, come i topi”. Due giorni dopo appare più serena. Quando risponde al telefono sono le 18 di venerdì: la strada Provinciale da Aringo ormai è percorribile, la Statale 80 quasi. Solo la via verso la frazione di Mascioni rimane in parte non accessibile. Roberto, che lì ha la sua seconda casa, è arrivato dall’Aquila per recuperare alcune cose all’interno: “Non mi è stato permesso. Ma spero che tutto si sblocchi entro il fine settimana”. D’Alessio precisa: “I ritardi sono stati tanti e gravi. Ma c’è da dire che l’emergenza era davvero estesa. La cosa più pesante da sopportare, ora, è il prolungarsi dello sciame sismico. La situazione, pure dal punto di vista psicologico, è difficilissima”.

Anche a Capitignano, nel fondovalle tra Campotosto e Montereale, è ormai la paura il nemico peggiore. Le vie d’accesso al paese sono state aperte, agli sfollati sono stati assegnati degli alloggi nei progetti C.A.S.E. dell’Aquila: quelli costruiti dopo il terremoto del 2009, e ora in parte vuoti. “Il disagio c’è, ma è sempre meglio che restare in un palazzetto dello sport ammassati tutti insieme”, confessano i residenti. Luigi, uno di loro, mentre è in fila per fare richiesta di un alloggio, precisa: “Per le perizie e i controlli alle strutture ci sarà tempo. Ora pensiamo a smaltire il ricordo di quello che abbiamo vissuto pochi giorni fa: sentire le mura della propria casa tremare sotto i colpi del terremoto e sapere di non poter scappare perché fuori dal portone ci sono cumuli di neve, non è bello. Ma tutto si supera”.

Rigopiano, la rabbia del papà di Stefano: ​"Se è morto faccio una strage". Dopo la disgrazia dell'hotel di Rigopiano, la rabbia dei familiari per le mancate comunicazioni e le lamentele per la gestione dell'emergenza, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Non si dà pace Alessio Feniello, il papà di Stefano, 28enne ancora disperso sotto la valanga dell'hotel di Rigopiano. Già ieri, dopo aver parlato con Francesca Bronzi, la fidanzata di suo figlio, aveva esternato tutta la sua rabbia per la gestione dell'emergenza. "I morti sono stati uccisi", ha urlato ai microfoni dei giornalisti, mettendo in stato di accusa chi non era riuscito a salvare i morti e i dispersi. La fidanzata di suo figlio, infatti, gli ha spiegato di essere stata a fianco del ragazzo per molto tempo e di averlo illuminato con una torcia del cellulare finché ha retto la batteria. A far scattare la rabbia di Alessio Feniello è stato un errore della Protezione Civile nel comunicare l'elenco dei superstiti. Stefano sarebbe finito nella lista dei miracolati per errore, quando invece ancora lottava tra la vita e la morte sotto la coltre di neve. Alessio ora parla di "arroganza e prepotenza" delle Istituzioni. "È arrivato il prefetto, insieme al presidente della Regione Abruzzo e del Questore, che con arroganza ci ha detto: 'È vero solo ciò che vi diciamo noi, tutto il resto sono cazzate", racconta. Il prefetto ha fatto i nomi dei superstiti, inserendo anche quello di Stefano. Ma il giorno successivo, all'arrivo delle ambulanze, nessuna di queste trasportava Stefano. Perché in realtà non era tra i superstiti. "Hanno agito con arroganza e senza umanità verso un padre che ha il figlio sotto le macerie", urla il papà. Poi aggiunge: "Mi aspettavo che qualcuno mi dicesse che si era trattato di un errore". Da tre giorni i familiari dei dispersi e dei defunti attendono comunicazioni ufficiali. Vorrebbero sapere se i loro cari sono vivi, se ci sono speranze o se tutto è ormai perduto. "Quelli che sono morti sono stati uccisi e quelli che ancora non trovano sono stati sequestrati contro la propria volontà, perché volevano ripartire e avevano già fatto le valigie. Li hanno messi tutti nella sala camino come carne da macello - incalza - la responsabilità è delle autorità", aveva detto ieri il papà di Stefano. Ma ora, come riporta il Messaggero, affonda: "Se mio figlio è morto faccio una strage".

Strage Hotel Rigopiano, il papà di Stefano: «andrò avanti all’infinito per avere giustizia». «A chi devo dire grazie Al presidente di regione? Al prefetto? Al direttore dell’hotel?», scrive il 26 Gennaio 2017 "Prima da Noi". Identificato anche Stefano Feniello, il giovane inserito nella lista dei vivi. Il dramma doppio dei Feniello: «mio figlio sotto le macerie, nessuno è sceso a recuperarlo». «Perché nessuno si è attivato per tempo e li ha liberati? Perché lassù non c’era il figlio del prefetto, non c’era il figlio di un magistrato, non c’era il figlio del senatore. C’era solo la povera gente che si faceva una vacanza con i risparmi guadagnati con i sacrifici». Alessio Feniello, papà di Stefano, tra le vittime già estratte da quello che resta dell’hotel Rigopiano, è tornato nuovamente a gridare la sua rabbia per quello che è accaduto a Farindola. Dopo la tragica beffa dei giorni scorsi, quando la prefettura gli ha annunciato per errore che il figlio era vivo, adesso chiede con tutta la voce che ha in corpo che venga fuori la verità. E ha fatto una promessa: «andrò avanti all’infinito, mi venderò tutte le proprietà che ho se serve. Non voglio soldi, voglio solo giustizia, voglio che in Italia non accada più quello che è successo lì sopra». Secondo Feniello le responsabilità sono molteplici, non solo da parte delle istituzioni ma anche dei gestori dell’hotel perché «un 4 stelle deve avere un gatto delle nevi, deve avere un trattore, anche quello dei contadini. Non esiste che si fa ridurre quella strada in quello stato. Se l’Abruzzo non è in grado di gestire questa situazione deve chiudere gli alberghi». Papà Feniello è stremato. Ormai da una settimana vive nell’ospedale di Pescara. Così anche ieri quando il corpo di suo figlio è stato trasportato a Chieti per l’autopsia. Le sale del nosocomio di Pescara sono infatti impraticabile perché in ristrutturazione e quindi è stato necessario il trasferimento. La mamma non affronta le tv ma ieri ha voluto incontrare i vigili del fuoco perché ha voluto sapere come sono andate veramente le cose, se il suo Stefano ha sofferto. «Ho al polso l’orologio di mio figlio e il suo braccialetto. Al collo ho la sua catenina. Questo è tutto quello che mi è rimasto di lui. Chi devo ringraziare? Grazie a Bruno, il direttore dell'hotel? Grazie al presidente della Regione? Grazie al prefetto?» Feniello vuole verità e giustizia e si domanda chi dovesse intervenire prima della tragedia a recuperare quelle persone lassù in montagna: «chi sono i responsabili? Chi deve evitare che accada questo nel 2017? Di chi è la responsabilità? Non dovevano farli salire. Mio figlio prima di partire ha mandato una mail all'hotel che gli ha risposto di non preoccuparsi perchè garantivano il servizio. Al cantante del Volo, Gianluca Ginoble, invece, lo stesso giorno l'hotel ha mandato un messaggio in cui si diceva di non andare. E' una vergogna. Il sindaco ha chiuso le scuole per la neve, ma non ha chiuso l'hotel. Perche'?». Alessio Feniello poi ha parlato di «un prefetto che mi viene ad annunciare la sera che tra i cinque nomi dei superstiti c'è anche quello di mio figlio e che fino alla sera del giorno dopo non ha avuto la dignità e il coraggio di venirmi a dire 'ci siamo sbagliati'. Gli ho chiesto informazioni e mi ha risposto con arroganza, mi ha liquidato come uno straccio. Che persone sono queste? A chi paghiamo lo stipendio? A delle persone disumane». Feniello se la prende anche con il sindaco di Farindola che ha incontrato la mattina del 19 gennaio quando è arrivato a 50 metri dall’hotel insieme alla carovana dei soccorsi: «mi ha detto ‘siamo abituati a questa cosa. In caso di emergenza mandiamo i viveri su’. Ma quali viveri… si doveva preoccupare di liberare quelle persone. Ora qualcuno dovrà pagare, non voglio soldi, voglio solo giustizia».

L'ira dei parenti in lacrime «Morti? Ce li hanno uccisi» I pm: «Ritardi da valutare». A Rigopiano estratto il corpo della settima vittima La Procura indaga per omicidio e disastro colposo, scrive Stefano Zurlo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Ora la cronaca lascia il posto all'inchiesta. E al corredo di polemiche che la tragedia si porta puntualmente dietro, come tutti i disastri italiani. Certo, si scava ancora fra le rovine del Rigopiano ma la fiammella è quasi spenta. E la contabilità del dolore si muove appena: dopo il ritrovamento vicino alla zona cucina di una donna, i morti ufficiali non sono più 6 ma 7 e di conseguenza calano i dispersi, termine sempre più logoro, scesi a 22. Undici i sopravvissuti. Dunque, in primo piano c'è l'indagine, alimentata a sua volta da retroscena, rivelazioni, persino dagli sfoghi dei parenti delle vittime. Alessio Feniello, il papà di Stefano che per qualche ora era stato dato per vivo e invece è svanito nelle viscere dell'hotel, è durissimo: «Quelli che sono morti sono stati uccisi. Sì, li hanno sequestrati contro il loro volere perché volevano rientrare. Li hanno sequestrati. Avevano le valigie pronte. Li hanno riuniti tutti vicino al caminetto come carne da macello». Gli ospiti, questo ormai è assodato, attendevano con ansia l'arrivo dello spazzaneve che avrebbe dovuto liberare la strada. Tutti, dopo le ripetute scosse, volevano andarsene al più presto ma, fra ritardi e difficoltà, il mezzo tanto atteso non è mai arrivato. O meglio, è stato anticipato dall'immane valanga che nel pomeriggio di mercoledì si è abbattuta sulla struttura, travolgendola. E ora il padre attende una parola definitiva sul destino del figlio. La fidanzata di Stefano, Francesca Bronzi, si è salvata e dall'ospedale di Pescara sembra cancellare anche quell'ultimo dubbio: «Con la luce del telefonino, finché la batteria ha retto, ho illuminato il braccio di Stefano. Si lamentava, lo chiamavo ma non rispondeva. Poi non l'ho sentito neanche più lamentarsi». Comprensibile che il genitore, illuso per qualche ora dalle autorità su un probabile lieto fine, erutti tutta la tensione accumulata. E si chieda come mai l'hotel non sia stato «liberato» in tempo dall'assedio del ghiaccio. Anche la mail spedita alle 7 del mattino dal direttore dell'albergo Bruno Di Tommaso a un nugolo di autorità accende gli animi con la sottolineatura di una «situazione preoccupante» e la richiesta di un «intervento urgente». La procura, che procede per omicidio colposo plurimo e disastro colposo, valuta tutti gli elementi ma frena nel tirare conclusioni che sarebbero premature. In particolare sul versante delle comunicazioni e dell'avvio delle ricerche nella serata di mercoledì: «Ci sono state inefficienze e interferenze - spiega il procuratore aggiunto Cristina Tedeschini - sono però da valutare gli effetti di eventuali ritardi». Il riferimento è alle telefonate fatte a ripetizione da Quintino Marcella al 118 senza però essere creduto. «Che ci sia stata - aggiunge Tedeschini - una serie di disfunzioni e magari di ritardi da parte della sala operativa nel recepire l'importanza di una segnalazione da parte di un soggetto non istituzionale è un fatto registrato. Che questo possa aver avuto una qualunque conseguenza causale sull'efficacia dell'azione di soccorso, è da vedere». Si studia il dossier senza clamori. Senza teoremi. E si aprono nuovi capitoli. Secondo la denuncia di Forum H2O Abruzzo l'hotel è stato realizzato su accumuli di detriti e precedenti valanghe. Insomma, sarebbe marchiato da un peccato originale gravissimo. D'altra parte, in un clima che a posteriori pare di incoscienza collettiva, si scopre che la mappa del rischio valanghe, prevista dalla legge del 1992, non è stata completata. Vale per l'Abruzzo come per molte altre Regioni. Ora, solo ora, tutti i nodi vengono al pettine.

Rigopiano, l’email con l’Sos ignorata dell’hotel: “I clienti sono terrorizzati, intervenite”. Il 18 gennaio, dopo le forte scosse di terremoto e poche ore prima della terribile valanga, Bruno Di Tommaso, amministratore unico e direttore dell'hotel Rigopiano, aveva inviato una mail al Prefetto di Pescara, alla polizia provinciale, al presidente della provincia ed al sindaco di Farindola, con cui si richiedeva assistenza immediata ed un intervento urgente, scrive Andrea Antinori il 23 gennaio 2017 su "Bergamo News". Il 18 gennaio, dopo le forte scosse di terremoto e poche ore prima della terribile valanga, Bruno Di Tommaso, amministratore unico e direttore dell‘hotel Rigopiano, aveva inviato una mail al Prefetto di Pescara, alla polizia provinciale, al presidente della provincia ed al sindaco di Farindola, con cui si richiedeva assistenza immediata ed un intervento urgente. “La situazione è diventata preoccupante” si legge, ed ancora: “Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzare i clienti, ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino all ss 42”. E inoltre “chiediamo di predisporre un intervento al riguardo”. Il presidente della Provincia Di Marco ha letto l’email dell’hotel Rigopiano il giorno successivo, giovedì 19 Gennaio. “Nessuno l’ha sottovalutata – dice Di Marco – io alle 14 avevo incontrato la sorella del proprietario ed avevo dato loro rassicurazioni che entro la serata sarebbe arrivata una turbina a liberare le strade. Ai fini dell’emergenza avevo già spedito una lettera al Governo nella quale chiedevo aiuto e mezzi per liberare anche quelle zone. Per me è una mail ininfluente: non ci siamo mai fermati”. La Provincia di Pescara, tuttavia, sapeva che Rigopiano era isolata, che gli spazzaneve non sarebbero potuti arrivare all’hotel e che per raggiungerlo sarebbe servita una turbina già la mattina del 18 Gennaio, grazie alle segnalazioni da parte degli operatori degli spazzaneve, intenti a pulire già alle 3 di notte e che, bloccati dalla troppa neve, si erano dovuti fermare ad un bivio che porta all’albergo. A quel punto è scattata la ricerca di una turbina, rintracciata alle 13 nell’Aquilano, ma alla quale sarebbero occorse ore per giungere nel Pescarese. A tal proposito, Di Marco afferma: “La turbina dell’Anas di Penne, che ha poi materialmente liberato la strada per Rigopiano nella notte, nel pomeriggio non era ferma ma stava ripulendo la ss 81.” Queste informazioni sono entrate nel fascisolo dell’inchiesta condotta dalla Procura di Pescara per disastro ed omicidio colposo plurimo. Intanto a Rigopiano continua incessantemente la corsa contro il tempo delle operazioni di ricerca, nonostante la nebbia e la pioggia che indurisce la neve. Il conto dei dispersi, nonostante l’accertamento della sesta vittima (si tratta di un uomo), è rimasto fermo a ventitrè: si è aggiunto, infatti, Faye Dame, senegalese regolare di 30 anni che lavorava nell’hotel.

Rigopiano, la prima drammatica telefonata del superstite al 118: “L’hotel non c’è più”. Giampiero Parete, il cuoco sopravvissuto alla tragedia del Rigopiano perché al momento della valanga si trovava fuori dall’hotel, è stato il primo a lanciare l’allarme. Al telefono ha detto che c’era stata una valanga, ma i soccorsi sono partiti solo ore dopo, scrive il 26 gennaio 2017 Susanna Picone su "Fanpage". La prima volta che Giampiero Parete, il cuoco sopravvissuto alla valanga sull’Hotel Rigopiano perché al momento del dramma si trovava fuori dalla struttura, è riuscito a mettersi in contatto con il 118 erano le 17.08 del 18 gennaio. Ma solo circa due ore dopo, alle 19.01, la macchina dei soccorsi ha capito che nella località abruzzese era successo qualcosa di grave. Lo si evince dai tabulati telefonici e dalle testimonianza rese agli inquirenti. A quell’ora, infatti, Parete riesce a parlare per la seconda volta con il 118. Nella prima di quelle drammatiche telefonate si sente Parete tentare di spiegare quanto appena accaduto a Farindola. La telefonata, agganciata dal 118 di Chieti, viene subito girata ai colleghi di Pescara. “Cosa è successo all’Hotel Rigopiano?”, chiede l’operatrice del 118 al superstite, che risponde: “C’è stata una bufera, l’hotel non c’è più, non c’è più niente. Ci sono dei dispersi, c’è stata una grossa valanga”, tenta di spiegare Parete che comunica di trovarsi insieme a un'altra persona. “È crollato l’hotel?”, chiede il 118, “è crollato tutto”, risponde il cuoco. “Per quello che può tenga il telefono libero”, si sente rispondere dal 118. Dopo la prima telefonata la Prefettura parte con le verifiche e cerca di ricontattare il cuoco ma non ci riesce, e a quel punto chiama al numero fisso dell'albergo che ovviamente non risponde perché sotto la valanga. Si cerca di allertare l'elicottero della Guardia Costiera, che però non può volare a causa del maltempo. Alle 17.40 la Prefettura riesce a contattare il direttore dell'albergo Bruno Di Tommaso che “depista” la sala operativa spiegando di aver “chattato mo' con l'albergo”, e che non gli risultava nulla di grave. Però il contatto risale almeno a un’ora prima ed è questo secondo gli inquirenti che dà vita al primo grave “equivoco” della vicenda. La sala operativa si convince che si tratta di un falso allarme. Alle 18.03 Parete riesce a mettersi in contatto con il suo amico Marcella il quale continua a chiamare 112 e 113. Ma anche questa seconda segnalazione viene considerata un falso allarme. Quando l’uomo alle 18.20 richiama gli viene risposto che è già stato tutto verificato. Poi arriva la telefonata di Parete alle 19.01. Giampiero Parete è stato poi salvato dai soccorritori arrivati con gli sci all’alba del 19 gennaio insieme all’altro superstite che come lui era fuori dall’albergo al momento della slavina, Fabio Salzetta. Il cuoco era in vacanza insieme alla moglie Adriana e i due figli Gianfilippo, di 8 anni, e Ludovica, 6 anni. Dopo oltre 40 ore di attesa l’uomo ha potuto riabbracciare tutti i suoi cari, che risultano tra gli undici sopravvissuti dell’hotel. Ventinove, invece, le vittime del dramma.

"Slavina? Inventata da imbecilli" Così è stato ignorato l'allarme. La telefonata tra Marcella e l'operatrice: "Questa storia gira da stamattina, non è successo nulla". Poi una serie di equivoci, scrive Franco Grilli, martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Non sono bastate quelle parole chiare al telefono che davano l'allarme per mettere in moto immediatamente la macchina dei soccorsi. Emerge adesso la trascrizione della telefonata tra il ristoratore, Quintino Marcella che per primo ha chiamato l'operatrice della Protezione Civile. Ecco la chiamata al 112. La telefonata chiave è quella di mercoledì 18 gennaio alle 18:20. "Sono Marcella di cognome, Quintino di nome", esordisce il ristoratore che aveva ricevuto un messaggio vocale da un amico che si trovava a Rigopiano.

Marcella: "Mi sente?"

Funzionaria: "Sì che la sento".

M: "Sono Marcella di cognome, Quintino di nome. Il mio cuoco mi ha contattato su WhatsApp cinque minuti fa, l'albergo di Rigopiano è crollato, non c'è più niente... Lui sta lì con la moglie, i bimbi piccoli... intervenite, andate lassù".

F: "Questa storia gira da stamattina. I vigili del fuoco hanno fatto le verifiche a Rigopiano, è crollata la stalla di Martinelli".

M: "No, no! Il mio cuoco mi ha contattato su WhatsApp 5 minuti fa, ha i bimbi là sotto... sta piangendo, è in macchina... lui è uno serio, per favore".

F: "Senta, non ce l'ha il suo numero? Mi lasci il numero di telefono (...). Ma è da stamattina che circola questa storia, ci risulta che solo la stalla è crollata. Che le devo dire?".

In questo scambio di frasi si consuma l'equivoco fatale: nella mattinata una scossa aveva fatto crollare il tetto di una stalla di un allevatore nei pressi di Farindola. L'operatrice quando sente la parola Rigopiano, come sottolinea Repubblica, pensa immediatamente alla stalla ed esclude l'ipotesi che ci sia qualche problema all'hotel. Così da questo momento in poi Marcella prova a far ragionare l'operatrice:

F: "Come si chiama quel cuoco?".

M: "Giampiero Pareti. È quello della pizzeria, è il figlio di Gino...".

F: "Sì, lo conosco benissimo il figlio di Gino, conosco lui, conosco la mamma. È da stamattina che gira 'sta cosa. Il 118 mi conferma che hanno parlato col direttore due ore fa, mi confermano che non è crollato niente, stanno tutti bene".

M: "Ma come è possibile?".

F: "La mamma dell'imbecille è sempre incinta. Il telefonino... si vede che gliel'hanno preso...".

M: "Ma col numero suo?".

F: "Sì".

A questo punto entra in campo un altro equivoco. Il direttore dell'hotel Di Tommaso era stato contattato dal centralino del Css per informarsi sulla situazione. Marcella aveva chiamato anche il 118 prima di chiamare il Css. Ma Di Tommaso quando viene contattato non è a Farindoli ma a Pescare e non può sapere cosa sia successo all'hotel. E così la funzionaria non crede alle parole di Marcella:

F: "Due ore fa, le confermo, al 118 hanno parlato con l'hotel. Non le dico una bugia! Ma se fosse crollato tutto, pensa che che rimarremmo qua?"

M: "Si metta in contatto col direttore...".

F: "Non so se si rende conto della situazione... Abbiamo gente in strada, gente con la dialisi, anziani. E io per lei... Provi lei a mettersi in contatto con il direttore. Non è scortesia. Arrivederci".

Il resto della storia è noto. Da lì a qualche ora la scoperta del disastro.

Hotel Rigopiano, la telefonata che frenò i soccorsi. L'amministratore alla prefettura dopo la slavina: "Li ho sentiti ora: è tutto a posto". Ma lui si trova altrove, scrive il 2 febbraio 2017 "Quotidiano.net". "L'albergo crollato? No è tutto a posto". Così l'amministratore dell'Hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso, risponde alla prefettura di Pescara che intende verificare le prime notizie arrivate al 118. La telefonata risale alle 17.40 di mercoledì 18 gennaio, quando la slavina ha già travolto la struttura. Di Tommaso in quel momento si trova altrove ma spiega alle autorità di avere da poco avuto contatti con il personale e assicura che nel resort la situazione, compatibilmente con l'enorme nevicata, è sotto controllo. Ecco la trascrizione dell'audio che viene diffuso oggi da alcune testate online. 

Funzionario prefettura: «Oh Bruno ciao, senti fammiti chiedere una cosa, tu fai il direttore su a Rigopiano?».

Di Tommaso: «Sono l'amministratore».

Funzionario: «Sai com'è la situazione su?».

Di Tommaso: «Tragica. Sto rientrando a casa in questo momento».

Funzionario: «La strada è chiusa?».

Di Tommaso: «Certo che è chiusa... ma pure Farindola».

Funzionario: «Io sto alla sala operativa della prefettura: ma tu riesci a parlare con qualcuno su?».

Di Tommaso: «No, solo whatsapp».

Funzionario: «Allora vedi un pochettino, perchè abbiamo ricevuto... aspetta un attimo che ti faccio parlare direttamente col direttore... abbiamo ricevuto una telefonata un pò strana, volevamo accertarci un attimino... Dottor Lupi dove sta? Aspetta che ti passo direttamente il dirigente, il responsabile».

Lupi: «Pronto? Sono il dottor Lupi... sono stato spesso ospite da voi, ultimamente proprio quando è successo il secondo terremoto e ho visto che la struttura è in cemento armato. Adesso abbiamo avuto una telefonata di una persona che diceva che all'hotel Rigopiano c'erano feriti per crolli, etc. Abbiamo una telefonata registrata alla nostra centrale operativa...»

Di Tommaso: «Ma no...chi l'ha fatta...»

Lupi: «...attenzione, questa telefonata registrata al nostro sistema 118... non risponde poi più.. a noi il numero ci appare sempre benchè ci si metta trucco, trucchetto, 'anonimò eccetera... Tu hai notizia?»

Di Tommaso: «Ma certo che ho notizia, no no..»

Lupi: «quindi tutto a posto...»

Di Tommaso: «cioè tutto a posto nel senso che...».

Lupi: «Benissimo, mi fa grande piacere. Tra poco a metà febbraio sarò di nuovo vostro ospite. Che devo dire? L'importante è che è sicuro che non ci sia niente».

Di Tommaso: «No.. Io sono stato fino a mò in collegamento tramite whatsapp...».

Lupi: «perfettissimo...» .

Di Tommaso: «...noi abbiamo una parabola per cui il segnale Internet è garantito, io riesco a comunicare con whatsapp. Tutto qua, insomma».

Lupi: «Perfetto…direttore mi dà un gran sollievo... Noi dobbiamo sempre accertarci, con l'aiuto qui del nostro amico comune. Va benissimo, grazie grazie».

Di Tommaso: «Niente, grazie, arrivederci».

L'allarme era arrivato al centralino di emergenza mezz'ora prima con la telefonata di Giampiero Parete, il cuoco scampato alla tragedia. Le parole di Di Tommaso tranquillizzano le autorità, che riterranno inattendibile anche l'sos successivo, quello lanciato da Quintino Marcella (documentato da un altro audio). 

Intanto prosegue l'inchiesta sulla tragedia, che al momento non vede nessun nome sul registro degli indagati. Gli esperti che hanno partecipato ai primi sopralluoghi raccontano che la valanga sarebbe stata causata dal distacco di uno strato di neve di quasi 3 metri, accumulatosi sopra un altro strato di neve particolarmente compatto che avrebbe fatto da piano di scorrimento. Un fatto re che aggiunto alla pendenza accentuata, avrebbe prodotto l'effetto slavina del 18 gennaio. 

Charlie adesso rincara la dose e pubblica la rabbia degli italiani. Dopo le polemiche per la vignetta di Charlie Hebdo sulla valanga di Rigopiano vengono pubblicati i messaggi pieni di rabbia degli italiani, scrive Luca Romano, Sabato 4/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le polemiche per la vignetta di Charlie Hebdo sulla valanga di Rigopiano con la morte in tenuta da sci, diversi vignettisti di casa nostra hanno risposto con altrettanti disegni per sottolineare quel pugno allo stomaco ricevuto dalla Francia. Ma c'è anche chi sul web ha commentato e non poco il gesto di Charlie. Pareri, commenti ed opinioni forti cariche di rabbia per quella vignetta poco opportuna con 29 morti sotto la neve. E Charlie ha abbandonato l'autocritica per riaprire il duello con l'Italia pubblicando proprio quei commenti a caldo apparsi in Italia sul web dopo la vignetta. E linkiesta.it ne ha selezionati alcuni: "Questa provocazione - scrive la "Dottoressa Myriam Ambrosini" - è uno schiaffo all’italianità. Peccato che mentre NOI esportavamo la cultura nel mondo, VOI, francesi, portavate ancora i copricapi con le corna e le pelli delle bestie per coprirvi il corpo”. E ancora: "Senza bidet, culi sporchi. Razza bastarda. Ladri di opere d’arte e di territori. Falsi vincitori della guerra, leccaculo degli Alleati. Vi auguro di morire”. C'è chi la butta ancora sul calcio: “Il gol di Materazzi a Berlino nel 2006 vi fa ancora male al culo? Massa di merde". Un duello che non accenna a spegnersi...

Charlie Hebdo risponde (di nuovo) agli italiani, scrive Federico Iarlori il 3 Febbraio 2017 su “L’Inkiesta”. C’era da aspettarselo. Dopo la risposta alle polemiche sulle (audaci) vignette pubblicate da Charlie all’epoca del terremoto di Amatrice, anche questa volta il settimanale satirico francese non è rimasto a guardare. Nuovo polverone - a causa dell’ormai famoso disegno (anch’esso audace) con la morte sugli sci -, nuova reazione pubblicata sul numero in edicola questa settimana. Anche in questo caso, la redazione di Charlie ha dimostrato di sapere come si colpisce nel vivo l’orgoglio del nemico, lasciando perdere - come era avvenuto nell’editoriale di Gérard Biard - le argomentazioni politico-amministrative e le insinuazioni su eventuali infiltrazioni mafiose, e decidendo semplicemente di tradurre alcuni dei terribili commenti ricevuti da altrettanti “lettori” italiani. Ed eccoci ancora una volta ridicolizzati davanti ai francesi. E’ stata una mossa di una finezza spietata e crudelissima, quella di recuperare dei commenti scritti a caldo, sull’onda dell’indignazione, e di sbatterli sul giornale due settimane dopo la polemica. Per me, lettore italiano (e abruzzese), è stato un bel pugno nello stomaco. Lo ammetto. Ma c’è anche un lato positivo in questa bomba ad effetto ritardato: la possibilità di analizzare a freddo l’articolo e di rendersi conto che in Italia ci vuole davvero poco per trasformare un dibattito sui limiti della satira (e/o sulla qualità editoriale e la valenza ideologica di un prodotto come Charlie) in una partita di calcio tra due nazioni, Italia e Francia, che - diciamocelo chiaramente - non perdono occasione di massacrarsi a vicenda. “[...] questa provocazione [...] - scrive la "Dottoressa Myriam Ambrosini" (notare come abbiano riportato anche il "titolo" della persona che ha scritto il commento) - è uno schiaffo all’italianità. Peccato che mentre NOI esportavamo la cultura nel mondo, VOI, francesi, portavate ancora i copricapi con le corna e le pelli delle bestie per coprirvi il corpo”. Pincopallino Jack rincara la dose: “Senza bidet, culi sporchi. Razza bastarda. Ladri di opere d’arte e di territori. Falsi vincitori della guerra, leccaculo degli Alleati. Vi auguro di morire”. Mentre il commento di Davide Rivolta ci riporta esattamente al punto di cui sopra: “Il gol di Materazzi a Berlino nel 2006 vi fa ancora male al culo? Massa di merde". Insomma, è giusto indignarsi per la satira di cattivo gusto, ma perché continuiamo a confondere Charlie con i francesi?

Hotel Rigopiano, la telefonista che non ha creduto all'allarme: "Ho la coscienza pulita, del resto non me ne frega niente", scrive il 25 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Suo malgrado, è una delle protagoniste della tragedia dell'Hotel Rigopiano. Lei è la donna che ha ricevuto la telefonata che segnalava che la struttura fosse stata travolta bollandola come una bufala. La donna è stata individuata dagli investigatori: si tratterebbe di una dirigente del Ccs, il Centro di coordinamento dei soccorsi. A lei il 118 ha girato la famigerata telefonata da Quintino Marcello, amico di Giampiero Parete, lo chef superstite della tragedia. Come è noto, con toni sprezzanti, non ha voluto credere a quanto denunciato. E ora, quella donna, è stata interrogata, ascoltata dagli investigatori che stanno valutando la sua posizione. E quello che la signora ha detto, forse, fa ancor più rabbia che quella maledetta telefonata. "L'importante è essere a posto con la coscienza - ha spiegato secondo quanto trapelato da fonti investigative, indiscrezioni di stampa e dalla diretta interessata -. E io lo sono. Questo è quello che mi preme. Del resto non me ne frega niente". Dritta per la sua strada, insomma. Nessun pentimento e, soprattutto, la "coscienza pulita". E ancora, a verbale ha spiegato che "mercoledì ero appena rientrata in ufficio da una malattia. Prima è scoppiata l'emergenza della neve, poi quella del terremoto. C'era bisogno di gente nell'unità di crisi e io avevo dato la mia disponibilità. Il mio compito era rispondere alle chiamate che arrivavano dall'esterno". E ancora, prosegue la signora sulla hotel travolto a cui non ha creduto, sostenendo che si trattasse di una stalla: "La storia della stalla me l'ha ricordata, mentre ero al telefono, chi era con me nella sala operativa. Eravamo in tanti, non c'ero solo io". Un riferimento molto, troppo vago con il quale, in una qualche misura, la donna sembra tentare di scaricare le responsabilità. "Piuttosto che parlare coi giornalisti - ha aggiunto - preferirei parlarne col Padre Eterno. Comunque ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante - ha ribadito - è essere a posto con la coscienza. Del resto, delle polemiche, non me ne frega nulla".

Rigopiano, la funzionaria: "Ho ignorato l’allarme? L’importante è avere la coscienza a posto". Il colloquio. La donna che non credette al primo Sos: "Chiarirò, basta polemiche", scrive Fabio Tonacci il 25 gennaio 2017 su "La Repubblica". La giornata più amara è cominciata con una telefonata all'ora di pranzo. "Era la questura, sono stata convocata", dice la funzionaria della prefettura di Pescara che ha confuso la slavina sull'hotel Rigopiano con il crollo di una stalla di pecore lì vicino. Si affaccia alla porta dell'ufficio del suo capo, comunica che deve essere sentita come testimone informata dei fatti, si infila la giacca nera pesante, prende la borsa, inforca gli occhiali neri. "Sì, sono io quella della telefonata...". Pallida in volto, evidentemente agitata, si avvia a spiegare alla polizia perché ha liquidato come bufala l'allarme di Quintino Marcella. Nei successivi 200 metri, tanta è la distanza tra prefettura e questura, la signora parla a malapena. Cerca di sfuggire alle domande, prova ad opporre un "assolutamente no" quando le si chiede di spiegare come sia potuto accadere un equivoco di tali proporzioni. "Piuttosto preferirei parlarne col Padreterno...", sbotta. Salvo poi riportare il discorso su un terreno più laico: "Ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante è avere la coscienza a posto, e io ce l'ho. Tutto il resto, le polemiche di questi giorni, non m'interessa". Ecco. Un intero stato d'animo in una frase. Ne seguono altre, alla spicciolata. Perché è evidente che non ci sta a passare come il capro espiatorio di una gestione sicuramente discutibile delle comunicazioni tra chi, in quel giorno di neve, valanghe e terremoti, stava cercando di segnalare una disgrazia e chi doveva garantire i soccorsi in modo tempestivo. "Mercoledì ero appena rientrata in ufficio da una malattia. Prima è scoppiata l'emergenza neve, poi quella del sisma. C'era bisogno di gente nell'unità di crisi (il cosiddetto Ccs, Centro coordinamento soccorsi che si attiva quella mattina stessa al piano terra della Prefettura, ndr) e ho dato la mia disponibilità". Nella sala operativa la mettono a una scrivania, in una delle tre stanzette che in quelle ore sono una sorta di suk dell'emergenza. Gente che entra, gente che esce, il telefono che non smette di squillare, richieste d'intervento su urgenze reali e segnalazioni fasulle. "Il mio compito era rispondere alle chiamate dall'esterno", racconta. Quella delle 18.20 di Quintino Marcella però non era come le altre. È vero che il direttore dell'hotel, un'ora prima, vi aveva detto che non era successo niente a Rigopiano, ma come avete fatto poi a confondere la valanga col crollo della stalla? "Non devo dare spiegazioni a lei... Nella sala operativa eravamo in tanti, non c'ero solo io". Agli investigatori, più tardi, spiegherà: "La storia della stalla me l'ha ricordata, mentre ero al telefono, qualcuno più alto in grado che era con me". La persona in questione sarebbe una dirigente di area con incarichi al vertice della prefettura. Anche lei finita al Ccs per dare una mano alla macchina dei soccorsi in quella giornata convulsa. Si sente in colpa per quello che è successo? La funzionaria, che in prefettura si occupa del settore economico e contabile, accelera ulteriormente il passo verso la questura. "Senta, ho da fare... Arrivederci". Al momento non è indagata. È vero che alle 17.30, dal Ccs, chiamarono il direttore Bruno Di Tommaso per verificare la primissima segnalazione del superstite Giampiero Parete, che al 113 aveva parlato espressamente di una valanga, del crollo dell'hotel, e di dispersi. Ed è vero pure che Di Tommaso, che trovandosi a Pescara ignorava cosa fosse realmente successo, tranquillizzò gli operatori. In ogni caso rimarrà il tono, di quella conversazione tra Marcella e la funzionaria della prefettura. Assai fuori luogo.

Ida De Cesaris: “Telefonata su hotel Rigopiano? Eravamo in tanti, coscienza pulita…”, scrive la Redazione di "Blitz Quotidiano" il 25 gennaio 2017. “Non sono io il capro espiatorio che cercate non sono io ad aver preso quella telefonata, basta ascoltare la registrazione per averne conferma. A quel tavolo eravamo in tanti, noi della prefettura, i radioamatori, i rappresentanti delle forze dell’ordine e del soccorso pubblico”. Così il viceprefetto Ida De Cesaris, ricostruisce in un’intervista al Messaggero la mancata reazione dopo l’allarme di Quintino Marcella sull’hotel Rigopiano. Nel mirino dei mezzi di informazione è finita soprattutto una funzionaria della Prefettura che non avrebbe creduto alla telefonata, tanto da confonderla per una bufala o uno scherzo. L’equivoco era nato dal fatto che pochi minuti prima era stata segnalato un allarme per una possibile valanga su una stalla. “Per tutta la giornata sono entrata e uscita dalla stanza del prefetto, dove vertici e riunioni operative si susseguivano a getto continuo – afferma De Cesaris – A un certo punto ho chiesto di deviarmi sul cellulare di servizio soltanto le telefonate dei sindaci. Non ho valutato personalmente altre richieste di soccorso perché l’esperienza mi dice che in situazioni di tale gravità, specialmente nelle comunità più piccole il primo terminale delle popolazioni sono i sindaci”. “Nessuna superficialità nella gestione di un’emergenza estremamente complessa”, rivendica. Le procedure seguite sono state corrette? “C’è un’inchiesta in corso. Di certo – risponde – non tocca ai giornali distribuire patenti di colpevolezza”.

Rigopiano, falla nei soccorsi: "Quella chiamata ricevuta per errore". Un volontario della Protezione civile ha ricevuto "per errore" la chiamata di aiuto dal Rigopiano. E ha fatto partire i soccorsi, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Che qualcosa non abbia funzionato nella catena dell'emergenza a Rigopiano è chiaro. I soccorsi non sono partiti immediatamente dopo la chiamata, allarmata, di Quintino Marcella, il capo di Giancarlo Parete, lo chef ospite dell'hotel tratto in salvo insieme alla sua famiglia. Nei giorni scorsi si è parlato della funzionaria che ha bollato come "bufala" la notizia della valanga caduta sull'albergo. Ora emerge anche la spiegazione di come si siano attivate, in ritardo, le procedure per il salvataggio dei superstiti. A spiegarlo è Massimo D'Alessio, volontario della protezione civile che ha ricevuto la chiamata di Quintino Marcella. "Avevo appena finito il turno - racconta alla Stampa - mi avevano mandato alla golena nord del fiume Pescara per monitorarne l'esondazione. Proprio per questo motivo ero passato in questura e avevo dato il cellulare. Ma non dovevo essere io a ricevere quella telefonata, è stato un errore...". La telefonata arriva "alle 18.57" e solo in quel momento scattano i soccorsi. Grazie alla rapidità di pensiero di D'Alessio. E pensare che alcune ore prima in Prefettura era stata bollata come menzogna "inventata da imbecilli". "La questura aveva il mio numero per le esondazioni - continua D'Alessio - È una procedura standard: al 113 lascia il proprio numero chi si trova più vicino all'emergenza. Solo che nel mio caso l'emergenza era il fiume, non una valanga in montagna a chilometri di distanza. È stato bravo Quintino a insistere". Quando riceve la chiamata di Quintino lo sente agitato ed "esasperato". "Gli ho detto 'aspetta un attimo, calmati, così non capisco' - racconta il volontario - Gli chiedo il nome e il cognome e cerco di tranquillizzarlo. Gli spiego che avevo necessità di avvisare almeno chi avevo intorno, non potevo certo dirgli che partivo subito io per il Rigopiano. Metto giù e chiamo il mio capo dei Volontari senza frontiere, Angelo Ferri che si attiva immediatamente, mentre io chiamo la prefettura". D'Alessio è stato sentito in questura come testimone. La procura vuole capire perché si sia atteso tanto prima di inviare i soccorsi al Rigopiano. Solo grazie a D'Alessio si è risvegliata la macchina. "Noi della Protezione civile non diciamo mai forse, non credo o cose così. Noi partiamo, subito".

Soltanto gli uomini. La tragedia e le macchine impotenti, scrive Marina Corradi venerdì 20 gennaio 2017 su "Avvenire”. l primo allarme, lanciato con un sms da un sopravvissuto. I telefoni che nell’albergo di Farindola suonano a lungo, ostinatamente muti. Ci sono più di trenta persone lassù, sotto al Gran Sasso, ma nessuno risponde. I soccorsi partono che è ormai buio. La strada è sepolta da oltre tre metri di neve, è travolta da massi, e da alberi con le radici per aria. Non ce la fanno le grosse jeep dell’Esercito, non ce la fanno nemmeno gli spazzaneve. Una colonna di mezzi di soccorso si blocca tra due muraglie di neve, i fari accesi, i lampeggianti che illuminano a intermittenza di un bagliore azzurrino la montagna ghiacciata. (E intanto, lassù, forse qualcuno è vivo, qualcuno prega, forse qualcuno aspetta). È allora che le squadre del soccorso alpino della Guardia di Finanza si mettono in marcia. C’è un video, sul web. È notte fonda ormai e attorno c’è tempesta. Si sente bene l’ululato torvo del vento fra le montagne, come una voce cattiva. Si vede bene la neve che cade, rabbiosa, a mulinelli; si immagina quasi come quei fiocchi, sulle guance degli uomini, brucino. Le jeep affondano, gli spazzaneve sono inerti, e adesso è l’ora degli uomini. Semplicemente dei piedi, delle gambe di uomini abituati alla montagna. I cingoli dei mezzi sono incrostati di ghiaccio, i motori potenti di centinaia di cavalli non muovono le ruote impantanate, l’energia elettrica è caduta. Ma le gambe degli uomini vanno invece, procedono tenacemente in questa notte d’inferno, dove il terremoto e un’onda di gelo artica si sono dati un maledetto convegno. Il cellulare di un collega inquadra i soccorritori, hanno una torcia sulla fronte e procedono a capo chino. La neve dura scricchiola sotto gli sci. Vanno di buona lena. Non c’è dubbio, almeno loro arriveranno. (I possenti motori dei mezzi di soccorso che girano in folle, il loro rombo impotente, nella notte). Quelle gambe, quelle facce in marcia sopra a tre metri di neve fanno pensare. Come anche le immagini di certi salvataggi di questi giorni, in contrade sperdute colpite dal sisma e dalla tempesta. Posti irraggiungibili perfino per le turbine degli elicotteri. Ma qualcuno dei soccorritori si è inerpicato fin lassù: le foto raccontano l’istante in cui con delicatezza sorreggono vecchi smarriti, avvolti in coperte, e tenendoli dolcemente per mano li tirano fuori dalle loro case. Le mani, ecco, quelle mani tese, dentro ai grossi guanti. Soltanto gli uomini restano, quando i motori e le tecnologie più potenti si fermano. Arrivano, certo, a fatica, con sforzi di cui non si sarebbero creduti capaci, con rabbia, in una drammatica sfida. Magari, a momenti, si teme che non ci sia più nulla da fare. (È inutile, è inutile, sibila quel vento cattivo). Eppure si va, per una testarda speranza. Chi è a casa, magari, stenta a capire. Magari si scandalizza che tante ore ci siano volute per raggiungere l’hotel sommerso dalla slavina. Chi è a casa forse arriva a polemizzare coi tempi della Protezione civile. Ma bisogna capire che cosa è un terremoto con sopra tre metri di neve, in zone impervie e disabitate o quasi. Quando i telefoni non funzionano, i motori tacciono, i cingoli si fermano, e i mezzi di soccorso si accodano, fermi, arresi. Solo pensando a questo si può capire la ostinazione di quegli uomini con gli sci ai piedi, cocciuti, nella notte. E, nei paesini feriti, lo scavare coi badili, e il prendere in braccio i vecchi intrappolati nelle cascine. Le gambe, le braccia, le mani: in una notte d’inferno restano solo gli uomini, infine. Che vanno avanti, e si affannano a rimuovere rovine. I cani non sentono più nulla, e non si muovono. Ma, forse, là sotto, protetto da una trave, qualcuno ancora respira? Quelle mani, quelle voci spezzate dalla fatica, che non si arrendono. È nei giorni d’inferno, che si riconoscono gli uomini.

L’Hotel Rigopiano costruito sui detriti della valanga del 1936. Aperta una nuova indagine sui lavori di ampliamento. Le ultime modifiche del Rigopiano avevano superato indenni l’esame della magistratura, scrive Marco Imarisio il 23 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico. Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia. «L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage. A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione». L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali. I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente. La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo». Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.

"A quelli gli abbiamo dato pure il cu...". L'inchiesta dimenticata dietro l'hotel, scrive il 24 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. La tragedia dell'hotel Rigopiano ha riportato a galla le vicende controverse legate agli ultimi anni della struttura di Farindola. Lo scorso novembre il Tribunale di Pescara ha assolto i cinque imputati - ex amministratori comunali e gli ex titolari dell'albergo - coinvolti nell'inchiesta sui presunti abusi avvenuti dopo gli ampliamenti del 2007. Oggi gli atti di quell'indagine, riporta il Tempo, sono stati acquisiti al fascicolo del procuratore capo Cristina Tedeschini e del sostituto procuratore Andrea Papalia che indagano per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. L'inchiesta del pm Varone si basava sull'accusa che l'amministrazione comunale dell'epoca, guidata da una maggioranza del Partito democratico, era "piegata" alle richieste degli imprenditori, in quel caso i cugini Del Rosso, eredi della struttura alberghiera. In un'intercettazione, per esempio, gli inquirenti avevano raccolto uno sfogo emblematico: "C'hanno manipolato come gli pare e piace, qualsiasi cosa gli serviva, pronto, pronto, pronto (...) Gli è stato dato pure il culo a livello di amministrazione, ogni richiesta esaudita e... alla fine ecco il risultato!". Nel mirino degli inquirenti era finita per esempio la delibera che sanava l'ultimo ampliamento della struttura, approvata in cambio di "promessa di versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di un partito politico", oltre che "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella società dei Del Rosso. L'unico che ha votato contro la suddetta delibera è stato un consigliere di minoranza che ha ricordato ai carabinieri come il giorno del consiglio comunale aveva ribadito la sua contrarietà: "La ditta Del Rosso, senza nessuna preventiva autorizzazione, aveva occupato abusivamente una parte del terreno". In quella seduta poi c'era un'altra situazione imbarazzante e riguardava altri membri del Consiglio: "C'erano delle incompatibilità che riguardavano alcuni consiglieri, i cui parenti all'epoca lavoravano presso l'Hotel Rigopiano: la figlia di... la nipote di..., la moglie di... e tutti e tre hanno votato favorevolmente". Dopo quella delibera, secondo la procura ci sarebbero state altre concessioni sospette e intercettazioni in cui c'erano amministratori che esortavano altri ad accelerare i tempi e a convincere anche l'opposizione perché i Del Rosso non subissero ritardi. L'assoluzione finale da parte dei giudici è stata piena con sentenza passata in giudicato, con la linea della difesa sposata in pieno: "L'ampliamento oggetto dell'indagine riguarda un terreno su cui non è stata costruita nessuna depandance dell'hotel - ha detto l'avvocato di Paolo Del Rosso, Romito Liborio - e comunque non è stato interessato dalla slavina". 

"Occhio, ci arrestano tutti quanti...". Horror: chi ha la coscienza sporca, scrive “Libero Quotidiano” il 25 gennaio 2017. Il clima tra i consiglieri di maggioranza del Comune di Farindola non appariva proprio disteso anche il giorno dopo l'approvazione della arcinota delibera che aveva permesso ai titolari dell'Hotel Rigopiano, i cugini Del Rosso, di occupare un'area di 3500 mq per 10 anni davanti alla struttura. Una situazione verificatasi nel 2007 e sanata il 30 settembre 2008 con un voto a maggioranza del Consiglio Comunale. Secondo l'accusa della procura, con quel voto favorevole dei consiglieri era arrivato in cambio di una "promessa di un versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di partito politico" e di "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella struttura alberghiera. I cinque imputati, ricorda il Tempo, sono stati assolti dall'accusa di corruzione, con sentenza passata in giudicato. Dopo il disastro dopo la slavina che ha distrutto l'hotel Rigopiano, la Procura di Pescara ha aperto una nuova indagine, contro ignoti, per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. In quei fascicoli, i procuratori Cristina Tedeschini e Andrea Papalia hanno voluto aggiungere anche gli atti del processo sull'ampliamento sospetto dell'hotel. In quelle carte, gli inquirenti avevano riportato le intercettazioni che hanno coinvolto alcuni politici locali, in particolare un ex assessore che, il giorno dopo l'approvazione della delibera - ha chiamato un ex consigliere del Pd, entrambi imputati e assolti nel processo. In quella telefonata, l'ex assessore chiedeva spiegazioni sulla telefonata della sera precedente: "Ti volevano prendere in giro - gli è stato risposto - e dirti che…te n'eri andato per consumare le ultime sere... a casa, visto che a breve mo' ci arrestano tutti quanti". Apparentemente parole dette in leggerezza, anche se i carabinieri di Penne non la pensavano così. Nell'informativa dei militari quelle dichiarazioni: "dimostrano in maniera emblematica quanto già emerso dall'attività investigativa, ovvero che la maggioranza dell'amministrazione comunale farindolese ha approvato la delibera favorevole ai Del Rosso con coscienza e volontà, sapendo perfettamente di violare leggi e regolamenti". Pochi giorni dopo, un'altra telefonata tra due politici farindolesi aveva insospettito i carabinieri: "A loro non succede niente - dice al telefono un consigliere - semmai succede a noi, ai consiglieri che hanno votato... ma a loro proprio no (i Del Rosso, ndr). Dovrebbero semmai apprezzare che questi consiglieri hanno votato... ulteriormente".

PARLA L'INGEGNERE DINO PIGNATELLI, CHE HA REDATTO IL PIANO PER IL MONTE TERMINILLO: ''AREA HOTEL NON DOVEVA ESSERE EDIFICABILE''. ''IN ABRUZZO NON ESISTE CARTA VALANGHE, LA TRAGEDIA DI RIGOPIANO ERA EVITABILE''. Scrive il 20 gennaio 2017 Marco Signori su "Abruzzo web”. "La Regione Abruzzo non ha mai adottato una Carta delle valanghe, che avrebbe ad esempio potuto scongiurare il dramma dell'hotel Rigopiano di Farindola". L'ingegnere Dino Pignatelli, esperto di impianti a fune ed esperto abilitato di valanghe con una formazione anche in Svizzera, non ha dubbi: "Anche da un'osservazione superficiale del posto si capisce che non è immune dal rischio valanghe, è sicuramente una zona esposta a valanghe, che poi negli ultimi anni non ce ne siano state non significa nulla". Mentre i soccorritori scavano ancora, nella speranza di trovare qualche sopravvissuto tra la trentina di persone che dovrebbero essere sepolte da neve e macerie, Pignatelli spiega ad AbruzzoWeb che "non c'è un serio Piano regionale valanghe, che si trasforma nella Carta che deve essere adottata dai Piani regolatori fatti dai Comuni". "Sul monte Terminillo abbiamo fatto esattamente questo, un paio d'anni fa: mappa del rischio che stabilisce le zone pericolose", racconta. "C'è tutto un sistema attraverso il quale si studiano le valanghe - spiega - Abbiamo metodologie di calcolo molto raffinate, riusciamo ad individuare con una certa precisione sia l'entità, sia l'altezza della neve accumulata, la pressione che esercita su quello che incontra e la velocità che raggiunge la neve". "Lo studio delle valanghe è oggi assolutamente puntuale e precisa nelle determinazioni", aggiunge, spiegando come "ci riferiamo alla normativa svizzera che è la più aggiornata". Tra le soluzioni che si possono adottare per difendersi, ci sono le protezioni attive e quelle passive. "Le prime vengono messe a monte - dice Pignatelli - ed impediscono la formazione di una valanga. Le seconde più a valle e sono dei deviatori, ma si tratta di opere importanti anche perché per deviare quella massa servono infrastrutture di un certo impatto". All'hotel Rigopiano di Farindola, insomma, interventi di questo tipo magari non sarebbero stati possibili, ma semmai ci fosse stata una Carta regionale delle valanghe, ragiona Pignatelli, "il Comune di Farindola avrebbe sicuramente messo quell'area tra quelle non edificabili". E la Carta delle valanghe "è sovraordinata rispetto al Piano regolatore, che deve recepirla altrimenti l'applicazione viene imposta per legge". Certo, un intervento edilizio preesistente "a livello urbanistico può essere sanato, ma possono essere imposte precauzioni e fatto un progetto per queste", come Pignatelli ha ad esempio fatto a Campo Staffi, nel comune di Filettino (Frosinone), dove "c'era un impianto che non si poteva aprire perché era stato denunciato un pericolo valanghe che in effetti c'era, e grazie a degli interventi ha potuto riaprire". Pignatelli non esclude poi che il distacco possa essere stato scatenato dalle forti scosse di terremoto registrate mercoledì mattina in Alta Valle Aterno, visto che "anche il passaggio di un aereo può produrre una valanga, quindi un elemento di trazione anomalo può senza dubbio esserci stato". "È strano che siano passate alcune ore ma anche questa è una cosa possibile", aggiunge. Non ha aiutato, nel ridurre l'impatto sull'albergo, neppure il bosco: "È troppo a valle, può aver prodotto il ritardo nell'arrivo della valanga, ma la massa di neve è un insieme compatto che tende a spingere". L'attenzione torna dunque ora sulla Carta delle valanghe che si attende dalla Regione Abruzzo: "È stato pubblicato un bando un paio d'anni fa per la sua redazione, ma è stata assegnata al massimo ribasso senza tener conto delle esperienze e dell'importanza di utilizzare metodologie di calcolo innovative", è l'amara considerazione dell'ingegnere.

"Rischio valanga su Rigopiano". Ma i lavori all’hotel partirono lo stesso. Gli allarmi degli esperti dal ‘99 fino al 2005. Poi smisero di riunirsi e scattò l’ampliamento, scrive Fabio Tonacci il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Si afferra finalmente una certezza, nella storia dell'Hotel Rigopiano e della valanga che lo ha seppellito. Quel resort di lusso, vanto e serbatoio occupazionale per i cittadini di Farindola, è stato costruito su un versante montano conosciuto per essere "soggetto a slavine". Collegato da una viabilità provinciale che, d'inverno, rimaneva più chiusa che aperta. Oggetto di un report della guida alpina Pasquale Iannetti che nel 1999, dopo un sopralluogo, scriveva: "In merito alla possibilità di caduta di masse nevose, slavine o valanghe nell'area di Rigopiano, non vi è dubbio che sia il piazzale antistante il rifugio Acerbo che la strada provinciale che porta a Vado di Sole possano essere interessate da caduta di masse nevose o valanghe". Già, proprio il rifugio Acerbo. Quello che si trova a poche decine di metri dal resort e che è stato solo sfiorato dalle tonnellate di neve venute giù il 18 gennaio. A rileggerli ora i verbali della Commissione valanghe del comune di Farindola, istituita nel 1999 e per qualche strano mistero sciolta nel 2005 quando invece sarebbe servita di più, si incontrano molte inconsapevoli Cassandre. Ecco cosa scriveva Iannetti, appena nominato consulente della neonata commissione: "La zona (parla di Rigopiano, rifugio Acerbo e la provinciale 31, ndr) deve essere tenuta sotto stretto controllo". Era il 18 marzo 1999. "Vero è che si ha memoria di un fenomeno rilevante risalente al 1959, ciò non deve essere considerato un fatto che non si possa ripetere". E poi, quasi che l'istinto gli volesse suggerire qualcosa che allora nessuno immaginava, la guida alpina Pasquale Iannetti chiudeva così il suo primo verbale: "Con questi dati la Commissione valanghe potrà fornire indicazioni certe affinché per il futuro si possa garantire la sicurezza delle infrastrutture alberghiere, delle strade e dei parcheggi di Rigopiano". Nelle carte della Commissione (acquisite dalla procura di Pescara che indaga per disastro colposo e omicidio colposo plurimo) il nome del resort Rigopiano non appare mai. Né può esserci, visto che il vecchio alberghetto estivo viene comprato, ristrutturato e ampliato tra il 2006 e il 2007. Esattamente quando il Comune ritenne con decisione incomprensibile di disfarsi dello "strumento" Commissione. Eppure non erano pochi gli elementi già raccolti, che dovevano mettere in guardia sia chi voleva costruire, sia chi doveva autorizzare l'ampliamento. Verbale del 11 marzo 1999: "La montagna di Farindola risulta soggetta a valanghe, pertanto al fine di garantire la pubblica e privata incolumità la Provincia di Pescara ha ritenuto di chiudere la strada d'accesso alla località Vado Sole da Rigopiano". Verbale del 12 marzo 1999, anticipato ieri dal quotidiano il Tempo: "Si è ritenuto opportuno di tenere sotto controllo la zona di Valle Bruciata, piazzale di sosta Rigopiano in prossimità del bivio di accesso per Castelli e Fonte della Canaluccia mediante controlli quotidiani a vista nelle ore più calde, se si notassero distacchi e principi di scivolamento si potrà prendere tempestivamente precauzioni a garanzia di eventuali calamità". Verbale del 4 marzo 2003: "La Provincia ha ritenuto di non provvedere allo sgombero della neve tra Vado Sole a Rigopiano in modo da non consentire il transito, per garantire l'incolumità pubblica e privata ". Vado Sole, Castelli, Valle Bruciata. Tutte località che si trovano più o meno nei pressi del piccolo casolare isolato non ancora divenuto resort 4 stelle. Ancora nel febbraio 2003 la commissione sottopone il caso della provinciale a valle di Rigopiano alla Scuola di Montagna abruzzese. "Il rischio valanghe su entrambi i versanti risulta di livello 4, con condizione di pericolo forte, per cui sono da aspettarsi valanghe spontanee di medie dimensione anche singole grandi", si legge nella relazione finale. In Commissione, dunque, è noto a tutti che le vie d'accesso al sito dell'albergo e località ad esso molto vicine possono rappresentare un grave pericolo per l'incolumità delle persone in certi periodi dell'anno. L'ultimo verbale, datato 24 febbraio 2005, offre uno spunto di riflessione in più. Quel giorno presiede il sindaco Massimiliano Giancaterino, che il 18 gennaio scorso nella catastrofe ha perso un fratello. "La volontà politica del Comune di Farindola è quella di tenere sgombera dalla neve la provinciale fino alla località Fonte Vetica, al fine di non precludere le attività legate al turismo invernale nella zona". Fonte Vetica ospita un rifugio e si trova sul versante opposto. Ha con l'hotel Rigopiano un paio di similarità: è difficile da raggiungere quando nevica forte; stimola l'indotto. Dall'inverno del 2005 in poi, della Commissione valanghe di Farindola si perde ogni traccia. I carabinieri forestali che stanno indagando per conto della procura non hanno trovato ulteriori verbali in Comune. Per dieci anni di fila la Prefettura di Pescara ha ribadito ai sindaci la necessità di ricostituirla, ogni volta che ha dovuto trasmettere un bollettino Meteomont di rischio 4 (su scala 5). Lo fa ancora il 10 marzo 2015, con una lettera firmata dalla vice prefetto Ida De Cesaris: "Si prega di valutare l'eventuale attivazione della Commissione, prevista dalla legge regionale del 1992". Ma la Commissione non è più risorta.

Gran Sasso: il massiccio “magico” tra tragedie ed esperimenti nucleari. Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita il traforo a doppia canna più lungo d'Europa, scrive Filomena Fotia il 20 gennaio 2017 su "Meteo Web". Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita nelle sue viscere il traforo a doppia canna più lungo d’Europa e i laboratori di ricerca sotterranei più grandi del mondo. Oltre diecimila metri di lunghezza collegano Assergi a Colledara, e permettono un collegamento veloce tra Lazio e Abruzzo. Per scavare il primo tunnel negli anni ’60 ci sono voluti centinaia di uomini, macchinari e tonnellate di esplosivo per un costo di oltre 1700 miliardi di lire. Nella realizzazione dell’opera – ricorda Maria Elena Ribezzo per LaPresse – persero la vita 11 operai. Il massiccio abruzzese è costituito per lo più da calcare permeato da enormi falde di acqua – salvo la parte verso Teramo che è costituito da rocce marnose impermeabili -. Il 15 settembre 1970, durante gli scavi, per un errore di calcolo l’escavatrice bucò l’enorme serbatoio sotterraneo di acqua. Un getto di acqua e fango dalla pressione enorme di 60 atmosfere travolse ogni cosa. La parte bassa della città di Assergi fu allagata, costringendo a una evacuazione, e il corso di molte sorgenti fu compromesso. Il livello della falda acquifera si abbassò di 600 metri e la portata delle sorgenti del Rio Arno e del Chiarino fu quasi dimezzata.  I due versanti sono paesaggisticamente opposti: quello aquilano scosceso, ma prevalentemente erboso, e quello teramano, a maggior dislivello, più aspro e roccioso. Le operazioni di disboscamento intensivo, per restituire terreno alla pastorizia per nuovi pascoli, iniziarono già tra il 16esimo e il 17esimo secolo, sconvolgendo pesantemente il paesaggio. Tanto è vero, che più volte si dovette vietare alle popolazioni del luogo di insistere nel taglio degli alberi. Questo, nei secoli, ha portato a tantissime frane. Recentemente, il 22 agosto 2006 nella parete Nord-Est (il paretone) del Corno Grande, si è verificata una frana di grandi dimensioni: da 20mila a 30mila metri quadrati di roccia si sono distaccati dal quarto pilastro. Il 23 agosto scorso, dopo il primo terremoto che ha colpito Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto e altri paesi dell’Appennino Centrale è franato un pezzo del Corno Piccolo. Gli scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica pensarono di affiancare al traforo il Laboratorio di ricerca di Fisica Nucleare, creando i più grandi laboratori sotterranei del mondo. L’intuizione venne al professore Antonino Zichichi: i 1.400 m di roccia che sovrastano i Laboratori costituiscono infatti una copertura tale da ridurre il flusso dei raggi cosmici di un fattore un milione; inoltre, il flusso di neutroni è migliaia di volte inferiore rispetto alla superficie grazie alla minima percentuale di uranio e torio nella roccia dolomitica della montagna. Situati L’Aquila e Teramo, a circa 120 chilometri da Roma, sono utilizzati come struttura a livello mondiale da scienziati provenienti da 22 paesi diversi. Al momento ci sono circa 750 persone impegnate in circa 15 esperimenti in diverse fasi di realizzazione.

Gran Sasso: tutti gli incidenti della storia. Dal XVI secolo alla tragedia dell'hotel Rigopiano. Le sciagure all'ombra della montagna, dovute al clima, alla guerra, all'uomo, scrive il 20 gennaio 2017 Edoardo Frittoli su Panorama.  

Nell'inverno 1569 una grande valanga si staccò dalle pendici sopra il passo della Portella. Fu il primo incidente sul Gran Sasso riportato dalle cronache di Francesco De Marchi, ingegnere ed alpinista (fu il primo a compiere la scalata della cima più alta della catena appenninica). Le vittime dell'incidente furono 18, travolte dalla massa nevosa in seguito alle precipitazioni eccezionali di quell'inverno.

È rimasta impressa nella memoria locale la tragedia di Fonte Vetica, sotto il Monte Bolza. Era il 13 ottobre 1919 quando il pastore Pupo Nunzio di Roio fu colto da una improvvisa bufera di neve che anticipò un rigido inverno. Con il pastore morirono i suoi due figli piccoli e la moglie che aveva disperatamente cercato di raggiungerli e che non aveva retto al dolore. Nella tormenta persero la vita anche 5.000 pecore tra gli alpeggi del Gran Sasso.

Dieci anni dopo, nel 1929, fu la volta di due studenti alpinisti rimasti bloccati dalle avverse condizioni meteorologiche. Mario Cambi ed Emilio Cichetti rimasero isolati all'interno del rifugio Garibaldi, senza che i soccorritori potessero raggiungerlo. Cicchetti morì nel tentativo di raggiungere il paese di Pietracamela quando era a meno di 3 km dall'abitato. Nel 1942 la famosa guida ampezzana Ignazio di Bona fu travolto dalla valanga nel tentativo di soccorrere alcuni sciatori rimasti bloccati nella neve.

Venne la guerra ed il Gran Sasso fu teatro della liberazione di Benito Mussolini da parte dei parà tedeschi di Otto Skorzeny. Durante l'azione nota come "Operazione Quercia" furono uccisi il carabiniere Giovanni Natali e la guardia forestale Pasqualino Vitocco, oltre a diversi feriti tedeschi causati dallo schianto di uno degli alianti atterrati a Campo Imperatore.

Passano pochi giorni dalla liberazione di Mussolini quando le pendici del Gran Sasso echeggiano il rombo assordante dei B-25 dell'Usaaf. Il loro obiettivo sono gli snodi ferroviari de L'Aquila. Dalle pance dei bombardieri piovono le bombe che generano una tragedia nella tragedia. I convogli colpiti dagli ordigni trasportavano prigionieri alleati e italiani, tra cui alcune tra le famiglie deportate dal ghetto di Roma. Muoiono oltre 200 persone.

Il 15 settembre 1970, durante gli scavi per la costruzione del traforo del Gran Sasso, la "talpa" scavatrice provocò la foratura di un serbatoio sotterraneo naturale d'acqua. La pressione altissima provoca l'allagamento di parte dell'abitato di Assergi. 

Il 16 agosto 2002 un altro incidente generato dall'opera dell'uomo: dai Laboratori dell'INFN nelle viscere del Gran Sasso fuoriescono da un recipiente 50 litri di trimetilbenzene causando l'inquinamento della falda acquifera a valle del massiccio.

PARLIAMO DI TERREMOTI.

TERREMOTO E STORIA. I terremoti più gravi in Italia, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 25 agosto 2016. Dal terremoto di Messina e Reggio, fino a quello dell’Emilia del 2012, passando per il sisma che ha distrutto l’Aquila nel 2009, ecco gli eventi sismici più gravi avvenuti in Italia a partire dal 1908.

- 28 dicembre 1908: un terremoto di magnitudo 7,2 rade al suolo Reggio Calabria e Messina e tutti i villaggi nell’area, causando quasi 100.000 morti. Si tratta della più grave sciagura naturale in Italia per numero di vittime e per intensità sismica.

- 13 gennaio 1915: un sisma di magnitudo 6,8 distrugge Avezzano e tutto il territorio della Marsica. I morti sono circa 30.000.

- 26 aprile 1917: Umbria e Toscana sono colpite da un terremoto di magnitudo 5,8. Distrutte Monterchi, Citerna e Sansepolcro. Danni a tutti i centri urbani dell’alta valle del Tevere. Tra i 30 e 40 i morti.

- 7 settembre 1920: Sisma di magnitudo 6,5 in Garfagnana e Lunigiana, in Toscana, con epicentro a Fivizzano. 300 i morti.

- 23 luglio 1930: terremoto di magnitudo 6,7 in Irpinia, in Campania: 1.425 morti.

- 15 gennaio 1968: Nella Valle del Belice, in Sicilia, vengono rasi al suolo da un terremoto di magnitudo 6,1 Gibellina, Poggioreale, Salaparuta in provincia di Trapani, e Montevago in provincia di Agrigento. Le vittime accertate sono 231.

- 6 febbraio 1971: nel Lazio la cittadina di Tuscania viene semidistrutta da un terremoto di magnitudo 4,5. 31 i morti. - 6 maggio 1976: alle 21,00 un terremoto di magnitudo 6,1 nel Friuli provoca circa 1.000 vittime. La zona più colpita è quella a nord di Udine. Ulteriori scosse l’11 e 15 settembre.

- 19 settembre 1979: un terremoto di magnitudo 5,9 colpisce la Valnerina, provocando gravi danni a Norcia, Cascia e le aree limitrofe, tra Umbria e Marche. Danni a Rieti ma anche a Roma, dove subiscono lesioni il Colosseo, l’Arco di Costantino e la colonna Antonina. Cinque i morti.

- 23 novembre 1980: alle 19,38 l’Irpinia viene sconvolta per 90 secondi da un terremoto di magnitudo 6,5. Colpita un’area di 17 mila km quadrati tra Campania e Basilicata. I morti sono 2.914.

- 7 e 11 maggio 1984: Sisma di magnitudo 5,2 in Molise, Lazio e Campania, con epicentro a San Donato Val di Comino. 7 i morti.

- 13 dicembre 1990: Sisma di magnitudo 5,1 a Santa Lucia nella Sicilia sud-orientale. Gravi danni ad Augusta e Carlentini e nella Val di Noto. 16 le vittime.

- 26 settembre 1997: Un terremoto di magnitudo 5,6, seguito da altre forti scosse nei giorni successivi colpisce di nuovo l'Umbria e le Marche: danneggiate Assisi, Colfiorito, Verchiano, Foligno, Sellano, Nocera Umbra, Camerino. 11 i morti.

- 31 ottobre-2 novembre 2002. Terremoto di magnitudo 5,4 in Molise e Puglia. A San Giuliano di Puglia crollata una scuola dove muoiono 27 bambini. In tutto i morti sono 30.

- 6 aprile 2009: Alle 3,32 L’Aquila e le zone circostanti sono colpite da un sisma di magnitudo 6,3. La scossa principale è seguita da decine di repliche di assestamento. 309 morti e 23 mila edifici distrutti.

- 20 maggio 2012: Alle 4.04 un sisma di magnitudo 5,9 colpisce per venti secondi le province di Modena e Ferrara, provocando la morte di sette persone. La scossa viene avvertita in tutto il Nord e parte del Centro Italia. Il sisma, che era stato preceduto da due forti scosse nel gennaio precedente, si ripete il 29 maggio con una magnitudo 5,8 e il 3 giugno con una nuova forte scossa da 5,1. In tutto sono sette i terremoti con magnitudo superiore a 5 e provocano complessivamente 27 morti e danni ingenti in tutta l’area.

- 24 agosto 2016: È di 297 morti il bilancio del sisma di magnitudo 6 che alle 3,36 della notte ha scosso il centro Italia, devastando una serie di centri tra Lazio, Umbria e Marche. La prima violentissima scossa ha colpito Amatrice, Accumoli (Rieti) e Arquata del Tronto (Ascoli Piceno); una seconda di magnitudo 5.4 è stata registrata alle 4,33 con epicentro tra Norcia (Perugia) e Castelsantangelo sul Nera (Macerata). Le scosse sono state avvertite anche a molti chilometri di distanza, fino a Roma e Napoli. Una devastazione «peggiore di quella dell’Aquila, mai vista una cosa così», è stata la reazione dei soccorritori. Tra le vittime ci sono molti bambini.

Un secolo di terremoti. Da Messina ad Amatrice, scrive Franco Insardà il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Gli eventi sismici più gravi, che hanno sconvolto il nostro paese dal 1908 al 2016. Paesi distrutti, facce tese, occhi persi nel vuoto e richieste di aiuto. Poi gli appelli, i soccorsi e dopo un po' le polemiche. La storia si ripete drammaticamente a ogni terremoto che, purtroppo, da secoli sconvolge la nostra penisola. Dal Friuli alla Sicilia. Improvvisamente i nomi di piccoli paesini come Gibellina, Montevago, Gemona, Conza della Campania, Lioni, Balvano, Massa Martana, San Giuliano di Puglia, Mirandola, Medolla, diventano drammaticamente famosi e familiari agli italiani e all'estero. Oggi tocca ad Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Passata, poi, la prima onda emotiva si comincia ad analizzare l'intensità della scossa, il luogo dell'epicentro, le zone colpite e poi la pietosa conta dei morti, dei feriti, dei dispersi dei senzatetto. Si fanno i confronti con quello che è successo nelle altre zone, con i finanziamenti stanziati e a che punto è la ricostruzione. E se il terremoto del Friuli, così come quello dell'Umbria e delle Marche, viene ricordato come esempio di efficienza e serietà nell'utilizzo dei fondi per la ricostruzione la stessa cosa non si può dire della Valle del Belice, dell'Irpinia e di San Giuliano di Puglia. Dal 1908 a oggi la lista degli eventi sismici è lunghissima, così come quella dei paesi distrutti e il numero delle vittime è da brividi.

Quel 28 dicembre 1908 una scossa di magnitudo 7,2 della scala Richter fece tremare per 37 secondi l'area dello Stretto di Sicilia. Le scosse e il successivo maremoto rasero al suolo Messina, Reggio e i paesi vicini. Centomila le vittime, 80mila nella sola Messina, su 140mila abitanti.

13 gennaio 1915. Un terremoto di magnitudo 7 sconvolse la valle del Fucino, distruggendo Avezzano e molti paesi della Marsica, del Lazio e della Campania. Il bilancio fu pauroso 32.160 vittime, su circa 120mila residenti. 9000 solo ad Avezzano su una popolazione complessiva di 11mila abitanti.

24 novembre 1918. Furono cento i morti a Giarre, in provincia di Catania.

29 giugno 1919. Colpita l'area del Mugello con una scossa di intensità 6,2. Circa cento le vittime.

7 dicembre 1920. Una scossa di magnitudo 6,5 con epicentro a Fivizzano, provocò danni nell'area della Garfagnana e oltre 300 morti.

23 luglio 1930. Terremoto notturno nella zona del Vulture. Morirono 1404 persone nelle province di Avellino e Potenza.

30 ottobre 1930. Le Marche, e soprattutto Senigallia, furono interessate da una scossa di 5,9 con 18 vittime.

26 settembre 1933. Grazie a una serie di scosse precedenti le popolazione abruzzesi della Majella furono avvertite e la scossa più forte (5,7 della scala Richter) provocò solo 12 morti.

18 ottobre 1936. L'altopiano del Cansiglio tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone furono interessate da una scossa di 5,9 con 19 vittime.

13 giugno 1948. La zona interessata fu quella dell'Alta valle del Tevere con una serie di scosse. Morì per fortuna solo una donna.

21 agosto 1962. Una serie di scosse, con epicentro tra Montecalvo e Savignano Irpino di 6,2, fecero 17 vittime, ma ad Ariano Irpino l'80% degli edifici furono danneggiati.

15 gennaio 1968. Gibellina, Salaparuta e l'intera Valle del Belice furono interessati da un terremoto di 6,4 di magnitudo. 370 i morti, un migliaio i feriti e circa 70mila i senza tetto.

6 febbraio 1971. Il centro di Tuscania fu parzialmente distrutto: 31 morti.

6 maggio 1976. Alle 21.06 un terremoto di intensità 6,4 sconvolse il Friuli. Il sisma fu avvertito nell'Italia settentrionale e centrale, in Slovenia e Austria. Le vittime furono 989 e 75mila le case danneggiate. Per la prima volta venne organizzata la Protezione civile e in cinque anni la zona fu ricostruita.

19 settembre 1979. Fu la Val Nerina a essere colpita da una scossa di 5,9 di magnitudo, con epicentro a Norcia. I danni più gravi li subirono gli edifici più antichi. Decine i feriti e cinque i morti.

23 novembre 1980. In Irpinia e in Basilicata si registrò il più grave terremoto dopo la Seconda guerra mondiale. Alle 19,34 una scossa di magnitudo 6,9 di circa 90 secondi provocò 2914 morti, 8848 feriti e 280mila sfollati. Dei 679 comuni delle otto province interessate, 508 furono danneggiate. In 36 comuni della fascia epicentrale circa 20mila alloggi andarono distrutti o divennero irrecuperabili. I soccorsi in alcuni casi arrivarono dopo cinque giorni. Dal 7 aprile 1989. Oscar Luigi Scalfaro guidò la Commissione parlamentare d'inchiesta della ricostruzione.

13 dicembre 1990. Un sisma al largo di Augusta, nel golfo di Noto, colpì la provincia di Siracusa, Catania e Ragusa provocò 12 vittime e altre cinque persone morirono d'infarto nei paesi vicini. Gli abitanti protestarono perché si sentirono abbandonati.

15 ottobre 1996. La provincia di Reggio Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,1: due morti e cento feriti.

26 settembre 1997. Il terremoto colpì Umbria e Marche, anticipato da uno sciame sismico, che ebbe inizio il 5 maggio con una scossa di intensità 3,7 e si concluse il 28 giugno 1998. Il 26 settembre una prima scossa fece crollare una casa di due anziani che morirono. La mattina dopo alle 11,40 morirono 9 persone, quattro delle quali sepolte dal crollo delle volte della basilica di San Francesco ad Assisi.

17 luglio 2001 Un sisma di magnitudo 5,2 colpì Merano e interessò la provincia di Bolzano. Due persone furono uccise da una frana e una donna morì d'infarto. Pochi i danni grazie alla solidità degli edifici, molti dei quali in cemento armato.

31 ottobre 2002. San Giuliano di Puglia (Campobasso) rimarrà nella memoria di tutti per il crollo della scuola, dove morirono 27 bambini e una maestra in seguito a una scossa di magnitudo 5,6. In paese ci furono altre due vittime. Sette persone furono indagate e sei, dopo tre gradi di giudici, furono condannate.

6 aprile 2009. Una scossa di intensità 5,8 alle 3.32 provocò vittime e danni a L'Aquila e in molti paesi della provincia. Onna fu quasi rasa al suolo e la Casa dello studente de L'Aquila crollò uccidendo otto ragazzi. In tutto i morti furono 308, i feriti 1600 e 65mila gli sfollati.

29 maggio 2012. La zona compresa fra Mirandola, Medolla e San Felice sul Panaro in Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,8. Il 31 maggio 2012 una nuova scossa di magnitudo 4,0 fu colpita la zona della Bassa reggiana e dell'Oltrepò mantovano. I due eventi sismici principali causarono 27 vittime (22 nei crolli, tre per infarto e due per le ferite riportate).

Nel ’900 un terremoto ogni 3 anni. La schiena fragile del Paese. Dal 1315 gli Appennini sono stati scossi da 148 eventi sismici superiori a 5,5 della scala Richter. E dalla prima casa antisismica di Pirro Ligorio (1570) si discute di regole, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". «La città è stata cancellata di un soffio dalla superficie terrestre. Non esistono rovine; non esiste che un immenso strato di polvere, da cui sbucano strani, esilissimi, quasi trasparenti spettri di mura. Cancellate le case, cancellate le chiese, cancellate le piazze, cancellate le vie. Avezzano non è che un cimitero su cui mani pietose già incominciano a piantare croci». Era il 16 gennaio del 1915. E Umberto Fracchia, sceso nella notte dal treno che lo aveva portato nella cittadina della Marsica epicentro di un terremoto devastante e così vicina all’Aquila e ad Amatrice, aveva la mano che tremava mentre scriveva il suo reportage per «L’Idea Nazionale»: «Non un palmo di terra fu risparmiato: nessuno riuscì a trovar salvezza nella fuga. Quelli che erano in casa ebbero tetti e mura addosso; quelli che erano per le vie furono schiacciati tra il doppio crollo degli edifici che avevano ai due lati. La città era costruita di fango; è ritornata fango». È passato un secolo, da allora. E gli Appennini non hanno mai smesso di dare spaventosi scossoni. La storica Emanuela Guidoboni, che con Gianluca Valensise e altri studiosi ha raccolto in vari libri come «L’Italia dei disastri, dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013» la memoria storica delle nostre calamità naturali (aggravate da superficialità, incuria, sciatteria amministrativa e legislativa) ha fatto i conti. Da far accapponare la pelle. La fragile spina dorsale del nostro Paese, dal 1315 quando un sisma appena un po’ meno grave di quello del 2009 devastò l’area dell’Aquila, ha fatto segnare (come spiega la mappa elaborata dal ricercatore Umberto Fracassi) 148 terremoti superiori a 5,5 gradi della scala Richter. E quasi tutti superiori all’VIII° grado di «intensità epicentrale». Per capirci: di uno scossone non basta sapere la magnitudo. Occorre anche conoscere la quantità di danni che ha prodotto. Un calcolo complicatissimo che si può riassumere così: con l’ottavo grado di intensità epicentrale crolla o diventa inabitabile il 25% degli edifici, con il nono la metà, con il decimo l’intero patrimonio immobiliare. L’undicesimo è l’apocalisse. Come a Messina nel 1908. In pratica, da quando la scienza ha potuto studiare più approfonditamente le attività sismiche e più ancora da quando sono state conservate precise memorie storiche dei disastri, la catena che, come scrisse Arrigo Benedetti, «si stacca dal colle di Cadibona, arriva in Calabria, si immerge e riaffiora in Sicilia», ha dato 19 pesantissimi strattoni nel 1600, 33 nel 1700, 29 nel 1800, 30 nel 1900 e già sei, con il cataclisma del 23 agosto scorso, in questo primo scorcio del secolo. In pratica, gli Appennini cantati da Dante Alighieri come monti di grande fascino ma impervi («Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che indarno vi sarien le gambe pronte») sono stati squassati da improvvisi e terrificanti sussulti, mediamente, una volta ogni tre anni. La catena che scende dal Nord fino all’estremo Sud offre panorami di grandissima bellezza. E prima di Francesco Guccini, che lì «tra i castagni» ha vissuto gli anni più intensi della vita coltivando un amore sconfinato («La mia è una montagna in cui la cima più alta arriva sui 2100 metri, dove non c’è roccia, dove i boschi di castagno e faggio coprono tutto fino a duemila metri») hanno affascinato molti viaggiatori. Come Wolfgang Goethe. «Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato», scrisse nel suo «Viaggio in Italia». Spiegando che «se la struttura di questi monti non fosse troppo scoscesa, troppo elevata sul livello del mare e così stranamente intricata; se avesse potuto permettere al flusso e riflusso di esercitare in epoche remote la loro azione più a lungo, di formare delle pianure più vaste e quindi inondarle, questa sarebbe stata una delle contrade più amene nel più splendido clima, un po’ più elevata che il resto del Paese. Ma così è un bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l’una dell’altra; spesso non si può nemmeno distinguere in quale direzione scorra l’acqua. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più regolari e più irrigue, si potrebbe paragonare questa regione alla Boemia; con la differenza che qui le montagne hanno un carattere sotto ogni aspetto diverso. (…) I castagni prosperano egregiamente; il frumento è bellissimo e le messi ormai verdeggianti. Lungo le vie sorgono querce sempre verdi dalle foglie minute; e intorno alle chiese e alle cappelle agili cipressi». Montagne stupende, montagne inquiete. Maledette troppe volte, giù per i secoli, dai nonni dei nostri nonni. Costretti a ricostruire ciò che era stato raso al suolo. Eppure già dal 1570, quando Pirro Ligorio presentò la prima casa «antisismica» dopo il terremoto di Ferrara, i governanti più accorti avrebbero dovuto sapere che il rischio andava affrontato con regole precise. Tant’è che nel 1783 la Commissione Accademica napoletana denunciava che la popolazione calabrese, pur «avvezza alle scosse di tremuoti», non capiva che occorreva «pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso» mentre «qui si vedeva precisamente il contrario…». Passarono, le borboniche «Normative Pignatelli» che puntavano a mettere ordine nel caos. Ma solo per qualche anno. E quando Pio IX chiese nel 1859 ai suoi ingegneri di predisporre un nuovo piano edilizio per Norcia, prostrata da un sisma, ci fu un braccio di ferro fra le autorità e il Comune. Recalcitrante a rispettare le regole perché vincolavano troppo i proprietari. Si è detto e ridetto anche in questi giorni: occorre una svolta, bisogna adeguare le leggi a una realtà difficile, è necessario intervenire con la prevenzione prima che le catastrofi avvengano… Giusto. Sono passati però 107 anni da quell’aprile 1909 in cui Vittorio Emanuele III firmò il primo decreto con alcune prescrizioni per le aree a rischio sismico o idrogeologico. Vietava di «costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta». Concedeva qualche deroga ma mai a edifici «destinati ad uso di alberghi, scuole, ospedali, caserme, carceri e simili». Ordinava che i lavori dovessero «eseguirsi secondo le migliori regole d’arte, con buoni materiali e con accurata mano d’opera» e proibiva «la muratura a sacco e quella con ciottoli»… Puro buon senso. Eppure un secolo dopo, davanti alle macerie di Pescara del Tronto, Accumoli, Amatrice e le sue contrade, siamo ancora a chiederci: possibile? Possibile che per decenni si siano continuate a costruire case destinate a crollare rovinosamente, magari sotto pesantissimi tetti in cemento armato, al primo dei numerosi terremoti? Il guaio è, spiega Emanuela Guidoboni, che già allora «non furono previste sanzioni. Dal 1909 ebbe sì inizio la classificazione sismica del territorio italiano, ma questa classificazione si faceva solo “dopo”. A disastro avvenuto». Peggio: per decenni «si è proceduto a macchia di leopardo, con vicende alterne e clamorose retromarce. Vari comuni classificati a rischio (come Rimini dopo il terremoto del 1916) chiesero infatti negli anni ‘40 e nel dopoguerra di essere de-classificati. E sapete con che scusa? Far crescere il turismo!» A farla corta: sì, forse sono necessarie nuove regole per contenere i danni di questi Appennini stupendi ma collerici. Più importante ancora, però, è farle poi rispettare. Gian Antonio Stella.

TERREMOTO: CORSI E RICORSI STORICI. I Borbone? 200 anni fa sconfissero i terremoti, scrive il 30/08/2016 Flaminia Camilletti su “Il Giornale”. Sono passati 7 giorni dalla notte tra il 23 e il 24 Agosto, notte in cui la terra ha tremato così forte da far implodere e scomparire due paesi ricchi di storia e tradizioni come Amatrice ed Arquata del Tronto, portandosi via 292 vite umane e una decina di persone scomparse. I danni agli edifici e i morti non sono confinati nei paesi sopracitati, ma si diffondono in tutta la zona di confine tra Umbria, Marche e Lazio, tre regioni diverse e numerosi comuni diversi, sintomo che se qualcosa è andato storto è da ricondurre ad un sistema Italia che in questo momento così com’è, non funziona. Neanche il tempo di levare le macerie e di salutare i propri cari, che già si scoprono decine di casi di mala-gestione edilizia. Addirittura i pm sospettano che i documenti che dichiaravano che le strutture fossero a norma, siano stati falsificati. I casi più noti: la scuola Capranica e l’hotel Roma di Amatrice indicati entrambi come punto di accoglienza del piano di protezione civile, e invece venuti giù. E poi il campanile di Accumoli, come la Torre Civica e la caserma dei carabinieri. Parallelamente alle inchieste, il tema principale del dibattito verte sulla ricostruzione: è possibile rendere antisismici dei centri storici così antichi, senza snaturarne l’identità ed il patrimonio architettonico? Molti esperti e opinionisti rimandano all’esempio certamente virtuoso del Giappone, ma qualcuno, in Italia, rende noto che anche la nostra storia vanta modelli di ingegneria antisismica di livello, messa in atto già due secoli fa. Uno studio condotto dal Cnr-Ivalsa (Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche) di San Michele all’Adige (Trento) in collaborazione con l’Università della Calabria ha dimostrato che le tecniche antisismiche usate 200 anni fa dai Borbone sono ancora attuali e che integrate con tecnologie moderne, potrebbero essere usate per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente. Dopo il terremoto del 1783, che distrusse gran parte della Calabria meridionale e fece circa 30.000 vittime fu emanata una normativa estremamente di avanguardia per l’epoca. L’efficacia di queste disposizioni è stata confermata dalla resistenza che ebbero i palazzi costruiti con queste regole nei terremoti del 1905 e del 1908 che colpirono la Calabria. Il Cnr ha chiarito che gli edifici costruiti con queste regole subirono danni non significativi, con limitate porzioni di muratura collassate e nessun crollo totale. Ulteriore conferma è stata data anche dal test antisismico condotto su una parete del palazzo del Vescovo di Mileto (Vibo Valentia), ricostruita fedelmente in laboratorio. “L’invenzione” è dell’ingegnere La Vega che con abilità di sintesi unisce le più avanzate teorie antisismiche dell’Illuminismo e una diffusa e antica tradizione costruttiva lignea presente in Calabria. Il sistema borbonico è caratterizzato infatti dalla presenza di telai di legno.” “Le tecniche – continua Nicola Ruggieri (l’architetto che ha prodotto lo studio) – si basavano sull’idea che la rete di legno, in caso di scossa, potesse intervenire a sostegno della muratura. Adesso quelle tecniche potrebbero ispirare sistemi antisismici per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente «magari – ha rilevato l’esperto – sostituendo il legno con alluminio e acciaio, per i quali l’industria è più preparata”.

La “casa baraccata”: il primo regolamento antisismico d’Europa è dei Borbone, scrive il 25 agosto 2016 Claudia Ausilio su “Vesuvio on line”. Il territorio italiano e soprattutto quello dei paesi a ridosso della dorsale appenninica sono tra i più esposti al mondo ad attività sismica e da secoli hanno dovuto fare i conti con i terremoti e i danni da esso causati. Pochi sanno che le prime case antisismiche furono fatte costruire dai Borbone che redassero il primo regolamento antisismico d’Europa. Tutto iniziò dopo il 5 febbraio del 1783, una data terribile per la Calabria e per il sud intero. Uno degli eventi più tragici della storia e un terremoto di un magnitudo elevatissimo, tra i più alti che l’Europa abbia mai visto. Le zone colpite furono quelle di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Catanzaro che videro la morte di 30.000 persone. Il governo borbonico subito si mise all’opera per la ricostruzione emanando un regolamento antisismico, il primo della storia. Questo prevedeva la costruzione di una muratura rinforzata da un telaio di elementi lignei “inventata” dall’ingegnere Francesco La Vega, definita poi nel corso dell’Ottocento “casa baraccata”. Questo sistema si basava sugli ultimi studi dell’ingegneria settecentesca e su una tecnica costruttiva antica già in uso in Calabria. Ma l’ingegnere spagnolo come ideò questa tecnica antisismica? In realtà non si trattava di niente di nuovo, ci avevano già pensato gli antichi romani. Agli inizi del XVIII secolo Carlo III di Borbone decise di avviare un’intensa campagna di scavo ad Ercolano e successivamente a Pompei e Stabia. Le attività di recupero e lo studio dei reperti archeologici furono dirette dal 14 marzo 1780 proprio da Francesco La Vega. Durante queste operazioni l’ingegnere ebbe modo di osservare, proprio nelle città vesuviane, il cosiddetto Opus Craticium (opera a graticcio) cioè pareti intelaiate da elementi lignei. Grazie all’impiego di questa soluzione, le costruzioni successive al 1738, tra le quali anche il Palazzo del Vescovo di Mileto (Vv), riuscirono a resistere anche ai terremoti più devastanti, come quelli che colpirono la Calabria nel 1905 e nel 1908 con magnitudo 6.9 e 6 della scala Richter. Così come le abitazioni turche (Hımış) costruite con la tecnica dell’intelaiatura lignea hanno sfidato il sisma del 1999.

TERREMOTO ED IMPREPARAZIONE. Mario Tozzi sul terremoto: "Italia come il Medio Oriente. Una scossa di magnitudo 6 non dovrebbe provocare questi disastri". Intervista di Laura Eduati del 24/08/2016 su "Huffingtonpost.it". "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016. La terra ha nuovamente tremato violentemente devastando i paesi vicini all'epicentro: Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. "Le zone dalla Garfagnana a Messina, e cioè la dorsale appenninica, sono tutte sismiche e appartengono alla stessa regione geologica. L'Italia è un territorio geologicamente giovane e perciò subisce queste scosse strutturali di assestamento. Non stiamo dicendo che i terremoti sono prevedibili", puntualizza Tozzi, "perché sappiamo che è una sciocchezza. Ma stupisce che in una zona sismica non si faccia quasi nulla per impedire che una scossa di magnitudo 6 possa addirittura far crollare un ospedale come è accaduto ad Amatrice". Non esiste alcun alibi, continua il geologo: "Non veniteci a dire che i paesini del centro Italia sono antichi e perciò crollano più facilmente. Gli antichi sapevano costruire bene e basta pensare che a Santo Stefano di Sessanio, vicino l'Aquila, era crollata soltanto la torre perché restaurata con cemento armato, mentre a Cerreto Sannita nel Beneventano quasi tutto era rimasto intatto dopo il terremoto dell'Irpinia: non fu un caso, era stato costruito bene". Dunque "siccome ormai è chiaro che dobbiamo avere a che fare con i terremoti dovremmo costruire e fare una manutenzione antisismica di tutti gli edifici pubblici e privati, i soldi devono essere impiegati in questo modo: è la priorità", sottolinea ancora Tozzi, ricordando che "in Giappone e in California con una scossa simile a quella di Amatrice c'è soltanto un po' di spavento ma non crolla nulla". Mancati investimenti, fatalismo: il terremoto per Tozzi è soltanto una delle cause delle decine di morti di questa notte. "Facciamo sempre i soliti discorsi ma vediamo che non cambia nulla. Siamo il paese europeo con numero record di frane e alluvioni, siamo territorio sismico eppure per chi ci governa quando qualcosa succede è sempre una fatalità: bisognerebbe smetterla di pensare in questo modo e cominciare a ripensare seriamente al territorio".

TERREMOTO E PREVISIONE. Un sacco di scienziati e complottisti sono andati a letto ieri senza sapere di aver previsto il terremoto che ha devastato il Centro Italia questa notte. Oggi, con malcelata soddisfazione, ci comunicano che avevano ragione. Come sempre. Scrive Giovanni Drogo mercoledì 24 agosto 2016 su "Next Quotidiano”. Precisi come degli orologi svizzeri questa mattina sono arrivati quelli che leggono – a posteriori – i dati che indicano chiaramente che la notte passata ci sarebbe stato un forte terremoto. Dal momento che non è possibile prevedere il giorno, l’ora o il momento esatto di una scossa (e la relativa magnitudo) si tratta, nella migliore delle ipotesi, di cattiva informazioni (nella peggiore di mistificazioni pure e semplici). Spiega infatti l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che non è possibile fornire previsioni precise utili ad avvertire per tempo la popolazione. Modelli teorici imprecisi non danno previsioni precise. Esistono dei segnali, chiamati precursori sismici, che consentono di poter formulare previsioni approssimative riguardo intervalli di tempo, di spazio e di magnitudo entro i quali si può verificare con maggiore probabilità della media un evento sismico. Ma non è detto che poi l’evento si verifichi davvero o che sia dell’intensità “prevista”. Sono state invece compilate delle mappe di pericolosità sismica che indicano quelle aree dove a maggiore rischio (e la zona colpita stanotte è purtroppo una di quelle). Utilizzando queste mappe è possibile adottare misure preventive (ad esempio costruire edifici antisismici o mettendo in sicurezza quelli esistenti) per limitare i danni di un eventuale terremoto. Tutto qui? Purtroppo al momento sì, perché i modelli teorici non consentono di essere più precisi. I terremoti non si prevedono, ma è invece possibile – anzi doveroso tenuto conto della situazione geologica italiana – fare prevenzione. Eppure c’è chi già questa mattina sottolineava come avesse già previsto la scossa. Spiegando di aver individuato una ventina di giorni fa un’anomalia che oggi dimostra come al tempo aveva previsto un terremoto. Ovviamente senza localizzarlo, senza indicare l’orario o la magnitudo. Il che come previsione non risulta essere sufficientemente precisa da poter sostenere di avere in mano una prova chiara del rapporto causa-effetto. Tenendo conto che si sapeva già che la zona colpita risulta essere ad alto rischio sismico non si tratta di previsioni accettabili, soprattutto perché – caso comune a molte altre previsioni – vengono fatte dopo l’evento. Che sulla catena appenninica si possano verificare scosse di questo tipo è cosa quindi nota, quello che manca di sapere (e che fa la differenza) è il momento preciso. E questo purtroppo non è possibile determinarlo in base alle conoscenze scientifiche attuali. Vogliamo parlare di quello “scienziato” che crede che i terremoti siano causati da perturbazioni cosmiche e che la causa vada ricercata nel Sole (la soluzione sarebbe spegnerlo). Un momento, forse potrebbe essere il fracking la causa! Ma ecco che, quando la scienza non ci dà certezze, arrivano direttamente quelli che credono nella magia. La grande fiera della cospirazione e della geoingegneria. Come già accadde in occasione del sisma del 2012 in Emilia Romagna c’è chi crede che sia possibile prevedere un terremoto guardando la conformazione delle nuvole. Si tratta di tecniche degne degli antichi romani? Nulla di tutto questo perché c’è chi ci spiega che le nuvole “orientate” in quel modo non sono naturali ma vengono create grazie a esperimenti sul campo elettromagnetico, del tipo di quelli svolti dal famigerato HAARP. Peccato che Terra Real Time, noto sito di complottisti, indicasse come epicentro del fenomeno la Calabria e non il Centro Italia. Cose che capitano quando si devono tenere sotto controllo le macchinazioni del NWO. Curiosamente sul sito le “onde scalari” che hanno provocato lo “tsunami elettromagnetico” venivano ritenute pericolose soprattutto per i portatori di Pacemaker. Il loro scopo? Modificare il clima. Nessun accenno ai terremoti in questa curiosa previsione. Ma naturalmente il NWO non vuole che si sappia che nemmeno Terra Real Time ha previsto un terremoto. Sarebbe bastato leggere il – breve – testo del comunicato per accorgersene ma dal momento che si parla di tsunami e che il termine è associato ai terremoti, ecco servita la previsione. In mancanza del nostro esperto di fuffa preferito (Rosario Marcianò è momentaneamente assente da Facebook) non ci resta che consolarci con le spiegazioni di Gianni Lannes che sul suo sito evoca scenari militari: C’entra forse qualcosa il programma segreto di aerosolchemioterapia bellica che la NATO – previo indottrinamento degli esperti civili – manda in onda dal 2002, a base di irrorazioni aeree di alluminio e bario che rendono l’aria maggiormente elettronconduttiva, in modo da consentire alle onde elf di colpire le faglie sismiche attive? Scie belliche e sciami sismici: un distruttivo connubio militare. […] I terremoti possono essere provocati anche dall’uomo con vari mezzi e sistemi, soprattutto in aree notoriamente a rischio sismico che spesso mascherano la reale dinamica dell’evento tellurico: esplosioni convenzionali e nucleari, iniezioni elettromagnetiche nella crosta terrestre, riscaldamenti ionosferici, ricerca ed estrazione di idrocarburi. Un terremoto indotto presenta distintamente un ipocentro superficiale.

IL TERREMOTO E L'INFORMAZIONE. Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore. Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità, scrive Roberto Saviano il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Ora che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo. I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un'anima sola. Sui social c'è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c'è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C'è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com'è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all'informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo. Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell'Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l'informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j'accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti. E nel momento della caccia alle streghe non c'è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L'Aquila (quindi dal 2009) i soldi c'erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c'è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione? Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un'altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l'Italia tutto deve ripartire necessariamente dall'autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle). Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l'informazione e l'intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell'intrattenimento e rigore nell'informazione. Certo, anche nell'intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click. Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità.  

TERREMOTO E SATIRA. «Terremoto all’italiana», è un caso la vignetta di Charlie Hebdo. Nel numero in edicola satira sulla tragedia di Amatrice: lasagne e pasta per illustrare il dolore per le 300 vittime. La rete si indigna: «Io non sono Charlie». L’ambasciata: «Non ci rappresenta». Poi la precisazione: «Italiani, a costruire le vostre case è la mafia», scrive Antonella De Gregorio il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Oggi nessuno «è Charlie Hebdo». La solidarietà dopo gli attentati che hanno colpito il giornale nel gennaio del 2015 si squaglia sui social, lasciando spazio all’indignazione più viscerale. Scatenata dalla vignetta che il settimanale in edicola dedica al terremoto in Italia. Nell’immagine, intitolata «Séisme à l’italienne» («Terremoto all’italiana») le vittime del terremoto che ha sconvolto il nostro Paese vengono paragonate a tre piatti tipici della nostra cultura: «Penne all’arrabbiata», illustrato con un uomo sporco di sangue; «Penne gratinate», con una superstite coperta di polvere; mentre le lasagne sono strati di pasta alternati ai corpi rimasti sotto alle macerie. La vignetta firmata dal vignettista Felix è pubblicata nell’ultima pagina del numero in edicola della rivista satirica, che ha in copertina una vignetta sul burkini: il «sacco di patate che unisce la sinistra». In fondo al giornale, nella pagina tradizionalmente intitolata «le altre possibili copertine», la sciagura in Italia viene affrontata con freddure tipo: «Circa 300 morti in un terremoto in Italia. Ancora non si sa che il sisma abbia gridato “Allah Akbar” prima di colpire». La polemica è esplosa. E a poco sono valse le scuse ufficiali della diplomazia d’Oltralpe. «Il disegno pubblicato da Charlie Hebdo non rappresenta assolutamente la posizione della Francia» si legge in una nota dell’ambasciata francese a Roma, che sottolinea che il terremoto del 24 agosto è «un’immensa tragedia» e rinnova le condoglianze alle autorità e al popolo italiano, al quale «ha offerto il suo aiuto». Su Twitter, tantissimi quelli che giudicano la vignetta «sconvolgente», «indecente», e chiedono rispetto per le vittime. C’è chi pubblica l’immagine a fianco della scritta «Io non sono Charlie». Chi commenta: «Hebdo oggi ha toppato alla grande», e «Cosa ci sia da ridere su questa vignetta poi ce lo spiegate». Ma anche chi difende la scelta («Siamo tutti Charlie finché Charlie non sfotte noi») e commenta: «Se non tocca alla pancia non è satira. È solo un disegno insignificante». Trovando, magari, più scandalosi «le interviste sceme, lo show morboso del dolore andato in scena in questi giorni». Si riapre insomma il dibattito sui confini dell’ironia. Rispetto, cattivo gusto, libertà di esprimersi, censura: ognuno in rete dice la sua. «Le vignette di #CharlieHebdo servono proprio a far indignare chi viene “colpito”. Lo fanno per lavoro, non lo scordiamo», sottolinea un utente di Twitter. Mentre un’interpretazione taccia di «analfabetismo funzionale» tutti coloro che non han capitole intenzioni degli autori della vignetta: «Edifici costruiti con la sabbia (“penne gratinées”) che quando crollano si riducono e ti riducono a strati di lasagna. Ecco i sismi all’italiana - scrive Pasquale Videtta - in cui nemmeno le scuole anti-sismiche sono tali. L’analfabetismo funzionale è quella cosa che ti fa scambiare la vignetta di Charlie Hebdo per una derisione delle vittime del terremoto e non per una denuncia politica e sociale». Spiegazione «esegetica» che sono gli stessi giornalisti della rivista francese a confermare, con un colpo a sorpresa, a poche ore dal polverone mediatico. Nel pomeriggio, dopo la valanga di contestazioni, sulla pagina Facebook ufficiale, Charlie Hebdo pubblica una vignetta «di precisazione» firmata «Coco». Vi compare una persona insanguinata sotto le macerie, come nel disegno contestato, che si rivolge al lettore: «Italiani...non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia!». «È una vignetta in cui non trovo niente da ridere», ha commentato il Commissario per la ricostruzione post terremoto Vasco Errani. «Io sto vivendo questa situazione con la popolazione - ha sottolineato - e sono certo che i cittadini che stanno vivendo questa tragedia non trovino niente da dire e da ridere come me. La vignetta aumenta la sofferenza di queste persone». Sconforto dal sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi: «Ma come si fa a fare della satira sui morti? La satira è satira quando fa ridere e qui mi sembra che non ci sia proprio nulla da ridere, visto che è pieno di morti». Certo Charlie Hebdo non è il primo pensiero del primo cittadino del comune sconvolto dal sisma. E per un po’ Pirozzi si è disinteressato alla questione. Ma poi, davanti ai giornalisti che lo incalzavano, è sbottato: «La satira è una cosa bella, ben venga l’ironia. Ma come si fa... qui c’è soltanto del cattivo gusto». Con lui si esprime anche la politica: «Vignetta lugubre, disumana, indegna, da rispedire al mittente», scrive in una nota la deputata Pd Vanna Iori. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, sul suo account Facebook liquida la vicenda così: «Non fa ridere, non è sagace, non c’è neppure del “sarcasmo nero”. È solo brutta. Si vede che l’ha fatta un cretino. Mi spiace non siano riusciti più a trovare vignettisti capaci». E Michele Anzaldi (Pd), chiede scuse ufficiali: «Ci aspettiamo che la Francia, a partire dalle sue istituzioni — dichiara — prenda le distanze da una vignetta che rinnova il dolore nelle tante famiglie italiane che hanno subito il grave lutto del terremoto». Scuse che l’ambasciatore francese si è affrettato a trasmettere.

#JeSuis Charlie sempre. Anche se non ci piace. Chi stabilisce i confini della decenza quando si parla di satira? Perché non possiamo gridare alla censura nonostante i contenuti oltraggiosi o che ci paiono una porcheria, scrive Pierluigi Battista il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". #JeSuisCharlie anche se «Charlie Hebdo» pubblica vignette volgari e oltraggiose. Perché la libertà d’espressione è anche diritto alla volgarità. Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira. Se noi volessimo rispettare solo la libertà di ciò che ci aggrada, non ci vorrebbe un grande sforzo. Lo sforzo è riconoscere la libertà di dire e disegnare e rappresentare cose opposte a quelle che pensiamo e che consideriamo giuste, buone, persino sacre. Dicono: ma non si oltrepassino i confini della decenza. Ma chi stabilisce questi confini? La censura è per definizione il campo dell’arbitrio, della discrezionalità, della prepotenza di chi pretende di incarnare il Giusto e il Buono. E allora, dobbiamo accettare passivamente le volgarità sui nostri morti sepolti dal terremoto? Certo che no, nessuna passività. Possiamo dire attivamente che si tratta di una porcheria. Oppure possiamo avvalerci di quell’altra fondamentale libertà che sarebbe da stolti dimenticare, e cioè la libertà di non comprare un vignettificio che non ci piace. Non vuoi «Charlie Hebdo»? Non andare in edicola a comprarlo. Questa è la libertà, a meno che uno non sia costretto a pagare cose che non vuole vedere, come avviene con il canone Rai. Quando c’è la sfida dei fanatici jihadisti che vogliono toglierci ogni libertà, bisogna essere rigorosi nel difendere ogni libertà. Compresa quella che non ci piace. Perciò #JesuisCharlie, anche se stavolta sono stati dei veri farabutti.

Charlie Hebdo, perché li critico. «Non si calpestano così 300 morti», scrive Giannelli il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". La vignetta pubblicata in ultima pagina dal settimanale satirico francese Charlie Hebdoa firma Felix non mi è piaciuta. Mi perdonerà il collega vignettista ma, a mio parere, se pur sia ben consapevole che la satira è trasgressione assoluta, tragedie come quelle del terremoto che ha colpito il Centro Italia è obiettivamente difficile che possano giustificare spunti satirici di questa specie. È trasparente il messaggio che la vignetta vuole dare: una condanna degli italiani spaghettari. Ma per insistere su questo consueto stereotipo, mi sembra sia stato di cattivo gusto calpestare trecento morti. E che la critica non sia altro che una riaffermazione dei consueti stereotipi sul nostro Paese, lo dimostra la seconda vignetta, pubblicata nel pomeriggio sull’account Facebook del settimanale, nella quale il disegnatore Coco Charlie Hebdo ha chiamato in causa la mafia. Niente di nuovo quindi rispetto alla copertina di tanti anni orsono del settimanale tedesco Der Spiegel che raffigurava l’Italia come un piatto di spaghetti con una rivoltella sopra. È vero che una vignetta è solo uno scherzo, una irrisione e trovo quindi sproporzionato e ridicolo che si parli di severa condanna e di giusta indignazione, con l’ambasciata transalpina in Italia a puntualizzare che «non rappresenta assolutamente la posizione della Francia». Ci deve essere però anche libertà di critica perfino nei confronti della satira e da vignettista ammetto che non sempre si possono avere idee felici; è fatale. Nel caso specifico, avrei trovato più giusto che la prima vignetta fosse firmata Infelix.

Satira sul terremoto, Pennac: "Disegno idiota, ma difendo ancora la libertà di Charlie Hebdo". L'intervista. La bocciatura dello scrittore: "Non mi piace chi gioca con la morte degli altri", scrive Francesca De Benedetti su "La Repubblica" il 03 settembre 2016. Una "connerie", uno scivolone in piena regola: così Daniel Pennac, lo scrittore francese, commenta la vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia. Lui, l'autore della saga dei Malaussène e di altre opere di successo, è abituato a giocare con ogni sfumatura del linguaggio. Ma stavolta per commentare la satira dei suoi connazionali sul sisma non usa mezzi termini, anzi si concede un paio di parole forti. Poi però conclude: "Anche oggi, "Je suis Charlie". Una vignetta idiota non può togliere forza a quel messaggio, che non va messo in discussione".

Pasta e sangue, poi la mafia: è la chiave con cui Charlie "legge" il terremoto in Italia. Cosa ne pensa?

"La vignetta sulle vittime del terremoto è stronzissima e basta. Non è divertente, non fa ridere nessuno se non chi l'ha concepita, quasi non merita il nostro sdegno".

La satira non giustifica il ricorso agli stereotipi e le provocazioni violente?

"Vede, io penso che neppure la satira dovrebbe calpestare una cosa importante: l'empatia. Penso alle vittime delle scosse, penso alle sofferenze di quelle terre, e non posso non concludere che quelle vignette mancano di rispetto a quel dolore, a quelle storie. Non mi piace chi gioca con la morte degli altri. Penso al fatto che proprio oggi avrei dovuto essere in un paesino umbro per un'iniziativa culturale; Castello di Postignano si trova non lontano dai borghi distrutti, la gente è andata via per paura di nuove scosse. Abbiamo sospeso l'evento, perché la prima cosa da mostrare, di fronte a tragedie come questa, è l'umanità, la solidarietà".

Fa bene l'ambasciata di Francia a prendere le distanze dalle vignette? Hanno ragione gli italiani indignati?

"Se lo chiede a me, le dico di sì, perché non gradisco né quella vignetta né in generale un certo humour sulla morte. Va detto che con Charlie tutto ciò non è una novità. Non è una novità un certo stile, che già altre volte mi ha suscitato una sensazione di disagio, anche se non detesto il giornale in sé e non amo le condanne definitive".

Qualcuno è arrivato a dire: "Je ne suis pas Charlie", "Non sto più con Charlie".

"L'espressione "Je suis Charlie" è diventata il simbolo dell'opposizione radicale e senza mezzi termini all'assassinio di giornalisti e disegnatori. Una vignetta, per quanto idiota, non giustifica affatto la messa in discussione di questo principio. Con la stessa chiarezza con cui dico che quel disegno non mi piace, sono pronto anche ad affermare senza mezzi termini: "Io resto Charlie". A ognuno le sue responsabilità morali: chi offende i morti ha le sue, e noi abbiamo le nostre. È nostro dovere ribadire ogni giorno che nulla autorizza l'uccisione di chi fa satira e che niente può giustificare un massacro come quello dei giornalisti e disegnatori di Charlie. Non possiamo esserne complici: ecco perché io - anche oggi - sono Charlie".

La vignetta di Charlie Hebdo non mi piace, ma difendo la libertà di espressione. Siamo una civiltà superiore. Nessuno ucciderà chi sta dietro a quel disegno, scrive Camillo Langone, Sabato 03/09/2016, su "Il Giornale". Quelli di Charlie Hebdo vogliono proprio mettere alla prova il famoso detto di Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». L'affermazione del filosofo suona un po' troppo roboante (e infatti pare che il testo originale, prima di diventare una formula, fosse più trattenuto), però il concetto non può non essere condiviso da chiunque ami la libertà. Io per Charlie Hebdo non sono disposto a morire, è inutile che faccia il gradasso, ma a correre qualche piccolo rischio sì. Quando nel gennaio dell'anno scorso la redazione del settimanale satirico francese venne sterminata dai coranisti a colpi di fucile mitragliatore AK-47 scrissi che i caduti andavano considerati martiri della libertà di espressione. Ne sono ancora convinto. E proprio perché ieri ho preso le parti dei vignettisti contro gli islamisti e gli islamofili oggi posso tranquillamente dirmi in disaccordo con le vignette sul terremoto di Amatrice e di Arquata. Ammetto di essere poco spiritoso e sarà per questo che poco ho apprezzato la vignetta intitolata «Sisma all'italiana» apparsa sul settimanale: a sinistra un uomo insanguinato sotto la scritta «Penne al pomodoro», al centro una signora bruciacchiata o impolverata o chissà (nella mia vita ho visto vignette disegnate meglio) sotto la scritta «Penne gratinate», e infine, a destra, quattro morti schiacciati fra strati di macerie e dunque posti sotto la scritta «Lasagne». Qualcuno ha riso? De gustibus. Non che il dettaglio abbia soverchia importanza, ma la grossolanità satirica stavolta si abbina alla grossolanità gastronomica: non ci vuole una laurea all'università Slow Food di Pollenzo per sapere che Amatrice con le penne c'entra poco e con le lasagne nulla e che il famoso sugo che dal paese appenninico prende il nome condisce di norma i bucatini. Meglio dirlo piano, non vorrei offrire spunti a uno dei loro vignettisti senza scrupoli, settimana prossima non vorrei vedere stampato un piatto di bucatini con un macabro ragù a base di terremotati macinati, e poi magari ritrovarmi qui a discettare sul fatto che il sugo all'amatriciana non è propriamente un ragù. Me la vorrei risparmiare una simile disquisizione e mi sarei voluto risparmiare anche la presente su penne e lasagne non filologiche, non tipiche, eppure qualcosa di buono da questo sgradevole episodio vorrei ricavarlo. Ex malo bonum, dicevano gli antichi. Dall'ultima vignettaccia di Charlie Hebdo traggo la dimostrazione della nostra appartenenza a una civiltà superiore perché nessun terremotato italiano entrerà nella redazione parigina sparando all'impazzata e gridando «Amatrice è grande». Ci sono state e ci saranno reazioni critiche, e ci mancherebbe, ci sono state e ci saranno manifestazioni di sdegno, legittime pure queste, ancor più se provenienti da persone che nella tragedia hanno perso famigliari, amici, case. Ma niente di più. Gli italiani sono dunque un popolo voltairiano? Non voglio esagerare, non li direi così filosofici, ma senz'altro non sono capaci di meditare vendette collettive (durante la Seconda guerra mondiale vennero invasi dai tedeschi e bombardati dagli americani, eppure nel Bel Paese i turisti provenienti dalla Germania e dagli Usa sono sempre stati accolti benissimo). Semplicemente, stavolta, non sono Charlie.

Ma la vignetta non è piaciuta neppure a un maestro della satira come Sergio Staino che, in un’intervista all’Ansa, ha commentato: “Penso che sia una vignetta in linea con la storia di Charlie Hebdo. Non è la prima volta che, per una scelta provocatoria, decidono di andare contro tutto e tutti in momenti di grande dolore”. Per Staino il giornale “ha voluto legare il vecchio stereotipo del paese dei maccheroni alla tragedia, ma il risultato è di basso livello. Neanche un ubriaco o il pazzo di quartiere farebbe una cosa simile, che senso ha? Prendo le distanze da un intervento creativo che non ha alcun senso, almeno per come intendo io la satira”.

Mentana definitivo sulla vignetta-vergogna: "Basta dire che...". Così chiude la bocca a tutti, scrive “Libero Quotidiano" il 2 settembre 2016. La satira piace a tutti, almeno finché non si è il soggetto preso di mira. Eppure sembra ieri che mezzo mondo occidentale agitava la scritta #Jesuischarlie, poco dopo gli attentati islamici del gennaio 2015 contro la rivista satirica francese. Stavolta quella stessa rivista ha colpito gli italiani, in particolare le vittime del terremoto in centro Italia raffigurati come una lasagna fatta di corpi e macerie. Contro l'indignazione ad orologeria di tanti che sul web hanno insultato i vignettisti francesi si è scagliato Enrico Mentana che sulla sua pagina Facebook ha scritto: "Scusate, ma Charlie Hebdo è questo! Quando dicevate 'Je suis Charlie' solidarizzavate con chi ha sempre fatto simili vignette, dissacrando tutto e tutti. Le vignette su Maometto anzi facevano alla gran parte degli islamici lo stesso effetto che ha suscitato in tutti noi questa sul terremoto. Fu Wolinski, una delle vittime dell'attacco terrorista del gennaio 2015, a far capire ai colleghi italiani quarant'anni fa che la satira poteva essere brutta sporca e cattiva. Vogliamo rompere le relazioni con la Francia dopo aver marciato in loro difesa? Basta più laicamente dire che una vignetta ci fa schifo".

La reazione. Libero Quotidiano del 3 settembre 2016: "Ci viene voglia di sparargli. Il Tempo pubblica un disegno. La vignetta satirica che sfotte i morti del terremoto del Centro Italia pubblicata dal settimanale satirico Charlie Hebdo ha sollevato moltissime polemiche e reazioni. Libero in edicola oggi lancia una provocazione: "Viene voglia anche a noi di sparargli" titola in prima pagina sopra la foto con la disgustosa vignetta. Il Tempo, pubblica a sua volta una vignetta che fa riferimento alle tante vittime del terrorismo che titola "Tartare à la parisienne". Due titoli forti per rispondere a una vignetta che definire di cattivo gusto è davvero poco. 

Charlie Hebdo e la satira senza limiti. Eccessi e pessimo gusto come regola. Il settimanale satirico francese ha origine come foglio libertario negli anni Settanta. Da rivista di nicchia, dopo l’attentato del gennaio 2015 è diventata nota globalmente, scrive Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Charlie Hebdo» torna a fare parlare di sé anche fuori dalla Francia, come spesso gli accade dopo la notorietà planetaria acquistata suo malgrado con i 12 morti del 7 gennaio 2015. Stavolta l’indignazione riguarda una vignetta sul terremoto in Italia, pubblicata a pagina 16, l’ultima, dedicata come sempre alle «copertine alle quali siete sfuggiti», cioè ai disegni che sono stati valutati per la prima pagina ma poi scartati. Nell’ultimo numero, la caricatura principale è dedicata al giornalista Edwy Plenel, alla ministra Najat Vallaud Belkacem e all’ecologista Cécile Duflot a braccetto sulla spiaggia sotto la scritta «Burkini - il sacco da patate che unisce la sinistra». Il titolo è «Sisma all’italiana», sotto ci sono tre versioni macabro-culinarie degli effetti del terremoto: penne al pomodoro, penne gratinate e lasagne, giocando su sangue/salsa. La vignetta ha provocato reazioni indignate su Twitter, molti hanno fatto sapere di «non essere più Charlie», ricordando l’ondata di emozione e solidarietà che avvolse la redazione dopo l’attentato, quando milioni di persone proclamavano lo slogan «Je Suis Charlie». La derisione verso tutto e tutti, anche le tragedie, è sempre stata una caratteristica di Charlie Hebdo. Accanto alla vignetta sul terremoto, ce n’è una sui migranti a Calais che ormai hanno superato quota 10 mila: una lunghissima fila di persone davanti alla toilette, la scritta «le forze dell’ordine sono travolte» e tre mosche che dicono «anche noi!». Poi, due vignette sul surfista attaccato dagli squali alla Reunion. All’interno, a pagina 2, un grande disegno sul rientro a scuola, con un esibizionista che apre l’impermeabile davanti ai bambini e un agente della sicurezza che controlla lo zaino di un allievo: «droga, cianuro, siringhe, alcol… niente cintura di esplosivo, potete andare». Lo scorso gennaio, il direttore Riss (che ha preso il posto di Charb rimasto ucciso nell’attentato) ha disegnato la figura riversa sulla sabbia di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto a Bodrum, in Turchia, mentre cercava con il padre e il fratello di raggiungere l’Europa. «Che cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?» si chiede il vignettista. La risposta: «Un palpatore di sederi in Germania». Il riferimento è ai fatti del 31 dicembre di Colonia, dove decine di donne sono state molestate da gruppi di stranieri. La zia Tima Kurdi, che vive in Canada, protestò: «Speravo che le persone rispettassero il nostro dolore. È stata una grande perdita per noi. Cerchiamo di dimenticare e di guardare avanti. Ma ferirci un’altra volta è ingiusto». Pochi mesi prima, a settembre 2015, il giornale aveva pubblicato altre due vignette su Aylan. Non si contano i disegni su preti, suore, islamici, atei, omosessuali, eterosessuali, politici, celebrità varie, persone comuni. Charlie Hebdo non si è mai posto limiti. A settembre 2015 Luz, altro sopravvissuto del massacro del 7 gennaio, aveva preso le difese di Riss con una specie di editoriale a fumetti intitolato «il disegno satirico spiegato agli idioti»: «Fai parte dei milioni di “nuovi lettori” che hanno scoperto Charlie e il suo umorismo dopo gli attentati di gennaio. Non avremmo mai immaginato che ti saresti interessato al nostro lavoro». In effetti, Charlie Hebdo non è un pensoso, pacato e autorevole settimanale di approfondimento dal quale pretendere senso di responsabilità o eleganza, ma un foglio libertario fondato negli anni Settanta, che ha fatto dell’eccesso e del pessimo gusto uno dei suoi tratti costanti. Per questo aveva un pubblico di nicchia ma è diventato suo malgrado – c’è voluto l’attentato islamista - una testata nota in tutto il mondo, scrutata e commentata da lettori e osservatori che prima mai si sarebbero sognati di andare in edicola a comprarne una copia. Lo slogan «Je Suis Charlie» non ha mai voluto dire adesione incondizionata all’umorismo surreale di Charlie Hebdo, ma una scelta di campo dalla parte della libertà di espressione e contro i terroristi. Liberi i disegnatori di Charlie Hebdo di dissacrare tutto e tutti, liberi i lettori di non amare le loro vignette e non comprare il giornale.

Ma quale satira? Questa è merda! Scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 2 settembre 2016. Adesso: quanti di voi sono Charlie? Quanti di voi si sentono Charlie? Neanche il dramma colpisce la redazione della testata francese di satira. Non la ferma, non la frena, in un vomitoso impeto infantile, frutto di una comunicazione adolescente, pretenziosa, mai cresciuta, impulsiva. Così, dopo essersi chiesti se il terremoto, prima di colpire “abbia urlato Allau Akbar”, ecco comparire nell’edizione del 31 agosto di Charlie Hebdo, nella sezione “Le altre possibili copertine”, la vignetta, “sisma all’italiana”: un ferito insanguinato con la didascalia “Penne al pomodoro”, un’altra con quella “Penne gratinate”, i corpi sepolti con la scritta “Lasagne”, così come riporta, fra gli altri, Il Messaggero. Ah, che belle risate. E che riflessione arguta. Ma quale satira? Questa è merda. Pura, purissima merda chic, partorita dalla mente del democraticissimo progresso secondo cui non ci sono vincoli, nella comunicazione, né tabù e la moralità, il buon senso, il buon gusto, ci stanno stretti, come antichi orpelli ormai in disuso. Cosa voleva comunicare Charlie Hebdo? Forse voleva solo incarnare il motto di un altro paladino delle Belle Menti, Dario Fò, un proletario col culo degli altri: “Prima regola: nella satira non ci sono regole”, fintanto che, ovviamente, non colpisce gli agitatori del politicamente corretto. Cosa è satira nel grande mondo liberale e libertino, poco libero? E cos’è oltraggio? Ma non è con i francesi che dobbiamo prendercela – vicini, solidali: amico mio, connazionale, prova ora a sentirti un pochino CHARLIE HEBDO, se ne hai il coraggio. Nota di servizio: Ah, scusate. Date ragione a Charlie, andateci un pochino forzatamente contro corrente. Giusto un po’ coattamente come il giocatore di flipper di Carlo Verdone in Troppo forte; in fondo noi, poveri, non abbiamo colto la sottigliezza alla base della vignetta di Charlie Hebdo, di come le vittime siano cibo per speculatori e un sisma sia appetitoso, oppure di come c’abbiano sparato la verità in faccia sulle case fatte di merda (e dalla mafia), con la sabbia di mare anziché con i ciottoli di fiume, nella seconda vignetta. La moralina d’oltralpe, esposta anche male, male, è un po’ troppo. Scusate la nostra pressappochezza nazionalista nel vedere una mano troppo pesante irridere con troppa facilità chi stava dormendo ed è morto sfracellato, perdonate il nostro sdegno nel vedere cotanta filosofia espressa in tratti di matita. Lasciateci essere dei vermiciattoli (o dei giornalai imperfetti) della non comprensione e siate Charlie, siate un po’ quel che caspita vi pare. A chi verrebbe in mente di irridere i migranti che si abbandonano alle acque del Mediterraneo? Mi perdoneranno gli intellettuali, mi perdonerà chi si è rotto la favetta della polemica o chi glissa elegantemente: et voilà. Perdoneranno l’impeto del povero umile.

I fantasmi del politically correct, scrive Luigi Iannone il 3 settembre 2016 su “Il Giornale”. Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico, il mio nuovo libro in uscita il 12 settembre. << (…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.

E se la satira è nostrana?

“Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana”, dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, venerdì 26 agosto, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità.

La morte e l'amatriciana: la vignetta che Travaglio doveva evitare, scrive il 25 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. "Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana", dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità. La freddura di oggi, il direttore Marco Travaglio la poteva tranquillamente evitare.  

TERREMOTO E SPETTACOLARIZZAZIONE. Cinismo e retorica creano caccia alle streghe, scrive Piero Sansonetti il 29 ago 2016 su "Il Dubbio". Le conseguenze più gravi del terremoto si potevano evitare. Se ci sono responsabilità personali vanno accertate, e invece è già iniziato il linciaggio. Il riflesso condizionato, si sa, è ingovernabile. Difronte a una tragedia grande come quella di Amatrice, per esempio, giornalisti e Pm (non tutti, ma molti) riescono a mantenere la calma per un paio di giorni, e a far bene il proprio lavoro, e a raccontare - gli uni - e a indagare con serietà e discrezione - gli altri. Poi al terzo giorno si rompono gli argini e la necessità impellente di prendere i colpevoli e linciarli subito subito, prevale su tutto. E così alcuni magistrati non riescono a trattenere la propria pulsione a dichiarare, anche se ovviamente non sono in grado ancora di sapere niente di quello che è successo, e delle cause. E i giornalisti iniziano ad eseguire le sentenze, da loro stessi emesse, e a scrivere tutto ciò che sentono dire in giro, nei vicoli, nei bar. C’è un importante giornale nazionale che l’altro giorno informava - in prima pagina - i suoi lettori, che le pareti della scuola di Amatrice erano di polistirolo. Naturalmente è molto probabile che per il crollo della scuola esistano delle responsabilità soggettive e personali, oltre alle responsabilità politiche delle istituzioni. Ma è altrettanto probabile che ancora nessuno sia in grado di conoscere queste responsabilità. Ed è molto, molto probabile che il polistirolo sia stato usato per motivi di isolamento termico o acustico, e che non c’entri proprio niente col crollo. Però scrivere che le mura erano di polistirolo fa effetto, porta qualche lettore in più. Si fa. Così come fa effetto usare l’espressione: “in odor di mafia”. Che non vuol dire assolutamente niente, ma muove molte emozioni. E spesso quello “in odor di mafia” non è nemmeno la persona di cui si sta parlando, ma un suo lontano parente. Ormai “essere parente” - per la stampa italiana - è diventato uno tra i reati più frequenti.  Il Fatto, per esempio, l’altro giorno indicava al pubblico sospetto (e al pubblico ludibrio) un tale gravato di due colpe evidenti e certe: essere siciliano e - soprattutto - essere “imparentato” con una parlamentare del Pd. E poi, ovviamente, ci sono gli sciacalli. La storia che raccontiamo nell’articolo di Simona Musco in prima pagina è esemplare. La caccia allo sciacallo è un “cult” dell’informazione, da noi. Come una volta era la caccia all’untore, della quale vi abbiamo parlato molto, in questo agosto, ripubblicando la Colonna Infame di Manzoni. E’ del tutto evidente, a chiunque, che le conseguenze tragicissime, con trecento morti, del terremoto di Amatrice, sono in gran parte dovute alla mancanza di prevenzione. Lo abbiamo scritto il primo giorno. Il titolo del nostro giornale era: «Si poteva evitare?». Tutti gli esperti rispondono di si. Che esistono ormai le possibilità tecniche non solo per costruire con criteri antisismici tutte le nuove abitazioni, ma anche per mettere, almeno in parte, in sicurezza, le costruzioni più antiche. E tutti gli esperti ci dicono anche che l’Italia è la nazione più a rischio sismico d’Europa, e dunque la necessità di mettere al sicuro i nostri paesi e le nostre città è impellente. E invece, da diversi anni, si fa troppo poco. Esistono le mappe delle zone a rischio e persino i censimenti dei singoli edifici a rischio. Esiste anche una stima su quanto costa una azione di ristrutturazione generale. Però la politica resta immobile e un po’ indifferente. Eppure tutti sanno che sono altissime le probabilità che nei prossimi vent’anni ci siano in Italia almeno tre o quattro terremoti gravi come quello di Amatrice. Perché non concentrare su una gigantesca operazione antisismica tutte le risorse che è possibile stanziare sulle opere pubbliche? Rinunciando, almeno per un decennio, a ogni altra iniziativa. Concentrando una quantità molto grande di risorse su questa impresa, e mettendo in moto anche un meccanismo probabilmente importante di mobilitazione economica e dunque di sviluppo? Questa è la domanda che va rivolta alla politica. Alla magistratura invece va chiesto di accertare con serietà e certezza se ci sono responsabilità precise e personali per i crolli provocati dal terremoto, e, se ci sono, di chi esattamente sono. Ma questo lavoro va svolto con discrezione, serietà, prendendosi i tempi necessari, senza creare mostri e senza lavorare suoi sospetti e basta, e senza - soprattutto - cercare pubblicità e interagire con la stampa e i suoi clamori. Magari anche rinunciando alle iniziative bislacche che qualche anno fa portarono all’incriminazione (e persino alla condanna in primo grado) di un bel gruppetto di valorosi scienziati accusati di non aver previsto il terremoto dell’Aquila. Quegli scienziati poi furono assolti pienamente, dal momento che non ci vuole una grande scienza per sapere che i terremoti non sono prevedibili da nessuno e tantomeno è prevedibile la loro intensità. Ma furono assolti quando ormai la loro reputazione e le loro carriere erano state già distrutte. Poi, certo, è inevitabile, esiste dei pezzi del giornalismo e della magistratura italiana che vivono di retorica e cinismo, e non sono molto interessati alle certezze e alla verità: retorica e cinismo molto spesso si alleano e quando si alleano creano disastri. Il meccanismo tradizionale della caccia alle streghe è sempre stato quello: retorica e cinismo che si esaltano a vicenda.

Terremoto tra polemiche e apparenza al tempo del dolore 2.0. Tutte le opinioni che abbiamo letto in questi giorni ci inducono a riflettere e la verità è che ci attende una battaglia lunga e faticosa, scrive Francesca Contino il 26 agosto 2016 su "Irpinia 24". Avellino ­ Guardo mia nonna e ho la percezione che tutto intorno abbia assunto dei connotati stonati. La osservo guardare i TG, in preda a una frenesia, con la necessità di cambiare canale e non certo per disinteresse, ma perché delle immagini sono troppo crude e sanno di una tragedia, che lei, come tanti, ha vissuto sulla sua pelle nel 1980. La vedo mentre sembra disegnare con lo sguardo un terrore nascosto, a tratti inenarrabile. Quando le chiedo di raccontarmi di quel 23 Novembre, le parole si accavallano e poi d’improvviso si spezzano, come se si rinnovasse un dolore troppo grande anche da rispolverare. Riemergono con più facilità i ricordi della solidarietà, dello stare insieme delle famiglie, del buon cuore dei commercianti locali che donavano i loro prodotti, di quelli che ospitavano la gente del paese nelle loro stalle. Avverto il calore di quell’atmosfera, dove ogni contrasto si annienta e poi il freddo di quell’inverno, che nelle sue parole, è ancora più rigido di quello che probabilmente fu. Erano tempi diversi certo. Oggi apprendiamo molte più notizie, corredate di immagini e video istantanei che niente lasciano all’immaginazione. E ce ne serviamo, perché, talvolta, in questa società dormiente, un fotogramma scuote una coscienza meglio di un racconto. Lo abbiamo fatto con le morti sui barconi, con gli attentati terroristici e adesso con il terremoto di Amatrice. Diamo letture differenti, eppure nella selezione delle immagini ricadiamo in una volontà ambigua di spettacolarizzazione, che diventa una vera e propria operazione di marketing, assuefatti alla forma più che al contenuto. E’ un errore che abbiamo commesso, anche se alcuni di noi con ingenuità, con l’intento di arrivare ai lettori in maniera più profonda. Noto con tristezza, come la tradizione italiana si stia riducendo a un talk­ reality ­show, dove il phatos sovrasta la professionalità, con schiere di giornalisti che pongono domande al limite del tollerabile, anche per chi è fuori da certi drammi. Ma non è un problema di categoria, semmai la categoria determina nello specifico la tipologia di alcune involuzioni. Siamo circondati o addirittura siamo gli stereotipi che condanniamo. Dagli sms per donare 2 euro, con tanto di prova fotografica allegata sui social, alle rivalse razziste, travestite da patriottismo di quelli che “la menano” sugli immigrati negli alberghi. Tristezza a palate. Non solo per la violenza di certi pensieri che in rete vengono espressi, quanto per l’insensibilità di chi ha bisogno di spostare sempre l’asse della discussione, di chi si improvvisa costantemente esperto di politica nazionale e internazionale. Dal montepremi del superenalotto che non si può destinare ai terremotati, all’Italexit perché “l’Europa e l’America non soffrono o non aiutano abbastanza”. E così via, fino alla ricerca spasmodica del colpevole, che però è tale, per parte degli utenti guinness di presenze sul web, solo quando si apre la stagione della caccia, solo quando qualcosa è andato storto. E’ la società del dolore 2.0. Le case, le scuole, gli ospedali, tutto crolla. Si comincia ad avere paura, a chiedersi come hanno ricostruito. Lecito, giusto, comprensibile, purché non si lotti solo oggi o per qualche giorno, ma quotidianamente. La buona edilizia, del resto, è una battaglia di legalità e di civiltà. Noi in Irpinia lo sappiamo bene, ma non tutti hanno imparato la lezione. Per citare mia nonna: “C’è chi non aveva nulla e ora ha la villa col giardino e chi è ancora in attesa di una casa”. Ovviamente, per esaurire il cerchio dell’opinabilità, non mancano i commenti alla foto del premier Renzi con un vigile del fuoco, alle prese con le operazioni di salvataggio. “Attento non manterrà le promesse”, “E’ una scenetta costruita a regola d’arte”, “Non ha neanche un’unghia di Pertini”. Ecco, anche la scrivente, risaputamente antirenziana, ha difficoltà a comprendere l’accanimento a priori in questi giorni tremendi, che risucchia tutto e tutti nella spirale del tutto fa brodo. E’ evidente che non siamo in presenza dello spessore morale dell’ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Assodato ciò, lasciate le tastiere e riempite i seggi, perché la rivoluzione si fa col voto pulito. Le fondamenta morali, quanto quelle dei palazzi, reggeranno solo quando non si faranno più gare a ribasso. E anche se in Irpinia non mancano i recidivi, noi non arrendiamoci, avendo sempre a mente il monito pertiniano: “Il miglior modo di onorare i morti è pensare ai vivi”. Francesca Contino.

Facciamo parlare una testimone di un lontano disastro. Io la botta non la ricordo, scrive Cristina Cucciniello su "L’Espresso” il 25 agosto 2016. Avevo un anno, non ricordo il momento della scossa di terremoto, nel tardo pomeriggio del 23 novembre 1980. Era domenica, passate le sette; mio padre ricorda la tranquillità del dopo-campionato davanti alla tv: a quell'epoca, le partite di serie A venivano trasmesse in chiaro e - come ora - subito dopo partiva la tiritera dei commenti. Se torno indietro con la memoria, ho la vaga immagine di mia madre che mi appoggia sul sedile posteriore della nostra automobile. E poi Dario (un volontario, amico dei miei) che mi porta a cavalluccio sulle spalle, nei capannoni della Caritas vicino alla nostra ex-casa. Arrivarono da tutto il mondo tanti di quei giocattoli, per noi bambini sopravvissuti al terremoto, che io ancora ricordo il mio stupore per la quantità; allora i miei erano due ventenni non particolarmente benestanti, in una città rasa al suolo, che davano una mano a smistare gli aiuti umanitari: così tanti peluche, in un colpo solo, non li avevo mai visti. A un anno non capisci la tragedia e capita pure l'impossibile, l'assurda gioia di avere in regalo un peluche enorme. I cazzi amari arrivano dopo, molto dopo. Il dolore, la rabbia sorda, arriva dopo. Anche per gli adulti, intendiamoci: nei primi momenti c'è la disperazione, lo stupore, la disgrazia della perdita dei propri cari e dei propri averi. Ma la rabbia arriva a mente fredda, ti accompagna nel corso degli anni, non va mai via. Non gliela voglio augurare, ma sarà così anche per la popolazione di Amatrice ed è stato così anche per gli aquilani. Io, dopo 36 anni, sono ancora incazzata. Perché la tragedia che ci ha colpito non è consistita solo nei 90 secondi della scossa, ma negli anni successivi: lo scempio del mio territorio, la violenza del ricostruire interi paesi a valle, rispetto agli insediamenti originari, la colata di cemento che ha preso il posto dei materiali tradizionali, l'improvvida decisione di voler profittare della ricostruzione per imporci una industrializzazione forzata che non era e non è nelle corde di un'area collinare e montana, priva di adeguate vie di collegamento. Ne discutevo giorni fa con un amico per metà irpino: chi ha in corpo una goccia di sangue irpino, chi è lupo almeno in parte, davanti a quel cemento soffre. Avellino oggi è una città di bruttezza devastante. Non ha filo logico, non ha congruenza, non ha eleganza. Alterna costruzioni finto ottocentesche a obbrobri ricoperti da vetro e marmo. Strade pavimentate a lastroni lasciano il posto a piazze cementificate. E "buchi", palazzi ancora non ricostruiti, perfino nel corso principale. Ed ecomostri, volgari ville a colori sgargianti che punteggiano le colline intorno alla città - ne vedo una dalla casa dei miei defunti nonni, un pugno nell'occhio fucsia in mezzo al verde. Questa bruttezza mi perseguita, fin da bambina: a 14 anni sono entrata, per la prima volta, in una scuola di mattoni, dopo aver frequentato elementari e medie in orridi cubi di lastroni prefabbricati, che - peraltro - nascondevano fibre di vetroresina e tracce di amianto; a 11 anni sono entrata in una casa "vera", dopo 8 anni in una casetta di legno. A 18 ho lasciato una città per la quale - tuttora - non provo nulla, se non rabbia: solo qui a Roma posso alzare gli occhi e venire sommersa dalla bellezza. Roma, perfino nei suoi angoli più beceri e volgari, toglie il fiato. Roma ha una sua logica, ha una pianta circolare, che - come una cipolla - mostra l'espansione della città nei secoli, con stili architettonici diversi. Ma, ad Avellino, io non ho una storia da osservare, non ho un quartiere del quale posso dire di essere parte: a Pianodardine, subito accanto al Rione Ferrovia, dove mio padre è nato e dove faceva il bagno nel fiume, oggi si susseguono capannoni industriali in parte abbandonati e si muore per mesotelioma e leucemia (vi dice niente il nome Isochimica? Uno dei molti, preziosi regali che una classe politica scellerata ha voluto fare alla nostra comunità). Per provare un minimo di senso di appartenenza, devo andare sui monti, in mezzo ai nostri boschi. Solo nel verde posso vedere la bellezza dell'Irpinia. Perché racconto questa storia? Perché sia di monito, perché aiuti a comprendere che non sarà solo in queste ore che le comunità di abitanti delle zone colpite dal terremoto del 24 agosto 2016 avranno bisogno di supporto, solidarietà, attenzione. Vivranno anni in cui dovranno combattere per preservare quel poco di storia e legami col territorio che il sisma ha lasciato in piedi. Vivranno la tentazione di andar via (come ho fatto io). Vedranno l'arrivo di chi vorrà speculare sul dramma: da noi è accaduto, è storia. Dite di no: è quel che sento di dire a quelle persone. Dite di no quando qualcuno arriverà e vi proporrà "dai, giacché ci siamo costruiamo qui la mega-fabbrica e la mega-tangenziale". Dite di no, quando vi proporranno le new town. Dite di no, quando arriveranno sciacalli pronti ad usufruire degli aiuti statali alla ricostruzione per impiantare stabilimenti in mezzo al verde dell'Appennino: da noi è accaduto, fate che non accada anche alla vostra terra.  

LA LEZIONE DI L'AQUILA. L'avvertimento del terremotato di Libero: "Attenti, ecco chi sono i veri sciacalli", scrive Miska Ruggeri il 25 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Dalle 3.32, ora del terremoto dell'Aquila il 6 aprile 2009, alle 3.36, ora del sisma di Amatrice. In mezzo le 3.33, per il folklore cristiano «l'ora del diavolo», in contrapposizione alle tre del pomeriggio, quando, almeno così vuole una tradizione, Gesù, la seconda persona della Trinità, morì sulla croce (a 33 anni; e da qualche parte si legge anche che era venerdì 3 aprile del 33 d.C.). Coincidenze e superstizioni. Ma in molti nel cuore della scorsa notte, svegliati dalla terra che si muove - i lampadari che iniziano a dondolare, i mobili che si spostano, l'intonaco che cade - riversandosi in strada terrorizzati, ci hanno pensato. Nel capoluogo abruzzese i (pochi) residenti del centro storico e i turisti alloggiati in alberghi e bed and breakfast sono stati invitati a uscire all' aperto e le manifestazioni della Perdonanza celestiniana sono state annullate (si manterrà probabilmente solo l'apertura della Porta Santa a Collemaggio e il corteo della Bolla, eventi clou previsti per domenica prossima). Qui, del resto, nessuno ha dimenticato la tragedia di sette anni fa e a parecchi abitanti è sembrato di rivivere l'incubo. Tanto che ore dopo in giro, nonostante la giornata di sole e relativo caldo, non si vede gente a passeggio, chi gira a piedi lo fa con gli occhi sbarrati come uno zombie, i negozi sono vuoti e il traffico inesistente, anche in viale Croce Rossa tra Piazza d' Armi e lo stadio. Ora il pensiero va ai conterranei di Amatrice (dal 1265 al 1861 parte del giustizierato d' Abruzzo e della provincia Abruzzo Ultra II, con capoluogo L' Aquila; e fino al 1927 provincia dell'Aquila) e dei paesi vicini, ai numerosi morti e ai sopravvissuti. Che avranno davanti anni e anni molto duri. Perché l'emergenza sarà gestita ancora una volta benissimo (in Italia in questo siamo all' avanguardia nel mondo e sono già a disposizione degli sfollati 250 appartamenti antisismici del Progetto C.a.s.e.); Protezione civile, Vigili del Fuoco e volontari faranno miracoli con abnegazione e spirito di sacrificio, lavorando 24 ore su 24. Ma poi, inevitabilmente, arriveranno i mostri della burocrazia, gli sciacalli pronti a rovistare tra le macerie degli edifici (per rubare non solo effetti personali e preziosi, ma con il passare dei mesi persino le mattonelle dei bagni), le cricche, le false promesse dei politici («Non lasceremo solo nessuno», ha dichiarato a caldo il premier Renzi: figuriamoci, passata l' emozione del momento, l' agenda del governo sarà riempita da mille altre priorità), le lotte intestine per spartirsi i soldi, le imprese edili che vincono l' appalto e poi falliscono all' improvviso lasciando i lavori a metà, le infiltrazioni della camorra, le inchieste giudiziarie e i ricorsi al Tar, l' esodo della popolazione, il frantumarsi del tessuto sociale, le dipendenze da alcool e psicofarmaci, gli euro buttati via per i puntellamenti di palazzi comunque destinati a essere abbattuti... Tutte cose che, purtroppo, all' Aquila conosciamo bene. I miei genitori sono ancora fuori casa (l'apertura della pratica per il progetto di ricostruzione sarà esaminata, se tutto andrà secondo programma e non è scontato, nel 2017; poi passeranno altri due anni, di «tempi tecnici», per la messa in opera del primo chiodo), in regime di «autonoma sistemazione» dopo mesi passati in un albergo sulla costa adriatica. E io, pur vivendo a Milano, mi ricordo bene, avendole raccontate su questo giornale, le assurdità post sisma. Il Comune chiuso per il lungo ponte tra il 25 aprile e il 1° maggio 2009, l'ufficio Ricostruzione aperto due ore il martedì mattina e altre due ore il giovedì pomeriggio, le dimissioni mille volte annunciate e poi ritirate dal sindaco, la pantomima dei soldi stanziati o meno («Dateci fondi», «Ve li abbiamo già dati», «Non è vero»). Stavolta sarà diverso, diranno. Speriamo. Miska Ruggeri

TERREMOTO E BUFALE. Tutte le bufale sul terremoto. È l'ora delle panzane social. Dalla magnitudo truccata alla prevedibilità dei terremoti fino al solito carillon di fotografie fuori contesto e al jackpot del SuperEnalotto: il peggio sui sul web a poche ore dalla tragedia, scrive Simone Cosimi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". BUFALE E TRUFFE popolano puntuali i social network in queste ore di dolore e di emergenza per il terremoto che ha colpito il Centro Italia. Come sempre accade in occasione di fatti simili. D'altronde gli sciacalli non si muovono solo fra le macerie reali ma saltano con agilità anche fra quelle virtuali. Diffondendo notizie inventate di sana pianta, rilanciando bufale, proponendo soluzioni impraticabili, sfruttando l'onda emotiva per rinforzare tesi insostenibili. Sempre facendo leva su quei 268 morti e sulle centinaia di feriti. Alcune sono, se possibile in un contesto tanto delicato, di scarsa pericolosità, come il fraintendimento sull'hotel Mario di Cesenatico, che in molti hanno ritenuto fosse della cantante Fiorella Mannoia. La quale aveva solo copiato e incollato sul suo profilo l'appello (reale) di un albergatore, così come ha fatto in altri casi. Altre posseggono invece una carica esplosiva che vale la pena disinnescare senza indugio. Su tutte, quella del presunto taroccamento della magnitudo del sisma (da 6.2 a 6.0) per evitare che lo Stato debba accollarsi i costi della ricostruzione. La responsabilità sarebbe di una presunta legge voluta dall'allora governo presieduto da Mario Monti che fisserebbe la soglia del rimborso a 6.1 gradi. Nulla di più inventato. La bufala, circolata già in passato, si aggancia a un articolo del decreto-legge n.59 del 15 maggio 2012 poi convertito nella legge n.100 del 12 luglio 2012, quello di riordino della Protezione civile. Quell'articolo, che prevedeva l'assicurazione privata per i rischi derivanti da calamità naturali, fu soppresso al momento della conversione. Nessun limite risulta da nessuna parte del testo (approvato pochi giorni prima del terremoto che colpì l'Emilia-Romagna) e in ogni caso i risarcimenti vengono calcolati sulla base di un'altra scala, la Mercalli-Cancani-Sieberg, che valuta l'intensità del sisma in termini di danni prodotti sul territorio e non in base alla magnitudo della scala Richter. Sono nozioni che s'insegnano in terza elementare. Un'altra bufala è quella del jackpot del SuperEnalotto da destinare alla ricostruzione. L'hanno lanciata alcuni politici, contribuendo così alla confusione: su tutti Antonio Boccuzzi del Pd e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia. Innescando anche numerose petizioni su Change.org e Firmiamo.it e il coinvolgimento di star come Fiorello. Peccato che la Sisal sia una società privata che gestisce il concorso su concessione statale. Al massimo si potrebbe lavorare sulla tassazione collegata (o spingere Sisal a una donazione indipendente) ma certo è impossibile sottrarre quel montepremi maturato nel corso dei mesi in virtù delle puntate dei giocatori, che scommettendo firmano di fatto un contratto con la società in base al quale questa si impegna a redistribuirlo in caso di vittoria. Di sciacallaggi digitali se ne stanno vedendo molti. Da personaggi di dubbia notorietà che non riescono a contare fino a 10 prima di scrivere ad altri che utilizzano la tragedia come pretesto da servizio fotografico fino, appunto, alle amarissime panzane. Come quella sui rifugiati e sul loro "pocket money" (che alcuni, come a Gioiosa ionica, hanno perfino deciso di donare): non si tratta certo dei 30 euro al giorno (spesso soglia massima), che servono alla totalità delle spese per la loro ospitalità, ma di 2,5. Affitto del locale, costi di gestione, pulizia, vitto: c'è tutto, in quella quota giornaliera da 30 euro versata dallo Stato in base a bandi locali dei comuni su indicazione ministeriale attingendo a fondi in buona parte europei a ciò dedicati e non destinabili altrove. In queste ore si sono poi registrate bufale sulle reti idriche danneggiate e sull'acqua non potabile, smentite dalle aziende che se ne occupano, su presunti rischi di tsunami elettromagnetici e sugli ormai tristemente noti terremoti artificiali, oltre che su un altro motivo ricorrente delle situazioni post-sisma: la loro prevedibilità e periodicità, visto che secondo molti stregoni "avverrebbero di notte e col caldo". Una tesi che non ha alcun fondamento scientifico né nel primo caso né nel secondo: basta sfogliare il drammatico catalogo dei terremoti degli ultimi mille anni per coglierne l'assoluta casualità. Nullo anche il collegamento con la meteorologia. Si possono al contrario elaborare mappe di rischio, studiare le serie storiche, determinare aree e zone in maggiore pericolo. Ma di modelli attendibili di previsione non c'è purtroppo alcuna possibilità di stilarne. E la comunità scientifica internazionale è spesso tornata sul punto. Quando ce ne sono - e in questo caso non ce ne sono state - neanche le avvisaglie, i cosiddetti "foreshock", fanno fede e non possono che essere collegati con nesso causale solo a posteriori. Intorno a queste grandi bufale sui social network se ne sviluppano a decine, che ruotano sostanzialmente intorno alla mistificazione di immagini di altri eventi, alla fantasiosa variazione sulla solidarietà giunta dal mondo (è il caso dei 10mila uomini della protezione civile russa in marcia verso il nostro Paese) o a varie tipologie di fondamentalismo. È per esempio accaduto con la foto di un bimbo estratto dalle macerie 22 ore dopo il sisma, in realtà presa dal terremoto di Katmandu del 25 aprile 2015. Oppure altre immagini, come quelle di una chiesa in Emilia risalente al sisma di quattro anni fa. Anche sui social network è fondamentale fare riferimento alle fonti tecniche, che (su Twitter INGVterremoti, CNgeologi, Palazzo_Chigi, CroceRossa) e alzare al massimo l'asticella su ciò che circola sulle nostre bacheche.

TERREMOTO E SOCCORSI. Terremoto, polemiche sui ritardi soccorsi. La Protezione civile: nessun ritardo, scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "Il Messaggero". «La macchina dei soccorsi si è attivata subito, pur aver scontato ritardi dovuti al fatto di dover arrivare in una zona di montagna, con la viabilità sconvolta: raggiungere ogni singola frazione è difficile ma il sistema si è orma completamente dispiegato». Lo ha detto a Uno Mattina Carlo Rosa, responsabile Protezione Civile del Lazio, respingendo le accuse di ritardi nei soccorsi. E' stato in particolare il sindaco di Accumoli ad accusare ritardi nei soccorsi, sottolineando che la prima squadra dei pompieri è arrivata alle 7.40, oltre tre ore dopo la prima scossa. I soccorritori hanno incontrato diverse difficoltà per raggiungere Accumuli, uno dei comuni in provincia di Rieti più colpiti dal terremoto che ha interessato la zona a cavallo tra Lazio, Marche e Abruzzo. Diverse strade sono infatti interessate dai crolli e questo non consentiva ai mezzi di soccorso di raggiungere il paese. Rabbia e sconcerto tra gli abitanti di Illica, una frazione a pochi chilometri da Accumoli (Rieti). «Vogliamo i militari, stiamo aspettando, noi paghiamo», ha denunciato Alessandra Cappellanti, residente ad Illica, «c'è una caserma ad Ascoli, una Rieti, una all'Aquila e non si è visto un militare, fate schifo!». La disperazione anche nelle parole di Domenico Bordo, un altro abitante del villaggio, «sono sotto le macerie, non ci è ancora andato nessuno, ci vogliono i mezzi». Secondo un primo bilancio nella frazione di Illica, ci sarebbero almeno altri 3 morti e 4 dispersi.

Scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "New Notizie". Dopo il terribile sisma che ha coinvolto il centro Italia ed ha distrutto diversi paesi in provincia di Rieti ed Ascoli Piceno, facendo finora più di venti vittime, arrivano le polemiche per i soccorsi. Secondo molte persone, che tenevano aggiornato il Paese in diretta sui social, i soccorsi sono arrivati troppo in ritardo rispetto alle prime chiamate. Il sindaco di Amatrice, Pirozzi, ha sostenuto che la macchina dei soccorsi è ritardata. “Ho chiamato i soccorsi alle 4 ma ancora non abbiamo visto nessuno, è scandaloso” ha sostenuto il primo cittadino. La giornalista Sabrina Fantauzzi ha invece denunciato ritardi nel soccorso ad Illica. Su Facebook la donna ha scritto: “Illica, il paese della nostra infanzia, non c’è più. La scossa terribile alle 3 e 40. I sopravvissuti tutti in un campo all’aperto. Eravamo circa 300 persone, tutti romani, in villeggiatura. Siamo rimasti in 30. Ancora nessuno è venuto a soccorrerci”. Sul suo post la donna scrive: “Il 113 non risponde, non risponde nessuno”. Poco dopo la Fantauzzi pubblica un altro post: “A Illica, vicino ad Accumoli (altro paese gravemente colpito dal terremoto, ndr), sono arrivate solo due ambulanze, ci sono 4 soccorritori, prendono feriti ma non stanno intervenendo sulle case distrutte con dentro gente morente”.

Di seguito si riporta l’opinione di Vittorio Feltri che non fa mancare le solite sue scivolature razziste e giustizialiste.

Vittorio Feltri il 28 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”: vi spiego perchè ci servirebbe un Bertolaso. Il più efficiente è stato il ladro napoletano. Bisognerebbe metterlo a lavorare a Palazzo Chigi, ramo interventi d' urgenza. Appena sentita la scossa, accertato qual era la località più disastrata, si è attrezzato e ha organizzato la sua operazione di pronto intervento. Da sotto il Vesuvio si è mosso verso Amatrice ed è arrivato prima delle «colonne mobili» della Protezione civile. E dire che partiva da più lontano. Il brigante partenopeo ha comprato da cittadino perbene il biglietto del treno per Roma, mica da prendersi una multa, poi dalla Capitale si è arrangiato con mezzi propri. Così nel primo pomeriggio è stato sventuratamente (per lui) bloccato mentre già se ne stava andando dalle rovine dove aveva scavato alacremente per riempire di bottino la valigia. Se lo avessero linciato, troveremmo articoli pensosi sul diritto a un giusto processo anche per gli sciacalli, non il mio però. Bisogna che qualcuno sia cattivo davanti ai morti. Non faccio fatica ad assumermi il compito. In questi giorni è tutto un sacrosanto commuoversi, e dappertutto in televisione e sui quotidiani sta prevalendo il politicamente corretto: guai a chi scompiglia con un sassolino il laghetto delle lacrime collettive. Ieri siamo stati criticati nel programma In Onda di La7 perché abbiamo detto che oggi prevale nelle autorità dello Stato, Boldrini in testa, il pensiero di come fare bella figura con i morti, visto che tra i sopravvissuti non sono affatto popolari, poiché con i loro elicotteri e le visite di cortesia hanno rotto non solo i gazebo. E qui, al diavolo se mi danno del renziano, concordo con Marco Travaglio nel non associare al gruppazzo unto dei propagandisti Matteo Renzi, il quale è corso a vedere, ha detto poche cose oneste e senza trombe al seguito. Ma adesso non gliene risparmieremo una. Faccia subito un esame di coscienza, alla sua e a quella dei suoi uomini, e non a quella di Caino Monti e Adamo Berlusconi. Gli facilitiamo il compito. Infatti anche se nessuno lo ha fatto notare, tranne il nostro Franco Bechis, la Protezione civile è rimasta imbambolata e ha sottovalutato l'entità della devastazione. Il testimone della lentezza e della disorganizzazione è proprio il ladro terrone. Il sindaco di Napoli, Gigi De Magistris, ha annunciato che si costituirà parte civile contro il concittadino reprobo che danneggia la reputazione della città partenopea. Dovrebbero denunciarlo per diffamazione la Protezione Civile e il ministro dell'Interno: perché con la sua rapidità ha dimostrato che in Italia si può essere svelti. Solo a rubare però. Mi rendo conto che butterà male per Libero. Questi sono i giorni della solidarietà. D' accordo. Ma per mettere mano al portafogli ne basta appunto una, con l'altra qualche pugno sul tavolo mi sento in obbligo di tirarlo. E sfido ad accusarmi di immoralità o cinismo. Fu Enrico Berlinguer, il campione della questione morale (la morale degli altri: infatti incassava ancora l'oro di Mosca), a rompere con la Democrazia cristiana e a far andare in crisi il governo Forlani dopo il sisma in Irpinia, dove si distinse tra i tuoni del terremoto la voce accusatoria di Sandro Pertini. Il Capo dello Stato fece a pezzi tutto lo Stato, salvo, con oculata scelta, se stesso, come fosse uno appena sceso dal cielo agitando le alucce scandalizzate. Il Corriere della Sera gli prestò un altoparlante formidabile, inveendo a ragione contro i ritardi dei soccorsi e la disorganizzazione. Oggi né sul Corriere né altrove si osa dire un beh, in compenso si odono belati complimentosi. Forse perché le comunicazioni per conto della Protezione civile le fa la spigliata Titti Postiglione, che ha il merito indiscutibile di essere sorella del vicedirettore del Corriere, il valente Venanzio? Il familismo conta sempre in Italia. C' è però soprattutto un'altra ragione, ritengo: e sta in quello che abbiamo denunciato prendendoci la ridicola accusa di razzismo. La macchina del soccorso urgente in Italia ha il tom tom a destinazione prioritaria se non unica: le coste della Libia, dove spediamo navi, elicotteri in quantità e con lodevole velocità. Non fa niente se questa presunta certezza spinge migliaia di persone a partire su gommoni sfasciati e predisposti al naufragio, ma è un fatto. Per cui i radar del Pronto soccorso, che è il ramo specifico della Protezione civile, sono tutti puntati verso i barconi e il mare e non verso le nostre terre ballerine. Lo ha denunciato dalla Sierra Leone il disgraziatissimo Guido Bertolaso, il quale ha notato da laggiù, dove si sta dedicando a un ospedale, la discrepanza di trattamento tra migranti africani e terremotati indigeni (nel senso di italiani). Il poveretto è stato subito zittito a male parole. Bertolaso, basta parlare con chi l'ha osservato al lavoro, è un fenomeno nell' organizzare i soccorsi degli altri, ma non di se stesso, per cui si è trovato impiccato per essere stato oggetto di alcuni delicati massaggi durante il giusto riposo del guerriero. Ora ce ne vorrebbe uno così. Anzi, avrebbe dovuto essercene uno così. Poi si faccia fare tutti i massaggi brasiliani e thailandesi che desidera, offro io. Invece... Invece hanno dormito, eccome, se lo hanno fatto. Sono rimasti in bambola. Non dico i volontari, quelli sono arrivati di corsa, e pure in troppi. Ma quelli pagati, i capi, avevano la testa altrove o erano in ferie. O sono più bravi a comunicare lestamente che a recarsi sul posto prontamente. Su youtube si può riascoltare la telefonata del sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, a Radio 24. C' è già stata la seconda scossa. Le prime luci dell'alba mostrano la sciagura immane. Le sue parole sono: «Guardi, servono unità speciali che tirino fuori le persone da sotto le macerie. La nostra emergenza è che dobbiamo fare in modo tirar fuori da sotto le macerie la gente». Lo ripete tre o quattro volte. Il giornalista gli chiede se ci sono dei morti. Pirozzi è stupitissimo della domanda. Com' è possibile che dopo tanto tempo non si abbia nessuna contezza della gravità dell'accaduto: «Il paese non c' è più». Ripete: «Bisogna cercare di far venire nelle nostre zone delle unità speciali. Anche elicotteri, abbiamo attrezzato i campi. Stiamo cercando di far venire i pompieri...». Finalmente il conduttore capisce: «Lanciamo l'appello». Risposta: «Grazie, grazie, grazie, Dio vi benedica». Stupito il cronista chiede: «Ha ricevuto telefonate da Palazzo Chigi?». Risposta: «No no no. Da Palazzo Chigi e dalla Protezione civile no. Dalla Regione, ho parlato con la prefettura di Rieti». Continua: «Spero che riusciate a darci una mano. Case non ce ne stanno più e la gente sta sotto». La prima colonna mobile della Protezione civile del Lazio si è mossa - secondo comunicato ufficiale - alle 9 e 40, quando lo sciacallo vesuviano era già per strada da tre ore e passa (la prima scossa è stata alla 3 e 36). Se fosse stato vicino alla battigia di Tripoli, in mezzora arrivava un incrociatore con elicotteri. Noi non diciamo prima gli italiani poi i profughi. Ma almeno par condicio. Ridateci Bertolaso. Vittorio Feltri

Terremoto, le due facce del volontariato. Il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno assistito a questi eventi non solo da spettatori, scrive Ilvo Diamanti il 29 agosto 2016 su “La Repubblica”. L'altra faccia del terremoto, della tragedia che ha devastato alcune zone dell'Italia centrale, è il ritorno del volontariato. Che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per "intorno" intendo l'intero Paese. Perché il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno "assistito" a questi eventi non solo da "spettatori". Di uno spettacolo doloroso riprodotto su tutti i media, ad ogni orario. Gli italiani, infatti, in gran parte, si sono sentiti coinvolti - e sconvolti - dal dramma di Accumoli, Amatrice, Pescara del Tronto. E degli altri paesi situati nell'epicentro del terremoto. Al crocevia fra Marche, Lazio e Umbria. Così, in breve, si è diffusa e allargata la partecipazione solidale dei cittadini di tutta Italia. Al punto da costringere i coordinatori dei soccorsi a frenare questa spinta generosa. Cercando, quantomeno, di regolare la qualità e la quantità dei contributi, in direzione delle domande "locali". Per evitare l'eccesso di "doni" e di "beni" - già eccedenti. Questa premessa permette di comprendere la complessità di quella realtà che, nel discorso quotidiano, è riassunta con un solo termine. Una sola parola. Volontariato. Pronunciato, spesso, senza precisazioni. Dato per scontato. Mentre si tratta di un fenomeno distinto e molteplice. Che, nel tempo, ha cambiato immagine e significato. Il volontariato. È un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Per citare la prima indagine sul settore condotta dall'Istat (nel 2014). La quale stima, il numero di volontari, in Italia intorno a 6 milioni e mezzo di persone. Cioè, circa il 12,6% della popolazione. In parte (4 milioni) coinvolti in associazioni e in gruppi, gli altri (2 milioni e mezzo) impegnati in forme e sedi non organizzate. Ma, se spostiamo l'attenzione anche su coloro che operano in questa direzione anche in modo più occasionale, allora le misure si allargano sensibilmente. Il Rapporto 2015 su "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica, infatti, rileva come, nell'ultimo anno, quasi 4 persone su 10 abbiano preso parte ad attività di volontariato sociale. Che si producono e si riproducono in base a necessità e ad emergenze. Locali e nazionali. Come in questa occasione. Il "volontariato", infatti, è utile. Alla società e allo Stato. Ai destinatari della sua azione e alle persone che lo praticano. Il volontariato "organizzato", d'altronde, ha progressivamente surrogato l'azione degli enti locali e dello Stato. Si è, quindi, istituzionalizzato. In molti casi, è divenuto "impresa". Sistema di imprese, che risponde a problemi ed emergenze. Di lunga durata oppure insorgenti. Il disagio giovanile, le povertà vecchie e nuove. Negli ultimi anni, in misura crescente: gli immigrati. E di recente: i rifugiati. Fra le conseguenze di questa tendenza c'è la "normalizzazione della volontà". Che rischia di venir piegata e di ripiegarsi in senso prevalentemente "utilitario". Divenendo una risorsa da spendere sul mercato del lavoro e dei servizi. Il "volontario", a sua volta, rischia di divenire un professionista. Una figura professionale. E, non a caso, sono molti i "volontari di professione", che operano in "imprese sociali". Il principale rischio di questa tendenza - sottolineato da tempo - richiama, anzitutto, la dipendenza del volontariato e, di conseguenza, dei volontari "di professione" da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche. Visto che questo volontariato e questi volontari dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali. Talora, com'è noto, sono perfino divenuti canali di auto-finanziamento. Per soggetti e interessi politici e impolitici, non sempre leciti e trasparenti. Bisogna, dunque, diffidare del "volontariato"? Sicuramente no. Perché il volontariato è, comunque, un fenomeno ampio e articolato. In parte organizzato, in parte no. Espresso e praticato, in molti casi, su base individuale. Un modo per tradurre concretamente la solidarietà. Un'altra parola poco definita e molto usata. Perfino abusata. Ma che riassume un fondamento della società. Perché senza "relazioni di reciprocità", dunque, di solidarietà, la società stessa non esiste. Così, il volontariato organizzato fornisce riferimento e continuità al volontariato individuale. Al sentimento diffuso di altruismo che anche in questa occasione si è manifestato. Il volontariato organizzato offre visibilità - e dunque sostegno - al grande popolo del "volontariato involontario". Che fa solidarietà fuori dalle organizzazioni, dalle associazioni. Dalle istituzioni e dalle imprese.

L’Italia… paese di furbi, scrive Armida Tondo il 7 febbraio 2012 su “Italnews”. Noi italiani non cambieremo mai, siamo pronti a sparare a zero su tutti, spesso senza conoscere i fatti! L’ultima polemica, nata a causa del maltempo di questi giorni, è nata sull’intervento dell’Esercito nelle zone più colpite. Ma andiamo ai fatti. Tutto nasce dai sindaci alle prese con l’emergenza neve, chiedono e ottengono l’aiuto dei militari dell’Esercito, fin qui nessun problema! Però i nostri amministratori scoprono che gli uomini dell’Esercito hanno un costo. E allora, qual è il problema? Se non vado errata, chi vuole mi potrà smentire, la protezione civile, le associazione di volontariato, hanno contributi statali e non solo, ogni singola sezione comunale ha contributi regionali, provinciali e comunali, o sbaglio? Tornando al caso scoppiato stamattina, insomma gli amministratori scoprono che la presenza degli uomini e mezzi dell’Esercito ha un costo, dieci spalatori, soldati con una pala in mano, costano al giorno 700 euro. A far scoppiare il caso è il Presidente della Provincia di Pesaro Urbino, Matteo Ricci, che ha dichiarato: “Non voglio fare polemiche, in un momento così drammatico le istituzioni devono collaborare e non polemizzare, ma non mi sembra giusto che lo Stato faccia pagare i Comuni in un frangente simile, quando raggiungere o non raggiungere un’abitazione, un borgo sepolto dalla neve è spesso questione di vita o di morte per anziani, malati, bambini. I Comuni e le Province sono già strozzati dal Patto di stabilità, stanno spendendo milioni di euro, che non hanno, per mettere in campo spazzaneve, pale meccaniche, servizi di prima necessità, e devono pagarsi pure l’Esercito…”. E chi dovrebbe pagare? Oppure i soldati non hanno un costo? Vorrei fare alcune riflessioni. Premesso che ritengo giusto che chi lavora venga pagato, analizziamo la situazione. Sono certa che i Vigili del Fuoco, il personale dell’Enel, il personale della Protezione Civile, chiunque sia impegnato in questi giorni nei luoghi più colpiti dal maltempo venga retribuito. Allora mi chiedo: perché i soldati no? Forse sarebbe opportuno spiegare ai nostri lettori che ogni movimento della protezione civile, così come altre associazioni di volontariato, usufruisce di un contributo o “rimborso spese” che, senza entrare nel merito di come viene calcolato, in ogni caso è comunque denaro! Cari presidenti di regioni e sindaci perché non dite quanto vi costa, anzi, scusate, quanto ci costa a noi contribuenti, avere un “volontario” della protezione civile davanti alle scuole ogni mattina? O quanto ci costano i loro mezzi di trasporto? E vogliamo parlare di volontari che pur avendo un posto di lavoro, svolgono il volontariato con un contributo mensile che spesso si avvicina ad uno stipendio… allora prima di sparare sul costo dell’Esercito, andiamo a vedere i costi dei volontari! Ancora una volta riaffiora la mentalità retrograda e faziosa di qualche decennio fa, quando si pensava che il soldato fosse a costo “zero”, tanto dalla mattina alla sera bighellona in caserma. Oggi le Forze Armate sono fatte di volontari professionisti, basta leggere le cronache relative alle missioni fuori area, e, pertanto, come per tutti i professionisti, la loro opera ha un costo. I mezzi non si muovono senza gasolio, gli equipaggiamenti hanno un costo e si usurano, i soldati mangiano come tutti gli esseri umani…e allora, perché è scandaloso pagarli? Forse il dott.  Ricci intendeva che a pagarli fosse lo Stato. Ma dov’è la differenza? O forse per Ricci esiste ancora “pantalone”? Armida Tondo

MA I VOLONTARI A PAGAMENTO SONO VOLONTARI? Si chiede Michela Scavo il 26 luglio 2012. Il volontariato è un’attività libera e gratuita svolta per ragioni private e personali, che possono essere di solidarietà, di assistenza sociale e sanitaria, di giustizia sociale, di altruismo o di qualsiasi altra natura. Può essere rivolto a persone in difficoltà, alla tutela della natura e degli animali, alla conservazione del patrimonio artistico e culturale. Nasce dalla spontanea volontà dei cittadini di fronte a problemi non risolti, o non affrontati, o mal gestiti dallo Stato e dal mercato. Per questo motivo il volontariato si inserisce nel “terzo settore” insieme ad altre organizzazioni che non rispondono alle logiche del profitto o del diritto pubblico. Il volontariato può essere prestato individualmente in modo più o meno episodico, o all’interno di una organizzazione strutturata che può garantire la formazione dei volontari, il loro coordinamento e la continuità dei servizi. Questa è la definizione di Volontariato che possiamo trovare su Wikipedia. A Palazzago ultimamente il tema “Volontari” è molto in voga. Pare ci siano volontari per ogni cosa: per il volantinaggio, per l’assistenza allo spazio compiti, quelli delle varie associazioni, quelli tanto ricercati per ripulire scuole e via dicendo. Ma ci sono volontari e volontari. Ci sono quelli veri e ci sono quelli con il rimborso spese da 5,16 euro all’ora. Premesso che poco mi importa se dei cittadini vengono pagati miseramente per svolgere attività sul territorio, ma perché continuiamo a chiamarli VOLONTARI? Non sarebbe più giusto definirli collaboratori sottopagati? Già, non si può perché non sono sotto pagati, percepiscono un rimborso spese. Allora la mia domanda è, se vengono rimborsate delle spese dove possiamo trovare la documentazione, per ogni singolo presunto volontario, che certifica queste spese? E se di rimborso spese si tratta per quale motivo pare che ci siano dei volontari a rimborso che attendono da tempo i soldi che gli spettano? Poi non stupiamoci se ci sono associazioni di volontari da 1800 euro l’anno e associazioni da 26mila euro l’anno. I volontari vanno pure spesati giusto? E non mi si venga a dire che senza il rimborso nessuno farebbe il volontario a titolo gratuito, lo dimostrano tante associazioni sul territorio e alcuni gruppi di recente formazione che il volontariato vero a Palazzago può esistere tranquillamente. A questo punto sono proprio curiosa di capire perché nessuno dei nostri amministratori, di fronte allo sdegno di alcuni per i contributi alla Pro Loco non abbia menzionato la questione. Forse perché nonostante la vagonata di soldi predisposta anche quest’anno sono in arretrato con i rimborsi spese? O forse perché se non si decidono a tirare fuori le quattro palanche che devono rischiano di trovarsi senza volontari sugli scuolabus a settembre? Come è possibile che nella convenzione con la Pro Loco non si accenni alla retribuzione di tali finti volontari? Forse perché in realtà non si tratta di volontari ma di cittadini sottopagati praticamente al servizio del comune, che camuffa dei compensi con il rimborso spese? Non sono proprio sicura che sia una cosa fatta a regola d’arte ma c’è una commissione che si occupa delle associazioni, qualcuno sicuramente saprà darci una risposta. Michela Scavo

Fai il volontario e chiedi un rimborso? Prima paga la tassa. I soccorritori che chiedono il rimborso della giornata di lavoro devono allegare due marche da bollo da 16 euro, scrive Franco Grilli, Domenica 06/07/2014, su "Il Giornale". Ci può essere una pretesa più assurda di quella di far pagare una tassa a chi presta il proprio tempo per opere di volontariato? Temiamo proprio di no, eppure, a quanto pare, si è verificato anche questo. Con un'interrogazione urgente il parlamentare bellunese Roger De Menech (Pd) ha chiesto al governo di fare piena luce su quanto gli è stato segnalato dal responsabile del Soccorso alpino, Fabio Bistrot. "Voglio proprio sapere - dice il parlamentare - chi è il geniale burocrate che pretende 32 euro da ciascun volontario ogni volta che fa un intervento di soccorso e, di conseguenza, chiede il rimborso della giornata di lavoro persa. Di certo non ha mai fatto il volontario". L'importo, a quanto si apprende, corrisponde a due marche da bollo da 16 euro ciascuna da apporre a ciascuna richiesta di rimborso presentata dai volontari. "E’ incredibile che qualcuno voglia spremere soldi dai volontari", afferma sdegnato De Menech. "Se a farlo è addirittura lo Stato, aggredisce la dignità dei volontari e mina il principio di sussidiarietà. Questo increscioso episodio conferma l’urgenza non solo di riformare la pubblica amministrazione ma anche di quanto sia necessario e indispensabile il ricambio di personale all’interno della burocrazia italiana. L’attuale burocrazia è ostile ai cittadini e ai contribuenti, e interpreta il proprio ruolo non al servizio degli italiani ma come potere da usare contro i nostri concittadini". Nell’interrogazione che ha presentato De Menech chiede ai ministeri interessati cosa intendano fare per "superare un’interpretazione giuridica che avvilisce la dignità stessa dei soccorritori, considerato peraltro il ruolo fondamentale da essi svolto nella stagione estiva, sia sull’arco alpino che su quello appenninico, volto a garantire la presenza dello Stato in tali ambienti e a fornire quel supporto di sicurezza, prevenzione e soccorso alle migliaia di turisti, italiani e stranieri, che decidono di trascorre le proprie vacanze in tali luoghi". Con il rischio evidente che, l'assurda tassa, possa scoraggiare i generosi volontari dal continuare a prestare la loro opera. I volontari della protezione civile, se nella vita sono lavoratori dipendenti, in caso di soccorso durante il terremoto o altre calamità naturali, hanno diritto alla retribuzione. Sono pagati dal datore di lavoro con il normale stipendio e hanno diritto la conservazione del posto di lavoro. L’azienda a sua volta può chiedere il rimborso all’Inps. Ma è necessario effettuare alcuni adempimenti. Ai volontari lavoratori autonomi spetta invece una indennità. Vediamo tutte le informazioni.

Diritti dei lavoratori, scrive Antonio Barbato il 30 agosto 2016. Gli eventi sismici che hanno colpito l’Italia negli ultimi anni hanno evidenziato il ruolo chiave in Italia dei Volontari della protezione civile, dei Vigili del Fuoco e degli appartenenti alle forze armate e di polizia. Le attività di protezione civile sono fondamentali in Italia, soprattutto per far fronte alle emergenze. L’attività dei volontari è disciplinata dalla legge italiana soprattutto in termini di diritti dei lavoratori. Il volontario che nella vita è lavoratore dipendente del settore privato o pubblico ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e allo stipendio. Il volontario che nella vita è lavoratore autonomo ha diritto ad un indennità. Quando coloro che svolgono attività di volontariato sono impegnati in operazioni di soccorso per calamità naturali o catastrofi o per attività di addestramento e simulazione, pianificate dall'Agenzia Nazionale per la Protezione civile o dalle altre strutture istituzionali, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, sia pubblico che privato e hanno diritto inoltre al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro e alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dalla legge. Quindi alla domanda “i volontari di protezione civile sono pagati?” la risposta è che il volontariato della protezione civile è un servizio gratuito reso dal volontario ma spetta loro lo stipendio, se sono lavoratori dipendenti. E spetta una indennità se sono lavoratori autonomi. Vediamo perché. Il legislatore ha provveduto a tutelare i volontari lavoratori che, in caso di impiego nelle attività di Protezione civile a seguito della dichiarazione dell’esistenza di eccezionale calamità o avversità atmosferica, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri “straordinari" (dall'attivazione dei primi soccorsi alla popolazione e degli interventi urgenti necessari a fronteggiare l'emergenza, fino all'attuazione degli interventi necessari per favorire il ritorno alle normali condizioni di vita nelle aree colpite da eventi calamitosi). In tali casi, nonché a seguito dell’impiego in attività di pianificazione, soccorso, simulazione, emergenza e formazione teorico-pratica, anche svolte all’estero, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, al trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato, nonché alla copertura assicurativa.

Diritti dei volontari di protezione civile. I volontari che partecipano all’opera di soccorso (effettivamente prestato) hanno diritto:

al mantenimento del posto di lavoro pubblico o privato;

al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato;

alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dall’articolo della legge 11 agosto 1991, n. 266, e successivi decreti ministeriali di attuazione.

Ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. 8 febbraio 2001, n. 194, l’obbligo del datore di lavoro è quello di permettere l'impiego del volontario per un periodo non superiore a 30 giorni consecutivi e fino a 90 giorni nell'anno. Per le attività di simulazione i limiti si riducono a 10 giorni consecutivi e 30 nell'anno, e per emergenza nazionale i termini sono rispettivamente di 60 e 180 giorni.

Quindi si viene dichiarato lo stato di emergenza nazionale, i limiti possono essere elevati fino a 60 giorni continuativi (e fino a 180 giorni nell’anno). I limiti restano tali per tutta la durata dell’emergenza nazionale e per i casi di effettiva necessità.

Il diritto allo stipendio. Nei periodi di assenza del Volontario del servizio civile, il datore di lavoro deve mantenere il posto di lavoro e la copertura assicurativa (Inail) e gli deve corrispondere il normale trattamento economico e previdenziale (quindi stipendio e versamento dei relativi contributi all’Inps). Nello specifico per ogni giornata di assenza tutelata e retribuita spetta la retribuzione globale di fatto giornaliera, ossia tutti quegli elementi della retribuzione che vengono corrisposti normalmente e in forma continuativa (si pensi allo stipendio base, al superminimo, all’indennità di contingenza, agli scatti di anzianità, ecc.). Per quanto riguarda la tassazione in busta paga, non cambia nulla, nel senso che il dipendente volontario della protezione civile riceve il normale stipendio assoggettato alla ritenute fiscali, quindi all’Irpef al netto delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente, familiari a carico, ecc.

Il datore di lavoro ha diritto al rimborso Inps. Il datore di lavoro può poi richiedere rimborso delle somme versate al lavoratore impegnato come volontario. La richiesta va inoltrata all’Inps. I contributi previdenziali versati durante l’assenza del lavoratore non sono però rimborsabili. Al fondo per la retribuzione civile spetta quindi l'onere finale della retribuzione erogata dal datore di lavoro al Volontario di Protezione civile, mentre al datore di lavoro rimane il compito di avanzare richiesta di rimborso all'Autorità della Protezione Civile competente nei due anni successivi al termine dell'intervento, dell'esercitazione o dell'attività di formazione. Nella richiesta vanno indicate in maniera analitica la qualifica professionale del dipendente, la retribuzione oraria o giornaliera spettante, le giornate di assenza dal lavoro, l'evento cui si riferisce il rimborso e le modalità di accreditamento del medesimo.

La documentazione da presentare al datore di lavoro. Prima di tutto il lavoratore che è impegnato come Volontario della Protezione civile ha un obbligo comunicativo, che è quello di informare quanto prima il datore di lavoro della sua partecipazione alle operazioni di soccorso. Al termine delle operazioni stesse, il lavoratore, compatibilmente con le esigenze del soccorso, deve consegnare la dichiarazione del sindaco (o di un suo delegato) dalla quale risulti l'impiego come volontario nelle operazioni di soccorso. La distribuzione dell’orario di lavoro dei volontari di protezione civile. I lavoratori appartenenti ad organizzazione di volontariato hanno diritto, compatibilmente con le esigenze organizzative aziendali, di fruire di un regime di orario di lavoro concordato nell’ambito di una distribuzione flessibile degli orari (art. 17 L. 266/91). Tale disciplina non si applica a che svolge attività di volontariato in modo occasionale, ma solo a chi l’esercita nell’ambito delle associazioni di volontariato. Le predette disposizioni si applicano anche nel caso in cui le attività interessate si svolgono all’estero, purché preventivamente autorizzate dall’Agenzia. Detto regime è esteso anche agli appartenenti alla Croce Rossa Italiana, ai volontari che svolgono attività di assistenza sociale ed igienico / sanitaria, ai volontari lavoratori autonomi e ai volontari singoli iscritti nei “Ruolini” delle Prefetture, qualora espressamente impiegati in occasione di calamità naturali.

Quali sono le associazioni di volontariato. Sono considerate associazioni di volontariato di protezione civile quelle associazioni che siano costituite liberalmente e prevalentemente da volontari, riconosciute e non, e che non abbiano fini di lucro anche indiretto e che svolgono o promuovono attività di previsione e soccorso in vista od in occasione di calamità naturali, catastrofi o altri eventi similari, nonché di formazione nella suddetta materia. Presso l’Agenzia per la protezione civile è istituto l’elenco nazionale dell’Agenzia di protezione civile. Le organizzazioni di volontariato, iscritte nei registri regionali previsti dall’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, nonché in elenchi o albi di protezione civile previsti specificamente a livello regionale, possono chiedere, per il tramite della regione o provincia autonoma presso la quale sono registrate, l’iscrizione in questo registro al fine di una più ampia partecipazione alle attività di protezione civile.

Volontari di protezione civile lavoratori autonomi: spetta un rimborso giornaliero fino 103,29 euro. Ai volontari impiegati in attività di protezione civile che siano lavoratori autonomi e che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero fino a 103,29 euro al giorno. A chi esercita attività di volontariato all'interno di un'associazione ed in modo non occasionale, il datore di lavoro deve, compatibilmente con le esigenze aziendali, dare diritto ad un orario di lavoro flessibile. Più precisamente, ai volontari lavoratori autonomi appartenenti alle organizzazioni di volontariato e legittimamente impiegati in attività di protezione civile, che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero calcolato sulla base della dichiarazione dei redditi (modello UNICO) presentata l'anno precedente a quello in cui è stata prestata l'opera di volontariato, nel limite di Euro 103,29 giornalieri lordi. La misura effettiva dell’indennità, volta a compensare il mancato reddito, è stabilita ogni anno con D.M. lavoro: dato che, per il 2016, la retribuzione media mensile spettante ai lavoratori dipendenti del settore industria è pari a euro 2.127,39, su questa base va calcolata l'indennità spettante per il mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro. Tale importo deve essere diviso per 22 o per 26, a seconda che la specifica attività di lavoro autonomo sia svolta rispettivamente in 5 o 6 giorni per settimana (Ministero del lavoro, decreto 9 marzo 2016). Lavoratori autonomi: adempimenti per la richiesta del rimborso. I volontari che siano lavoratori autonomi, al fine di percepire l'indennità prevista dal comma 3 dell'art. 1 della legge 18 febbraio 1992, n. 162, per il periodo di astensione dal lavoro, debbono farne richiesta all'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione competente per territorio. La domanda deve essere inoltrata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui il volontario ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione. Alla domanda, che deve contenere le generalità del volontario che ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione, deve essere allegata l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata, nonché la personale dichiarazione dell'interessato di corrispondente astensione dal lavoro, resa ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.4. L'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, una volta determinato l'ammontare dell'indennità spettante al volontario, sulla base dell'importo fissato annualmente con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale procede quindi al pagamento dell'indennità all'avente diritto. Ai fini della determinazione dell'indennità compensativa del mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro per l'espletamento delle attività di soccorso o di esercitazione, non si tiene conto dei giorni festivi in cui le medesime hanno avuto luogo, fatta eccezione per quelle categorie di lavoratori autonomi la cui attività lavorativa si esplica anche o prevalentemente nei giorni festivi.

Rimborso Inps: adempimenti del datore di lavoro. Come abbiamo detto, il datore di lavoro è obbligato ad erogare al lavoratore impegnato in operazioni di soccorso come Volontario della Protezione Civile la normale retribuzione, salvo poi poter far richiesta di rimborso. A tal fine va presentata apposita domanda all’Inps, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello dell'operazione. Quante giornate e ore sono rimborsabili? Sono rimborsabili le giornate e le ore di effettiva astensione dal lavoro del volontario di Protezione civile. Sono da escludersi le ore di lavoro prestate nella giornata prima dell'astensione o comunque effettuate dopo l'operazione di soccorso, nonché le giornate, di riposo settimanale, festivo, di ferie, del sabato in caso di "settimana corta", eccetera. L’Inps rimborsa solo per i lavoratori dipendenti iscritti presso le proprie gestioni. La domanda va presentata online e deve contenere:

le generalità del lavoratore;

l'importo della retribuzione corrisposta;

l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei Comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata;

una dichiarazione del datore di lavoro indicante la corrispondente astensione dal lavoro;

la dichiarazione del lavoratore attestante l'appartenenza al CNSAS.

Come diventare volontario della protezione civile. In molti vorrebbero diventare Volontario della protezione civile: vediamo quali sono i requisiti richiesti. Molti si chiedono come entrare nella protezione civile. Riportiamo le disposizioni della Protezione civile. Per poter svolgere attività di protezione civile come volontario a supporto delle istituzioni che coordinano gli interventi, è necessario essere iscritti ad una delle organizzazioni di volontariato di protezione civile inserite negli elenchi Territoriali o nell'elenco Centrale. Gli elenchi territoriali sono consultabili presso la Regione o la Provincia autonoma nella quale si intende svolgere – in prevalenza – l'attività di protezione civile e su questo sito, nella sezione volontariato. L’elenco Centrale, composto da poche organizzazioni nazionali di coordinamento, è consultabile sempre su questo sito nella pagina elenco centrale delle Organizzazioni di volontariato. Chi desidera diventare volontario di protezione civile può, al momento dell'iscrizione presso un'organizzazione di volontariato di protezione civile, valutare una serie di elementi che caratterizzeranno la propria attività nel settore scelto:

ambito territoriale di evento (nazionale, regionale, comunale ecc.);

ambito dimensionale dell'evento (tipo a), tipo b), tipo c) in base all'articolo 2 della legge n. 225 del 1992);

eventuale specializzazione operativa dell'organizzazione (sub, cinofili, aib);

livello di partecipazione con le attività istituzionali;

disponibilità richiesta;

vicinanza della sede alla propria abitazione.

I regolamenti delle varie associazioni possono prevedere adempimenti o limitazioni particolari (es. visita medica per lo svolgimento di mansioni particolari o requisito della maggiore età ai fini dell'iscrizione). Per un approfondimento sul ruolo del volontariato all'interno del Servizio Nazionale di protezione civile è possibile visitare la sezione volontariato. Un'altra possibilità di partecipazione è offerta (solo per alcune fasce di età) dal servizio civile; per avere informazioni su quest'ultimo, occorre consultare l'indirizzo serviziocivile.gov.it.

E per quanto riguarda i volontari dei vigili del fuoco? Per quanto riguarda l'iscrizione nel ruolo dei Vigili del Fuoco Volontari, allo stato attuale le iscrizioni del personale volontario sono sospese, fino al 2014 ho sentito dire, ma di questo non ho conferma. Quello che so di preciso è che la Legge n. 183 del 2011 (che sarebbe poi la Legge di stabilità relativa al 2012) ha disposto, tra le altre cose, l'applicazione di un tetto massimo di nuovi reclutamenti volontari. Di conseguenza tutti i Comandi che hanno già in archivio un numero di domande superiore a quello previsto dalla normativa, non possono nè istruire nuove pratiche, nè accettare ulteriori domande di iscrizione. Quindi, non ti resta che andare al tuo Comando Provinciale e chiedere se puoi almeno presentare la domanda. Per quanto riguarda le retribuzioni, bisogna intanto fare una distinzione fra Vigile Volontario vero e proprio e Vigile Volontario Discontinuo, che sono due figure diverse. Il vigile volontario vero e proprio, quello che fa servizio nei distaccamenti di personale volontario per intenderci, non percepisce uno stipendio ma prende comunque qualcosa, anche se poco. Praticamente, i vigili del fuoco volontari ricevono un compenso in base alle ore di intervento realmente prestate, nonchè per ogni ora di addestramento obbligatorio, che si effettua presso un Comando o comunque una sede con Vigili Permanenti. Quindi, alla fine prendi un tot ad intervento: se fai 12 ore di servizio ma in quelle 12 ore non succede niente, non guadagni niente. Se fai 4 ore di intervento, prendi per 4 volte il compenso orario, che si aggira intorno ai 6 euro l'ora (o almeno era così fino all'anno scorso, comunque il compenso non arriva a 7 euro l'ora). Poi c'è il Vigile Discontinuo: se sei iscritto nei ruoli dei Vigili Volontari come Discontinuo, quando c'è necessità vieni chiamato in servizio per un periodo che può essere di 20 giorni ma anche di 40 e anche, in certi casi, 100, se c'è necessità e se hai la disponibilità per farlo... Comunque sia, i richiami sono sempre di 20 giorni, quindi anche se fai 60 giorni di lavoro sono tre diversi contratti a termine. Come Vigile Discontinuo prendi uno stipendio vero e proprio, per 20 giorni prendi più o meno 1100 €, questo perchè prendi lo stipendio calcolato sui giorni lavorati, ai quali si aggiungono il rateo di tredicesima e la quota t.f.r (essendo un contratto a termine). Inoltre ti pagano eventuali straordinari e reperibilità, che sei libero di dare o non dare. 

E poi chiamali, se vuoi, volontari (con contratto pubblico): I volontari della Croce Rossa.

Niente post terremoto per i soccorritori: pagati per non fare nulla, rimangono a casa. Con le scosse del 24 agosto pensavano di essere più utili in centro Italia che in Lombardia. Ma non sono partiti. Sono gli effetti della privatizzazione della Cri: esuberi e stipendi tagliati per alcuni addetti, mentre altri non escono più in ambulanza. E per coprire i buchi di bilancio si cerca di vendere il patrimonio immobiliare, scrive Michele Sasso e Monica Soldano il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Dalla Lombardia alle zone colpite dal terremoto. Per non stare con le mani in mano, per usare sul campo la propria esperienza di soccorritore. Nei giorni del post-sisma che ha devastato Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto per gli uomini della Croce rossa del comitato lombardo non c’è però nessuna missione: «Non c’è bisogno di voi» è la risposta arrivata dal presidente nazionale Francesco Rocca. I dipendenti che si sono fatti avanti sono tra i 200 lavoratori che dopo la privatizzazione del 2014 hanno deciso di mantenere il contratto pubblico. Da anni timbrano ma fanno poco. Le dieci ambulanze non escono dai garage. Sono autisti e barellieri ma non fanno più la loro professione. In quanto dipendenti pubblici, non possono fare servizi in convenzione (come, ad esempio, le ambulanze per il 118 o il trasporto di malati fuori dall’emergenza) perché esclusi dalla legge. E poi nel 2015 un altro passo verso il paradosso. «Da inizio anno non lavoriamo più sulle ambulanze e giriamo a piedi per Milano svolgendo un servizio di pochissima utilità, equipaggiati con uno zainetto pieno di garze e cerotti», ha raccontato al Fatto quotidiano Mirco Jurinovic, soccorritore e dirigente sindacale di Usb. Costano 4 milioni di euro all’anno ma non vengono utilizzati. È il risvolto kafkiano della privatizzazione. Ci sono voluti due anni per provare finalmente a trasformarsi in una struttura efficiente, indossando il vestito nuovo dell’associazione privata. Gli effetti non sono quelli sperati. Ecco come buttare al vento la passione di 150mila volontari, quasi tremila dipendenti tra personale civile, infermieri e dipendenti del Corpo, e impoverire il servizio d’emergenza in molte Regioni. Il piano di riorganizzazione pensato dall’ex premier Monti ha provocato evidenti cortocircuiti: esuberi e stipendi tagliati per una fetta di addetti, mentre altri vengono pagati per non fare nulla. Oltre al tentativo di svendita dell’immenso patrimonio di quasi 1.500 palazzi e terreni, il frutto di 150 anni di donazioni di chi pensava di fare del bene. Nella fase di transizione è intervenuto con due proroghe anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha messo sul piatto della finanziaria oltre 300 milioni di euro. Fondi necessari a pagare i debiti e tenere in piedi l’esercito di barellieri e operatori del primo soccorso. Emilia De Biasi, presidente Pd della commissione Sanità al Senato è tranchant: «La Croce rossa italiana è ancora un carrozzone con un patrimonio di sedi e competenze svilito. La riforma è un’urgenza: ci vuole trasparenza per tutta la gestione, e invece il ministero della Salute continua a prendere tempo». Nel 2012 si decide di dire basta alla crocerossina di Stato. Privatizzando le organizzazioni provinciali, quindi sciogliendo gli apparati centrali che non hanno mai conosciuto la spending review e «bruciato» un miliardo di euro negli ultimi dieci anni. E qui viene a galla il primo problema, la ricollocazione del personale: ancora adesso ci sono circa 2mila persone da piazzare. Il decreto firmato nel settembre 2015 dal ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia prevedeva esclusivamente il traghettamento verso i ministeri, o istituti come Inps o Inail. Un non sense riparato con la finanziaria, che allarga la possibilità anche al servizio sanitario nazionale, per gran parte degli interessati una collocazione naturale. «Temiamo che il ministero non riesca a gestire il ricollocamento - denuncia Nicoletta Grieco della Cgil - finora c’è stata una gestione scomposta e nessun coordinamento con le Regioni ed Asl locali. Mancano otto mesi alla fine dell’anno e il rischio è la mobilità, seguito dal baratro del licenziamento». In tanti hanno preferito non abbandonare l’uniforme e sono passati ai nuovi comitati. Con un salto all’indietro: lo status di associazione privata prevede contratti targati Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) con stipendi mensili decisamente inferiori, da 1.600 a 1.100 euro. Epicentro della cura dimagrante il Lazio, dove sono concentrati oltre 1200 dipendenti, su un totale nazionale di 2788 addetti. Disorganizzazione e casi-limite come quello di D.M., operatrice precaria che per 25 anni ha lavorato al Centro di educazione motoria (Cem) di Roma. Nel 2011 decide di fare causa per ottenere il tanto agognato contratto a tempo indeterminato e il Tribunale dopo due anni le dà ragione. «Con il nuovo corso mi è stato imposto di non mettere più piede al Cem. Spostata al comitato metropolitano, ho seguito l’emergenza freddo: un campo di tende per dare assistenza ai senzatetto. Il piano è durato dal 15 gennaio al 21 marzo e da allora ogni giorno timbro per non fare nulla». Mentre al centro per la cura di pazienti con gravi disabilità diventato di eccellenza grazie ai quattrini del leggendario canzoniere Mario Riva il personale è stato dimezzato e l’assistenza ridotta ai minimi termini. La privatizzazione avrebbe dovuto portare efficienza e risanamento economico. Nel primo anno - il 2014 - il «disavanzo di cassa è perdurante, posizione debitoria è preoccupante e pesante ricorso all’anticipazione bancaria», ha sottolineato la Corte dei conti. Così per coprire i buchi di bilancio la soluzione è drastica, vendere i gioielli di famiglia: 1.045 fabbricati e 413 terreni. Un’impresa non facile. L’ultimo tentativo risale al maggio 2014, quando 19 lotti tra palazzi e appartamenti vengono messi all’asta: da La Spezia a Schio, fino a Casale Monferrato e Pavia. Finisce all’incanto anche la storica sede sul lungomare di Jesolo, Venezia, e presto la stessa sorte toccherà al palazzetto ottocentesco del quartier generale di Roma. In Laguna il prezzo precipita: da 42 milioni è sceso a 34. Sull’eccessivo ribasso la deputata grillina Arianna Spessotto ha presentato un’interrogazione parlamentare. La risposta del ministero della Salute è arrivata il 17 marzo scorso. Per il sottosegretario Vincenzo De Vito “nessuna svendita”: il ribasso di un quinto del valore è regolare, dopo che le prime due sedute sono andate deserte. Dopo c’è stato un nuovo sconto sul valore dell’immobile ma ancora nessun acquirente. Eppure, a Jesolo, partiti e sindacati non si danno pace perché vedono il rischio di smobilitare i servizi, con 50 dipendenti a spasso. E il via libera alla speculazione. «Quel palazzetto sul mare, con 18mila metri quadrati di spiaggia, ha dei vincoli ben precisi», attacca Salvatore Esposito di Sel. E anche per la Sovrintendenza dei beni culturali si tratta di un edificio di interesse storico, in cui non si possono rimuovere gli affreschi né alterare la struttura delle stanze. Per il conte Ottavio Frova, la donazione del 1928 si vincolava alla cura della “fanciullezza trevigiana”. Nel tempo è prima diventata una colonia per i malati di tubercolosi. Oggi è anche un centro per i rifugiati. Fabio Bellettato, ex capo della Cri Veneto, sul tema aveva lanciato un appello al presidente nazionale Francesco Rocca. Era in disaccordo sulla vendita del patrimonio immobiliare come unica possibilità di risanamento. La richiesta di Bellettato è rimasta inascoltata, mentre lui si è dimesso. Mancanza di democrazia, centralizzazione del potere e interesse solo per le missioni all’estero: sono le critiche mosse dai comitati periferici verso Francesco Rocca, avvocato che gestisce l’ente sinonimo di solidarietà ed aiuto come un padrone assoluto. Un esempio? Quando nel 2011 la funzionaria Anna Montanile ha denunciato alla trasmissione tv “Report” le incongruenze della gestione delle sedi è stata trasferita all’archivio storico. A fare ricerche sulle bandiere. Oggi mentre la Cri è alle prese con un serrato piano di risanamento, Rocca è spesso all’estero per missioni che fanno bene alla sua immagine di numero due della federazione internazionale: Iran, Siria, progetti post terremoto di Haiti ed emergenza profughi. «Non ho rimborsi né indennità, mi viene pagato solo l’albergo quando sono in missione», precisa Rocca a “l’Espresso”: «Da presidente non prendo stipendio, sono totalmente volontario. Purtroppo veniamo da trent’anni di assoluto abbandono. Abbiamo bisogno di dipendenti, ma non in quel numero e con quello spreco». Il presidente-volontario è stato per più di quattro anni commissario straordinario, voluto da Berlusconi (con un budget annuale di 320mila euro), da maggio 2015 è direttore dell’Idi di Roma, l’ospedale dermatologico più grande d’Europa. Di proprietà della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione è al centro di una storiaccia brutta di bancarotta fraudolenta, fatture false e un passivo patrimoniale di 845 milioni di euro.

Ambulanze, il business delle onlus. E il soccorritore lavora in nero, scrive Massimiliano Coccia il 19/05/2014 su “Il Tempo”. La Regione non indice bandi ma si affida unicamente a gettoni a chiamata. Gli operatori del 118 sfrecciano nel traffico a sirene spiegate. Sono i primi ad essere colpevolizzati in caso di ritardi nei soccorsi, sono gli ultimi ad abbandonare il mezzo a fine turno. Ma in tantissimi casi per stare su quelle autoambulanze non hanno un regolare contratto di lavoro. Colpa della crisi e dei tagli alla sanità. Ma, secondo molti, anche della situazione venutasi a creare in seguito ad alcune delibere regionali (271/2011 e 325/2011) che favoriscono nei servizi di trasporto extraospedaliero di emergenza le onlus rispetto agli operatori privati. Queste delibere, che violano il diritto europeo in materia (causa C113/13 della Regione Liguria), creano un sistema, che se confermato, lede in maniera forte ai principi di concorrenza tra privati e di tutela sia dei lavoratori che degli assistiti. Inoltre, essendo le «onlus» enti associativi senza finalità di lucro, non dovrebbero percepire lo stesso rimborso da parte di Ares che spetta ai privati e dovrebbero basarsi solamente sul lavoro volontario. Invece, come ci racconta G.A. (iniziali di fantasia), operatore del 118 dal 2008, molti di loro svolgono un lavoro dipendente a tutti gli effetti, stando sui mezzi 5 giorni su 7 senza assicurazione e senza contratto.

Come sei entrato a lavorare nel mondo del trasporto extraospedaliero?

«Nel servizio di ambulanze in convenzione o a chiamata "spot" per il servizio pubblico del 118 Lazio, ci sono entrato nel 2008, dopo aver perso l'ennesimo lavoro. Il mio contratto scade tra 15 giorni, dopo aver lavorato per molti mesi in nero, come lavorano molti che vengono chiamati per sopperire alle carenze dell'Ares 118».

E come venivi pagato in nero?

«Il gioco è semplice. Viene fatto firmare un foglio per il cui il volontario dichiara di prestare la sua opera senza fini di lucro, ma di fatto entra nel mondo perverso del lavoro in nero. Tutti percepiscono un "rimborso spese" che va dai 50 euro al giorno per 12 ore fino ai 70/80 euro per gli infermieri. Qualsiasi volontario avrebbe diritto ad un rimborso spese giornaliero che comprende il viaggio, il pranzo ed eventualmente un caffè al bar, solo che gli "pseudo volontari" come me, dovevano rientrare la sera a casa e procurarsi almeno 60 euro di scontrini o ricevute, altrimenti la mia giornata lavorativa andava persa. Ci sono "pseudo volontari" che fanno 25 turni al mese, secondo il fisco, come possono mantenere una famiglia solo con i rimborsi spesa?».

Ci spieghi il meccanismo di finanziamento di una "onlus" che si occupa di trasporto ospedaliero?

«L'Ares 118, per sopperire alla carenza di personale, incarica sia le "onlus" e sia le ditte di ambulanze private riconoscendo alle prime un rimborso di circa 450 euro per 12 ore e ai privati di circa 500 euro per 12 ore, con la differenza che i privati hanno i dipendenti in regola. Pagando persone a nero o sottopagandole si avrà una scarsa qualità del personale e del servizio. Vale la pena ricordare che in questo lavoro la parola d'ordine dovrebbe essere professionalità. Più volte in ambulanza ho lavorato con un infermiere neanche iscritto all'IPAVSI».

Quali rischi corri ogni giorno salendo su un mezzo di fatto privo di ogni assistenza previdenziale e assicurativa?

«I rischi in questo lavoro sono molteplici dati proprio dalla peculiarità del servizio, in particolare quelli infettivo ed epidemiologico. E la tutela assicurativa è inesistente. Anni fa ebbi un infortunio in servizio che fu refertato dal pronto soccorso del Pertini e l'unica preoccupazione della finta associazione di volontariato per cui prestavo servizio fu quella di farmi riferire che stavo svolgendo il turno da volontario».

Possiamo parlare di un sistema pianificato a tavolino per incassare i contributi pubblici sulla sanità e per fare cassa sulla previdenza lavorativa?

«Non so se sia pianificato o meno, ma trovo assurdo che la Regione non indica un bando per affidare la gestione di questi servizi e vada avanti con lo spot o il gettone a chiamata».

La questione del risparmio non riguarda solo voi operatori, anche il parco vetture è vetusto e non conforme alle direttive regionali. Quanti sono i mezzi non a norma nella Regione Lazio?

«C'è una delibera della Regione Lazio che vieta la circolazione dei mezzi di soccorso che abbiano maturato più di cinque anni di immatricolazione e servizio, ma in realtà vedo in giro ambulanze da museo con la totale indifferenza di tutti, in primis dalla centrale 118 che dovrebbe immediatamente bloccare quei mezzi».

Avete cercato di esporre il caso alla magistratura e alle forze dell'ordine?

«Io e altri colleghi abbiamo fatto denunce ed esposti ma non hanno portato a nulla. Ci hanno detto che la giustizia farà il suo corso, ma nel frattempo i primi a rischiare per questi disservizi sono i cittadini trasportati in situazioni critiche su mezzi vetusti e con personale sottopagato e non qualificato. A volte mi chiedo dove vadano a finire tutti i soldi che si mettono a bilancio per la sanità». 

TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO. «Eravamo lì per aiutare, ci hanno trattato da sciacalli», scrive Simona Musco il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. I giornali nazionali li hanno sbattuti in prima pagina con accuse infamanti e senza lo straccio di una prova. «Volevamo solo dare una mano a quelle persone disperate, ora, invece, ci additano come sciacalli, solo perché veniamo da Platì: ma è tutto un equivoco». Rocco Grillo e Pasquale Trimboli ci avevano provato. Erano saliti su una Suzuki Vitara, 48 ore dopo quel terremoto che ha squarciato il centro Italia, pensando di «fare del bene». Ma da Amatrice, simbolo del sisma, sono tornati giù con l'accusa peggiore: quella di voler approfittare della tragedia per riempirsi le tasche. La loro versione, fino ad ora, era un rigo nei giornali nazionali, che parlano di loro come «malviventi» - i due hanno precedenti per furto - che si aggiravano «tra le rovine di una casa diroccata» con «fare sospetto». Di passare per avvoltoi, però, non ne hanno voglia. E raccontano quel viaggio, durato meno di 24 ore. «Ci siamo ritrovati al bar con degli amici, a parlare di tutta quella gente disperata che avevamo visto in tv - racconta Trimboli, bracciante agricolo di 36 anni -. Dovevamo partire tutti insieme, ma non abbiamo trovato un furgone. Così abbiamo pensato di raccogliere viveri, coperte e vestiti in giro per il paese e di partire con la mia auto. Ma visto che avevano bloccato l'invio dei beni, abbiamo pensato di partire per dare una mano e basta». Prima di mettersi in viaggio, alle sei del pomeriggio del 26 agosto, i due passano dalla caserma dei carabinieri di Platì, paesino di poco meno di 4mila anime, arroccato sull'Aspromonte, per tutti simbolo di una 'ndrangheta prepotente e sanguinaria, ma che ha fatto vedere il suo volto migliore in più di un'occasione. «In caserma ci hanno detto che stavamo facendo una cosa bella - spiega Grillo, 38 anni, anche lui bracciante -. Siamo passati per capire se fosse il caso di andare e ci hanno detto che il volontariato è libero». I due arrivano ad Amatrice alle 3.30, nel cuore della notte. Incontrano la polizia, chiedono dove andare per dare una mano e vengono indirizzati alla tendopoli. «Lontano, dunque, dalle case», sottolineano. I due passano da una divisa all'altra, cercando qualcosa da poter fare, fino a quando un uomo della protezione civile, alle 6.30, dà loro dei guanti e li mette a pulire i bagni. «Era pur sempre un lavoro da fare», dice Trimboli. Poi vengono spediti a raccogliere la spazzatura dentro le tende. «Da soli abbiamo raccolto circa trenta sacchi», spiega Grillo. I due si fermano per la colazione e dopo aver preso un caffè in mensa tornano alla tendopoli, dove incontrano il presidente Sergio Mattarella e il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. «Gli abbiamo detto che venivamo dalla Calabria - raccontano -. Ci ha dato la mano e ci ha fatto i complimenti». Sono le dieci quando i due decidono di spostarsi di qualche metro, all'ombra, vicino alla loro auto, per fumare una sigaretta. «In quel momento - spiega Trimboli - è arrivato un ragazzo del posto, in macchina, e ci ha chiesto chi fossimo e il tesserino. Noi però non lo avevamo. Abbiamo spiegato che eravamo volontari ma una signora, arrivata poco dopo, ha iniziato a inveire contro di noi. Ci gridava: "dovete andare via, bastardi, infami". Abbiamo provato a spiegare che eravamo lì per dare una mano ma ha continuato a urlare». È in quel momento che arriva una ventina di uomini delle forze dell'ordine. Che avviano la procedura di rito: la consegna dei documenti, la perquisizione dell'auto, domande sul come e il perché si trovano lì. «I carabinieri hanno controllato l'auto ma non c'era nulla», spiega Trimboli, parole confermate dal verbale firmato dai due. Che per farsi credere mostrano i guanti e indicano chi li ha messi a lavorare. E pure lui, sostengono, prova a dire come sono andati i fatti. «Ha spiegato che eravamo andati a registrarci ma era tutto bloccato - racconta Grillo -. Ce n'erano tantissimi come noi lì, non registrati ma che davano una mano». I carabinieri vogliono sapere perché partire da Platì per un viaggio così lungo. Loro insistono: «per noi era un onore poter aiutare qualcuno - sottolinea Trimboli -. Ho lasciato tre bimbi piccoli a casa, solo per dare una mano. Non per sentirmi dire che sono uno sciacallo». I due invitano i carabinieri a contattare la stazione di Platì ma i loro precedenti bastano e avanzano: furto. Fatti troppo specifici per lasciar correre. «È vero, ho sbagliato anni fa ma ho pagato i conti con la giustizia, sono su una strada buona. A Platì abbiamo sempre dato una mano quando c'è stato bisogno», conclude Trimboli. A loro carico, ora, c'è solo un procedimento amministrativo presso la Questura di Rieti per il foglio di via, spiega il loro legale, Domenico Amante. «Il problema è che ora, per tutti, sono due sciacalli. Ma loro volevano solo aiutare».

E poi ci sono gli sciacalli mediatici. Dapprima i media avevano diffuso le sue generalità e pareva fosse un pregiudicato napoletano. Ma invece non è così. Si tratta infatti di un nomade di etnia Rom arrivato appositamente da Napoli in Treno, scrive “La Voce del Trentino” il 26 agosto 2016.

Arrestato sciacallo ad Amatrice: è un pluripregiudicato napoletano, scrive “Il Mattino di Napoli” il 25-08-2016. I carabinieri del comando provinciale di Rieti, nell'ambito dei servizi messi in atto al fine di reprimere il fenomeno dello sciacallaggio a seguito del forte sisma, hanno tratto in arresto un pluripregiudicato napoletano, Massimiliano Musella, 41 anni, residente al Rione Alto. Una delle pattuglie poste in campo e composta dal comandante della stazione di Leonessa e da un militare dipendente dello stesso reparto, coadiuvati da militari del 7° rgt laives, nel pomeriggio odierno, nella frazione «Retrosi» del comune di Amatrice, hanno colto all'improvviso l'uomo che tentava di forzare con un cacciavite, la serratura di un'abitazione colpita dal sisma e disabitata. I militari lo hanno sorpreso alle spalle e l'uomo, vistosi braccato, ha tentato di divincolarsi ingaggiando con i militari, una violenta colluttazione, ferendo con il cacciavite, uno dei militari. I carabinieri al termine della breve colluttazione sono riusciti a immobilizzarlo e ad ammanettarlo. Dopo averlo disarmato, lo hanno accuratamente perquisito rinvenendo nella tasca dei pantaloni, un biglietto ferroviario datato 24 agosto 2016 tratta Napoli-Roma, confermando la tesi che il pregiudicato, era giunto sul luogo del sisma, prima in treno e poi in pullman, con l'intento di far razzie all'interno delle abitazioni colpite dall'evento tellurico. L'uomo, gravato da numerosi precedenti penali per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione e porto abusivo di armi è stato tratto in arresto con l'accusa di rapina impropria e lesioni personali e tradotto presso la casa circondariale di Rieti a disposizione dell'autorità giudiziaria locale. I militari, ricorsi alle cure mediche da parte dei sanitari presenti nel campo allestito per le vittime del sisma, sono stati giudicati guaribili in 6 giorni.

Il racconto degli angeli di Amatrice: «Così abbiamo arrestato lo sciacallo», continua Ebe Pierini su “Il Mattino di Napoli” il 26-08-2016. Lì dove non possono arrivare con le auto perché ci sono solo macerie loro arrivano a piedi. Sono stati i primi a giungere sul luogo del sisma ed ora sono 400 i carabinieri che pattugliano il territorio di Amatrice ed Accumuli, 24 ore su 24, per impedire che gli sciacalli entrino nelle case abbandonate per rubare. Com'è successo giovedì quando a finire in manette è stato il 41enne napoletano Massimiliano Musella. «Mentre transitavamo in auto per la frazione di Retrosi, vicino Amatrice, io e il mio collega, l’appuntato scelto Gianni Reali, abbiamo notato un uomo che armeggiava con un cacciavite nei pressi del portone di legno di un’abitazione – racconta il maresciallo Mauro Margarito, comandante della stazione di Leonessa – Siamo scesi dal mezzo. Io indossavo la pettorina dei carabinieri. Abbiamo intimato l’alt e lui è fuggito. Lo abbiamo rincorso e raggiunto e, mentre tentavamo di immobilizzarlo, ci ha offerto resistenza. Ne è nata una colluttazione. Siamo finiti tutti e tre a terra. Il caso ha voluto che in quell’istante passasse una pattuglia di colleghi del 7° reggimento Laives che ci ha aiutati ad ammanettarlo». «L’uomo è stato poi condotto presso il carcere di Rieti con l’accusa di rapina impropria e lesioni – aggiunge il capitano Emanuela Cervellera, comandante della compagnia di Città Ducale, dipendente dal comando provinciale di Rieti, che ha la competenza sulla zone di Amatrice ed Accumuli – Il maresciallo ha infatti riportato una distorsione dell’avambraccio sinistro, mentre l’appuntato scelto una ferita da taglio all’indice della mano destra e una contusione al gomito». «L’uomo ci ha minacciato dicendo che ci avrebbe denunciati perché quello che avevamo visto non corrispondeva al vero – racconta ancora il maresciallo Margarito – Ad insospettirci è stato anche il fatto che indossasse una pettorina con scritto security e che con sè avesse un grosso sasso oltre a un borsone. In tasca aveva un verbale di accertamento di violazione di 38 euro effettuato sul treno da Napoli a Roma in quanto non aveva pagato il biglietto, datato 24 agosto, il giorno del sisma. In un primo momento si è giustificato dicendo che era un soccorritore, ma ho comandato la stazione di Amatrice per due anni e mezzo e conosco tutta la gente del posto. Se fosse stato di lì lo avrei riconosciuto. Tra l’altro la mattina era stato già notato mentre cercava di oltrepassare i varchi di accesso alla città dicendo di essere un volontario». «La prevenzione dei furti fa già parte dei nostri compiti quotidiani – assicura il capitano Cervellera - Tranquillizzare la gente rappresenta un aiuto psicologico. Hanno lasciato tutte le loro cose all’improvviso ed è nostro compito farle loro ritrovare».

Terremoto, lo sciacallo arrestato ad Amatrice aveva annunciato l'impresa su Facebook: “Vado lì”, affonda il colpo Stella Cervasio nel suo articolo del 27 agosto 2016 su "La Repubblica". L'aveva scritto sul suo profilo Facebook il 24 agosto alle 18.48: "Vado lì". Dopo si è capito che intendeva nei paesi del centro Italia colpiti dal terremoto. M.M., 41 anni, di Chiaiano, ha preso un treno Napoli-Roma, è sceso alla stazione Tiburtina ed è salito su una corriera che l'ha portato ad Amatrice, quel nome di paese che aveva sentito in tv, spazzato via dal terremoto. Nella frazione di Retrosi i carabinieri l'hanno trovato ad armeggiare con un cacciavite al lucchetto di una porta di una delle case evacuate dopo il sisma. Si è girato e ha colpito i due uomini dell'Arma, che hanno un referto ospedaliero di cinque e sei giorni. "Che lavoro fa? Nessuno ", dicono al Comando provinciale di Rieti, dove peraltro sono presi da ben altri impegni, in queste ore. L'arresto di M.M., che è accusato di rapina impropria, lesioni e resistenza, è stato eseguito dai carabinieri di Città Ducale e deve ancora essere convalidato dal gip. L'uomo intanto è rinchiuso nel carcere di Rieti. Sul suo profilo Facebook, dove annunciava la partenza per i paesi terremotati, sono piovuti gli improperi di ogni genere, anche sotto le foto di statue di santi che aveva postato in precedenza, e le accuse di aver fatto vergognare i cittadini napoletani per aver battuto il peggiore dei record: è stato il primo (e finora per fortuna l'unico) sciacallo del dopoterremoto del Lazio. E purtroppo è targato Napoli, anche se il sindaco de Magistris, per segnare immediatamente la distanza della città da quest'azione, ha annunciato la costituzione di parte civile contro il responsabile. M.M è stato arrestato in precedenza una volta per droga e due volte per furto, quindi non è nuovo a questo tipo di lavori. Ma, pur vivendo ai Camaldoli, nel dominio del clan Polverino, non ne fa parte. M.M. ama piuttosto montare sui treni e fare bravate. Lo avevano visto anche l'anno scorso, alla prima udienza del processo contro Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Era arrivato con il gruppo innocentista che sui social ha anche diversi sottogruppi per la verità con non numerosissimi iscritti. Reggeva uno striscione che sosteneva che il carpentiere di Mapello, poi condannato all'ergastolo, fosse innocente. Sui giornali l'avevano descritto come "l'autista molto abbronzato, arrivato da Napoli ". E sarebbe andato anche a più di una udienza del processo. Secondo quanto i giornali di Bergamo scrissero, all'epoca avrebbe anche dichiarato davanti alle telecamere: "Un'accusa ingiusta e totalmente infondata - sostiene Massimiliano M.M, il napoletano che ieri mattina è arrivato in via Borfuro appositamente per seguire la prima udienza - non è lui il colpevole. Gli autori del delitto sono ancora in circolazione. Purtroppo le indagini non state condotte in modo adeguato".

Il video dello sciacallo: un falso grossolano, scrive Ugo Maria Tassinari il 26 agosto 2016. Un video supporta da stamattina una campagna virale sullo sciacallo napoletano a partire dalla notizia di stampa attivata da “Il Mattino” (proprio contro un suo concittadino). Un’onda di indignazione tale che il sindaco De Magistris ha annunciato la volontà di costituirsi parte civile. Peccato che il video non c’entri niente. A trascinare il fermato, infatti, sono poliziotti. E, a finale, arriva pure la smentita della Questura di Rieti, che racconta la reale dinamica. La polizia ha scongiurato il linciaggio di un innocente. Ecco la nota Agi: Roma – E’ polemica sullo sciacallaggio nelle aree devastate dal sisma: dopo una serie di denunce di individui sospetti sorpresi a rovistare tra le macerie, rilanciate anche dai media, la Questura di Rieti in un comunicato ha definite “prive di ogni fondamento” queste notizie. “I servizi di vigilanza, specificamente finalizzati al contrasto di possibili episodi di sciacallaggio, sono stati infatti attuati sin dai primi istanti con personale delle forze dell’ordine, e poi rafforzati nelle ore serali e notturne con l’arrivo dei reparti organici”, ha assicurato la Questura. Allo stato, “sentite anche le altre forze di polizia, non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati”. Sono stati eseguiti controlli su persone sospette o “semplicemente presenti all’interno di aree interdette o in procinto di entrarvi”, ma tutte le verifiche, conclude la Questura, “hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate”. Tra gli episodi segnalati c’era quello di un uomo identificato ad Amatrice perchè sorpreso con un trolley e sospettato di aver sottratto oggetti da alcune abitazioni. L’uomo ha rischiato il linciaggio da parte della folla, ma l’arrivo dei poliziotti ha evitato l’aggressione. Sempre ad Amatrice tre persone sono state fermate perché sorprese a rovistare nelle case abbandonate. Segnalazioni sono arrivate anche nell’ascolano nel comune di Arquata, in particolare nella frazione di Pescara del Tronto spazzata via dal terremoto. Secondo i soccorritori, si sono verificati casi già nel corso della prima notte del sisma. I carabinieri hanno intensificato i controlli in tutta l’area.

La versione corretta pubblicata dai media non ti aspetti.

Fermato un presunto sciacallo: rischia il linciaggio degli abitanti di Amatrice. Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice. Siamo nella zona alta vicino al giardino dove alcuni degli sfollati del terremoto cercano riparo dal sole. Un gruppo di abitanti del luogo ha notato un uomo di Napoli con una valigia piena e l'ha bloccato. Alla richiesta di far vedere cosa c'era dentro la borsa, il napoletano si è rifiutato. A quel punto sono intervenute le forze dell'ordine. Il video che IlGiornale.it ha realizzato in esclusiva mostra il momento del fermo. L'uomo grida aiuto dicendo "vi sbagliate, vi sbagliate". Le forze di polizia lo portano allora in un angolo al riparo dalla furia della folla che vorrebbe linciarlo. "Ma come si fa a rubare nelle case distrutte - dice molto alterato un ragazzo - entrano e si portano via tutto. Perché gli edifici non crollano quando ci sono queste persone dentro invece della gente perbene?". Alla conclusione di lunghe perquisizioni e accertamenti, i poliziotti in borghese ci fanno sapere che il presunto sciacallo "non è stato arrestato". Non sono stati trovati elementi certi per accusarlo. "Questa persona - aggiunge un ispettore della Digos - non ha commesso alcun reato a quanto pare". Ma è stato comunque allontanato dalla città: "Qui non serve", conclude l'ispettore. Il dubbio che fosse un delinquente rimane. Questa la ricostruzione dei fatti. Il presunto sciacallo sarebbe stato visto la prima volta da un ragazzo a pochi passi da un'abitazione dove si scavava tra le macerie. Avrebbe detto di dover riportare il caschetto protettivo ad un amico che stava lavorando all'interno della casa distrutta. Si sarebbe quindi spacciato per volontario. "Gli ho detto di darlo a me - racconta un ragazzo che era nei paraggi - ma insisteva per portarlo personalmente". Poco dopo l'episodio che ha scatenato il fermo. L'uomo, come detto, è stato notato con una valigia da alcuni cittadini di Amatrice e poi bloccato dalla Digos. "Diceva di essere un ingegnere", racconta il signore che l'ha intimato ad aprire la borsa. "Ma come? - fa eco un altro ragazzo - prima dice di essere un volontario e poi un ingegnere?". Durante il fermo avrebbe anche sostenuto di essere di Amatrice. Ma tutti gli abitanti assicurano di non conoscerlo. "Qui siamo tutti vicini - dice un signore - ci conosciamo bene". Il presunto sciacallo per provare a fornire un alibi avrebbe fatto il nome di un cittadino del luogo. Le forze dell'ordine lo hanno cercato per permettergli di fare un riconoscimento. Si trattava di un carabiniere. Il quale, appurato di non conoscerlo, ha avuto uno scatto d'ira. A raccontarlo è lo stesso militare. La polizia ci fa sapere che il sospettato non è un volontario registrato. Per questo motivo è stato allontanato dalla città. "Ci aspettiamo - conclude l'ispettore - di doverne allontanare altri". L'allerta sciacalli è altissima.

«Dagli allo sciacallo!». Gli untori di Amatrice, scrive Paolo Persichetti il 6 set 2016 su "Il Dubbio". Il caso dei rumeni Ion C. e Letizia A, fermati con il nipote di 7 anni con l'infamante accusa di sciacallaggio denunciato dall'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine di Rieti. Amatrice Oltre a provocare vittime e distruzione i terremoti sembrano suscitare il malsano bisogno di capri espiatori. Tra le pieghe del dolore e dello strazio di chi ha perso figli, genitori, parenti o amici e ha visto la propria esistenza sbriciolarsi sotto il crollo della propria casa, perdendo tutto ma forze più di ogni altra cosa le tracce della propria memoria, ciò che compone l'io di ogni persona, ci sono anche delle vittime "collaterali". L'allarme sciacalli ne ha provocate diverse in questi giorni. Alimentata dai media con storie costruite a tavolino fin dalle prime ore successive al sisma, la paura dello sciacallo si è insinuata subdolamente, complice anche l'atteggiamento di alcune forze di polizia che invece di infondere sicurezza e tranquillità nella popolazione scossa dalla tragedia hanno moltiplicato paure, diffuso dicerie come quella del falso prete che si aggira tra le frazioni colpite nascondendo sotto l'abito talare gli ori e gli argenti sottratti dalle case danneggiate. Abbiamo tutti letto la storia del pregiudicato napoletano che avrebbe preso il treno fino a Roma per poi recarsi ad Amatrice ed essere qui scoperto, non si capisce come e dove. Una vicenda confezionata ad arte al punto che lo stesso sindaco di Napoli aveva dichiarato che il comune partenopeo si sarebbe portato parte civile contro l'uomo arrestato. Peccato però che nessuno fosse finito in manette. A sole 24 ore di distanza dal terremoto un quotidiano del Nord titolava "Maledetti sciacalli, stanno già rubando tutto", narrando di tre arresti, tra cui ovviamente l'immancabile «nomade», avvenuti tra le rovine di Pescara del Tronto, tanto che la Questura di Rieti è dovuta intervenire con un comunicato nel quale si riferiva che «allo stato non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati». Sono stati eseguiti - proseguiva il testo - controlli su persone sospette o «semplicemente presenti all'interno di aree interdette o in procinto di entrarvi», ma tutte le verifiche «hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate». Ovviamente il comunicato è servito solo a quei pochi che lo hanno letto, non poteva certo arginare una psicosi da trauma se poi sul terreno c'è chi sobilla il sospetto, attrezza campi che sembrano ghetti, infantilizza le persone. La ricerca del capro espiatorio diventa allora un espediente rassicurante, una tecnica di governo del territorio che compatta le comunità disorientate verso un nemico esterno. Una ong francese ha rischiato di tornare indietro con il suo carico di preziose tende se non fosse stato per il buon senso di alcuni militari. L'esercito, oltre ai Vigili del fuoco sempre fedeli al loro motto ubi dolor ibi vigiles, ha dimostrato sul terreno di essere il corpo con la mentalità meno militare di tutti. Non stupisce dunque se due volontari di Platì, arrivati ad Amatrice con i propri mezzi e tanta solidarietà - come hanno raccontato al Dubbio - abbiano pagato il prezzo di questa fobia: accusati di esser dei potenziali sciacalli dopo le grida di una donna anziana che non li conosceva, nonostante lavorassero all'interno del campo messo in piedi dalla protezione civile, sono stati allontanati da Amatrice con il foglio di via. Chi scrive ha assistito ad un episodio grottesco: l'inseguimento da parte di sei motociclisti dei carabinieri di un furgone, avvistato nei pressi della frazione di Preta, che poi si è rivelato trasportare una salma. Non hanno avuto la stessa fortuna dei volontari di Platì i due cittadini romeni di etnia Rom fermati nella tarda mattinata del 29 agosto con l'infamante accusa di essere degli sciacalli. In un comunicato dei carabinieri si legge che una pattuglia del nucleo radiomobile di Roma avrebbe «sorpreso nella frazione di Preta del comune di Amatrice, un uomo ed una donna rispettivamente di 44 e 45 anni, che a bordo di un'autovettura Wolkswagen Passat con targa tedesca, avevano perpetrato poco prima, alcuni furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto». Dopo un'accurata perquisizione «venivano rinvenuti svariati capi di abbigliamento, alcuni oggetti domestici, la somma contante di oltre 300 euro, una pistola giocattolo sprovvista del prescritto "tappo rosso" ed alcuni arnesi da scasso. I soggetti, entrambi di nazionalità rumena e gravati da numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio, sono stati tratti in arresto con l'accusa di furto aggravato e trattenuti nelle camere di sicurezza dell'arma, in attesa della relativa convalida da parte dell'autorità giudiziaria». La versione dei fatti fornita dai carabinieri ha sollevato tuttavia alcuni dubbi, intanto perché il fermo di Ion C. e Letizia A., che a bordo della loro macchina trasportavano anche il nipotino di 7 anni, non è avvenuto nella frazione di Preta ma lungo la strada regionale 577 del lago di Campotosto, in uno slargo molto ampio nei pressi del bivio per Retrosi. Dunque in un luogo lontano da centri abitati. La scena è stata vista da chi scrive, insieme ad altre due persone, che dalla frazione di Capricchia, immediatamente sotto Preta, scendevano in macchina verso Amatrice. La Passat era ferma con il portellone posteriore alzato e gli stracci contenuti all'interno gettati a terra. L'uomo e la donna erano accanto al carabiniere che controllava i documenti. L'autorità giudiziaria dopo aver confermato il fermo ha disposto la scarcerazione, sottoponendoli alla misura cautelare del divieto di entrare nelle province terremotate. Nel corso del rito per direttissima, ha spiegato l'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine degli avvocati di Rieti che ha assunto la difesa dei due romeni, è emersa l'inconsistenza dei capi di accusa (furto di biancheria e capi di abbigliamento). Gli arnesi da scasso si sono rivelati nient'altro che il kit di soccorso presente in ogni autovettura e i precedenti sono risultati inesistenti: la donna è sconosciuta ai servizi di polizia mentre l'uomo aveva solo una vecchia denuncia per possesso di arma impropria. Niente reati specifici come furti o rapine. I due non parlano italiano, la donna è analfabeta. Nel corso della udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell'interprete, ha dichiarato di essere ignara del terremoto. In macchina avevano tutto il necessario per dormire: un piccolo materasso, dei cuscini, coperte, biancheria varia e vestiti, alcuni piatti, bicchieri, posate, e i giocattoli del nipotino (tra cui la pistola di plastica), materiale privo di valore. Salta agli occhi l'assenza di preziosi, gioielli, argenteria, materiale tecnologico? L'uomo possedeva appena 305 euro, il minimo indispensabile per affrontare un viaggio. A Preta, come nella altre frazioni circostanti, nessuno ha lamentato furti. La coppia dopo essere stata scarcerata non ha più ritrovato il nipotino, affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Il terremoto può contare così un altro disperso. L'avvocato Conti ha sollecitato l'ambasciata romena affinché il bimbo venisse restituito ai nonni, mentre il consiglio dell'ordine di Rieti ha promosso una raccolta di fondi i cui proventi verranno destinati ad opere di ricostruzione di edifici di interesse pubblico nei territori colpiti dal sisma (conto corrente denominato "In aiuto delle popolazioni colpite dal sisma" Iban: IT37O0306914601100000005558).

TERREMOTO E SOLIDARIETA’. Il delirio del sito islamista: "Il sisma punizione di Allah". "Sì all'Islam in Italia" è seguito da 43mila persone: "Un segno per convertire i peccatori". E fioccano le adesioni, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale".  Non c'è solo la spiegazione scientifica dei sismologi e dei geologi, c'è anche l'interpretazione islamica sulle vere ragioni del terremoto che ha devastato il centro Italia. La teoria arriva da un sito di musulmani residenti in Italia, «Sì all'Islam in Italia», che conta più di 43mila seguaci su Facebook. «Indubbiamente i terremoti che stanno accadendo in questi giorni sono tra i segni che Allah usa per spaventare i Suoi servi - si legge -. I terremoti e tutte le altre cose che accadono e che provocano danni e ferite alle persone sono a causa dello Shirk (l'idolatria, la falsa fede, ndr) e dei peccati, come Allah dice: Qualunque sventura vi colpisca, sarà conseguenza di quello che avranno fatto le vostre mani». La distruzione causata dal sisma non è casuale, né un evento solamente naturale, dietro ci sono la volontà di Allah e le colpe dei peccatori infedeli. Il post viene condiviso da centinaia di persone: Ibrahim residente a Milano, Mohammed che vive a Parma, Hamza che invece lavora a Padenghe sul Garda, Mehdi di Bergamo e molti altri. Il terremoto come punizione di Allah del resto trova riscontri in diverse sure del Corano, citate dal sito islamista a conforto della propria spiegazione. Una (Al-A'rf, 96) dice: «Se gli abitanti di queste città avessero creduto e avessero avuto timor di Allah, avremmo diffuso su di loro le benedizioni dal cielo e dalla terra. Invece tacciarono di menzogna e li colpimmo per ciò che avevano fatto». Un'altra ancora (Al-Ankabt, 40): «Ognuno colpimmo per il suo peccato: contro alcuni mandammo ciclone, altri furono trafitti dal Grido, altri facemmo inghiottire dalla terra e altri annegammo. Allah non fece loro torto: furono essi a far torto a loro stessi». Il concetto è chiaro anche se non viene detto in modo esplicito dal sito: chi è morto sotto le macerie si era macchiato di un grave peccato, non credere in Allah, e quindi se l'è cercata. Il sito «Sì all'Islam in Italia» cita a riprova un commentatore coranico del XIV secolo: «A volte Allah dà alla terra il permesso di respirare, il che avviene quando accadono forti terremoti; questo fa si che le persone si sentano spaventate, così si pentono, abbandonano i peccati, pregano Allah e provano rammarico per i loro peccati». La soluzione per evitare le catastrofi come quella che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia, più che costruire abitazioni antisismiche, è la conversione all'islam: «Quello che devono fare i Musulmani e gli altri che sono responsabili e sani di mente, è di pentirsi ad Allah, aderire fermamente alla Sua Religione ed evitare tutto ciò che Egli ha proibito, in modo che possano essere indenni e raggiungere la salvezza da tutti i mali di questo mondo e dell'Altro: è così che Allah allontanerà da loro ogni male, e li benedirà con ogni bene». Nei commenti alla pagina Facebook, oltre ai ringraziamenti ad Allah «che ci fa vedere questi segni», c'è chi fa notare che tra i morti ci potrebbe essere anche qualche italiano di fede musulmana. Risposta degli amministratori (ignoti) del sito islamista: «L'articolo parla in generale. Si riferisce ai musulmani e ai non musulmani». Il sito (che come immagine profilo ha una cartina dove il nome «Israele» è barrato e al suo posto compare «Palestina») avvisa anche che «la Moschea di Rieti ha offerto immediata accoglienza e supporto logistico ai terremotati», mentre «Islamic Relief Italia sta già operando in coordinamento con la Protezione Civile, per far affluire prontamente i primi soccorsi». La spiegazione religiosa al terremoto non è peraltro prerogativa islamica. Anche «Militia Christi» si avventura in un'interpretazione altrettanto sconcertante, con un tweet («La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull'abominio delle unioni civili») poi cancellato e goffamente smentito. Mentre il post sul terremoto come castigo di Allah resta lì, senza che Facebook (inflessibile sui contenuti politicamente scorretti) intervenga.

Ed a proposito di Islam. Sul terremoto che ha straziato l'Italia prende la parola anche il presentatore Claudio Lippi. E' indignato, e le sue parole vengono riportate da Lettera43 (mentre il suo profilo Twitter risulta non accessibile). Lippi si riferisce alla diversità di trattamento tra i terremotati italiani delle zone di Rieti e gli immigrati: "Mettiamo 50 immigrati a Capalbio e i terremotati in una palestra? Non ho parole". 

Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani s'infuriano, scrive di Fabio Rubini il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Prima le lacrime e l'incredulità di fronte alle immagini che rimbalzavano dalle tv ai social e viceversa. Poi, piano piano, tra politici e la gente comune s'è fatto strada un dubbio: ma se ai clandestini lo Stato riserva alberghi con wi-fi e tv al plasma, perché ai terremotati italiani dovrebbero toccare tende e unità abitative di lamiera? È stato un attimo, la rete anche questa volta, è stata veicolo imbattibile e inarrestabile e così il tam tam è partito. Corroborato anche dalle notizie come quella apparsa sul sito dell'Huffington Post, secondo cui: «I terremotati dovranno stare nelle tende almeno fino alla fine di settembre, poi si vedrà». Qualcuno, come il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana, non l'ha presa bene e ha polemizzato su quelli che facevano polemica: «è evidente che non gli interessa né degli uni né degli altri. Vogliono solo contribuire a loro modo, versando bile», scatenando un dibattito sulla sua pagina Facebook tra quelli che erano d'accordo con lui e quelli che, più o meno velatamente, lo accusavano di non stare dalla parte degli italiani. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato anche l'ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, che con una lettera inviata al Tempo spiega: «Conosco bene quella gente, nessuno vorrà andarsene lontano dai loro paesi, vanno trattati come cittadini di serie A con priorità assoluta» quindi «vanno piantate tendopoli nella zona colpita sperando che non le abbiano usate tutte per gli extracomunitari». Poi c'è il parroco di Boissano (Savona), don Cesare Donati, che in disaccordo con Bertolaso spiega: «Adesso è il momento, vista la tragedia del terremoto, di mettere gli sfollati nelle strutture e i migranti sotto le tende», raccogliendo anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini: «Questo parroco non ha per niente torto». Il picco, però, è stato raggiunto a Milano. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, rilascia una dichiarazione per mettere a disposizione il campo base di Expo sia «per ospitare in questi primi giorni i terremotati» sia «per inviare i moduli abitativi nelle zone terremotate». E annuncia che «l'assessore Bordonali è già in contatto con la protezione civile» ben contenta dell'aiuto ricevuto. Tanto più che quel campo andrebbe comunque dismesso, per restituire l'area al vicino comune di Rho. Quindi la Regione e la società Expo Spa potrebbero in un sol colpo aiutare i terremotati e velocizzare lo smantellamento del Campo Base. Sulla vicenda, però, è entrato a gamba tesa il neo sindaco di Milano, il piddino Beppe Sala, ancora scottato dal «no» che lo stesso Maroni aveva posto alla sua richiesta di trasformare il Campo base di Expo in un campo profughi. Così, pensando di interpretare il pensiero del governatore come un dietrofront «opportunistico», lo ha accusato a testa bassa: «Questo terremoto è un dramma da non strumentalizzare - sbotta il sindaco -. La proposta di Maroni di utilizzare il campo base o i suoi moduli per gli sfollati del terribile terremoto sembra una delle tante dichiarazioni politiche che la Regione non ci fa mai mancare. Questa volta tentando anche una strumentalizzazione su una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia». Un commento border line, come subito dopo gli fa notare lo stesso Maroni: «Sono sorpreso dalle dichiarazioni del sindaco Sala. In un momento così drammatico dobbiamo lasciare da parte le polemiche e fare ogni sforzo per aiutare chi è stato colpito dal terremoto - ribadisce Maroni -. Questo è il senso della mia proposta di mettere a disposizione il campo base Expo. Proposta che, per altro, è stata condivisa dalla Protezione civile nazionale. Intendo quindi procedere rapidamente in questa direzione per portare aiuto concreto a chi ha subito questa immane tragedia». Con buona pace di Sala e del Pd. Fabio Rubini.

Vittorio Feltri il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”, la verità amara sul terremoto: "Perché pensano ai morti, ignorano i vivi". Di solito succede questo: le grandi tragedie nazionali mobilitano i mezzi di comunicazione, che per qualche giorno non fanno altro che parlarne in tutte le salse fino alla saturazione. Le maratone televisive, che riprendono da ogni angolazione i danni provocati dal terremoto, durano meno di una settimana, sempre le stesse, i soliti cumuli di pietre, mani nude che scavano, cadaveri, gente disperata, lacrime. D'altronde che altro potrebbero fare i giornalisti se non raccontare ciò che hanno sotto gli occhi? Ma la ripetitività a lungo andare spegne le emozioni che si tramutano in noia. Tra un po' i riflettori si trasferiranno dall’Umbria, dalle Marche e dal Lazio in altri luoghi e anche l'ultima sciagura sarà archiviata, salvo tornare a bomba quando si scoprirà che qualche malfattore, approfittando del dolore altrui, avrà trovato il modo di arricchirsi: appalti, stecche, prezzi gonfiati. C'è una regola che non muta mai: le disgrazie sono occasioni d'oro per chi non ha scrupoli. L'esperienza ci ha istruiti. Cosicché alla fine di settembre saranno pochi, oltre ai terremotati, a ricordarsi del flagello che ha martoriato il Centro Italia. Compariranno qua e là notizie riguardanti la ricostruzione, che tarderà a cominciare, il recupero dei capitali necessari a finanziare le opere, le beghe tra le imprese che cercheranno di accaparrarsi gli appalti. Nulla di appassionante. E le nostre coscienze si quieteranno. Ecco quanto è sempre successo e succederà ancora. Le brutte abitudini sono le più resistenti. Personalmente, in veste di cronista ho seguito parecchie calamità: il sisma che distrusse il Friuli nel 1976, quello che sbriciolò l'Irpinia nel 1980, quello di Perugia e dintorni nel 1997 e, assai recente, quello che ha violentato l'Emilia. L'indomani di ogni catastrofe si è assistito alle medesime immancabili scene e si sono uditi i medesimi discorsi improntati a buone intenzioni, a prescindere dal colore del governo in carica: faremo, brigheremo, ci impegneremo affinché le prossime scosse non ci colgano impreparati. Parole, parole, soltanto parole. Esportiamo in vari Paesi le nostre tecnologie da applicarsi agli edifici al fine di renderli sicuri, ma non le applichiamo in Patria. Siamo bravi nella cura di ogni territorio tranne quello che calpestiamo. Perché? Si possono avanzare soltanto ipotesi: non siamo capaci di organizzarci, abbiamo una classe politica scucita e perennemente in polemica con se stessa. Risultato, anziché fare, discutiamo. Si pensi che non abbiamo ancora un piano per le zone attualmente disastrate. Le istituzioni, la Boldrini in testa, si dannano per ottenere esequie collettive per le vittime. Sono più preoccupate dei morti che dei vivi. Spendono molti quattrini per i profughi e lesinano aiuti per i nostri connazionali bisognosi. Insomma, questa è la situazione e non promette niente di buono. C'è il timore che i terremotati siano costretti a stare in tenda mesi, mentre gli extracomunitari si crogioleranno in belle camere d'albergo, ben pasciuti, nutriti e riveriti. L'accoglienza e la solidarietà sono solo per individui di importazione. Vittorio Feltri.

LO STATO CRIMINALE. Lo sfregio dello Stato ai terremotati. Profughi e sfollati: chi riceve di più, scrive Roberta Catania, il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Ci sono oltre 5mila immigrati che dormono in hotel o in confortevoli appartamenti nel raggio di 150 chilometri dalle cittadine distrutte dal terremoto del 23 agosto scorso, mentre 2.500 sfollati italiani abitano nelle tende messe in piedi nei campi vicini alle macerie di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto, tra l'alto Lazio e le Marche. Nessuno di questi 5mila stranieri vive in quei casermoni conosciuti con i nomi di Cie o Cara, dove comunque vengono ospitati migliaia di clandestini. Questi numeri si riferiscono esclusivamente al progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un programma finanziato dal Ministero dell'Interno tramite il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell'Asilo e che prevede l'accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti che sono soggetti ad altre forme di protezione. In questi casi, le 2.545 strutture messe a disposizione in tutta Italia sono di tre tipologie: l'82% sono appartamenti, poi ci sono alberghi (12%) e infine le comunità di alloggio, per lo più destinate ai minori, appena il 6%. Dati riferiti al 2015 e attuali fino all' aprile scorso, quando il Viminale ha diffuso l'ultimo report. Così, mentre gli immigrati, divisi in base all' età, alle parentele e ad altre necessità, hanno cucine, un bagno normale e il riscaldamento d' inverno, i 2.500 sfollati che dormono nelle tende provano ad arrangiarsi. Per ora lo fanno e va bene così, anche perché la maggior parte vuole rimanere vicino a quello che gli è rimasto della loro casa e nessuno, a così pochi giorni dai crolli, dormirebbe in una struttura dove, al primo scricchiolio, sarebbe assalito per il terrore di sentire di nuovo le macerie crollargli addosso. Ma tra qualche settimana, quando arriveranno le prime piogge e poi la neve, anche i più legati al territorio inizieranno a sognare un letto caldo, una cucina dove sia possibile preparare una minestra calda e un bagno dove lavarsi senza soffrire temperature glaciali. Qualcuno, già ora, ammette di temere l'arrivo del freddo. Alessandro, 67 anni, sfollato da Amatrice insieme alla moglie e al cagnolino, oggi vive in una tenda al campo di Sant' Angelo. Raggiunto dalle telecamere, l'uomo ha spiegato di avere «non avere paura di rimanere nella tenda per troppo tempo», ma di aver «paura dell'inverno, che», ha sottolineato, «è qui alle porte». Nessuno ha ancora pensato, invece, a ciò che sarà nei prossimi anni. Giustamente questi sono i giorni del lutto per chi ha perso i propri cari e dello choc per chi è sopravvissuto guardando la morte in faccia. Eppure, quasi come un amaro presagio, quattro giorni prima del terremoto tra Amatrice e Pescara del Tronto, un uomo sopravvissuto nove anni fa al sisma dell'Aquila, ha fatto i conti con la dura realtà delle istituzioni, che spente le telecamere ridimensionano anche il sostegno morale e - soprattutto - economico. Quello sfollato dell'aprile 2009, il 18 agosto scorso era salito su un cornicione al secondo piano di una palazzina del progetto Case di Cese di Preturo, in provincia dell'Aquila, minacciando di gettarsi a causa delle maxi bollette che stanno arrivando in questi giorni agli inquilini degli alloggi costruiti per gli sfollati dopo il terremoto e per la chiusura dell'acqua calda da parte del Comune nei confronti dei morosi. L' unico riuscito a far desistere l'uomo è stato il sindaco, Massimo Cialente, che evidentemente ha promesso uno sconto o la rateizzazione. Fatto sta che le collette e le donazioni a un certo punto finiscono e queste persone si trovano a far il conto con le spese di tutti i giorni, senza avere più un'attività o i risparmi di una vita. Il premier Matteo Renzi non ha tardato a stanziare i primi soldi per aiutare i terremotati: 50 milioni di euro sono già stati destinati ad Amatrice e le altre località colpite dal sisma di martedì notte. Però per i 5.845 immigrati ospitati negli alberghi e negli appartamenti del progetto Sprar tra le Marche, il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo, intorno cioè ai luoghi sbriciolati dalla scossa, sono stati spesi quasi 75 milioni solo nel 2015. A voler fare i conti in difetto, si tratta di 204.575 euro al giorno, senza cioè considerare che gestire i minori costa di più. E l'anno scorso, per le 21.613 persone ospitate in tutta Italia nel progetto Sprar il conto è stato salato: 276 milioni e 106mila euro. Troppo in confronto a quei 50 milioni. Roberta Catania

TERREMOTO E SOCIAL NETWORK. "Tende no! Alberghi per gli sfollati", il tweet di Rita Pavone infiamma il web, scrive "L'Adnkronos.com" il 26/08/2016. "Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati". Con un tweet Rita Pavone scatena la polemica sul web parlando dell'assistenza agli sfollati, dopo il sisma. "Una volta che sono nelle tendopoli o nei containers, si rischia di veder passare anni prima che diano a questa gente una casa" aggiunge. Ma la 'Gian Burrasca' della canzone italiana, 71 anni appena compiuti, non si ferma: "Di cose ne ho viste. Si sono salvati solo in Friuli perché la gente del posto si è tirata su le maniche e ha fatto da sé". Per poi addolcirsi un po' per lasciarsi andare all'amarezza di chi come un po' tutti si sente impotente di fronte a questa tragedia. "In momenti come questi, le parole sono inutili - twitta con l'hashtag #terremoto -. Che il Signore ascolti le nostre preghiere".

Rita Pavone, sottoposta ad un linciaggio morale su Twitter, minaccia di lasciare il social, scrive Manuela Valletti il 31 agosto 2016. Twitter non perdona: lo ha capito Rita Pavone, sommersa da feroci commenti per aver preso le parti dei terremotati. Rita Pavone dà battaglia sui social per i terremotati. #Rita Pavone si è arrabbiata moltissimo per la reazione negativa che ha suscitato un suo post su Twitter: preoccupata per la sorte dei terremotati rimasti senza casa, ha scritto sul social questa frase:"Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i terremotati". Non l'avesse mai fatto! È stata tacciata di razzismo, di fascismo, di essere una fomentatrice delle masse e via di questo passo. La cantante ha tentato di spiegare con pacatezza il suo pensiero, dicendo che i terremotati nei containers ci rimangono per anni, e che di esempi di questo genere ne abbiamo avuti in tutti i terremoti fino ad ora verificatisi in Italia, ad esclusione di quello del Friuli, dove la gente del luogo non ha aspettato la politica, ma si è tirata su le maniche e ha ricostruito. Non c'è stato nulla da fare: le polemiche non si sono placate, e Rita era addirittura intenzionata a chiudere il suo account. Convinta di non essere né razzista né fascista, la Pavone è migrata su #facebookdove, senza demordere, ha provato a raccontare che cosa le era accaduto su Twitter, chiedendo ai suoi nuovi interlocutori se, secondo loro, aveva detto qualcosa di poco opportuno o di offensivo. Si è sfogata affermando che voleva solo difendere i suoi connazionali perché, anche se ora vive in Svizzera, si sente sempre italiana e poi ha tutti i diritti di dire la sua opinione, visto che in Italia paga regolarmente le tasse. Insomma, su Facebook Rita si è tolta qualche sassolino dalle scarpe e ha tacciato i frequentatori di Twitter di intolleranza, visto che non le hanno permesso di argomentare le sue ragioni e l'hanno anche apostrofata in modo offensivo, dicendole che era "solo una cantante" e quindi non all'altezza di intervenire in un dibattito così importante. Da Facebook è inaspettatamente arrivato un sostegno totale e uno sprone a non mollare. Per questo motivo Rita, anche se amareggiata, ha deciso di rimanere su Twitter. Diversi fans le hanno scritto che Twitter è molto snob e che lì, più che su altri social, vige il pensiero unico, quello dei cantanti "guru" che quando esprimono un concetto diventa vangelo. La Pavone, rinfrancata dall'affetto e dal sostegno dei suoi ammiratori, ha deciso di andare avanti con il dibattito per battere la meschinità di certe persone: ha ripreso il portatile e si è detta pronta a dare battaglia, anche se il campo questa volta non è "Ballando con le Stelle", ma il quotidiano di tanta gente che merita anche il suo aiuto. 

Direttamente dalla pagina Facebook ufficiale di Rita Pavone: Ieri ho scoperto che i social sono molto poco...social. Ho bloccato così tanta gente che neppure l’ascensore rotto di un grattacielo…E sapete da cosa è nato il tutto? Da questo mio semplice twitter: “Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati”. Ho detto qualcosa di poco opportuno? Ho detto qualcosa di blasfemo? Ho detto qualcosa di offensivo? Beh… Eppure qui si è scatenato l’inferno…! Mi sono beccata di tutto: da fascista, a schifosa razzista, a fomentatrice di razzismo… Un delirio! Parrebbe un paradosso visto che difendevo i MIEI di connazionali – dico MIEI perché, per chi non lo sapesse, io ho un doppio passaporto, Svizzero e Italiano, ed essendo di origini italiane, cosa di cui vado fiera! è ovvio che ci tenga molto alla mia gente e al mio Paese, dove, tra l’altro, voto pure. Inoltre, pur abitando da quasi 50 anni in Svizzera, pago regolarmente anche in Italia fior di tasse: il 30% alla Fonte! Quindi, vedete, ho tutte le carte in regola per poter dire il mio pensiero senza venire azzannata da idioti somari. Sapete perché ho scritto quel tw? Perché in casi di cataclismi, si parla sempre di tendopoli o di containers che dovrebbero servire SOLO ed esclusivamente per l’emergenza. Ma poi una volta che il momento emotivo è passato, che non si contano più i morti, che non si fanno più servizi televisivi sui superstiti e che quindi del terremoto non se ne parla più, ecco che le tendopoli e i containers rimangono ma delle case da ricostruire neanche l’ombra. Così come le donazioni che vengono fatte dalla gente e di cui poi non si sa più nulla…Ho lavorato anni addietro nel Belice, e lì c’è gente che, 48 anni dopo (48 sic) vive ancora nei containers in attesa di una casa. Alla faccia dello stato di emergenza! Stessa cosa vale per l’Aquila…Cosa hanno ricostruito sino ad oggi? Niente! E sarà così, statene pur certi, anche negli anni a venire…Si sono salvati solo i terremotati dell’Emilia Romagna e del Friuli, poiché la loro gente si è tirata su le maniche e hanno ricostruito tutto da soli. Se aspettavano che lo facesse lo Stato…campa cavallo che l’erba cresce…. E’ vero che la gente teme gli sciacalli, i quali, una volta presi con le mani nel sacco dovrebbero essere buttati in una cella e gettata via la chiave per sempre ! e quindi preferirebbero non abbandonare mai le proprie case per non vedersi derubare del tutto, ma basterebbe una buona e stretta sorveglianza e questa povera gente non si vedrebbe costretta a stare all’addiaccio di notte ma potrebbe riposare in un comodo letto come fanno coloro che ospitiamo e che NON sono tutti in fuga da paesi in guerra, come ci vogliono far credere, ma, la maggior parte di loro, vengono da noi per trovare una situazione economica più favorevole. E in questo io non ci trovo assolutamente nulla di male. Detto ciò, sentirsi però poi dare dell’idiota e del “canta che è meglio”, che ho la … “pappa” nel cervello ecc.ecc, credo non faccia piacere a nessuno. O addirittura leggere “Si vergogni! Qui vengono fuori le sue vere origini …” come se io provenissi da una famiglia di ladri. Delle mie origini, gente, io vado fiera! Sono figlia di un operaio della Fiat, gran lavoratore, e di una casalinga…Sono la terza di 4 figli, e a 12 anni già lavoravo. In nero !!! A questi poveri schizzati, drogati nel cervello e fusi nell’anima, ho risposto: “Lavatevi la bocca, gentaglia. E quando avrete fatto quello che ho fatto io, per me stessa e da sola, solo allora forse potrete parlare!” Adesso avrete capito perché avevo deciso di chiudere il mio tw. Ma voi, Amici miei, con il vostro affetto e con i vostri bellissimi messaggi, mi avete indicato che non bisogna mai gettare la spugna. Soprattutto davanti alle meschinità e alla malvagità di certe persone. Allora ho rimesso i piedi per terra e mi sono rialzata, e adesso, credetemi, sono più combattiva che mai. GRAZIE !!

Rita Pavone, la zanzara: dal buonismo alla responsabilità, scrive Edoardo Varini su “L’Inkiesta” il 31 Agosto 2016. Desta scalpore il tweet di Rita Pavone sull'ospitare anche i terremotati – come gli immigrati – negli alberghi. Testualmente: «Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati». Il ragionamento non fa una grinza. Ma il problema è che ad essere terremotate, prima ancora delle aree colpite dal sisma, sono le teste dei nostri governanti e di tutti coloro che credono sia ancora una cosa up to date, emancipata, che "fa figo" ostentare la convinzione che gli uomini di colore sono alla nostra stregua. Che se solo lo devi ostentare, perdonatemi, è perché non lo pensi. È perché hai la coscienza sporca. Una frase di una tale lucidità non l'ha detta un accademico, un politico, un giornalista di fama, no, l'ha detta Rita Pavone, "Rita la zanzara", come dal titolo del film che la vede protagonista e che echeggia una testata studentesca del milanese Liceo Parini, sequestrata per oscenità pochi mesi prima dell'uscita del film. Tra i collaboratori del giornale da 50 lire a copia vi erano futuri giornalisti quali Walter Tobagi e Vittorio Zucconi, gente che sin da giovane con l'informazione ci sapeva fare. I soli che non lo compravano, il giornale, erano quelli di "Gioventù studentesca": da immaginarselo, la futura "Comunione e liberazione". Il testo incriminato era un'inchiesta sulla sessualità giovanile, dove si leggevano frasi per l'epoca intollerabilmente eversive quali: «Se potessi usare gli anticoncezionali non mi porrei limiti nei rapporti prematrimoniali», detto da una studentessa. Figuriamoci! Non è la prima volta che il nome di Rita Pavone si accosta a un capovolgimento del modo di pensare: allora, dal moralismo al Sessantotto. Oggi dal buonismo alla responsabilità.

Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.

Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri

E poi la pietra tombale...

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». 

TERREMOTO E BENEFICENZA. "Non darò nemmeno un euro per i terremotati: ci pensi lo Stato". Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva, si oppone all'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non prevenire i disastri dei terremotati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 30/08/2016, su "Il Giornale". In molti in Italia si sono mossi per fare qualcosa per gli sfollati del terremoto che ha colpito sei giorni fa il Centro Italia. Tantissimi hanno donato 2 euro per i terremotati attraverso il numero messo a disposizione dalla Protezione Civile. Molti, ma non Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva. Persona molto ascoltata da quelle persone vessate dal fisco e spesso minacciate da Equitalia. "Non do una lira per i terremotati". Una posizione scomoda e controcorrente. Che può essere apprezzata oppure no, ma comunque deve essere ascoltata. "Scusate - ha scritto - ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms". Lino Ricchiuti va a ruota libera. Non lo hanno "impressionato" le immagini del disastro, "i palinsesti stravolti" e "il pianto in diretta" di Renzi. "Non do un euro - dice - E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare". "Ecco perché non faccio beneficienza per il sisma". Il motivo? L'Italia ha già i soldi per far fronte alle emergenze. Ai terremotati ci dovrebbe pensare lo Stato con le tasse che tanti italiani pagano ogni giorno. Ogni giorno. Ogni mese. Ogni anno. "Non do un euro - continua Ricchiuti - perché è la beneficenza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie". Stanco di un'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non pensarci prima. Un Paese in cui è sempre meglio curare che prevenire, perché in fondo la beneficienza smuove i cuori di tutti. "Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro". Uno Stato che incassa oltre il 50% di quello che produce un suo cittadino, non merita altri soldi. "Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro". "Avrei potuto scucirlo qualche centesimo - ammette Ricchiuti - (...) ma io non sto con voi politici", perché "voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è. Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mio padre, che ha lavorato per 40 anni in campagna, prende di pensione in un anno meno di quanto un qualsiasi parlamentare guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro?". Il ragionamento, seppur emotivo, ha una sua logica. Certo: forse le raccolte fondi per un terremoto simile le avrebbero fatte anche nella efficientissima Germania. Però lì non è sempre un'emergenza. "Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica". Un fondo di verità c'è: l'Irpinia e L'Aquila insegnano. "Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese ogni giorno - conclude Ricchiuti-. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati". E quindi "io non do una lira", ma "il più grande aiuto possibile: la mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura".

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 31 agosto 2016: perché non si dovrebbe dare un euro in beneficenza ai terremotati. Mandare al diavolo questo clima solidaristico e dichiarare solennemente che non metterò un euro per il terremoto, sostenere che nessuno in effetti dovrebbe metterlo perché lo Stato ha tutti i fondi e le risorse per affrontare queste cose, non cedere al ricatto emotivo di un Paese culturalmente imperniato sull’emergenza anziché sull’organizzazione, votato al volontariato anziché al dovere professionale e civico, fondato sulla beneficenza, sul numerino da chiamare, l’sms da mandare, su giornali e telegiornali e cantanti e personalità che mostrano immagini della catastrofe con sovraimpressi gli estremi per restare arruolati al circo della fratellanza improvvisata: sì, la tentazione c’è, la voglia di chiamarsi fuori è forte. 

Fiorello posta un video su Facebook pubblicato da “Corriere Tv” il 29 agosto 2016 per parlare della sua diffidenza nei confronti dei concerti organizzati per beneficenza: «meglio fare in privato», dice. «Ieri lutto nazionale, seguire i funerali è stata una cosa drammatica, genitori che piangono i figli, quando si sopravvive ai propri figli, me lo diceva mio padre - dice Fiorello - ...la macchina della solidarietà è partita alla grande, e occhio attenzione, sono stato già invitato ad almeno quattro manifestazioni per raccogliere fondi. Occhio a queste manifestazioni che facciamo noi del mondo dello spettacolo. Perché se per organizzare le cose devi spendere soldi, non devolvi tutto tranne le spese, allora non lo fai. O fanno tutti beneficienza o non vale la pena. Occhio a chi organizza questi spettacoli. Visto che ho ricevuto questi inviti - continua Fiorello - io mi fiderei di più se lo spettacolo fosse organizzato da una onlus o da una organizzazione affidabile, altrimenti la storia insegna...mi piacerebbe avere nome e cognomi. Spettacoli che si faranno pro terremoto bisogna stare attenti. Troppa gente dietro, troppi organizzatori, mi fanno paura. È meglio fare ognuno a modo suo, io preferisco fare la beneficienza privata, dai i soldi direttamente e il gioco è finito».

TERREMOTO E TRUFFE. Terremoto, un affare chiamato sisma: come evitare donazioni ai furbi. Lucrare sulle tragedie - Attenti alle associazioni che chiedono soldi senza indicare come verranno spesi, scrive Barbara Cataldi il 26 agosto 2016 su “Il Fatto Quotidiano". Pannolini, spazzolini, assorbenti, ma anche piatti di carta, sapone, scarpe: ieri beni di ogni genere sono stati raccolti in circoscrizioni e parrocchie. Mentre la terra tremava e le vittime venivano estratte dalle macerie, gli italiani si lanciavano in una commovente gara di solidarietà. Ma è stato inutile: Fabrizio Curcio, il capo della Protezione Civile ha stoppato i più generosi. “Non inviate cibo e indumenti, non abbiamo carenze, il modo migliore di aiutare è l’sms solidale al 45500“. Alla popolazione colpita servono solo soldi per la ricostruzione. Però si moltiplicano le reti di solidarietà per la raccolta fondi. Solo nella prima giornata la Croce Rossa ha raccolto 170mila euro (causale “sisma centro Italia” (Iban IT40F0623003204000030 631681). Ma le donazioni più numerose stanno arrivando attraverso il 45500 della Protezione Civile: due euro inviando ogni sms o chiamando da rete fissa. Anche Poste Italiane, in collaborazione con Cri, ha istituito un conto corrente ad hoc (causale “Poste Italiane con Croce Rossa Italiana – Sisma del 24 agosto 2016”, Iban IT38R0760 10300000 0000900050). Non sempre, però, le iniziative che vengono pubblicizzate, soprattutto su Facebook o whatsapp con passaparola tra amici e conoscenti, brillano per trasparenza. Spesso non si comprende chi tenga le fila dell’organizzazione promotrice o a cosa davvero servano i soldi raccolti. Il rischio di incorrere in un’associazione che utilizza il disastro per farsi pubblicità, o addirittura in chi mette in piedi una vera e propria truffa, è concreto. In passato c’è stato chi dopo il sisma in Emilia del 2012 ha intascato indebitamente 120.000 euro per il sostentamento fuori casa, mentre non si è mai mosso dalla sua abitazione inagibile di Crevalcore, chi dopo il terremoto dell’Aquila del 2009 ha percepito più di 700.000 euro grazie a false dichiarazioni di danni mai subiti, o chi a Monza nel 2013 ha distribuito volantini per la raccolta fondi per le vittime dell’alluvione in Sardegna utilizzando il simbolo Cri, ma mettendo il proprio nome e numero di telefono. “Associazioni di solidarietà come la nostra, non devono raccogliere fondi – spiega Costas Moschochoritis, direttore di Intersos – a questo pensano le istituzioni. Noi dobbiamo offrire il nostro contributo per aiutare le persone colpite dal dramma, con servizi complementari, come il sostegno psicologico”. Da oggi gli psicologi volontari di Intersos saranno presenti nelle zone devastate dal sisma per aiutare bambini e anziani ospitati nel campo di Accumoli. Se si dà uno sguardo ai profili Facebook di tante associazioni, sorge il dubbio che il terremoto sia diventato un’occasione per promuovere il proprio marchio e raccogliere fondi per il proprio sostentamento, senza dare garanzie o spiegazioni su come i soldi verranno spesi. Action Aid, associazione internazionale per le adozioni a distanza, ha lanciato sui social il suo spot: “Emergenza terremoto Centro Italia. Non c’è tempo da perdere abbiamo bisogno del tuo aiuto adesso. Dona ora”. Ma per fare che? E così anche per Cesvi (cooperazione allo sviluppo dei Paesi più poveri). Sulla sua homepage c’è una foto di una donna tra le macerie. Si parla di un primo intervento per la distribuzione di beni di prima necessità. “Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, DONA ADESSO”. Ma sul campo non c’è già la Protezione Civile? Inoltre il territorio colpito dal sisma è scarsamente abitato, nelle tendopoli c’è un numero di persone relativamente piccolo. Con i soldi delle donazioni, allora, cosa ci faranno? Ci piacerebbe saperlo prima di mettere mano al portafoglio. Save the children ha istituito un Fondo emergenza per l’allestimento di uno spazio a misura di bambino, che aiuti i più piccoli ad affrontare il trauma subito con l’aiuto di educatori esperti. Se si compila il form si scopre l’entità della donazione: 30 euro. Servirà solo per uno spazio di sostegno psicologico, che gli operatori di Intersos hanno messo in piedi gratuitamente? “Ad Amatrice abbiamo istituito uno spazio per ospitare i bambini – spiega Giusy De Loiro di Save the children – e aiutarli con un laboratorio di favole e disegni a superare il trauma. Le donazioni ci servono per pagare materiali e i professionisti che lavorano per noi”. “Abbiamo chiesto al ministero dall’Interno di gestire in modo centralizzato le campagne di solidarietà e le raccolte fondi – afferma Carlo Rienzi, del Codacons – Ciò per evitare gli errori del passato: quando i milioni di euro versati dagli italiani per alluvioni e terremoti sono rimasti inutilizzati”. Per evitare inganni è bene dare il proprio contributo sempre attraverso associazioni o enti che si conoscono; se chi promuove l’iniziativa non è un’istituzione dello Stato, è meglio donare solo quando è chiaro il progetto su cui i nostri soldi verranno investiti, in modo da poter verificare la sua realizzazione. Meglio fare la donazione solo dopo aver verificato l’esistenza dell’associazione e attenzione alle mail con richiesta d’aiuto, il link potrebbe essere stato creato per carpire i nostri dati.

ATTENZIONE ALLE TRUFFE SU DONAZIONI FANTASMA. Scrive il 25 Agosto 2016 Dominella Trunfio. C’è una mobilitazione generale nelle ultime ore perché davanti alle tragedie, il popolo italiano si stringe sotto la parola solidarietà. Chiunque nel proprio piccolo cerca di contribuire ad alleviare le sofferenze dei terremotati attraverso donazioni di sangue, indumenti, alimenti e denaro. E la speranza è sempre quella che effettivamente tutto vada a finire nelle mani giuste, ovvero di chi è rimasto senza famiglia, senza casa e senza certezze. I social network sono invasi da appelli e da eventi che parlano di centri di raccolta di beni di prima necessità. Tutte iniziative lodevoli, ma anche in questo caso la parola d’ordine è occhio allo sciacallaggio, per cui il consiglio è sempre quello di fare donazioni tramite enti che riteniamo attendibili come Comuni, Protezione Civile e associazioni fidate che hanno aperto conti iban dedicati all’emergenza terremoto, mai quindi a singole persone che si spacciano per persone di cuore. Lo scetticismo che spesso abbiamo nel donare, è dovuto principalmente a fatti di cronaca negativi che ci hanno fatto perdere un po' di fiducia. All’indomani del terremoto in Abruzzo, chi non ricorda lo scandalo dei 5 milioni di euro di donazioni che non sono mai arrivati nelle tasche dei terremotati? Lì, la questione era complessa e i soldi gestiti tramite sms, che sarebbero dovuti servire per la ricostruzione dell’Aquila, sono finiti alle banche, grazie al cosiddetto "metodo Bertolaso". Il paradosso era stato proprio il fatto che quei soldi destinati ai terremotati erano stati gestiti come qualsiasi fondo, per cui la condizione stessa di "terremotato" non andava a soddisfare i criteri di solvibilità. Insomma, senza aprire un dibattito economico, la sostanza è che le vittime del terremoto non avevano potuto accedere a quei fondi che erano stati donati proprio a loro, perché già destinati a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos con un fondo di garanzia bloccato per 9 anni, trasferito poi alla Regione Abruzzo. Migliore sorte non era toccata poi ai terremotati dell’Emilia Romagna, anche qui non si può dimenticare la lunga battaglia dei sindaci emiliani che davanti alle telecamere gridavano di non "aver visto un euro per la ricostruzione post terremoto". Dove erano (e sono) finiti i 15 milioni di euro che generosamente gli italiani e non solo avevano donato in beneficenza? Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, prova a dare una spiegazione attraverso le pagine del Corriere: «Purtroppo l’iter non si può comprimere più di tanto, se si vuole assicurare trasparenza. Innanzitutto una precisazione sulla cifra, i 15 milioni non sono versamenti ma promesse di versamento. La differenza è sottile ma decisiva. Nel senso che i vari gestori (Tim, Vodafone, Wind eccetera) prima di versare alla Tesoreria dello Stato l’importo corrispondente agli sms, devono effettivamente incassare la cifra. Io posso anche inviare un messaggio ma se poi per qualche ragione non lo pago, il gestore non versa».

TERREMOTO E BUROCRAZIA. Un Paese fragile ed esposto con una folle burocrazia. Una cifra enorme è stata spesa dallo Stato per le ricostruzioni post sisma. Ma secondo gli esperti sono almeno 12 milioni gli immobili ad alto rischio, scrive Antonio Signorini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Roma I terremoti hanno segnato l'Italia. Colpa della posizione geografica, al confine tra la zolla africana e quella euroasiatica, spiegano gli esperti. La frequenza è di un sisma distruttivo ogni cinque anni. Cento all'anno di quelli innocui, percepibili dalla popolazione. Ma la storia del nostro Paese è funestata anche dalle ricostruzioni. Processi lunghi, complicati e frutto di scelte opache. Alle difficoltà di tipo fisico di un post terremoto, ad esempio il recupero e la ricostruire centri storici semidistrutti e la sostituzione di vecchie case con nuovi edifici antisismici, si sommano gli effetti delle caratteristiche della nostra politica e della burocrazia. Ricostruzioni dai tempi biblici, continui rifinanziamenti e spese che aumentano di anno in anno senza controllo e senza che le popolazioni colpite ne traggano beneficio. Mali antichi, riassumibili in due cifre contenute in un rapporto del Consiglio nazionale degli ingegneri. Dal 1968 a oggi i terremoti sono costati 121 miliardi e 608 milioni di euro. Attenzione, è spesa pubblica, non gli effetti sul Pil che si sono fatti sentire su famiglie e imprese, che sono un'altra storia. Soldi stanziati dal 1968 a oggi, attraverso un numero incredibile di leggi e decreti, emanati anche a distanza di 40 anni dal terremoto di cui si occupano. Sono 137 in tutto. La stima, a costi attualizzati, è precisissima. Il terremoto più oneroso è stato quello dell'Irpinia del 1980. In tutto 52 miliardi stanziati da 33 diverse leggi, che impiegheranno somme fino al 2023. L'ultima legge sul terremoto campano varata è del 2008, 28 anni dopo la tragedia. Ancora più longevo il terremoto del Belice. Prima legge varata nel 1968, anno della tragedia, ultimo provvedimento nel 2007. La spesa complessiva è di 9 miliardi e 179 milioni e avrà effetti fino al 2018. Il sisma che ha distrutto L'Aquila del 2009 è costato 13,7 miliardi, quello dell'Emilia del 2012, 13,3. Quello del Friuli del 1976, 18,5 miliardi, ma ha impegnato solo 9 leggi e gli effetti finanziari si sono fermati nel 2006. Le ricostruzioni dei terremoti, senza contare le altre calamità naturali, rappresentano una voce importante della spesa pubblica che ha più volte fatto sollevare la questione se ne debba occupare lo Stato oppure, visto che le case sono beni privati, non sia meglio percorrere la strada delle polizze assicurative obbligatorie. Soluzione che finirebbe per fare aumentare le spese che devono affrontare i proprietari di immobili e metterebbe nei guai anche le compagnie assicurative. L'alternativa è quella di un piano generale di messa in sicurezza degli edifici che si trovano nelle aree a rischio. Le più pericolose sono quelle costruite prima del 1974, che sono il 50% del totale. Sempre secondo il Consiglio degli ingegneri, servirebbero circa 93 miliardi per mettere in sicurezza 12 milioni di immobili che si trovano in zone ad alto rischio terremoti. Meno di quanto ha speso lo Stato per ricostruire.

Colpa di un funzionario distratto: così Amatrice ha perso i contributi per salvare le case, scrive “Libero Quotidiano” il 26 agosto 2016. La burocrazia, un funzionario distratto, una legge sbagliata e addio contributi anti-terremoto. Spunta un sinistro retroscena sul sisma di Amatrice e sulle macerie. Secondo La Repubblica un dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l'elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa ha determinato la perdita di due milioni di euro che sarebbero serviti per consolidare le abitazioni fragili. Invece sono arrivati solo duecento mila euro. L'inchiesta per disastro colposo aperta dal procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva dovrà accertare le responsabilità. Di sicuro la burocrazia ha giocato un ruolo letale. Subito dopo il terremoto dell'Aquila, i comuni di Amatrice e Accumoli furono classificati "categoria 1", cioè massimo rischio sismico. L'allora governo Berlusconi stanziò quasi un miliardo da utilizzare entro il 2016 per le zone rosse: i soldi sono gestiti dalla Protezione civile, l'assegnazione ai comuni passa attraverso una graduatoria regionale. Questi soldi servivano ai privati cittadini per sistemare le loro case e renderle più sicure. Lo Stato garantisce da 100 a 200 euro al metro quadrato, per piccoli interventi di consolidamento. Interventi che magari non salvano una casa ma le vite sì. In estate, la popolazione di Amatrice supera le 15mila persone, per l'ufficio anagrafe i residenti effettivi non sono più di 2.750. Quindi quasi tutte le abitazioni private sono seconde case. Ad Amatrice - secondo La Repubblica - è accaduto che un dirigente poco solerte abbia spedito a Roma le richieste dei suoi cittadini quando ormai erano scaduti i tempi di consegna, facendo perdere così ogni diritto ai finanziamenti a chi (meno di dieci persone) che aveva fatto domanda. Un caso emblematico di come fosse stata presa seriamente l'opportunità del consolidamento antisismico. Ma c' è un altro motivo per cui fino ad oggi dei 10 milioni assegnati al Lazio ne sono stati spesi appena tre. La Regione Lazio ha inserito tra i requisiti per accedere ai fondi, la "residenza", e non la semplice proprietà della casa come invece prevede l'ordinanza della Protezione civile. Risultato: su 1342 domande presentate per il 2013-2014 alla regione, ne sono state accolte soltanto 191. Undici ad Amatrice per un totale di 124.700 euro, e sette appena ad Accumoli per 86.400. Diciotto piccoli interventi sull' ordine dei 10-15 mila euro per diciotto case. Poco. Troppo poco. 

Vittorio Feltri il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano” contro lo Stato criminale: "Chi ha i morti sulla coscienza". Abbiamo svolto una breve ricognizione nei gangli della burocrazia e della politica e siamo riusciti con rapidità a scoprire leggi formalmente complete che disciplinano la materia edilizia antisismica. Non la facciamo tanto lunga per evitare di annoiarvi e arriviamo subito al nocciolo della questione: quelle leggi, approvate negli anni Ottanta (quindi in ritardo rispetto alla necessità), sono quasi sempre state ignorate, e si è bellamente costruito dovunque lungo la dorsale appenninica senza adottare le precauzioni fissate nero su bianco, come se queste non fossero mai state vergate. Cosicché la stragrande maggioranza degli edifici eretti negli ultimi decenni non è in grado di resistere alle scosse telluriche. Tanto è vero che in occasione di terremoti molte case cadono come foglie morte provocando stragi di umani, schiacciati dalle macerie. Non solo. Stando alle opinioni degli esperti, anche gli stabili vecchi o addirittura vetusti, con una spesa relativamente bassa, potrebbero essere messi in sicurezza, così come buon senso suggerirebbe in un Paese ad alto rischio sismico. Meglio prevenire una ferita che leccarsela. In sostanza, se le norme sopra citate fossero state tradotte in pratica avremmo addirittura risparmiato e, soprattutto, salvato migliaia di vite. Se poi si tiene conto dei miliardi investiti in varie ricostruzioni l'indomani di ogni catastrofe naturale, non è difficile capire che se quei capitali fossero stati utilizzati per rinforzare in senso antisismico palazzi e palazzine, oggi non saremmo qui a disperarci per quanto accaduto nelle Marche, in Umbria e nel Lazio, trascurando i tragici precedenti dell'Aquila, dell'Emilia eccetera. Era preferibile sborsare per proteggersi che non per finanziarsi le esequie. Ciò che sorprende e amareggia è un fatto: il primo a non rispettare le leggi dello Stato è lo Stato stesso. Il quale possiede una miriade di stabili non in regola con le disposizioni che ha solennemente emanato: scuole, Poste, tribunali, enti di ogni specie. La cosa è incredibile solo per chi non conosca lo stile della pubblica amministrazione, che da lustri non versa neppure i contributi per i propri dipendenti, salvo pensionarli ricorrendo al denaro della fiscalità generale. Una ingiustizia raccapricciante. Figuriamoci se uno Stato furbetto e cialtrone quanto quello che abbiamo descritto si preoccupa di controllare che i cittadini edifichino secondo i criteri da esso stesso studiati, varati e violati. Se poi la gente muore sotto il proprio tetto, pazienza, si parla di fatalità, di furia degli elementi e altre simili stupidaggini. La verità è una e basta: il nostro Stato è criminale e pretende correttezza dai “sudditi”. Il cattivo esempio viene sempre dall'alto. Vittorio Feltri

Terremoti e norme, palude di regole e regolette. Sette anni dopo il sisma dell’Aquila, i cittadini ancora faticano a districarsi nella cervellotica poltiglia burocratica. Per ricostruire Amatrice, sarebbe meglio non ripetere gli stessi errori, scrive Gian Antonio Stella il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata», spiegò Franz Kafka nelle sue Conversazioni con Gustav Janouch. Lo ricordino, quanti stanno per mettere mano alle norme che guideranno la rimozione delle macerie, la ricostruzione e il ritorno alla vita di Amatrice e gli altri paesi annientati dal terremoto. Lo ricordino perché i cittadini aquilani sono ancora oggi, sette anni dopo il sisma, impantanati in una poltiglia di regole e regolette così cervellotiche da rendere difficile la posa di un solo mattone senza l’aiuto non solo di un geometra ma di una équipe di azzeccagarbugli. Ricordate il dossier di Gianfranco Ruggeri, l’ingegnere esasperato dalle demenze burocratiche che bloccavano i cantieri? Nei primi quattro anni dopo la scossa del 6 aprile 2009 erano piovuti sull’Aquila «5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato e 720 ordinanze del Comune». «Confesso però», ammise, «che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita». Totale: 1.109 lacci e lacciuoli. Aggiunte successive? Non si sa: «Mi sono stufato di contarle». Ma non si tratta solo di numeri esorbitanti. Il problema è quel che c’è dentro. La «scheda parametrica» varata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila per accelerare i lavori si auto-loda come «caratterizzata da norme innovative volte allo snellimento delle procedure» e garantisce «tempi rapidi di istruttoria». Bene: la sola «Scheda Progetto - Parte Prima» è corredata da un «Manuale istruzioni» con un indice di 114 capitoli per un totale di 258 pagine. Pagine che nel manuale per la «Scheda progetto parte prima aggiornato al Decreto n.4» salgono a 271. Auguri. Un esempio di semplificazione? «Il Coefficiente topografico di amplificazione sismica St, per configurazioni superficiali semplici, è determinato in base alla seguente classificazione prevista da NTC 2008, 3.2.2. Categorie di sottosuolo e condizioni topografiche “Le su esposte categorie topografiche si riferiscono a configurazioni geometriche prevalentemente bidimensionali, creste o dorsali allungate, e devono essere considerate nella definizione dell’azione sismica se di altezza maggiore di 30 m.”»...Un altro? «Ai sensi dell’art. 4 comma 8 del DPCM 4 febbraio 2013 il contributo deve ridurre la vulnerabilità e raggiungere un livello di sicurezza pari ad almeno il 60% di quello corrispondente ad una struttura adeguata ai sensi delle NTC2008 e successive modificazioni e integrazioni, fatta eccezione per gli edifici con vincolo diretto di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 Parte II…». Aveva ragione, tre secoli fa, l’abate Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». Parole d’oro. Tanto da far sorgere il sospetto che proprio quella slavina di Leggi speciali, Direttive del Commissario Vicario, Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e così via sia stata accolta a suo tempo non con preoccupazione ma con giubilo da chi dietro le rovine vedeva l’occasione per fare affari. Come l’imprenditore che la notte del terremoto del 2009 «rideva nel letto» o l’assessore aquilano che in un’intercettazione (volgarotta, scusate) diceva: «Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi…». Perché sempre lì si torna: nella fanghiglia creata da un diluvio di regole, ammoniscono le cronache di questi anni, il cittadino perbene impossibilitato a destreggiarsi senza violare questa o quella norma affoga, tanto più dopo che la sua vita è già stata devastata da un trauma spaventoso quale il terremoto. Al contrario, in quella fanghiglia, il faccendiere con le amicizie giuste e magari un retroterra mafioso sguazza come nell’oro. Oro alla portata degli imprenditori più spregiudicati. Al punto che nel caos generale, come denunciarono Don Luigi Ciotti e Libera, ci fu chi riuscì a piazzare all’Aquila perfino una quantità così esagerata di Wc chimici (34 milioni di euro!) che nelle tendopoli ogni sfollato avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». Molto più di un elefante adulto. Anche ad Amatrice, in parallelo a una consolante efficienza e ad una straordinaria generosità dimostrate da tutti gli uomini dello Stato arrivati in soccorso alle popolazioni colpite, non è che la burocrazia sia ancora riuscita a cambiar passo. La prima ordinanza 388 della Presidenza del Consiglio, prima di arrivare al nocciolo, conteneva 7 «visto» e «vista», 1 «considerato», 1 «ritenuto», 1 «rilevato», 1 «ravvisata», 1 «atteso», 1 «acquisite»… Nella seconda i «visto» sono saliti a 9 più 1 «ritenuto», 1 «sentito», 1 «acquisite». Vecchi vizi. Per carità, amen. Non si può chiedere ai burosauri di cambiare di colpo in piena emergenza. Ma le regole per consentire ai cittadini rimasti senza casa di tornare a progettare il loro futuro devono essere radicalmente diverse da quelle elaborate in questi anni per altri sfollati. Devono essere chiare, severe nel pretendere il rispetto delle norme antisismiche, attente a evitare gli abusi del passato. Guai, però, se fossero così astruse da intimidire. E da aggiungere nuovi tormenti a questa nostra umanità tormentata.

TERREMOTO COME VOLANO DELL'ECONOMIA. La puntata di Porta a Porta andata in onda il 25 agosto 2016 dal titolo “Il cuore dell’Italia con loro Speciale Porta a Porta” che ha approfondito il disastro del terremoto del centro Italia, si è detta una grande verità, però sta facendo infuriare molti italioti benpensanti.

Bruno Vespa: “Questa sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia perché pensi l’edilizia che cosa non potrebbe fare”; 

Graziano Del Rio: “Adesso L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa e anche l’Emilia è un grandissimo cantiere in crescita, farà PIL”; Bruno Vespa: “Darà lavoro ad un sacco di gente”. «Il Friuli era povero e col terremoto è diventato ricco». «Io incontrai un industriale davanti alle macerie della sua fabbrica. Era felice. Dico "ma scusi, le è crollata la fabbrica…". "Ma adesso la rifaccio più bella". Ecco, l’ottimismo, questo ci serve. Sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia». 

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione. La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile. Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile. Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale".  Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna.  Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

TERREMOTO ED ADEGUAMENTO ANTI SISMICO. L'Italia dei terremoti, l'ingegnere: "Case antisismiche necessarie, le spese non sono il problema". Francesco Sylos Labini: "Ricostruire sullo stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere una follia, ma si può fare perché la decollocazione non funziona. Le norme tecniche per le costruzioni sono obbligatoria dal 2009, e sono ottime", scrive Katia Riccardi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". A guardarla bene, la mappa sismica dell'Italia dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (ordinanza Pcm del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b), resta impressa come una foto dai colori troppo accesi. Il viola al centro come un'arteria a rischio, i bordi più chiari, arancioni, gialli, verdi. L'Italia è un Paese ad alto rischio. Altissimo in alcune zone, in altre medio, solo una minuscola porzione si salva dai terremoti. Siamo capaci di guardare lontano da qui, in California o in Giappone, invece anche lo stivale scalcia spesso, una volta ogni 4-5 anni una catastrofe distrugge tutto, eppure, riesce ancora a sorprenderci. L'Abruzzo è la regione storicamente più colpita dai terremoti: L'Aquila 1786, la Marsica e Avezzano 1904, Messina 1908, 1915 di nuovo la Marsica e Avezzano. Nel 1919 il terremoto al Mugello, 1930 l'Irpinia, la prima volta in questo secolo, poi ce ne fu un altro. Nel 1933 la Maiella, 1943 Marche e Abruzzo, 1958 L'Aquila, 1963 secondo terremoto in Irpinia, 1968 il Belice, 1976 il Friuli con mille morti e nel 1980 di nuovo l'Irpinia, la provincia di Salerno e un pezzo della Basilicata. Poi tre giorni fa, il 24 agosto. E se le case normali crollano con scosse di intensità 5-6 della scala Richter, solo negli ultimi 16 anni in Italia ci sono stati oltre 110 terremoti di varia intensità, da 4 fino a quel 6,3 che ha raso al suolo L'Aquila nel 2009. Le case non costruite a norma, collassano. I muri mal collegati ai solai cadono lateralmente, i solai precipitano nel vuoto e schiacciano tutto. La scossa da sottoterra muove le fondamenta, i piani bassi oscillano e fanno traballare quelli superiori. Ma è la seconda scossa, che arriva in senso inverso, a spezzare l'edificio come ossa sul ghiaccio. Ci vogliono gomma, legno, un certo tipo di acciaio più plastico per ammorbidire una costruzione e consentirle di ballare. Ci vogliono colonne, pilastri di cemento armato piazzati in punti specifici. Il risultato dipende sia dalle caratteristiche della casa che dai tipi di intervento. Che vanno dal rafforzamento della struttura, per esempio con gabbie in cemento armato, all'applicazione di isolatori, dissipatori e smorzatori, ad altre ancora. E questo costa, fino al 10, al 20 per cento in più del costo base. C'è una differenza importante tra prevedibilità di un terremoto e la sua inevitabilità. Prevedere consente di scappare, forse di non morire, ma ricostruire resta comunque inevitabile. Ripartire dalle briciole è certo più oneroso che aggiustare. "Costruire una casa antisismica costa di meno che aggiustarne una, un edificio esistente deve mantenere le sue origini storiche", spiega l'ingegnere Francesco Sylos Labini, professore all'università la Sapienza di Roma, progettista dell'intervento di recupero del Palazzo del governo a L'Aquila. "Il Friuli dopo il sisma è stato ricostruito dov'era e com'era, con materiali nuovi, ma le piazze, le strade sono invariati. Anche nel centro Italia si può fare, certo, contrasterebbe contro tutti i criteri di ingegneria, e ricostruire nello stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere considerata una follia. Nello stesso tempo, gli italiani sono legati ai loro paesi, è difficile delocalizzarli, le New Town non sono state un esperimento riuscito. E ricostruire si può", dice. Aggiungendo che, tutto sommato, la spesa non è poi così sconvolgente. Insomma non è la scusa. "Ora va fatta l'analisi degli edifici, alcuni, quelli storici, sono rimasti in piedi, ma l'attenzione è su quelli che sono crollati, ci sono interi pezzi di paesi spariti. Un tempo si costruiva bene, bisogna analizzare perché. E dare i numeri è difficile. Diciamo che dai 100 ai 300 euro a metro quadrato è una valutazione plausibile. La struttura è il costo minore, perché è povera di materiali, quello che pesa sul totale sono pavimenti, finestre, impianti. E si deve pagare comunque. Lo scopo è ricostruire un edificio che non uccida, con scale e le strutture che restino in piedi. Per semplicità diciamo che se un edificio costa 100, la struttura 30-35, il resto è costo fisso" continua Sylos Labini, "che si possa costruire e consolidare, che si possano fare le cose bene, come a Norcia, è un dato di fatto". Arquata del Tronto è a pezzi, Norcia, poco distante, ha qualche ammaccatura ma è restata in piedi. "Dopo il terremoto del 1979 è stata messa in atto una ristrutturazione di Norcia e di tutte le frazioni, non è stato semplice, ci sono voluti anni, ma abbiamo voluto ricostruire tutto rispettando le norme antisismiche", racconta l'assessore del Comune di Norcia, Giuseppina Perla. "Dopo le scosse di ieri, le lesioni e i crolli più importanti li abbiamo avuti solo negli edifici vecchi non ristrutturati. Certo, questo non vuol dire che le case costruite con criteri antisismici non abbiano subito lesioni, ma sono lesioni contenute, che hanno salvato tante vite umane". Le case nuove devono essere costruite, per legge, secondo norme anti sismiche, gli edifici vecchi possono essere adeguati. Ma l'intervento è carico dei proprietari. In California e in Giappone lo Stato offre incentivi fiscali, ma lì buttano giù tutto e ricostruiscono. Riparano assi di legno, sostituiscono pezzi. Noi abbiamo case in pietra, patrimoni culturali, rocche, castelli, chiese, campanili. In alcuni casi viviamo in equilibrio su angoli di montagne. Sporgiamo in bilico. Costruiamo case una sopra l'altra, conviviamo con monumenti e conserviamo medioevo. Anche in città abbiamo palazzi in muratura, che se scossi diventano briciole in pochi secondi. L'Italia dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure ci vorrebbero 36 miliardi affinché il 70 per cento dei nostri 32 milioni di edifici ancora non adeguato al rischio, lo diventi. Che si adegui. La Protezione civile definisce normativa antisismica "l'insieme dei criteri per costruire una struttura in modo da ridurre la sua tendenza a subire un danno, in seguito a un evento sismico. "Dire che la normativa di ricostruzione e adeguamento sia stata disattesa è troppo generico - continua l'ingegnere - perché il non aver rispettato regole coinvolge singole responsabilità. Le norme ci sono, e sono ottime norme, in linea con l'Europa. L'attenzione o meno non è stata un'evasione di massa alla ricostruzione". Dal 1908, anno del devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati classificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le costruzioni. Il 63, 8 per cento dei nostri edifici sono stati costruiti prima che entrasse in vigore, nel 1971, una più efficace normativa antisismica. Dopo il terremoto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n.3274 del 2003, che riclassifica l'intero territorio nazionale in quattro zone a diversa pericolosità, eliminando le zone non classificate. Da quel momento nessuna area del nostro Paese può ritenersi non interessata al problema sismico. Il problema non sono i costi, ma i tempi. "Io di terremoti ne ho visti tanti", spiega Sylos Labini. "La cosa che mi ha sempre turbato erano le tendopoli, ora ci sono i mezzi e la tecnologia per diminuire i tempi e rifare rapidamente un tetto di una casa, è necessario stabilizzare le persone, anche psicologicamente, la normativa ha fatto passi enormi, e per ora la prevenzione è l'unico mezzo che abbiamo e che dobbiamo attuare. La burocrazia frena i tempi, all'Aquila ha rallentato tutto, ma c'è bisogno di un controllo per quanto possibile, che le cose non sfuggano in queste maglie capillari". Che le persone capiscano l'importanza di una ricostruzione sensata". I ministri delle Infrastrutture e dell'Interno insieme al Capo Dipartimento della Protezione civile emanano il 14 gennaio 2008 il decreto ministeriale che approva le nuove norme tecniche per le costruzioni. L'applicazione diventa obbligatoria dal 1 luglio 2009, come previsto dalla legge n.77 del 24 giugno 2009. Oltre la legge, che dovrebbe obbligare un intervento, restano le pietre a terra, per non dimenticare, per non trovare scuse. E per rimettere in piedi case in grado di ballare, non tombe.

Le cittadelle fanno risparmiare il 50% L'esperto: costruire ex novo costa meno. I casi Messina e San Francisco. Il sindaco Pirozzi: si deve radere al suolo, scrive Giuseppe Marino, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Ricostruire dov'era e com'era. Un mantra che torna dopo ogni terremoto. Ma il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, va controcorrente: «Amatrice è da radere al suolo completamente», ammette dopo aver partecipato a riunioni con i vertici di vigili del fuoco e Protezione civile. Il sindaco forse non lo sa, ma ha sfidato le ire dei venerabili maestri dei beni culturali. Dopo il sisma del 2012 un assessore provinciale di Mantova ventilò l'ipotesi di mettere in moto la ruspa sui ruderi delle chiese e Salvatore Settis, ex direttore della Normale di Pisa e archeologo con fama mediatica, lo paragonò ad Attila. Sta di fatto che il dibattito è aperto e che il restauro può essere costosissimo. Per L'Aquila ad esempio, si sono spesi 12 miliardi in 7 anni, e c'è ancora tanto da fare. Si va verso una Nuova Amatrice, magari costruita altrove? Pirozzi è pronto a demolire, ma non a spostare: «A parte la chiesa romanica di San Francesco, tutto il resto non c'è più. Vorremmo però ricostruire Amatrice nello stesso posto, magari con la stessa forma e con la stessa estetica». Per Gian Michele Calvi, direttore del Centro di ricerca in ingegneria sismica e sismologia dello Iuss di Pavia che ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione delle «new town» dell'Aquila, «costruire da zero costa molto meno, indicativamente una stima del 50% di risparmio non la trovo azzardata». Calvi cita come principale caso di spostamento di centri abitati e ricostruzione i villaggi coinvolti nel devastante sisma di Messina del 1908. «E nel 1906 a San Francisco - spiega - scelsero invece di far costruire rapidamente a privati new town affittate a un prezzo salato mentre si ricostruiva e poi ricomprate dalla mano pubblica e demolite, per spingere la popolazione a tornare al suo posto». Ci sono naturalmente anche esempi di restauro: «Sant'Angelo dei Lombardi in Irpinia e Gemona in Friuli sono i più citati - ricorda l'ingegnere - ma il primo fu lungo e costosissimo, il secondo fu frutto di una scelta drastica: si decise di privilegiare la ricostruzione delle attività produttive sulle residenze. Ad Amatrice il restauro è fuori luogo, ma si può anche scegliere di ricostruire nello stesso posto. Ma replicare tecniche ed estetica del passato è un'idea figlia di decenni bui dell'architettura in Italia. Costruire ex novo e bene si può». Nella scelta del luogo pesa anche un altro fattore praticamente dimenticato, con esiti disastrosi: i cosiddetti «effetti di sito», cioè caratteristiche del terreno che sono in grado di accelerare l'onda sismica o attenuarla. «Le norme tecniche recenti - dice Raffaele Nardone, consigliere nazionale dell'Ordine dei geologi - richiedono l'analisi geologica del sito, ma ammettono che eccezioni. Che in Italia sono diventate la regola. Ad Accumoli ad esempio non si è tenuto conto del rischio rappresentato dal terreno che è franato all'ingresso del paese, lambendo alcuni edifici. E la natura del terreno potrebbe aver influito anche nel crollo ad Amatrice. Non sempre è necessario spostare le case altrove, ma è indispensabile conoscere la natura del terreno. Magari investendo di più nella sicurezza della casa e meno nella bellezza, se bisogna scegliere».

Ristrutturazioni anti sismiche? Lo Stato penalizza i poveri. Le norme sulle detrazioni Irpef per gli adeguamenti anti-sismici hanno molte falle. Meno sgravi a chi è in difficoltà economiche, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Dopo il terremoto che ha abbattuto Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto ci si chiede: lo Stato incentiva i cittadini ad adeguare le loro case alle nuove norme anti-sismiche? La risposta è semplice: sì, ma solo i ricchi. Chi guadagna 1.000 euro al mese, invece, si deve accontentare delle briciole. Vi sembra strano? Lo è. Anzi: è una follia. Cerchiamo di capire meglio. Sul sito dell'Agenzia delle Entrate è disponibile un documento che spiega nel dettaglio quali sono gli sgravi fiscali che il governo ha istituito nella speranza di far diventare a prova di terremoto gli edifici antiche. Le detrazioni per le ristrutturazioni anti-sismiche. In sintesi funziona così: il privato cittadino paga di tasca sua i lavori. Poi lo Stato concede uno sconto sulle tasse (Irpef) pari al 50% dell'importo speso (se fatto a partire da giugno 2012). Ovviamente c'è un tetto massimo, pari a 96mila euro. Bene. Nel caso in cui la casa sia costruita in una zona considerata "ad alta pericolosità" sismica, la detrazione sale fino al 65%. Ma c'è da affrettarsi, perché l'offerta scade il 31 dicembre 2016. Dall'anno prossimo potremo sperare di ottenere solo il 36% con un tetto massimo di 48mila euro. Son tempi di vacche magre: anche per proteggerci dal terremoto. Una volta ristrutturata la casa, comunque, al cittadino la detrazione non viene "regalata" in unica soluzione, ma in 10 comode rate annuali di pari importo. Ma c'è l'inghippo: "Ciascun contribuente - si legge - ha diritto a detrarre annualmente la quota spettante nei limiti dell'Irpef dovuta per l'anno in questione. Non è ammesso il rimborso di somme eccedenti l'imposta". In sostanza lo sconto non può essere superiore alle tasse da versare e quindi meno Irpef paghi e minori sgravi puoi ottenere. In questo modo le persone in difficoltà economica hanno uno sconto Irpef inferiore. E così non sono incentivate ad adeguare gli edifici alle norme sismiche, col rischio di morirci dentro. Il pensionato prende meno sgravi del Vip. Facciamo un esempio. Il signor Mario ha una pensione pari a 12.000 euro all'anno. Pochi: parliamo di 1.000 euro al mese. Con il lavoro di una vita mette da parte un bel gruzzoletto e un giorno decide di spendere 50mila euro per rendere la casa anti-sismica. A quel punto chiede la detrazione di 32.500 euro (il 65% di 50mila) che divisi in 10 anni significano 3.250 euro all'anno di quote detraibili. Ma visto che di Irpef (lorda) Mario deve pagare solo 2.760 euro (inferiori ai 3.250 euro di sgravio fiscale), perderà la differenza di 490 euro. E non può nemmeno chiedere un rimborso o farli diventare una diminuzione di imposta nell'anno successivo. Cornuto e mazziato. Quei 5mila euro a Mario avrebbero fatto sicuramente comodo. Se lo Stato fosse stato più generoso, forse, la casa l'avrebbe ristrutturata. Ma così sa di beffa: meno guadagni e maggiore sarà l'ingiustizia. Al contrario, chi è ha un reddito alto (e quindi paga più Irpef) s'intascherà per intero la detrazione. Se non basta, ecco la seconda anomalia: lo sgravio fiscale "extra" per le zone sismiche vale solo per la prima casa. Ma ad Amatrice, Accumuli e via dicendo, molti degli edifici erano abitazioni per le vacanze. Che quindi non avrebbero potuto ottenere la detrazione.

Adeguamento sismico, quanto costa l'edilizia che può salvare la vita. Si va da 100 a 300 euro a metro quadro. Per un palazzo di medie dimensioni si tratterebbe di una spesa di circa mezzo milione. Una cifra vicina a quelle spesso impiegate per interventi di altro tipo. Le detrazioni fiscali ci sono, ma parziali e spalmate nel tempo. E così i lavori per la messa in sicurezza sono una rarità, scrive Paolo Fantauzzi il 25 agosto 2016 su "L'Espresso". L'Italia ha una delle legislazioni più all'avanguardia, in tema di normativa antisismica. Il problema è che interessa solo le nuove costruzioni. E in un Paese dove l'edilizia storica di vario tipo rappresenta l'80-90 per cento, è come dire che - se i lavori sono eseguiti come si deve - solo una piccolissima fetta di edifici è davvero al sicuro. Oltre il 40 per cento del territorio italiano è a rischio sismico elevato e il 60 per cento degli edifici è stato costruito prima del 1974, quanto sono entrate in vigore le prime norme antisismiche. Almeno un terzo degli immobili andrebbe adeguato. Sulla base di questi parametri nel 2013 l'Oice, l'associazione delle organizzazioni di ingegneria, architettura e consulenza tecnico-economica, stimava che il mercato per questo tipo di interventi valesse 36 miliardi. Perché pure se l'adeguamento costa salato, può salvare la vita. Ma di che cifre parliamo? “Con una spesa compresa fra 100 e 300 euro a metro quadro è possibile mettere al sicuro un edificio” spiega Camillo Nuti, a lungo docente di Tecnica delle costruzioni in zona sismica alla facoltà di Ingegneria di Roma Tre e attualmente ordinario di Progettazione strutturale ad Architettura: “Vuol dire 30 mila euro per appartamento di dimensioni medio-grandi e 200-600 mila euro per un classico condominio di quattro piani. Non poco ma si tratta di cifre che spesso, a pensarci, nel complesso vengono spese per una serie di interventi di tanti alti tipi ma assai meno importanti. Bisogna mettersi in testa che non ha senso rifare la cucina se poi le strutture della casa sono a rischio”. Il campionario dei lavori che si possono effettuare è lungo: isolatori o cuscinetti antisismici da disporre alla base degli edifici, l’utilizzo della fibra di carbonio attorno ai pilastri che riduce notevolmente il rischio di fratture, la disposizione di controventi dissipativi tra un piano e l'altro per ammortizzare le scosse, rinforzi tramite l’installazione di catene o il risarcimento delle murature. L’ultimo ritrovato, ancora allo studio, sono particolari pannelli in legno che coprono le tamponature all'interno e che sono in grado di fare da dissipatori. “È la dimostrazione che abbiamo un grande patrimonio di conoscenze e che le tecnologie esistono. Tutto sta a favorirne l’impiego” sintetizza Nuti. Ma ecco sorgere il problema economico. Chi effettua lavori di adeguamento sismico in zone a elevata pericolosità può recuperare il 65 per cento della spesa, ma in dieci anni. Proprio come previsto per gli interventi per il risparmio energetico. Il problema così è che, trattandosi di somme ingenti, in pochi vi ricorrono. Anche perché si tratta di un investimento sul futuro che non dà ritorni immediati in bolletta, né estetici, come nel caso di una ristrutturazione. Così, se la proposta di ricorrere ai margini di flessibilità concessi dalla Ue potrebbe essere una soluzione, si potrebbe pensare anche a un’altra strada: una detrazione immediata o quanto meno in un arco di tempo assai più ristretto rispetto a quello attuale. E le mancate entrate potrebbero essere compensate dal gettito Iva derivante dagli incentivi e dalle tasse pagate da imprese e progettisti. Con un mercato dei lavori stimato in 36 miliardi, solo l’imposta sul valore aggiunto potrebbe portarne sette nelle casse dell’erario. A meno che non si voglia pensare che la vita di una persona, dal punto di vista fiscale, valga quanto una caldaia a condensazione.

Come rendere antisismica la tua vecchia abitazione. Un sismologo ha ristrutturato la sua casa, costruita sessanta anni fa, rendendola sicura. Ecco come e con quali costi, scrive il 25 agosto 2016 Nadia Francalacci su Panorama. Il terremoto che devastato l'Italia centrale, distruggendo completamente interi paesi e estinguendo quasi intere comunità, ha riportato al centro del dibattito la necessità di adeguare le abitazioni agli eventi sismici. L'Italia, purtroppo, come viene ribadito in queste ore dall'Ingv, è un Paese che per sua natura è altamente a rischio eventi sismici. E la storia sia recente che passata ce lo ha ricordato. Dunque, si può trasformare le vecchie case in edifici antisismici? Lo si può fare e anche prezzi contenuti. Non occorre demolire e ricostruire ma solamente apportare piccole modifiche strutturali tali da rendere l’edificio “dinamico” alle scosse sismiche. Con questo articolo scritto a seguito del sisma che colpì l'Emilia Romagna nel 2012, Panorama.it, si era già occupato dell'argomento. Ecco che cosa ci suggerì l'esperto contattato. E i suoi suggerimenti sono sempre attuali. Paolo Frediani, sismologo e direttore dell’Osservatorio Sismico Apuano, dodici anni fa,  ha ristrutturato la propria abitazione, una struttura costruita negli anni Cinquanta,  rendendola “resistente” al terremoto con un investimento di "soli" 48 milioni di lire che grazie alle detrazioni, sono diventati poco più di 20 milioni. In sostanza,10-13 mila euro circa.

Geometra Paolo Benvenuti, lei ha progettato e seguito la ristrutturazione dell’abitazione del sismologo Paolo Frediani. Com'è riuscito a trasformare la vecchia villetta in un’abitazione che non uccide?

«I cedimenti strutturali che si verificano durante un sisma sono dovuti in gran parte all'enorme quantità di peso che la struttura “portante” dell'edificio deve sopportare. In particolare, mi riferisco al tetto. Durante un evento sismico tutti questi carichi passano da una situazione “statica” ad una “dinamica” in modo repentino ed è questo che ne favorisce il crollo. La problematica principale della villetta del sismologo Frediani costruita circa sessanta anni fa, era quella innanzitutto di legare le quattro pareti costruite in epoche diverse e con materiali differenti.  Quindi, per rendere l’edificio dinamico, capace di assorbire il sisma, abbiamo dovuto costruire un cordolo all’altezza del solaio e lo abbiamo fissato alla muratura verticale, ovvero alle pareti, con tondini di acciaio e collante chimico. Poi abbiamo realizzato ex novo una struttura in acciaio per la copertura. Questo ha permesso di alleggerire il tetto».

Ma nel dettaglio quali sono state le fasi principali della ristrutturazione antisismica?

«Volendo mantenere nel locale sottotetto, un vano fruibile, si è pensato di modificare la struttura come da classica capanna con le falde a pendenza diversa, ad una copertura mista a capanna e a padiglione, questo ultimo fatto dovuto anche ad esigenze urbanistiche. Per realizzare il progetto occorreva un materiale leggero, maneggevole, coibentante e facilmente sagomabile proprio considerando la forma della copertura. L'abbinamento che abbiamo scelto è stato tra acciaio e pannelli autoportanti ardesiati. In questo modo si è evitato di aggiungere le tegole che sono pesanti e durante il sisma diventano pericolose. Le travi, invece, sono state collegate tramite idonee piastre di distribuzione ad un cordolo in calcestruzzo armato in modo da scaricare il peso di tutta la struttura sulla sottostante muratura.  E’ fondamentale sottolineare che durante tutta la durata del cantiere, non è stato demolito il solaio e questo ha permesso a coloro che vi abitavano di non lasciare mai la villetta».

Con questo metodo di quanto è riuscito ad alleggerire il tetto?

«Di circa due terzi. In sostanza, con il metodo classico, il solaio in laterocemento e calcestruzzo avrebbe avuto un peso medio per metro quadrato di circa 290 chilogrammi mentre con il metodo antisismico abbiamo ridotto il peso a 100 kg per metro quadrato».

Oggi, quanto può costare un intervento come quello appena descritto?

«Calcolando una superficie di circa 90-100 metri quadrati, realizzare una ristrutturazione antisismica, può costare da 20 e 30 mila euro circa».

Ed è possibile intervenire con altrettanta facilità anche negli appartamenti? E con che costi?

«Negli appartamenti è più impegnativo anche perché il progettista deve necessariamente verificare e analizzare tutta la struttura portante dell’edificio e poi intervenire eventualmente sulla singola unità. Ma ad esempio l’istallazione di una catena che serve per collegare ovvero tenere unite, le due facciate opposte di un palazzo il costo può variare dagli 800 ai 1.200 euro a seconda della dimensione. Anche questo è un intervento antisismico, certamente minimo, ma pur sempre funzionale».  

TERREMOTO E LOBBY. Il Fascicolo del fabbricato: Ecco poi, come la lobby degli ingegneri specula e tira acqua al suo mulino per creare burocrazia ed a loro ulteriore lavoro.

Terremoto: norme permissive, poche risorse e niente mappatura. “In zone a rischio l’80% dei fabbricati crollerebbe”. Alessandro Martelli, ingegnere sismico, e presidente del Glis: "L'enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio, non è in grado di sostenere questi sismi. La normativa però non impone né l’adeguamento né il miglioramento sismico e i finanziamenti che il governo dovrebbe stanziare arrivano con il contagocce". In più non esiste una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) più vulnerabili, scrive di Melania Carnevali il 25 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “L’80% dei fabbricati nelle zone ad alto rischio non reggerebbe un terremoto come quello della scorsa notte (leggi). Crollerebbero tutti”. Incluso scuole, ospedali, caserme, prefetture, ossia i luoghi considerati strategici in caso di emergenza, come un terremoto. A dirlo è Alessandro Martelli, ingegnere sismico, presidente del Glis (istituito dall’associazione nazionale italiana di ingegneria sismica), docente a cui nei primi anni Duemila venne tolta la cattedra ad architettura all’università di Ferrara in Costruzioni in zona sismica: “Dissero che era inutile nella regione”, racconta ailfattoquotidiano.it. Poco dopo ci fu il terremoto in Emilia. L’80% è la percentuale di costruzioni storiche in Italia, realizzate prima del 1981, anno in cui – dopo il sisma che devastò Irpinia – venne introdotto l’obbligo del rispetto di specifiche norme antisismiche per le costruzioni. Da allora la normativa viene aggiornata sisma dopo sisma, strage dopo strage, alzando di volta in volta l’asticella di sicurezza. E – salvo lavori non eseguiti come da progetto – le nuove costruzioni risultano sicure. “Il problema grave di questo territorio – spiega a ilfattoquotidiano.it Martelli – è l’enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio e non è in grado di sostenere questi terremoti”. Secondo il sismologo Massimo Cocco, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), ben il 50% delle scuole è stato costruito prima del 1981. La normativa però non impone né l’adeguamento sismico, né il miglioramento sismico, se non nel caso di lavori che interessino le parti strutturali. E questo riguarda sia i privati sia il pubblico. I Comuni e le Regioni sono obbligati solo – da una legge introdotta nel 2002 dopo il terremoto in Molise, dove crollò una scuola, e operativa solo dal 2012 – a uno studio di vulnerabilità dei palazzi di loro proprietà. Ossia a verificare se sono sicuri o meno. Punto. Poi, di fatto, possono rimanere come sono: sicuri o no. Perché? I finanziamenti: nel Paese più insicuro d’Europa dal punto di vista sismico (insieme a Grecia e Turchia), si contano con il contagocce. “Il governo dovrebbe stanziare ogni anno una somma nella sua Finanziaria per arrivare alla sicurezza nel giro di un decennio – commenta Martelli, ingegnere sismico – E invece ogni anno dicono che non ci sono soldi, aggravando la situazione. Poi, quando ci sono terremoti di questo tipo, si spende tre volte tanto di quello che si saprebbe dovuto spendere. In Giappone, un sisma del genere, non avrebbe fatto notizia perché hanno investito molto nell’edilizia”. Ma il punto poi è anche un altro e, se possibile, peggiore: una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) a rischio non esiste. Quanti ospedali o quante scuole rischiano di crollare in Italia? Quante prefetture rischiano di non poter svolgere la loro funzione in caso di emergenza? Non si sa. Da anni il Consiglio nazionale dei Geologi si sgola per chiedere un “fascicolo del fabbricato”, ma la politica ha sempre risposto picche. “Noi lo definiamo ‘libretto pediatrico’ – spiega Domenico Angelone, consigliere nazionale dei geologi – perché conterrebbe tutte le informazioni del fabbricato: dalla nascita agli ultimi interventi, incluso la collocazione. Un fabbricato spesso può essere infatti considerato a norma dal punto di vista sismico, ma magari è situato su una frana. A noi mancano tutte queste informazioni. Ci sono costruzioni di cui non sappiamo proprio nulla”. L’unico dato certo, fornito dai geologi, è che in Italia circa 24 milioni di persone vivono in zone ad elevato rischio sismico: è la cosiddetta zona 1 (le zone sono 4), quella che prende parte dell’Appennino, dal sud dell’Umbria fino alla Calabria e una parte di Sicilia. Ma la prevenzione, secondo i geologi, è pari a zero. “Da anni diciamo che in Italia siamo ben lontani da una cultura di prevenzione – spiega il presidente del Consiglio nazionale dei Geologi, Francesco Peduto – Innanzitutto sarebbe necessaria una normativa più confacente alla situazione del territorio italiano: oltre al fascicolo del fabbricato chiediamo un piano del governo per mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici. Inoltre, affinché cresca la coscienza civica dei cittadini nell’ambito della prevenzione sismica, bisognerebbe cominciare a fare anche una seria opera di educazione scolastica che renda la popolazione più cosciente dei rischi che pervadono il territorio che abitano. Non dimentichiamo – continua il presidente dei geologi – che, secondo alcuni studi, una percentuale tra il 20 e il 50% dei decessi, in questi casi, è causata da comportamenti sbagliati dei cittadini durante l’evento sismico”. Prevedere un terremoto, secondo i geologi, è impossibile. “Sappiamo che l’Italia è un territorio a rischio – spiega Peduto – ma non è possibile sapere in anticipo dove verrà e di che intensità”. Quello che rimane quindi è la prevenzione. “Che, in Italia – chiosa il geologo -, è proprio ciò che manca”.

E dopo la lobby degli ingegneri ecco le pretese della confedilizia.

Terremoto, ingegneri: "La messa in sicurezza delle case italiane costa 93 miliardi. Il 50% non adeguate per un sisma", scrive "L'Huffington Post" di ANSA il 25/08/2016. "Per la messa in sicurezza del patrimonio abitativo degli italiani da eventi sismici medi" il costo complessivo è "pari a circa 93 miliardi di euro". E' uno dei dati forniti dal Consiglio nazionale degli ingegneri (su elaborazione del suo Centro studi), a seguito degli eventi tragici nell'Italia centrale. Il complesso delle abitazioni residenziali, recita il dossier, "si presenta particolarmente vetusto e, per questa ragione, potenzialmente bisognoso" di interventi: circa "15 milioni di case (più del 50% del totale) sono state costruite, infatti, prima del 1974, in completa assenza di una qualsivoglia normativa antisismica". E, inoltre, almeno "4 milioni di immobili sono stati edificati prima del 1920 e altri 2,7 milioni prima del 1945". Secondo i professionisti, la quota di immobili da recuperare, sulla base dell'esame dei danni registrati alle abitazioni de L'Aquila e delle condizioni del patrimonio abitativo raccolte dalle indagini censuarie, "è pari a circa il 40% delle abitazioni del Paese, indipendentemente dal livello di rischio sismico". Politiche di incentivazione, soprattutto fiscale, degli interventi per la tutela del patrimonio immobiliare e per la prevenzione dei danni da calamità. E' questa, secondo Confedilizia, la strada da seguire alla luce del terremoto nel centro Italia. Secondo l'associazione, "quel che certamente non serve - e che, anzi, porta danni - è ipotizzare obblighi generalizzati di intervento o di redazione di improbabili certificati ovvero riesumare proposte bocciate dalla storia: come quella di un obbligo assicurativo, contrastata anche dall'Antitrust, o quella del fascicolo del fabbricato, libretto cartaceo dichiarato illegittimo dai giudici di ogni ordine e grado e avversato anche dal Governo Renzi, che ha tempo fa impugnato una legge regionale in tal senso". Quanto al post-terremoto, il Governo in carica, con un provvedimento previsto dall'ultima legge di stabilità e attuato con una delibera pubblicata in Gazzetta Ufficiale proprio venti giorni fa, ricorda Confedilizia, "ha varato un sistema di gestione delle calamità naturali che permette a cittadini e imprenditori danneggiati di ottenere considerevoli aiuti per la riparazione o ricostruzione delle case e per il ripristino delle attività produttive. Confidiamo che le relative risorse siano incrementate, a beneficio delle popolazioni colpite dal sisma che ha colpito Lazio e Marche".

TERREMOTO E SPRECHI. I fondi per la ricostruzione spartiti in “consulenze d’oro”. Così dal ’97 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto. 790 professionisti. Ingegneri, geometri, architetti e geologi che hanno avuto consulenze nella ricostruzione, scrive Paolo Festuccia il 31/08/2016 su "La Stampa". La caccia agli appalti è cominciata. La sta facendo la Guardia di Finanza su delega della procura di Rieti. Obiettivo: accertare quali ditte, quali tecnici e con quali criteri sono stati concessi soldi pubblici per la ricostruzione post sisma del 1997. A cominciare dai lavori svolti nei Comuni di Accumoli ed Amatrice dove le opere rifatte e realizzate per il miglioramento sismico sono crollate nuovamente.  Ma Amatrice e Accumoli, in questa storia di crolli e ricostruzioni, rappresentano solo una piccola parte del fiume di denaro pubblico che con il sisma umbro-marchigiano sono piovuti sull’intera provincia di Rieti. Non solo, il reatino ha beneficiato anche di un’altra cospicua iniezione di denaro pubblico anche per lo sciame sismico del 2001. Risultato: tra il primo stralcio e il secondo i soldi pubblici spesi per riedificare gli immobili lesionati, chiese, scuola e abitazioni private sono stati 61 milioni e 625 mila euro. A questi si devono aggiungere altri 5 milioni (sempre di euro) e il totale arriva a 66 milioni di opere finanziate. Una vera manna per costruttori, professionisti, ingegneri e architetti. A vigilare sulla doppia ricostruzione, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, in tempi diversi e in base alle alternanze di governo alla Regione Lazio, si sono avvicendati tre sub commissari: il primo l’ex presidente della Provincia di Rieti Giosuè Calabrese (Ppi all’epoca), il secondo con l’avvento della giunta Storace, l’ex assessore regionale (reatino) di Alleanza nazionale al Turismo e alla Cultura Luigi Ciaramelletti. Infine nel 2005 l’allora presidente della provincia, oggi parlamentare del Pd, Fabio Melilli, quando già molto ormai era stato assegnato.  Calabrese ha affidato lavori e incarichi per oltre 30 milioni, Ciaramelletti per poco meno. Sotto il loro scettro si sono alternati oltre 790 professionisti della zona: geometri, ingegneri, architetti, geologi. Tanti anche per «dividersi» consulenze minori e appalti di lieve entità. Ma molti, come elencato nel piano di attuazione del programma stralcio, hanno lavorato su diversi fronti contemporaneamente, e quindi a piccole dosi «hanno portato a casa cifre interessanti», afferma una fonte ben informata. In molti casi nella lista ci sono pure ex sindaci, ex consiglieri comunali di vari Comuni, figli di: alcuni tra questi sono passati da un municipio all’altro. Del resto i Comuni beneficiati dalla manna pubblica (tra il primo e il secondo stralcio) sono stati 49 su 72 e molti professionisti sono stati chiamati come progettisti in un luogo e come collaudatori in un altro. Per ogni lavoro «sono stati impiegati tre professionisti… E va da sé che anche nelle opere minori questo ha in un certo senso - riprende la fonte - abbassato anche il valore di prestazione d’opera circa la qualità del rifacimento». Un’accusa pesante, dunque. Non solo, se si osservano i documenti balza subito agli occhi come i 33 milioni di euro stanziati siano stati frazionati in interventi, (soprattutto tra Amatrice e Accumoli dove si è verificato il sisma e i palazzi sono crollati nuovamente), con importi non oltre i 150 mila euro, cifra entro la quale appalti e incarichi, all’epoca, potevano essere affidati a trattativa privata. Chi conosce quegli atti, insomma, assicura che la pioggia finanziaria è scesa sui Comuni «mettendo d’accordo tutti: sia la destra che la sinistra, sia i liberi professionisti di destra che quelli di sinistra». Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. «Un fatto è chiaro - riprende la fonte - da tutta questa vicenda si evince che dare lavori a tre progettisti significa poi tagliare i costi sui lavori effettivi».  Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai.  

Terremoto: costruiscono, ricostruiscono, consulenti…stessa casta, scrive Riccardo Galli su “Blitz Quotidiano” il 31 agosto 2016.  Terremoto, quelli che costruiscono prima del terremoto (male molto male) sono quasi sempre gli stessi che nel dopo terremoto riparano e ricostruiscono (finora ancora male). E sono gli stessi, proprio gli stessi che intercettano i fondi per la ricostruzione e li trasformano in buona parte in consulenze. Un’altra casta, fatta di geometri e asri, consiglieri comunali e ingegneri, avvocati, commercialisti, imprenditori, notai, perfino parroci. “Non sono i terremoti ad uccidere, ma i palazzi che crollano”, diceva e continua a dire Giuseppe Zamberletti, papà della nostra Protezione Civile, trovando una forse inaspettata eco nelle parole dal Vescovo di Rieti durante i solenni funerali di ieri. Ma di terremoto, e soprattutto di ricostruzione, si vive anche. Al punto che intorno all’emergenza vive e prolifera una vera e propria piccola casta. Una casta fatta di ditte e professionisti che costruiscono (male) e ricostruiscono dopo i crolli, dando tra la prima e la seconda cosa consulenze sui lavori da fare. Sempre le stesse persone. “Capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera -. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul Sole 24 ore che ad Amatrice il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma’”. Se tutto sia legittimo e legale ora, almeno nel caso dei comuni e dei lavori effettuati sugli immobili venuti giù col terremoto del 24 agosto, lo stabiliranno le inchieste e, come hanno ricordato i Finanzieri incaricati delle indagini dalla procura di Rieti: “Ora andremo a vedere perché sono sempre le stesse ditte ad effettuare i lavori, certo è strano, forse qualche dipendente pubblico non ha fatto benissimo il suo lavoro”. Il dis tra legale e illegale è in questi casi però sottilissimo e, in verità, per raccontare questo mondo che di terremoto e soprattutto emergenza vive, nemmeno rilevante. Perché come racconta Paolo Festuccia su La Stampa il 31 agosto 2016 parlando della ricostruzione post sisma del ’97: “Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. (…) Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai”. Si tratta, specie nelle piccole realtà e in un Paese dove le occasioni per i progettisti non sono all’ordine del giorno, anche di guerre fra poveri. Non è, o almeno non sempre, una rete votata al malaffare ma uno spaccato di quell’Italia che vive e sopravvive grazie al denaro pubblico, che considera questo alla stregua di un diritto e ha una capacità di prevenire tendente allo zero. Una casta che non gode di quell’aura negativa che circonda, ad esempio e purtroppo molte volte a ragione, i politici. E’, al contrario, una casta di cui la gente si fida: si ricorre sempre alle stesse ditte e agli stessi professionisti certo perché i lavori non vengono affidati attraverso gare d’appalto, ma anche perché il geometra fratello del sindaco, cugino della ditta che ha ristrutturato casa rappresenta una sorta di garanzia. Come dicono a Napoli: “però sparti ricchezza e addiventa puvertà”, e se sui fondi messi in campo per ogni ricostruzione quasi la metà finisce in consulenza, è conseguenziale che i lavori dovranno essere fatti al risparmio. Tanto ci sarò sempre tempo per rifarli, forse meglio, al prossimo crollo.

TERREMOTO E MONOPOLIO. Terremoto, i «professionisti» della ricostruzione. Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano. Il meccanismo che ha portato tanti affari in poche mani ha rallentato il dopo sisma, scrive Sergio Rizzo il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". C’era la fila, davanti alla porta di Pasqualino Fazio. Perché fratello del sindaco, Mariano Fazio? Oppure in quanto fratello di Antonio Fazio, altissimo dirigente della Banca d’Italia? Macché. Semplicemente perché era l’ingegnere di Alvito, paese di tremila abitanti in Ciociaria. I paesani lo conoscevano e si fidavano di lui. Non che l’essere fratello del sindaco e del futuro governatore della banca centrale rappresentasse un handicap, intendiamoci: il cognome Fazio ad Alvito è sempre stato una garanzia. E Pasqualino era gettonatissimo. Suo il progetto delle case popolari, prima del terremoto. Suoi anche i progetti per gli edifici pubblici, dopo il terremoto: il municipio del fratello e il convento di San Nicola. E le abitazioni private di quelli in fila davanti alla sua porta, lesionate dal terremoto. Perché nella dorsale appenninica perennemente martoriata da sisma ci fu una scossa anche ad Alvito, nel 1984. Che si portò via un bel po’ di calcinacci restituendoli poi con gli interessi: 10 miliardi di lire per la ricostruzione. Per come hanno sempre funzionato le cose in questo Paese è normale che andasse così. E così è sempre andata anche dopo. È il sistema. Il privato che ha la casa danneggiata con i contributi statali fa quel che vuole. Dà l’incarico a chi preferisce: non ha l’obbligo di fare una gara. C’è chi la considera un’anomalia. Ma di fronte alle obiezioni i governi di turno hanno sempre deciso che quei soldi pubblici vadano considerati come quattrini privati a tutti gli effetti. Fra chi intercettato definisce il disastro «una botta di culo» (L’Aquila), chi ride nel letto di notte mentre una intera città si sbriciola (ancora l’Aquila) e chi spera «in una botta forte» perché «in un minuto ne fa di danni e crea lavoro» (Mantova), capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul «Sole 24 ore» che ad Amatrice «il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma». Intrecci all’ordine del giorno, nell’Italia dei campanili. Quando c’è di mezzo un terremoto, però, le cose si vedono sotto una luce leggermente diversa. All’Aquila le pratiche per la ricostruzione private erano finite in pochi studi professionali. Il più noto, quello dell’ex autorevole presidente del locale ordine degli architetti, Gianlorenzo Conti, peraltro prematuramente scomparso poco tempo fa. Perché questa concentrazione di incarichi, che allora preoccupò non poco il responsabile della struttura di missione Gaetano Fontana? Forse l’idea che affidare l’incarico a uno studio locale conosciuto e ben introdotto con l’amministrazione potesse costituire una sorta di corsia preferenziale per i finanziamenti. Poco importa se l’ingegnere o il geometra è magari il responsabile del disastro. Di sicuro, questo meccanismo che ha portato tanti affari in pochissime mani ha finito per rallentare la ricostruzione. Aumentando i costi: quando all’Aquila si è passati dalle pratiche singole agli aggregati il fabbisogno finanziario si è ridotto di oltre il 20 per cento. Senza dire che in un Paese così carente di occasioni per i progettisti anche le catastrofi possono scatenare guerre fra poveri. Il 4 settembre 2012, tre mesi dopo il terremoto emiliano, l’ex presidente dell’ordine nazionale degli architetti Leopoldo Freyrie fece approvare un codice etico per i professionisti volontari iscritti al suo albo, che prevede dure sanzioni per chi sfrutti economicamente questa sua posizione. Era successo che all’Aquila qualche architetto che aveva verificato «volontariamente» le lesioni di un edificio, fosse tornato alla carica con il proprietario proponendosi per pro-gettare la ristrutturazione. Il terremoto abruzzese è stato un formidabile banco di prova per i professionisti delle catastrofi: progettisti e imprese. Si andò avanti fin da subito con le procedure straordinarie della Protezione civile, e le scelte erano puramente discrezionali. Venne poi deciso di far lavorare prevalentemente le ditte locali, il che ha ristretto ancor più l’area dei partecipanti. La cosa non mancò di avere pesanti ripercussioni. Ci fu uno scontro interno all’Ance fra la struttura centrale e l’associazione territoriale delle imprese abruzzesi, che avrebbe voluto norme per limitare la partecipazione di concorrenti provenienti da altre Regioni. Per non parlare delle infiltrazioni della ‘ndrangheta, registrate anche per i lavori del dopo terremoto nell’Emilia-Romagna. Ma questa è decisamente un’altra storia, rispetto al groviglio di fortissimi interessi locali. Certe imprese che hanno lavorato in Abruzzo sono le stesse già comparse nella ricostruzione del terremoto dell’Umbria e delle Marche. Con significative diramazioni nella provincia di Rieti, perché fin lì è arrivato il cratere del sisma abruzzese: quindi i relativi fondi. E se lo schema resterà questo anche dopo Amatrice, il gioco è destinato a continuare. Nell’ambiente dei costruttori qualcuno ha già cominciato a far girare l’idea che si debbano precostituire liste di imprese pronte a lavorare nel reatino. Dove le ditte iscritte all’associazione dei costruttori non sono che una ventina. Idea, per fortuna, prontamente messa da parte. Almeno per il momento. C’è solo da augurarsi che tutto ciò serva ora d’insegnamento…

TERREMOTO E FONDI PER LA RICOSTRUZIONE. L'affare terremoto: morti, politica e banche, scrive Andrea Spartaco Martedì 06/01/2015 su "Basilicata 24". Storia di disastri finanziari e strani intrecci che portano alla Basilicata. Nel giugno 2006, appena un anno dopo il mandato elettorale, la giunta regionale lucana presieduta da Vito De Filippo (Pd) firmò due contratti di interest rate swap (Irs, ndr) con Dexia Crediop spa e Ubs Warburg. Bisognava finanziare opere e interventi nelle zone colpite dal terremoto del '98. Una cosa decisa velocemente. Del resto con Crediop il contratto di mutuo ventennale era già stato firmato sei anni prima da un'altra giunta Pd, quella del predecessore Filippo Bubbico. Si tratta d'un volume complessivo di circa mezzo miliardo di euro di contratti di emissione, acquisto, vendita e trasferimento di strumenti finanziari siglati al di fuori della Direttiva europea in materia di Appalti Pubblici di Servizi, sebbene a copertura di soldi pubblici. In Basilicata però, la storia del rapporto tra terremoti, fondi pubblici, Regione e banche, comincia prima. Ed è molto interessante.

Banche e morti. Nel periodo successivo al sisma dell'80 una rilevante massa di soldi (10mila miliardi di lire, ndr), disse la Commissione che s'occupò del terremoto, transitò attraverso istituti di credito di Campania e Basilicata. Soldi di terzi in amministrazione presso le banche locali in cui si contabilizzavano i fondi pubblici erogati per la ricostruzione, che partiti da 160 miliardi (mld, ndr) di lire nell'83, nell'87 erano lievitati a 800. “I ritardi in alcuni Comuni dell'opera di ricostruzione – scrisse – hanno procurato un ulteriore vantaggio agli istituti di credito delle zone, rappresentato dalle giacenze presso gli stessi di notevoli somme accreditate ex legge 219/81 e non ancora utilizzate”. Cosa restava di quei novanta secondi che colpirono tra Campania e Basilicata provocando 2.914 morti? Che alcune banche, ribadì la Commissione, avevano tratto da tale “tristissimo evento un rilevante tornaconto, realizzando in pochi anni incrementi di portata assolutamente eccezionale”. Le amministrazioni pubbliche avevano lasciato che ciò accadesse mentre la gente aspettava in containers (e aspetta ancora) che la propria abitazione venisse riparata o ricostruita. Tra '80 e '84 su un totale di 3.400mld spesi, 921mld erano i soldi trasferiti ai comuni. La Commissione puntualizzò il ruolo distorto avuto spesso da sindaci e banche locali nella gestione, e l'assenza di controllo pubblico. Nel luglio '90 il presidente Antonio Boccia (Pd) dichiarò che per la 219/81 la Regione non aveva avuto, e non aveva, “nessuna competenza in materia di insediamenti industriali”. Ma quanti soldi s'erano tenuti le banche per quel loro “rilevante tornaconto”? A settembre '90 ammontavano a 907mld.

Cosche, politica e appalti. Per la Guardia di Finanza il terremoto del '80 “costituì l’occasione per risolvere i problemi sia di reinvestimento sia di riciclaggio, ma anche della ricerca di nuovi spazi territoriali ed economici d’azione e dell’appoggio o della contiguità con pezzi delle istituzioni e in particolar modo con la politica”. A soli tre anni dal terremoto a Potenza i sindacati lanciavano un allarme, sollecitando l'applicazione della legge antimafia per le irregolarità nei pubblici appalti. L'allora vicepresidente del Consiglio Regionale Mario Lettieri affermò che c'erano processi assai preoccupanti “legati agli appalti pubblici e alla ricostruzione”. C'era una criminalità economica che scaturiva da “un intreccio tra affari e politica per cui gli appalti di opere pubbliche, gli incarichi di progettazione e le agevolazioni per gli investimenti industriali, stimolavano gli appetiti di cosche e gruppi locali e no protetti dai partiti di governo”. Nell '84 a Balvano, definita vicenda esemplare dalla Commissione terremoto per l'evidente disprezzo dei piani naturali nei lavori di infrastrutturazione, e i problemi di carattere idrogeologico provocati, per l'area industriale era stato fatto un progetto di partenza costato circa 33mld di lire, cifra nella quale “stranamente” non erano compresi 5,8mld per i costi dell'impianto di depurazione per le acque nere e per quelle industriali, né i costi per l'impianto di potabilizzazione, sollevamento e diramazione dell'acqua verso l'area industriale (passati da 3 a 6mld per difficoltà tecniche, ndr), né circa 8mld del movimento terra quota parte finita in discarica a costi esorbitanti e fuori da ogni regola di mercato si disse. Si parlò di 60mld spesi per una zona priva dei requisiti minimali per ospitare siti industriali, e di modifiche risultanti solo da spinte di progettisti, imprese e controllori “a scopo evidente di lucro”.

Soldi e coma profondo. Certo nel settembre del '98, pochi giorni dopo il nuovo terremoto, il Procuratore di Potenza Gelsomino Cornetta raccontò in una Commissione parlamentare “il problema” delle immense aree industriali create dopo il terremoto del '80. “Abbiamo indagato – dichiarò – e alle nostre modestissime forze è stato riconosciuto di aver fatto tutto ciò che era possibile, tant'è che il ministero competente ha recuperato parecchie centinaia di miliardi”. Si trattava d'un patrimonio aziendale costituito in gran parte da imprese che erano "scatole vuote", e che avrebbe creato “un problema di abbattimento e di eliminazione di rifiuti di natura industriale”. Quello stesso '98 una determina dirigenziale del Dipartimento programmazione economica regionale assegnava ancora al Comune di Balvano mille milioni di lire per infrastrutturazione della zona P.I.P (legge 64/86, ndr). Nonostante lo sforzo economico nel 2012 in un Consiglio regionale si presentò, per l'area di Balvano, una interrogazione all'allora assessore alle attività produttive Marcello Pittella. Lì, soldi del terremoto o meno, i disoccupati aumentavano, le opere infrastrutturali non erano finite, e la situazione della zona industriale era di “coma profondo”.

Meno male che c'è il sisma. "Per fortuna" dopo il sisma dell'80 arrivò quello del '98. Così non dovemmo solo ridare soldi al ministero, perché lo Stato ne portò altri. A occuparsi del mutuo firmato nel 2000 dalla Regione per gestire i 42mld di lire statali annui per ricostruire, fu appunto Crediop, capofila di un pool composto da Banco di Napoli, Banca Mediterranea, Banca Opere pubbliche e delle infrastrutture (Opi, ndr), Monte dei Paschi, e Banca di Roma (BdR, ndr). La partner lucana del pool, Banca Mediterranea, che proprio nel 2000 si fuse con BdR, era nata nel '92 da una precedente fusione tra Banca di Pescopagano e Brindisi (Bpb, ndr) e Banca di Lucania (Bdl, ndr) con uno spropositato aumento di capitale, da 4,5mld a ben 130. Eppure nel '91 l'Organo di vigilanza (OdV, ndr) aveva definito critica la situazione patrimoniale della Bpb accertando che “il controllo della Banca di fatto dal Presidente del Consiglio di amministrazione”, poi presidente di Mediterranea (con sede pure a Pescopagano, ndr), aveva favorito l'ingresso di gruppi a lui vicini come i Casillo, il cui fondatore Gennaro, ricorda Rocco Sciarrone in “Mafie vecchie mafie nuove”, era legato tramite il nipote Vincenzo ai boss Raffaele Cutolo e Carmine Alfieri. Vincenzo che, con Alvaro Giardili, scrive Nicola Tranfaglia in “Cirillo, Ligato e Lima”, fu il tramite per gli affari post-terremoto '80 del pidduista Francesco Pazienza. Giardili e Pazienza che s'incontravano con Antonio Gava (Dc, ndr), e Alphonse Bove, boss italo-americano legato al Sismi e “procacciatore d'affari per la ricostruzione”.

Il sistema terremoto. Del resto il presidente di Bpb fu definito nell'88 dalla stampa nazionale "uomo-chiave" d'un certo sistema di potere politico-finanziario che vedeva coinvolti il ministro Emilio Colombo e il sottosegretario Angelo Sanza. Lucani entrambi. All'epoca un uomo di fiducia del presidente disse a un notaio azionista di minoranza della Bpb "zitto sulla banca se non vuoi guai". Il motivo stava nella sua curiosità di volerci veder chiaro sui rapporti tra il presidente di Bpb e una delle imprese del terremoto. C'erano poi guarda caso quei rapporti tra direttore generale di Bpb e un'impresa di consulenza finanziaria che sempre guarda caso teneva i libri contabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti. Tre anni prima la Guardia di Finanza aveva spedito una bella documentazione a una procura lucana. Veniva fuori che i responsabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti, assieme ai responsabili di altre quattro imprese del medesimo "giro" erano stati denunciati dal Nucleo di Polizia Tributaria per emissione di fatture false e associazione per delinquere. Nell '86 il titolare di una impresa aveva denunciato d'esser stato costretto a "sfornare centinaia di fatture false" nei confronti di tali società perché aveva bisogno di lavorare. Dell'impresa con cui il presidente Bpb avrebbe avuto relazioni la Gdf aveva sottolineato che nel prendere gli appalti violava la legge antimafia. Certo in quel 1986 Banca d'Italia lo mandò un ispettore, ma l'anno dopo ricevette un incarico "ben retribuito" dalla banca ispezionata. Emblematico per capire l'andazzo di quegli anni è la condanna, in veste di direttore d'una banchettina che di quel fiume di soldi del terremoto aveva beneficiato, del presidente di Confindustria di Potenza a 3 mesi di reclusione per appropriazione indebita. Aveva lasciato un buco di 50mld di lire.

A che servono le banche? Il presidente della Bpb intanto, fedelissimo Dc, secondo l'OdV avrebbe pure favorito altri gruppi “coinvolti in oscure vicende post-terremoto” 1980 come Pafi, Baricentro e quell'Icla spa che ebbe in concessione 616mld di lire. Il parlamentare Enrico Iandelli in un'interrogazione parlò d'operazioni societarie e finanziarie come l'aumento di capitale della Bdl “sottoscritto in gran parte da compiacenti persone assai vicine” al presidente, la fusione con Bdl e il successivo aumento di capitale della Mediterranea “senza che la Banca d'Italia intervenisse come suo dovere, e supportata talora da anomale decisioni giudiziarie”. Comunque nel '94 pure Banca d'Italia non potè astenersi dal valutare in 508mld le perdite previste su crediti alla clientela. Tra le perdite c'erano pure 73,7mld per l’ammortamento della posizione del Gruppo Casillo. Banca d'Italia accertò “diffuse irregolarità” e pure che “possessori di significative quote del capitale della banca erano beneficiari di rilevanti finanziamenti erogati dall'azienda”. I rinvii ai problemi economici del Mezzogiorno usati come scusa dal presidente di Mediterranea (prima di Bpb, ndr), ricorda la memoria difensiva presentata contro BdR/Capitalia spa nel 2005 dagli azionisti di minoranza della Mediterranea dopo il suo crack, non avrebbero dovuto essere condivisi dall’azionista di controllo BdR (anch'essa dentro il pool Crediop quando la Regione firmò nel 2000 il mutuo per il terremoto del '98, ndr), ma Generoso Puzio, rappresentante BdR, era pure titolare del 50,03% delle azioni di Mediterranea. 

Pareggiare i conti a Roma lasciando buchi altrove. In quello stesso 2000 BdR aveva rappresentato ai sindacati che stavano determinando il valore di stima delle attività di compendio di Mediterranea, non ancora incorporata, da conferire nella Mediterranea Servizi 2000 spa, società costituita immediatamente dopo la stipula nel 2000 dell’atto di fusione tra il presidente di Capitalia Cesare Geronzi e Leonardo Di Brina della controllata-incorporata Mediterranea, presto rinominata Nuova Banca Mediterranea. Per il pool di avvocati che rappresentò gli azionisti di minoranza della Mediterranea, BdR già nell'esercizio finanziario del '98 “preconizzava nel suo bilancio quello che un anno dopo sarebbe stato il valore di concambio fissato per la fusione”. Dall’attuazione di quel progetto di vendita di Mediterranea, scrivono, “Banca di Roma ha conseguito un corrispettivo di 284mln di euro, una plusvalenza di circa 202mln, utile a sanare, portandolo in attivo, il bilancio 2001”. La costruzione della nuova holding BdR/Capitalia avvenne proprio dopo la vendita di Nuova Banca Mediterranea per 284mln alla Popolare di Bari, altra consorella del circuito delle banche cooperative a responsabilità limitata che avevano fatto affari col precedente terremoto del 1980 (tipo la Banca Popolare dell'Irpinia, ndr), come se Mediterranea Servizi 2000 sin dall'inizio fosse stata destinata a una operazione da cui attendere un “lucroso corrispettivo e una cospicua plusvalenza”. Certo senza vendita, specificarono gli avvocati, il bilancio della BdR si sarebbe chiuso con una perdita di 120mln di euro. 

Public finance? Crediop, capofila del mutuo firmato nel 2000, diventò società per azioni nel '90, iniziando un tour di quote societarie per banche che si concluse con l'acquisizione da parte della franco-belga Dexia Crédit Local de France, del Crédit Communal de Belgique, e dalla Banque Internationale à Luxembourg, e la partecipazione del circuito delle popolari con Banca popolare di Milano, Banco popolare, e via Em.Ro Popolare Società Finanziaria di Partecipazioni spa, della Banca popolare dell'Emilia-Romagna. Ancora nel 2009, stando alla Guida agli operatori al project financing, Dexia risultava il secondo operatore in Italia per volume complessivo di finanziamenti concessi, e primo a finanziare opere pubbliche. Quando finisce indagata nel 2010 dalla Procura di Bari per bond ventennali da 870mln di euro sottoscritti dalla Regione Puglia per ristrutturare il debito della sanità, Dexia in Basilicata ha in mano la rinegoziazione di sette mutui contratti dall'85 all'89 per circa 23,5mln di euro con scadenza nel 2019, e via Crediop (anche se non esiste più) e sempre con scadenza 2019, un altro mutuo da 10.329.137 di euro in cui capofila è la Banca popolare di Bari. E ancora, 18mln sempre via Crediop con capofila Banca infrastrutture innovazione e sviluppo (Biis, ndr) con scadenza 2020 per “finanziamento spese di investimento esercizio finanziario 2000”. E ancora circa 31mln di euro per investimenti nel settore trasporti con scadenza 2018. E ovviamente è capofila come istituto mutuante per quei fondi del terremoto del '98 con scadenza 2019, per 358.479.577 euro in cui compare anche la Banca Opi che nel novembre 2007 firmava a Milano proprio con Biis un piano per creare un polo unico nell'ambito della public finance, deliberando dal 1 gennaio 2008 la scissione per incorporazione del ramo aziendale di Opi a favore della Biis.

L'indebitamento perverso. Intrecci bancari o meno a fine giugno 2011 il gruppo Dexia era a rischio di smantellamento e i governi francese e belga, co-azionisti, si impegnarono a “fornire la loro garanzia ai finanziamenti”. Pochi mesi dopo la Commissione europea diede via libera con riserva alla nazionalizzazione di Dexia Bank Belgium, precisando che l'operazione costata quattro miliardi di euro era stata necessaria per la stabilità del sistema finanziario, ma che al momento non era in grado di valutare se fosse stata in linea con le norme Ue sugli aiuti pubblici. Due anni dopo Dexia, che aveva già beneficiato tra 2008-2009 di “sostanziali sostegni”, finisce assieme a Ubs in un'altra storia di contratti tossici di cui Angelo Canale, Procuratore regionale della Corte dei conti Toscana, aveva delineato gli effetti perversi sull'indebitamento del Comune di Firenze. Si scoprirono costi non documentati né dalle banche né dagli advisor, spesso le banche medesime, di cui il Comune s'era avvalso per le consulenze. Già nel 2008 il giornalista Nicola Piccenna aveva provato a spiegare in modo informale a diverse Procure che una banca come Dexia non poteva reggere, e fatto presente che di 12mld di euro di crediti solo 300mln erano garantiti, c'erano invece 12mld di debiti.

Storie di consuetudine. Guarda caso anche in Basilicata Dexia e Ubs, per la Corte dei conti, sul mutuo per i fondi del terremoto '98 avevano “svolto sia attività di consulenti finanziari dell’ente sia quella, successiva, di firmatari del contratto in derivati”. I contratti con Dexia e Ubs erano stati inoltre stipulati in inglese, “criticità di non poco rilievo” per la Corte dei conti lucana, e oltre a “diminuire la trasparenza del regolamento negoziale” la pubblica amministrazione si trova oggi ad applicare regole diverse da quelle dell’ordinamento interno. In una nota del novembre 2008 la Regione dichiarò d'essere in possesso delle traduzioni dei documenti, d'aver preso visione del contenuto degli stessi prima della loro sottoscrizione e aver richiesto un “parere” all'Ufficio legale dell'Ente sia riguardo alla tutela che la sottoscrizione di tale schema poteva garantire, sia alla interpretazione di alcuni istituti contenuti nell'accordo (legge e giurisdizione competente, ndr). Non si specificava l’esito della richiesta. Nel “Prospetto delle clausole specifiche” accettate dalla Regione Basilicata, continua la Corte, c'è scritto che “sarà regolato e interpretato in conformità alle leggi in vigore in Inghilterra” e che i contraenti sono obbligati “a sottomettersi alla giurisdizione dei tribunali del Regno Unito”, rinunciando “a qualsiasi eccezione di incompetenza per territorio in qualsiasi data, e per qualsiasi Procedimento aperto presso uno di tali tribunali”.

Beata vigilanza. Abbiamo dunque ricostruito il tessuto socio-economico talmente bene in Basilicata dopo due terremoti che la Regione non solo può permettersi di firmare a nome di tutti i cittadini debiti rinunciando alla giurisdizione italiana, ma disinteressarsi del precedente contratto, il debito residuo di 211,820mln di euro verso il pool di banche attaccate a Crediop (ancora in essere, ndr), e collocarsi in una “singolare” posizione contrattuale con gli Istituti firmatari dell’operazione in derivati. “Uno degli stessi, Dexia Crediop – scrive la Corte – è lo stesso istituto firmatario, sia pure in qualità di capogruppo e mandatario di una Associazione Temporanea di Imprese (in cui figuravano Banca Mediterranea e BdR appena fuse, ndr), dell’originario contratto di mutuo, e quindi viene a trovarsi sia pure in parte, nella posizione di creditore e debitore”. Si fa notare che nella relazione sull'esercizio finanziario 2013, la Regione non ha fornito “evidenza contabile” dell'ammontare ipotetico che deve incassare (se positivo) o pagare (se negativo) per uscire dal mutuo, specificando che verrebbe contabilizzato nel bilancio dell'Ente “solo” se fosse deliberata la chiusura del contratto. Valore che, sottolinea la Corte, tra 2007 e 2013 è costantemente negativo. La Regione ha dunque già sborsato parecchi milioni di euro. La Corte ricorda la natura “fortemente aleatoria” di tali contratti per le finanze di un’amministrazione pubblica, e insiste sul fatto che la Regione non ha indicato le “unità previsionali di base” e i “capitoli di spesa” sui quali ricade la gestione del mutuo. Fatti “pregiudizievoli degli equilibri dell’esercizio in corso e di quelli futuri”. Ma nel 2006 quando si firmavano swat per il terremoto del '98, una legge assegnava ancora un contributo quindicennale di 3,5mln di euro a decorrere dal 2007 per la prosecuzione nei territori colpiti dal terremoto '80-'81, e due anni dopo in un rapporto della Sezione di controllo della Corte dei conti sulla gestione dei fondi per il terremoto del '80, in relazione a quel rifinanziamento s'affermò che per “le opere in corso e da completare” il Dipartimento di protezione civile aveva inviato una nota nella quale aveva fatto presente che le Regioni interessate curavano “in toto” gli adempimenti relativi all’utilizzazione dei fondi, ma che al Dipartimento non era stato assegnato alcun potere di indirizzo, vigilanza, e controllo. Un fatto “grave” aver trascurato “semplici compiti di vigilanza”.

Quello che "sapevano tutti". Nel settembre 2007 il pm Annunziata Cazzetta, su procedimento penale aperto nel 2003 nei confronti della Banca popolare del Materano (Bpm, ndr), inviava al giudice Angelo Onorati la richiesta di rinvio a giudizio di 35 persone, tra cui funzionari della stessa e imprenditori locali, accusati di una serie di reati bancari. Una storia che si chiude anni dopo con l'assoluzione degli indagati e la fusione di Bpm con la Banca popolare del mezzogiorno. Tra gli indagati c'è Guido Leoni, all'epoca amministratore delegato della Bper, vicepresidente dell'Istituti banche popolari italiane, e consigliere di amministrazione di Em.Ro popolare, Banca popolare di Crotone, e infine Dexia Crediop. A Milano invece, sempre in quel 2007, viene aperto un fascicolo nei confronti dalla Banca Italease. Nelle intercettazioni autorizzate nel procedimento penale sull'aggregazione Banca popolare di Milano-Bper, il gip Cesare Tacconi sottolinea una telefonata tra Leoni (quello a cui nel 2004 Giovanni Conforti della scalata occulta Unipol diceva al telefono che “gli immobiliaristi sono inaffidabili e ricattano”, ndr), e Sergio Iotti (vicedirettore, ndr). “Pare ci siano buchi paurosi” dice Leoni a Iotti, “c'è un buco pauroso... lo sapevano tutti che vendevano questi derivati”. L'anno dopo Claudio Calza, consigliere del cda del Banco popolare del Materano, della Bper, e ovviamente pure della Dexia, è arrestato, nell'ambito dell'indagine sui derivati di Banca Italease, per associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita. Questa storia finanziaria finisce che nonostante chi vendeva questi derivati sapeva i “buchi paurosi” che creavano (e chi li firmava? sapeva?), in Basilicata fino al dicembre 2019, per i derivati dell'ultimo terremoto la Regione deve sborsare a Dexia 11.250.000euro l'anno. Quali benefici ne abbiano tratto i terremotati lo sanno solo loro. 

TERREMOTO E RESIDENZE. Terremoto Amatrice, boom di richieste residenza. Fondi ricostruzione fanno gola, scrive il 4 settembre 2016 Spartaco Ferretti su “Blitz Quotidiano”. Ci sono gli sciacalli che cercano di intrufolarsi nelle case inagibili dopo il terremoto per rubare quello che è rimasto intatto. Poi ci sono gli sciacalli che cercano di mettere le mani anche sui giocattoli mandati per beneficenza ai bambini. E ancora ci sono gli imbucati, sciacalli di serie B, che cercano di scroccare pasti alle mense riservate a chi nel terremoto ha perso cari e casa. E infine ci sono i furbetti del terremoto. Quelli che cercano, se non di guadagnarci, almeno di non rimetterci. Funziona così: se ti crolla la casa ed è la tua prima e unica casa, quella fino a dove ieri vivevi, Stato come è normale ti aiuta per primo. Se poi avanza qualcosa si dà qualche incentivo anche a chi la casa la aveva ma non era la prima, era un di più, una seconda casa per le vacanze. Non sono e non possono essere loro, per forza di cose, i primi a essere aiutati. E così, racconta Il Messaggero, ad Accumoli, Amatrice e negli altri luoghi squassati dal terremoto, dopo il 24 agosto è successo qualcosa di strano: tante, troppe, persone, hanno chiesto la residenza in uno dei comuni distrutti. Facile capire che qualcosa non torni. Prima, quando casa ce l’avevi agibile, ad Amatrice non vivevi. Ora che la casa è inagibile o crollata, dichiari e chiedi di viverci. Il perché è presto spiegato da Valentina Errante per Il Messaggero: il procuratore Giuseppe Saieva, numero uno della procura di Rieti, ha aperto un altro fascicolo che questa volta non riguarda gli sciacalli responsabili di furti nelle case distrutte, quanto piuttosto quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. Ossia chi, dopo il sisma, ha chiesto il trasferimento di residenza, da Roma ai centri colpiti. All’attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l’ufficio Anagrafe. L’ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.

Terremoto: non solo sciacalli, si indaga su furbetti di residenza, scrive il 5 settembre 2016 Alberto Battaglia su "Wallstreetitalia.com". La Procura di Rieti ha aperto un fascicolo sulle richieste di residenza sospette che sono giunte al Comune di Amatrice nei giorni successivi al terremoto che ha devastato la città. Un volume di domande poco chiaro che potrebbe nascondere il tentativo di accaparrarsi una fetta dei contributi pubblici che saranno affidati ai residenti del paese per la ricostruzione degli immobili. Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, non teme che i “furbetti della residenza”, così battezzati dai media, possano farla franca: “Gli uffici dell’anagrafe hanno avuto disposizione di informare i carabinieri e i vigili ogni volta che arrivano richieste di questo tipo”, ha detto. Alcuni “furbi” sono già stati individuati in un altro dei centri terremotati, Accumoli. Non è detto che dietro a ciascuna richiesta di residenza si celi un proposito fraudolento: la polizia giudiziaria avrà, appunto, il compito di discernere le domande di coloro che semplicemente si erano attardati a regolarizzare presso l’Anagrafe una residenza in atto già da tempo, da quanti si trovino in posizioni più dubbie. E’ il caso di coloro che reclamano una residenza presso immobili o strade ormai completamente distrutte dal sisma.

Furbetti ad Amatrice: è corsa alla residenza per avere i fondi statali, scrive il 4 settembre 2016 Adriano Scianca su "Intelligonews.it". Perché uno dovrebbe, proprio adesso che il paese, di fatto, non esiste più, affrettarsi per prendere la residenza ad Amatrice o ad Accumoli? Semplice: per godere dei fondi stanziati dallo Stato per il terremoto. È su questo terribile sospetto che sta indagando la procura di Rieti. Il procuratore Giuseppe Saieva ha aperto un altro fascicolo che sugli “amatriciani dell'ultim'ora”, quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. La procura ha chiesto ieri il sequestro di tutti i registri anagrafici dei comuni interessati dal terremoto, materiale che si aggiunge alla documentazione acquisita dai Carabinieri negli uffici della Provincia di Rieti e in quelli regionali del Genio civile sugli immobili che avevano subito migliorie antisismiche e sono crollati dopo le scosse. All'attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l'ufficio Anagrafe. L'ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.

TERREMOTO: ANTE E POST DI ILLEGALITA'. Terremoto, il videoracconto di Gatti: il rischio ad Amatrice era scritto, ma è stato ignorato. Il documento del Comune, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal sisma del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati, scrive Fabrizio Gatti il 26 agosto 2016 su “L’Espresso”. Il piano di protezione civile del Comune di Amatrice già prevedeva la distruzione del paese e i potenziali rischi per la popolazione: «Soprattutto nei piccoli borghi e anche nel capoluogo, caratterizzati da vie strette senza slarghi». È tutto scritto a pagina 18 del documento che per legge ogni amministrazione municipale deve predisporre. Si sapeva cioè dei pericoli. E come si è visto con il terremoto del 24 agosto, non si è fatto nulla per evitarli. «Si deve rilevare altresì che l'edilizia abitativa e non del territorio comunale è per lo più risalente all'Ottocento e ristrutturata con vari interventi risalenti al Novecento», è scritto nel piano di Amatrice tra non pochi errori di sintassi che abbiamo corretto: «Gli interventi in cemento armato e la sua diffusione sono sicuramente riconducibili agli interventi realizzati dopo il 1960, pertanto il rischio sismico è alto e lo testimoniano i danni riportati dall'edilizia pubblica e privata causati dal sisma del 1979 e da ultimo del 2009 che interessò la città dell'Aquila. Senza dubbio la tipologia costruttiva (muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con potenziali rischi per la popolazione». Il Comune di Amatrice ha il suo piano di protezione civile. Il documento, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal terremoto del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati. Nemmeno le strade sono sufficienti in caso di calamità: «Nelle frazioni spesso la viabilità di accesso e di esodo è garantita da una unica strada. Va pertanto opportunamente monitorata la viabilità in caso di eventi calamitosi». Il piano indica tra l'altro la zona dell'hotel Roma tra quelle a maggiore instabilità idrogeologica: «Le caratteristiche dei terreni alluvionali sabbiosi limosi depositatesi su formazioni più consolidate li rendono infatti generalmente instabili. Si segnala tuttavia la necessità, da parte dell'amministrazione comunale, di porre particolare attenzione nell'approvazione di progetti pubblici e privati, subordinando gli stessi agli esiti di una relazione geotecnica e geologica che garantisca la funzionalità del complesso opere-terreni per il mantenimento della sua stabilità». I geologi sanno bene che nei terreni alluvionali le onde sismiche amplificano i loro effetti sulle costruzioni sovrastanti. Il sito del Comune distrutto dal terremoto del 24 agosto pubblica il piano di protezione civile del Comune di Amatrice. Con i rischi, le misure di emergenza, gli indirizzi, le vie, i punti di raccolta per gli abitanti di Amatrice. Quindi per i residenti di Accumoli è un piano completamente inutile. Un caso di copia-incolla? Arquata del Tronto ha invece un piano di protezione civile, ma introvabile sui canali istituzionali sia del Comune sia del dipartimento nazionale della Protezione civile. Come edificio strategico per il paese il piano di Amatrice indica il municipio di corso Umberto 70, che però non ha retto alle scosse evidentemente per scarsa resistenza antisismica. Come luogo dove riparare eventuali sfollati, al primo posto è invece indicato proprio l'hotel Roma, nella zona segnalata poche pagine prima tra le aree più instabili: lo stesso piano di protezione civile, insomma, non tiene conto di quanto prescrive. Anche il Comune di Accumoli, dove la caduta del campanile ha ucciso un'intera famiglia, ha il suo piano di protezione civile. E lo pubblica sul suo sito Internet istituzionale. Però il documento è copiato integralmente da quello di Amatrice, comprese l'intestazione, le vie, le piazze, i nomi dei referenti, le caratteristiche del territorio. Un errore oppure un maldestro copia-incolla. Nel piano obbligatorio per legge, Accumoli è citata soltanto due volte come paese confinante di Amatrice. Quindi è uno strumento accessibile ai cittadini, ma completamente inutilizzabile. Il piano di protezione civile di Arquata del Tronto resta invece un mistero. Il sito del dipartimento nazionale della Protezione civile include il Comune tra quelli che hanno rispettato la legge. Ma non c'è modo di raggiungere il piano. E cercando sulla pagina del Comune non si trova. Non deve stupire, purtroppo. Gran parte dei sindaci italiani sono nella stessa situazione. E in Calabria, regione esposta a terremoti molto più potenti del sisma del 24 agosto, un terzo delle amministrazioni comunali è del tutto privo di un piano di protezione civile. E generalmente i paesi e le città che lo hanno adottato non lo rendono pubblico e facilmente accessibile ai cittadini. Nel frattempo, nell'importante periodo di pace tra un terremoto e l'altro, proprio nelle province più lacunose raramente le agenzie di protezione civile regionali e il dipartimento nazionale hanno esercitato i loro poteri-doveri di controllo per spingere i sindaci a rispettare la legge. 

Terremoto, lo scandalo-fondi: i soldi c'erano ma non furono spesi. Ad Amatrice ed Accumuli i 4 milioni di euro messi a disposizione negli ultimi due anni per la messa a norma degli edifici privati non sono mai stati spesi, scrive Ivan Francese, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un terremoto giudiziario originato dal terremoto vero: è questa la prospettiva che si apre nell'ambito dell'inchiesta per disastro colposo che sarà aperta dal procuratore di Rieti dopo il sisma che nella notte fra martedì e mercoledì ha devastato Amatrice, Accumuli e Pescara del Tronto, al confine fra Lazio, Umbria e Marche. Un'inchiesta che con ogni probabilità parlerà di fondi pubblici stanziati per la messa a norma degli edifici, pubblici e privati, e mai spesi. Come è successo ad Amatrice, la città-simbolo che piange oltre duecento morti e che presto chiederà verità e giustizia. Non c'è solo la scuola "Romolo Capranica", restaurata nel 2012 e crollata come un castello di sabbia. C'è anche l'ospedale, per il cui restauro erano pronti due milioni di euro che non sono stati mai spesi. C'è il municipio, crollato anch'esso, per cui erano stati messi a disposizione fondi provinciali poi dirottati altrove. Tanti casi che lasciano sgomenti, altrettante domande a cui bisognerà trovare una risposta. E purtroppo il conto dei danni, in termini umani e materiali, non si ferma solamente agli edifici pubblici. Dopo il terremoto dell'Aquila del 2009, racconta Repubblica, la Protezione Civile ha messo a disposizione 965 milioni di euro per la messa a norma degli edifici privati secondo le direttive antisismiche. Fondi che prevedevano contributi statali dai cento ai duecento euro al metro quadro per la ristrutturazione degli immobili dei centri storici, generalmente quelli più a rischio. Eppure moltissimi di quei fondi non sono stati nemmeno richiesti, a causa dei bizantinismi della burocrazia, che imponevano ad esempio la gestione regionale dei fondi, ma tramite sportelli organizzati dai Comuni. Fra Amatrice ed Accumuli, dove il rischio sismico era pure altissimo (e tutti lo sapevano), non è stato speso nemmeno un euro dei quattro milioni stanziati fra 2014 e 2015. Una circostanza che grida vendetta.

Ricostruzione, soccorsi, polemiche. La maledizione del post-terremoto. Dalla catastrofe di Messina nel 1908 a quelle del dopoguerra, il susseguirsi di errori e ritardi ha caratterizzato quasi ogni sisma che ha colpito il Paese. Al punto da imporsi come un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, scrive Dino Messina il 28 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Appena passata l’onda devastatrice del terremoto, si pensa al dopo. Le esperienze possono servire per non ripetere gli errori e per rendersi conto dei passi compiuti. La storia del dopo terremoto è diventata un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, soprattutto da quando la stampa liberale ha assunto un ruolo centrale di stimolo e denuncia.

Basilicata, 1857. In questo senso è emblematica la vicenda del terremoto della Basilicata che nel 1857 distrusse i paesi della Val d’Agri e colpì severamente quelli della Valle di Diano. Lo Stato unitario non era ancora nato. E ai nostalgici del Regno delle Due Sicilie (ce ne sono ancora!) vanno ricordati i ritardi nei soccorsi più elementari dopo il sisma che il 16 dicembre 1857 provocò oltre diecimila morti (fonti ufficiali dello Stato borbonico) e secondo altri studi fece invece 19 mila vittime. Un fotogiornalista francese, Alphonse Bernard, arrivò nei luoghi del disastro ben prima dei soccorritori e dell’esercito e documentò la distruzione in fotoreportage i cui introiti furono in parte destinati alla popolazione decimata dalla catastrofe. Un pubblicista come Teofile Roller sulla stampa britannica denunciò che nel febbraio 1858, oltre due mesi dopo il sisma sotto le macerie di alcuni paesi come Montemurro non erano ancora stati disseppelliti i cadaveri.

Messina 1908. Il terremoto del 1857 era stato classificato come il terzo più grave della storia, ma quello del 28 dicembre 1908 che colpì Messina e fece 80 mila morti su una popolazione di 172 mila abitanti fu una vera ecatombe (foto sotto). Il tragico evento ebbe testimoni illustri come Giovani Pascoli e lo storico Gaetano Salvemini, che in quella giornata perse la moglie e cinque figli. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti, ci furono ritardi ma non certo paragonabili a quelli borbonici. I primi importanti soccorsi arrivarono tuttavia dai marinai delle navi russe e inglesi oltre che dal personale della Marina italiana. In quella grave calamità ci fu un concorso di aiuti internazionale. Villaggi di baracche vennero donati dal re di Prussia Guglielmo II e dal presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt. Quando nel gennaio 1975 nella zona ci fu un altro non rilevante sisma l’inviato del Corriere della sera Antonio Padellaro documentò che ancora esistevano cinque quartieri di baracche risalenti al terremoto del 1908 in cui vivevano circa 25 mila persone. Nel 2002 un reportage di Alessandro Trocino rilevò che la popolazione nelle baracche del terremoto era scesa a 3.500 abitanti, ma che c’erano generazioni di famiglie per niente disposte a mollare la baracca del 1908, anzi la tramandavano di padre in figlio perché abitare lì dava il diritto di avere una abitazione nuova. Il più lungo post terremoto della storia.

Marsica 1915. Le ruberie compiute dopo il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 furono denunciate dal giovane Ignazio Silone, che all’epoca ancora si chiamava Secondino Tranquilli, in articoli scritti per l’Avanti!. Anche ad Avezzano, che fu il centro più colpito dal sisma che precedette di pochi mesi la nostra entrata nella Grande Guerra, vennero costruite delle baracche. I cronisti che andarono sul posto per il terremoto del 1983 scoprirono che alcune di quelle casupole erano ancora occupate, da locali o da turisti romani che avevano trovato una sistemazione per le vacanze invernali e non erano affatto disposti a lasciarle. Così alcune delle roulotte per il terremoto del 1983 vennero piazzate accanto alle baracche superstiti del 1915.

Vulture 1930. Si parla poco del terremoto del Vulture del luglio 1930 (foto sotto), che provocò 1.404 morti e che coinvolse 50 comuni in cinque province della Basilicata, della Puglia e della Campania. Il regime fascista non perse occasione per trasformare la tragedia in un’occasione di propaganda, sicché si vantò di aver costruito in pochi anni 3.746 case e di aver riparato 5.190 abitazioni. Il coordinamento della ricostruzione e dei soccorsi venne affidato ad Araldo di Crollalanza.

Belice 1968. Nel secondo dopoguerra il terremoto del Belice del 14 gennaio 1968, che causò 300 morti e 80 mila senzatetto, rimane come un simbolo negativo non soltanto per il ritardo nei soccorsi ma per una politica di ricostruzione sbagliata. Secondo la vasta letteratura di quel terremoto, sul posto arrivarono prima i cronisti dei soccorritori. La prima casa venne ricostruita nel 1977, nove anni dopo la tragedia! Sbagliata fu anche la scelta di ricostruire Gibellina (foto sotto), il centro maggiormente danneggiato, a 18 chilometri dal sito storico. La chiesa di quel nuovo paese crollò nel 1994 e il lago progettato per il recupero delle acque piovane rimase a lungo non funzionante. È stato calcolato che questa mancata ricostruzione sia costata allo Stato italiano non meno di sette miliardi di euro.

Friuli 1976. Un modello del tutto diverso venne riproposto per la ricostruzione dei paesi del Friuli devastati dal terremoto del 6 maggio 1976 (foto sotto), che provocò 989 vittime. Tra i paesi più colpiti, Osoppo, Gemona, Trasaglio, Buja, Maiano, Colloredo, Spilinbergo, Forgaria, Venzone. Un appello lanciato nell’agosto 1977 dagli abitanti di quest’ultimo centro riassume la filosofia del modello Friuli: «Respingiamo una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe estranei nella nostra stessa patria». I friulani sconfissero così l’Orcolat, l’Orco, come in lingua locale chiamano il terremoto, con una ricostruzione che teneva conto delle esigenze della popolazione, partiva dal basso, a differenza di quel che era avvenuto in Belice dove erano stati calati megaprogetti dall’alto. I paesi vennero ricostruiti pietra su pietra secondo una scala di priorità riassunta bene dal vescovo Alfredo Battisti: «Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese». Nel 1983, sette anni dopo il terremoto, l’80 per cento della ricostruzione era stata ultimata.

Irpinia e Basilicata 1980. Il terremoto più grave nella seconda metà del Novecento, per numero di vittime ed estensione dell’area danneggiata, rimane quello dell’Irpinia e della Basilicata, che il 23 novembre 1980 provocò quasi tremila morti, poco meno di novemila feriti e 280 mila senza tetto. Tutto l’Italia si mobilitò in una gara di solidarietà. Chi scrive, allora giovane cronista, arrivò a Balvano, in provincia di Potenza (foto sotto), la sera del 24 novembre, in tempo per vedere i 77 sacchi che contenevano i corpi dei fedeli uccisi dal crollo della chiesa. Così assistette al dramma di un padre, un vecchio medico, a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, che aveva ingaggiato delle ruspe per far scavare sotto le macerie dell’ospedale dove giacevano i corpi dei due figli. Partirono diverse denunce per gli edifici nuovi che erano crollati perché i tecnici avevano ignorato le norme antisismiche. Numeri irrisori in confronto alle 382 persone arrestate per le vicende legate alla ricostruzione. Una ricostruzione che è costata ai contribuenti italiani più di 60 mila miliardi di lire. Una voragine provocata da contributi distribuiti a pioggia: gli aiuti invece di essere concentrati nei paesi seriamente danneggiati vennero esteri a 687 Comuni. Scandalosa anche la lievitazione di costi di alcune opere che talvolta superò il mille per cento. Una commissione d’inchiesta parlamentare denunciò inoltre che erano state consapevolmente finanziate imprese fallimentari.

Umbria e Marche 1997. Un veloce ritorno alla normalità ha caratterizzato la ricostruzione nel dopo terremoto che il 26 settembre 1997 fece undici morti e 32 mila senza tetto nell’Umbria (foto sotto, Assisi) e nelle Marche. La ricostruzione certosina della Basilica di San Francesco d’Assisi è lì a dimostrarlo. Un piccolo sisma, quello del 31 ottobre 2002 in Molise, causò una grande tragedia: il crollo di una scuola a San Giuliano che uccise 27 bambini e una maestra. Un processo dimostrò che quell’edificio era stato costruito in spregio alle più elementari norme di sicurezza.

L’Aquila 2009 ed Emilia 2012. Il sisma di questi giorni nel Centro Italia è stato definito un terremoto gemello di quello che il 6 aprile 2009 provocò all’Aquila (foto sotto) e nei comuni vicini 309 morti e 60 mila sfollati. Anche in questo caso si sono dimostrate fallimentari la filosofia e la pratica delle New Town. Il business della ricostruzione ha attirato personaggi senza scrupoli sia all’Aquila, dove qualcuno rideva per i soldi che avrebbe fatto con la catastrofe, sia in Emilia, sconvolta dal terremoto del 20 e 29 magio 2012. La rapida ricostruzione di questo cruciale territorio è stata inquinata dalla presenza di cosche di ‘ndrangheta calabresi infiltratesi al Nord.

Terremoto, crollate Torre civica e chiese dichiarate a norma. Terremoto, lo scandalo dei fondi antisisma deviati.  Dai ponti non ristrutturati perché la Provincia aveva finito i suoi soldi agli stanziamenti deviati per altri scopi. Ecco come si sprecano le risorse destinate a evitare stragi, scrivono Dario Del Porto e Fabio Tonacci il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Due terremoti, quello dell'Umbria nel 1997 e quello dell'Aquila nel 2009, hanno fatto piovere sul territorio della provincia di Rieti 84 milioni di euro di fondi per la ricostruzione. Negli anni se ne sono aggiunti altri, di milioni. Della Regione, dello Stato, della Chiesa. Sette giorni fa, però, un altro sisma ha sollevato una verità che era sotto gli occhi di tutti: parte di quel denaro non è stato ancora speso, o è stato speso male, o, ancora, non è stato utilizzato per rendere gli edifici sicuri. E le rovine di Amatrice e Accumoli sono lì a testimoniarlo. Sei ponti in cerca di autore. Prendiamo i ponti. Due fondamentali vie di accesso ad Amatrice, la strada provinciale 20 e la statale 260, sono interrotte dal 24 agosto perché si sono danneggiati i ponti "Rosa" e quello di "Tre Occhi". Che ne è dei 611.000 euro che la Regione ha erogato nel 2014 "per interventi di mitigazione del rischio sismico" di sei ponti tra cui il "Rosa"? Rimasti nel cassetto. La provincia di Rieti non ha più un soldo in bilancio, e non riesce a trovare i 175mila euro della sua quota parte dell'intervento progettato. Dunque non può utilizzare i 611mila della Regione perché non ha i suoi 175mila da spendere. Il presidente della giunta Giuseppe Rinaldi, temendo di perdere i fondi, è stato costretto a inviare una lettera alla direzione regionale, nella quale spiega che "l'amministrazione intende confermare il proprio impegno al cofinanziamento", ma che per farlo dovrà "alienare immobili". Insomma, per aggiustare un ponte coi fondi del terremoto la provincia di Rieti si deve vendere un palazzo. Il campanile killer. Dopo il sisma del 1997, il Genio civile individuò sul territorio reatino 300 interventi di ricostruzione e miglioramento sismico per un totale di 79 milioni di euro messi a disposizione dallo Stato. Tra Accumoli e Amatrice c'erano 11 immobili e 10 chiese da sistemare. Prendiamone una diventata tragicamente famosa: il complesso parrocchiale San Pietro e Lorenzo ad Accumoli. È la chiesa con accanto un campanile costruito sopra il tetto di una casa: la notte del 24 agosto, quella torre campanaria di sassi, crollando, ha ucciso la famiglia Tuccio che abitava lì sotto, padre, madre e due bambini. Una grossa fetta dei fondi per gli edifici religiosi è stata gestita direttamente dalla Curia di Rieti, attraverso un ufficio tecnico creato ad hoc presso la diocesi, che ha predisposto le gare di affidamento. Il geometra che ha seguito tutte le pratiche si chiama Mario Buzzi, e adesso è in pensione. "Per il campanile non c'è stato mai alcun finanziamento specifico né alcun lavoro di ristrutturazione", spiega a Repubblica. Aggiungendo: "Non è vero che sono stati dirottati soldi per il miglioramento sismico dal campanile alla chiesa". La chiesa di Accumoli. E però nella lista delle opere finanziate del post-sisma 97 il nome della chiesa di San Pietro e Lorenzo, c'è. "Intervento sul complesso parrocchiale da 116mila euro". Si tratta del rifacimento del tetto di 200 mq della chiesa accanto al campanile, la cui gara d'appalto è stata vinta nel 2008 dalla Steta di Stefano Cricchi, uno dei figli di Carlo Cricchi, l'imprenditore reatino che si è aggiudicato commesse anche a L'Aquila. Per i lavori in Abruzzo, l'altro figlio, architetto, è sotto inchiesta per tangenti. "Chiariremo tutto, la nostra azienda non c'entra". Oggi Cricchi senior, cavaliere del lavoro, ha di che lamentarsi: "Noi non abbiamo fatto niente su quel campanile". Seduto al tavolo nel salotto della sua ditta, mostra disegni e capitolati. "Ci arrivano minacce di morte su Facebook e via mail perché tutti ormai credono che siamo stati noi a ristrutturarlo, ma non è vero". L'appalto per "riparazione e miglioramento sismico" della chiesa valeva 75mila euro (il resto, 41 mila euro, era per la progettazione). Steta lo vince con un ribasso del 16 per cento, dunque 59mila euro. Nel capitolato si scopre una cifra sorprendente: "Per il miglioramento antisismico c'erano appena 509 euro", spiega Cricchi. "Il progetto imponeva di inserire nella muratura 33 euro di ferro, praticamente una sola barra, e di fare alcuni fori da riempire non con il cemento, ma con la calce". Il grande equivoco. Eccolo il grande equivoco della ricostruzione dopo ogni disastro. La confusione tra il "miglioramento sismico" (piccoli interventi che non modificano sostanzialmente la stabilità dell'immobile) e l'"adeguamento", molto più costoso. Quasi tutto ciò che è stato fatto coi fondi dei terremoti, per forza maggiore scarsi e non sufficienti a coprire ogni spesa possibile, è miglioramento: i 200mila euro investiti nella scuola Capranica, in parte crollata; i 250mila euro messi nella Chiesa Santa Maria Liberatrice, inagibile; i 400mila del Teatro all'inizio del corso principale di Amatrice, distrutto; i 90mila della Torre Civica di Accumoli, lesionata; i 260mila euro della Chiesa di Sant'Angelo, venuta giù due settimane dopo l'inaugurazione. Fabio Melilli, deputato del Pd, è stato dal 2006 al 2010 il sub-commissario di Rieti per il terremoto dell'Umbria: "Quando mi sono insediato, era stato ultimato appena il 20 per cento dei lavori, nonostante fossero passati quasi dieci anni dal sisma". La normativa era fatta male: lo stesso progetto doveva superare due volte lo stesso esame. "Per dare il via alla gara di appalto - ricorda Melilli - servivano le autorizzazioni del Genio civile, del comune, della Soprintendenza. Una volta avute, il progetto andava in commissione dove c'erano gli stessi rappresentanti del Genio civile, del Comune, della Soprintendenza. Si perdeva un sacco di tempo". Tant'è che dei 5 milioni arrivati dopo L'Aquila, ne sono stati spesi appena tre. Il denaro immaginario. Una coperta quasi sempre corta. Si tira da una parte, ci si scopre dall'altra. Per il consolidamento del municipio di Amatrice c'erano 800mila euro, ma l'amministrazione guidata da Sergio Pirozzi ha deciso di spostarli sull'istituto alberghiero. Questo è rimasto in piedi, il municipio è franato. Coperta corta, che a volte si sfalda nelle mani di chi la vorrebbe usare. L'ospedale "Francesco Grifoni" da sette anni attendeva un intervento "urgente" di messa in sicurezza. I soldi, 2,2 milioni di euro, vengono pescati dal fondo per l'edilizia scolastica. Si è fatta anche la gara di appalto, vinta dal Consorzio cooperative costruzioni. Ma quel denaro, hanno scoperto i dirigenti della Asl di Rieti quando tutta la procedura era ormai avviata, esisteva solo sulla carta. Il fondo statale, per il Lazio, si era prosciugato.

Le carte riservate sui lavori eseguiti nei paesi del sisma e i certificati di chi ha fatto i collaudi su edifici pubblici. Gli «ancoraggi» dichiarati e mai fatti, scrivono Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini il 29 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. C’è un documento riservato che dimostra le irregolarità compiute nella ristrutturazione degli edifici pubblici di Amatrice e Accumoli dopo il sisma del 1997 dell’Umbria. È la relazione dell’ente attuatore su 21 appalti assegnati per la messa a norma degli stabili. E svela nei dettagli anche alcuni casi clamorosi, come quello della Torre Civica di Accumoli, manufatto del XII secolo che è il più antico del paese, gravemente danneggiato dalla scossa della notte del 24 agosto scorso. E quello della caserma dei carabinieri, crollata per il terremoto. Ma anche le procedure seguite per numerose chiese e complessi parrocchiali. Si tratta di 2 milioni e 300 mila euro, soldi pubblici che si aggiungono agli altri 4 milioni spesi dopo il 2009. Il dossier elenca i soldi stanziati, gli interventi effettuati, il nome dei progettisti, le ditte incaricate. Indica anche l’effettuazione dei collaudi per la convalida di quanto era stato fatto. Interventi per una spesa ingente, che evidentemente non erano stati svolti adeguatamente, visto che alcuni edifici sono stati distrutti dal sisma di sei giorni fa e altri risultano gravemente lesionati. E questo avvalora il sospetto dei magistrati: alcuni certificati sono stati falsificati. Atti che riguardano le strutture pubbliche, ma pure le abitazioni private. Ai Vigili del fuoco sono già arrivate numerose segnalazioni di cittadini che raccontano di aver acquistato la casa con la certificazione dell’avvenuto «ancoraggio» proprio per scongiurare il pericolo di crolli. E invece, dopo la scossa che ha devastato interi paesi, si è scoperto che nulla del genere era mai stato fatto. Controlli saranno effettuati anche dai magistrati di Ascoli che indagano sui crolli avvenuti ad Arquata e Pescara del Tronto. In particolare bisognerà verificare come mai alcuni edifici di Arquata — l’ufficio postale, la scuola, il Comune e la caserma dei carabinieri — dovranno essere demoliti perché dichiarati inagibili nonostante dovessero essere perfettamente a norma. Caso esemplare è quello della Torre Civica di Accumoli, edificio storico conosciuto anche a livello internazionale. Lo stanziamento iniziale di 100 mila euro viene ridotto a poco più di 90 mila. L’impresa individuata è la «Giuseppe Franceschini». Responsabile del procedimento è l’architetto Cappelloni. È l’esperto che segue altri progetti, compreso quello del complesso parrocchiale in cui è inserita la chiesa di San Francesco, dove il campanile è crollato e ha travolto un’intera famiglia. Vengono effettuati due collaudi: uno l’11 ottobre del 2012, l’altro il 28 maggio 2013. Non vengono evidenziati problemi e la verifica concede il via libera. Ma qualcosa evidentemente non ha funzionato: le scosse di sei giorni fa non hanno lasciato scampo e la Torre risulta gravemente lesionata. L’edificio è venuto giù. Storia analoga è quella della caserma dei carabinieri di Accumoli. Dopo il terremoto dell’Umbria si decide di effettuare lavori di ristrutturazione e vengono stanziati 150 mila euro. La ditta prescelta è la «Impretekna». Responsabile del provvedimento è il geometra Granato che risulta aver seguito ben nove progetti. Anche in questo caso i lavori sono classificati come «ultimati e collaudati». Sembra che sia tutto regolare, almeno a leggere le carte. E invece la sede dei carabinieri ha subito danni gravissimi. Sono i documenti ufficiali a dimostrare che la chiesa di Accumoli e il campanile erano stati inseriti in un «sistema» ben più ampio che prevedeva la ristrutturazione dell’intero complesso parrocchiale. Spesa prevista: 125 mila euro che scendono a 116 mila. L’appalto se lo aggiudica la «Ste.Pa» che evidentemente poi concede alcuni subappalti. Alla fine arriva il collaudo e la pratica si chiude. Nessuno immagina che in realtà i soldi stanziati per il campanile siano stati utilizzati per la chiesa. E soprattutto che non sia stato effettuato alcun adeguamento antisismico, ma semplici migliorie che nulla garantiscono. La notte del 24, dopo la prima fortissima scossa, il campanile si sbriciola e uccide quattro persone. Viene giù anche la chiesa di San Michele Arcangelo di Bagnolo, frazione di Amatrice. A disposizione erano stati messi 100 mila euro. Ente attuatore in questo caso era la Curia vescovile di Rieti che aveva indicato anche gli esperti responsabili dei lavori. E adesso saranno proprio gli ingegneri e gli architetti incaricati di occuparsi del controllo delle attività a dover chiarire ai magistrati che cosa sia accaduto tra il 2004, quando si decide di mettere a norma gli edifici, e il 2013 quando risultano effettuati gli ultimi collaudi. Nei prossimi giorni i magistrati coordinati dal procuratore di Rieti Giuseppe Saieva — i pubblici ministeri Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Marvotti — acquisiranno la documentazione su tutti gli stabili crollati. La decisione è quella di aprire un fascicolo su ogni edificio in modo da poterne ricostruire la storia ed effettuare le eventuali contestazioni a chi ha seguito le ristrutturazioni. Per questo verranno interrogati gli architetti e gli ingegneri indicati nella relazione sui lavori decisi dopo il sisma dell’Umbria. Saranno loro a dover chiarire come mai si decise di effettuare — nella maggior parte dei casi — soltanto delle «migliorie», chi diede le indicazioni sugli interventi e soprattutto che cosa fu scritto nelle relazioni finali per ottenere il via libera dei collaudatori. Questi ultimi dovranno invece chiarire che tipo di controlli furono svolti, consegnando anche la documentazione relativa a ogni progetto seguito. L’attività dei pubblici ministeri in questa prima fase dell’inchiesta si muove su un doppio binario: da una parte gli edifici pubblici e dall’altra le abitazioni private. In questo secondo caso l’attenzione si concentra soprattutto sui cosiddetti «ancoraggi». Nei giorni successivi al terremoto sono arrivate numerose segnalazioni di persone che hanno raccontato di aver comprato il proprio immobile e di aver ricevuto — al momento dell’acquisto — la certificazione sulla messa in sicurezza rispetto al rischio sismico. Quando i palazzi sono crollati è apparso evidente come non fosse stato effettuato alcun intervento mirato. Per questo bisognerà confrontare gli atti di compravendita con quelli registrati nei Comuni. Partendo naturalmente dagli edifici crollati che hanno provocato morti e feriti.

Al setaccio incarichi e consulenze sui fondi del dopo terremoto 1997. Gli inquirenti vogliono capire come sono stati spesi tre milioni di euro. Indagini sui collaudi che mancano e sui lavori che non sono stati ultimati, scrive Paolo Festuccia il 30/08/2016 su “La Stampa”. Quasi tre milioni di euro. Per la precisione 2 milioni 995 mila euro. A tanto ammontano i finanziamenti che sono piovuti su Accumoli e Amatrice per i danni subiti dal sisma del 1997. A questi si deve aggiungere il finanziamento - ma fuori dal sisma dell’Aquila - che la Regione Lazio elargì al comune di Amatrice al fine di migliore la sicurezza della scuola «Romolo Capranica» e di altre strutture presenti sul territorio. Intorno a questo fiume di denaro, nelle prossime ore, si concentrerà l’attenzione della Procura di Rieti. L’obiettivo, è quello di accertare come siano stati elargiti i contributi pubblici, e soprattutto come sono stati conferiti gli incarichi a una quarantina di professionisti tra ingegneri, architetti e geometri. È questo il dubbio che anima l’iniziativa degli inquirenti. Un interrogativo che incontra anche le richieste dei cittadini, sia quelli che hanno o non hanno subito danni, sia soprattutto i familiari di chi, proprio sotto quelle strutture appena restaurate, ha perduto la vita. A cominciare dalla famiglia Tuccio di Accumoli (mamma, papà e due figli piccoli) annientata dal crollo del campanile del complesso parrocchiale di San Pietro e Lorenzo restaurata con 125 mila euro con tanto di collaudo. Insomma a distanza di quasi vent’anni, dunque, quel sisma che colpì duramente e tragicamente l’Umbria e alcuni luoghi simbolo come Assisi o Camerino nelle Marche, torna protagonista insieme al terremoto dello scorso 24 agosto. Nel territorio di Amatrice le strutture restaurate sono state tredici per un milione 860 mila euro. Ben 630 mila euro di «questi fondi - assicurano fonti - sono stati elargiti alla Curia… e mai rendicontati…». Solo due opere al maggio di quest’anno erano state collaudate. Si tratta della Chiesa di San Michele Arcangelo (100 mila euro) e di Icona Passatore per 200 mila euro. Le altre tre strutture, per un valore in euro di altre 330 mila euro (affidate come Ente attuatore alla Curia di Rieti) non risultano ancora restaurate. C’è poi il singolare caso delle caserme dei Carabinieri. Quella di Accumoli, nei fatti, è andata completamente distrutta. Ad Amatrice i lavori della caserma non sono ancora ultimati (150 mila euro) e anche l’altro edificio preso in affitto in attesa del rientro nella caserma principale è di fatto ancora inutilizzato. È davanti a queste cifre e alla presenza di tante consulenze che la procura vuole andare fino in fondo. Capire non solo come gli incarichi siano stati conferiti ma soprattutto quali rapporti sono intercorsi tra chi ha ricevuto e chi ha conferito l’incarico. Affidi più volte distribuiti a stesse persone che in talune circostanze figuravano come progettisti e in altri come collaudatori. In tutto sono una quarantina i professionisti che a vario titolo hanno partecipato alla distribuzione dei lavori che solo in parte a distanza di quasi vent’anni sono stati collaudati. In un caso, addirittura, la chiesa di Sant’Angelo di Amatrice i lavori sono ancora in fase di esecuzione. Capitolo a parte, invece, merita la scuola «Romolo Capranica» di Amatrice. La città fu tagliata fuori dai finanziamenti per il sisma aquilano del 2009. Ottenne allora una finanziamento ad hoc dalla Regione Lazio (5 milioni di euro) per una serie di lavori da svolgere sia nel palazzo che comunale che nella scuola alberghiera. Per la «Romolo Capranica» ci fu un accordo di programma in base al quale il commissario per il sisma Fabio Melilli rese ente attuatore il comune stesso per una cifra di 170 mila euro. Soldi che si aggiunsero ai circa 500 mila che lo stesso sindaco Pirozzi aveva ottenuto dalla Regione e che il comune appaltò autonomamente per i lavori.

39 anni fa l'assassinio del colonnello Russo e del prof. Costa, scrive il 20 Agosto 2016 AMDuemila. L’omicidio avvenne in modo plateale perché la “mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare”. Così scriveva il giornalista Mario Francese, che da quella stessa mafia fu assassinato il 25 gennaio 1979. Il 20 agosto del 1977, alle ore 22.00, in contrada Ficuzza di Corleone un commando formato da Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pino Greco, Filippo Marchese e Giuseppe Agrigento uccise il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e l'amico Filippo Costa. Secondo gli inquirenti quella sera a sparare fu Leoluca Bagarella, mentre Pino Greco e Giovanni Brusca rimasero da appoggio, e Agrigento e Marchese erano all'interno delle auto parcheggiate, pronti per la fuga. Russo fu sicuramente tra i primi investigatori a comprendere la necessità di spostare l’attività investigativa sui grandi appalti e sull’interesse che avrebbero inevitabilmente suscitato nel sodalizio criminale che stava per assumere il controllo di Cosa nostra nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento, che proprio in questa terra avrebbe avuto il suo centro nevralgico intono alle figure di Riina e Provenzano. Giuseppe Russo, secondo gli investigatori, fu tra i primi a capire le potenzialità dei corleonesi di Riina e Provenzano e a studiare le contromosse per arginarli. Così come fu pioniere nell'individuare gli interessi e le attività del gruppo mafioso che si stava organizzando intorno alle figure di Michele Greco, Riina, Provenzano e Bagarella, negli anni in cui si sarebbe consolidato il controllo della mafia sui finanziamenti pubblici e i grandi appalti per la ricostruzione del Belice, dopo il devastante terremoto del 1968. Quando fu assassinato, Russo era il comandante del Nucleo Investigativo del capoluogo siciliano, l'organo di punta nella lotta alla mafia, e uomo di assoluta fiducia dell'allora comandante della Legione carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Grazie al suo costante impegno furono realizzate con successo diverse operazioni investigative contro ogni forma di criminalità e, in particolare, contro le varie organizzazione mafiose. Per l’omicidio del tenente colonnello e del suo amico professore furono inizialmente condannati tre pastori: Salvatore Bonello, Rosario Mulè e Casimiro Russo; quest’ultimo, autoaccusatosi, aveva chiamato in causa gli altri due; ma nel ‘97 vengono assolti e la II sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo condanna definitivamente all’ergastolo Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per l’assassinio di Giuseppe Russo e Filippo Costa. Così il giornalista Mario Francese, sul “Giornale di Sicilia”, ricordò quel tragico omicidio: “Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due. Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia. Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo. Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava? - si chiede ancora il giornalista - No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”.

La ricostruzione in Emilia e quello che il governo non dice. Un modello di gestione. Zero infiltrazioni mafiose e illegalità arginata. La narrazione ufficiale del Pd nazionale e regionale esclude ogni tipo di anomalie durante la fase post sisma emiliano. Eppure le inchieste giudiziarie e giornalistiche dicono altro, scrive Giovanni Tizian il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Sulla via Emilia messa in ginocchio dal sisma del maggio 2012 è nata la narrazione della ricostruzione pulita. Nella roccaforte del Pd, del resto, tutto deve procedere secondo le regole. Criminali, mazzette e clan, non avrebbero trovato spazi, recita questa narrazione. Frammenti di questo racconto trionfalistico giungono anche in queste ore, a pochissima distanza dalla notizia che Vasco Errani sarà con tutta probabilità il commissario del post terremoto che ha ridotto in un cumulo di macerie i borghi storici di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Errani, appunto, scelto in virtù dell'esperienza emiliana. Dove, però, non tutto è come sembra. E sono molte le cose che il governo centrale e quello regionale non dicono. «Ha saputo garantire rigore, serietà, legalità e trasparenza. E noi oggi abbiamo ricostruito il 70 per cento di quello che avevamo, evitando infiltrazioni mafiose», intervistato da Repubblica Bologna il sindaco di San Felice Sul Panaro, Alberto Silvestri, mostra tutto il suo entusiasmo per la nomina decisa da Matteo Renzi. San Felice è il paese del cratere sismico tra i più colpiti. Il primo cittadino della bassa modenese, però, sa bene che non tutto è andato per il verso giusto. Soprattutto in tema di illegalità e inquinamento mafioso. Vicino a San Felice, per esempio, si trova Finale Emilia. Lasciamo per un momento da parte la questione mafia, perché l'ultimo episodio che ha riguardato questo comune ha a che fare con un fatto di ordinaria furbizia imprenditoriale. Al centro dello scandalo una scuola media da 5 milioni di euro, nuova di zecca e pronta per essere inaugurata. A distanza di quattro anni esatti, però, nella ricostruzione qualcosa non ha funzionato. Chi ha realizzato l'opera, per limare sui costi, avrebbe utilizzato cemento cosiddetto “depotenziato”. Materiale fragile. Così per inquirenti e investigatori la struttura della scuola media Frassoni non sarebbe sicura. Il paradosso è che il luogo scelto per edificare l'istituto era considerato tra i più sicuri del paese. Tanto, spiegano gli inquirenti, da indicare l'area come luogo di rifugio per la popolazione nel caso di terremoti. Cittadini beffati due volte, quindi. Perché avrebbero raggiunto una zona con un edificio, dicono i pm, per nulla sicuro. L'inchiesta “Cubetto” - termine che indica i campioni di calcestruzzo da sottoporre ad analisi di resistenza - è ancora in corso. Bisognerà attendere i risultati delle analisi del materiale sequestrato, e poi l'incidente probatorio. Coinvolte due importanti aziende. Entrambe con un ruolo in Confindustria. C'è la Betonrossi Spa, per esempio, attiva in tutta Italia e leader del settore. E la A&C di Mirandola, il cui proprietario Stefano Zaccarelli era presidente dell'associazione costruttori di Confindustria Modena, ha lasciato dopo la notizia dell'indagine a suo carico. L'inchiesta non è finita. Il prossimo atteso passaggio sarà l'incidente probatorio. Sarà questo il momento decisivo per verificare effettivamente la tenuta della struttura. La procura vorrebbe ottenerlo prima del prossimo anno scolastico. Tra gli indagati anche il direttore dei lavori, un tecnico della Regione, Antonio Ligori. In realtà, si legge nel suo curriculum, è collaboratore di una società “In house”, la Finanziaria Bologna Metropolitana S.p.a. Durante la ricostruzione post-sisma, ancora in corso, è stato incaricato della Direzione Lavori di numerosi cantieri per realizzare edifici pubblici, «per conto del Commissario Delegato alla Ricostruzione (cioè Vasco Errani ndr)». Ligori, 51 anni, negli ultimi quattro anni ha ottenuto la direzione di 33 strutture, più tre progettazioni. È responsabile di cantieri che valgono in tutto 75 milioni di euro. Ma non è la prima ombra che si addensa sulla ricostruzione post sisma. Anzi, è solo l'ultima di una lunga serie di anomalie. Prima, come documentato da “l'Espresso” ormai tre anni fa, l'intromissione della 'ndrangheta nella filiera dello smaltimento delle macerie. Poi i subappalti finiti ad aziende legate ai clan e i sospetti su una cricca di professionisti che si sarebbero arricchiti con i fondi per la ricostruzione. E infine il caso del cemento “fragile” usato per una scuola pubblica. Per quanto riguarda le macerie, il meccanismo con cui la 'ndrangheta ha potuto lavorare è molto semplice. In piena urgenza con la catena del subappalto, le strade dei paesi terremotati sono state battute dai camion dei clan. Hanno smaltito una quantità importante di detriti, non residuale, stando a quanto scritto dagli investigatori del Gruppo interforze guidato dal poliziotto Cono Incognito. Un team, questo, costituito ad hoc per vigilare sulle opere da realizzare nella ricostruzione. Hanno lavorato sodo, e prodotto decine di misure interdittive, escludendo numerose aziende, alcune delle quali già attive nei cantieri emiliani, dalla “White list”, gli elenchi della Prefettura ai quali è necessario iscriversi per poter lavorare nella ricostruzione. C'è stato poi il caso della Bianchini costruzioni. Leader nel territorio della bassa. Fino a quando la procura antimafia di Bologna e i carabinieri di Modena non hanno scoperto la sua vicinanza alla 'ndrangheta emiliana. Così prima è scattata l'interdittiva antimafia, e due anni dopo i proprietari sono finiti nella maxi indagine Aemilia (oltre 200 indagati, ora imputati) sui clan calabresi emigrati nelle province di Modena, Reggio, Parma e Piacenza. La vicenda Bianchini conduce esattamente al cuore della ricostruzione. Alle cose che non hanno funzionato in materia di prevenzione. La società ha continuato a lavorare anche dopo il blocco della prefettura. Con un'altra società, è stato sufficiente cambiare il nome. Per queste anomalie la prefettura di Modena aveva disposto persino l'accesso nel Comune di Finale Emilia. La commissione scrisse una relazione in cui evidenziava diverse criticità nella gestione degli appalti. Il Prefetto chiese lo scioglimento, ma il Viminale archiviò il caso. A luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all'epoca da Augusto Bianchini - ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall'indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all'intermediazione dei boss delle 'ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia. In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un'intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L'Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità. Ma la ’ndrangheta si è infilata nella ricostruzione anche ad un altro livello. Ci sono indagini che tuttora proseguono, e puntano verso le figure dei tecnici. Collaboratori o assunti da imprese contigue alle cosche. Il sospetto è raccolto dall'Arma dei Carabinieri che ricevono la segnalazione di una donna sfollata. Si era rivolta a loro perché non la convinceva la dinamica in cui era finita: l’ingegnere incaricato di redigere il progetto di ricostruzione aveva assoldato un professionista di fuori regione, facendo lievitare le spese. Quell’ingegnere ha rapporti con uomini del clan. Ed è socio di uno studio tecnico della bassa emiliana, tra i lavori ottenuti anche la progettazione della sicurezza di un cantiere post sisma a Finale Emilia. Tutto questo -tralasciando episodi minori di truffe e raggiri - nella narrazione renziana della ricostruzione emiliana non può esistere. Il rischio è di passare dalla parte dei “gufi”.

Terremoto: la mafia è già pronta a guadagnare. Fermate subito quelle mani. Dobbiamo imparare dalle ferite ancora aperte dell'Aquila e dell'Emilia, e dalla storia del Belice e dell'Irpinia. Per impedire alle organizzazioni criminali e a imprenditori-sciacalli di brindare sul dolore del 24 agosto. Perché la ricostruzione non sia un business. Ma un valore, scrive Lirio Abbate il 29 agosto 2016 su “L’Espresso”. La ricostruzione post terremoto è il punto da cui adesso si deve ripartire. Potranno speculazioni e criminalità restare fuori da questa tragedia? Si riuscirà a non fare business sulla morte e il dolore? Dovrà pur servire a qualcosa l’esperienza amministrativa e giudiziaria fatta su un territorio altamente sismico. E queste nuove vittime non dovranno servire a sostenere vecchi business e nuovi appetiti per le mafie e i mafiosi. Questa tragedia che ha colpito l’Italia centrale dovrà necessariamente attingere all’esperienza fatta dopo il sisma dell’Aquila e dell’Emilia. Ferite ancora aperte, anche per il dolore inflitto da imprenditori-sciacalli e organizzazioni criminali che su queste tragedie non hanno visto la morte come sofferenza, ma un motivo, spesso illegale per arricchirsi. La storia italiana di ogni ricostruzione ci ha consegnato non solo sofferenza e dolore, ma soprattutto malaffare. A cominciare dal Belice, passando per l’Irpinia, fino ad arrivare in Abruzzo e in Emilia Romagna. Le mafie si sono lanciate sui ruderi dei paesi distrutti come se i cocci caduti dalle abitazioni in cui sono morti donne e bambini, studenti e pensionati, fossero pepite d’oro da raccoglie. A tutti i costi e con tutti i mezzi irregolari. I protocolli di legalità pensati e firmati in questi decenni si sprecano. Qualcuno ha funzionato, altri sono stati raggirati. Ad ogni modo, sul dopo terremoto si è sempre trovato un prestanome di mafiosi, un’impresa irregolare che ha messo le mani sugli appalti. È stata ancora una volta fotografata un’Italia illegale che si contrappone alla grande solidarietà che questo Paese è capace di offrire a chi ne ha bisogno. L’esperienza quindi ci dice che il grande business della ricostruzione non viene mai ignorato dalla criminalità organizzata, e per questo motivo occorre attuare tutti gli strumenti necessari per evitare l’inquinamento mafioso. Perché sulle emergenze è più facile che le organizzazioni trovino spazi e modi per infiltrarsi e lucrare. E guadagnare sulla morte. Negli ultimi vent’anni è stata combattuta la mafia, ma meno efficacemente la corruzione. E mafia e corruzione sono sempre più intrecciate. Lo ha dimostrato l’inchiesta “mafia Capitale” che ha messo in luce un modello tipicamente mafioso; un modello, come ripete il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, «che già aveva funzionato per gli appalti post terremoto in Campania» e che vede un intreccio tra mafia, politica e imprenditoria. La caratteristica della criminalità mafiosa è la mimeticità nell’area grigia: ovvero esponenti delle istituzioni, dell’imprenditoria, delle professioni. Non basta intervenire con la repressione ma bisogna prevenire: l’educazione ai valori della Costituzione è fondamentale per recuperare il rispetto della legge. Soprattutto dopo una nuova tragedia come questa del terremoto.

"La ricostruzione post terremoto boccone ghiotto per la mafia". Il procuratore antimafia Roberti: "Non si ripeterà lo scandalo Irpinia. Abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti", scrive Luca Romano, Domenica 28/08/2016, su "Il Giornale". "I rischi ci sono, inutile nasconderlo. E la ricostruzione post terremoto è storicamente il boccone ghiotto di consorterie criminali e comitati d'affari collusi". A dirlo, in una intervista a Repubblica, è il procuratore Antimafia Franco Roberti, che aggiunge: "Però va detto che abbiamo alle spalle gruppi di contrasto consolidati, esperienza, attività importanti. E abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti". Secondo il procuratore, che seguì in prima persona come pm di Napoli il terremoto dell'Irpinia oggi "l'esperienza e le acquisizioni scientifiche e giudiziarie ci dicono che se una casa è costruita bene, se sono state rispettate le norme anti sismiche, di fronte a un evento drammatico quel corpo di fabbrica può lesionarsi, incrinarsi: ma non può polverizzarsi e implodere. Ecco perché, senza azzardare previsioni, immagino ci sia molto da approfondire". I rischi di infiltrazioni mafiose, perché sottolinea Roberti "i guadagni dei clan cominciano proprio dal calcestruzzo scadente", "sono sempre alti ma l'esperienza drammatica del sisma a L'Aquila ci lascia anche un modello importante che ha funzionato bene". Il magistrato parla infatti di "un modello costruito da tutti insieme, dal lavoro della Procura distrettuale della città colpita, dal monitoraggio della Procura nazionale antimafia, dagli uffici giudiziari competenti e naturalmente dall'Anticorruzione ". Sulla collaborazione con l'Anac infine precisa "l'Anticorruzione fa bene il suo lavoro di prevenzione della corruzione, nella acquisizione e gestione degli appalti. Mentre la procura nazionale svolge il suo monitoraggio sugli eventuali collegamenti mafiosi delle imprese che concorrono agli appalti".

La sfida di Cantone: "Modello Expo per ricostruire senza mafia e ladri". L'intervista. Il presidente dell'Autorità anticorruzione: "Non sarà una grande abbuffata", scrive Liana Milella il 27 agosto 2016 su "La Repubblica”. "Vedo due pericoli, tutti italiani, anche in questo terremoto, la mafia che ne approfitta e s'infiltra nella ricostruzione e le grandi abbuffate dei soliti speculatori". Ma Raffaele Cantone, il presidente dell'Autorità anticorruzione, prim'ancora di suggerire la sua strategia per evitare entrambe le minacce, vuole raccontare cos'ha provato alle 3 e 36 di mercoledì notte: "Per chi, come me, ha vissuto il terremoto del 1980 in Irpinia, pur abitando in una zona non direttamente colpita, la prima cosa è il grande dolore che provo e la solidarietà forte per chi si è visto crollare addosso la casa. Poi c'è la preoccupazione per gli speculatori in agguato".

L'Italia è questo purtroppo. Solidarietà e malaffare...

"Sì, vedo due Paesi inconciliabili. Quello dei volontari che arrivano da tutta Italia e scavano fino allo sfinimento con una gara di solidarietà che coinvolge l'intero paese. Ma poi si fa fatica a pensare che è lo stesso paese delle grandi abbuffate, di chi ne approfitta e specula, di chi, quella famosa notte del terremoto dell'Aquila, rideva pensando agli affari che avrebbe fatto. Da un lato c'è un pezzo d'Italia bellissimo, dall'altro c'è chi pensa che sui morti si possono fare più affari".

Renzi ha citato lei e l'Anac. Un'altra grana?

"La vedo come un'importante manifestazione di fiducia, che mi inorgoglisce sia a titolo personale che per il lavoro svolto dall'Autorità in questi due anni. E poi già penso al futuro e a cosa potremmo fare".

Ha già un'idea?

"Dipende dalle scelte politiche. L'Anac può avere una funzione proficua se riesce a ricreare una situazione analoga a quella di Expo o del Giubileo. Ma perché ciò avvenga gli organi decisionali che gestiscono gli appalti devono essere uno solo o al massimo pochi. Un'attribuzione polverizzata a vari soggetti impedirebbe o renderebbe difficile un controllo a 360 gradi. Per le risorse che abbiamo non possiamo seguire 50 stazioni appaltanti".

Il terremoto però ha distrutto molte case private.

"È molto importante capire quale parte della ricostruzione sarà oggetto di interventi pubblici. Se si decide di seguire il modello aquilano - contributi singoli e lavori a cura dei privati - l'Anac potrà avere un ruolo relativo. Potrà seguire soprattutto la ricostruzione delle strutture pubbliche".

Lei cosa suggerisce?

"Esempi possibili ci vengono dagli ultimi terremoti. All'Aquila si è optato per le new town in attesa della ricostruzione. Un'opzione criticabile, ma che al momento sembrava razionale perché funzionale a un'intera città caduta. In alternativa bisogna comunque trovare formule per ricostruire rapidamente e questa è l'opzione decisamente preferibile".

Ma qual è quella di Cantone?

"Il modello Expo, sperimentato anche in altre situazione note e meno note. La vigilanza collaborativa, oggi prevista pure nel codice dei contratti, utilizzata tra l'altro per Bagnoli e per il Giubileo. Ma le soluzioni vanno calibrate sulle tipologie degli eventi. La priorità è dare subito le case, perché adesso vanno bene le tende, ma ad Amatrice tra poco farà freddo, quindi l'urgenza è sistemare 2mila persone. La logica delle new town fu quella, anche se poi fallì del tutto perché non furono ricostruite le vecchie case".

Lei ricordava l'intercettazione della notte dell'Aquila. Teme anche ora la grande abbuffata?

"Bisogna evitare che i soldi pubblici finiscano in operazioni illecite. Ma quando Renzi parla di modello Anac pensa anche al rischio di infiltrazioni mafiose, perché tra le imprese che provvedono alla rimozione dei detriti e al movimento terra il rischio di infiltrazioni è altissimo. È necessario un controllo preventivo come avvenne per il terremoto in Emilia. Bisogna evitare il grande bubbone del sisma in Irpinia, non solo per il clamoroso spreco di denaro pubblico, ma perché proprio allora la camorra, da associazione dedita ad affari tradizionali, divenne imprenditrice".

Il codice degli appalti, su cui si riversano tante critiche, potrà creare difficoltà?

"Mi sento di escluderlo. Il codice consente di fare qualsiasi tipologia di appalti. Comunque sarà una delle priorità dell'Anac verificare se possono esserci provvedimenti attuativi da emettere che potrebbero incidere sulla ricostruzione".

Ad Amatrice crolla una scuola costruita senza garanzie sismiche. Non è anche questa una minaccia?

"Su quell'appalto bisogna accendere subito una luce. Sarebbe ingiusto dare giudizi su due piedi, ma se il terremoto fosse avvenuto in un altro momento dell'anno finiva come a San Giuliano di Puglia. Una strage di bambini. La scuole di Amatrice era stata ristrutturata nel 2012 ed è caduta. In teoria anche un edificio perfetto può cadere per un terremoto fortissimo. L'Autorità giudiziaria e noi dell'Anac ce ne occuperemo per individuare le responsabilità".

Repubblica ha scoperto che ci sono fondi per il rischio sismico neppure spesi...

"Non è il momento di fare polemiche perché il dolore deve prevalere su tutto, ma bisogna individuare le responsabilità di chi avrebbe potuto utilizzare quel denaro e non lo ha fatto e se questo incide sulla capacità di questi amministratori di gestire la ricostruzione".

Renzi e il terremoto in Centro Italia: «Prendiamo esempio dall’Emilia», scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. Il presidente del Consiglio non parla di Errani commissario ma cita la ricostruzione dopo il sisma del 2012. Ma i Cinque Stelle attaccano. Non parla di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione in Centro Italia, ma designa l’Emilia-Romagna come un modello per il post-terremoto. Matteo Renzi, nella enews pubblicata lunedì, fornisce le coordinate per l’immediato futuro delle zone terremotate. «La storia italiana - scrive il presidente del Consiglio - ci consegna pagine negative nella gestione del dopo-terremoto, come l’Irpinia, ma anche esempi positivi. Su tutti il Friuli del 1976, certo. Ma anche l’Umbria di vent’anni fa. E soprattutto penso al modello emiliano del 2012». Quel territorio, sottolinea il premier, «ha `tenuto botta´, come si dice da quelle parti, ricostruendo subito e bene. Le aziende sono ripartite, più forti di prima. E la coesione mostrata è stata cruciale per raggiungere l’obiettivo». Secondo Renzi «dovremo prendere esempio da queste pagine positive. E fare del nostro meglio - senza annunci roboanti - per restituire un tetto a queste famiglie e restituire un futuro a queste comunità». Ma i grillini partono all’attacco. Il deputato Michele Dell’Orco lancia un primo tweet in cui accosta il nome del «disoccupato» Errani all’inchiesta Aemilia. «Il Governo — ha rincarato poi via web Dell’Orco — chiama Vasco #Errani per la ricostruzione: “verrà adottato il modello Emilia’” Modello Emilia??! Dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c’è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma- rimarca il parlamentare M5s- la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? Vogliamo ripetere gli stessi errori? Io no». In casa Pd scatta il contrattacco. «Il deputato 5 stelle Dell’Orco- reagiscono in una nota i parlamentari dem Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra e Stefano Vaccari- straparla, o peggio, se parla con convinzione allora diffama. Perché se c’è un aggettivo che chi lo conosce associa al nome Vasco Errani è onesto, oltre che competente». E, dunque, «far intendere, come fa il collega Dell’Orco con il suo tweet, che ci sia una qualsivoglia connessione tra la nomina di Errani a commissario straordinario per il sisma nel 2012 e l’inchiesta Aemilia è mistificare la realtà. Perchè se c’è una cosa per cui Errani ha lavorato, in questi anni, è proprio l’obiettivo per cui ogni euro speso per il cratere sismico fosse rintracciabile e impiegato in maniera legittima».

Cinque Stelle e leghisti contestano Errani e la validità del "modello Emilia". M5S e centrodestra bocciano la scelta dell'ex governatore come commissario per la ricostruzione e citano le infiltrazioni della criminalità emerse dal processo Aemilia. Di Maio: "Renzi usa il terremoto per ricucire il Pd". La replica di Guerini, scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. La tregua e l'unità nazionale sul terremoto è già finita. Il Movimento Cinque Stelle, infatti, non ha gradito la scelta di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione delle aree devastate dal sisma. E lo stesso atteggiamento di chiusura adottano anche Lega e Forza Italia. Il primo affondo è lanciato dal deputato grillino emiliano Michele dell'Orco. "Il governo - dice il parlamentare - chiama Errani per la ricostruzione e verrà adottato il modello Emilià. Modello Emilia? Ma dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c'è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma - conclude Dell'Orco - la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? vogliamo ripetere gli stessi errori?" Un attacco durissimo che viene rilanciato anche da Laura Castelli, capogruppo grillina alla Camera: "Quanto accaduto in seguito al commissariamento di Errani in Emilia lo conosciamo tutti, arriva anche a includere inchieste che hanno sottolineato quanto la 'ndrangheta entri in questi appalti e in queste ricostruzioni", dice Castelli. Poi arriva l'affondo di Luigi Di Maio, membro del direttorio M5S che scrive su Facebook: "Mi lascia sgomento un presidente del Consiglio che poche ore fa ha guardato negli occhi i sopravvissuti dell'ennesimo terremoto e adesso pensa di sfruttare la tragedia per ricucire il Pd affidando l'incarico di commissario per la ricostruzione a Vasco Errani. Gestisce un'emergenza con le logiche del congresso di partito. Vasco Errani non può essere il commissario al terremoto del Centro Italia. Ora serve un profilo al di fuori del sistema dei partiti". Un altro colpo al clima di unità arriva dalla Lega. "In Emilia Romagna Errani ha fallito completamente, vorremmo evitare un fallimento due. Chiediamo a Renzi di non fare nomine in base a logiche di equilibrio interne" dice il senatore leghista Gian Marco Centinaio. Poi tocca al leader Matteo Salvini: "La Lega è pronta ad aiutare e collaborare con tutti per il bene delle persone colpite dal terremoto ma non a guardare in silenzio il ripetersi di vecchi errori, sprechi e ruberie. Il fallimento e la lentezza della ricostruzione in Emilia non si devono ripetere". E critiche arrivano anche dal centrodestra. Il consigliere regionale di An-Fdi Tommaso Foti accusa: "Neppure abili prestigiatori possono nascondere che, nella bassa modenese in particolare, si registrano ritardi gravissimi nella ricostruzione". E da Roma Maurizio Gasparri fa sapere: "Nessuna apertura nei confronti di Renzi e della sua fallimentare politica". Secondo il vicepresidente forzista del Senato "FI farà proposte per la ricostruzione delle zone terremotate e darà piena disponibilità in ogni passaggio parlamentare con uno spirito di coesione che è doveroso e che altri non sempre hanno dimostrato in occasioni analoghe a ruoli inversi. È però certamente un avvio sbagliato quello della nomina di Errani a commissario". A Di Maio ha replicato Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd: "Mi spiace che Di Maio utilizzi una tragedia come quella del terremoto per aprire un'inutile polemica con il Pd e il presidente del consiglio - ha detto Guerini - . Errani è un ottimo amministratore che ha già dato prova di capacità, competenza ed efficienza come commissario per il terremoto in Emilia, esperienza che potrà mettere a disposizione per la delicata opera di ricostruzione delle zone del Centro Italia colpite dal sisma. È tempo di unità e responsabilità per dare risposte alle popolazioni colpite così duramente e non di polemiche".

TERREMOTO E GIUSTIZIA. Per i morti dell'Aquila solo 9 colpevoli. E ora a fermare i processi arriva la prescrizione. Responsabilità difficili da stabilire. Perizie contrastanti. Vecchi edifici costruiti da tecnici ormai defunti. Per il sisma del 2009 sono stati condannati in via definitiva una manciata di imputati. E fra poche settimane un colpo di spugna finale cancellerà le ultime inchieste. Uno scenario che rischia di ripetersi col terremoto di Amatrice, scrive, nascondendo le responsabilità delle toghe e da antiberlusconiano, Paolo Fantauzzi il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Le indagini della Procura di Rieti. Quelle della Procura di Ascoli Piceno. Gli accertamenti dell’Anticorruzione. L’opinione pubblica che chiede, come sempre in questi casi, “pene esemplari”. Dopo il sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli e Borgo Arquata, la macchina della giustizia si è subito messa in moto per individuare i responsabili dei crolli. La speranza è che non finisca come all’Aquila: nel capoluogo abruzzese i condannati per il terremoto sono stati una manciata. Per la difficoltà di accertare le colpe, innanzitutto. Ma anche per effetto della prescrizione, i cui tempi sono stati generosamente accorciati nel 2005 dal governo Berlusconi. Così fra poche settimane (il 6 ottobre) un definitivo colpo di spugna cancellerà tutti i processi non ancora terminati. Compreso quello al più noto degli imputati, Guido Bertolaso, a giudizio per omicidio colposo plurimo. A meno che non intenda rinunciare al “salvataggio” come ha detto nei mesi scorsi. Anche all’Aquila la magistratura si mise subito al lavoro con grande impegno. Su circa 200 fascicoli d’indagine aperti dopo il sisma, però, solo una quindicina hanno raccolto elementi sufficienti per arrivare a dibattimento. E soltanto pochissime inchieste si sono concluse in Cassazione con delle condanne, nove in tutto: quattro per il crollo della Casa dello studente (costato la vita a otto ragazzi), due per il Convitto nazionale (in cui persero la vita tre minorenni), altrettante per il collasso della facoltà di Ingegneria, più l'ex vice capo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis , cui sono stati inflitti due anni di reclusione per l’informazione “imprudente” e “scorretta” che rassicurando immotivatamente i cittadini fece aumentare il numero delle vittime. Circostanza che non gli ha impedito di essere in prima linea nella macchina dei soccorsi nei giorni scorsi, essendo la sua pena stata sospesa. Nelle aule di giustizia molti altri casi si sono conclusi con l’assoluzione, spesso chiesta direttamente dall’accusa. «Processi del genere sono molto complessi» spiega il sostituto procuratore Fabio Picuti, che li ha seguiti tutti: «Molte case erano costruite con tecniche di un secolo fa, quando le norme antisismiche non erano ancora in vigore, e questo ci ha spinto a chiedere l’archiviazione. In altri casi si trattava di edifici realizzati male in partenza ma decenni fa, e i progettisti erano morti o molto anziani e quindi incapaci di affrontare i processi. E poi non bisogna dimenticare che per giungere a una condanna bisogna dimostrare un nesso causale fra i crolli e i lavori di ristrutturazione: si rivelano fondamentali le perizie e non sempre si riescono a provare condotte colpevoli». A questo complicato groviglio si aggiunge la prescrizione. Giovedì 6 ottobre si estingueranno tutti i processi non ancora conclusi. Secondo quanto previsto dalla legge ex Cirielli, infatti, i delitti con pena massima di cinque anni, come l’omicidio colposo, si estinguono dopo sei anni. Se c’è stata qualche interruzione, si può ottenere un altro 25 per cento di “bonus”. Totale: sette anni e mezzo dal sisma del 6 aprile 2009. Senza la riforma del governo Berlusconi sarebbero stati cinque in più: fondamentali per accertare tutte le responsabilità. Il risultato è che andrà sicuramente in fumo il processo per il crollo del palazzo di via D’Annunzio, che costò la vita 13 persone. A maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna dell’ingegnere che restaurò l’edificio (costruito negli anni ’60 con calcestruzzo scadente) e non si accorse dei rischi: tre anni e mezzo di reclusione in primo grado, ridotti a 22 mesi in appello e adesso tempi insufficienti per affrontare nuovamente due gradi. Situazione identica per i due palazzi gemelli che in via Sturzo provocarono 29 vittime. Anche in questo caso, a causa del calcestruzzo di scarsa qualità ed errori di progetto. Solo che quattro presunti responsabili sono deceduti e l’unico superstite ha quasi 90 anni. Così, dopo i tre anni comminati in primo grado, il giudizio si è fermato a causa delle sue condizioni di salute. E si salveranno pure i due imputati per il crollo di due palazzi in via Milonia, condannati a due anni di carcere: il processo è ancora in Corte d’Appello. Ci sono poi le inchieste finite nel nulla. Magari perché la Cassazione ha ribaltato i verdetti precedenti: nel crollo del condominio di via Rossi morirono in 17 e l’amministratore e direttore dei lavori di rifacimento del tetto (che sotto le macerie perse la figlia), dopo essere stato condannato in primo e secondo grado per disastro e omicidio colposo plurimo, a giugno è stato assolto con formula piena: “il fatto non sussiste”. Per il collasso dello stabile di via XX Settembre 123 (cinque morti), invece, l’unico imputato ancora in vita, il collaudatore oggi 91 enne, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio. In altri casi i palazzi erano talmente mal costruiti, secondo le perizie, da rendere impossibile addebitare alcunché alle ristrutturazioni. Tanto da spingere l’accusa a chiedere l’assoluzione, come per gli edifici di via XX Settembre 79 (nove morti) e via Persichetti (due vittime). E nessuno ha pagato nemmeno per i danni subiti dall’ospedale, reso inagibile dal sisma al punto che quel 6 aprile i feriti dovettero essere medicati sul piazzale antistante: quattro imputati tutti assolti. La Procura, che aveva chiesto tre condanne, non ha nemmeno impugnato la sentenza. Anche chi ha pagato spesso se l’è cavata con poco. Oltre al già citato vice di Bertolaso, De Bernardinis, ci sono i quattro tecnici ritenuti colpevoli per il crollo della Casa dello studente (otto morti): pene comprese fra due anni e mezzo e quattro anni per accuse che vanno dal disastro alle lesioni all’omicidio colposo, ma pure a due di loro il provvedimento è stato sospeso per motivi di salute. Ventidue mesi di reclusione (quattro anni inizialmente) e interdizione quinquennale dai pubblici uffici, invece, per il direttore di cantiere e il direttore dei lavori della facoltà di Ingegneria, che collassò e non uccise nessuno solo perché era notte: qualche ora dopo sarebbe stata una tragedia. Infine i due responsabili del crollo del Convitto (tre vittime), accusati di inerzia anche per non aver fatto evacuare la scuola, frequentata da minori, dopo la prima forte scossa che precedette di poco quella fatale: il dirigente della Provincia con delega all'edilizia scolastica (due anni e mezzo di reclusione) e l’ex rettore Livio Bearzi (quattro anni). Per quest’ultimo dopo l’arresto si sono mobilitati il sindacato dei presidi, gli enti locali, vari parlamentari. La governatrice Debora Serracchiani ha addirittura scritto a Sergio Mattarella. Tutti concordi nell’ingiustizia di mandare in prigione un preside. Dopo 44 giorni Bearzi, che ha anche chiesto la grazia al Quirinale, è stato scarcerato. Ora è ai servizi sociali. 

Dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, Enzo Boschi scrive al Corriere della Sera, scrive "Il Foglietto" il 26 Novembre 2015. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera inviata dal geofisico Enzo Boschi al direttore del Corriere della Sera, all’indomani della sua piena assoluzione in Cassazione. “Caro Direttore, a pagina 25 del suo giornale del 21 novembre 2015, in basso a destra, in una decina di righe di una piccola frazione di colonna, con il titolo "Sisma all'Aquila. Assolti gli Scienziati", è apparsa la notizia che la Cassazione ci ha assolto definitivamente. Eravamo già stati assolti con formula piena un anno fa nel processo d'appello. Ovviamente lei è padrone di pubblicare come meglio crede ciò che crede opportuno. Tuttavia, giornali prestigiosi come La Repubblica, La Stampa e Il Messaggero ... hanno dato un adeguato risalto alla notizia. Lo scopo di questa mia lettera non è quindi di recriminare con lei, ci mancherebbe. Piuttosto vorrei farle notare la sproporzione fra il trafiletto di sabato e il lungo articolo apparso sul Corriere della Sera del 28 ottobre 2012, all'indomani della nostra condanna nel processo di primo grado. È un articolo scritto da un'anziana Signora, autrice di libri dimenticabili e dimenticati. Non ha mai seguito il processo svoltosi a L'Aquila, dove peraltro non mi sembra siano capitati giornalisti del Corriere. Ciononostante, la Signora sembra far fatica, nell'empito del suo sfogo, nel trattenersi dal chiedere per noi la pena di morte per impiccagione. Ebbene, se avesse seguito il processo, cioè se avesse provato l'esperienza di scrivere di cose a lei note, forse si sarebbe accorta di qualche incongruenza. Per esempio, il Sindaco Cialente durante la sua deposizione al processo dichiara che era rimasto fortemente impressionato dalle mie dichiarazioni sulla pericolosità sismica abruzzese, tanto da prendere misure cautelari. La cosa può essere verificata senza dubbi di sorta! Lo dichiara anche in un’intervista successiva alla deposizione, che può essere trovata sul web. Addirittura arriverà a chiedere lo stato di emergenza per la sua città. Il 2 aprile 2009, quattro giorni prima del terremoto, Il Centro, il più importante giornale abruzzese, dedicherà a questa sua richiesta un'intera pagina. L'incongruenza, che poteva esser compresa anche dalla Signora, risiede nel fatto che il PM e il Giudice di primo grado hanno ignorato le dichiarazioni di Cialente mentre sono state uno degli argomenti che hanno portato il Giudice del processo d'appello ad assolverci con formula piena. Inoltre, se la Signora era così convinta nell'accusarci di aver rassicurato gli aquilani, l'avrà senz'altro fatto sulla base di riscontri. Strano che nessuno abbia trovato alcunché che giustifichi la sua indignazione. Mi rendo conto che a una certa età anche un viaggio Roma-L'Aquila-Roma può essere faticoso ... Potrebbe allora coltivare il dubbio come fanno le persone colte e intelligenti e di conseguenza informarsi. Invece, nell'articolo, la Signora ci indica come riferimento morale la Senatrice Pezzopane, all'epoca, credo, Presidente della Provincia de L'Aquila. Ebbene la invito, caro Direttore, ad ascoltare sul web alcune conversazioni fra la Pezzopane e la Stati, all'epoca Assessora per la Protezione Civile della Regione Abruzzo, cioè (titolo V della Costituzione) la massima e unica autorità in materia di sicurezza dei cittadini abruzzesi. Per sua comodità le allego una pagina della trascrizione del dialogo "illuminante" Pezzopane-Stati ...Mi farebbe piacere che anche la nostra spietata accusatrice ne prendesse visione ... forse potrebbe anche trovarne una qualche ispirazione per uno dei suoi romanzetti. Non credo che lei pubblicherà questa mia lettera. In fondo quando uscì l'articolo, il Corriere era diretto da altri. Mi piacerebbe tuttavia conoscere la sua opinione su un fatto: perché, secondo lei, la richiesta di stato di emergenza non fu concessa? Se fosse stata concessa forse non ci sarebbero state vittime ... o sarebbero state molte meno. E perché, secondo lei, nessun giornale si è posto questa domanda? Una ragione ci sarà, c'è sempre una ragione ...Grazie per l'attenzione. Enzo Boschi”.

TERREMOTO DELL’AQUILA. C’E’ IL COLPEVOLE! CAMORRISTI, SCIENZIATI & FACCENDIERI TUTTE VIOLE MAMMOLE. Scrive il 9 dicembre 2015 Paolo Spiga su "La Voce delle voci". Dentro il primo! Terremoto dell’Aquila, 309 corpi sotto le macerie quel maledetto 6 aprile 2009. Finalmente la implacabile giustizia comincia a colpire, il pugno di ferro dei magistrati a farsi sentire. In galera i progettisti che hanno inventato case di cartone? I costruttori che hanno usato materiali scadenti? Chi ha impugnato compassi, ruspe e betoniere per la ricostruzione post sisma? Casalesi arrivati in un baleno a impastare calcestruzzo, subappalti e milioni di euro? Politici collusi? Colletti bianchi? Scienziati della commissione “Grandi Rischi” che non hanno allertato sugli imminenti pericoli? No. La mannaia è scesa sul capo di Livio Bearzi, il preside del convitto “Domenico Cutugno” dove persero la vita tre studenti e altri due rimasero feriti. Condannato a 4 anni per omicidio colposo, avendo “omesso di valutare l’enorme pericolo incombente” e colpevole – secondo gli ermellini del palazzaccio di Roma – di non aver fatto uscire in tempo i ragazzi dal convitto killer. Eccolo, dunque, il Grande Colpevole, Bearzi. E chi se ne frega se più volte, nei mesi precedenti, aveva denunciato alla Provincia – proprietaria dell’istituto – tutte le insidie rappresentate da una struttura costruita addirittura duecento anni prima, e con tutti i segni dell’età nelle strutture! “Non c’è alcun pericolo – avevano rassicurato – prima o poi daremo a sistematina. Ma per ora potete stare sereni”. Renziani ante litteram, i solerti amministratori della Provincia? Ma per fortuna oggi giustizia è fatta. Il mostro di Cividale è assicurato alle patrie galere. Forse perchè – avranno pensato i togati – porta anche sfiga. Si era salvato per miracolo, quasi quarant’anni fa, nel 1976, dal terremoto che sconvolse il Friuli: era con i calzoncini corti, allora, studente del convitto. I terremoti, forse, sono nel suo Dna: e anche per questo la galera è sacrosanta. Un fesso pericoloso, il preside, secondo la giustizia di casa nostra: non fu in grado di capire quanto i cervelloni, gli Einstein della commissione “Grandi Rischi” potevano tranquillamente non sapere, come ha poche settimane fa stabilito la stessa Cassazione. Ergo: i geni come Franco Barberi ed Enzo Boschi, che conoscono ogni piega del territorio e “ascoltano” il nostro suolo come neanche una mamma con il bimbo in grembo, sono giustificati circa il loro clamoroso flop e, per di più, non sono colpevoli di aver in somma incoscienza “rassicurato” i cittadini e tranquillizzato il popolo bue aquilano (giusta vittima sacrificale). Il preside Bearzi, invece, doveva “prevedere” il futuro: gli è mancata – gigantesca colpa – la palla di vetro…Caritatevole, corre in soccorso del condannato a 4 anni di galera il procuratore capo dell’Aquila Franco Cardella: “posso soltanto esprimere la mia solidarietà per il dramma della persona. Un uomo di scuola che perde i propri studenti è come il capitano che vede affondare i marinai”. Uno Schettino sulle scole d’Abruzzo: solo che il comandante, che ha sulla coscienza i 32 morti del Giglio, è libero (per ora) come un fringuello. Ma il lavoro, a quanto pare, ferve nel foro dell’Aquila. Un iper attivismo per far luce su tanti altri colpevoli di quelle morti sotto le macerie del sisma. Alcuni avvocati parlano di “oltre 200 procedimenti aperti”. Un pò – c’è chi racconta – “come quando Fantozzi dava i numeri sui gol per le partite della Nazionale, 15 a 7 o 24 a 12. Solo che qui la situazione non è tragicomica, ma solo tragica, perchè si tratta di giustizia finora negata ai familiari delle vittime”. Numeri a parte (la quota di 200 sembra davvero campata per aria, a meno che non vengano comprese eventuali – e poco immaginabili – liti condominiali post sisma) è la qualità delle inchieste e dei relativi processi che desta non poca preoccupazione. “Una delle indagini cardine riguarda la malcostruzione dei balconi per il progetto Case – racconta un architetto – alcune centinaia di situazioni. Ma con tutto quello che è successo sembra il classico topolino…”. Tutto quello che concerne la malcostruzione di prima, la prevenzione zero, la non informazione dei cittadini sui rischi, i soccorsi e l’emergenza, le varie fasi della ricostruzione post sisma…, su tutto questo – un vero ben di Dio – non si muove una foglia. Affaristi, politici, camorristi, faccendieri d’ogni specie possono dormire sonni tra tanti morbidi guanciali. Perchè la giustizia di casa nostra funziona così: basta un preside in galera perchè non ha suonato la campanella… 

Magistrati al posto di scienziati. Pontificano su terremoti, su ogm, su stamina, su Xylella, su prospezioni, su onde herziane. Fanno spesso buchi nell'acqua, sprecando tempo e risorse, scrive Domenico Cacopardo.  Se David Bowie, il duca bianco, che aveva raffigurato se stesso nei panni di un marziano che cade sulla terra, si reincarnasse in Italia avrebbe di che rimanere, nel giro di qualche ora, stupificato (magnifico neologismo attribuibile alla rabbina Barbara Aiello). Nel mondo della tecnologia, figlia della scienza, in Italia scoprirebbe che gli scienziati non vanno di moda, né vanno di moda i termometri. Il potere giudiziario, infatti, conferendo a se stesso un esercizio del potere che va al di là del sapere scientifico, ama aprire e condurre processi alle fonti del sapere, spesso contestate, per meri interessi di botteguccia da chi la scienza non sa dove sta di casa. Pensiamo al caso L'Aquila con i sismologi condannati e assolti in appello. Pensiamo al caso Stamina, una ciarlateneria che, per alcuni anni, è stata presa sul serio da magistrati che hanno creduto alla pietra filosofale, più che alle valutazioni del Consiglio superiore di sanità, contribuendo alle illusioni di ammalati e loro familiari sulle virtù terapeutiche di un metodo inesistente sul piano scientifico e su quello dei risultati. A quanto è dato di capire da un breve giro sul web, Stamina esiste ancora ed è illegalmente praticato nel territorio della Repubblica italiana. Pensiamo al caso della Xylella (Xylella fastidiosa, batterio Gram negativo che vive e si riproduce all'interno dell'apparato conduttore della linfa grezza) che ha colpito grandi superfici pugliesi coltivate a olivi. Per combatterla, l'Unione europea e lo Stato italiano, hanno avviato un programma di abbattimenti di essenze malate e di essenze sane, in prossimità, appunto, di quelle colpite per realizzare una specie di cortina sterile a difesa del resto delle piantagioni. Ovviamente, sono sorti subito comitati e comitatini di oppositori della misura profilattica, supportati da sedicenti tecnici o da tecnici veri che, tuttavia, non hanno responsabilità specifiche nella gestione del problema. Ebbene, anche in questo caso non si trova di meglio che processare gli scienziati che hanno identificato il batterio e che hanno indicato le terapie difensive da attuare. Anche per il Muos siciliano, alcuni magistrati, in contestazione degli studi del Consiglio superiore di sanità (con il Cnr), hanno avviato un procedimento nei confronti dei realizzatori dell'opera, vitale per la sicurezza dell'Occidente e dell'Italia, sulla base di non dimostrate né dimostrabili conseguenze nei confronti della popolazione civile. In Puglia, l'ipotesi di ampliare le aree di prospezioni petrolifere in mare Adriatico, nell'interesse primario della bilancia dei pagamenti italiani e dell'economia nazionale e regionale, incontra l'opposizione di Notriv, una specie di Notav, mobilitati nella ingiustificata opposizione a una possibile via di rilancio economico. Il presidente della Regione, Emiliano, i cui passi da borghese da grand-élite non disdegnano le vie della smaccata demagogia, indulge nell'appoggio ai Notriv, per ricostruirsi un'immagine, dopo il deterioramento provocato da anni di potere. La Lucania, ora, gode degli effetti positivi dei ricavi da estrazione di petrolio, dopo avere combattuto tale possibilità. Messina è governata da un desperado agitatore che è riuscito a convincere l'elettorato della città a eleggerlo sindaco sulla stupida e autolesionistica promessa Noponte. Anni di studi di scienziati buttati nel cesso da un professore di ginnastica con la vocazione del protestatario. Certo, onesto rispetto ai soldi, ma privo dell'onestà intellettuale di ammettere che chi sa più di lui, sa più di lui. Vedrà anche il nostro David Bowie, marziano in Italia, che si processano i termometri non le febbri. In passato, da una procura italiana furono mandati avvisi di garanzia o mandati di comparizione a Reagan, Gorbaciov, Mitterand per commercio di armi nucleari. Il commercio di armi è stato anche il settore elettivo di alcuni magistrati per avviare procedimenti nei confronti di capi di governo e ministri della difesa. Tutti finiti in una bolla di sapone. In tema di termometri, sembra di questo genere il processo alle agenzie di rating in relazione al quale si sarebbero svolti costosi (e di dubbia utilità) accessi in uffici americani. La prima vittima di questo caos, è il sistema giudiziario italiano: migliaia di magistrati tessono la tela per una giustizia operosa e tempestiva, in silenzio facendo senza apparire, mentre altri appaiono senza fare (il caso de Magistris e le recenti assoluzioni di tutti coloro che lui aveva accusato di vari reati contro l'amministrazione). Eppure ci vorrebbe poco, se il governo Renzi, che si autoqualifica governo del fare, decidesse di mettere alla prova la capacità dell'Associazione nazionali magistrati di convenire una piattaforma di iniziative amministrative e legislative per dare ai processi tempi normali, analoghi a quelli degli altri paesi. Con ciò getterebbe un bel guanto di sfida. Per quel che riesco a capire, la sfida sarebbe accolta e dal caos creativo (e distruttivo) passeremmo a un ordine creativo, capace di battere la strada della certezza del diritto, della pena e della sentenza, un qualcosa che sembra, appunto, appartenere più a Marte che all'Italia repubblicana e democratica. Basterebbe riflettere sul felice esito della questione della caserma Manara, finalmente ceduta - ma solo dopo l'avvio di un'azione di coordinamento e pungolo della presidenza del consiglio - all'amministrazione della giustizia che lì concentrerà gli uffici giudiziari civili, lasciando l'infelice pseudobunker di Piazzale Clodio a quelli penali in una purtroppo ritardata razionalizzazione del sistema giustizia romano. Non è infatti vero che in Italia non si può cambiare nulla: fa solo comodo a pochi non cambiare nulla. Per gli altri, per la collettività cioè il cambiamento è vitale. Basterebbe pensare com'è cambiato il paese per la semplice (mica tanto) costruzione dell'Alta velocità Torino-Milano-Salerno per capire come serve intervenire nelle arterie della penisola rendendole tal quali la modernità pretende. Il nostro Bowie, infine, rimarrebbe senza parole osservando come una parte della sinistra storica italiana è fisiologicamente conservatrice e combatta tutto ciò che comporta, in fin dei conti, nuova occupazione (il ponte sullo Stretto) e futuri benefici per la collettività. La vecchia psicopatologia, tutti uguali, perciò poveri e disperati che ispirò le politiche economiche dell'Urss, continua ancora a colpire nella Corea del Nord e, per fortuna solo in modo marginale, in Italia. ItaliaOggi. Numero 016, pag. 5 del 20/01/2016.

Giustizia folle dopo L'Aquila: 200 inchieste, poche condanne. Anche in Abruzzo il sisma del 2009 scatenò le procure. Ma il bilancio è un flop: 19 processi e assolti a pioggia, scrive Giuseppe Marino, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". Il dolore causato dal terremoto dell'Aquila, così come quello di Amatrice, non è risarcibile, eppure è nella natura umana cercare un colpevole. Ma a nessuno gioverà il tormento ricaduto sulle spalle di decine di persone finite nel mirino della magistratura dopo la tragedia. Spesso con risultati modesti, un copione da non ripetere ad Amatrice e dintorni. All'indomani del terremoto del 6 aprile 2009, proprio come sta accadendo ora tra Ascoli e Rieti, cominciò a spirare un potente vento giustizialista e non solo tra chi aveva legittimamente diritto a chiedere conto delle morti. La Procura dell'Aquila avviò duecento fascicoli di inchiesta sui crolli. A distanza di sette anni, i dibattimenti che risultano effettivamente aperti sono solo 19 e le condanne una manciata. Ci sono poi altri processi collaterali, come quello contro la Commissione Grandi rischi, terminato con una sola condanna. Ma è anche sul piano della «qualità» delle condanne che si può nutrire qualche dubbio visto l'esito di tanto sforzo giudiziario. Anche allora, come oggi, giornali e tv diedero in pasto all'opinione pubblica notizie di losche macchinazioni per appropriarsi cinicamente di soldi pubblici in barba ai rischi per gli edifici, sospetti su clamorose truffe nelle costruzioni che poi furono causa di morti. A guardare bene però, fin qui a pagare sono state un pugno di uomini, a loro volta spesso già colpiti personalmente dal terremoto. Sono due i casi clamorosi che hanno condotto a condanne definitive. Per i ragazzi morti alla Casa dello studente sono stati ritenuti colpevoli tre tecnici che eseguirono un restauro e il presidente della commissione di collaudo. Per il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila, sotto le cui macerie morirono tre studenti, è stato condannato a 30 mesi un ingegnere della Provincia, ma in carcere è finito solo il povero preside Livio Bearzi, che in quell'edificio viveva con la sua famiglia, incolpato di «aver omesso di valutare l'enorme pericolo incombente» e non aver evacuato preventivamente l'edificio. Un caso umano, che ha spinto anche una richiesta di grazia e si è presto tramutato in servizi sociali per Bearzi. Tutti assolti in Cassazione invece per uno dei crolli più letali, quello dell'edificio di via XX Settembre, che provocò nove vittime. Bearzi non è l'unico caso umano tra i condannati. Ci sono anche un 80enne e un 84enne, accusati di aver conferito l'incarico di direttore dei lavori di restauro di un palazzo nel quartiere di Pettino a un geometra anziché a un ingegnere: quattro anni di carcere, nonostante il palazzo abbia retto al sisma dando modo a tutti gli inquilini di salvarsi e sia crollato solo dopo nove giorni. Ed è stato invece prosciolto il geometra. Ci sono poi tecnici che hanno dovuto combattere anni in tribunale. Come l'ingegner Diego De Angelis. Fu processato per il crollo di un palazzo di cui aveva curato gratis il restauro del tetto. Era il condominio in cui viveva e in quel disastro morì la figlia Jenny. Sette anni con il tormento per la perdita e per le accuse infamanti per poi essere assolto in Cassazione. «In una città come L'Aquila, con un sisma così forte molti crolli erano inevitabili - dice Gianluca Racano, avvocato aquilano che ha seguito alcuni processi - ma concentrare tutte le energie sulla caccia al colpevole è fuorviante, il problema della cultura anti sismica è politico».

Nordio, il pm contro: "Trovare i colpevoli? Una caccia alle streghe". "La nostra società non ammette l'imponderabile, non sarà facile dimostrare chi e se ha sbagliato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". La caccia alle streghe non gli è mai piaciuta e la rotta non cambia nemmeno oggi. Anche se ci sono i morti, i crolli, le rovine. «Dopo il terremoto - dice Carlo Nordio - si è scatenata una corsa spasmodica alla ricerca del colpevole, si additano presunti responsabili di qua e di là, ma questo meccanismo mi lascia perplesso. Mi pare che la società contemporanea, laicizzata, cerchi il capro espiatorio per superare tragedie che altrimenti sarebbero insuperabili, con il loro carico di morte e di dolore». Va controcorrente anche questa volta il procuratore aggiunto di Venezia, uno dei magistrati più famosi d'Italia, prima con un editoriale per il Messaggero, poi con questa intervista al Giornale.

Dottor Nordio, che cosa non la convince?

«Viviamo in un mondo che non accetta più il lutto, il cataclisma, il terremoto che ci annichilisce e annulla le nostre presunte certezze. Un mondo che ha perso il senso del sacro».

Certo, ma qui parliamo di costruzioni inadeguate, di ritardi, di soldi mal spesi o dimenticati.

«Un attimo, questo viene dopo».

E prima cosa c'e?

«Se la società non ammette più che ci sia qualcosa che sfugge al proprio controllo, allora subito dopo il disastro parte la caccia al colpevole. Per forza. A prescindere».

Scusi ma l'Italia è piena di tecnici che hanno chiuso gli occhi e di collaudatori che hanno certificato ristrutturazioni che gridavano vendetta.

«Non sono nato ieri e faccio di mestiere il pubblico ministero, ma segnalo un modo di ragionare che secondo me è distorto. Si parte in automatico alla ricerca del colpevole e, siccome siamo in Italia e tutto viene giurisdizionalizzato, il colpevole diventa imputato a furor di popolo e va alla sbarra. Mi pare che in questi giorni si stia assistendo allo stesso fenomeno».

Guardi che sono stati i suoi colleghi a denunciare anomalie, stranezze, incongruenze. Dovrebbero forse fingere che tutto è stato fatto a regola d'arte?

«Ovviamente no, ma ci vuole cautela, non si può procedere impulsivamente, sulla base di sentimenti e risentimenti».

Si faranno indagini e verifiche e alla fine chi non ha rispettato la legge sarà punito. Non è giusto che sia così?

«Si, purché si sappia che sarà molto difficile dimostrare le colpe che tutti oggi danno per sicure».

Perché?

«Perché non è affatto semplice arrivare a una condanna per omicidio colposo o per disastro colposo, il reato classico del terremoto. Attenzione: nel processo non basta stabilire che i lavori siano stati fatti male, no si deve dimostrare che se fossero stati eseguiti nel migliore dei modi quella casa oggi non sarebbe in macerie, quel campanile non sarebbe venuto giù, quella chiesa sarebbe ancora al suo posto. Capisce?»

Non si può andare avanti per slogan o tesi semplicistiche?

«L'Italia è un Paese complesso, parliamo di un patrimonio che ha centinaia di anni, parliamo di beni che hanno avuto una vita lunga e travagliata, parliamo di opere con vincoli di ogni tipo. Naturalmente per gli edifici costruiti negli ultimi anni il discorso è più facile, ma molte abitazioni sono il risultato finale di interventi spalmati nel tempo».

Il paragone con il Giappone non regge?

«Non sono mai stato in Giappone ma mi pare che i nostri borghi e le nostre città abbiano una fisionomia assai diversa dalla loro».

L'indignazione di oggi lascerà il posto ad un'interminabile guerra di perizie?

«È un rischio concreto: perizie e controperizie in un estenuante duello fra le parti. Con un ulteriore problematica: se scopriamo che i privati per risparmiare non hanno effettuato le migliorie previste che facciamo, mettiamo sotto inchiesta le famiglie dei morti?».

D'accordo, ma l'Italia è il Paese delle tangenti, delle abitazioni realizzate più con la sabbia che con il cemento, dello scandalo dell'Irpinia. Vuole forse passare con la spugna su decenni di ruberie?

«No, dobbiamo perseguire la tangente, il falso, l'abuso, ma il disastro colposo non ammette scorciatoie. E poi dobbiamo metterci in testa che nel codice penale non esiste l'imponderabile, anche se nel nostro Paese sono stati processati perfino i professori che non avevano previsto, poveretti, il terremoto dell'Aquila».

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

LE DONNE ABRUZZESI.

Le donne abruzzesi più spigliate e meno musone. Dalla nonna che sembra una trentenne alle professioniste che rispettano la tradizione, scrive Paola Sorge su “Il Centro” il 14 ottobre 2012. Questa estate a Pescara, in spiaggia. Una bella donna apparentemente trentenne, snella, capelli scuri lunghi sulle spalle, chiama una bimba che gioca in riva al mare. "Vieni, amore di nonna", le dice con affetto; poi a me che la guardo attonita, confessa di avere 63 anni. Gran parte delle abruzzesi di oggi non dimostrano la loro età; il bello è che restano giovani più a lungo non solo nel fisico: rispetto a venti o a trent'anni fa, hanno subito un cambiamento stratosferico che ne investe la mentalità, le abitudini, il comportamento. Tutti pazzi per le abruzzesi. Sarà perché fanno sport, respirano aria buona, curano il loro aspetto con la stessa tenacia con cui prima preparavano il corredo nuziale, le ragazze di oggi sono decisamente più belle, più alte, più slanciate di quelle delle generazioni passate; saettano sui pattini per il lungomare (ma anche le ultrasettantenni sfrecciano impavide per il centro in bicicletta), fiere della loro femminilità, ma senza malizia e civetteria; danno l'impressione di essere più sicure, consapevoli delle loro capacità. Sono autonome, hanno grinta. «Oggi la donna abruzzese è certamente più glamour», afferma Rosanna, accompagnatrice turistica. «Prima era semplice, schiva, non aveva tante esigenze, ora frequenta beauty farm, corsi di tango argentino e danza del ventre; prima era individualista, poco incline alle relazioni sociali, anche piuttosto permalosa, ora ha imparato a essere socievole e a fare squadra. Oggi sono tante le donne ai vertici di aziende importanti; prima erano subalterne, ora prendono le redini di un'impresa senza timori, occupano posti in passato riservati rigorosamente agli uomini; un esempio per tutti: quello di Valentina Maio, presidente del Lanciano Calcio». «Sono emancipate», rincalza Vittorina Castellano, nota scrittrice pescarese. «Adesso hanno la fortuna di avere tutte le facoltà universitarie qui in Abruzzo, per laurearsi non devono più trasferirsi a Roma o a Bologna. Sono finalmente al passo con le donne del Nord!» E poi c'è l'aeroporto di Pescara che è un grosso incentivo a conoscere il resto del mondo, come osserva Raffaella, ricercatrice universitaria: «Fino a vent'anni fa la vita delle ragazze era circoscritta all'ambiente familiare, oggi invece ci sentiamo cittadine del mondo, molte di noi si sono trasferite all'estero». I sogni delle giovanissime abruzzesi sono cambiati, non desiderano più sposarsi ma convivere; non vogliono figli, ma lavorare in Belgio, in Inghilterra, a Berlino. Il mondo femminile di ieri con le sue regole e le sue antiche tradizioni sembra scomparire di fronte all'ondata di novità e di stimoli continui che vengono dal mondo web, da quello imperante dell'economia, da quello dell'industria. Ma non tutto è perduto, anzi: assistiamo ora ad una rivalutazione della "abruzzesità", tornano in auge riti e miti del mondo contadino di un tempo, trionfano i prodotti dell'artigianato e quelli gastronomici della regione; prima quasi ci si vergognava delle proprie origini abruzzesi. Ora sono motivo di vanto: sono tante oggi le associazioni fondate da donne per promuovere la conoscenza dei tesori d'arte e delle bellezze naturali che rendono l'Abruzzo un piccolo paradiso. Gli uomini sono cauti, se non scettici, di fronte al boom delle abruzzesi emancipate, indipendenti e senza problemi: quelli avanti negli anni ancora ricordano i tempi, non poi tanto remoti, in cui una ragazza non poteva uscire da sola la sera, mentre oggi tutte, o quasi, godono, vivaddio, di libertà assoluta; ma non vuol dire che i problemi siano finiti: ci sono ancora, soprattutto nell'entroterra, nonne brontolone che vorrebbero impedire alle nipoti di andare all'università, mamme spaventate che vietano alle figlie di lasciare l'Abruzzo anche se per una nobile ragione come fare volontariato; le giovanissime a scuola hanno spesso difficoltà ad instaurare un rapporto con compagni e insegnanti. «Ma quando vincono la timidezza sono davvero autentiche!», esclama Andrea, giovane professore di liceo. «Niente a che fare con le ragazze del resto d'Italia. Pensi che una mia ex alunna mi ha mandato un mazzo di rose per il mio compleanno!». I ruoli si sono evidentemente ribaltati. Ma guai a meravigliarsene! Per le abruzzesi sposate e in carriera rimane il problema della cura della casa e dei figli. «Non trascurano gli affetti familiari, sono legatissime, come in passato, a genitori e a figli», insomma sono tuttora un po' «chiocce», afferma ancora Rosanna. «E tendono a mantenere la vita di coppia». Ma in Abruzzo oggi c'è il boom dei divorzi, rileva Lia, docente universitaria di antropologia culturale. «Il matrimonio tradizionale si reggeva sui sacrifici delle donne, "angeli del focolare"; ora che questo ruolo è superato, si creano gravi scompensi nella vita familiare», spiega. In tutto questo che fine hanno fatto le belle tradizioni gastronomiche che hanno fatto la gloria d'Abruzzo? Possibile che si debba sempre ricorrere a mamme e nonne per poter portare in tavola il "cardone", il timballo, la galantina che riempiono i giorni di festa di profumi e di allegria? Racconta Valeria, giornalista del Tg3: «Prima di Natale ero presa da una grande agitazione: volevo preparare per l'occasione brodo di gallina e galantina, volevo ricreare quell'atmosfera che avevo vissuto da bambina, piena di odori e sapori indimenticabili. Per me questo era quasi un obbligo e provavo un senso di colpa perché ogni volta non riuscivo a essere come mia madre e mia nonna. Invece è stata proprio mia madre a dissuadermi dai miei buoni propositi: mi ha detto che una donna che lavora tutto il giorno come me non deve avere questo peso, che devo inventarmi un nuovo modello di donna abruzzese». «Così - prosegue Valeria - «mi ha liberato per sempre dall'angoscia. Ora faccio le crispelle in brodo e il ciambellone per i miei figli, e lo faccio con gioia perché la mia è una scelta, non una costrizione». «Il "cardone" non lo so fare, ma sono ben radicata nella mia terra e guardo al futuro. Sono quella che sono grazie alle tradizioni che hanno reso felice la mia infanzia».

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

TERREMOTO: I 27 PROCESSI TRA CROLLI, RICOSTRUZIONE E INFILTRAZIONI.

Scrive Alberto Orsini il 5 aprile 2015 su Abruzzo Web. “La spada della giustizia non ha fodero”, diceva il conte Joseph de Maistre, spietato magistrato alfiere della restaurazione che seguì alla rivoluzione francese. E il suo detto sembra possa applicarsi benissimo alla ricostruzione post-terremoto dell’Aquila, che dopo 6 anni è costellata di procedimenti giudiziari che scandagliano ogni singolo aspetto di questa complicata vicenda. Madre di tutte le inchieste è quella sui crolli del terremoto, oltre 200 singoli filoni in origine, 19 dei quali sono approdati in giudizio con esiti dai più disparati. Ma ci sono inchieste nuove legate specificamente alla ricostruzione, che partono dalle infiltrazioni mafiose e arrivato agli appalti aggiustati per favorire questo o quello, fino ad arrivare ai guai delle new town dei progetti C.a.s.e.. AbruzzoWeb ha fatto il punto delle 30 principali inchieste attive al momento.

LA MAXI INCHIESTA CROLLI. CASSAZIONE. Il processo più noto a essere arrivato al giudizio di legittimità è quello alla commissione Grandi rischi, l’organo scientifico consultivo della presidenza del Consiglio che il 31 marzo 2009, a cinque giorni dalla tragedia, escluse il rischio di forti scosse di terremoto e rassicurò gli aquilani. Il 22 ottobre 2012 in primo grado il giudice Marco Billi ha emesso sette condanne a 6 anni di carcere per omicidio colposo e lesioni colpose, verdetto rovesciato il 10 novembre 2014 dalla sentenza di Appello, che ha assolto sei esperti dalle accuse, condannando il solo vice capo dipartimento della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis, con pena ridotta a 2 anni. L’avvocato generale Romolo Como ha depositato il ricorso e ora si attende la fissazione dell’udienza. Ugualmente si aspetta per il crollo in via generale Francesco Rossi, con l’unico imputato, Diego De Angelis, condannato per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni personali colpose gravi, che in Appello ha visto la sua pena ridotta da 3 anni a 1 anno e 11 mesi. Nell’edificio sono morte 17 persone tra cui sua figlia Jenny. Ancora il ricorso è stato presentato per il crollo del Convitto nazionale, dove le vittime furono 3, tutti minorenni: la Corte d’Appello ha stangato i due imputati, confermando la condanna a 4 anni di reclusione nei confronti dell’ex preside, Livio Bearzi, e, riformando la sentenza di primo grado, condannando anche il dirigente della Provincia dell’Aquila Vincenzo Mazzotta a 2 anni e 6 mesi di reclusione. Nel crollo della scuola persero la vita 3 minorenni. Dopo le pene ridotte al termine del processo d’Appello, hanno inoltrato un nuovo ricorso per provare ad annullare del tutto le condanne gli avvocati degli imputati per il crollo della facoltà di Ingegneria di Roio, dove non ci sono state vittime ma secondo le accuse con un sisma di giorno sarebbero potute essercene a migliaia. Il direttore dei lavori, Ernesto Papale, e quello di cantiere, Carmine Benedetto, restano condannati per disastro colposo, ma la loro pena è stata abbassata da 4 anni di carcere del primo grado a 1 anno e 10 mesi ciascuno. APPELLO. Il processo più vicino all’approdo al secondo grado di giudizio è quello per il crollo della Casa dello studente, dove morirono 8 giovani, che comincerà il prossimo 22 aprile 2015. Il ricorso è stato presentato da quattro imputati di omicidio colposo, disastro colposo e lesioni condannati nel processo di primo grado: Bernardino Pace, Pietro Centofanti e Tancredi Rossicone, tecnici autori dei lavori di restauro del 2000 sullo stabile, alla pena di 4 anni di reclusione; Pietro Sebastiani, tecnico dell’Azienda per il diritto agli studi universitari (Adsu) aquilana, che gestiva la struttura, alla pena di 2 anni e 6 mesi. Per il crollo in via XX settembre 123, dove ci sono state 5 vittime, il giudice Giuseppe Grieco ha assolto “per non aver commesso il fatto” Leonardo Carulli, 86 anni, originario di Francavilla Fontana (Brindisi) ma residente a Roma, dall’accusa di omicidio colposo. L’appello è stato presentato non dal pm ma dalla procura generale e dalle parti civili. Dopo alcuni slittamenti per vizi di notifica, l’udienza è fissata il prossimo 25 giugno. A presentare ricorso anche l’ingegnere aquilano Fabrizio Cimino, unico condannato, a 3 anni e 6 mesi di carcere, per omicidio colposo plurimo e lesioni, nell’ambito del processo per il crollo in via D’Annunzio, stabile costruito nel 1963 in cui ci furono 13 vittime. L’udienza è in via di fissazione. E ancora si attende il pronunciamento per il crollo in via Milonia, uno dei casi in cui non ci sono stati morti, con il giudice Billi che ha condannato a 2 anni di reclusione ciascuno per disastro colposo Berardino Drago, 80 anni, di Pizzoli (L’Aquila) e Angelo Sabatini, 84, di Roma, ritenuti colpevoli di aver commissionato a un geometra aquilano inizialmente indagato e poi scagionato la direzione dei lavori, pur non potendolo fare. Sospeso il ricorso per il crollo di via Luigi Sturzo, che pure ha mietuto ben 27 vittime: l’unico progettista sopravvissuto, Augusto Angelini, 88 anni, per gravi motivi di salute non può sostenere il processo d’Appello dopo la condanna in primo grado a 3 anni di reclusione. PRIMO GRADO. Per quanto riguarda i processi conclusi, ancora in corso o archiviati in primo grado, il prossimo 7 maggio 2015 si andrà a sentenza per il crollo in via Persichetti, dove sono morte due persone. Il giudice Grieco ha assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” i cinque imputati per il crollo del condominio al civico 79 di via XX Settembre, nel quale morirono 9 persone su richiesta dello stesso rappresentante della pubblica accusa. Non ci sono responsabili anche per i crolli all’interno dell’ospedale San Salvatore. Lo ha deciso il giudice Grieco che ha assolto tutti e 4 gli imputati dall’accusa di disastro colposo. Quattro le assoluzioni “perché il fatto non sussiste” per il crollo di un antico palazzo in via Roma 18, dove non ci furono morti, ma solo un ferito. La sentenza non è stata appellata dal pm, che aveva richiesto le assoluzioni, né dalla parte civile che è stata risarcita. Non è arrivato al dibattimento il crollo dell’edificio di via Campo di Fossa 6/B in cui morirono 27 persone perché gli 8 possibili indagati sono tutti morti. Stessa storia per il condominio di via Poggio Santa Maria: 19 morti, deceduto anche l’unico indagato a 96 anni, così come per via Cola dell’Amatrice, 11 morti, per via Corridoni, una vittima, e per via Gualtieri d’Ocre. Anche il processo per il crollo dell’hotel Duca degli Abruzzi, che solo per un caso non provocò vittime, non si svolgerà mai. Nel corso dell’udienza preliminare sono state presentate le perizie mediche in base alle quale i due imputati, Claudio Botta di 92 anni, e Franco Seri, 87 anni, ex dirigente del Genio Civile, sono troppo anziani e con problemi di salute per poter stare in giudizio.

INFILTRAZIONI MAFIOSE. La prefettura dell’Aquila ha disposto delle interdittive antimafia a carico di 37 imprese impegnate nella ricostruzione post-sisma, considerate in odore di mafia o, comunque, da tenere sotto controllo. Di questi, ben 28 risulterebbero impegnati nella ricostruzione di opere pubbliche mentre le restanti 9 stavano lavorando nei cantieri privati dove, su ammissione di istituzioni e forze dell’ordine, è più facile infiltrarsi a causa della carenza di regole con le commesse, anche ingenti, affidate direttamente e senza gara. A livello geografico, 11 di queste ditte hanno sede al Nord, 19 al Centro, e tra queste 12 all’Aquila, e le altre nel Sud. 'NDRANGHETA. State già fissate le due prossime udienze, la prima il 17 aprile 2015 e la seconda l’8 maggio, del processo nato dall’inchiesta “Lypas” che, il 19 dicembre 2011, aveva portato all’arresto dell’imprenditore aquilano Stefano Biasini, dei fratelli Antonino Vincenzo Valenti e Massimo Maria Valenti, nati a Reggio Calabria, ma residenti da tempo all’Aquila, e di Francesco Ielo, nato a Reggio Calabria e residente ad Albenga (Savona). Per Massimo Maria Valenti al momento il giudizio è sospeso per motivi di salute in vista di una verifica sulla sue condizioni. Secondo le accuse, le infiltrazioni sarebbero state rese possibili grazie al gancio dell’imprenditore aquilano Stefano Biasini, figlio del noto geometra e amministratore di condominio Lamberto, quest’ultimo non coinvolto ma oggetto delle attenzioni dei calabresi, mai andate a buon fine, per accaparrarsi appalti di ricostruzione. CAMORRA. La malavita organizzata colonizzava cantieri di ricostruzione facendo lavorare dipendenti sottopagati a metà stipendio provenienti dalla Campania: questa la realtà scoperta nell’inchiesta giudiziaria “Dirty job” del giugno 2014 che ha portato all’arresto di 7 imprenditori e alla clamorosa accusa di collusione con la Camorra. Ai domiciliari sono finiti Elio Gizzi, ex presidente dell’Aquila Calcio, e i fratelli Dino e Marino Serpetti. Destinatari di misure cautelari in carcere sono invece Alfonso, Cipriano e Domenico Di Tella e Michele Bianchini. Gli imprenditori sono tutti aquilani a eccezione di Bianchini, originario di Avezzano (L’Aquila). Gli indagati hanno ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini e sono in attesa che venga fissata l’udienza preliminare. Come costola di questa inchiesta, un imprenditore impegnato negli appalti per la ricostruzione, Raffaele Cilindro, 51 anni, ritenuto dagli inquirenti vicino all’ex boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria, è stato arrestato dai Ros nell’ambito di un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Napoli, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, sostituti Catello Maresca e Maurizio Giordano. Vanno ancora chiarite le commesse che avrebbe puntato e per questo il sindaco, Massimo Cialente, ha invitato: andiamoci piano con le etichette. Le indagini sono ancora in corso. Nell’ambito della stessa indagine, i carabinieri del reparto territoriale di Aversa (Caserta) con i colleghi della compagnia dell’Aquila hanno localizzato e tratto in arresto a Tornimparte (L’Aquila) Salvatore Tana, 28enne originario di Teverola in provincia di Caserta, che lavorava come operaio alle dipendenze di una ditta edile casertana impegnata nella ricostruzione. Anche qui si indaga ancora.

APPALTI DI RICOSTRUZIONE PUBBLICA. Si svolgerà il prossimo 29 aprile 2015 l’udienza davanti al giudice per l’udienza preliminare del tribunale dell’Aquila Guendalina Buccella sulla richiesta di rinvio a giudizio per gli 8 indagati nell’ambito dell’inchiesta “Do ut des” su un presunto giro di tangenti negli appalti della ricostruzione pubblica post-terremoto del 6 aprile 2009. La bufera giudiziaria ha provocato una crisi politica profonda nel Comune dell’Aquila con le dimissioni e la contemporanea rimozione del vice sindaco indagato, Roberto Riga, sostituito dall’ex procuratore Nicola Trifuoggi, e le dimissioni, poi ritirate, del primo cittadino, Massimo Cialente. Tutto è cominciato l’8 gennaio dello scorso anno, con l’arresto ai domiciliari di 4 persone: Vladimiro Placidi, ex assessore comunale alla Ricostruzione dei beni culturali della scorsa Giunta Cialente, Pierluigi Tancredi, all’epoca dei fatti consigliere comunale, che si è dimesso dopo il terremoto, e in passato assessore comunale di centrodestra, Daniela Sibilla, dipendente del Consorzio beni culturali e già collaboratrice di Tancredi durante i suoi mandati di assessore, e Pasqualino Macera, all’epoca dei fatti funzionario responsabile Centro-Italia della Mercatone Uno Spa. Altri quattro gli indagati a piede libero: l’allora vice sindaco Riga, il dirigente comunale Mario Di Gregorio, l’ingegnere di Perugia Fabrizio Menestò e l’imprenditore Daniele Lago. Menestò è stato poi scagionato dalla pesante accusa di appropriazione indebita di 1 milione 200 mila euro per la quale la procura ha chiesto l’archiviazione: gli resta soltanto la contestazione di falso, mentre a Di Gregorio l’abuso d’ufficio. Le accuse, a vario titolo, sono di millantato credito, corruzione, falsità materiale e ideologica e appropriazione indebita. Sono ancora in fase di notifica invece le richieste di rinvio a giudizio dell’indagine “Betrayal”, “tradimento”, su presunte mazzette nell’ambito della ricostruzione pubblica per accaparrarsi appalti per il recupero di beni culturali ed ecclesiastici nel centro storico. Sono state 5 le ordinanze di custodia cautelare, di cui 2 in carcere e 3 agli arresti domiciliari, eseguite da Polizia e Guardia di finanza nei confronti dell’ex vice commissario ai Beni culturali alla ricostruzione Luciano Marchetti, della funzionaria del Mibac Abruzzo, Alessandra Mancinelli, e degli imprenditori Nunzio Massimo Vinci, Patrizio Cricchi e l’aquilano Graziano Rosone. Sono 17 gli indagati complessivi. L’operazione ha visto al centro la ricostruzione di due importanti chiese distrutte: Santa Maria del Suffragio (nota come delle Anime Sante) in piazza Duomo e Santa Maria Paganica nella piazza omonima. Per quest’ultima esiste anche un filmato che testimonia una tangente da 10 mila euro effettuata dentro un’automobile nei pressi di un ristorante di Carsoli (L’Aquila). Dalle carte giudiziarie sono emerse anche le forti pressioni perché la Curia arcivescovile dell’Aquila diventasse soggetto attuatore della ricostruzione dei suoi beni ecclesiastici. Un’attività di lobby portata avanti da alcuni degli indagati, che puntavano a ottenere incarichi, regalie e commesse.

PROGETTI C.A.S.E. ISOLATORI. È invece arrivato a a un passo dalla prescrizione il processo sugli isolatori sismici malfatti al punto da spezzarsi in alcuni casi, se sottoposti a test in laboratorio: le “molle” sono installate sotto le palazzine degli alloggi del progetto C.a.s.e. per dissipare la forza distruttiva di un eventuale sisma. La prossima udienza è stata fissata dal giudice Giuseppe Grieco il prossimo 3 luglio. per scongiurare la prescrizione del reato per i due imputati per frode nelle pubbliche forniture, Gian Michele Calvi, direttore dei lavori, e Agostino Marioni, dirigente di una delle ditte fornitrici, la Alga Spa, bisognerebbe chiudere il primo grado, l’eventuale Appello e il successivo giudizio di legittimità in Cassazione grossomodo entro la fine del 2016. Per questo processo il giudice Giuseppe Romano Gargarella ha già condannato con il rito abbreviato con le stesse accuse a 1 anno di reclusione Mauro Dolce, responsabile del procedimento di realizzazione del progetto C.a.s.e., che ora andrà in Appello. BALCONI. Dovrebbe ormai essere sul tavolo del sostituto procuratore Roberta D’Avolio la perizia con i risultati delle prove statiche e sulla qualità dei materiali sui balconi e sulla palazzina del progetto C.a.s.e. di Cese di Preturo (L’Aquila) dove nel settembre 2014 è crollato un balcone “per difetti di costruzione e utilizzo di materiale scadente”: vicina, quindi, la svolta nelle indagini perché i magistrati potranno prendere una decisione e inviare gli avvisi di garanzia, inizialmente ne sono stati ipotizzati addirittura una quarantina. Alle ipotesi di reato, di cui già si sapeva, di crollo colposo, frode nelle pubbliche forniture e omissione di lavori in edifici che minacciano la rovina, si potrebbero aggiungere quelle di truffa e falso. L’indagine ha portato al sequestro di 800 balconi di 494 palazzine che si trovano in 5 dei 19 insediamenti e a una singola palazzina sgomberata del progetto C.a.s.e. di Cese di Preturo, quella del crollo. Secondo quanto si è appreso dalla perizia, i solai della palazzina, la piastra 19, hanno subìto un avvallamento di oltre il doppio rispetto al valore previsto dalla legge, mentre i due balconi esaminati hanno retto, denotando comunque difformità in rapporto al progetto.

Terremoto all'Aquila: i parenti delle vittime devono restituire 7,8 milioni di euro, scrive “Libero Quotidiano”. "Alla luce della pronuncia della Corte di Appello del 12 novembre 2014 si invita e si diffida la S.V. alla restituzione delle somme percepite e a corrispondere senza indugio e comunque entro trenta giorni dal ricevimento della presente, la somma complessiva di Euro 104.201,42 euro relativa a sorte capitale pari ad Euro 100.000, spese legali pari ad Euro 5.033,60 ed interessi legali calcolati al 28 febbraio 2015 pari a Euro 2.628,42 con l'avvertimento che in caso di ritardo e/o di inadempimento si procederà per il recupero del credito". Questo c'è scritto nella lettera, firmata da capo della Protezione Civile Franco Gabrielli, che è stata spedita a uno dei familiari delle 309 vittime del terremoto che ha distrutto l'Aquila il 9 aprile di sei anni fa. In pratica lo Stato chiede indietro il modesto risarcimento che ha dato a quanti hanno pianto i loro cari morti sotto le macerie dopo la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi, che nei giorni precedenti al terremoto dell'Aquila aveva tranquillizzato gli aquilani inducendoli a pensare che l'inferno non sarebbe accaduto. Adesso che la Corte d'Appello è stata assolta i parenti delle vittime, secondo quanto scritto da Gabrielli e reso noto da AbbruzzoWeb.it, devono restituire quel denaro: in totale 7,8 milioni di euro. Dove li troveranno?

IL MALE DELL'AQUILA? GLI AQUILANI.

L’Aquila oggi, anima dispersa. La notte del 6 aprile 2009 il terremoto d'Abruzzo ha fatto oltre trecento vittime. E ha tolto agli aquilani la loro città e la loro comunità. Come racconta una scrittrice, tornata tra le case e le macerie del centro storico, scrive Caterina Serra su “L’Espresso”. Cammino per la città di notte. L’Aquila è più buia delle sue montagne. Forse il silenzio compensa una mancanza di pudore. Vedo attraverso le fessure di muri spaccati, di travi e ponteggi, di porte tenute insieme da catene e lucchetti come se l’abbandono l’avessero chiuso dentro. Insieme a quel tipo di memoria dolorosa che nessuno vuole portare con sé. Come la propria faccia nelle foto appese che mi viene voglia di staccare dal muro, e conservare. C’è qualcosa di attraente, una specie di bellezza oscena che ricorda l’assurdo della vita. Mi trovo davanti a un tavolo apparecchiato, a un letto con l’impronta sul cuscino, a bicchieri da lavare, quando entro nelle case, invadendo spazi di intimità già violata dalla forza della terra, e dal tempo. Penso a cosa sia una casa. A cosa la renda unica. «Mi manchi da morire, casa»: un uomo mi fa notare la scritta tra due finestre puntellate. Forse vendo e me ne vado, mi dice guardandomi come se mi volesse testimone della sua decisione. Continuano a dirmi che manca poco, che sono arrivati i soldi, che la casa adesso la rimettono a posto. Intanto giro per le strade che mi ricordano da dove vengo. Non voglio che mi tolgano la città da sotto i piedi. Se non ci cammino ogni giorno, c’è il rischio che mi faccia paura tornarci. Un senso di sospensione, e di attesa. L’Aquila di notte è ferma a quella notte. Anche i discorsi sono fermi a quella notte. E sono passati sei anni. Dalla propaganda della politica come intervento spettacolare, qualcuno qui lo chiama l’inganno della politica. Perfino il modo di camminare della gente sembra risentire di quella notte. E di sei anni passati fuori dalla città, fuori dalle case, fuori dalla vita di prima. Camminano lenti, con gli occhi puntati in alto, cercando di ritrovare i segni del loro passaggio. Seguo la luce di qualche lampione, e il sentiero delle lucette rosse delle impalcature, accese come lumini in una chiesa in segno di preghiera. Sento una musica. C’è qualcuno in fondo alla strada. Mi prende una specie di euforia, mi viene voglia di correre. Ma è come se mi agitassi dentro un labirinto, giro l’angolo e ho già perduto i suoni, e la luce, e sono di nuovo al buio, confusa, come sbattuta contro un muro. Il buio di una città disabitata è fondo come un pozzo. Torno indietro, prendo una via, un’altra. Ci sono i nomi delle strade ma non corrispondono più. Sono spaesata. Uno spaesamento dato dall’irriconoscibilità delle parti, spezzate, interrotte, oppure nascoste alla vista, barricate dietro migliaia di tubi neri agganciati l’uno all’altro da giunti dorati. Lo sanno tutti che sono lì da sei anni, che non si possono contare per quanti sono e non servono a niente così tanti giunti dorati incastonati come pietre preziose. Che sono in affitto, vanno pagati gli Innocenti, così si chiamano, i tubi. I nomi delle cose, a volte. Non importa, lascia stare i nomi, mi dico, sono quello a cui portano che conta, adesso. E la strada che non ricorda più il suo nome mi porta a quella musica. C’è gente che beve, che balla. Una festa, musica a tutto volume, risate alte a notte fonda. Sa di libertà, la città senza regole di convivenza. Senza divieti se non quelli di passaggio oltre reti e nastri biancorossi attorno a vecchie macerie e nuovi mattoni. Come un ribaltamento dell’ordine: il buio che nasconde e non fa paura, le case abbandonate dove fare l’amore, le strade libere dalle auto, occupate di notte da giovani che la città com’era prima non se la ricordano, i palazzi del potere disabitati, le case dei più ricchi accessibili a chiunque voglia ritrovarsi sotto soffitti affrescati. Una specie di sospensione della proprietà. Democrazia sismica, pubblico e privato che si confondono. E nella rottura dello spazio privato si infila la voglia di occuparsi di ciò che non appartiene a nessuno, tutti i cani randagi che qualcuno adotta ogni giorno, e i gatti a cui due donne portano da mangiare, le ho viste che passavano attraverso il buco di una recinzione, che tornavano a casa loro, inagibile, diventata il cortile per i gatti della città. Viviamo come dentro una bolla, dice il proprietario di un ristorante di cui è rimasta solo la facciata. Il tempo non conta più, quello che doveva essere provvisorio è diventato permanente. Sono chiuso in una casa che non sa niente di me, di cosa ho fatto, di quanti anni ho, di cosa mi piace. Nel container di fronte al vecchio ristorante c’è il bancone che ha tirato fuori a forza dalle macerie. Lo aveva fatto lui, ricavato dalle travi della ferrovia. Mi piacciono le cose che hanno una storia, mi dice, che invecchiano, che mi conoscono. Mi chiedo quanto una certa educazione all’avere dei diritti sia fondamentale quando la realtà è così anomala e dolorosa da stordire, da sentirsi grati per il solo fatto di essere vivi. Come insorge una comunità quando si accorge che il dono nasconde il ricatto? Ti do una casa intanto, sii riconoscente. Come si oppone a una politica che non fa il bene della polis se mantiene lontani i cittadini dalle proprie case, se lascia spazio e mano libera a chi dentro la città decide senza un piano condiviso, una visione comune? Forse l’inganno della politica è aver fatto credere che per vivere basti una casa. Avere chiamato vita la sopravvivenza. Rumore circolare di betoniere, e rimbombo freddo di trapani e martelli. Di giorno la città è un cantiere di dodicimila operai. Il corso ha nuovi stucchi, ancora umidi, un po’ tutti uguali, color pastello. Intorno, polvere di calce, odore di muffa, un esercito di uomini che entra ed esce dalla città ogni giorno. Lavora, mangia e se ne va. Pan e ojo, e il vino dell’Abruzzo. Una cantina vecchia di cinquecento anni. Ci arrivo tra muri di assi di legno di un cantiere. Ju Boss è il primo locale storico ad avere riaperto. Il proprietario e i suoi figli stappano una bottiglia dopo l’altra con un cavatappi appeso al muro che è come una leva che ciascuno tira a modo suo, come se aprissero una porta, o abbassassero un ponte levatoio. Tavoli di giovani, di vecchi, di caschi gialli di operai in pausa. Un posto pieno di storie, un luogo della memoria e nuovi inizi. Come una piazza. Capisco che L’Aquila è vuota di abitanti ma è piena di gente che pendola tra la periferia e il centro, pellegrini di una città consacrata alla memoria e alla nostalgia. Viandanti, apolidi. Abitano fuori dalla città storica, vengono dalle diciannove new town. Sparsi, dispersi, a ridosso delle pendici dei monti, difesi, o controllati a vista, dai centri commerciali costruiti come torrioni in mezzo al nulla. Dentro casupole tristi come insediamenti militari, villaggi dormitorio, anonimi, seriali, con l’erba finta sotto le finestre. È possibile che la politica non pensi al danno psicologico dello sradicamento, non tema lo sfilacciamento del tessuto sociale, la frantumazione dell’anima della città? Una donna scosta una tenda, mi guarda come fossi una creatura del cielo. Qui non c’è mai nessuno, mi dice, sta per piovere, nella mia casa vera entrerà la pioggia. Vera, come se quella in cui vive ora fosse finta, falsa, o meno reale. Sono vecchia, continua, i vecchi sono qui a finire la vita, senza neanche un cassetto in cui trovare quel pezzo di vita che uno sa di avere vissuto. Una città senza corpi non ha anima, senza cittadini non è una città. Ripenso ai nomi, se ancora corrispondono alle cose. Penso alle new town, e mi dico che forse diventano ciò che significano, le Nuova Città, l’altra città, nel senso di àltera, diversa, e magari alterata, la città che non ha più niente di ciò che la definiva in questa parte di mondo. Tutta decentrata, scentrata, spiazzata, e spiazzante. Animata di corpi che vanno e vengono e non si trovano da nessuna parte, niente più piazze, fontane, cinema, teatri, biblioteche, bar, caffè, edicole. Panchine, invece, una in fila all’altra. Per stare seduti e guardare il vuoto. Niente più cerchi per guardarsi in faccia. È la periferia la nuova città? Che sia riempita di spazi che uniscano e non isolino, che facciano crescere e non mortifichino. Che ci si inventi un luogo della socialità gratuito, pubblico, libero come è sempre stata la piazza, simbolo dell’assemblea, del potere partecipato, della possibilità di incontrarsi, di dissentire, di essere al centro della propria vita personale e politica. Come si fa a sentirsi cittadini in una tenda a pagamento?

L'Aquila, il male dei sopravvissuti. A quasi quattro anni dal sisma, le indagini epidemiologiche mostrano una crescita di sindromi fisiche e psicologiche. Dovute anche alla vita spersonalizzata nei moduli di 30 metri quadri, scrive Emilio Fabio Torsello su “L’Espresso”. Catapultati nei 45 metri quadrati dei Moduli abitativi provvisori (Map) o nelle abitazioni del Progetto CASE, a diversi chilometri dal primo centro abitato. La vita quotidiana che si restringe, si riduce nello spazio di un baco da seta, lasciando fuori tutto il resto. Doveva essere la soluzione provvisoria in attesa della ricostruzione, la promessa delle promesse fatta dall'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che adesso sta logorando i cittadini dell'Aquila e delle frazioni, ridotte ormai a città fantasma. Si tratta di vite stravolte che hanno ormai perso anche la scorta dei continui collegamenti televisivi, «dal campo di Piazza D'Armi, a voi studio»,  con cui per mesi è stata raccontata la realtà dei terremotati aquilani. Ad oggi la città è semideserta, la maggior parte degli appartamenti sono vuoti o in ristrutturazione, la viabilità è impazzita in un dedalo di rotonde, le macerie ancora visibili accanto ai villaggi provvisori, la città è lesionata ben oltre il centro storico di cui tutto il mondo ha parlato. A raccontare le condizioni psicofisiche in cui versano i cittadini del capoluogo abruzzese sono rimasti gli studi di medicina (e qualche sparuto giornalista) che tentano di capire come stia evolvendo la situazione dell'Aquila. Già alcuni mesi fa L'Espresso aveva raccolto la denuncia secondo cui erano stati 96 i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso) per problemi psichici gravi, effettuati nel territorio aquilano nei primi otto mesi del 2012, una situazione allarmante considerando che tra il 2004 e il 2009 se ne erano contati appena otto. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista "Nutrition, metabolism and cadiovascular diseases" e nato dalla collaborazione tra l'Universita' Gabriele d'Annunzio, i Laboratori di ricerca della Fondazione Giovanni Paolo II di Campobasso e il Nucleo di farmacisti Volontari della Protezione civile, conferma come quella dell'Aquila sia un'emergenza tutt'altro che conclusa. Nei mesi successivi al sisma, infatti, un camper attrezzato con a bordo medici e farmacisti volontari ha visitato la zona dell'emergenza offrendo una serie di analisi e misurazioni, effettuate su 278 cittadini, con la collaborazione di Roche Diagnostic e Voden Medical. Le informazioni sono state poi messe a confronto con quelle ottenute dalle analisi fatte su cittadini che non avevano patito alcuna catastrofe, all'interno del progetto "Moli-sani". «I risultati», spiega Assunta Pandolfi, direttore dell'Unità operativa di Fisiopatologia Vascolare del dipartimento di Scienze Sperimentali e Cliniche nell'Università Gabriele D'Annunzio «mostrano come il gruppo studiato presenti una percentuale più alta di Sindrome Metabolica. La prevalenza di tale quadro nel campione di aquilani è infatti risultata del 50 per cento, contro un 30 per cento dello studio Moli-sani e poco meno (27 per cento) rispetto ai dati dell'Istituto Superiore di Sanita' relativamente alle popolazioni del centro-sud e isole». Si tratta di alterazioni significative: un livello di trigliceridi superiore alla norma o di colesterolo "buono" (hdl) troppo basso, la pressione arteriosa superiore al normale, un livello di glicemia a digiuno superiore alla norma e, infine, un girovita eccessivo, con un accumulo di grasso nella zona addominale. «Se una persona presenta almeno tre di queste alterazioni», spiegano i ricercatori, «la Sindrome Metabolica è presente». «Queste persone», continua Pandolfi, «presentano quindi una maggiore alterazione di alcuni valori molto importanti per la salute rispetto a chi non ha vissuto l'esperienza del terremoto. Ma il dato forse più importante è la differenza che osserviamo all'interno del gruppo aquilano tra chi ha perso la propria casa e chi no. La Sindrome Metabolica è infatti maggiormente presente tra coloro che sono stati costretti a vivere nelle tendopoli o negli hotel». Mentre Augusto Di Castelnuovo, epidemiologo dei Laboratori di ricerca nella Fondazione di ricerca e cura "Giovanni Paolo II" di Campobasso, aggiunge: «Pensiamo che il terremoto abbia un effetto negativo sulla salute delle persone per due motivi: da un lato abbiamo la situazione di forte stress dovuta alla catastrofe e agli stravolgimenti che ne sono seguiti, come ha dimostrato un recente studio condotto dagli psichiatri dell'Universita' di L'Aquila e dell'Ospedale San Salvatore dello stesso capoluogo, con evidenti effetti sulla salute cardiovascolare. D'altro canto, il cambiamento di abitudini causato dal vivere fuori della propria casa, la perdita di importanti contatti sociali e familiari, le modifiche nell'alimentazione sono tutti elementi che possono partecipare a formare un quadro di maggiore rischio». Le storie di vita vissuta confermano la continua emergenza di vita quotidiana che si vive all'Aquila. Come quella di Marzia, 39 anni, pendolare per lavoro tra Onna e Roma, passata dalla grande casa di famiglia a un Map di poco più di 30 metri quadrati: «Gli oggetti della mia vita quotidiana sono sparpagliati tra due roulotte e nei Map dei miei parenti. Nel poco spazio che abbiamo, non possiamo certo tenere tutto. I vestiti per il cambio di stagione li teniamo nei sacchi, il resto si ridivide tra chi può 'ospitare' tutto ciò che non è strettamente necessario. E ogni volta che bisogna recuperare qualcosa si verifica una sorta di 'transumanza' da un Map all'altro. Il tempo poi fa il resto, al punto che non ricordo quasi più cosa ho stipato nelle due roulotte in cui avevo deciso di conservare molti degli oggetti della mia vecchia casa, così spesso li ricompro». Le difficoltà non sono solo pratiche. «Il dramma», prosegue Marzia «è che la città e le frazioni sono ormai spersonalizzate. Si è messa in moto una silenziosa diaspora disgregante per cui si sono rotte le relazioni e sono venuti a mancare punti di aggregazione, un tipo di emergenza cui nessuno sta cercando una soluzioni, nemmeno le associazioni - che pure ci sono - ma che non vengono messe a sistema». «Dire che L'Aquila è stata ricostruita», taglia corto quando le chiedo cosa pensi delle parole di Berlusconi a Ballarò, «è un peccato mortale». Come quella di Marzia, ci sono anche tante altre esistenze di cui i media non riportano le vicende. Vite cadute nel dimenticatoio non appena le telecamere hanno lasciato la città. Persone anziane costrette a non uscire dai Map per mancanza di punti di aggregazione, oggetti della vita precedente al terremoto stipati nei cartoni nelle case ormai abbandonate e verdi di muffa.

L'Aquila, terremotati per sempre. Il piano di ricostruzione è fermo. La città abruzzese è abbandonata. I soldi per farla tornare a vivere sono finiti. E come se non bastasse, sono tornate le scosse. Viaggio in un territorio martoriato, scrive Emilio Fabio Torsello su “L’Espresso” . Basterebbe andare a vedere. Basterebbe camminare per le vie del centro storico dell'Aquila, di Onna, di San Gegorio, di Paganica, di ciò che resta di Tempèra, per misurare le bugie di quanti raccontano che "L'Aquila è stata ricostruita", che "l'obiettivo è stato raggiunto". La verità è che nella città più martoriata dell'Abruzzo e nelle frazioni, tutto è imbalsamato, puntellato, tenuto su da pesanti travi di legno su cui scolorano i nomi incisi dei gruppi dei Vigili del Fuoco che le costruirono. "Non ci sono i soldi". Il Piano di Ricostruzione dell'Aquila e delle frazioni già approvato, a quasi quattro anni dal terremoto è per lo più fermo. "Sono finiti i due miliardi stanziati - spiega Pietro Di Stefano, assessore del comune dell'Aquila alla Ricostruzione - e adesso si naviga a vista. Manca un afflusso costante di denaro e bisogna contrattare anno per anno con il Governo. Adesso, ad esempio, una delibera del Cipe del dicembre scorso ha sbloccato 150 milioni, un residuo di contabilità che non ci era stato assegnato dal Commissario, soldi che sono stati già impegnati. Siamo in attesa di altri 660 milioni ma tutto è sempre molto precario". A mancare, infatti, è un piano strutturato di finanziamento che invece si ridefinisce anno per anno: "queste procedure non aiutano la programmazione degli interventi. Per il sisma in Emilia - prosegue - è stata decisa un'accisa in modo da reperire subito i fondi per le popolazioni, vorrei capire per quale motivo nel 2009 si decise che per un territorio come il nostro, così pesantemente colpito dal terremoto, interventi straordinari di quel tipo non erano necessari. Il risultato è una contrattazione sui fondi che snerva qualsiasi ampio respiro di ricostruzione". Ci si prepara alle tende. E come se non bastasse sono tornate le scosse, lo sciame ha ricominciato lo scorso sabato 16 febbraio. La terra ha tremato cinque volte in una notte, la scossa più forte alle due, mentre in molti dormivano, 3.7 Richter. Poi altre quattro. In tutto undici in poco meno di 48 ore. Il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, ha invitato i cittadini "ad agire secondo coscienza, con la consapevolezza che il Comune è pronto a garantire riparo con strutture adeguate e personale preparato". E ha spiegato di aver allestito tre tende riscaldate per quanti volessero passare la notte fuori da casa ma senza patire il freddo. L'impressione è che l'emergenza non sia mai davvero finita. Che sia stata solo un annuncio, un po' come quando dalla portaerei Bush dichiarò vinta la guerra contro Saddam, la realtà successiva avrebbe raccontato attentati e morti per anni. "In classe in 10 fumano 'roba'". A sottolineare come all'Aquila l'emergenza non sia terminata, soprattutto a livello sociale, sono anche gli studi di medicina sul disagio psichico, con frequenti trattamenti sanitari obbligatori e la diffusione degli stupefacenti pesanti e leggeri. "La droga all'Aquila c'è sempre stata, racconta uno studente di uno dei licei della città che chiede di restare anonimo, ma dopo il terremoto la loro diffusione è aumentata vertiginosamente. A scuola gira anche cocaina. Una volta, prosegue,  a un nostro compagno si ruppe una bustina di droga nello zaino. Se vuoi drogarti sai dove andare. Solo nella mia classe - aggiunge dopo un attimo di silenzio - almeno dieci persone fumano "roba" e in tutto siamo poco più di venti alunni". Scuole precarie. E proprio nel centro dell'Aquila c'era uno dei licei principali della città, dentro lo stabile di Palazzo Quinzi, oggi completamente inagibile. "Era stato ristrutturato pochi anni prima del terremoto - spiega Liliana Farello, 19 anni, una studentessa universitaria, fino all'anno scorso al liceo Cotugno, che la sera mi accompagna a vedere la sua vecchia scuola - durante il terremoto sono crollate anche le scale: avrebbe potuto ospitare poche centinaia di persone ma dentro eravamo più di mille". E le vie di fuga: una stradina larga meno di una transenna, via Antinori, stretta tra la scuola e un altro edificio, anch'esso puntellato. Poco distante, davanti la chiesa di Santa Margherita, una fontana perfettamente ristrutturata svetta in mezzo al nulla, tra puntellamenti e travi che sorreggono palazzi vuoti. Su tutto regna un silenzio spettrale che di sera diventa un'assenza di vita opprimente. Interrotta in lontananza dal motore delle camionette dei militari che con il riscaldamento acceso, si proteggono dal freddo. Anche loro sono ancora lì. E gli istituti scolastici adesso sono stati trasferiti nei moduli provvisori, i cosiddetti Musp. Margherita Sevi Nardecchia, cittadina onnese e insegnante che della scuola elementare De Amicis conosceva anche le pietre, racconta: "viviamo in una situazione di estrema precarietà. Da noi, ad esempio, mancano ancora le mense. Ce ne sta solo una e siamo costretti a fare i turni. Altre classi invece, non mettono proprio piede nella mensa: la bidella si affaccia sull'uscio della classe, riempie le scodelle, e le maestre le portano ai banchi agli alunni". E anche alla De Amicis, palazzo storico del 1400, erano stati fatti lavori di ristrutturazione poco prima del terremoto. Adesso è puntellata e vuota. La vita nel Progetto Case. E mentre la ricostruzione è ferma, la vita continua a svolgersi nei Moduli Abitativi Provvisori (i Map, le casette in legno) o negli appartamenti del Progetto CASE, casermoni nati in mezzo al nulla, tirati su in fretta dall'allora governo Berlusconi, che a vederli di notte sembrano più alveari che non abitazioni. "Siamo passati da una casa di quattro piani - spiega Anna Ferrara, 17 anni, di Bazzano - a un appartamento di circa 60 metri quadrati, dove viviamo in quattro. E ancora non conosciamo il destino della nostra casa lesionata dal terremoto: è stata classificata come "C" - con danni alle mura ma non alla struttura portante - ma accanto ha due appartamenti che dovrebbero essere abbattuti, finché non si capirà cosa fare delle case più lesionate, non sapremo come andrà a finire per la nostra". A poco meno di cento metri dalle finestre del Progetto Case di Bazzano - il primo ad essere inaugurato dall'allora premier Berlusconi - c'è lo scheletro di un enorme cavalcavia di una superstrada in costruzione. "Qui mancano i servizi - prosegue Anna - non c'è un negozio, gli autobus per andare a scuola passano di rado e per comprare il biglietto alla tabaccheria più vicina è necessario costeggiare a piedi la superstrada, con il rischio di essere investiti. Se poi si rompe qualcosa a casa, i tempi per la manutenzione sono lunghi. Noi di solito chiediamo a Ciro, ex capocantiere del progetto CASE che provvede a tutto, anche se in realtà c'è una cooperativa preposta alla manutenzione". E le segnalazioni più frequenti riguardano infiltrazioni, tubi ghiacciati, disfunzioni nei riscaldamenti. E lo stesso accade nelle casette di Onna: "In teoria - spiega Marzia Masiello, cittadina onnese - ci sarebbe la Manutencoop, nella pratica ci siamo organizzati e cerchiamo di aiutarci da soli". Il dramma delle frazioni. Onna di sera è silenziosa e pesante di nulla: le casette ordinate, poche persone in giro, un centro prefabbricato polifunzionale con una foresteria, poco distante le rovine del paese. A parte le macerie che sono state rimosse, tutto è fermo al 6 aprile 2009. Palazzi sventrati, scale d'ingresso che si interrompono sul fossato delle fondamenta. "A Onna i lavori per la ricostruzione non sono mai partiti - spiega Guido De Felice, consigliere del direttivo di Onna Onlus - la stima dei finanziamenti necessari per la cittadina è di 76 milioni di euro: 72 per le abitazioni e 4 milioni per le infrastrutture. Ma il dramma dei piccoli centri come Onna, Roio, Tempera e altri - prosegue - sta nella norma che prevede la possibilità di vendere al comune la propria casa, riacquistandola - a spese del comune - altrove in Italia. Una norma che rischia di spopolare le frazioni minori". "Una disposizione gravissima - spiega ancora l'assessore del comune dell'Aquila, Di Stefano -: si sta finanziando l'allontanamento dal territorio aquilano, una possibilità che gli Emiliani si sono ben guardati dal prevedere". E' crisi occupazionale. E finché non partirà la ricostruzione, resteranno al palo anche le tante maestranze artigiane presenti sul territorio, che sempre di più stanno patendo la crisi. "Le ditte di costruzioni che si sono precipitate all'Aquila dopo il terremoto - spiega Gianfranco Busilacchio, onnese e artigiano con una ditta di impiantistica - per lo più hanno portato le loro maestranze, senza utilizzare manodopera locale. Chi invece ha lavorato a quel poco di ricostruzione che si è mossa, viene pagato con il contagocce, in parallelo con i fondi pubblici erogati. Molte aziende stanno fallendo". Le nuove generazioni. E a fronte di una ricostruzione ormai impantanata da procedure farraginose e fondi che mancano, il rischio è che le nuove generazioni, quelle che hanno iniziato a vivere L'Aquila ormai terremotata, non ne reclamino più la rinascita. "Dal terremoto sono ormai passati quattro anni - spiega Margherita - i bambini che nel 2009 frequentavano la prima o la seconda elementare, ricorderanno sempre questa città puntellata e distrutta perché sono "nati" in questo contesto. La cosa che temiamo più di tutti è che la nostra generazione a un certo punto si stanchi di combattere per riavere la città com'era prima e che i giovani decidano di andarsene senza lottare: quando nasci in un contesto, alla fine ti abitui a tutto".

L'Aquila ha i soldi, ma non sa spenderli e cade a pezzi, scrive Miska Ruggeri, su “Libero Quotidiano”. (Nonostante i 10 miliardi già spesi). Sono ormai passati sei anni dal devastante terremoto (ore 3.32 del 6 aprile 2009, con 309 vittime, oltre 1600 feriti e circa 65mila sfollati) che ha distrutto L’Aquila e il suo circondario. E ci piacerebbe molto poter dire che le cose sono migliorate. Invece, la situazione non è nemmeno identica al drammatico day after. Incredibile dictu, è peggiorata. Il capoluogo abruzzese è sempre più a pezzi. Non per colpa della Natura imprevedibile quanto degli uomini, quelli sì prevedibili e incapaci di risollevare una città in ginocchio. Nella ricostruzione, dopo la fase di emergenza e di assistenza ben gestita dalla Protezione civile, non ha funzionato nulla. E ancora oggi non funziona nulla. Lasciamo stare, per carità di patria, i vari problemi giudiziari gravitanti attorno a quello che dovrebbe essere considerato in prospettiva il più grande cantiere d’Italia: mazzette, truffe, avvisi di garanzia, arresti, infiltrazioni camorristiche (il clan dei Casalesi...), ditte sospese, scandali vari e tante altre cose che non sono ancora emerse ma ci sono eccome. Se ne occuperà, speriamo con maggiore energia, la procura aquilana. Vediamo piuttosto i disagi maggiori ancora sofferti dai cittadini. In centro è stato sì finalmente aperto qualche cantiere, ma il 90% degli abitanti non è ancora riuscito a rientrare nelle proprie case o ha preferito aspettare poiché non si può certo stare in una sorta di fortezza Bastiani. Gli unici segni di vita tra la Villa comunale e la Fontana Luminosa (l’asse nord-sud equivalente al cardo medievale, mentre del decumano non si sa niente) sono dati dai locali della movida universitaria (e anche qui si avvertono più le negatività - rumore, sporcizia, risse tra ubriachi - che i fattori positivi). Tutto il resto, durante il giorno, è avvolto in un silenzio spettrale. E le case abbandonate, sempre più in rovina per il gelo e le intemperie, senza più la zona rossa attiva e sorvegliata dai militari, sono in balia dei ladri, con un impressionante aumento di furti. Nessuno passeggia sotto i portici o per i vicoli, si vedono soltanto operai - per la gran parte stranieri - in tuta da lavoro, ogni rapporto umano si svolge nei centri commerciali in periferia come “Il Globo” o “L’Aquilone”, così che quanti non hanno la macchina, i giovani e gli anziani, sono tagliati fuori dalle relazioni sociali. Perché da una città, antica e preziosa, fornita di un grande patrimonio artistico, si è passati a uno squallido arcipelago di periferie. I ragazzi, una volta usciti da scuola, non sanno cosa fare, si sentono in trappola, e così bevono, si drogano e compiono spesso atti vandalici nell’assoluta mancanza di controlli. Gli adulti, da parte loro, sono sfiniti e demotivati, fino al punto di decidere di andarsene per sempre. Inoltre alcune delle 19 new town - quartieri-dormitorio privi di ogni servizio costruiti in tempi record (talvolta da imprese ora fallite: e a chi vai a chiedere i danni?) tutti sparpagliati in un territorio tanto vasto, tra Assergi e Preturo, quanto mal collegato e non in un unico luogo come inizialmente avrebbe preferito il governo Berlusconi - cadono letteralmente a pezzi. C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili: ospitano 10.752 persone) e M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori: ospitano 2.328 persone) presentano infiltrazioni d’acqua, perdite, pavimenti che si scollano, isolatori sismici sotto le piastre che non hanno resistito alle prove di laboratorio... A Cese di Preturo nel settembre scorso è crollato un balcone e quindi ben 800 sono stati messi sotto sequestro con gli inquilini “sigillati” all’interno degli appartamenti. E ora il Comune, interrotte le forme onerose di assistenza alla popolazione, per esempio il contributo di autonoma sistemazione, vorrebbe che la gente si trasferisse proprio negli alloggi (C.A.S.E. e M.A.P.) rimasti vuoti. La ricostruzione delle decine di frazioni del Comune dell’Aquila, spesso borghi medioevali che hanno fondato la città nel 1294, è ferma, senza risorse né tempistiche. Stimata in 1,6 miliardi di euro, sarebbe dovuta partire in almeno cinque delle frazioni più danneggiate già nel 2013 e invece niente. Il crono-programma è già saltato, non per mancanza di soldi, come sottolinea lo stesso ineffabile sindaco Massimo Cialente, ma per i troppi passaggi burocratici e per la carenza del personale che dovrebbe analizzare e approvare i progetti. A proposito di tecnici, quelli assunti con il “concorsone” tanto strombazzato dove sono finiti? Sono insufficienti? Ma prima non lo immaginavano? Purtroppo manca chi dirige, un vero manager e una strategia politica ed economica. Perfino i pagamenti dei S.A.L. (saldo avanzamento lavori) - quindi con soldi presenti in banca - sono fermi da mesi perché manca una banale firma da parte del personale del Comune. Ah, dimenticavo. In tutto ciò, la senatrice aquilana Stefania Pezzopane più che ai drammi del post-sisma sembra pensare all’amore e alle comparsate televisive con il suo giovane fidanzato...

Le Iene, intervista alla Pezzopane e al suo compagno: "Ecco cosa facciamo a letto". Dopo le foto apparse su Novella 2000 di lui che bacia appassionatamente un’altra, la ballerina erotica Serena Rinaldi, Stefania Pezzopane e il suo toy boy Simone Coccia Colaiuta sono i protagonisti di un’intervista doppia delle Iene, scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. Dopo le foto apparse su Novella 2000 di lui che bacia appassionatamente un’altra, la ballerina erotica Serena Rinaldi, Stefania Pezzopane e il suo toy boy Simone Coccia Colaiuta sono i protagonisti di un’intervista doppia delle Iene. Il servizio è di Nina Palmieri, che è andata a intervistarli per capire se il loro è “vero amore” e i due l’hanno calorosamente accolta nel loro nido d’amore a Castelvecchio. Lei, 55 anni, senatrice del Pd ed ex presidente della provincia dell’Aquila ha 24 anni più di lui e svariati centimetri in meno. Lui 31 anni, ex elettricista, spogliarellista, tronista, aspirante attore, aspirante Mister Italia, aspirante presentatore, non sembra farsene un problema: “Nelle donne non guardo l’età e l’altezza”, dice. E nell’intimità la chiama “piece of bread” (pezzo di pane) però ammette candidamente che un pensierino lo ha fatto pure sulla ministra Mariaelena Boschi, collega di partito della Pezzopane. Lei confessa di essere stata “corteggiata anche da uno più giovane di lui”. E poi precisa che in orizzontale la statura non conta. Il vero collante della loro unione comunque è la passione. Simone racconta che la sua donna a letto è molto “atletica”, anzi “no limits”. Per poi addentrarsi in un viaggio nell’intimità di cui avremmo fatto volentieri a meno (“Stefania appecorina…”). Nell’intervista doppia tra i due emergono abissi incolmabili: Simone non sa neppure che cos’è il Jobs Act, né ricorda la data del compleanno della sua donna. Ma la Pezzopane si consola con una proposta di matrimonio, alla quale ha risposto: “Mai dire mai”. Ma a scatenare la coppia solo le domande a luci rosse.

La prima notte?

«Per lei c’è stato “Un bel bacio“, per lui “Camera da letto, l’ho buttata sopra e daje tutta“».

Quante volte la prima sera?

«Per lei un delicato “Top secret“, per lui “Due / tre volte“».

Cosa ti fa impazzire dell’altro?

«Lei adora i suoi baci, lui “C’ha due tette grandi da paura“».

Chi urla di più a letto?

«Lei risponde “Nessuno“, Lui “Mi dice ‘Dai Simone di più mi stai facendo impazzire’..”»

La posizione preferita per fare l’amore?

«Lei rimane vaga: “Posizione classica“, lui “Stefania a pecorina, ovvio no?“».

Stefania Pezzopane, il compagno Simone Coccia Colaiuta: "La pecorina è la sua posizione preferita. Mi urla di non fermarmi e che la faccio impazzire", scrive Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. Se doveva essere un servizio volto a dissipare ogni dubbio sulla relazione tra la senatrice Stefania Pezzopane e Simone Coccia Colaiuta, l’effetto ottenuto è stato decisamente quello opposto. Il servizio delle Iene andato in onda giovedì sulla chiacchierata relazione tra la cinquantacinquenne esponente democratica e il trentunenne ex spogliarellista non ha lasciato quasi niente all’immaginazione.  Soprattutto lui è apparso particolarmente in vena di confessioni intime, svelando che l’illustre partner l’ha subito colpito perché «è una bella gnocca», che d’altronde «ha due tette grandi da paura». Quando sono nell’intimità, ha continuato lui, la senatrice non fa altro che urlare «vai, Simone, vai, continua, me stai a fà impazzì». E per chiudere in bellezza, la posizione preferita di Simone è, testuale, «Stefania a pecorina, ovvio». Già, ovvio. Il trasporto e la carica sessuale dell’ex tronista, con questa ostentazione di dettagli piccanti, sono subito apparsi autentici come un Rolex sugli scaffali di una bancarella cinese. E le recenti paparazzate che vedono l’uomo in atteggiamenti intimi con aitanti starlette non contribuiscono certo a cementare l’unione. Ma questi, alla fin fine, sono fatti loro, come i due hanno ribadito alle Iene. E su questo non ci piove. O meglio, qualche goccia cadrebbe pure, visto che reclamare il diritto alla privacy parlando delle proprie acrobazie sessuali in tv è quanto meno contraddittorio e visto anche che il partito della senatrice ha costruito una linea politica decennale sul fatto di spiare dal buco della serratura altrui, ma sorvoliamo. Magari, però, i saputelli delle Iene avrebbero potuto approfittare dell’occasione per porre qualche domanda un po’ più scomoda di «qual è la vostra posizione preferita?». Una per esempio è questa: «Senatrice Pezzopane, quando ha maturato la convinzione di buttarsi a capofitto in quel modello antropologico berlusconiano da lei un tempo tanto aborrito?». Già perché l’esponente del Pd è una antiberlusconiana della prima ora, già sodale di Sabina Guzzanti nell’operazione Draquila ed ex vicepresidente della Giunta per le immunità, quella che ha sbattuto il Cav fuori dal Parlamento. Ecco, non sarebbe stato interessante sapere com’è che questo pezzo di antiberlusconiana sia finita da Barbara d’Urso a fare la gattina innamorata con un ex tronista di Uomini e Donne? Beninteso, per noi la Pezzopane può anche fare un servizio fotografico vestita da ragazza fast food come Tinì Cansino al Drive In nel 1983, ma la conversione desta oggettiva curiosità. Così come è interessante sapere come la Pezzopane sia finita (lo testimoniava una foto girata tempo fa) in una vasca idromassaggio con Gennaro Bonifacio, detto Rino, ex re dei narcotrafficanti. Dopo varie condanne e diversi anni di prigione, l’uomo si è ovviamente redento e ha iniziato una carriera da scrittore. Buon per lui. Ma certo sapere come abbia conosciuto una senatrice della repubblica sarebbe stato più interessante che sentirci raccontare di lei «alla pecorina».

ABRUZZESI ALLA RISCOSSA.

Abruzzesi alla riscossa: Razzi e Colaiuta, i due volti che la tv reclama. Progetti televisivi in vista per il senatore e il fidanzato di Pezzopane, scrive “Prima da noi”. Una esposizione mediatica che evidentemente ha giovato ad entrambi. Antonio Razzi e Simone Coccia Colaiuta hanno molto in comune e da qualche ora c’è qualcosa in più che li rallegra. Entrambi sono in ballo per partecipare a due programmi televisivi nazionali. Per Colaiuta, in realtà, è già cosa fatta mentre per Razzi pare ci sia ancora qualche incognita. Entrambi abruzzesi, entrambi amanti della politica (per uno leggasi “Forza Italia”, per l’altro leggasi “Stefania Pezzopane”), entrambi determinati e guardati talvolta con sospetto. Sono oggi i rappresentanti della regione tra i più noti a livello nazionale, grazie ad ospitate, servizi giornalistici, parodie, interviste intimiste e paparazzate. Colaiuta, da un paio di mesi ufficialmente fidanzato con la senatrice Pd, Stefania Pezzopane (alla quale ha voluto rivolgere una proposta di matrimonio in diretta radiofonica), ha scelto il salotto di Barbara d’Urso per svelare i retroscena della sua relazione sentimentale. Razzi si è confessato ai Dieci Comandamenti di Domenico Iannacone e ha svelato che il suo libro non l’ha scritto lui («se sapevo scrivere facevo lo scrittore, mica lu parlamentare») e che stare in Parlamento è «un sogno». E’ il senatore più conosciuto e riconosciuto ma anche sbeffeggiato, criticato e soprattutto imitato, sdoganato da Maurizio Crozza che lo ha fatto diventare simpatico a tutti facendo risaltare intercalari non sempre grammaticalmente impeccabili. Antonio Razzi è per i più un fenomeno ancora da scoprire e decifrare così come la sua metamorfosi: da uomo di fatica che ha vissuto tra mille difficoltà e lavori massacranti o umili per decine di anni, a senatore che pensa alla ricca pensione da parlamentare e pensa ai… «c… suoi». Anche il destino con le donne di Razzi e Colaiuta sembra avere qualche somiglianza. Razzi ha dichiarato di aver avuto decine di conquiste in gioventù, un vero sciupafemmine ed oggi è firmatario di una “rivoluzionaria” proposta di legge per riaprire le case chiuse sul modello svizzero («tutto pulito e in ordine»). Colaiuta, invece, ex spogliarellista e stato anche un ‘corteggiatore’ nel programma Tv di Maria De Filippi, belloccio, palestrato, un tipo pronto a spiccare il volo grazie alla tv o magari al cinema. Tra l’altro entrambi i nostri “eroi” possono vantare una imitazione, famosissima quella di Razzi firmata da Maurizio Crozza, più soft quella Colaiuta a Quelli che il Calcio (muto e a petto nudo). La televisione nazionale li vuole entrambi. Il fidanzato della Pezzopane, ormai è cosa certa, parteciperà ad un programma su La7. Fino a qualche settimana fa si parlava di un suo eventuale sbarco sull’Isola dei Famosi, ipotesi poco credibile ma comunque cavalcata abbondantemente sui social network dallo stesso Colaiuta. «È ufficiale!!», ha annunciato Simone ieri su Facebook. «Dal 13 novembre al 18 dicembre sarò protagonista di una trasmissione televisiva ANNOUNO condotta da Giulia Innocenzi in onda tutti i giovedì dalle 21:00 alle ore 00:00 sul canale La7». Subito, sempre via social network, sono arrivati i complimenti della fidanzata: «in bocca al lupo, Simone», ha scritto la senatrice piazzando anche una emoticon felicissima. Tra i programmi in cui si poteva ipotizzare una sua presenza, vista la recente esposizione mediatica, il talk della Innocenzi non sembrava tra le opzioni possibili per la venatura strettamente politica del programma che si basa su giovani opinionisti e osservatori del mondo politico. Chi potrebbe sbarcare sull’Isola dei Famosi, da quest’anno su Canale 5, è invece Antonio Razzi. Il senatore ha confermato la trattativa in corso ma non ha nascosto che c’è ancora un nodo da sciogliere, quello dell’eventuale dimissione da parlamentare se scegliesse l’atollo sperduto a favore di telecamera. Si tratterebbe per la prima volta di un politico in carica eletto che abbandona la sua carica per un vetrina televisiva stile “Grande Fratello” che potrebbe far schizzare in maniera esponenziale le quotazioni dell’abruzzese di Giuliano Teatino. «Eh no, non scherziamo. Aò, ‘cca nisciun è fess. E come faccio: qua è una paga sicura, là manco mi pagano. Non scherziamo dai, io dico la verità», ha detto Razzi che ha capito da molto che la politica è anche spettacolo. Solo che ultimamente il confine si è assottigliato a tal punto da diventare invisibile.

Pezzopane-Colaiuta, anche la premiazione dello sponsor (abruzzese) «è un bluff». Striscia: «ha fatto la taroccata e l’ha protratta nel tempo», scrive “Prima da noi”. Doveva essere una intervista per chiarire la «vera verità» sul caso della premiazione fasulla al concorso Il più bello d’Italia. Invece alla fine Simone Coccia Colaiuta, ex spogliarellista noto alle cronache rosa da quando ha intrapreso una relazione con la senatrice aquilana del Pd, Stefania Pezzopane, ha rimediato solo un’altra brutta figura e un secondo tapiro d’oro, con tanto di fascia del più furbo d’Italia. E così alla ribalta nazionale Colaiuta trascina indirettamente anche la celebre fidanzata, da anni impegnata anima e corpo nella questione della ricostruzione post sisma ma oggi famosa soprattutto per la sua storia d’amore. Qualche giorno fa il Corriere della Sera l’ha anche inserita nei momenti tv più brutti della settimana in quanto, sempre ai microfoni di Striscia, ha «sentito l’urgenza» di svelare ai telespettatori come la chiama il fidanzato nell’intimità (amore, Stefy, pesciolina, cuccioletta). Qualche giorno fa era stata proprio la senatrice Pezzopane a ricevere l’ambito tapiro d’oro in quanto, aveva raccontato il tg satirico, il suo compagno al termine della premiazione del Più bello d’Italia si sarebbe impossessato di una fascia per esibirla con fierezza sui social network e sui media e vantarsi poi di un secondo premio mai ricevuto. Poi domenica scorsa l’ex spogliarellista è stato ospite di Barbara d’Urso per raccontare la sua verità e accusare Striscia la Notizia: «hanno fatto un buco nell’acqua, hanno preso un abbaglio. In quel concorso non sono stato squalificato ma sono rientrato tra i primi 30. E' stato premiato il vincitore del concorso e poi è stato chiamato il mio nome per prendere la fascia sponsor. Mi sono recato davanti al palco e ho indossato la fascia». Striscia la Notizia, ha però scoperto che anche quella fascia sponsor sarebbe stato un vero e proprio bluff in quanto i vincitori che possono aggiudicarsi un premio sono solo i primi 8 classificati e Colaiuta non era tra loro. «Non esiste nel regolamento la possibilità di assegnare una fascia sponsor», ha chiarito Staffelli, «ad una persona che è fuori da questi 8». Inoltre lo sponsor che lo avrebbe premiato (una casa di produzione di jeans) è abruzzese «proprio come lei e la senatrice», ha fatto notare Staffelli, insinuando che ci fosse un accordo tra le parti. «Questo sponsor abruzzese le ha dato la fascia poi ha messo la foto sul sito… ma è un magna magna…» E Striscia non ha accettato le critiche mosse da Colaiuta: «se qui c’è chi ha preso un abbaglio e ha tentato di buttare fumo negli occhi è proprio Coccia», ha detto Ezio Greggio. E’ intervenuta anche nuovamente l’organizzatrice dell’evento per spiegare come funzionano le premiazioni e chiarire che le fasce che vengono aggiudicate sono due: quella bianca del vincitore assoluto del concorso e quella di colore giallo degli sponsor (ma quella di Colaiuta era bianca con sponsor, insomma un mix che nulla vuol dire). «Il signor Colaiuta», ha chiarito ancora una volta l’organizzatrice, «non è stato premiato né con la fascia nazionale né con la fascia sponsor commerciale. Staffelli ha contestato a Colaiuta il fatto che il giovane dopo l’evento abbia scritto su Facebook: «mi sono aggiudicato il secondo posto». «E’ stato un mio errore», si è giustificato, «è stata un’emozione….». Ma sempre su Facebook Colaiuta avrebbe scritto ancora altro: «finalissima nazionale io e Damiano i vincitori, gli unici due fasciati». A questo punto è scattato il tapiro con tanto di fascia «il più furbo d’Italia» e la sentenza dell’inviato di Striscia la Notizia: «ha fatto la taroccata e poi l’ha protratta nel tempo». E se prima della messa in onda della puntata Colaiuta annunciava su Facebook con (i suoi soliti) toni trionfali di aver registrato una intervista con Staffelli e di aver detto la «vera verità» («nell'occasione dirò delle questioni raccapriccianti che non ho potuto dire a Domenica Live!!!! Ne sentirete delle belle... »), dopo la messa in onda ha attaccato nuovamente Striscia, colpevole a suo dire un taglia e cuci delle sue dichiarazioni: «Tante dichiarazioni che ho rilasciato non sono andate in onda!!! Come mai??? La regia ha usato la forbice??? Ti perdono perché mi sei molto simpatico... Ma non si fa ridiamoci sopra i problemi nella vita sono altri». Nelle ultime ore tace invece la senatrice Stefania Pezzopane tirata indirettamente in ballo in tutto il teatrino. Era stata proprio lei, domenica scorsa da Barbara d’Urso in un video precedentemente registrato e con lacrime agli occhi a dirsi amareggiata per quello che sta avvenendo al fidanzato: «Povero Simone, ogni cosa che fai è merito mio o colpa mia. Simone è Simone. In tv ci andavi già prima. Quando lo capiranno? Davvero non hanno altro a cui pensare? Stiamo insieme da tanto tempo, ci vogliamo sempre più bene. Abbiamo trascorso insieme il primo Natale e alcuni hanno ancora pregiudizi, soprattutto su un uomo tatuato. Sono rammaricata perché i tuoi meriti vengono squalificati per colpire me. Ogni tua partecipazione ad un programma sarebbe frutto delle mie pressioni. Non è sopportabile. Tu da me non vuoi niente, io lo so, non mi fai pagare nemmeno una tazza di caffè al bar. Rifiuti ogni aiuto. Andiamo avanti. Ti amo».

Ma lo sponsor che ha premiato Colaiuta respinge al mittente le critiche mosse da Striscia la Notizia. Mauro Cianti, responsabile della ditta teramana smentisce la presunta “combine” e spiega: «prima di aderire alla manifestazione non abbiamo mai avuto legami nemmeno di semplice e mera conoscenza ne' con la senatrice Stefania Pezzopane, ne' con il suo fidanzato Simone Coccia Colaiuta, che abbiamo avuto il piacere di conoscere solo a distanza di un paio di settimane dall’evento di Roma. Le illazioni assolutamente gratuite fatte da Striscia la notizia su un eventuale accordo tra interregionali sono frutto di pura invenzione e vanno rispedite con fermezza al mittente. Un teorema frutto del particolare target della trasmissione televisiva tesa ad esaltare e dare per certe anche ipotesi le più fantasiose.  Da parte nostra non possiamo altro che confermare  l'assoluta casualità della relazione geografica tra la sede della nostra azienda e i due protagonisti della vicenda». Cianti spiega anche che l’azienda ha deciso di sponsorizzare l’intero concorso a carattere nazionale “Il più bello d’Italia”, e non una singola fascia «figurando dunque su tutte le fasce dei finalisti. Lo dimostra il fatto che il nostro marchio è presente anche su quella del vincitore del concorso. Da qui a cosa sia realmente accaduto quella sera, a Roma, su quel palco e come siano stati decisi i vincitori del concorso, non è a nostra conoscenza, tant’è che  sono in corso richieste di chiarimento, da parte nostra, all'agenzia di comunicazione che ha curato l’evento».

Da Striscia la notizia la senatrice del PD Stefania Pezzopane il 21 gennaio 2015  ha ricevuto un nuovo Tapiro d'oro a causa del suo giovane fidanzato Simone Coccia, ex spogliarellista, che si è finto uno dei finalisti del concorso Il più bello d'Italia, indossando una fascia da "secondo classificato" (pur essendo stato eliminato) per scattare alcune foto insieme alla sua compagna, da pubblicare sui social network, scrive “Abruzzo 24 ore tv”. Valerio Staffelli l'ha raggiunta per capire se, questa vicenda, possa in qualche modo danneggiare la sua corsa per il Colle, dal momento che possiede tutti i requisiti renziani per farlo: donna e con un profilo internazionale, viste le conoscenze con Clooney e Obama. La senatrice, però, ha negato ogni eventualità di una sua partecipazione: «Ci sono altri candidati. Mi ritengo giovane per fare il Presidente della Repubblica. Bene il nuovo Tapiro. Uno l'ho messo all'asta e questo lo tengo per me». Questa ricostruzione viene smentita proprio dallo sponsor Mauro Cianti, amministratore delegato di Don The Fuller, che non ci sta alla ricostruzione del presunto "inciucio" fra corregionali e lo mette nero su bianco su una nota giunta in redazione. In merito alle illazioni fatte nel servizio in onda su Striscia la notizia del 19 gennaio scorso, su una presunta “combine” intercorsa tra l’azienda  Don the Fuller e gli organizzatori del concorso “Il più bello d’Italia” per favorire un concorrente in gara, è doveroso precisare quanto segue. Prima di aderire alla manifestazione non abbiamo mai avuto legami nemmeno di semplice e mera conoscenza né con la senatrice Stefania Pezzopane, né con il suo fidanzato Simone Coccia Colaiuta, che abbiamo avuto il piacere di conoscere solo a distanza di un paio di settimane dall’evento di Roma. Le illazioni assolutamente gratuite fatte da Striscia la notizia su un eventuale accordo tra interregionali sono frutto di pura invenzione e vanno rispedite con fermezza al mittente. Un teorema frutto del particolare target della trasmissione televisiva tesa ad esaltare e dare per certe anche ipotesi le più fantasiose. Da parte nostra non possiamo altro che confermare  l’assoluta casualità della relazione geografica tra la sede della nostra azienda e i due protagonisti della vicenda. È doveroso precisare che “Don the Fuller Jeans” ha deciso di sponsorizzare l’intero concorso a carattere nazionale “Il più bello d’Italia”, e non una singola fascia figurando dunque su tutte le fasce dei finalisti. Lo dimostra il fatto che il nostro marchio è presente anche su quella del vincitore del concorso. Da qui a cosa sia realmente accaduto quella sera, a Roma, su quel palco e come siano stati decisi i vincitori del concorso, non è a nostra conoscenza, tant’è che  sono in corso richieste di chiarimento, da parte nostra, all’agenzia di comunicazione che ha curato l’evento.

Pezzopane, effusioni in diretta con il fidanzato toyboy, scrive “Libero Quotidiano”. Anche i politici hanno un cuore, e così capita anche che la senatrice Pd Stefania Pezzopane si racconti in studio, da Barbara D’Urso, insieme al suo fidanzato. Storia nota anche ai rotocalchi la loro, anche perchè il compagno della ex presidente della Provincia dell’Aquila, Simone Coccia Colaiuta, è un ex tronista di Uomini e donne. Ieri la partecipazione in coppia nel contenitore della domenica pomeriggio, con tanto di videolettera d’amore da parte di lui mentre lei glissa con un "si vedrà" a chi le chiede se davvero la nozze siano dietro l’angolo. Alla fine, rituale bacio in diretta, 'chiamato' a gran voce dal pubblico in studio. Ma sui social si sono scatenati commenti non così benevoli, come quelli di una follower che scrive: "La Pezzopane è liberissima di vivere la sua stora d'amore come vuole, ma adesso sta esagerando. Radio, giornali, televisioni, che senso ha andare a sbandierarla ai quattro venti? Più che una senatrice sembra un'attricetta". Altri le fanno notare la differenza d'età: 24 anni in più del fidanzato. Ma a questo l'ex presidente dell'Aquila aveva già risposto durante la trasmissione: "Sì, e che vuol dire? Pochi giorni fa Franceschini si è sposato con una donna che ha 20 anni meno di lui. Invece se lo fa una donna...". E cosa dice Matteo Renzi della storia d'amore con Colaiuta? "Non l’ho incrociato su questo aspetto. Penso mi voglia bene, sarà felice per me", ha detto la Pezzopane alla D'Urso spiegando che Simone, dopo appena 3 mesi che stavano insieme, le ha chiesto di sposarlo, ma lei ha sempre rimandato: “Troppo presto”, avrebbe risposto fino a oggi, quando alla domanda di Barbara lei risponde: “Vedremo, ma se ci sposeremo, tu sarai invitata”.

Pezzopane in tv racconta il suo colpo di fulmine. Sui social critiche feroci. Colletti su Facebook: «una vaschetta per i conati», scrive “Prima da Noi”. Ormai non si nascondono più e dopo la proposta di matrimonio in diretta radiofonica, la senatrice Stefania Pezzopane e il suo baby fidanzato (26 anni meno di lei), Simone Coccia Colaiuta, sono andati anche nel salotto televisivo di Barbara D’Urso.  Mano nella mano, sguardi complici, vezzeggiativi affettuosi e baci davanti alle telecamere: la senatrice aquilana ha raccontato di questo amore, nato prima come una «amicizia particolare» e poi esploso improvvisamente:  «Ci siamo conosciuti in un bar all’Aquila, il Gran Caffè», ha raccontato lei. «Simone mi ha salutata, mi ha detto che mi stimava, ci siamo presi un caffè ed è nata un’amicizia che è durata un bel po’, dopo essere andati insieme al lago di Campotosto siamo diventati inseparabili, ci sentivamo tutti i giorni e in una sera a cena, a casa mia, c’è stato il primo bacio». Sul matrimonio però c’è ancora incertezza: «non  so se ci sposeremo», ha detto la Pezzopane, con un divorzio alle spalle e una figlia di 16 anni a casa. «Lei e Simone vanno molto d’accordo», ha detto la senatrice. Ho una figlia molto intelligente». «Quando capita di avere delle piccole incomprensioni o delle piccole gelosie», ha rivelato lui, «ci capita di diventare come bambini di 3 anni, litighiamo. Entrambi orgogliosi e aspettiamo sempre che l’altro si faccia sentire per primo. Ma quando passano troppi minuti di silenzio andiamo in tilt e cominciamo a scriverci mille messaggi: ‘ti manco? Mi ami? Mi vuoi sposare?’ Paure e incertezze che mi fanno capire quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altra. In certi momenti siamo adulti, in altri siamo bimbi che si fanno i dispetti, il bello del nostro amore è proprio questo. Abbiamo mille sfaccettature e mille colori e la nostra storia è bella come un arcobaleno». Pezzopane ha rivelato di aver ricevuto tanti messaggi di solidarietà per questa storia d’amore così insolita: «i colleghi mi hanno gratificata. Maurizio Sacconi, presidente della Commissione dove lavoro, mi ha fatto gli auguri per la proposta di matrimonio e non me lo aspettavo perché non ci conosciamo. Un giorno mi ha detto, ‘complimenti, ho saputo che si è fidanzata’. Le altre colleghe mi dicono: "Brava, brava, complimenti per il coraggio". Avrei voluto tenere la situazione più privata, noi facciamo una battaglia per difendere il nostro amore. Le donne mi danno una forza immensa: in molte mi hanno fatto i complimenti perché ho avuto il coraggio di fare una cosa che altre non hanno fatto e vivono imprigionate in vite che non le soddisfano».  Matteo Renzi, invece, «non l'ho incrociato su questa vicenda personale. Lui è speciale, con una carica ed energia unica. Penso che mi voglia bene». La senatrice ha poi raccontato che la notte del 6 aprile 2009 il suo fidanzato ha salvato dalle macerie il suo migliore amico: «quando l’ho saputo dentro di me è scattato un meccanismo incredibile. Per noi aquilani il terremoto è uno spartiacque tra il primo e dopo. Quando mi ha detto il nome del vicesindaco, un mio amico che quella sera ha perso la moglie, ho avvertito che era un segno». E mentre andava in onda la puntata i social network si sono scatenati. Non sono mancati commenti della politica locale come quello del senatore del M5S, Andrea Colletti su Facebook: «Se volete vedere la pochezza culturale del PD mettete Canale 5. Ed una vaschetta vicino per i conati..» Su Twitter, però, i commenti più ‘cattivi’. «Facciamo gli auguri alla Sen. Pezzopane, dopo aver criticato le feste di Berlusconi, lei fa anche di peggio!» Il giornalista Paolo Madron ha scritto invece: «Su Canale 5 la storia d'amore della  #Pezzopane, la prova di come il terremoto dell'Aquila continui a produrre effetti devastanti». E poi altri messaggi di fuoco: «Per favore @matteorenzi manda via la #pezzopane che è davvero ridicola. Metti canale5... per carità!!!», «La comunista #Pezzopane ha tempo di fare il dolce in casa in un giorno lavorativo? Nemmeno io che non sono senatrice», «#pezzopane su #domenicalive che parla della #LoveStory con spogliarellista più giovane di 24 anni costerà almeno 5 punti al PD», «Noi italiani paghiamo la senatrice #pezzopane affinché mantenga uno spogliarellista.È chiaro che a questo lo paghiamo noi, no?» «Grazie a tutti. Per l'affetto e l'amicizia», ha scritto la senatrice alla fine della trasmissione sui social network. «Ricevo migliaia di messaggi e richieste di amicizia e non riesco a rispondere a tutti. E' stata un'occasione per dire la nostra, dopo tante sciocchezze e falsita'. La verità e l'amore vincono sempre».

Stefania Pezzopane e Simone Coccia, intervista di coppia: “Basta cattiverie, il nostro è vero amore”, scrive “Oggi”. La senatrice Pd 54enne e l’ex spogliarellista e concorrente a «Uomini e donne», di 23 anni più giovane, raccontano a Oggi in edicola come è nata la loro love-story, il loro rapporto, come hanno fatto le presentazioni in famiglia e… reagiscono alle critiche. «Non ho mai avuto il dubbio che Simone possa non essere in buona fede. Non sono una sedicenne, rivendico i miei 54 anni, le esperienze e la mia capacità di intuito. Ho scelto lui perché è autentico. Lui da me non si fa offrire neanche un caffè, ha il senso della dignità del maschio, dell’onore. Sono riuscita a stento a regalargli una giacca per il compleanno». Per la differenza d’età (e di centimetri) la Pezzopane è stata molto criticata, prima e soprattutto dopo loro apparizione in coppia in tv. «Che cosa mi ha dato più fastidio? I commenti brutali, misogini e maschilisti. Non mi sarei mai aspettata che amiche di sinistra, con cui ho condiviso battaglie in difesa delle donne, mi criticassero. Proprio le stesse, mi hanno criticata… Ho reagito andando fino in fondo. Andare in tv da Barbara D’Urso e baciare lì Simone è stato un atto con un valore politico». A Oggi la Pezzopane racconta poi le origini del rapporto, le presentazioni in famiglia («Mia figlia sedicenne e Simone hanno un bel rapporto, giocano a burraco insieme, chiacchierano molto, sono complici. Lei voleva farsi il piercing sul naso, io no, poi lui mi ha convinta»). E accusa: «La differenza d’età fa scandalo solo perché la più grande sono io. Berlusconi, 78 anni, sta con una trentenne; il ministro Franceschini ha sposato una donna di 25 anni più giovane e tutti a considerarlo figo. Io non ho sfasciato nessuna famiglia, e neanche Simone».

Stefania Pezzopane, la pasionaria anti-Cav pescata con l'ex narcos, scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Avrà anche misure ridotte, ma una vita sola non le basta. «Io sono alta 1,50 scarso. Berlusconi e più alto di me, ma non di tanto», ha detto una volta Stefania Pezzopane. E in questa dichiarazione c’è molto di lei, delle sue due esistenze. C’è il Cavaliere, sua ossessione e suo metro di paragone. E c’è il luogo in cui l’ha pronunciata, ovvero la trasmissione Un giorno da pecora, che ha tenuto a battesimo la sua nuova incarnazione gossippara. Proprio nello studio del programma di Radio Due, infatti, la Pezzopane ha ricevuto a settembre una proposta di matrimonio dal suo attuale fidanzato, Simone Coccia Colaiuta. Proposta, va detto, rispedita al mittente: «Ci devo pensare, la risposta la darò al momento giusto», disse lei. E lui se la pigliò in saccoccia in diretta. Ma la loro resta una bella storia, romantica. Si sono conosciuti all’Aquila, di cui lei è stata presidente della Provincia nei mesi bui del terremoto. Il primo incontro è avvenuto in bar, al Gran Caffè. «Lui mi ha salutata, mi ha detto che mi stimava, ci siamo presi un caffè ed è nata un’amicizia che è durata un bel po’ e poi si è trasformata in altro». Bravi, tanti auguri, che c’è di strano? C’è che lui ha 30 anni e lei 54. Vabbè, questa è una curiosità da rotocalco: di cinquantenni che si trovano il toy boy è pieno il mondo. Simone, però, è un toy boy particolare. Alto, statuario, tatuatissimo, ha un passato da spogliarellista (anche se la Pezzopane ci tiene a precisare: «Non l’ho mai visto esibirsi»). Ma, soprattutto, è stato un corteggiatore nel programma di Maria De Filippi Uomini e donne. E qui c’è il primo cortocircuito, che ha a che fare con la vita precedente della minuta Stefania: quella da antiberlusconiana di ferro. I primi schizzi di celebrità la nostra li ottenne subito dopo il sisma aquilano. Si distinse perché sparava a palle incatenate contro Silvio e il suo governo. Strinse anche un sodalizio con Sabina Guzzanti, cementatosi con l’uscita del docu-film Draquila. Sul sito di Sabina si trova ancora la commossa recensione che ne fece la Pezzopane. La Guzzanti, secondo lei, aveva risposto per le rime alla «violenta disinformazione che il governo aveva orchestrato alla perfezione sul set del terremoto»; aveva rotto il «muro del conformismo» raccontando «l’abbandono a cui l’Aquila era stata lasciata a marcire» (che si dica «l’abbandono in cui»? Mah). Scriveva la Pezzopane, citando l’amica Sabina: «Quando gli aquilani si sono accorti di essere stati gabbati, le telecamere erano ormai spente o impegnate su altri scenari, come Messina, Hayti» (che si scriva Haiti?). E aggiungeva che per l’Aquila era stata utilizzata «una strategia comunicativa infernale che ha inventato proprio Berlusconi, e che nessun altro può usare come lui che le telecamere le comanda a suo piacimento». Peccato che dell’inferno catodico berlusconiano la Pezzopane si sia servita ampiamente, in questi mesi. Il suo fidanzato (da cui si fa accompagnare in Senato) viene appunto da Uomini e donne. Ma c’è di più: dopo il rifiuto iniziale, pare che i due potrebbero effettivamente sposarsi. E sapete dove l’hanno annunciato? A Domenica Live, nel salotto di Barbara d’Urso. Si sono pure baciati in diretta. Più berlusconismo televisivo di così, si muore. Eppure la Pezzopane l’astio per Silvio l’ha sempre coltivato. Divenuta senatrice, è stata vicepresidente della Giunta per le immunità. Cioè quella che ha sbattuto il Cav fuori dal Parlamento. E Stefania era in prima linea nel sostenere la cacciata. Non molto tempo fa, poi, a chi le rinfacciava la relazione con l’ex tronista, la Pezzopane rispondeva, piccata: «Berlusconi è più scandaloso di noi», con evidente riferimento alle «cene eleganti». E qui c’è l’ennesimo cortocircuito. Perché la cara Stefania fa la difficile con le frequentazioni altrui. Ma un po’ meno con le proprie. Dal sito Malabellavita.it apprendiamo che la Pezzopane dovrebbe realizzare la prefazione alla terza edizione di un libro (Malabellavita, appunto) firmato da Gennaro Bonifacio, detto Rino. Chi è costui? È il signore con gli occhiali che appare nelle foto che pubblichiamo, in compagnia della senatrice e del suo fidanzato. Dal libro, si evince che Bonifacio è stato, prima di ravvedersi, una specie di re dei narcotrafficanti. Tre condanne, 18 anni di vita (su 45) passati in 11 carceri diverse. Accusato due volte di associazione di stampo mafioso (poi assolto). Tra i primi a importare l’ecstasy in Italia. Come ha scritto Stefano Lorenzetto, nel 2001 a Bonifacio fu sequestrato «il più grande quantitativo di stupefacenti mai scoperto fino ad allora in Italia, una tonnellata di cocaina, arrivata dalla Colombia nel porto di Livorno occultata dentro blocchi di marmo sottoposti a sapiente carotaggio (…). Altri 250 chili li bloccò la Guardia di finanza al casello di Binasco, altri 150 era già riuscito a piazzarli. La Direzione distrettuale antimafia di Milano documentò un traffico complessivo di 4,7 tonnellate, sufficienti a confezionare 14 miliardi di dosi». Però. Questo è il signore che vedete placidamente accomodato nella vasca idromassaggio con la Pezzopane. Mica è illegale, eh. Tanto più che se un ex narcos può cambiare vita, figuriamoci se una pasionaria antiberlusconiana non può sbaciucchiarsi dalla d’Urso con un ex tronista.

Pezzopane nella vasca idromassaggio con l’ex narcos. La senatrice: «nessuno scoop», scrive “Prima da Noi”. La senatrice Stefania Pezzopane (Pd) in costume in una vasca idromassaggio, all’aperto. Alla sua sinistra il giovane fidanzato Simone Coccia Colaiuta, e alla sua destra Gennaro Bonifacio, ex narcotrafficante. La foto è stata pubblicata oggi dal quotidiano Libero che racconta «l’ultima impresa» della «pasionaria del Pd», ossessionata da Silvio Berlusconi che avrebbe ottenuto celebrità, scrive il giornale di centrodestra, «sparando a palle incatenate contro» l’ex premier e il suo governo. «Peccato che dell’inferno catodico berlusconiano la Pezzopane si sia servita ampiamente, in questi mesi», ricostruisce ancora il giornale riferendosi all’intervista con il giovane fidanzato rilasciata a Domenica Live, nel salotto di Barbara d’Urso, «più berlusconismo televisivo di così, si muore». Il giornale pone l’accento sulla presunta mancata coerenza della senatrice abruzzese, avvezza a contestare le abitudini di Berlusconi («è più scandaloso di noi» disse riferendosi alle «cene eleganti») o le sue frequentazioni. Da qui la foto con l’ex narcos: 3 condanne, 18 anni di vita (su 45) passati in 11 carceri diverse. Accusato due volte di associazione di stampo mafioso (poi assolto). Tra i primi a importare l’ecstasy in Italia. Come ha scritto Stefano Lorenzetto, nel 2001 a Bonifacio fu sequestrato «il più grande quantitativo di stupefacenti mai scoperto fino ad allora in Italia, una tonnellata di cocaina, arrivata dalla Colombia nel porto di Livorno occultata dentro blocchi di marmo sottoposti a sapiente carotaggio (…). Altri 250 chili li bloccò la Guardia di finanza al casello di Binasco, altri 150 era già riuscito a piazzarli. La Direzione distrettuale antimafia di Milano documentò un traffico complessivo di 4,7 tonnellate, sufficienti a confezionare 14 miliardi di dosi». Scontata la sua pena oggi Bonifacio vive una seconda vita che comprende anche la stesura di una biografia la cui prefazione è stata firmata proprio dalla senatrice del Pd. «E’ un non scoop», commenta la Pezzopane. La foto, rivela la senatrice, risale a quest’estate, in una piscina a L’Aquila. Mi chiedo: ma dov'è la notizia? Forse nel titolo che mi definisce Pasionaria anti-Cav?» Secondo l’esponente del Partito Democratico, dunque, nulla di sconveniente o che meriti di finire su un giornale: «non c'è alcun mistero dietro la fotografia. Quest'estate ho incontrato pubblicamente Gennaro Bonifacio perché ho deciso di scrivere la prefazione al suo libro di memorie, che testimonia il percorso esistenziale di una persona che, dopo aver scontato la pena per i reati commessi, ha deciso di cambiare vita e rappresenta quindi, in questo, un esempio positivo. Anche qui, nessun mistero: io stessa ho dato, attraverso un comunicato, la notizia che avrei scritto la prefazione. Il libro Malabellavita verrà presentato i primi di dicembre a Roma, al Senato. Se la fotografia fosse stata pubblicata integralmente, tra l'altro, si sarebbe vista anche la moglie di Bonifacio, accanto a lui. Prima di scrivere la prefazione, infatti, ho voluto conoscere meglio sia lui che la sua famiglia. Per quanto riguarda il resto dell'articolo di Libero, è vero che il governo Berlusconi dopo i primi clamori mediatici abbandonò L'Aquila e i Comuni del Cratere al loro destino, dal quale ancora dobbiamo riemergere ed è vero che, come componente della Giunta per le immunità, ho esercitato il mio diritto di voto sul caso Berlusconi».

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

Un reportage su come la stampa ha presentato ed enfatizzato un evento mediatico giudiziario.

Blitz contro neofascisti, 14 arresti. Nel mirino politici, magistrati e sedi Equitalia, scrive “La Stampa”. Il gruppo clandestino aveva elaborato un piano per “minare la stabilità sociale” del Paese e voleva anche fondare un “proprio” partito. 14 persone arrestate e 48 indagate. È il bilancio dell’operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros, denominata “Aquila Nera”, che hanno scoperto un gruppo clandestino che, richiamandosi agli ideali del disciolto movimento neofascista “Ordine Nuovo”, progettava «azioni violente contro obiettivi istituzionali». Il piano degli indagati era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti da compiersi su tutto il territorio nazionale al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e dall’altro un’ opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito». Il gruppo si proponeva di uccidere politici “senza scorta”, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e compiere attentati nei confronti di Questure, Prefetture e far saltare le sedi di Equitalia con il personale dentro. Gli arresti sono avvenuti tra L’Aquila, Montesilvano, Chieti, Ascoli Piceno, Milano, Torino, Gorizia, Padova, Udine, La Spezia, Venezia, Napoli, Roma, Varese, Como, Modena, Palermo e Pavia. Nell’ordinanza di custodia cautelare si contestano i reati di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e associazione finalizzata all’incitamento, alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tentata rapina.  I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa, guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pm, Antonietta Picardi, avviata nel 2013 dai carabinieri del Ros. In particolare, le indagini sono partite attorno al gruppo “Avanguardia ordinovista” guidato da Stefano Manni, 48 anni, originario di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano, fino a dieci anni fa era nell’Arma dei carabinieri. Vanta un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. “Avanguardia ordinovista” intratteneva contatti con altri gruppi di estrema destra con cui, secondo i militari del Ros, intendeva unirsi nel processo di destabilizzazione e lotta politica quali i “Nazionalisti Friulani”, il “Movimento Uomo Nuovo” e la “Confederatio”.  Tra gli indagati anche Rutilio Sermonti, già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, prolifico scrittore e artista. È considerato una delle figure più note nel panorama degli intellettuali di estrema destra. Scrivono i Ros: «Sermonti fornisce sostegno ideologico alla struttura avendo inoltre redatto un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione esplicitamente ispirato all’epoca fascista. E incita i sodali del gruppo "all’offensiva"». Stando a quanto dichiarato in conferenza stampa dal generale Mario Parente, Comandante Nazionale dei Ros, e dal Procuratore della Repubblica dell’Aquila, Fausto Cardella, il gruppo avrebbe «utilizzato il web ed in particolare il social network Facebook come strumento di propaganda eversiva, incitamento all’odio razziale e proselitismo». A tal riguardo Manni aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale, in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva invece le progettualità eversive del gruppo. Secondo quanto si è appreso sarebbero coinvolti anche due aquilani. Il gruppo necessitava di armi per poter realizzare i propri scopi. Ne aveva recuperate alcune sotterrate dopo l’ultima guerra mondiale, altre le aveva acquistate in Slovenia tramite contatti locali. Un ulteriore approvvigionamento era stato studiato tramite una rapina ai danni di un collezionista, poi sventata da uno stratagemma dei militari. Tra i progetti sfumati, hanno riferito gli investigatori, anche quello di assassinare il noto ordinovista, Marco Affatigato, ritenuto “infame” poiché asseritamente legato ai servizi segreti. Affatigato, esponente di Ordine Nuovo dal 1973 al 1976, è attualmente latitante in quanto accusato di «associazione sovversiva». Durante le indagini sono state utilizzate anche persone sotto copertura. «Noi crediamo di essere arrivati prima che l’organizzazione entrasse in azione, i progetti c’erano, non potevamo correre il rischio di scoprire dopo quanto fossero concreti», ha detto il procuratore distrettuale antimafia dell’Aquila, Fausto Cardella. «Abbiamo verificato che il comportamento e le condotte degli indagati rientravano nella fattispecie dell’articolo 270 bis, e abbiamo agito di conseguenza - ha continuato -. Per la prima volta abbiamo applicato la norma che prevede la presenza di agenti infiltrati, che hanno avuto un ruolo molto importante, assieme alle intercettazione e agli altri strumenti investigativi utilizzati». Cardella sottolinea che «la procura nazionale antimafia ha gli strumenti, tutte le potenzialità per creare un coordinamento più stretto tra le procure, serve una norma, un legge che gli dia facoltà a farla». Ha poi spiegato anche che «le non precisate azioni eversive erano in cantiere anche in Abruzzo, dove era la base operativa». 

“Uomini degenenerati, Stato tuteli l’igiene”. La folle Costituzione di Sermonti, scrive Andrea Cumbo su “Il Fatto Quotidiano”. Aberrante ogni attività che faciliti le donne a lavorare". Dal divieto di possedere tv private alla contrarietà all produzione di energia se non "quella umana o animale". Ecco l'Italia progettata da Rutilio Sermonti, l'ideologo del “Nuovo fronte politico italiano”. "Lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare alla parte femminile della popolazione un crescente accesso alle attività economiche retribuite". Sono quindi promossi corsi di economia domestica destinate a qualificare professionalmente la preziosa attività di casalinga. Così recitano gli articoli 14 e 15 dello “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, scritto da Rutilio Sermonti, 94enne ex repubblichino, considerato l’ideologo del gruppo neofascista “Avanguardia ordinovista”, finito il 23 dicembre nelle rete dei Ros, che hanno arrestato 14 membri nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”. Sermonti è ancora lucidissimo e la sua idea di una nuova Carta Costituzionale, composta di 85 articoli (leggi) , benché possa sembrare poco incline ai progressi degli ultimi settant’anni, è molto seria. Il capitalismo e la meccanizzazione sono il nemico numero uno della società, che deve muoversi per limitarne i danni. Così, nell’articolo 18, si legge che lo Stato deve privilegiare l’igiene sulla medicina: “Secoli di sviluppo economico finalizzato al profitto hanno provocato un modello di sviluppo gravemente pregiudizievole per l’integrità psico-fisica”. Tanto che non esistono più uomini e donne “completamete sani”, a differenza che tra le altre specie, per le quali “i rari menomati vengono prontamente eliminati dalla selezione naturale. Lo Stato ha il dovere di contrastare tale tendenza degenerativa”. Per igiene si intende proprio la preservazione di questi danni, causati dalla “ridicola pretesa di dominare la natura e di fare tutto spingendo un bottone“. Del progresso, insomma, il gruppo guidato da Stefano Manni non vuole saperne. La parola chiave è risparmio energetico: al bando ogni attività di “aumento di energia artificiale disponibile diversa da quella umana o di animali domestici, tranne che non sia strettamente indispensabile”. Per questo gli orari lavorativi verranno anticipati per sfruttare la luce solare e sarà prevista “l’educazione del pubblico attraverso vacanze che non siano a centinaia di chilometri”, per limitare il trasporto su gomma. La luce elettrica verrà limitata nelle campagne, al pari della programmazione h24 in televisione. Le trasmissioni saranno disponibili solo per alcune ore, dopodiché l’apparecchio, non importa se a schermo piatto o meno, dovrà essere spento. E proprio la disciplina dell’uso del mezzo televisivo avrebbe risolto il più grande conflitto d’interessi degli ultimi venti anni: l’articolo 70 vieta espressamente ai privati il possesso di una rete televisiva. Al contrario, è permesso l’uso commerciale degli altri mezzi stampa (radio e carta stampata, internet non è contemplato nella Costituzione) purché non svolgano azione persuasiva contraria a quella deliberata dalla Camera delle Funzioni. Quest’ultima è l’organo legislativo dell’ordinamento progettato dai neofascisti, dove tutti, anche i semplici cittadini, possono portare avanti proposte, per le quali, tuttavia, è esclusa la modalità del voto a maggioranza. Stando al restyling delle “leggi fascistissime” del ’25 e del ’26, chi promulga le leggi è il presidente della Camera delle funzioni, una sorta di neo-Duce scelto dalla stessa, che decade solo per morte o invalidità. “Le c.d. tornate elettorali – si legge infatti nelle disposizioni transitorie – non esistono più e le designazioni del popolo avvengono in modo continuo, meditato a ragion veduta e silenzioso”. Cosa si intenda per “silenzioso”, Sermonti non l’ha ancora spiegato. Nel testo viene riversata anche l’ideologia dei neofascisti sui diritti civili. “Viene tutelata la famiglia che nasce dalla comune volontà di due persone di sesso diverso che stipulano tra loro un patto indissolubile e di reciproca dedizione. Si denomina matrimonio”, recita l’articolo 28, da cui si evince una scarsa inclinazione ai cambi di nomenclatura. “Al padre è affidata la rappresentanza della famiglia nei rapporti con terzi ritenendosi il maschio più idoneo a tali funzioni”, si legge negli articoli seguenti, mentre il “divorzio è previsto solo in presenza di requisiti oggettivi, tra cui non figura la volontà dei coniugi in caso di presenza di figli minorenni”. Nell’Italia di Avanguardia ordinovista ritornerebbe anche la legalizzazione della prostituzione. Obbligatorio, si intende, il controllo sanitario.

Inchiesta “L’Aquila nera”. Ecco chi sono gli aspiranti terroristi di “Avanguardia Ordinovista”. «Progettavano attentati anche contro magistrati ed Equitalia», scrive Alessandro Biancardi su “Prima da Noi”. Due anni di indagini, indagini effettuate anche monitorando le pagine personali dei social network degli indagati e ascoltando le loro telefonate. Secondo la procura aquilana oltre i proclami e le frasi offensive, i propositi violenti c’era e il gruppo capeggiato da Stefano Manni, ex carabiniere marchigiano residente a Montesilvano, era pronto a colpire davvero. Il gruppo si identificava con la sigla “Avanguardia Ordinovista” e quale “Centro Studi Progetto Olimpo”, scuola politica di area neofascista. Secondo la procura de L’Aquila, pm Antonietta Picardi, si tratta della moderna riedizione del Movimento Politico Ordine Nuovo, che nasceva proprio quale omonimo “Centro Studi”. Il piano degli indagati nell'ambito dell'operazione del Ros che ha portato agli arresti disposti del gip dell'Aquila era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall'altro un' opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro "nuovo" partito».

I PROTAGONISTI.

STEFANO MANNI: IL PARENTE DI GIANNI NARDI. Secondo i carabinieri del Ros Manni, 48 anni, residente a Montesilvano, è il capo indiscusso dell’organizzazione. Nato ad Ascoli Piceno, ma residente a Montesilvano, è un ex sottufficiale dei carabinieri, congedato per infermità dopo oltre un decennio di servizio attivo. Il fatto di essere un ex militare è utilizzato dal Manni per accreditarsi quale conoscitore di dinamiche investigative, di addestramenti militari. Manni si vantava anche di una parentela con il terrorista Gianni Nardi. I due potrebbero avere una parentela alla lontana considerando che le rispettive famiglie sono originarie di Venarotta, piccolo comune dell’ascolano. Peraltro, i Carabinieri hanno rilevato come l’uomo, dopo essere stato congedato dall’Arma dei Carabinieri, sia stato assunto dalla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi. La storia di Gianni Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chieie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi (che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia), morì in un incidente d’auto che, all’epoca, destò particolari sospetti circa l’accidentalità dell’evento. Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio. Su Facebook Manni era molto attivo, con un profilo palese ed altri fake utilizzati per amplificare i messaggi divulgati dal primo ad un circolo ristretto di collaboratori. Due le cerchie di seguaci: una conosciuta di persona, un’altra no. Il linguaggio utilizzato con gli uni o gli altri appare differente: nella dimensione pubblica su Facebook Manni è esplicito nell’esporre quelle che ritiene essere le problematiche della società contemporanea, ma vago e generico nelle intenzioni e proposte di “soluzione”. Nel ristretto del privato cerchio degli affiliati, esplicitandava invece la via violenta da intraprendere per stabilire «il nuovo ordine sociale». Il doppio livello, ha ricostruito la Procura, vi è anche nelle operazioni di verifica dei soggetti con ‘gli amici’ con i quali entrare in contatto: una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare (in almeno un caso, un utente sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione).

MARINA PELLATI: LA CONVIVENTE. Marina Pellati, 49 anni, anche lei residente a Montesilvano, è la convivente di Manni. Secondo gli investigatori avrebbe effettuato proselitismo utilizzando principalmente Facebook, dove è registrata con numerosi profili anche utilizzando identità fittizie, compresa quella di un fantomatico “generale dei Carabinieri di 71 anni” che garantirebbe sostegno ideologico al suo gruppo tramite una pagina Facebook denominata “Nuovo Centrostudi Ordine Nuovo”.

RUTILIO SERMONTI: L’AUTORE DELLA “COSTITUZIONE”. Rutilio Sermonti, 93 anni, di Ascoli Piceno viene definito come l’ideologo del gruppo. Già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, scrittore e artista è considerato una delle figure più importanti nel panorama degli intellettuali di destra. A conoscenza, tramite Manni, dell’esistenza dell’associazione e della progettualità della stessa fornisce sostegno ideologico «riconoscendo la legittimità secondo il proprio pensiero dei fini perseguiti, incitandone l’operatività». É autore di un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista. Il documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento. Sermonti si avvale della collaborazione di Mario Mercuri, 80 anni di Petritoli, Ascoli Piceno, anche lui indagato, che organizza incontri con Manni e altri operativi ed è, a sua volta, promotore di una fondazione.

LUCA INFANTINO. Luca Infantino, 33 anni di Legnano (Milano), secondo gli inquirenti sarebbe il co-promotore dell’organizzazione e starebbe allo stesso livello di Manni. «Condivide ogni aspetto strategico dalle condotte volte al proselitismo», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «le verifiche di nuovi associati, la programmazione di azioni violente, la realizzazione di un disegno politico formale parallelo». Manni ipotizza la creazione di una dimensione politica ufficiale e legittimata da far crescere parallelamente al progetto eversivo, Infantino compie i primi passi per la costituzione di tale contesto ufficiale, fondando il “Centro Studi Progetto Olimpo” e la “Scuola Politica Triskele”. Realtà da ritenersi regolari –sostengono gli stessi investigatori- che servivano per fare proseliti.

MARIA GRAZIA CALLEGARI. Lei, originaria di Varese, è strettissima collaboratrice di Manni. Componente della ristretta cerchia di soggetti che, nell’ambito dell’associazione, ha diritto di espressione in ordine ad ogni tematica, compresa la valutazione delle azioni da compiere e delle modalità esecutive. Manni le ha affidato il compito di verifica dei profili Facebook di simpatizzanti, nonché della verifica di secondo livello incontrando personalmente potenziali nuovi “operativi” da arruolare. «Ha espresso più volte disponibilità all’azione in prima persona», chiariscono i Ros.

KATIA DE RITIS: LA CONSIGLIERA COMUNALE. Katia De Ritis, 55 anni di Lanciano, viene identificata dai carabinieri come un importantissimo punto di riferimento di Manni. Come Infantino, si dedica alla vita politica pubblica ma contemporaneamente «lavora sottotraccia». In tal senso, è presente nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale; in tale veste, è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito (Chieti). Alla dimensione politica pubblica affianca una parallela attività clandestina eversiva, sostengono gli inquirenti, e rappresenta per Manni «un punto di riferimento sia per la promozione di incontri programmatici tra affiliati, che per l’individuazione di strategie e obiettivi». Secondo la procura vanta contatti con militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia” operante a Roma. Nell’ultimo periodo d’indagine secondo la procura si è spesa per «individuare obiettivi fisici da colpire e canali per il reperimenti di armi da fuoco e per i contatti con altri gruppi operativi».

PANDOLFINA DEL VASTO: L’AMICO CON L’ARSENALE. Emanuele Lo Grande Pandolfina del Vasto, 63 anni, originario di Palermo ma residente a Pescara avrebbe invece espresso disponibilità a compiere azioni anche da solo, vista la lentezza alla messa in atto di azioni violente da parte del Manni, considerata persona «troppo riflessiva». Secondo gli inquirenti avrebbe dato dimostrazione della sua determinatezza mettendo in atto le fasi prodromiche alla rapina ai danni un cacciatore, suo amico.

FRANCO LA VALLE E FRANCO MONTANARO. Franco Montanaro, 46 anni di Roccamorice, appartenente a Condeferatio, un’organizzazione autonoma e radicata in tutta Italia, ha ritenuto, dicono gli inquirenti, di dover agganciare Manni e il suo nuovo gruppo per la commissione di azioni violente. La Valle, Montanaro e Manni si conoscono almeno dal novembre 2001, data in cui hanno partecipato a un Forum a Fara Filorum Petri in provincia di Chieti.

LUIGI DI MENNO DI BUCCHIANICO. Luigi Di Menno Di Bucchianico, 47 anni di Lanciano, è in possesso di porto d’armi per uso sportivo. «Nei suoi ideali vede un intervento violento contro personalità dello Stato (sia esse nazionali che locali)», scrivono gli inquirenti, «finalizzato alla dimostrazione di una strategia della tensione e alla dimostrazione della loro esistenza». Secondo la ricostruzione degli inquirenti ha messo a disposizione del gruppo le sue idee e i suoi obiettivi in una riunione tenuta nell’ottobre 2014 presso l’abitazione della De Ritis e avrebbe mostrato insofferenza per la lentezza della messa in azioni da parte di Manni.

FRANCO GRESPI. Franco Grespi , 52 anni di Milano, secondo quanto analizzato dai carabinieri del Ros, si sarebbe invece occupato del reperimento di fondi per l’acquisto di armi, fornendo disponibilità per azioni violente (rapine, omicidi, acquisto di armi tramite canali illegali stranieri). In particolare, il Grespi «si é occupato del reperimento di esplosivi e armi da fuoco, per le quali ha intessuto contatti con fornitori stranieri; ha dato la disponibilità per essere l’esecutore materiale dell’attentato a Marco Affatigato e per rapine presso supermercati e abitazioni private».

ORNELLA GAROLI. Ornella Garoli, 53 anni anche lei di Milano e compagna di Grespi avrebbe invece dato la sua disponibilità alla commissione di azioni violente; «oltre a commentare sulla chat la sua posizione ideologica, ha operato sopralluoghi presso supermercati abruzzesi finalizzati alle rapine e si è prestata a essere una delle persone che dovevano compiere la rapina presso l’abitazione di un cacciatore che deteneva l’arsenale».

NICOLA TRISCIUOGLIO. Trisciuoglio, 53 anni di Napoli, pur non avendo un ruolo verticistico in seno all’associazione, viene considerato dagli investigatori comunque interno al gruppo, «sostenitore sul piano della condivisione ideologica». Ex avvocato napoletano, radiato dall’ordine degli avvocati partenopeo nel 2005, ha svariati precedenti per truffa, estorsione ed altro, nonché pregiudizi per reati di istigazione all’odio razziale ed apologia al fascismo. Ha fondato il “Movimento Uomo Nuovo” e il movimento politico “Identità Nazionale”. Concorda con il Manni l’attuazione di un disegno eversivo stragista.

VALERIO RONCHI. Valerio Ronchi, 48 anni di Mariano Comense si è reso disponibile all’azione violenta. Anch’egli su sia su Facebookche in conversazioni telefoniche ha affermato che l’unica soluzione per le problematiche italiane è l’attuazione di azioni violente atte a destabilizzare lo Stato. Ha partecipato unitamente alla convivente, Giuseppa Caltagirone, al primo incontro della Scuola Politica Triskele organizzato da Luca Infantino con il beneplacito di Stefano Manni, tenutosi a Milano l’8 febbraio 2014. Dall’intercettazione ambientale effettuata dal R.O.S dei Carabinieri, Valerio Ronchi ha ribadito, anche in quell’occasione, la necessità dell’attuazione di azioni violente indirizzate «non solo contro le strutture».

Arrestati i neofascisti del terzo millennio. "Riprenderemo la strada dell'Italicus". Gli arrestati fanno parte di un gruppo di estrema destra che si rifà al movimento Ordine Nuovo. Dai verbali emerge il loro piano eversivo: la loro rivoluzione nera, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros coordinato dalla procura dell'Aquila: 14 gli arresti in varie regioni italiane nei confronti di un gruppo che si richiama agli ideali del disciolto movimento neofascista «Ordine Nuovo» e che progettava azioni violente contro obiettivi istituzionali. Tra gli arrestati Rutilio Sermonti. L'ideologo, reduce Repubblichino, ex Ordinovista, tra i fondatori del Movimento sociale e candidato con Forza nuova alle provinciali di Latina nel 2009. È lui l'intellettuale che aveva il compito di scrivere una Costituzione fascista. «É autore infatti di un documento denominato “ Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare. «Tale documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento». Sermonti in contatto con gli arrestati è considerato “il Vate”, il “Mentore”. A casa del repubblichino sono stati organizzati vari summit dell'organizzazione. Uno degli incontri è avvenuto anche a Milano, nello studio dell'archeologo, studioso del nazifascimo, Giancarlo Cavalli. In tutto sono 55 gli indagati, e tutti accusati di essere promotori di un’associazione denominata “Avanguardia Ordinovista”, « tramite la creazione di un CENTRO STUDI “PROGETTO OLIMPO” che richiama gli ideali del disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, alla quale partecipano con il proposito del compimento di atti di violenza (tramite attentati a Equitalia, magistrati e forze dell’ordine) al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e poi introdursi tramite un’apparente attività lecita di partecipazione alle elezioni con il partito da loro creato, all’interno dell’ordine democratico quale unica soluzione alla destabilizzazione sociale», si legge nel mandato di cattura. «Un piano eversivo “studiato a tavolino”» proseguono gli inquirenti, basato su un doppio binario: «da un lato la previsione di atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall’altro un’opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito, da loro costituito, che dovrebbe rappresentare per lo Stato l’unica soluzione alla disfatta e alla strategia del terrore». L'organizzazione era strutturata su un doppio livello: simpatizzanti, raccolti principalmente su Facebook e un circolo ristretto di collaboratori. Se sulla pagina del social network si facevano proclami generici di rivoluzione nera, era nel privato che il progetto prendeva forma: «Nel privato cerchio degli affiliati, veniva esplicitata la via violenta da intraprendere per stabilire il nuovo ordine sociale». Un doppio livello messo in piedi anche nella verifica dei soggetti con i quali il gruppo di estremisti entrava in contatto: «Una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare». Per i sospetti infiltrati il piano prevedeva la soluzione finale: l'uccisione. «In almeno un caso, un soggetto sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione» continuano gli investigatori. Alla cellula eversiva sono state trovare anche armi e si è scoperto che stava progettando un omicidio contro Marco Affatigato, ex  di Ordine nuovo sospettato di far parte dei servizi segreti. La sua colpa è quella di essere «infame», di aver tradito i camerati. Il piano di morte non verrà però portato a termine. Un quadro pesante. Ipotesi inquietanti. Che fanno ripiombare il Paese negli anni della strategia della tensione. Tra gli arrestati c'è Stefano Manni, ex carabiniere in congedato per infermità. Lui vanta parentele con uno dei leader di Ordine Nuovo, il terrorista Gianni Nardi.«I due potrebbero avere una parentela alla lontana» annotano i militari del Ros. Un elemento che confermerebbe tale vicinanza tra i due è, secondo la procura e i Carabinieri, l'assunzione di Manni, dopo il congedo, «alla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi». La storia dell'ex ordinovista Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato, tra l'altro, per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi(che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia). Nardi morì in un incidente d’auto. «Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio» si legge nell'ordinanza. Tra di loro gli indagati ricordano gli anni delle bombe. Evocano una nuova strategia, «credo sia il caso di riprendere la strada dell'Italicus...ma su ampissima scala...Nicola questo è un popolo che non merita nulla, l'ultima dimostrazione l'abbiamo data, che io sono italiano e quindi l'abbiamo data, con il non funerale di Priebke». E sempre sulla strategia da adottare Manni dice: «L'unico modo legale...è ..è....l'unico modo...non è legale....ma l'unico modo, è destabilizzare fortemente la situazione colpendo obiettivi ma mirati no le stazioni». Il braccio destro di Manni è Luca Infantino che ha una sua idea di organizzazione: deve avere una « struttura organica schematica e militare, con idee precise e obiettivi programmati, facendo presente che l’atto eversivo deve essere fattibile ed è necessario trovare gente disponibile ad effettuarlo. La gente disponibile ad attuare il piano ci sarebbe ed anche le armi starebbero arrivando, ma, fino a quando non si hanno persone di fiducia, le armi, non ha intenzione di farle arrivare» scrivono i detective. Nei suoi dialoghi e scritti Infantino ribadisce più volte la necessità «dell’individuazione degli obiettivi da colpire e nella fattispecie Equitalia, Banche, Poste, Prefetture, Uffici regionali e Statali, precisando che le azioni compiute non devono essere indicative della provenienza politica, pertanto non bisogna colpire la Kienge perché altrimenti verrebbe individuata l’area politica responsabile dell’azione. Quest’ultima deve essere simultanea e potrebbe colpire le città di Roma, Milano e Firenze per creare una punta di terrore, in quanto solo due bombe ad Equitalia non verrebbero commentate sui media». Tra le centinaia di intercettazione, ce ne sono alcune in cui i neofascisti ragionano su come portare avanti le azioni violente. Anche contro gli imprenditori dell'accoglienza: «Vedi Forza Nuova ha identificato, come si dice, identificato, li ha resi pubblici, tutti gli alberghi, le strutture che li stanno ospitando, con loro faremo i conti dopo,tu hai un albergo, hai giocato sulla pelle degli italiani, ospitando i baluba, facendo dare 50 euro al giorno ai baluba io non ti ammazzo, ammazzo i figli tuoi a futura memoria, affinchè tu abbia un ricordo indelebile per tutta la vita, hai tradito il popolo italiano, il popolo italiano ti ripaga scannandoti tuo figlio davanti agli occhi, quando dico scannandoti non intendo una (incomp) tagliare da qui a qui (poco comp) faremo i conti dopo , adesso è fondamentale colpirli dove si aggregano, è fondamentale colpirli dove si aggregano». Colpire per uccidere. È questa secondo la procura l'aspetto più pericoloso dell'organizzazione fascista. «Vedi Lui’….se tu mi dici è mi mandano in servizio senza benzina e poi li scorti, devi morire, sei un poliziotto devi morire, sei un carabiniere devi morire, devi morire perché tu hai tradito il tuo popolo a vantaggio del (...) non c’è una pena alternativa…tu mi dirai che ti metti ad ammazzare tutte le Forze dell’Ordine, si, ma io non credo che siano tutte, perché oggi tu stai pagando 30 mila euro al mese per una Fornero che senza fare nulla va a fare shopping», continua il duce versione 2.0 Stefano Manni. «Noi, si è sempre stati, “puri e duri”, non l'abbiamo promesso, ma appena ci riuniremo torneremo! Siamo rimasti pochi, ma bastiamo!» così un'ex ordinovista sulla pagina facebook del movimento di Manni. «Io personalmente attendo il via, ho sete di vendetta, ma non voglio fare la scheggia impazzita, uccideremo con efferatezza!!! Vendetta!!», scrive un altro. Infine non mancano i riferimenti al gruppo fascista romano Militia fondato da Maurizio Boccacci, ex leader del movimento politico occidentale. Katia De Ritits infatti, una delle indagate, è un importantissimo punto di riferimento di Manni. E come un'altro dei personaggi sotto inchiesta, Infantino, «attua l’esposizione ad una vita politica pubblica parallelamente all’esecuzione di un disegno eversivo e clandestino». È presente infatti nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale. Con questa formazione è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito, provincia di Chieti. Per Manni è il contatto con i militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia”già finita sotto processo per ricostituzione del partito fascista. Altri contatti d'area spuntano in Friuli. Uno degli indagati spiega di aver preso contatti con i Nazionalisti friulani, «e ho allargato un pò di contatti... sono i Nazionalisti Friulani, sono ben predisposti, belli decisi». Insomma, un nucleo nero che puntava a fare davvero la guerra allo Stato.

Manifesto dell'eversione nera. Tra le intercettazioni spunta il sermone neofascista dell'ideologo repubblichino che voleva riscrivere la Costituzione, continua Giovanni Tizian. In una delle riunioni a casa di Rutilio Sermonti, quest'ultimo spiegava ai suoi adepti il senso della loro loro lotta. «In Italia è in atto uno stato-fantoccio, voluto dai nemici della nazione, col favore degli sciagurati antifascisti, traditori per vocazione, oltre al fatto che la stragrande maggioranza degli Italiani non conosce altro che quello». Per questo, scrivono gli inquirenti, diventa, indispensabile attuare l’azione di lotta contro lo Stato e solo «la distruzione dello status-quo, permetterebbe la creazione di un nuovo Stato, definito Repubblica dell’Italia Unita, per il quale l’anziano si è prodigato nel formulare un dettagliato Statuto». Un proclama della rivoluzione neofascista. «Noi che, da legionari nel cuore, al male non opponiamo piagnistei ma il combattimento. E' il momento, io grido, di battere sugli scudi. E' il momento, perchè il popolo è alla disperazione (e se la merita!). E' il momento, perchè il baratro sta per inghiottire il mondo intero, a cominciare dagli stessi criminali. E' il momento, perchè la Terra medesima ci ha intimato lo sfratto. La lotta per distruggere lo stato-fantoccio deve quindi divenire prioritaria e senza quartiere, con tutti i mezzi disponibili e tutti quelli escogitabili, salvo solo quelli incompatibili con la nostra intima natura. […] E non si chiami, quella da noi bandita, guerra civile, perchè per guerra civile s'intende quella tra due parti di una stessa patria, e i nostri nemici, con l'autentica Patria italiana non hanno nulla a che fare, e sono solo la squallida serva della plutocrazia mondiale, assassina e suicida sotto i nostri occhi».

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare. 

Avanguardia Ordinovista: neofascisti tutti da ridere, scrive Alessandro D’Amato su “Nextquotidiano”. Progettavano attentati e compravano armi per azioni terroristiche. Eppure gli indagati nell'operazione Aquila Nera non sembravano brillare da altri punti di vista: «Quella nemmeno sa dove sta di casa il comune», dice il sindaco di Poggiofiorito parlando di una consigliera arrestata. Volevano 10, 100, 1000 Occorsio. Progettavano attentati ad Equitalia «con i dipendenti dentro». Ma da quello che si legge nelle risultanze di indagine su Aquila Nera, quelli di Avanguardia Ordinavista sembrano più un esercito di rintronati che un gruppo pronto ad azioni terroristiche. Gli arrestati nell’ambito dell’operazione sono: Stefano Manni, 48 anni, di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano (Pescara); Marina Pellati (49), di Varese, residente a Montesilvano; Luca Infantino (33), di Legnano (Milano), Piero Mastrantonio (40) dell’Aquila; Emanuele Pandolfina Del Vasto (63) di Palermo, residente a Pescara; Franco Montanaro (46) di Roccamorice (Pescara); Franco La Valle (51) di Chieti; Maria Grazia Callegari (57) di Venezia, residente in provincia di Torino; Franco Grespi (52) di Milano, residente a Gorizia; Ornella Garoli (53) di Milano, residente a Gorizia; Katia De Ritis (57) di Lanciano (Chieti). Ai domiciliari sono finiti Monica Malandra di 42 anni dell’Aquila, Marco Pavan (30) di Venezia, residente a Padova e infine, Luigi Di Menno di Bucchianico 47enne di Lanciano (Chieti). La base operativa era Montesilvano (Pescara).

AVANGUARDIA ORDINOVISTA: NEOFASCISTI TUTTI DA RIDERE. Gli indagati sono 44 in tutto. I reati contestati sono associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonché tentata rapina. I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa (guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pubblico ministero Antonietta Picardi) è stata avviata, nel 2013, dal R.O.S. nei confronti di un’associazione clandestina denominata Avanguardia Ordinovista che, “richiamandosi agli ideali del disciolto movimento politico neofascista “Ordine Nuovo” e ponendosi in continuità con l’eversione nera degli anni ’70, progettava azioni violente nei confronti di obiettivi istituzionali, al fine di sovvertire l’ordine democratico dello Stato”. Eppure, se si va a cercare su internet le risorse online degli aspiranti terroristi, si trovano soltanto cose di cui sorridere. L’associazione eversiva smantellata dai Carabinieri del Ros nell’ambito dell’operazione Aquila nera è «connotata da caratteristiche di evidente pericolosità, avente il programma di porre in atto azioni violente e attentati in maniera tale da destare allarme, spaventare la comunità civile e indurre a credere da un lato nella necessità di un cambiamento sociale e politico, dall’altro nella capacità del gruppo di realizzare tale cambiamento», si legge nell’ordinanza di custodia emessa dal Gip dell’Aquila Romano Gargarella, secondo il quale si tratta «della classica ‘strategia della tensione’, avente fine, scopi e modalità di tipo terroristico. Tanto che è risultato dalle loro stesse parole esplicitate in conversazioni private o anche attraverso facebook che gli adepti sono disposti a compiere atti criminali eclatanti pur di realizzare il loro programma». Ma nei fatti quello che riuscivano a fare era pubblicare post contro l’allora ministro Cécile Kyenge e contro Laura Boldrini e aizzare a commettere atti di violenza nei confronti di persone solo perché perché appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale.

L’IDENTIKIT SOCIAL DEGLI ARRESTATI. Stefano Manni, ex carabiniere, è considerato l’ideologo del gruppo. Sul suo profilo Facebook scrive di essere un membro dell’OVRA (la polizia segreta fascista che lavorava alla repressione dell’antifascismo), mentre la sua foto profilo sul social network era quella di un Babbo Natale che faceva il saluto romano, mentre nell’immagine di copertina c’era almeno la Buonanima. L’ordinanza fa anche sapere che Manni era solito utilizzare fake per mettere in rilievo i suoi “pensieri” sui social network. Tra le sue referenze c’era quella di essere parente di Gianni Nardi, terrorista fascista attivo negli anni Settanta. Manni, fa sapere l’ordinanza, aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva le progettualità eversive del gruppo. Poi c’è Katia De Ritis, considerata uno dei pezzi grossi dell’organizzazione perché è consigliere comunale a Poggiofiorito. Ebbene, sentite come ha reagito oggi Corino Di Girolamo, sindaco della cittadina in provincia di Chieti, quando gli hanno fatto sapere dell’arresto. «Quella neanche sa dove sta di casa il comune. Pensa, eletta nella minoranza, vota tutti i nostri provvedimenti di maggioranza. Con Poggiofiorito non c’entra niente, sono solo dei nazisti», dice parlando del vicesegretario di Fascismo e Libertà. Eletta nello scorso maggio nel consiglio comunale «ma con 149 voti totali», puntualizza il sindaco, la De Ritis «sta là e non dice mai una parola, lei e il suo collega. Si sono infilati nelle elezioni per via del fatto che l’altra opposizione (di centrosinistra ndr) non si è presentata. Ma io lo dicevo ai cittadini: non li votate che sono degli scatenati, dei nazisti. E invece questo è un paese di pazzi… non mi dite niente. E ora li hanno arrestati. Quindi mi sa che al prossimo consiglio comunale del 29 dicembre non si farà vedere, vero?».

SE QUESTO È UN IDEOLOGO. Infine c’è Rutilio Sermonti. Secondo l’accusa, aveva un ruolo di indirizzo ideologico, in particolare di “estensore di una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista”. Residente nella provincia di Ascoli Piceno, ex aderente a Ordine Nuovo, Sermonti sul suo sito si presenta come «coniugato in seconde nozze, con moglie e figlio universitario a carico». E se ci tiene a farlo sapere, ci sarà un perché. Ma questo arzillo 93enne ha lasciato Ordine Nuovo quando è stato dichiarato fuorilegge, in seguito è stato vicino a Pino Rauti e si è occupato di ambiente per il Movimento Sociale Italiano prima di mollare il partito e continuare a seguire Rauti nelle sue scarse fortune elettorali dopo la svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza Nazionale. E’ anche, per soprannumero, un contestatore del darwinismo, giusto per capire con chi abbiamo a che fare. Ideologo? «A grandi linee è come negli anni ’70, solo che con la tecnologia avanzata dobbiamo stare molto più attenti», dicono in uno stralcio di una intercettazione ambientale dei Ros dei Carabinieri, raccolta nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”, due soggetti indagati. L’argomento della conversazione e’ la strategia del gruppo che si ispirava agli ideali del disciolto movimento neofascista Ordine Nuovo. «C’è una struttura e da li non si scappa – dice uno dei due all’interno di un’auto, jeans e giubbotto nero -. Chi c’è sopra dirà tu fai questo… tu fai quello… perché poi comunque c’e’ una strategia». L’organizzazione non trascurava nemmeno la ricerca del consenso: «Gli obiettivi già praticamente ci sono – spiega ancora il soggetto intercettato -, il fatto è che, qualora il popolo ha un problema e quelli la non lo possono risolvere, il popolo non va piu’ belante da loro. Cercherà altri punti, qualcuno li dovrà aiutare». Tutto qui.

«I nuovi ordinovisti? Cantavamo insieme le canzoni delle SS». Rutilio Sermonti, repubblichino 93enne, fratello dell’attore Vittorio, è l’ ideologo dei neofascisti: «Ma quali miei adepti, sono solo chiacchieroni», scrive Fabrizio Caccia, inviato a Colli del Tronto (Ascoli Piceno) su “Il Corriere della Sera”. Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile...». La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo - ricorda Sermonti -. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”. Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perché nel mio computer c’è tutta la verità. E quello che penso è scritto nei miei libri». Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui - l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo - l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi. Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia...». La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara». «Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi». E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938. E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato. «Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore - s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle -. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè...». Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui». Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere». Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore...»). Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS. «È vero, sono un ideologo - conclude Sermonti -. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».

Ritratto degli aspiranti terroristi: un ex carabiniere e un gruppetto di chiacchieroni, scrive Ugo Maria Tassinari su “Il Garantista”. Il caso di … è brutto dirlo ma credo sia il caso di riprendere la strada dell’Italicus [...] ma su ampissima scala [...] “Nicò io purtroppo l’ho scritto… l’ho scritto più di una volta… ogni volta che l’ho scritto mi è costato un ban, io la vedo, tanto lo sto dicendo io, non lo sta dicendo Nicola Trisciuoglio, è giunto il momento di colpire, ma non alla cieca, tipo la stazione di Bologna, tra l’altro non attribuibile a noi, quell’opera d’arte, vanno colpiti precisi obiettivi banche, prefetture, questure, uffici di equitalia, uffici delle entrate, con i dipendenti dentro, è brutto dirlo Nicò ma è arrivato il momento di farlo, ma farlo contestualmente non a Pescara e fra otto mesi a Milano, no, una mattina alle 8.20, contemporaneamente 500 persone premono 500 telecomandi”. Questa intercettazione, immediatamente diffusa anche in formato video su youtube dal Ros dei Carabinieri (che hanno un ottimo ufficio stampa, va riconosciuto) è il punto di fuoco dell’intera inchiesta che ha portato ieri all’arresto di 14 militanti neofascisti in un blitz partito dall’Aquila e che vede tra i 44 indagati anche un intellettuale nero del prestigio di Rutilio Sermonti, antico sodale di Pino Rauti (ha 93 anni). A parlare è il capo indiscusso dell’organizzazione, Stefano Manni, un carabiniere congedato per infermità (lui stesso parla di aver subito un ictus da aneurisma, invocandolo come possibile esimente per i suoi reati) con una forte vocazione alla menzogna: tant’è che dopo aver annunciato un programma così impegnativo “buca” un appuntamento a Napoli con Trisciuoglio perché deve andare a vedere la recita natalizia della figlia. Ma con il camerata si giustifica con un fermo a opera dei carabinieri per la sua attività su Internet. È sottile il confine tra il palco virtuale di facebook, dove i due sono bravi a fare proselitismo, e la realtà. E anche se gli enunciati terrificanti sembrano millanterie di due chiacchieroni da bar come fai a non porti il dubbio che il delirio possa produrre effetti di realtà? Siamo ancora sotto choc per l’afroamericano di Baltimora che dopo aver sparato alla fidanzata annuncia su Instagram che vendicherà i fratelli ammazzati dalla polizia razzista. E va a New York dove uccide due cops: un latino e un cinese …Questa è gente – mi segnala in tempo reale uno dei miei tanti informatori – capaci di scatenare un flame su internet contro una camerata di bell’aspetto colpevole di aver espresso compassione per gli immigrati, a colpi di frizzi e lazzi sulla sua passione per la dotazione organica dei “negri”. E le diverse sigle dei gruppi ultrafascisti menzionati nell’ordinanza di custodia non risultano aver prodotto altro che l’elezione di qualche consigliere comunale in paesini di poche centinaia di abitanti o convegni che guadagnano due colonne in cronaca locale solo se c’è il boicottaggio di rito dell’antifascisteria.Il dato di fatto o, se volete, il problema è che il blitz aquilano porta per la prima volta alla ribalta una forma specifica di associazione liquida che non si limita – come a suo tempo Stormfront – a esprimere opinioni atroci ma annuncia l’intenzione di passare agli atti. La prima associazione sovversiva 2.0, quindi. E tra le tante cose curiose c’è un’anomalia notevole. Noi tendiamo ad associare la rete alla gioventù. Be’, i 14 arrestati sono tutti ultratrentenni: tre nati negli anni ’50, 7 nel decennio succes- sivo, due soltanto nei formidabili anni ’70, altrettanti all’inizio dei terribili ’80… Se ci aggiungiamo che il presunto ideologo è nato prima del fascismo…Gli aspetti grotteschi o apertamente ridicoli (come i cimeli della seconda guerra mondiale da utilizzare come armi) sono evidenti eppure anche un ipergarantista come me e sistematico coltivatore del pregiudizio negativo contro le “grandi retate” ha un minimo di difficoltà a liquidare il tutto come una buffonata. Perché in casi del genere il rasoio di Occam non funziona, né le regole della razionalità “economica” che orientano l’agire dei criminali “sani di mente”. Certo fa ridere un capo che dichiara di aver lavorato per l’Ovra (vedi il profilo di Manni su facebook) e poi progetta l’omicidio di Marco Affatigato perché è “uomo dei servizi segreti”. Ma il suo interlocutore nella famosa telefonata delle “stragi in serie” non è uno scemo del villaggio. La sua organizzazione di sostegno ai detenuti ha sviluppato forti legami con la Curia napoletana, tanto da trovare ospitalità per le sue iniziative in un convento della periferia orientale di Napoli. A uno dei convegni di “Uomo nuovo” ho partecipato anch’io come relatore. E al mio fianco sedeva un rispettato detenuto di lungo corso, l’ergastolano Mario Tuti… Non se ne sono accorti i carabinieri che hanno operato contro la nuova “spectre” nera ma un filone dell’indagine abruzzese porta alla variante napoletana del sistema Buzzi, tra San Gennaro e Pulcinella.

Avanguardia Ordinovista: mammamia quanto somigliano ai colonnelli di Monicelli e Tognazzi! Scrive Riccardo Paradisi su “Il Garantista”. Per capire qualcosa di questa eversione nera con epicentro in Ascoli Piceno che pretendeva di rovesciare l’ordine democratico vagheggiando al telefono di attentati a magistrati, banche e sedi d’Equitalia sarebbe utile rivedersi Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, parodia irresistibile del golpe del principe Valerio Borghese con uno strepitoso Ugo Tognazzi nelle vesti di Beppe Tritoni, ex professore di ginnastica alla Farnesina. Un mitomane che passa giorni e notti a organizzare un colpo di stato che puntualmente fallisce e che finisce nei tavolini dei bar di Roma a vendere piani di golpe agli africani. Di questo Stefano Manni, 48 anni, che si occupava del reclutamento e del reperimento dei fondi dell’organizzazione Avanguardia ordinovista si sa che vantava un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, era uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Intendiamoci questo Manni, fino a 10 anni fa un sottufficiale dell’Arma, congedato per infermità, non è una personcina a modo. E’ un incitatore d’odio, un potenziale violento, uno che trafficava in armi e cose losche. Da qui a vedervi il regista di un colpo di spalla alla democrazia però ce ne passa. Tanto più che il ruolo di ideologo dell’organizzazione sarebbe stato rivestito da Rutilio Sermonti, un uomo di 93 anni, che vive in povertà, un reduce ormai quasi completamente sordo. Sermonti è indagato per aver scritto uno “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, l’accusa che gli viene rivolta è di avere immaginato «una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista». I congiurati di Vogliamo i colonnelli si vedono in una riunione a porte e finestre chiuse sul litorale di Santa Severa in una villetta di proprietà della contessa Lamatrice alla presenza del colonnello greco Andrea Automaticos finanziatore dell’impresa. ”Una riunione che passerà alla storia” dice Beppe Tritoni che fa mettere tutto a verbale compresa la discussione sul nome in codice da dare all’impresa. «Or-po: ordine e potere» è la proposta che si leva dalla riunione. «Sarebbe più esatto Famiglia e Valore» dice un altro. Ma poi gli si fa notare che le iniziali sono ”Fa-va” e non è il caso. Alla fine viene approvata la formula ”Volpe ne- ra” su proposta di Tritoni. Provvedimenti che dovrà prendere il nuovo regime: ripristino della pena di morte, riapertura dei casini, disciplina tra gli studenti con lo slogan: ”parlate solo quando siete interrogati”, rieducazione per gli omosessuali. All’esigenza manifestata di un soggetto in grado di stendere un piano operativo si mette a verbale che «necessita uomo con ampiezza di vedute, scaltrezza, capacità di sintesi tattica- strategica». Un uomo che sappia con le parole giuste lanciare l’appello alla maggioranza silenziosa ”ma non sorda al richiamo della patria”. «Ho un’idea semplicemente geniale – dice il colon- nello Aguzzo – perché non il maresciallo Eliseo Talloni». «Ma è vivo?» Dice il notista del verbale, «Mi par bene sia nato il 25- 4-1887». Risposta di Aguzzo: «Ho avuto l’onore di vederlo a Montecatini nell’ottobre scorso, bevve quattro bicchieri senza battere ciglio, una roccia, lucido, vigile a mio avviso l’uomo giusto». Ecco.

Storia dei sei fratelli Sermonti e dei giudici astuti, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quella dei fratelli Sermonti è una storia davvero intrigante. Sono sei fratelli, quattro maschi e due femmine. Nati tra l’inizio e la fine degli anni venti. Di alcuni di loro sappiamo poco, ma pare che sia tutta gente ingegnosa e non molto conformista. Sappiamo qualcosa di più dei tre più famosi: uno scienziato, che si chiama Giuseppe ed è uno dei massimi genetisti italiani, ma non è darwinista (neanche creazionista, per fortuna…) e perciò ogni tanto viene contestato nelle università; Giuseppe ha 89 anni. Poi c’è un letterato, che si chiama Vittorio, famoso per le sue letture di Dante, scrittore, giornalista, pensatore, romanziere insegnante e un po’ poeta. Ha 85 anni. E’ stato il professore di italiano, al Tasso di Roma, di ragazzini come Paolo Mieli e Valerio Veltroni. E’ quello che conosco meglio, perché negli anni 80 ho lavorato con lui all’Unità, lo portò Reichlin e lo mandava anche a scrivere pezzi di cronaca nera (grandiosi i suoi reportages da Vermicino, dove stava morendo nel 1981, il piccolo Alfredino Rampi). Simpaticissimo, Vittorio, carismatico, coltissimo, ha sposato una figlia di Suni Agnelli, Samaritana, e ne ha avuto un figlio, Pietro, che è un attore piuttosto famoso. Poi c’è questo Rutilio, che ha 94 anni, è fascista da quando era ragazzino, ha fatto il volontario a Salò, ha partecipato alla fondazione del Msi, ma poi il Msi gli sembrava moderato e allora ha partecipato alla fondazione di Ordine Nuovo. Infine ci sono due signore e unaltro fratello maschio dei quali non so dirvi nulla. Rutilio, il fratello maggiore, è considerato – mentre viaggia verso i cento anni – un terrorista pericoloso. Da chi? Dai magistrati, poveretti. Rischia una condanna a 20 anni di galera. Se dovrà scontarli tutti uscirà a 114 anni, ma se otterrà gli sconti per buona condotta, forse, a 110 sarà fuori. A me pare che questi fratelli Sermonti – comunisti, fascisti, scienziati – siano tutti un po’ scombiccherati. Vittorio – che è un tifoso fradicio della Juventus, era amico di Boniperti, sa a memoria anche la formazione che vinse lo scudetto nel 1960, con Sivori Nicolè e Charles, e a casa sua aveva un campetto di calcetto invece del giardino – racconta che quando erano piccoli – lui aveva sei anni – il padre li riuniva e gli leggeva Dante, con voce roboante. Pure il padre doveva essere un bel tipino. La lettura di Dante quando si è troppo acerbi può avere vari effetti. A qualcuno provoca amore per Dante (e per Vittorio è stato così) qualcun altro lo spinge alla ribellione estrema – perché per un ragazzino Dante può essere molto molto noioso, specie il canto su Pia dei Tolomei – fino alla scelta fascista e ordinovista. Di qui a pensare che un signore di 94 anni sia pericoloso, ce ne passa. E se si legge la sfilza di capi di imputazione decretati dai magistrati, si scopre che sono praticamente tutti reati di opinione, o ”tentativi”. Certo, le opinioni di questi 14 fascisti sono orripilanti. Ma siamo sicuri che in un paese libero, nel 2014, debba esistere ancora il reato di opinione, come esisteva ai tempi del fascismo? No, perché alla fine uno non capisce più chi siano i fascisti…

L’Aquila nera: fascisti su Marte, ma via Facebook, scrive  Nanni Delbecchi su “Il fatto Quotidiano”. Nemmeno i fascisti sono più quelli di una volta. Il che, per un Paese fondamentalmente fascista da sempre, è una bella mazzata, da gettare nel dubbio anche Pasolini. Bei tempi – per le camicie nere – quelli in cui Ordine Nuovo trescava con i Servizi, seminava stragi, progettava golpe e, insomma, le trame erano una cosa seria. “Trama nera, trama nera, sol con te si fa carriera”, cantava fiero il gruppo Gli amici del vento. Caro, vecchio Ordine Nuovo. Ma che dire di questi neoavanguardisti ordinovisti sgamati dall’operazione “Aquila Nera”, capitanati dall’ex carabiniere Stefano Manni, infiltrata di peso nelle istituzioni una consigliera comunale di Poggiofiorito (e ho detto Poggiofiorito), agenti provocatori sparpagliati per tutte le province d’Italia, gemellati con Militia Christi e base operativa a Montesilvano, prova evidente che anche il terrorismo ha scoperto la delocalizzazione? Costoro si richiamavano alla famigerata organizzazione neofascista in continuità con l’eversione degli Anni Settanta, e per questo sono stati incarcerati, ci mancherebbe. Ma certo che, se si vanno a vedere i loro progetti e soprattutto le loro radici, ci si trova di fronte a un declino clamoroso. Farneticazioni omicide di Mein Kampf a parte (non a caso amate anche da Manni e compagnia), il pensiero di destra mescola da sempre orrore e profondità. Un calderone ribollente a base di teoria della razza, culto delle élite, superomismo, cicli cosmici, fiamme, rune e asce bipenni in cui tra tanta paccottiglia ci si può imbattere anche in Nietzsche, Heidegger, Guenon, Céline, Tolkien e, ci vogliamo rovinare, anche in Evola e Malaparte. Ma quelli di “Aquila nera” più che della terra degli Hobbit sembrano frequentatori di Il mio hobby; nel loro caso il ciclo non è cosmico, ma decisamente comico. Sognavano di uccidere Giorgio Napolitano o in subordine almeno Pier Ferdinando Casini. Ma nella pratica quotidiana avevano anche obiettivi più alla mano, come coprire di insulti gli extracomunitari sui social network, un occhio di riguardo per l’ex ministro Cécile Kyenge con virile sprezzo della macumba. E poi, l’hobby prediletto: progettare rapine e attentati proprio come se fossero modellini di aeroplani. Dal sogno nel cassetto, “riprendere la strada dell’Italicus su ampia scala”, a quello più realistico ma anche creativo l’attentato a Equitalia “con i dipendenti dentro” (tutta un’altra cosa, diciamolo, se i dipendenti sono in pausa pranzo). Se tanto mi dà tanto, il cerchio dei riferimenti culturali si restringe parecchio. Addio Nietzsche, Guenon e Céline. Il Pantheon di Manni parte da Calderoli e Borghezio, passa per Ben Hur (“Siamo figli di Roma imperiale. Siamo eredi di un glorioso passato”), il reality I re della griglia (“Voglio sentire odore di carne bruciata”), il capo della Spectre che sogna di distruggere il mondo schiacciando un pulsante, il Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte, alla conquista del Pianeta rosso al grido di battaglia di “A mali estremi, estrema destra”, e si conclude trionfalmente con gli ufficiali nostalgici reclutati dall’onorevole Giuseppe Tritoni (alias Ugo Tognazzi) in Vogliamo i colonnelli di Monicelli. Certo che per essere delle aquile nere volavano piuttosto basso. Un momento però; c’era anche l’ideologo di riferimento, il padre nobile del “nuovo ordine nuovo”, seppure non nuovissimo di suo, visti i 94 anni compiuti. L’ex repubblichino Rutilio Sermonti, che si era evoluto dai tempi di Salò al punto da confezionare una Carta costituzionale nei cui articoli venivano messi nero su bianco il divieto ai diritti politici e l’obbligo per le donne di restarsene dentro casa, ai fornelli. Insomma, questi camerati con uso cucina che discutevano i loro progetti eversivi su Facebook (però sui canali riservati agli amici, le precauzioni non sono mai troppe) e sognavano la dittatura per via costituzionale, sono oltre i Fascisti immaginari descritti da Luciano Lanna e Filippo Rossi e anche oltre i Fascisti su Marte. Questi sono fascisti economici, taroccati da qualche fabbrichetta clandestina. Nella Storia, dice Marx, le tragedie ritornano in forma di farsa, ma questi avanguardisti sono peggio nella farsa che nella tragedia. Aridatece i colonnelli.

TERREMOTO: VERGOGNA!!! IL VERGOGNA ALLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE DEGLI SCIENZIATI, NON E’ CHE E’ SOLO QUESTIONE MONETARIA ATTINENTE I RISARCIMENTI?

Il mancato incasso e/o la restituzione di quanto percepito. Questo è il pensiero di Paolo Liquori su Fatti e Misfatti del TGcom 24 dell’11 novembre 2014.

«Vergogna, una sentenza ovvia. Una sentenza liberale. Il Fatto non sussiste. Qual è il fatto? Non si poteva prevedere il terremoto. Chi erano gli imputati? I maggiori scienziati italiani che facevano parte di questa commissione “Grandi Rischi”. A loro avevano imputato, e li avevano condannati in primo grado, per non aver avvertito in tempo gli abitanti del L’Aquila del terremoto. Il fatto non sussiste. Mi sembra una sentenza doverosa. Ora io mi chiedo e vi rispondo, però. Perché in aula i parenti presenti gridavano vergogna? Capisco il dolore. Capisco quel momento. Capisco il terremoto, la psicologia, i danni subiti. Ma una cosa non ve la dice nessuno. Ve la dico io: quei signori avevano preso dal processo di primo grado un ampio risarcimento collegato alla condanna. Addirittura, adesso, lo Stato potrebbe riprendere quei soldi. Perché dovete sapere che in Italia le persone che fanno pena sono le vittime. Però in Italia si è creato in questi anni un mestiere terribile, purtroppo, un mestiere abusivo. Purtroppo, i parenti delle vittime. I parenti delle vittime sono un’ampia categoria, che ottiene risarcimenti. Ci sono le vittime di terrorismo, di mafia, di camorra, le vittime di incidenti stradali, le vittime di omicidio, le parti civili. Tutte persone che hanno alle spalle un dramma: dei morti, una sofferenza. Ma che poco dopo hanno anche un seguito a delle sentenze e del denaro risarcitorio. Bè..quei parenti delle vittime diventano un tessuto difficile da governare. Gridano “vergogna” quando una sentenza fa giustizia.»

Inoltre c’è da dire a tutti coloro che si sentono onesti, ma solo a parole, che quel “vergogna” indirizzato alla corte è un reato, tanto, quanto quello che vorrebbe essere applicato. L’oltraggio a un magistrato è un delitto di oltraggio, che punisce colui che “offende l'onore e il prestigio di un magistrato in udienza” (articolo 343 codice penale). La pena prevista è la reclusione fino a 3 anni. Si tratta di una tutela penale “specifica”, che l'ordinamento accorda a questa categoria di pubblici ufficiali in ragione del rispetto dovuto alle funzioni giurisdizionali a loro attribuite. Negli altri casi, infatti, chi offende l'onore o il prestigio di un pubblico ufficiale può essere penalmente responsabile ai sensi dell’articolo 341-bis codice penale, che punisce appunto chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l'onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale, mentre compie un atto d'ufficio ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni. In questo delitto il magistrato riveste solo la qualifica di soggetto danneggiato. La persona offesa dal reato è, invece, da considerarsi lo Stato, titolare della funzione giurisdizionale in senso lato. Però di questo nessuno ne parla.

Il dispositivo della sentenza stilato dalla Corte d'Appello dell'Aquila, il 10 novembre 2014, per il processo alla Grandi Rischi, non prevede direttamente alcun risarcimento ai parenti delle vittime con riferimento alla condanna a due anni (pena sospesa) per l'ex vicecapo della Protezione Civile, Bernardo De Bernardinis, scrive “Il Messaggero”. Il dispositivo della sentenza stilato dalla Corte d'Appello dell'Aquila, ieri, per il processo alla Grandi Rischi, non prevede direttamente alcun risarcimento ai parenti delle vittime con riferimento alla condanna a due anni (pena sospesa) per l'ex vicecapo della Protezione Civile, Bernardo De Bernardinis.el dispositivo si prevede solo la condanna dell'imputato, in solido con il responsabile civile-Presidenza del Consiglio dei ministri, a «rifondere alle parti civili le spese di patrocinio», quantificate complessivamente in circa 40 mila euro. Le parti civili però si sono mosse in modo differente sul fronte del risarcimento del danno: c'è chi non ha atteso neanche la sentenza di primo grado per avviare l'istanza in sede civile e chi, invece, ha deciso di attendere la conclusione dell'iter giudiziario penale per iniziare il percorso. Per questi ultimi solo al termine dell'ultimo grado di giudizio, e quando la sentenza diventerà definitiva, sarà possibile avviare le cause in sede civile per il risarcimento dei danni. La sentenza di primo grado, però, ha già previsto alcune provvisionali per i familiari delle vittime, anche se al momento non è possibile fare una stima del denaro percepito, anche perchè non tutti i parenti o eredi hanno voluto incassare la somma che gli è stata assegnata. Tra chi ha percepito la provvisionale, con somme variabili tra i 100 mila e i 200 mila euro a parente, ci sono però anche gli eredi di vittime per le quali De Bernardinis è stato assolto per insufficienza di prove. In questo caso teoricamente lo Stato, in caso di sentenza definitiva positiva per l'ex vice capo della protezione civile, potrebbe richiedere indietro la somma, ma alcuni legali spiegano che proprio la formula dell'assoluzione, cioè l'insufficienza di prove, consentirebbe giuridicamente di evitare la restituzione del denaro.

Non si sa se essere soddisfatti, perché alla fine le frettolose accuse sono state rigettate, o se essere preoccupati perché su di esse sono stati imbastiti procedimenti privi di riscontri oggettivi e addirittura condanne. Ma questo è il bottino di giustizia del giorno, prendiamocelo….scrive Giuliano Ferrara su “Il Foglio”. La Corte d’appello dell’Aquila ha cancellato la sentenza ridicola che aveva comminato in primo grado sei anni di carcere ai membri della commissione Grandi rischi, “colpevoli” di non aver indovinato la data e il luogo in cui si sarebbe verificato il terremoto. Considerati responsabili, nientemeno che di omicidio e lesioni colpose. E’ già a stento comprensibile che le vittime di un tragico evento naturale cerchino di trovare per forza un responsabile da punire, senza limitarsi a maledire la malasorte, ma non è proprio ragionevole che la magistratura si faccia condizionare dalla pressione mediatica e dal dramma fino al punto di non distinguere i reati dalle fantasticherie.

Lo stesso errore, quello di inseguire la popolarità invece di raccogliere prove per sostenere le accuse vale anche per la sentenza che ha assolto, sempre ieri, due capicamorra indicati da Roberto Saviano come mandanti delle minacce che erano state ravvisate nell’intervento processuale del loro avvocato. I boss sono stati anch’essi assolti, addirittura “per non aver commesso il fatto”, il che giustifica il sospetto che la procura abbia agito, nell’istruire un procedimento fallimentare, in base alla ricerca di protagonismo e di sintonia con campagne mediatiche, invece di riscontrare le accuse attraverso gli organi investigativi preposti, che non possono essere certo sostituiti dalle considerazioni suggestive di uno scrittore. Non si sa se essere soddisfatti, perché alla fine le frettolose accuse sono state rigettate, o se essere preoccupati perché su di esse sono stati imbastiti procedimenti privi di riscontri oggettivi e addirittura condanne. Ma questo è il bottino di giustizia del giorno, prendiamocelo.

Terremoto L'Aquila, sentenza ribaltata Commissione Grandi Rischi: tutti assolti. La Corte d'Appello ha assolto i sette membri della Commissione Grandi Rischi che si riunì cinque giorni prima del sisma che distrusse il capoluogo abruzzese il 6 aprile 2009. Il pubblico: "Vergogna!", scrive R.I su “L’Espresso”. Sei assoluzioni e una condanna, con rideterminazione della pena al ribasso: questa la sentenza emessa nel pomeriggio dalla Corte d'Appello dell'Aquila nei confronti dei membri della Commissione Grandi Rischi che parteciparono alla riunione cinque giorni prima del sisma del 6 aprile 2009. La Corte, in particolare, ha assolto Giulio Selvaggi, Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Claudio Eva e Michele Calvi e ha rideterminato in due anni di reclusione la pena (sospesa) nei confronti di Bernardo De Bernardinis, della Protezione civile. Erano stati tutti condannati in primo grado a 6 anni per omicidio colposo e lesioni colpose. De Bernardinis è stato ritenuto colpevole di questi reati con riferimento ad alcune delle vittime del sisma ed assolto per altre: da qui la riduzione della pena. La Corte d'Appello dell'Aquila ha assolto in appello i membri della Commissione Grandi Rischi che parteciparono alla riunione prima del terremoto che il 6 aprile 2009 colpì il capoluogo abruzzese, provocando la morte di 300 persone. Questa la reazione delle persone presenti al processo, dopo la lettura della sentenza. La sentenza è stata accolta dal pubblico con grida di «vergogna, vergogna», mentre il procuratore generale Romolo Como ha commentato: «immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un'assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile». Soddisfatti i difensori degli altri imputati: «la sentenza ci gratifica perchè sono state accolte le nostre tesi», ha detto l'avvocato Franco Coppi. «Tuttavia - ha aggiunto - siamo molto dispiaciuti per i familiari delle vittime, e umanamente comprendiamo le loro reazioni». "Con questa sentenza non solo viene restituita l'indiscussa onorabilità e la dignità a Giulio Selvaggi e a Enzo Boschi, ma viene anche ribadita, qualora ce ne fosse bisogno, la credibilità a tutta la comunità scientifica italiana" ha dichiarato il presidente dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv), Stefano Gresta.

Processo Grandi rischi, l'appello: assolti sei imputati su sette, due anni a De Bernardinis. La corte d'appello ribalta la sentenza di primo grado: assolti sei dei sette componenti della commissione accusati di aver rassicurato gli aquilani prima del sisma del 6 aprile 2009. Il pubblico grida: "Vergogna, li avete ammazzati un'altra volta", scrive “L’Espresso”. Sei assoluzioni ed una condanna, con rideterminazione della pena al ribasso: questa la sentenza emessa nel pomeriggio dalla Corte d'Appello dell'Aquila nei confronti dei membri della Commissione Grandi Rischi che parteciparono alla riunione svoltasi 5 giorni prima del sisma del 6 aprile 2009. La Corte ha assolto Giulio Selvaggi, Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Claudio Eva e Michele Calvi. Rideterminata in due anni di reclusione la pena (sospesa) nei confronti di Bernardo De Bernardinis, della Protezione civile.  De Bernardinis è stato ritenuto colpevole dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpolose ed assolto per altre: da qui la riduzione della pena. I sette erano stati tutti condannati in primo grado a 6 anni per omicidio colposo e lesioni colpose. La sentenza è stata accolta dal pubblico con grida di «vergogna, vergogna», mentre il procuratore generale Romolo Como ha commentato: «immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un'assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile». Soddisfatti i difensori degli altri imputati: «la sentenza ci gratifica perchè sono state accolte le nostre tesi», ha detto l'avvocato Franco Coppi. «Tuttavia - ha aggiunto - siamo molto dispiaciuti per i familiari delle vittime, e umanamente comprendiamo le loro reazioni». «Non finisce qui. Vergogna. Mafiosi. Uno Stato che non fa più giustizia, uno Stato che difende sè stesso». Tra pianti, urla, singhiozzi rabbiosi, questi sono altri commenti urlati dagli aquilani presenti alla lettura della sentenza in Corte d'Appello per la Grandi Rischi. Veleno e rabbia in tutti i presenti «ma c'è la legge divina di Dio, che vede tutto e che esiste tuttora», è il commento di un padre che nel sisma del 6 aprile ha perso il figlio. «Ce li hanno ammazzati un'altra volta», scrolla la testa dicendo così una parente delle vittime. Poi vanno via alla spicciolata ma raccontando a tutte le telecamere e i taccuini la loro «profonda indignazione». Rabbia, delusione, ma anche dolore da parte dei più giovani presenti in tribunale. Decine gli studenti dentro e fuori all'aula, coinvolti da alcuni professori delle scuole superiori che più volte hanno invitato i ragazzi ad assistere alle varie fasi del dibattimento. «Tutto questo è incredibile - spiega Giovanna Carli, studentessa del Liceo Classico -. La nostra città è stata segnata da una tragedia così importante e nessuno vuole aiutarci a fare giustizia. Quale esempio possiamo trarre da questo Stato? Avevamo bisogno di risposte importanti. Invece abbiamo assistito ancora una volta a un'ingiustizia conclamata». Secondo il dispositivo della sentenza, De Bernardinis è stato condannato a due anni di reclusione (pena sospesa) per le accuse di omicidio colposo e lesioni colpose con riferimento ad alcune delle vittime, mentre è stato assolto per le stesse accuse nei confronti di altri morti del sisma, i cui familiari si sono costituiti parti civili. «Immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un'assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione Civile». È il commento a caldo del procuratore generale dell'Aquila Romolo Como, che si è detto «alquanto sconcertato». I sette componenti dell'organo consultivo della presidenza del Consiglio sono stati condannati in primo grado a sei anni di reclusione per aver rassicurato i cittadini aquilani e sottovalutato il rischio sismico, causando così la morte di una trentina di loro. Sul processo di appello l'avvocato aquilano Antonio Valentini, primo grande accusatore della Commissione Grandi rischi e autore dell'esposto che ha dato vita all'inchiesta, aveva già anticipato che «qualunque sia la decisione, ci sarà comunque un terzo atto dinanzi alla suprema Corte di Cassazione». L'ex capo della protezione civile Guido Bertolaso è indagato in un filone parallelo al processo alla Commissione grandi rischi; dopo due richieste di proscioglimento da parte della Procura della Repubblica, sarà proprio Romolo Como, il procuratore generale del processo che si conclude oggi, a doverlo scagionare o chiederne il rinvio a giudizio.

Terremoto L'Aquila, scienziati tutti assolti. Perché c'è un solo responsabile: la politica. Assolti i membri della Commissione Grandi Rischi condannati in primo grado per omicidio colposo per non aver allertato la popolazione del sisma imminente. Oggi quella storia ingarbugliata si risolve con una semplice verità: la scienza non dà certezze, è la politica che deve usare le sue ipotesi per proteggerci, scrive Daniela Minerva su “L’Espresso”. È arrivata l’attesa sentenza del Tribunale d’Appello de L’Aquila. Giulio Selvaggi, Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Claudio Eva e Michele Calvi sono stati assolti e Bernardo De Bernardinis, della Protezione civile, è stato condannato a due anni. I parenti delle vittime e tutta la popolazione del capoluogo abruzzese manifestano la loro indignazione nei confronti di una corte che non ha riconosciuto la colpevolezza degli scienziati. E nessuno pensa nemmeno lontanamente che loro (le vittime) non abbiano ragione quando cercano un colpevole delle loro tragedie. Ma può la scienza dare quelle certezze che chiede l’opinione pubblica quando sono in ballo delle vite? La risposta è semplice: no. Perché qualunque scienza applicata (come la geologia o la medicina) può solo dare verità statistiche, ovvero può solo dirci che “forse”, “chissà”, “può darsi”. E da qui nascono i problemi. Cercherò di spiegare perché a L’Aquila i geologi sapevano che la Terra dava segnali di voler fare qualcosa di inusuale. Con che probabilità questo sarebbe accaduto non lo si poteva dire con certezza (il due per cento si lesse a un certo punto, ma poi molte parole sono corse). Certo, qualcosa di strano stava accadendo. Le evidenze scientifiche erano sufficienti a far sgombrare un’intera città? Gli uomini della Commissione Grandi Rischi ritennero di no. Ma… Il Tribunale d’Appello de L’Aquila oggi condanna solo De Bernardinis, l’uomo della protezione civile, e fa bene. Perché di fronte alle percentuali degli scienziati, alle loro cautele, ai loro “chissà”, lui, l’uomo della politica aveva il dovere di prendere decisioni politiche. E anche di assumersene i rischi. Resta che i sei della Commissione se la sono cavata. Forse era inevitabile perché, lo ripeto fino allo sfinimento, la scienza non dà certezze. Ma io non sono contenta del tutto perché quei professoroni hanno fatto per mesi la coda del pavone, si sono ingiuggiolati di essere la COMMISSIONE GRANDI RISCHI, hanno prestato le loro facce al governo Berlusconi e agli inciuci di Bertolaso. E se la cavano con poco… fino a un certo punto. Perché si sono presi una bella paura. Hanno fatto una figuraccia senza limiti. E forse questo insegnerà ai loro colleghi a fare meno i pavoni e a prendere più sul serio gli uffici pubblici. Ribadisco così quel che scrissi al tempo della prima sentenza in questo blog. Eppure, per quanto irritanti siano gli scienziati che fanno finta di avere certezze, basta a condannarli per un evento del quale non potevano assolutamente prevedere con certezza alcunché? Francamente no. Ma la morale di questa storia è limpida e chiara: dobbiamo smettere tutti di credere a questa gente quando mette su la coda del pavone e semina verità. Dobbiamo capire tutti che la scienza è uno strumento, il migliore degli strumenti possibili, per ottenere dei risultati. Ma che è la politica a dover prendere le decisioni. Dobbiamo renderci conto che la statistica è il più utile dei mezzi per intravedere la verità e immaginare ciò che accadrà, non è la verità. Quindi ha fatto bene il Tribunale abruzzese a condannare De Bernardinis. Lui è l’incaricato del Governo. Lui doveva prendere decisioni anche scomode. Lui non ha fatto niente per calmierare alcuni (anche solo alcuni, magari pochi) effetti del terremoto. Ora vediamo cosa dirà la Cassazione. Ma a L’Aquila si è scritto un capitolo della storia della scienza italiana. Non è come ha detto l’avvocato Coppi che si è riabilitata la credibilità dei suoi blasonati clienti (forse sì, ma non è quello che ci interessa): i giudici hanno messo i paletti, hanno mostrato all’opinione pubblica cosa deve pretendere e da chi. Alla scienza chiediamo teorie, previsioni statistiche, scenari. Ma stiamo ben attenti a vedere cosa ci fanno i politici con quei dati.

Il vaso di Pandora è l'articolo precedente di Daniela Minerva su “L’Espresso” del 23 ottobre 2012. A L’Aquila l’Italia s’è desta. La sentenza de L’Aquila è uno shock. Benefico: il paese scopre che la scienza non è magia ma probabilità. E gli scienziati capiscono che non devono fare i pesci in barile. Mi auguro che questa sentenza ridesti tutti da un sonno premoderno: la certezza non è tra le cose che gli scienziati possono garantire, quello lo fanno i preti, i maghi, i politici. La scienza vive di probabilità, ma il bello è che con la scienza della probabilità si possono costruire teorie affidabili e piani di emergenza per le popolazioni. I giudici de L’Aquila hanno condannato i membri della Commissione grandi rischi a sei anni per omicidio colposo: hanno sottovalutato i segni del sisma. E infuria la polemica. “L’Espresso” ha raccontato ben benino già all’inizio del processo di cosa si discuteva a L’Aquila in un articolo di Nicola Nosengo, e a quello rimando per i dettagli e per le reazioni della grande stampa scientifica internazionale all’affaire. Ora, a processo di primo grado concluso, tiriamo le fila. Io penso che questo shock sia utile a tutti. Non perché, come hanno scritto molti, l’imputata è la scienza e la sentenza ne rivela la fallacia. Ma per tre motivi precisi.

1. Imputata non è affatto la scienza. Imputati sono sette professori che hanno prestato i loro nomi e i loro curricula alla propaganda del governo Berlusconi. La sentenza è su di loro e sul fatto che non hanno preso sufficientemente sul serio il loro compito. I giudici dicono che hanno sottovalutato il pericolo. Oggi Enzo Boschi, allora presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica, dice ai giornali: «il verbale mi inchioda ma io non so neanche chi lo abbia scritto». Perché è chiaro a tutti che i prof hanno dato un’occhiata veloce alle carte scientifiche che il supercommissario Bertolaso gli ha messo sotto il naso e le hanno avvallate. Ovvio che il colpevole dei colpevoli è Bertolaso che aveva il problema di rassicurare, rassicurare, rassicurare. In puro stile berlusconiano: tutto va bene madama la marchesa. La crisi non c’è, i poveri neanche, gli italiani vanno al mare e in barca… e a L’Aquila non può succedere nulla. I professori sapevano, invece, che la scienza non prevede dichiarazioni apodittiche, che nulla è mai certo e che la probabilità è una mignotta birichina. Invece che scodinzolare davanti a Bertolaso avevano il dovere (e il diritto) di far valere le ragioni della scienza.

2. Probabilità: il rebus sta tutto dentro questa parola. Nessuno poteva essere certo del terremoto, e con i dati a loro disposizione forse sarebbe stato grottesco evacuare la città. Così come è apparso grottesco l’allarme a Roma la settimana scorsa per quattro gocce di pioggia. Ma è la scienza, baby; e tu non ci puoi fare niente. La certezza non esiste. E allora i sette Soloni avevano il dovere di prendere Bertolaso per le palle e obbligarlo a pensare a un piano efficace, come fa la Protezione Civile nei paesi civili. Magari non avrebbero evitato ogni tragedia, ma avrebbero forse potuto evitarne tante. Sottoscrivere le facezie del guitto è stato criminale. Mi auguro però che questa sentenza ridesti tutti da un sonno premoderno: la certezza non è tra le cose che gli scienziati possono garantire, quello lo fanno i preti, i maghi, i politici. La scienza vive di probabilità, ma il bello è che con la scienza della probabilità si possono costruire teorie affidabili e piani di emergenza per le popolazioni.

3. Perché lo hanno fatto? E qui veniamo a una nota dolentissima: io credo per vanità. Perché sedere in una commissione così importante è prioritario rispetto a farlo con decoro. Meglio rischiare di sottoscrivere una cazzata criminale   che rischiare di essere fatti fuori perché non si dà ragione al capo (ancora un gioco di probabilità…). Purtroppo spesso le commissioni vivono di questa regola umiliante.  Così persone di valore come Franco Barberi escono da questa storia col curriculum infangato, ed è un peccato. Non era meglio, professore, restarsene a Pisa a fare conferenze e guardare i nipoti? Ah, le commissioni: una poltrona, un incarico a Roma, una possibilità di parlare coi giornali e, per alcuni (certo non per persone del calibro di Barberi) la possibilità di fare qualche soldino. Che tristezza! Io ho una concezione alta della scienza, e mi illudo che capirci di cose così importanti come i movimenti della terra sia ben più gratificante che sedere a Roma a reggere la coda a uno come Bertolaso.

Grandi rischi, la condanna in primo grado: per il giudice i 7 scienziati potevano salvare delle vite. Terremoto dell’Aquila, il giudice Marco Billi deposita mille pagine di motivazioni della sentenza contro i componenti della commissione, scrive “Il Centro”. Affermazioni «assolutamente approssimative, generiche e inefficaci in relazione ai doveri di previsione e prevenzione», a cui si aggiunge «l'adesione, colpevole e acritica, alla volontà del capo del Dipartimento della Protezione Civile di fare una 'operazione mediatica'», con il risultato di aver «indotto gli aquilani a restare in casa mentre, con una condotta più prudente, si sarebbero potute salvare alcune vite». Sono tre dei passaggi chiavi scritti dal giudice del tribunale dell’Aquila Marco Billi nelle motivazioni della sentenza che nell’ottobre scorso ha condannato i sette componenti della Commissione Grandi Rischi per il mancato allarme in occasione prima del terremoto che il 6 aprile 2009 ha distrutto L'Aquila. Franco Barberi, (presidente vicario della Commissione Grandi Rischi dell'epoca) Bernardo De Bernardinis (già vice capo del settore tecnico del dipartimento di Protezione Civile) Enzo Boschi (all'epoca presidente dell'Ingv) Giulio Selvaggi (direttore del Centro nazionale terremoti), Gian Michele Calvi, (direttore di Eucentre e responsabile del progetto Case), Claudio Eva (ordinario di fisica all'Università di Genova e Mauro Dolce direttore dell'ufficio rischio sismico di Protezione civile) sono stati condannati per omicidio colposo plurimo in relazione al mancato allarme sisma e all’errata valutazione del rischio sismico. Una sentenza e un processo che, sottolinea il giudice Billi, che «non è volto alla verifica della fondatezza, della correttezza e della validità sul piano scientifico delle conoscenze in tema di terremoti. Non è sottoposta a giudizio la scienza per non essere riuscita a prevedere il terremoto del 6 aprile 2009». Le motivazioni, presentate questa mattina, confermano il ruolo decisivo delle testimonianze delle persone che hanno riferito di essere state rassicurate dalle parole degli esperti e quindi indotte a rimanere in casa la notte della scossa del 6 aprile 2009: «La contestazione agli imputati appare pienamente fondata: le affermazioni riferite alla valutazione dei rischi connessi all’attività sismica sul territorio aquilano sono risultate assolutamente approssimative, generiche e inefficaci. Mancata analisi del rischio e risultanze rassicuratorie sono emerse dalla riunione della Commissione Grandi Rischi, che hanno indotto gli aquilani a restare in casa mentre, con una condotta più prudente, si sarebbero potute salvare alcune vite». Il passaggio chiave nelle circa mille pagine di motivazioni è però il rapporto tra i componenti della Commissione e la Protezione Civile. «Gravi profili di colpa si ravvisano nell'adesione, colpevole e acritica, alla volontà del capo del Dipartimento della Protezione Civile di fare una operazione mediatica», si legge nel dispositivo, «che si è concretizzata nell'eliminazione dei filtri normativamente imposti tra la Commissione Grandi Rischi e la popolazione aquilana. Tale comunicazione diretta, favorita dall'autorevolezza della fonte, ha amplificato l'efficacia rassicurante del messaggio trasmesso, producendo effetti devastanti sulle abitudini cautelari tradizionalmente seguite dalle vittime e incidendo profondamente sui processi motivazionali delle stesse». «Dalla condotta colposa degli imputati è derivato un inequivoco effetto rassicurante», scrive Billi in relazione alle affermazioni emerse nel corso della riunione della commissione. La «migliore indicazione» sulle rassicurazioni della commissione Grandi rischi, aggiunge, «si ricava dalla lettura della frase finale della bozza del verbale della riunione, laddove l’assessore alla Protezione civile regionale Daniela Stati, in modo emblematico, dice: Grazie per queste vostre affermazioni che mi permettono di andare a rassicurare la popolazione attraverso i media che incontreremo in conferenza stampa». Billi sottolinea che «la rassicurazione non costituisce un segmento della condotta che il pm contesta agli imputati ma costituisce in realtà l’effetto prodotto dalla condotta contestata». «Il compito degli imputati, quali membri della commissione medesima, non era certamente quello di prevedere (profetizzare) il terremoto e indicarne il mese, il giorno, l’ora e la magnitudo, ma era invece, più realisticamente, quello di procedere, in conformità al dettato normativo, alla previsione e prevenzione del rischio», scrive il giudice su un tema, quello del processo alla scienza è stato il più discusso durante tutta la vicenda e ha generato polemiche tra le istituzioni e sui media in Italia e nel mondo. «È, dunque, pacifico», prosegue Billi, «che i terremoti non si possano prevedere, in senso deterministico, perchè le conoscenze scientifiche (ancora) non lo consentono; ed è altrettanto pacifico che i terremoti, quale fenomeno naturale, non possono essere evitati: il terremoto è un fenomeno naturale non prevedibile e non evitabile. Per gli stessi motivi nessuno è in grado di lanciare allarmi, scientificamente fondati, circa una imminente forte scossa». «Proprio sulla corretta analisi del rischio andava, di pari passo, calibrata una corretta informazione», continua il giudice Billi. «L’affermazione secondo cui il terremoto è un fenomeno naturale non prevedibile e non evitabile», spiega nelle motivazioni, «costituisce, infatti, solo la premessa dei compiti normativamente imposti agli imputati poichè, per quanto previsto dalla legge e per quanto richiesto dalla loro qualità e dalle funzioni della commissione da essi composta, il giudizio di prevedibilità/evitabilità, su cui si basa la responsabilità per colpa contestata nel capo di imputazione, non andava calibrato sul terremoto quale evento naturale, bensì sul rischio quale giudizio di valore».

Grandi rischi, i famigliari delle vittime e la sentenza che fa Storia. Dopo mesi di processo hanno atteso con ansia la decisione dei giudici di Corte d'Appello. Ecco la lunga giornata di chi ha perso i propri cari nel sisma del 6 aprile 2009, scrive Marianna Gianforte su “Il Centro”. Emozione e consapevolezza. Coscienza di essere in qualche modo parte di un processo che passerà alla storia. Non solo la Storia con la "s" maiuscola, ma anche quella giuridica del Paese. La corte d'appello ribalta la sentenza di primo grado: assolti sei dei sette componenti della commissione accusati di aver rassicurato gli aquilani prima del sisma del 6 aprile 2009. Il pubblico grida: "Vergogna, li avete ammazzati un'altra volta". Con queste sensazioni i familiari delle vittime del sisma del 6 aprile 2009 hanno atteso la sentenza del processo d'Appello alla Commissione Grandi Rischi nella composizione che si riunì il 31 marzo del 2009 all'Aquila, dopo mesi di sciame sismico estenuante. Negli stessi locali della Corte d'Appello sono stati, quasi spalla a spalla, imputati (e loro avvocati) e familiari delle vittime dei crolli. Accusati e accusatori negli stessi pochi metri quadrati, senza mai guardarsi o facendolo di sottecchi. Muti gli imputati e i loro difensori. Desiderosi invece di raccontare anni di doloroso lavoro i legali delle parti civili, che hanno dovuto accompagnare i familiari a raccogliere ricordi e testimonianze per ricostruire le ultime ore di vita dei loro congiunti, prima che il terremoto li portasse via. "Un lavoro duro e faticoso quello fatto in questi anni sotto il profilo del dolore che reca con sé il fatto di approfondire queste vicende, di tornare in continuazione con i ricordi, di scavare, ricostruire le testimonianze, e ripercorrere quotidianamente queste vicende dolorosissime", sono le parole dell'avvocato Elena Leonardi che difende i familiari di Ilaria Placentino, giovane studentessa universitaria deceduta nel sisma, originaria di San Giovanni Rotondo. Ilaria era all'Aquila da pochi mesi per studiare. E' rimasta uccisa dalle macerie di una casa crollata presa in affitto con altri studenti. L'avvocato Elena Leonardi che difende i familiari di Ilaria Placentino, originaria di San Giovanni Rotondo, studentessa universitaria morta nel sisma. Anche l'avvocato 89enne di parte civile, Attilio Cecchini, commenta il processo in attesa della sentenza: "Un processo che ha un'importanza mondiale, internazionale, un processo che non è soltanto aquilano. Indirettamente si tratta di un processo, come dicono gli stessi imputati, alla scienza, perché lo scienziato qui ha commesso degli errori di valutazione. Dovrà prenderne atto l'intera comunità scientifica mondiale, che è già intervenuta per posizionarsi a favore degli  imputati". "Un processo che farà storia". Così Antonietta Centofanti, del Comitato familiari delle vittime della casa dello studente, commenta il processo d'Appello alla Commissione Grandi Rischi in attesa. "Ci auguriamo che la sentenza vada nella direzione che noi ci auspichiamo, ossia nella direzione della condanna per la leggerezza nell'analisi del rischio e della comunicazione del rischio. Sarà una sentenza importante che creerà i presupposti per avvicinarsi alle tematiche sulla sicurezza con maggiore rigore e consapevolezze su ciò che è a rischio". "Un processo connotato dalla grande sofferenza avvertita soprattutto in primo grado, durante il quale i familiari delle vittime del sisma hanno dovuto raccogliere le prove e ricostruire le ultime settimane di vita dei congiunti". Wania Della Vigna è l'avvocato che difende i familiari di alcuni ragazzi deceduti nel crollo della Casa dello studente e anche giovani che a quella tragedia sono sopravvissuti miracolosamente. "C'è un clima di attesa, ma anche di serenità e fiducia nella magistratura", ha concluso Della Vigna, ricordando "il cambio delle misure cautelari assunte prima e dopo l'esito della Grandi Rischi in merito ai comportamenti tenuti in occasione delle scosse sismiche". Speranze che, per chi sperava in una conferma della sentenza di primo grado , sono andate deluse alla lettura della sentenza. La corte d'Appello ha ribaltato il giudizio di primo grado: assolti sei imputati su sette. L'unico condannato è Bernardo De Bernardinis, che nella commissione nel 2009 rappresentava la protezione civile. Troppo poco per i famigliari delle vittime.

Il processo visto dai liceali dell'Aquila. Il racconto elaborato dalla Terza F del Cotugno: "Una storia che ci riguarda in prima persona", scrive “Il Centro”. Nell’udienza di domani mattina – convocata nella sede della Corte d’Appello a Pile – il collegio giudicante formato dai magistrati Fabrizia Ida Francabandera, Carla De Matteis e Marco Flamini pronuncerà la sentenza di secondo grado nei confronti dei sette imputati della Commissione grandi rischi già condannati in primo grado alla pena di sei anni ciascuno per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose in relazione alla gestione del rischio sismico e alle valutazioni connesse in occasione del terremoto del 2009. Si tratta di un processo storico non solo per la città ma anche per i riflessi oltre confine che ha avuto e che avrà anche dopo il secondo grado di giudizio. Questo il testo elaborato in una seduta di scrittura collettiva con le studentesse e gli studenti della classe IIIF del Liceo delle Scienze Umane –Economico sociale del «Cotugno» dell’Aquila sull’esperienza della partecipazione dei ragazzi alla prima udienza. Ecco le riflessioni dei liceali. «Non è una cosa che capita tutti i giorni assistere all’udienza di un processo così delicato come quello alla Commissione Grandi Rischi, ma, come si suol dire, c’è sempre una prima volta e venerdì 10 ottobre la prima volta siamo stati noi! Di questa esperienza ci rimarrà nel cuore la solidarietà verso i parenti delle vittime e l’emozione che si prova ad essere partecipi alla richiesta di giustizia per la nostra città. Perché questa giustizia riguarda tutti noi e chi combatte per essa non deve essere lasciato solo! La nostra presenza ha riscosso un interesse che non ci aspettavamo ed è stata molto apprezzata; alcuni hanno addirittura partecipato alle spiegazioni della professoressa meravigliandosi dei nostri interventi e dell’interesse verso un argomento che quasi mai vede i giovani partecipi. L’intervento di un signore lì presente ha scosso le nostre coscienze con una frase che ci ha fatto capire la nostra importanza: “Ragazzi, il futuro della città siete voi!”. Il punto di vista antropologico, inserito negli atti, è stato secondo noi uno degli aspetti più interessanti di questo processo che ha dimostrato come le vittime abbiano cambiato il loro comportamento fidandosi delle rassicurazioni degli esperti; questi ultimi sono persone con esperienza e grandi responsabilità, il loro ruolo è importante soprattutto per il nostro paese che è un territorio ad alto rischio sismico: non avrebbero dovuto rassicurare i cittadini fornendo informazioni pseudo-scientifiche del tutto errate. A che cosa serve la scienza se poi diventa un’opinione mutabile? È assurdo non potersi fidare di chi avrebbe dovuto contribuire a tutelarci». «Studiando diritto, abbiamo trovato la nostra presenza al processo molto formativa anche a livello didattico, perché abbiamo visto dal vivo come si svolge un’udienza, e capito cose che non sono scritte sul libro di diritto. Ci ha colpito scoprire tutti i retroscena di ciò che è accaduto con il terremoto anche perché, pur avendolo vissuto sulla nostra pelle, eravamo troppo piccoli per comprendere». «L’emozione provata nel supportare i parenti delle vittime è qualcosa che nessuno potrà mai toglierci. Per questo lunedì torneremo ad assistere all’ultima udienza del processo d’appello e ad ascoltare la sentenza, perché questa vicenda ci riguarda tutti». Queste le frasi e gli spunti più salienti che sono stati usati per l’elaborazione del testo collettivo.

Roxana: «Questa è stata una delle esperienze più importanti della mia vita. Partecipare dal vivo a un processo per noi è stato molto formativo ed educativo a livello scolastico e ci ha permesso di vederne le varie sfaccettature che, su un libro di diritto, non si possono né intuire né capire. Il nostro supporto morale è stata l’unica cosa che potevamo offrire ai parenti delle vittime in una situazione così delicata, e mi ha fatto molto piacere lo stupore della gente nel vedere che noi giovani stavamo partecipando a un processo così importante per la nostra città».

Andrea: «È straordinario come un’esperienza apparentemente così semplice abbia scosso le nostre coscienze e ci abbia fatto capire la nostra importanza».

Alice: «È stata un’esperienza positiva e formativa, mi ha permesso di capire come è organizzato e gestito un processo italiano. Mi ha fatto molto piacere l’ammirazione che tutti gli altri presenti hanno avuto nei nostri confronti, consultandosi con noi. Ma l’aspetto più importante è stato il supporto morale che tutti noi abbiamo offerto ai parenti delle vittime, commossi dalla nostra presenza».

Eleonora C.: «E come non immedesimarsi nei parenti delle vittime, come non sentire quella stretta al cuore nel vedere quei volti piangenti, quei volti di dolore, di chi ha perso qualcuno di infinitamente prezioso, infinitamente importante. Come non sentirsi fortunati nello stare in “quella” stanza invece di “quell’altra”, dove si chiedeva chiarezza e giustizia, dove si ricordava, dove semplicemente si piangeva».

Grazia: «Il punto di vista antropologico è stato, secondo me, uno dei più importanti e interessanti; l’aver cercato la causa del cambiamento di comportamento delle vittime, il loro farsi rassicurare e convincere da esperti, a tal punto da mettere in pericolo la loro vita, mi ha fatto capire quanto l’uomo abbia bisogno di altri per volere, tentare, di “sopravvivere”. La conoscenza non è sempre un pregio».

Alessia: «Non si possono rassicurare i cittadini andando contro leggi scientifiche, ciò vuol dire dichiarare il falso; allora a cosa serve studiare la fisica se poi diventa una scienza mutabile?».

Giorgia S.: «È proprio in quell’aula che ho capito realmente come si svolge un’ udienza in modo dettagliato, l’esperienza provata nell’udire e nel vedere i dibattiti tra accusa e difesa è stata a dir poco formativa, dato che una delle nostre materie d’indirizzo è proprio il diritto. Inoltre, una delle cose che mi ha più colpita è stato il fatto di venire a conoscenza di tutti i retroscena del terremoto perché, pur avendolo vissuto, ero troppo piccola per capire».

Jessica: «Per la prima volta, anch’io che vengo da un’altra città, ho provato un senso di forte empatia che mi ha fatto davvero capire quello che hanno provato gli aquilani».

Giada: «Quest’esperienza è stata eccezionale e allo stesso tempo unica, è stato bello stare lì a sostenere le vittime, vedere che i parenti stanno combattendo per avere giustizia per i loro cari».

Matteo: «La cosa che mi ha colpito sono state le parole di un signore presente all’udienza, il quale ci ha detto con commozione: “voi giovani siete il futuro della nostra città”. Secondo me è stata un’esperienza unica per la mia età, assistere a un processo di livello internazionale».

Chiara: «Un’esperienza bellissima ed educativa. Assistere a un’udienza mi ha fatto capire cose che non sono scritte su un libro di diritto. È un fatto che riguarda tutti i cittadini dell’Aquila, molti dei quali hanno perso amici e parenti a causa di false rassicurazioni».

Ettore: «La cosa che mi ha colpito di più è stata che l’unica classe in tutta la città a essere andata a un processo così importante è la nostra».

Salvatore: «È stata un’esperienza unica e formativa che mi ha fatto rendere conto di come si svolge una vera e propria udienza. La cosa più importante è stata sicuramente quella dell’aver appoggiato moralmente le famiglie delle vittime».

Alessandro: «La partecipazione a questa udienza mi ha colpito molto perché mi ha permesso di capire come si svolge un processo. La nostra presenza è stata molto apprezzata dai parenti delle vittime che in questo periodo stanno passando un brutto momento».

Eleonora B.: «L’emozione provata nel supportare i parenti delle vittime è un qualcosa di tutto nostro, che nessuno potrà mai toglierci».

Grandi Rischi, Cialente: È un Paese fuori di testa, schizofrenico. Delusione degli aquilani: "Ormai garantisti solo con i delinquenti", scrive “L’Ansa”. "È un Paese fuori di testa, schizofrenico". Il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, ha riflettuto un'intera notte prima di commentare la sentenza della Corte d'Appello che ieri ha assolto sei esperti e condannato il solo Bernardo De Bernardinis della Commissione Grandi Rischi. Secondo Cialente "oggi è una giornata difficile per tutti gli aquilani, dopo quello che è successo ieri. Non concordo proprio sul fatto che il fatto non sussista, ma poi condannano il solo De Bernardinis". "Questa sentenza ha come effetto quello di riaprire le ferite nelle nostre catene di lutti - ha insistito Cialente - se uno avesse dei dubbi su quella vicenda basterebbe risentire la telefonata tra Bertolaso e l'assessore Stati. Io stesso mi sentii rassicurato dalle parole della Grandi Rischi, tanto che quando lo sciame proseguiva io stesso dicevo 'meno male così scarica'. In Italia vogliamo sempre risolvere le cose in modo mediatico, mai affrontarle direttamente". Per Cialente il punto è questo e ci tiene a sottolinearlo: "Tutti quegli eventi avrebbero dovuto insegnarci l'importanza della prevenzione e della messa in sicurezza del nostro paese e invece ogni volta vedi alluvioni ed altro stiamo sempre al punto da capo: nel nostro caso quella riunione servì per fermare 'il fattucchiere' Giuliani, che aveva 'previsto' scosse a Sulmona e io stesso la notte del sisma avevo solo otto vigili del fuoco in servizio all'Aquila. Insomma - conclude Cialente - dove si fa prevenzione oggi? Dove si mette in sicurezza questo paese?". Una città talmente tramortita da restare quasi anestetizzata. E' l'impressione che lascia L'Aquila il giorno dopo la sentenza che ha ribaltato l'esito del primo grado assolvendo sei tra scienziati e membri della commissione, e condannato il solo Bernardo De Bernardinis, ex vice capo della Protezione Civile, a due anni con la condizionale. "Già la città era sonnolenta di suo, ora con questo nuovo colpo in testa reagirà ancora meno", è il laconico commento dell'avvocato Roberto Madonna, legale di un'associazione cittadina. Ma è il popolo più minuto che fotografa bene il sentimento vero della città. "Ormai sono garantisti solo per i delinquenti", ha infatti detto Adriano, che nel sisma del 6 aprile 2009 ha perso fratello e nipote. Il gestore del giornalaio davanti a Piazza D'Armi ammette che "viviamo giorno dopo giorno senza più aspettarci nulla, le cose vanno sempre in quella direzione. Questa sentenza non starà bene a nessuno". Ma è proprio nell'immensità di Piazza D'Armi che il popolo aquilano ha timbrato la sua indignazione con un grandissimo striscione, lungo oltre venti metri, appeso nel luogo di maggior passaggio della città. "Grandi Rischi: molte storie ce lo hanno già insegnato... E' inutile fare un processo quando è contro lo Stato. Vergogna!". E sulla presunta inutilità di questo processo torna proprio l'avvocato Madonna quando allargando le braccia prima dice che "questa sentenza si innesta su un sistema come quello di Mogherini e Cucchi. Un fatto in sé magari non dice nulla, ma se inserito in un sistema, qualche cosa significherà, e tutto diventa diverso". Il giorno dopo negli ambienti giudiziari aquilani non c'è sconcerto solo per la sentenza in sé. "Il fatto non sussiste, la Corte d'appello non ha detto che non costituisce reato, ha detto che il fatto non c'è, non che non è colposo", ha infatti commentato l'avvocato Maria Teresa Di Rocco che difendeva le parti civili. "Manca il nesso di casualità, evidentemente i giudici scriveranno che non è stato dimostrato che con quelle informazioni non c'era motivo di scappare da casa - ribatte l'avvocato Antonio Valentini, uno dei promotori del processo con le sue denunce - ma condannare solo De Bernardinis non riusciamo a capirlo. Sebbene avessi già scritto di aspettarmi questa sentenza, perché non bisognava toccare i forti, qui manca il nesso di casualità. E condannare De Bernardinis a soli due anni mi permette allora - chiude con amara ironia - di andare nella mia prossima udienza dove devo difendere un automobilista che in un incidente ha ucciso una bambina e chiedere di patteggiare per venti giorni". ''Bisognerebbe dotarsi di regole, non si può essere condizionati dalle emozioni del momento''. Cosi il presidente della commissione Grandi Rischi, Luciano Maiani, che all' indomani della sentenza della Corte d'Appello dell'Aquila propone linee guida a cui attenersi nelle prossime emergenze. ''Credo che il governo - dice in un colloquio con il Corriere della Sera - dovrebbe sponsorizzarle, noi siamo disposti a contribuire''. La sentenza ''riporta serenità'' nella comunità scientifica, osserva Maiani. ''Per il futuro auspico che vengano definite chiaramente anche in Italia quali sono le responsabilità dei consulenti scientifici, come si sta facendo a livello europeo''. Il dispositivo della sentenza stilato dalla Corte d'Appello dell'Aquila, ieri, per il processo alla Grandi Rischi, non prevede direttamente alcun risarcimento ai parenti delle vittime con riferimento alla condanna a due anni (pena sospesa) per l'ex vicecapo della Protezione Civile, Bernardo De Bernardinis. Nel dispositivo si prevede solo la condanna dell'imputato, in solido con il responsabile civile-Presidenza del Consiglio dei ministri, a "rifondere alle parti civili le spese di patrocinio", quantificate complessivamente in circa 40 mila euro. Le parti civili però si sono mosse in modo differente sul fronte del risarcimento del danno: c'è chi non ha atteso neanche la sentenza di primo grado per avviare l'istanza in sede civile e chi, invece, ha deciso di attendere la conclusione dell'iter giudiziario penale per iniziare il percorso. Per questi ultimi solo al termine dell'ultimo grado di giudizio, e quando la sentenza diventerà definitiva, sarà possibile avviare le cause in sede civile per il risarcimento dei danni. La sentenza di primo grado, però, ha già previsto alcune provvisionali per i familiari delle vittime, anche se al momento non è possibile fare una stima del denaro percepito, anche perché non tutti i parenti o eredi hanno voluto incassare la somma che gli è stata assegnata. Tra chi ha percepito la provvisionale, con somme variabili tra i 100 mila e i 200 mila euro a parente, ci sono però anche gli eredi di vittime per le quali De Bernardinis è stato assolto per insufficienza di prove. In questo caso teoricamente lo Stato, in caso di sentenza definitiva positiva per l'ex vice capo della protezione civile, potrebbe richiedere indietro la somma, ma alcuni legali spiegano che proprio la formula dell'assoluzione, cioè l'insufficienza di prove, consentirebbe giuridicamente di evitare la restituzione del denaro.

L’intervento di Sansonetti: da vero garantista. Si dice Cucchi, si intende L’Aquila.

Stefano Cucchi, la giustizia non è sempre condanna, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi. Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti. E anche l’incapacità di garantire che lo ”stato di diritto” viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte loro, del loro dolore, della rabbia per il modo nel quale lo Stato italiano gli ha portato via Stefano. E tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto. Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto. Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire “un esempio”. La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure – per assurdo – la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società è la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico – e in particolare la Dc – ”Io so, ma non ho le prove”. Lui diceva di sapere chi aveva fatto le stragi, quella di piazza Fontana, quella dell’Italicus, quella di Brescia. Aveva ragione. E’ facile dire che quelle stragi ( e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna. Però erano fascisti, e la strage, più o meno – forse – era fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza?

P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti.

Cosa non si fa per un po’ di celebrità. La «rabbia» per la sentenza scatena Saviano, Fedez, Celentano e Jovanotti. Tanta retorica gratuita ma con un occhio ai «follower» sui social network, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. E così, anche sul caso Cucchi sta lavorando a pieno regime l’italico Areopago. Nell’Antica Grecia era il collegio delle magistrature formato da componenti d’«elite», provenienti dall’aristocrazia, che aveva il compito di custodire il rispetto delle leggi. Il nostro, invece, è Areopago un po’ naif ma ugualmente vellutato, ove siede il vippame radicalchic di profeti dell’ovvio, conquistatori di audience abili nel trasformare le buone cause in menù formato fast food, largo consumo e dubbia qualità. Non potevano di certo, costoro, tenersi lontani dalla vicenda di Stefano Cucchi e da quella sentenza gettata in pasto al popolo di twitter e diventata, per la nuova legge della natura, carne da hastag (quello creato ieri, #sonostatoio ha spopolato su Twitter). L’Areopago ha un’ efficienza collaudata, considerando che già dalle ore successive alla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, gli altri giudici, quelli del palcoscenico, avevano emesso la propria. «Rabbia per una sentenza che non fa giustizia», aveva scritto Roberto Saviano, che proseguiva «Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita». Scontato: a che serve il ricorso presso la Suprema Corte quando l’autore di Gomorra ha già capito tutto? Un altro appartenente al gruppo di «quelli che è tutto chiaro» è l’attore Valerio Mastandrea, che twitta: «lo stato ammazza sempre due volte». E poi c’è il filone, molto agguerrito, dei cantanti. Il rapper Fedez, innalzato qualche settimana fa a eroe civile del nostro tempo per aver partecipato al raduno del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma, scrive sempre sul social dei 140 caratteri: «Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati perchè certe stronzate non ce le beviamo. L'ingiustizia è uguale per tutti». Certo, anche da lui la conferma che per l’Areopago il terzo grado di giudizio non esiste. E poi ancora, Paola Turci si affida ad un gioco di parole: «è stato ucciso, e nessuno è stato». Raf invece, fa più il democristiano: «Casi come Cucchi o Aldrovandi provocano solo a chi è provvisto di coscienza un profondo senso di rabbia e sconcerto». I pezzi da novanta del microfono, però, sono scesi in campo ieri. La sentenza facebokiana di Jovanotti ha statuito che «la vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai». E fin qui è pacifico. Ma il cantante che auspicava «una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» si lancia in una descrizione di un clima da Sudamerica. «Se per qualsiasi ragione mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso». Suggerimento: magari Jovanotti si rivolga a qualcuno che è stato fermato da una pattuglia con i valori dell’ alcool a posto e senza cocaina o hashish in tasca, e chieda se, di queste Forze dell’Ordine, c’è poi così tanto da avere paura. Tuttavia, non è a Jovanotti che spetta l’Oscar dell’artistica sentenza sommaria. Ma a colui che è ricordato, fra le tante belle canzoni, anche per i suoi silenzi televisivi che volevano dire tutto (pur se non si capiva niente), i suoi penetranti sguardi in camera, filtro per agguantare gli occhi dei telespettatori in attesa di abbeverarsi al Verbo. Sì, Adriano Celentano. Per dire la sua sui giudici (quelli veri, non quelli dell’Areopago della bella vita) in un post pubblicato sul suo blog aggancia addirittura Dante Alighieri, e li chiama «ignavi». Per la cronaca, l’ignavia era per il poeta fiorentino il peccato peggiore e ai dannati di competenza riservò una pena atroce, forse la peggiore, correre dietro una bandiera bianca con tormento di mosconi e vespe. E poi, il protagonista di Bingo Bongo si rivolge a Stefano Cucchi: «l’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore che aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui in terra». E non si risparmia una domanda, per così dire, filosofica, sempre rivolta al povero giovane: «Hai capito adesso in che mondo vivevi?». Sul punto, ha ragione lui. Questo mondo non è il massimo. Perché quando in una storia tragica alla ricerca della verità si preferisce la creazione di un’icona nazionalpopolare, dove tutto è detto e tutto è scritto per fare audience, vuol dire che esistono mondi migliori. E stia tranquillo Jovanotti. Questo non è, come fa intendere lui, uno di «quei paesi dove c’è un solo telegiornale». Ma di tg ce ne sono tanti, così come giornali, siti web, e iscritti ai social network. Ed enorme è la prateria di titoli, flash d’agenzia e follower da conquistare. Con un spirito da pionieri dalla faccia pulita, che però non hanno nessuna remora a trasformare in uno slogan qualunque la morte tragica di un povero ragazzo e la disperazione della sua famiglia.

Ci sono giudici poi, che a condannar i poveri cristi non ci pensano una volta....

Un Giudice di Fabrizio de André

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura,

ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente,

o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani,

che siano i più forniti della virtù meno apparente fra tutte le virtù la più indecente.

Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti;

la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore,

per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale,

giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore"

e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio,

prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.

Stefano Cucchi, che non sia morto invano.

Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.

Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.

«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.

Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.

Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.

Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.

A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.

Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!

Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.

Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.

Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.

Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.

Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».

ABRUZZO A LUCI ROSSE.

Regione Abruzzo, lo scandalo Chiodi diventa un film hard, scrive “Libero Quotidiano”. La politica, un'esauribile fonte d'ispirazione: sì, se non altro per il cinema destinato a un pubblico di adulti. Gianni Volpe, regista e produttore salernitano, avrebbe intenzione di girare una pellicola hard dedicata al caso di Gianni Chiodi: governatore della regione Abruzzo, finito nell'occhio del ciclone per lo scandalo rimborsopoli e per i presunti favoritismi professionali concessi alla consigliera Letizia Marinelli. Dopo il clamore dei primi giorni, l'attenzione mediatica sulla sua controversa carriera sembrava essersi attenuata. A breve, però, i riflettori torneranno ad accendersi e, questa volta, le luci saranno rosse. I casting sono già stati aperti e la pellicola, che s'intitolerà Una camera a due, potrebbe debuttare presto sul grande schermo. La replica di Chiodi non si è fatta attendere: "Sicuramente vincerà l'Oscar della diffamazione. È chiaro che quest'operazione non ha nulla di cinematografico ma è solo strumentale ai fini delle elezioni regionali", ha commentato indispettito il presidente. 

Chiodi, inchiesta sui rimborsi in Regioni: "Una debolezza". Il Governatore si difende: non ho aiutato la ragazza, ho spiegato tutto a mia moglie, scrive “Libero Quotidiano”. Non è gossip ma è quanto emerge dalla carte in mano agli inquirenti di Pescara che hanno aperto un’inchiesta su presunti indebiti rimborsi spese da parte di assessori e consiglieri regionali dell’attuale amministrazione di centrodestra. In particolare si scopre che il governatore dell'Abruzzo  (Pdl) Gianni Chiodi, indagato con altri 24 politici per truffa, peculato e falso, nella notte del 15 marzo 2011 ha soggiornato all’albergo del Sole, a Roma, vicino al Pantheon, stanza 114. La spesa fu di 340 euro, il rimborso chiesto 357. Il governatore avrebbe omesso di dichiarare che con lui c'era una donna e che il rimborso riguardava anche lei. Chiodi, già sindaco di Teramo dal 2003 al 2008, conferma l’episodio nell’intervista al Corriere della Sera: "E' stato un errore. Ho già parlato con mia moglie Daniela e con la più grande delle mie tre figlie, che ha 22 anni e studia a Roma. Confido nella loro comprensione e alla fine, malgrado tutto, spero di tenere unita la mia famiglia". "Ho fatto un errore, lo ripeto, una cosa che è finita lì, ma ora provo pure una grande amarezza perchè qui mi si vuol far passare per uno che ha fatto la cresta alle spese, che ha chiesto rimborsi che non gli spettavano". La difesa - Chiodi è pronto a documentare il suo racconto: dice che la stanza d’albergo la pagò lui stesso in contanti, 340 euro, e poi presentò al suo ufficio in Regione la fattura per il rimborso. "Ma il foglietto era chiaro - afferma il presidente nell’intervista - indicava che la camera era occupata da due persone, perciò non so se la cosa sia sfuggita all’ufficio regionale o alla Ragioneria. Stiamo ricostruendo, toccava a loro decurtare la spesa sostenuta per l'ospite". Spiegazioni che Chiodi dovrà fornire meglio ai magistrati nel corso dell’interrogatorio già fissato al prossimo 4 febbraio. La donna -  Intanto, sempre dal quotidiano si apprende che la stessa donna che si intrattenne con Chiodi a Roma otterrà, due mesi dopo l’incontro, un incarico pubblico quadriennale alle Pari opportunità regionali, con tanto di nomina del ministero del Lavoro. "Quello di cui si parla - spiega Chiodi - non era un concorso pubblico e quella persona che oggi prende 200 euro al mese io non l’ho mai favorita. Il suo curriculum fu valutato da una commissione regionale di cui facevano parte pure i sindacati, compresa la Cgil. Immaginate che io possa andare dalla Cgil e chiedere di favorire una persona?". Il presidente, infine, ricorda di aver costruito tutta la sua vita politica "sulla base della correttezza, del rigore dell’attenzione ai conti, combattendo con lobby potentissime e antichissime per risanare la sanità. Il 25 maggio in Abruzzo si vota ed è chiaro che qualcuno mi vuole far fuori. Ma non s'illudano i miei nemici, saranno gli elettori a dirmi, quel giorno, se dovrò andar via. E, come Gandhi, ora provo a ballare sotto la pioggia".

Chiodi e il sexgate, parla l'amante: "L'adulterio non è un reato". Gli inquirenti di Pescara hanno aperto un’inchiesta. Chiodi è ora indagato con altri 24 politici per truffa, peculato e falso. La ragazza: "Non mi dimetto", scrive “Libero Quotidiano”. Ho dormito con Chiodi, ma l’adulterio non è reato". Parola dell'amante di Gianni Chiodi, il governatore della regione Abruzzo accusato di truffa, falso e peculato per l’inchiesta dei rimborsi regionali aperta dagli inquirenti di Pescara. Intervistata dal Fatto Quotidiano, la donna la cui identità è ancora segreta conferma molte delle accuse al governatore. A differenza degli ultimi casi di tradimento, per citarne uno su tutti l'affaire Hollande, la vicenda di Chiodi non è puro gossip, nonostante la presenza di un'altra donna oltre alla moglie. Infatti, il conto della stanza 114 dell'hotel Del Sole di Roma, dove hanno pernottato Chiodi e la ragazza il 15 marzo 2011, fu pagato con soldi pubblici. Poi, due mesi dopo - come ha ricostruito il Fatto Quotidiano -  la signora fu nominata, su indicazione della giunta Chiodi, nell'organismo regionale sulle Pari Opportunità. Fango su Fango - Chiodi nella bufera, anzi nel fango. Infatti, all'inchiesta su presunti indebiti rimborsi si viene ad aggiungere l'accusa di una raccomandazione per la nomina nell'organismo regionale sulle Pari Opportunità della ragazza che dormì con il governatore all'hotel Del Sole di Roma. Nell'intervista al Fatto Quotidiano, la ragazza afferma che non ha intenzione di dimettersi e che "la selezione per la nomina è avvenuta pubblicamente vagliando i titoli e i curricula delle candidate. Una commissione esterna ha selezionato una rosa, che poi è stata rimessa alla giunta regionale, per la valutazione, quindi inviata al ministero per la nomina". A prescindere dai favoritismi, la potrona alla regione non verrà tenuta per una questione di soldi. Infatti alla domanda di quanto guadagna, la ragazza risponde: "Qua non mi arricchisco. La mia indennità è di 180 euro lordi al mese. Ai quali vanno aggiunti di volta in volta 30 euro come gettone di presenza per eventuali riunioni in commissione". Infine l'intervista si conclude da dove tutto ha avuto inizio. Ovvero quella notte di marzo. "Le sembra corretto addebitare il conto di quella notte alle casse regionali?", chiede il Fatto Quotidiano. "Non è concepibile - afferma la ragazza - che questa spesa sia stata rimborsata con i soldi pubblici: non può e non deve essere cosi. Nel caso in cui quest'ipotesi venisse confermata, se anche riguardasse un solo centesimo, andrebbe immediatamente restituito alle casse della Regione". Chiodi è ora indagato con altri 24 politici per truffa, peculato e falso. Quella notte all’albergo Del Sole, a Roma, vicino al Pantheon, la spesa fu di 340 euro, il rimborso chiesto 357. Proprio quello è il caso incriminato, in quanto il governatore avrebbe omesso di dichiarare che con lui c'era una donna e che il rimborso riguardava anche lei. Il governatore non ha smentito l'accaduto, chiedendo scusa alla famiglia, ma nega di aver favorito la nomina della ragazza. In un'intervista uscita il 29 gennaio sul Corriere della Sera lo stesso Chiodi ha affermato che "è stato un errore. Ho già parlato con mia moglie Daniela e con la più grande delle mie tre figlie. Confido nella loro comprensione e alla fine, malgrado tutto, spero di tenere unita la mia famiglia". "Ho fatto un errore, lo ripeto, una cosa che è finita lì, ma ora provo pure una grande amarezza perchè qui mi si vuol far passare per uno che ha fatto la cresta alle spese, che ha chiesto rimborsi che non gli spettavano".

Lucia Zingariello, la segretaria dell’assessore abruzzese De Fanis che era stata più o meno “accusata” di aver strappato un contratto in cui si parlava di prestazioni sessuali da fornire a un prezzo prefissato mensilmente, parla a Otto e Mezzo, ospite di Lilli Gruber il 13 marzo 2014. La donna respinge ogni accusa e afferma: "Quel contratto è falso. Non c'è mai stato un accordo tra me e l'assessore. Stata dipinta come una pornosegretaria e insultata sul web. Io non ho fatto nulla". Poi la Zingariello sottolinea: "Il contratto fu strappato subito dopo che l'avevamo scritto. L'assessore si è pure scusato per quello scherzo. Il resto, le voci sul mio conto sono figlie della falsità di chi mi vuole male". Infine l'ex segretaria spera che la sua "vita possa tornare presto alla normalità".

POVERO ABRUZZO!

C'era una volta, raccontano gli Abruzzesi, scrive Alex Senoner, un povero vecchietto che lavorava molto, ma che viveva, con la moglie, nella più squallida miseria. Un giorno, mentre lavorava sospirando e brontolando, gli si presentò un maestoso signore dalla lunga barba bianca, che gli disse: «Voglio aiutarti. Eccoti un bel dono!» e gli consegnò una borsa con cento ducati d'oro. Il contadino, tornato a casa, nascose il gruzzolo in mezzo al letame così, pensò, la sua fortuna era al sicuro. Il giorno dopo andò a lavorare come sempre; quando tornò a casa, la sera, trovò la tavola insolitamente imbandita. «Come hai fatto?» chiese stupefatto alla moglie. «Ho venduto il letame!» gridò il marito fuori di sé per la collera. «Hai dato via cento ducati d'oro!». Il giorno dopo, il vecchio, lavorando nel bosco, piangeva e sospirava più del consueto. Tornò il buon vecchio: «Ho saputo che cosa ti è successo: eccoti altri cento ducati». Il vecchio, questa volta, li nascose sotto la cenere senza dire nulla alla sua donna. Ma volle il caso che la moglie vendesse la cenere: «Stavolta non ti do più denaro» disse lo sconosciuto, e gli consegnò un sacchetto contenente uno strano dono: ventiquattro rane. Il vecchietto le barattò con un gran pesce; la sera, perché stesse fresco, lo appese fuori dalla finestra. S'accorse con stupore che emanava una vivissima luce. Di notte ci fu burrasca. I pescatori, smarriti nel buio, scorsero la luce del pesce e si orientarono; così furono salvi. Riconoscenti portarono al vecchio metà del ricavato della loro pesca. Da allora il pesce lucente rimase al suo posto, come un primitivo faro. E il vecchietto, con i doni dei pescatori suoi amici, non seppe più che cosa volesse dire la miseria e la fame.

Anche la Regione Abruzzo scivola nel presunto malcostume delle spese pubbliche, scrive “Prima da Noi”. La Procura della Repubblica di Pescara - secondo quanto accertato dall'AGI - ha infatti emesso 25 informazioni di garanzia, con invito a comparire, nei confronti del presidente della Giunta, Gianni Chiodi, di quello del Consiglio, Nazario Pagano e di altre 23 persone, tra assessori e consiglieri. I reati contestati sono truffa aggravata nei confronti della Regione Abruzzo, peculato e falso ideologico. Titolari dell'inchiesta sono i sostituti procuratori Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli. Le indagini, condotte dai carabinieri del Reparto operativo del Comando provinciale di Pescara, sono iniziate un anno e mezzo fa e abbracciano il periodo compreso tra il gennaio 2009 e dicembre 2012. Stando agli accertamenti gli indagati avrebbero richiesto indebiti rimborsi per viaggi istituzionali in diverse regioni, tra cui il Lazio, la Liguria, la Lombardia, il Veneto. Alcune di queste trasferte non sarebbero state contemplate o giustificate, in altre occasioni gli esponenti politici di centrodestra finiti sotto inchiesta si sarebbero recati in luoghi diversi da quelli indicati. Gli inquirenti hanno inoltre riscontrato diverse irregolarità nelle fatture di rimborso spese. I documenti contabili, in particolare, sono tutti nelle mani dei magistrati che, tramite i carabinieri, li hanno acquisiti anche in copia nei vari centri dove gli amministratori si recavano per le trasferte. Da tempo si sapeva che la magistratura abruzzese, così come quella di tutta Italia, stava scandagliando tra le spese degli amministratori pubblici. Un anno fa il capogruppo del Pdl (oggi in Forza Italia) Lanfranco Venturoni aveva escluso la possibilità di uno scandalo sui rimborsi pazzi in regione a causa di una normativa stringente. Secondo quanto verificato da una recente inchiesta di PrimaDaNoi.it negli anni 2010-2011-2012 i gruppi politici alla Regione hanno speso quasi 3 milioni di euro.

Quanto ci costano i partiti che siedono in Regione? Risponde Alessandra Lotti su “Prima Da Noi”. Nel solo 2011 ci sono costati poco più di 1 milione di euro, mentre nel 2012 la spesa è scesa a 887 mila euro per un totale di 1,9 milioni in solo due anni. Nel 2010 erano costati 881 mila euro. I gruppi che siedono in Consiglio beneficiano di denaro pubblico così come disposto dalle leggi regionali 25 del 1972 e la 18 del 2001 e i rendiconti pubblici che si trovano on line hanno voci molto ampie, dalla stampa di manifesti alla organizzazione di convegni fino alle spese telefoniche o generici rimborsi dei consiglieri. Già l’anno scorso il capogruppo del Pdl, Lanfranco Venturoni, aveva spiegato che in Abruzzo non può registrarsi un caso anomalo come quello avvenuto in altre regioni (consiglieri che si fanno rimborsare gratta e vinci, mutante e cene a base di caviale) perché i controlli sono serrati. Ma sfogliando i rendiconti dei partiti le voci più dispendiose appaiono sempre le stesse: rimborso per spese telefoniche e postali (50 mila euro nel 2011 e 58 mila nel 2012), stampa di manifesti per la promozione del partito (70 mila euro nel 2011 e 99 mila euro nel 2012), generici rimborsi ai consiglieri (50 mila euro nel 2011 e 40 mila euro nel 2012) ma anche collaborazioni co.co.co, ovvero i portaborse per i quali i partiti ricevono i contributi della legge 18 del 2001, organizzazione di convegni (52 mila euro nel 2011 e 50 mila euro nel 2012), rappresentanza (60 mila euro nel 2011 e 40 mila euro nel 2012).

POPOLO DELLE LIBERTA’:  -100 MILA EURO DAL 2011 AL 2012. Il gruppo del Popolo delle Libertà contava fino a qualche settimana fa 19 consiglieri (prima della scissione tra FI e Ncd e prima dell’arresto e le conseguenti dimissioni di De Fanis). Il partito ha ricevuto nel 2011 203.179 euro e poteva contare di un residuo dell’anno precedente di 135.255 euro (totale 338.404 euro). Il Pdl ha speso  in totale 283.118 euro: 2 mila euro per l’acquisto di giornali, 72 mila euro per la campagna di comunicazione "Chiodi Fissi", 12.300 euro per spese di rappresentanza, 9.500 euro per spese telefoniche, 1.600 euro per rimborso spese dei consiglieri e 12 mila euro per convegni e incontri. Altri 15.900 euro sono stati spesi per la messa in onda video Unovideo e altri 2.400 euro per speciali televisivi su Tvuno, 47 mila euro per pagamento di F24 e 5.300 euro per consulenze professionali.  Altri 92.854 euro per collaborazioni co.co.co. Nel 2012 il partito ha speso meno dell’anno precedente: 183.984 euro, ben 100 mila euro in meno dell’anno precedente anche a causa della mancanza di fondi derivanti dalla legge regionale 18 del 2001. Tagli netti sono stati fatti per la diffusione di manifesti (6 mila euro), mentre ammontano a 8 mila euro le spese di rappresentanza. Sono cresciute invece le spese telefoniche, arrivate a 13 mila euro. Lievemente cresciuti i rimborsi spese ai consiglieri (2.800 euro) e scesa di 2 mila euro invece la spesa per i convegni (10 mila euro). Schizza invece la voce ‘consulenze’ che aumenta rispetto all’anno precedente di circa 134 mila euro ma in realtà potrebbero essere ricomprese spese diverse come quelle per i co.co.co che secondo lo schema ufficiale nel 2012 non compaiono affatto.

PARTITO DEMOCRATICO. Nel 2011 il Partito Democratico (6 consiglieri) ha ricevuto 153.645 euro e ne ha spesi 138.250.  Il Pd ha speso 4 mila euro per giornali e riviste pubblicazioni,  9.400 euro per redazione stampa e diffusione manifesti, quasi 7 mila euro per spese di rappresentanza, 13.914 euro le spese postali, telefoniche e telegrafiche, 6.013 euro per partecipazione e organizzazione di convegni, 58.866 euro per consulenza e collaborazione professionali. Nel 2012 il partito ha speso 128.405 euro: 13.500 euro per la redazione di stampa e diffusione manifesti, 2.300 euro le spese di rappresentanza, 12.260 euro per spese postali telefoniche, 4.461 euro per organizzazione di convegni, 2.959 euro  per acquisto beni mobili e materiali ufficio, 4.136 euro per ricerche, collaborazioni, consulenze. La voce più costosa è quella di consulenza e collaborazione occasionale che ammonta a 88.601 euro.

ALLEANZA PER L’ITALIA. Alleanza per l’Italia (che conta in consiglio tre consiglieri) ha ricevuto nel 2011  46.819  euro e ne ha spesi 40.894: 3.825 euro per spese di rappresentanza, 3.570 euro per aggiornamento studi e documentazione, 32.233 euro  per prestazioni tecniche. Nel 2012 il partito ha ricevuto pressoché la stessa somma dell’anno precedente ovvero 47.492 euro e ne ha spesi  45.703: 4.500 euro  per spese di rappresentanza, 1.575 euro per spese postali e telefoniche, 3.685 euro  per organizzazione di convegni, 456 euro  per acquisto di beni mobili e materiali d’ufficio, 1.250 euro per l’acquisto e noleggio automezzi, 30.845 euro per la ricerca, collaborazione e consulenze.

RIALZATI ABRUZZO. Rialzati Abruzzo conta due consiglieri tra i quali l’assessore regionale al bilancio Carlo Masci. Il partito nel 2011 ha ricevuto 82.470 euro e ne ha spesi 72.583 euro: 2.200 euro  per l’acquisto di giornali, 4.000 euro per diffusione di manifesti, altri 4.000 euro  per spese di rappresentanza, 2.000 euro per  spese postali, telefoniche, oneri bancari e carte di credito, 660 euro  per rimborsi spese consiglieri, 2.220 euro per organizzazione di convegni, 948 euro per i beni mobili e materiali d’ufficio, 8.806 euro per ricerche, collaborazione e consulenze, altri  47.300 euro per consulenze collaborazioni occasionali. Nel 2012 il partito ha ricevuto 10 mila euro in più, ovvero 92.300 euro ma ha speso più o meno lo stesso dell’anno precedente, ovvero 82.635 euro.  Invariate le spese di rappresentanza (4.396 euro) sono aumentate invece le spese postali,  telefoniche e le carte di credito (4.798 euro). Altri 4.000 euro per l’organizzazione di convegni, 8.297 euro ricerche, collaborazione E consulenze e 56.337 euro  per collaborazioni occasionali. Futuro e Libertà (2 consiglieri) ha ricevuto nel 2011 64.642 euro e ha speso 54.183 euro (nel 2010 ne aveva ricevuti appena 14.381 e spesi circa 7 mila). 4.241 euro per la diffusione di manifesti, 6.817 euro per spese di rappresentanza, 2.713 euro per spese postali telefoniche, 5.741 euro per rimborso spese ai consiglieri, 7.600 euro per l’ organizzazioni di convegni, 9.276 per oneri per il funzionamento decentrato del gruppo, 16.593 euro  per consulenze collaborazioni occasionali. Cifra pressoché identica il partito l’ha ricevuta anche nel 2012 e ha speso  10.000 euro  in più rispetto all’anno precedente. Le spese per le collaborazioni e consulenze sono passate da 16.000 euro a 26.000 euro  così come è raddoppiata la voce oneri per il funzionamento decentrato del gruppo.  4.822 euro  per i rimborsi spese ai consiglieri, 4.042 euro per spese postali e telefoniche.

ITALIA DEI VALORI. L’Idv nel 2011 ha ricevuto 133.000 euro e ne ha spesi 139.999 euro (grazie ai residui dell’anno precedente). Il partito è quello che spende di più per la stampa e diffusione di manifesti:  14.239 euro. Il partito poi ha speso 5.999 euro per le spese di rappresentanza, 2.620 euro per spese postali e telefoniche, 28.493 euro  per rimborsi spese consiglieri, 16.433 euro per l’organizzazione di convegni, 2.815 euro per acquisto di beni mobili  e materiali d’ufficio, 54.400 euro per consulenze collaborazioni occasionali. Nel 2012 il partito ha ricevuto 120.000 euro:  ne ha spesi quasi 10 mila in meno per la redazione stampa e diffusione manifesti (3.492 euro). Altri 3.243 euro per spese di rappresentanza, 1.684 euro per spese postali e  telefoniche, 9.610 euro per rimborso spese dei consiglieri, 13.137 euro per organizzazione di convegni, 84.701 euro  per consulenze e collaborazione occasionale.

UDC. L’Udc (due consiglieri regionali) ha speso 67 mila euro nel 2011:  6.000 euro per spese telefoniche, 1.180 euro per diffusione di manifesti, 6.157 euro per  l’organizzazione di convegni, 4.000 euro per consulenze legali, amministrative e tecniche, 8.500 euro per spese di rappresentanza, 2.000 euro rimborso spese consiglieri. Nel 2012 il partito ha ricevuto 51 mila 253: 1.340 euro li ha spesi per riviste e giornali, 1.237 euro per la diffusione di manifesti, 5.617 euro per spese di rappresentanza, 4.520 euro per spese postali e telefoniche, 4.724 euro per rimborso spese consiglieri, 1.400 euro per beni mobili materiali d’ufficio, 16.995 consulenze collaborazione occasionale.

COMUNISTI ITALIANI. Il partito conta in Consiglio un solo esponente, Antonio Saia, nel 2011 ha ricevuto  14.000 euro così spesi: 1.778 euro per riviste e giornali, 5.805 euro per manifesti, 125 euro  per spese di rappresentanza, 3.752 euro per spese postali telefoniche, 500 euro per l’organizzazione di convegni, 1.168 euro per consulenze di collaborazione. Nel 2012 il partito ha  ricevuto invece 28.000 spendendone  16.000 in questo modo: 527 euro  per giornali e riviste, 8.648 euro per diffusione manifesti, 3.297 euro per spese postali e  telefoniche, 1.089 euro per ricerche, collaborazioni consulenze.

MOVIMENTO PER LE AUTONOMIE.  Anche questo partito conta un solo consigliere, Giorgio De Matteis, e nel 2011  ha ricevuto 44.500 euro. 3.139 euro sono stati usati per spese di rappresentanza, 11,70 euro per le spese postali e  telefoniche, 2.815 euro rimborso spese consigliere, 2.400 euro  per convegni e riunioni manifestazioni,  540 euro per beni mobili materiali d’ufficio, 25.981 euro per consulenze collaborazioni professionali. Ammontano ad 81.948 euro i soldi del 2012: 2.113 sono stati spesi  per manifesti, 6.000 per spese di rappresentanza, 594 euro  di rimborsi spese consiglieri, 1.100 euro per l’organizzazione di convegni, 37.754 euro per  consulenze occasionali.

VERDI. Anche i Verdi contano solo un consigliere, Walter Caporale (che nei mesi scorsi è uscito dal partito per divergenze con i vertici) e nel 2011 ha ricevuto 67.000: 3.259 euro  sono stati spesi per l’acquisto di giornali e riviste, 1.157 euro per i manifesti, 8.796 euro per spese di rappresentanza, 5.307 euro per spese postali e  telefoniche, 1.589 euro per rimborso consigliere, 14.837 euro  per organizzazione convegni, 3.000 per  consulenze, collaborazioni occasionali, 28.600 euro per prestazioni tecniche ed opera di spese di funzionamento. Nel 2012 i Verdi hanno ricevuto 60 mila euro e hanno speso tutto: 2.375 euro per l’acquisto di giornali e riviste, 6.642 euro per spese di rappresentanza, 4.788 euro per spese postali e telefoniche, 807 euro  per rimborso spese,  1.089 euro per convegni, 295 euro per materiale d’ufficio, 44.123 euro per consulenze e collaborazione occasionale.

RIFONDAZIONE COMUNISTA. Rifondazione Comunista conta una solo consigliere e ha ricevuto nel 2011 70.500 euro: sono stati spesi 10.900 euro per manifesti, 3.281 euro per spese postali e telefoniche, 1.478 euro per convegni, 7.000 euro per ricerche, collaborazione e consulenze, 47.600 euro  per collaborazioni professionali. Nel 2012 il partito ha ricevuto 91.631 euro e speso poco meno della metà: 6 mila euro per manifesti, 3.400 euro per spese postali e telefoniche, 2.000 euro per organizzazione convegni,  1.198 euro per acquisto di beni mobili materiali d’ufficio e 42.400 euro per consulenze occasionali.

GRUPPO MISTO. Il gruppo mista conta 4 consiglieri comunali e nel 2011 ha ricevuto 29 mila euro. 3.400 euro per manifesti, 1.134 euro  per spese di rappresentanza, 1.300 per spese postali e  telefoniche, 12.931 euro  oneri per funzionamento decentrato. Nel 2012 partito ha ricevuto 41 mila euro e speso 35.000: 1.592 euro riviste e giornali, 4.397 euro spese di rappresentanza, 5.592 euro per spese postali e telefoniche, 8.915 euro per rimborso spese consiglieri, 2.284 euro per spese materiale d’ufficio, 12.235 oneri per il funzionamento di centro del gruppo.

QUANDO VENTURONI DICEVA: IMPOSSIBILE UNO SCANDALO COME NEL LAZIO. Continua “Prima da Noi”. A settembre del 2012, dopo lo scandalo che ha investito il Consiglio regionale del Lazio, con i super rimborsi elettorali, il capogruppo del Pdl, Lanfranco Venturoni (ex assessore alla Sanità costretto a dimettersi dopo l'arresto per l'inchiesta Re Mida sui rifiuti) rassicurò il popolo abruzzese spiegando che in Regione Abruzzo non si sarebbe mai potuto verificare uno scandalo simile. «Siamo tra le regioni più virtuose d’Italia se non la più virtuosa», spiegò intervistato dalla tv del Consiglio regionale, «per un semplice motivo: da tempo siamo l’unica regione, insieme all’Emilia Romagna, ad avere i revisori dei Conti estratti a sorte. Tutte le spese dei gruppi consiliari sono state rendicontate, sono state poste al vaglio dei revisori che quando hanno visto qualcosa che non era secondo legge e secondo regolamento lo segnalavano. Noi», ha spiegato ancora Venturoni, «abbiamo stabilito per legge i limiti dei finanziamenti ai partiti, quali sono le spese da fare, abbiamo un apposito regolamento, cosa che altrove, come vedete, non succedeva. Qui da noi non è possibile fare questo (ciò che è accaduto in Lazio, ndr), siamo nel rispetto della legge da tempo».

LE PRIME REAZIONI, SOSPIRI: AGGRESSIONE GIUDIZIARIA. Questa nuova indagine farà sicuramente discutere non solo perchè coinvolge un'ampia fetta del Consiglio regionale ma anche perchè arriva a pochi mesi dalle prossime elezioni regionali. Il primo a commentare la notizia è stato il consigliere regionale del Pdl, lorenzo Sospiri, che ritiene non solo l'indagine inconsistenze ma anche una aggressione giudiziaria che arriva in un momento sospetto. Con vivo stupore ho appreso della indagine intrapresa dalla Procura della Repubblica di Pescara inerente la questione dei rimborsi richiesti alla Regione Abruzzo, dice Sospiri. Le contestazioni, prima che insussistenti nel merito, si dimostrano fantasiose ed inidonee a reggere qualsiasi vaglio, ed approfondimento. Trattasi infatti di addebito consistente nell'aver asseritamente  "sottaciuto", in sede di richiesta di un rimborso relativo ad una missione Istituzionale (resa per conto della Regione e regolarmente autorizzata unitamente ai miei Collaboratori) l'esatto numero dei pasti consumati in un ristorante, per un importo che, secondo i calcoli della Procura, ammonterebbe a neppure cento euro. Al di là del contenuto dell'indagine - a dir poco risibile - e nei confronti della quale sono assolutamente sereno, avendo sempre improntato le mie azioni alla massima trasparenza,  va rilevata  la preoccupante tempistica con la quale nuovamente si cerca (con indagini innescate ad orologeria) di screditare l'operato della Regione Abruzzo e quello del sottoscritto Consigliere Regionale (il più votato della Città di Pescara, giova ricordarlo) a ridosso della imminente campagna elettorale. Ad ogni buon conto, ho già dato il più ampio mandato al mio legale, l'Avv. Alessandro Dioguardi, per il compimento di tutte le iniziative utili per la mia difesa a fronte di questa inopinata aggressione giudiziaria.

Abruzzo, bufera sulla Regione: indagati per truffa Chiodi e consiglieri regionali, scrive “Prima da Noi”. D’Alfonso e i magistrati, Battista scatena il Web contro la Procura «che ha fatto condannare Del Turco». Una nuova inchiesta della magistratura si abbatte sulla Regione Abruzzo, dopo le recenti vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’ex assessore Luigi De Fanis. L’ indagine era nell’aria: i carabinieri a gennaio dell’anno 2013 scorso si erano presentati nelle stanze della Presidenza del Consiglio regionale acquisendo le copie di tutte le spese sostenute non solo in questa legislatura, iniziata nel 2009. Dalla Regione si parlò di «controllo di routine» ma 12 mesi dopo le prime risultanze (25 avvisi di garanzia) creano più di qualche imbarazzo. Nelle ultime settimane giravano, come nel caso dell'arresto di De Fanis, voci di imminenti sviluppi molto più eclatanti di quelli poi emersi ieri. Dopo le perquisizioni ci si attendevano i risultati che stanno arrivando ora però bisognerà capire  cosa diranno gli indagati e quali documenti porteranno per tirarsi fuori da una fastidiosa inchiesta che rimarrà appiccicata per molto tempo a chi vi è finito dentro. Alcuni degli indagati hanno già commentato la vicenda, altri lo faranno sicuramente nelle prossime ore. A guardare dalla finestra c’è anche il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente. Gli ultimi dieci giorni per lui sono stati un inferno. Oggi dalla sua ritrovata poltrona da primo cittadino commenta sì, ma senza infierire troppo. Due giorni fa è tornato al suo posto in Comune con l’ex procuratore di Pescara, Nicola Trifuoggi  (neo vice sindaco) che fino ad un anno fa guidava il pool dell’inchiesta Sanitopoli. Al suo fianco in quella indagine c’erano i magistrati Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli che oggi indagano sulla Rimborsopoli abruzzese. «Perché un galantuono come Massimo deve lasciare la poltrona quando Gianni Chiodi non si è mai dimesso, neppure dopo l’arresto dei suoi tre assessori?», chiedeva Stefania Pezzopane una settimana fa. Ora un avviso di garanzia colpisce proprio il governatore e, insieme a lui, altri 24 politici tra assessori e consiglieri regionali (tre anche dell'opposizione).  Per Gianni Chiodi il primo avviso di garanzia  arriva proprio sul filo di lana, in zona Cesarini, anche se il quinquennio di governo "assoluto" non è andato liscio. Come commissario della sanità e come commissario straordinario per il terremoto è riuscito comunque a non essere coinvolto direttamente nelle moltissime inchieste che invece hanno lambito moltissimi degli uomini che gli stavano attorno, come assessori ma anche come uomini di fiducia e dirigenti (tra gli altri Antonio Sorgi, superdirigente e componente della segreteria del presidente). Eclatanti gli arresti di Venturoni per le vicende legate ai rifiuti o l'inchiesta sul gruppo Stati che al di là delle contestazioni penali sembrò svelare uno scenario di potentati parzialmente occulti. L'ultimo arresto dell'assessore De Fanis, poi, ha svelato nuovamente scenari occulti, specie nella vicenda ancora da chiarire sulla fuga di notizie e sulla decisione d'imperio di spostare le elezioni di sei mesi oltre la naturale scadenza del mandato. Chiodi è però stato ascoltato in procura più di una volta per le vicende della ricostruzione del terremoto de L'Aquila quando disse di sentirsi come un «cinghiale braccato». Vi furono invece  timori palpabili - con uscite pubbliche dirompenti - anche quando emersero i particolari che coinvolsero il suo socio di studio, Tancredi, inchiesta relativa ad un fallimento dell'imprenditore Di Pietro e la scoperta di fondi neri in paesi della lista grigia (semi-off shore) come Cipro. Molti degli uomini scelti da Chiodi sono stati indagati per diverse vicende in questi anni  e tra gli altri si ricorda anche l'ex capo della Struttura tecnica di Missione Gaetano Fontana. Destinatario degli ultimi avvisi di garanzia per rimborsopoli anche Giorgio De Matteis, consigliere che non ha risparmiato accuse al duo Cialente-Pezzopane. Il sindaco de L'Aquila però, come detto, non infierisce: «Potrei fare della facile ironia. Rispetto al veleno vomitato su di me, sulla Giunta e sul Comune dell'Aquila. Ma non sono uno sciacallo», dice. «Sono profondamente addolorato, proprio nel momento in cui, con fatica interiore ed esponendomi alle peggiori ironie e prese in giro, d'accordo con la maggioranza di centrosinistra e spinto da tutti i cittadini, sono tornato sui miei passi per difendere l'onore degli aquilani e delle aquilane e ristabilire la verità e l'onestà sulla ricostruzione di fronte all'Italia e all'Europa. Per noi aquilani, la strada è ancora più in salita». «Ma come, non era la giunta della trasparenza e della legalità, Presidente?», chiede invece il deputato del Movimento 5 Stelle, Gianluca Vacca. «È per questo motivo che volevate governare a tutti i costi dopo la scadenza del mandato, perché sapevate della bufera giudiziaria in arrivo? È possibile che questa classe politica non riesca a fare altro che avere guai con la giustizia? Ora dimissioni immediate, subito. E poi sparite dalla scena politica, insieme all'indagato candidato con il tir.... I vostri giorni sono finiti, gli abruzzesi meritano di meglio». E’ preoccupata per quello che potrà accadere a livello politico, invece, la senatrice del Nuovo Centro Destra, Federica Chaivaroli, in Consiglio regionale fino a qualche mese fa ma non indagata. «Questa vicenda probabilmente avrà dei riflessi sulle elezioni regionali perché colpisce su uno di quei temi sensibili per l'opinione pubblica. Era nell' aria da un po' e dà fastidio che arrivi proprio ora. Si avvicinano le elezioni e arrivano Ruby ter, la Regione Abruzzo. Inizia la campagna elettorale». Chiavaroli fa notare anche che la notizia arriva a poche ore dal termine ultimo di presentazione delle dimissioni per presidenti di provincia, sindaci e assessori che intendono candidarsi alla Regione. « Io in Regione ci sono stata - aggiunge Chiavaroli, che è stata consigliera regionale fino al marzo scorso, quando è entrata in Parlamento - e non mi sembra che si facessero spese pazze». Per Alessio Di Carlo (Radicali Italiani) esisterebbe, invece, un «’Caso Abruzzo’, rappresentato non da presunti malcostumi della politica locale, quanto dal comportamento di una parte della magistratura che ormai sembra aver posto un vero e proprio diritto di veto sulle scelte esercitate - o da esercitare - da parte degli elettori abruzzesi». Per Di Carlo «ormai non basta più limitarsi ad invocare il principio di presunzione di innocenza, ricordare i tanti casi in cui le inchieste si sono risolte in un nulla di fatto oppure denunciare la tempistica con cui vengono recapitate le informazioni di garanzia: occorre mettere in relazione tutto ciò con altri elementi, quali la presenza in Pompa Magna degli stessi pm che oggi sono titolari dell'inchiesta ad una recente convention di un illustre candidato del centrosinistra alle prossime regionali (Luciano D’Alfonso, ndr)». La polemica era scoppiata su questo caso anche a livello nazionale dopo che il giornalista Pierluigi Battista del Corriere della Sera aveva fatto notare la strana presenza. Ma l’esponente dei Radicali tira in ballo anche la nomina dell'ex procuratore capo di Pescara a 'consulente per la legalità' del Comune di L'Aquila: «il quadro che ne viene fuori è inquietante ed è rappresentato dal passaggio di consegne che la politica ha fatto, dal diritto di voto in mano agli elettori al diritto di veto in capo alla magistratura». «Chiodi ha fallito. Siamo garantisti e non faremo come Chiodi, che sulle indagini che hanno coinvolto esponenti di altri partiti si è comportato sempre da sciacallo. Ora che invece le indagini lo coinvolgono direttamente, travolgendo la sua coalizione già sconquassata da ben tre arresti di assessori senza che abbia mai sentito la necessità di dimettersi, non mutiamo atteggiamento, confidando sempre nel lavoro della magistratura, nei tempi rapidi delle indagini e negli strumenti consentiti alla difesa», commenta Silvio Paolucci, segretario regionale del Partito Democratico. «Tuttavia, resta senz'altro l'amarezza nel vedere l'Abruzzo governato da chi si erge a paladino della legalità ed è invece al centro di un enorme deficit di trasparenza, etica, partecipazione - sottolinea Paolucci - ed è per questo che quando avremo chiuso la cupa stagione di questi 5 anni e mezzo di centrodestra, da giugno inizierà una nuova stagione di sobrietà. Rimoduleremo le indennità dei consiglieri regionali usando come parametro i sindaci delle città capoluogo e i costi veri dell'iniziativa politica dell'eletto regionale, e verrà resa obbligatoria la rendicontazione immediata, trasparente, di ogni spesa. Lo dobbiamo ai cittadini ed all'enorme crisi economica che stiamo vivendo». «Oggi veramente ogni cittadino di questo povero Abruzzo può considerarsi in lutto». Così la presidente della commissione di Vigilanza e controllo del Consiglio provinciale aquilano, Lucia Pandolfi, commenta la nuova inchiesta. «Ci troviamo a essere depauperati di ulteriori risorse, in barba a ogni regola e soprattutto, qualora i fatti risultassero effettivamente provati, tradendo la fiducia di tutti e, ancora una volta, facendo percepire la politica come casta privilegiata ed esonerata dal rispetto delle regole». «Chissà se una parte della stampa nazionale, che nelle scorse settimane ha gettato fango sull’Aquila, dopo le vicende che hanno interessato il Comune, continuerà la campagna denigratoria per alimentare ombre e parlare di uno stato generale di malaffare. Mi auguro di no, perché l’immagine e il bene dell’Abruzzo e dell’Aquila vengono prima di ogni cosa». Questo quanto afferma la senatrice Stefania Pezzopane, all’indomani delle ultime inchieste giudiziarie. «A differenza di altri, non gioisco delle inchieste, né tanto meno mi rallegro se la macchina del fango mediatica scredita la mia regione, la mia città. Non intendo fare sciacallaggio politico, come è stato fatto dopo le vicende del Comune dell’Aquila. Certo le responsabilità emerse sono gravi, anche se spero che tutti possano chiarire la loro posizione e dimostrare la loro estraneità- prosegue la senatrice- Tuttavia mi chiedo se dopo la pioggia degli avvisi di garanzia ci sarà qualcuno pronto a rassegnare le dimissioni. Tutti quelli che fino a ieri inneggiavano alle dimissioni del Sindaco Cialente, che lo ribadisco, non è stato sfiorato da alcun avviso di garanzia, tutti quelli che hanno usato toni trionfalistici o moralizzatori, tutti quelli che hanno invocato le responsabilità politiche, dal momento che non potevano appigliarsi a quelle penali, avranno ora la coerenza di chiedere a se stessi le dimissioni? Al presidente Chiodi che invoca il fumus persocutionis, prima del voto regionale, vorrei ricordare che se non avesse messo in campo la sveltina della proroga salva-poltrone, si sarebbe già potuto votare a dicembre e questa vicenda non avrebbe neanche sfiorato la campagna elettorale». «Nel nostro partito non candideremo indagati e al prossimo incontro con gli alleati porremo l'urgenza di un programma con iniziative concrete per spazzare definitivamente la mala politica». E' quanto ha dichiarato il segretario regionale dell'IdV Alfonso Mascitelli. «L'emergenza morale nella nostra regione - ha osservato Mascitelli - è ormai diventata un cancro sistemico, altro che magistratura a orologeria come hanno dichiarato alcuni irresponsabili. Gli abruzzesi hanno finalmente capito perchè Chiodi, con De Fanis prima e i rimborsi in regione ora, ha avuto paura che si votasse a scadenza naturale. Da questa vicenda, al di là dei fatti contestati, e di chiunque sia coinvolto - ha infine commentato il segretario Idv - escono fuori una giunta e un Consiglio regionale abusivi perchè oltre la scadenza naturale e delegittimati perchè privi di ogni residua credibilità»

Abruzzo. Rimborsopoli, l'inchiesta che parte da lontano: si attendevano sviluppi. Cialente: «ora potrei ridere ma non sono uno sciacallo». Vacca (M5S): «dimissioni immediate per tutti». Pagano: «Non c’è nessuno scandalo. Inchiesta nata male e con qualche pecca» scrive “Prima Da Noi”. Forse non sarà quella mega inchiesta con scandalo nazionale che qualcuno si attendeva ma per ora rimane un problema giudiziario “minimo” rispetto alle vicende del passato. Rimane soprattutto un problema politico e questo per il momento storico in cui è scoppiato. La rimborsopoli abruzzese è oggi un fatto di cui i prossimi candidati alle elezioni regionali dovranno tenere conto perché le notizie che emergono non potranno non nuocere a chi è coinvolto e beneficiare chi non lo è. Oggi ha parlato in una conferenza stampa il presidente del consiglio, Nazario Pagano, che ha anche scritto il suo discorso affidandolo ad un messaggio video diffuso dall’ufficio stampa. Pagano è pacato ma fermo e mette sul piatto alcuni argomenti che devono essere considerati. In primo luogo le «cifre irrisorie» contestate per spese davvero minime, per alberghi di lusso o altri servizi che secondo la procura dovevano e potevano essere inferiori. Poi c’è il problema molto fondato della competenza territoriale: perché l’inchiesta è gestita dalla procura di Pescara? Nel variegato mondo della giustizia dove le leggi si interpretano e vince chi “motiva meglio” si tratterà di capire come la procura dei grandi scandali ha preso in carico l’inchiesta visto che la sede legale della Regione è a L’Aquila. E’ vero, la sede del Consiglio regionale è anche a Pescara ma questo non basta. Sembra, da quanto si apprende, che comunque questa inchiesta sia nata mentre i due pm indagavano su altro e che dunque siano stati 'costretti' a verificare anche questo filone accidentale. Sarà eventualmente il gip, non appena sarà chiamato ad esprimersi, a valutare l'eventuale propria incompetenza. Ma da questo dubbio proprio sull'incompetenza territoriale ecco nascere il sospetto di “inchiesta ad orologeria” e magari (senza mai dirlo, per carità) la presenza di complotti massonico-giuridici il passo è breve. Non sono mancati attacchi ai pubblici ministeri Bellelli e di Florio visti di recente ad una manifestazione preelettorale del futuro candidato Pd, Luciano D’Alfonso, anche frequentatore assiduo di aule di giustizia della Regione. In questo contesto si inseriscono le parole di precisazione del presidente Pagano.

PAGANO:«NON ESISTE LO SCANDALO, AL MASSIMO ERRORE BUROCRATICO». «Qui in Abruzzo non esiste nessuna rimborsopoli», ha detto, continua “Prima Da Noi”. «Nessuno scandalo né uso distorto di modelli di rimborso. Molte contestazioni riguardano missioni del periodo del terremoto, quando molti consiglieri si sono recati all'estero per raccogliere fondi per la fondazione Abruzzo Risorge per borse di studio destinate a orfani del terremoto». «Faremo le nostre valutazioni nelle sedi e nei tempi opportuni, a partire dalla enigmatica competenza della procura di Pescara», ha dichiarato Pagano che ha letto la nota senza rilasciare interviste o lasciare spazio a domande. Ha poi salutato i giornalisti dicendo: «Dopo 24 anni di politica il mio primo avviso di garanzia. Ci ho messo un po'...». «La magistratura sta portando avanti in Italia una verifica delle spese dei gruppi consiliari delle Regioni», ha continuato, «e la procura di Pescara si e' allineata: ma non c'e' nessuna rimborsopoli d'Abruzzo. Questa inchiesta non riguarda, come è evidente, le spese pazze di alcune Regioni. Al Consiglio regionale dell'Abruzzo vengono contestate irregolarità nei rimborsi di fatture relative a soggiorni in hotel e ristoranti, presentate a seguito di missioni istituzionali, come già emerso anche sulla stampa, di entità più che modeste. Nessuno scandalo, né uso distorto del denaro pubblico, bensì incongruenze nella compilazione dei modelli di rimborso. Gli addebiti riguardano strutture (sia in Italia, che all'estero) convenzionate, che sono state individuate dagli organizzatori degli eventi, ai quali abbiamo partecipato, o dai nostri funzionari e, quindi, non certamente imputabili a scelte individuali». «Le missioni istituzionali, è bene precisarlo», ha aggiunto, «sono previste da un Regolamento interno del Consiglio regionale (che proveremo agli inquirenti è sempre stato rispettato) e che hanno un obiettivo: valorizzare e promuovere la nostra amata Regione. Ad esempio, per ben 2 anni, ho ricoperto la Presidenza e la Vice Presidenza della Calre, la conferenza delle assemblee legislative europee, organismo di cui fanno parte 74 Regioni europee e che per la prima volta è stato guidato dall'Abruzzo. E' ovvio che per me rappresentava un obbligo recarmi all'estero per adempiere alle funzioni di questa carica. Peraltro, molte contestazioni riguardano il periodo del terremoto, durante il quale i consiglieri si sono recati all'estero e in Italia per raccogliere fondi per la Fondazione 'Abruzzo Risorge', che ha finanziato le borse di studio per gli orfani del sisma e la ricostruzione di alcune strutture per la socialità». «Inoltre, le missioni all'estero hanno prodotto la sottoscrizione di accordi di collaborazione economica, nell'interesse delle nostre imprese. Non accetteremo di essere definiti una Regione che sperpera il denaro pubblico, quando nel corso di questa Legislatura siamo riusciti a ridurre del 40% i costi di funzionamento degli organi politici, nonché - nel mio caso - a tagliare del 70% le spese di rappresentanza, rispetto al precedente Ufficio di Presidenza. E, poi, va detto che l'inchiesta riguarda il periodo compreso tra il 2009 e il 2012. Manca, dunque - come confermato dalla stessa Magistratura - l'anno 2013. E' evidente che le indagini non sono ancora concluse. Quindi, il dubbio è legittimo: perché proprio ora, a ridosso dell'appuntamento elettorale, e con queste modalità? E' chiaro che più di qualche perplessità è legittima e noi faremo le nostre valutazioni nelle sedi e con i tempi opportuni, a partire dall'enigmatica competenza della Procura di Pescara. Grazie e buon lavoro».

Rimborsopoli, 24mila euro contestati a Chiodi: «La moglie in business class, pagò la Regione» scrive “Prima Da Noi”. Ammonta a 24 mila euro la cifra contestata al presidente della Regione Abruzzo Gianni Chiodi nell'ambito dell'inchiesta su indebiti rimborsi per viaggi istituzionali. Mentre i vertici della Regione respingono davanti a telecamere e microfoni le accuse che arrivano dalla Procura («non esiste nessuna rimborsopoli») e se la prendono con i giudici per «un attacco ad orologeria» continuano ad emergere le varie contestazione mosse ai 25 indagati. In particolare dalle indagini dei carabinieri sarebbero emerse una serie di irregolarità relative a presunte fatture alterate per ottenere rimborsi spesa in occasioni di viaggi istituzionali, alcuni dei quali non sarebbero neanche avvenuti. Ma ci sono anche presunte autocertificazioni false e un uso non appropriato della carta di credito della Regione non per fini istituzionali ma personali. Tra i documenti sotto la lente di ingrandimento della procura di Pescara quelli riguardanti le trasferte a Roma, Torino, Taormina, Arezzo, Nizza. Nel mirino, ad esempio, un pasto al ristorante "Il vecchio porco" di Milano per un totale di 227 euro. Il conto riguarderebbe una sola persona, in realtà i coperti risulterebbero più di uno. Negli episodi figura anche un soggiorno presso l'albergo a 5 stelle "Il Principe di Piemonte" di Torino. Al vaglio degli inquirenti anche un viaggio a Washington. In quell'occasione Chiodi avrebbe pagato con la carta di credito istituzionale la somma di 2.800 euro per il biglietto aereo in classe business per la moglie, mentre i funzionari che hanno partecipato al viaggio avrebbero pagato il biglietto in economy plus 744 euro. Il governatore avrebbe pagato invece il suo biglietto con altri canali. Per quanto riguarda il vice presidente della Regione Alfredo Castiglione, l'attenzione è rivolta su alcuni pasti consumati a Roma al ristorante " Il Bolognese", a Capri, Anacapri, S. Benedetto. Nel mirino anche una cena a Bari a base di aragoste per un totale di 202 euro con ricevuta a carico di una persona. I partecipanti invece sarebbero stati almeno due. Al vaglio anche un soggiorno di una notte a Roma per tre persone, in una sola camera, all'hotel Piazza di Spagna per un totale di 411 euro. Per quanto riguarda il presidente del Consiglio regionale Nazario Pagano gli episodi riguardano soggiorni in alberghi a 5 stelle a Rimini e Amsterdam. Anche a Mosca il presidente avrebbe alloggiato per due notti in un albergo a 5 stelle per un totale di 702 euro. Nel mirino anche le trasferte a Barcellona, Caracas, Toronto. In alcuni viaggi avrebbe partecipato anche la moglie di Pagano. Anche per quanto riguarda l'assessore Mauro Febbo nel mirino della procura ci sono alberghi e pasti consumati durante le trasferte istituzionali, ad esempio in Sardegna, a Verona, Roma, Cernobbio, Milano, Bruxelles, New York. «Sono impegnato in un'altra vicenda, direi non tanto piacevole, ma andremo ad affrontare anche questa con la sicurezza che chi ha fatto un buon lavoro può andare avanti sempre a testa alta», ha commentato poco fa Chiodi impegnato  a San Salvo in un incontro presso lo stabilimento della Denso, dove è stato inaugurato un impianto fotovoltaico. «Sono molto tranquillo - ha aggiunto - tutta questa vicenda si rivelerà un pericoloso boomerang per qualcuno». Gianni Chiodi in conferenza stampa oggi ha offerto la sua difesa “politica”: «sono accuse infondate». Per quanto riguarda la vicenda del biglietto aereo della moglie «sarebbe bastato - ha detto - prendere in considerazione chi ha pagato il biglietto» e quindi visionare «l'ordine di bonifico sul mio conto corrente», che Chiodi ha mostrato alla stampa e sara' consegnato agli inquirenti. La seconda comunicazione riguarda la contestazione di «spese di missioni in una serie di località in cui mi sono recato ovviamente per fini istituzionali e documentabili», ha detto, e su questo esiste un elenco di missioni, con i motivi che le hanno generate, a Nizza, a Capri, a Milano, Torino, a Verona e altro. Di tutti questi viaggi «è stata data informazione agli organi di stampa» di volta in volta e anche questo materiale di prova sarà consegnato a «chi di dovere». «Qualcuno - ha detto - sostiene che non è iniziata la campagna elettorale. Invece io dico che sono stati convocati i comizi quindi prendiamo atto che è iniziata la campagna elettorale. Ed è cominciata con un atto che qualcuno potrebbe strumentalizzare e quindi in qualche modo inquinare i percorsi della campagna elettorale. Dico subito che se l'obiettivo dovesse essere di farci ritirare dalla competizione elettorale, sappiano tutti che il centrodestra non si ritira. I nostri avversari, chiunque siano, sappiano che affronteremo la campagna elettorale a testa alta perchè siamo persone per bene. Qualcuno potrebbe sostenere - queste le parole di Chiodi - che la politica oramai in Italia non serve più e deve essere commissariata con vice sindaci e vice governatori o futuri vice governatori. Si sappia che noi lotteremo fino al 25 maggio, certi che ci devono giudicare i cittadini. Se pensa, qualcuno, di strumentalizzare atti della magistratura, sappia che non ci ritireremo e ci devono sterminare, come evocato già da qualcuno, ma non sarà facile. Vorrei ancora credere, come ho sempre fatto, anche nella correttezza dell'operato della magistratura. Lo vedremo presto, lo vedremo il 4, che sarà la cartina di tornasole».

Rimborsopoli, gli indagati si sfogano: «aggressione giudiziaria, partita campagna elettorale» scrive “Prima Da Noi”. Tutti tranquilli, tutti pronti a dimostrare la propria estraneità ai fatti. I 25 esponenti del Consiglio regionale indagati dalla procura di Pescara per truffa aggravata, peculato e falso sono sicuri che riusciranno a dimostrare che questa inchiesta è «una bolla di sapone». Diverse le reazioni di queste ore: c’è chi tace, chi ostenta tranquillità e anche chi attacca la magistratura colpevole, secondo alcuni, di aver fatto scoppiare una inchiesta proprio alla vigilia delle elezioni regionali. Molti degli indagati sono di centrodestra, gli altri sono di Idv, Sel nessuno del Pd. Perché è questa adesso la paura maggiore delle classe politica regionale: la ripercussione che l’ inchiesta potrà avere sul voto del prossimo 25 maggio in un periodo in cui l’Abruzzo si è ritrovato più volte sulle pagine dei giornali nazionali. Prima con l’arresto dell’ex assessore Luigi De Fanis (per concussione ma anche per il tentato omicidio della moglie), poi con l’inchiesta aquilana sulla ricostruzione. Ora questa tegola che nelle altre regioni d’Italia ha regalato grosse sorprese, dalle mutande del governatore del Piemonte Roberto Cota, agli hotel di lusso, gratta e vinci, cene, ricariche telefoniche, week and di relax dei consiglieri di mezza Italia. Che sia in atto un attacco della magistratura ne è convinto, ad esempio, il consigliere regionale (indagato) Lorenzo Sospiri (Forza Italia) che ieri sera, quando si è diffusa la notizia dell’inchiesta, poco prima di cena, è stato il primo a commentare con una nota inviata firmata dal suo avvocato Alessandro Dioguardi. Il consigliere regionale, il più votato nella città di Pescara, ha parlato di «indagine innescata ad orologeria» e «inopinata aggressione giudiziaria». Poi su Facebook ha pubblicato una immagine del suo avviso di garanzia protestando per essere stato tirato dentro all’inchiesta per soli 80 euro. «2010, tre giorni al Vinitaly stand regione Abruzzo totale spesa 652 euro», scrive Sospiri: «benzina Pescara - Verona circa 200, autostrada circa 80, mangiare circa 80, dormire 110 euro circa, indennità circa 100, totale 572 euro autorizzati, differenza 82 euro, per non aver specificato che c'erano i collaboratori autorizzati, per 82 euro, mandi un avviso di garanzia? Chiedere prima no? Ops è iniziata la campagna elettorale». Più tranquilla la reazione del presidente Gianni Chiodi: sempre molto attivo sui social network il governatore tace però su Twitter e Fecebook e ha preferito dettare una dichiarazione alle agenzie di stampa. «Io non compilo rimborsi sulle visite istituzionali», spiega, «credo che si possa spiegare tutto. Prima o poi in Abruzzo doveva arrivare, è un trend nazionale», facendo riferimento alle inchieste in altre regioni sulle 'spese pazze' che hanno portato anche ad arresti. «Ricordo comunque che sono stato colui che ha ridotto del 75% le spese di rappresentanza rispetto alla precedente Giunta», conclude. «Sono sereno e tranquillo nonché fiducioso nell'operato della magistratura. Chiarirò ogni addebito», dice invece il presidente del Consiglio regionale d'Abruzzo Nazario Pagano, neo coordinatore regionale di Forza Italia. «È evidente che sono contestazioni sollevate senza tener conto del nostro regolamento che disciplina le missioni istituzionali. A tal proposito, voglio precisare che ho rappresentato l'Abruzzo anche all'estero solo ed esclusivamente a fini promozionali. Le missioni, infatti, sono un valore. Voglio ricordare ancora che io ho ridotto le spese di rappresentanza del 70 per cento rispetto alla passata legislatura. Questa indagine, mi sembra di capire, riguarda presunte irregolarità nella trascrizione delle fatture, che non ricade, come è evidente, nella sfera del presidente del Consiglio o del singolo consigliere. Lo ribadisco, sono sereno». Scegli di scrivere su Facebook anche Carlo Masci, assessore regionale al Bilancio (Rialzati Abruzzo): «Oggi ricevo dopo 19 anni di attività politica il mio primo avviso di garanzia. Mi vengono contestate 9 ricevute di ristoranti di Roma per importi che variano da 49 a 73 euro per consumazioni effettuate in occasione delle mie 80 visite istituzionali nella capitale per conto della Regione dal gennaio 2009 al dicembre 2011, per un totale di circa 500 euro. Sostengono i pm che le 9 ricevute non sarebbero per un pasto cadauna, così come in esse indicato, bensì per due. L'altra contestazione riguarda il fatto che nei moduli delle missioni (quasi tutte a Roma alla Conferenza delle Regioni, su delega del Presidente), predisposti come da prassi dagli uffici regionali, vi e' soltanto la frase generica "missione istituzionale" e non la motivazione della stessa. Questa genericità, derivante da una prassi degli uffici regionali risalente nel tempo, costituirebbe, a detta dei pm, un reato. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso solidarietà senza neanche conoscere gli addebiti contestatimi. Leggendo queste poche righe sono certo si tranquillizzeranno, così come sono tranquillo io». A ruota, sempre sui social network, il commento del vice presidente della Regione, Alfredo Castiglione: «grazie a tutti per le telefonate di solidarietà, sono sereno come tutti i colleghi, ognuno continuerà a fare il suo lavoro serenamente e dimostreremo tutta la nostra onestà, correttezza, attenzione e sensibilità. Nel frattempo completeremo la nostra profonda azione riformatrice, senza indugi, senza spaventarci o lasciarci intimidire o intimorire. buona notte a tutti».

Pezzopane (Pd): "Sterminiamo tutti quelli del centrodestra". La presidente della Provincia dell'Aquila usa parole da "soluzione finale" parlando del centrodestra, scrive “Libero Quotidiano”. Una frase da brividi, che ha un po' il terribile e sconcertante sapore della soluzione finale. "Uniamoci e sterminiamoli tutti". Parole e musica della senatrice del Pd Stefania Pezzopane, presidente della Provincia dell'Aquila. La frase è stata gridata nel corso della manifestazione a sostegno di Massimo Cialente, il sindaco dell'Aquila costretto alle dimissioni per gli scandali sulla ricostruzione che lo hanno lambito, una manifestazione durante la quale i suoi sostenitori chiedevano all'ex sindaco di tornare sui suoi passi e in cui la Pezzopane non ha perso l'occasione per iniziare la campagna elettorale in vista delle prossime Regionali. Una frase sconcertante di cui ha dato conto Il Centro, quotidiano abruzzese, che ha sottolineato i "toni duri e melodrammatici" della senatrice. Pezzopane, la senatrice che vuole "sterminare" il centrodestra. Tutto. Il coordinatore di Forza Italia Alfonso Magliocco scrive su “Il Centro”: «”Sterminiamoli tutti”, gridava Himmler dal quartier generale delle Ss. Stesso ordine veniva impartito da Stalin in riferimento ai dissidenti politici detenuti nei gulag sovietici. Non poteva essere da meno la senatrice Pezzopane degna erede di un “passato che non passa” in cui esistono solo nemici da “sterminare” e dove l’odio è il combustibile dell’azione politica. Pezzopane, in pieno delirio, ordina: “sterminiamoli tutti quelli del centrodestra”. D’altronde ricordiamo bene quando gioiva (su Facebook) per una statuina lanciata in faccia a Berlusconi o quando da “boia” della giunta del regolamento del Senato ha condannato in anticipo il nemico pubblico numero 1. Nulla di nuovo quindi: la politica intesa come strumento per lo sterminio del nemico e non come strumento di ricerca del bene comune. La sinistra lo ha sempre fatto. Se L’Aquila non si trovasse in una situazione oggettivamente difficile, tali esternazioni potrebbero essere derubricate a dichiarazioni sopra le righe o fuori luogo. Ma dato che la situazione è sotto gli occhi di tutti tali dichiarazioni assumono una dimensione di una gravità inaudita. Non tanto per l’odio insito nelle stesse ma quanto perché si sta giocando con il futuro della città. Apprendiamo, infatti, dalla stampa che Cialente starebbe riflettendo sulla possibilità di ritirare le dimissioni che, parole dello stesso Cialente, sono state la conseguenza del non esaudimento da parte del suo governo dei desiderata richiesti alcuni mesi fa (via Trigilia, un miliardo l’anno e sforamento del 3% del tetto deficit/pil). Ora, se erano irricevibili prima lo sono anche oggi e le dimissioni andrebbero confermate almeno per dignità».

Bufera giudiziaria in Abruzzo, Radicali:"Giustizia vuole diritto di veto su scelte politiche", scrive “Zonedombratv”. Attacchi più o meno pesanti nei confronti dell'inchiesta che ha travolto la Regione Abruzzo da parte degli indagati. Quasi tutti si sfogano sui social network. Gianni Chiodi ha invece affidato alle agenzie un suo commento. "La nuova bufera giudiziaria che ha investito la nostra Regione, con l'invio di una informazione di garanzia a 25 tra consiglieri, assessori oltre che al presidente della Giunta, Chiodi, e del Consiglio, Pagano, è la prova di come esista un vero e proprio 'Caso Abruzzo', rappresentato non da presunti malcostumi della politica locale, quanto dal comportamento di una parte della magistratura che ormai sembra aver posto un vero e proprio diritto di veto sulle scelte esercitate - o da esercitare - da parte degli elettori abruzzesi". Lo ha dichiarato Alessio Di Carlo, membro del comitato di Radicali italiani e segretario di Radicali Abruzzo. Nell'inchiesta, oltre a Chiodi e Pagano, sono coinvolti nove assessori e 14 consiglieri, accusati, a vario titolo,di truffa ai danni dello Stato, peculato e falso ideologico. Le indagini dei carabinieri di Pescara raccontano di una serie di irregolarità relative a presunte fatture alterate per ottenere rimborsi spesa in occasioni di viaggi istituzionali, alcuni dei quali non sarebbero neanche avvenuti. Secondo la Procura di Pescara ci sarebbero anche presunte autocertificazioni false e un uso non appropriato della carta di credito della Regione non per fini istituzionali ma personali. L'inchiesta è coordinata dai pm Giampieri Di Florio e Giuseppe Bellelli e abbraccia il periodo compreso tra il gennaio 2009 e dicembre 2012. Le indagini sui rendiconti dei gruppi consiliari sono ancora in corso. "Ormai - afferma Di Carlo - non basta più limitarsi ad invocare il principio di presunzione di innocenza, ricordare i tanti casi in cui le inchieste si sono risolte in un nulla di fatto oppure denunciare la tempistica con cui vengono recapitate le informazioni di garanzia: occorre mettere in relazione tutto ciò con altri elementi, quali la presenza in pompa magna degli stessi pm che oggi sono titolari dell'inchiesta ad una recente convention di un illustre candidato del centrosinistra alle prossime regionali, oppure con la nomina dell'ex procuratore capo di Pescara a 'consulente per la legalità' del Comune di L'Aquila". Per l'esponente radicale "il quadro che ne viene fuori è inquietante ed e' rappresentato dal passaggio di consegne che la politica ha fatto, dal diritto di voto in mano agli elettori al diritto di veto in capo alla magistratura". 

Milano chiama Pescara: Giustizia ad orologeria, scrive Antonio Del Furbo su Zonadombratv”. Era nell'aria, c'era da aspettarselo. Troppi segnali negli ultimi giorni. Troppi. Così, anche in Abruzzo, è riesplosa la bomba. Se con la Giunta Del Turco qualcuno si era salvato, tipo l'ex vice presidente Enrico Paolini, in quella attuale nessuno l'ha fatta franca. In venticinque sono finiti sotto le maglie della magistratura compreso il presidente Gianni Chiodi, ovvero l'uomo che non farebbe male ad una mosca. L'uomo che nelle trasferte di lavoro, spesso e volentieri, non lasciava l'albergo per non spendere soldi. Lui, come gli altri ventiquattro, hanno appreso dell'esistenza delle indagini attraverso i quotidiani. Quali? I soliti ovviamente: Repubblica e Il Fatto. Sarà, forse, che nelle redazioni di questo giornali esistano delle sedi distaccate delle procure di tutt'Italia oppure, forse, ci saranno i 'topi seriali' che fanno uscire i documenti. Forse. Molto forse. Fatto sta che dalla 'Culla del Diritto' siamo passati al 'Culo del Diritto'. E se qualcuno lo nega prende in giro se stesso. E si dovrebbe prendere a schiaffi da solo se parla soltanto di politica malata. Probabilmente ci saranno delle responsabilità ma non ancora lo sappiamo, noi comuni mortali. Magari lo saprà quel gran genio del dipendente di De Benedetti (tessera numero 1 del Pd) Ezio Mauro che parla di "Evasione fiscale che, nel 2013, ha superato i 60 miliardi di somme nascoste". Ecco magari qualche spicciolo di quei 60 miliardi li chiedesse al suo editore che paga le tasse, sembra, in Svizzera e, a quanto pare, non è stato mai toccato da un'inchiesta. Poi, magari, quel gran guru di Mauro ci spieghi anche come sia stato possibile che i due pm, titolari dell'inchiesta sui rimborsi, abbiano partecipato alla serata organizzata da Luciano D'Alfonso (Battista, candidatura D'Alfonso:"In prima fila lo applaudivano Bellelli e Di Florio"). Chissà forse Cesare - Beccaria si sarebbe indignato o, forse in queste ore, starà bevendo wisky per ubriacare la sua anima. Chissà.  L'avviso di garanzia era tutt'altra cosa una volta, ora non più. "Ancora non so precisamente di che cosa si tratti perché non ho ricevuto l'avviso di garanzia. Ho capito che si tratta di rimborsi e, da quello che si apprende, sembrano cose che possono essere spiegate ampiamente, non è come avvenuto nel resto dell'Italia". Queste sono le parole di Chiodi appena appreso la notizia. Forse all'epoca di Beccaria un 'indagato' non avrebbe fatto una dichiarazione del genere. Forse. Perché, semplicemente, gli uomini non erano considerati, dalla Giustizia, cose ma bensì umani. Scriveva Beccaria:"Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa". Sarà, forse, che anche a Milano qualcuno stia trattando l'uomo come cosa? Sarà forse che il Ruby ter, dove sono indagati Silvio Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, sia una mossa dovuta al fatto che 'Forza Italia' stia decollando nei sondaggi e, con l'Italicum, otterrebbe il premio di maggioranza? Chissà. Forse. Intanto, su Facebook, Lorenzo Sospiri capogruppo al Consiglio regionale di Forza Italia, pubblica il suo avviso di garanzia. Scrive:"Pubblico mio avviso di garanzia: 2010, 3 giorni al Vinitaly stand Regione Abruzzo totale spesa 652. Benzina Pescara - Verona circa 200 euro, autostrada circa 80euro, mangiare circa 80 euro, dormire 110 euro circa, indennità circa 100 euro, totale 572 euro autorizzati, differenza 82 euro, per non aver specificato che c'erano i collaboratori autorizzati, per 82 euro, mandi un avviso di garanzia? Chiedere prima no? Ops è iniziata la campagna elettorale". Alfredo Castiglione si dice sereno:"Grazie a tutti per le telefonate di solidarietà, sono sereno come tutti i colleghi, ognuno continuerà a fare il suo lavoro serenamente e dimostreremo tutta la nostra onestà, correttezza, attenzione e sensibilità. Nel frattempo completeremo la nostra profonda azione riformatrice, senza indugi, senza spaventarci o lasciarci intimidire o intimorire. buona notte a tutti". Sarcastico Riccardo Chiavaroli:"Procura di Pescara ha notificato tramite mass-media avvio campagna elettorale regionali Abruzzo". Amen.

La mannaia dei giudici abruzzesi sulle elezioni. I sostituti di Pescara che accusano il governatore Chiodi sostengono il candidato Pd, scrive Gabriele Villa su “Il Giornale”. Chiodo scaccia Chiodi? Il chiodo, il chiodo fisso sembra essere, ancora una volta quello di una magistratura, di una certa magistratura non propriamente super partes che, anche nel «caso Abruzzo», pare si stia impegnando, meticolosamente per confondere carte, accuse e accusati. Che cosa sta succedendo? Sta succedendo che, dopo il rapido dietrofront del sindaco piddino dell'Aquila, Massimo Cialente che, travolto dagli scandali sugli appalti per la ricostruzione del post terremoto, prima si è dimesso e poi si è rimangiato le dimissioni, nominando come suo vice l'ex procuratore capo di Pescara, Nicola Trifuoggi, i giudici hanno inquadrato nel mirino il governatore di centrodestra, Gianni Chiodi. A lui e ad altre 24 persone contestano i reati di truffa aggravata nei confronti della Regione, peculato e falso ideologico per i rimborsi relativi ad una serie di missioni istituzionali alcune delle quali non sarebbero nemmeno avvenute. Solo che questo cambio di passo (e anche di direzione), nell'inchiesta della magistratura, qualche dubbio l'ha suscitato. Per esempio basta concentrarsi su un apparente dettaglio, rilevato dal sito zonedombra.tv e anche, in verità, dall'editorialista del Corsera, Pierluigi Battista, per porsi qualche domanda. L'inchiesta a carico di Chiodi e gli altri è coordinata dai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli e abbraccia il periodo compreso tra gennaio 2009 e dicembre 2012. Ma qui arriva il dubbio. Perché, come rivela zonedombra.tv, pubblicandone anche la foto, giorni orsono, quegli stessi magistrati hanno partecipato all'evento tenutosi al Teatro Circus di Pescara per lanciare la candidatura di Luciano D'Alfonso a governatore della Regione Abruzzo in nome e per conto del Pd. All'evento era presente anche il neo-vicesindaco dell'Aquila, Nicola Trifuoggi. Curioso, davvero curioso che, ad applaudire D'Alfonso, che qualche guaio con la giustizia, con quattro processi a carico (anche se può vantare una recente parziale assoluzione) l'ha avuto, ci fossero anche i due pm, Di Florio e Bellelli che tanto vogliono, giustamente, vederci chiaro nei conti di Chiodi e degli altri 24 accusati. Una stranezza che suscita per esempio l'indignazione di Alessio Di Carlo, membro del comitato di Radicali italiani e segretario di Radicali Abruzzo: «La nuova bufera giudiziaria che ha investito la nostra Regione, con l'invio di una informazione di garanzia a 25 tra consiglieri, assessori oltre che al presidente della Giunta, Chiodi, e del Consiglio, Pagano, è la prova di come esista un vero e proprio Caso Abruzzo, rappresentato non da presunti malcostumi della politica locale, quanto dal comportamento di una parte della magistratura che ormai sembra aver posto un vero e proprio diritto di veto sulle scelte esercitate - o da esercitare - da parte degli elettori abruzzesi. Ormai - afferma Di Carlo - non basta più limitarsi ad invocare il principio di presunzione di innocenza, ricordare i tanti casi in cui le inchieste si sono risolte in un nulla di fatto oppure denunciare la tempistica con cui vengono recapitate le informazioni di garanzia: occorre mettere in relazione tutto ciò con altri elementi, quali la presenza in pompa magna degli stessi pm, che oggi sono titolari dell'inchiesta, ad una recente convention di un illustre candidato del centrosinistra alle prossime regionali, oppure con la nomina dell'ex procuratore capo di Pescara a consulente per la legalità del Comune di L'Aquila».

Voltafaccia Pd all'Aquila il sindaco torna in carica con un ex pm come vice. Dieci giorni fa Cialente si era dimesso dopo l'inchiesta sulle tangenti post sisma che ha coinvolto la sua giunta. Ieri retromarcia a sorpresa, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Aveva gettato la spugna fra le macerie della città martoriata. E se n'era andato puntando il dito contro gli attacchi alla sua persona dal pulpito Rai e il gelido silenzio del governo. Contrordine: Massimo Cialente ritira le dimissioni e torna a fare il sindaco dell'Aquila. In tv solo pochi giorni fa era stato definitivo: «Abbiamo perso». E la sua faccia estenuata, quasi consumata, pareva esprimere quel che le parole potevano solo sfiorare. Stanchezza. Frustrazione per una ricostruzione ferma al palo della burocrazia e dei finanziamenti col contagocce. E poi la rabbia e la vergogna per l'inchiesta che aveva travolto la sua giunta con quattro arresti per le mazzette sul sisma. Davvero, una stagione sembrava giunta al capolinea con la scoperta, imbarazzante, che le stecche erano gradite anche a sinistra. Ma ecco il nuovo colpo di scena: Cialente ci ha ripensato ed è tornato sui suoi passi. Postilla strategica: in giunta, come vicesindaco, entra addirittura un magistrato in pensione, quel Nicola Trifuoggi che tutti ricordano per un celebre fuori onda con Gianfranco Fini. In quel colloquio, captato dai microfoni nelle pause di un convegno, si parlava, tanto per cambiare, di Silvio Berlusconi. E Fini si era lasciato sfuggire critiche affilate: «L'uomo confonde il consenso che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità». Trifuoggi, allora procuratore a Pescara, gli aveva fatto da spalla con un commento tarato sulla stessa lunghezza d'onda: «È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l'imperatore romano». Ora Trifuoggi rafforzerà la traballante giunta Democratica, si occuperà naturalmente di legalità e trasparenza, vigilerà sugli appetitosissimi appalti necessari per ridare vita a una città ferita. Insomma, il suo sarà una sorta di commissariamento e in qualche modo la sua figura sarà una polizza sulla vita per il sindaco. Cialente, in grande difficoltà, cerca dunque di rilanciare la sua immagine appannata e di coprirsi le spalle. In conferenza stampa, spiega che è stata la gente dell'Aquila a convincerlo a fare dietrofront: «Ho ricevuto centinaia di mail e perfino mazzi di fiori perché tornassi indietro sui miei passi». E poi c'è stato un episodio che l'ha scosso. «Una donna - racconta il primo cittadino che aveva già annunciato il suo ritorno alla professione medica - mi ha fermato con la sua famiglia mentre stavo andando a lavorare in ospedale e mi ha apostrofato: Ma dov'è il suo senso di responsabilità?. Questa frase mi ha fatto riflettere. Questa non è la città del magna magna come qualche importante organo di informazione ha voluto far credere». Insomma, Cialente ha il problema di mettersi d'accordo con se stesso. Prima sostiene che la città è persa, fuori controllo, mangiata dall'avidità di speculatori senza scrupoli, poi ci ripensa e racconta che L'Aquila ha un'immagine pessima ma immeritata. Perché è meglio di come appare. E dunque dopo un breve gioco dell'oca si ripresenta alla casella di partenza, spalleggiato dal neo superassessore in toga. Contorsioni che non aiutano a capire, come lascia francamente perplessi sapere che Cialente ha capitolato dopo aver constatato l'affetto dei suoi concittadini. Speriamo che capriole e manovre tattiche siano finite. C'è un centro storico, carico di arte e storia, da ricostruire e c'è da lottare, come sempre in Italia, contro tanti nemici fra loro alleati: la penuria di fondi, per carità, ma poi anche il groviglio delle competenze incrociate, i vincoli di tutti i generi, le rivalità fra le diverse autorità, la burocrazia e il benaltrismo. Qual è la risposta del sindaco davanti a tutte queste difficoltà? «Ho pensato - risponde Cialente - all'ex magistrato Nicola Trifuoggi che per 45 anni ha lavorato al servizio dello Stato senza vedere partito o colori ma solo la legge». Trifuoggi è anche il pm che nel 2008 fece arrestare il governatore dell'Abruzzo Ottaviano Del Turco e affondò la sua giunta. Ora lavorerà gratis per L'Aquila. Finalmente, una buona notizia.

Ma al peggio non c'è mai fine.

“Tira più un pelo di figa che un carro di buoi”. La frase mostra un proverbio popolare di cui non si conosce l'autore ma che rispecchia la saggezza popolare. Ed è inutile scandalizzarsi e fare i puritani. I peli li han tutti…..

Rimborsopoli: viaggi, massaggi e alberghi per mogli e amanti, scrive “Vasto Web”. L’inchiesta “Rimborsopoli” che ha portato ad avvisi di garanzia per 25 rappresentanti del consiglio regionali abruzzese svela maggiori dettagli sull’attività svolta dagli amministratori abruzzesi. I dettagli delle contestazioni sono stati pubblicati dal giornalista de “Il fatto quotidiano” Antonio Massari. I giudici contestano all’assessore della Regione Abruzzo Alfredo Castiglione le spese relative ad una generica  “visita istituzionale” avvenuta sabato 11 settembre (non viene specificato l’anno), quando l’Assessore avrebbe pernottato per una notte al Victoria Terme di Tivoli insieme ad un’altra persona, la compagna, che, secondo gli inquirenti, sarebbe stata occultata nelle richiesta di rimborso presentata agli uffici contabili della Regione. Costo totale: 515 euro. Secondo Il Fatto, gli inquirenti sarebbero stati insospettiti che Castiglione, per recarsi in quella visita, avrebbe usato la sua macchina personale e che la missione fosse stata espletata nel corso di un week-end. Quindi avrebbero mandato i carabinieri a investigare proprio tra il personale dell’hotel Victoria Terme. I due non si sono limitati a dormire. Hanno usato anche l’annesso centro benessere. E pure l’attrezzato centro estetico. Il tutto  gentilmente offerto dai contribuenti. Il Fatto pubblica anche i dubbi degli inquirenti su una missione del Presidente Gianni Chiodi. Un pernottamento del 13 marzo 2010, nella stanza 114 dell’Hotel del Sole di Roma, quando il presidente della Regione, secondo la ricostruzione degli inquirenti basata solo su ricevute e fatture, avrebbe dormito in camera con una signora, più specificatamente una dipendente della Regione Abruzzo. Sempre "Il Fatto Quotidiano", rivela che gli inquirenti, nel passare al setaccio quattro anni di ricevute e rimborsi della Regione Abruzzo, abbiano riscontrato le presenze anomale di altre quattro donne nelle stanze di albergo di Assessori e consiglieri regionali. “Tre donne di Pescara: una giornalista, una grafica, un’avvocatessa. Una di Roma: professione commerciante.” Il punto - com’è ovvio - non riguarda la libertà, per il governatore Chiodi, di condividere la sua stanza d’albergo con chicchessia. Il punto è che – secondo l’accusa – questa libertà va pagata con soldi propri e non con denaro pubblico. E invece – stando alla ricostruzione dei carabinieri – Chiodi, dopo aver speso in contanti 340 euro, chiede un rimborso per 357, incassando indebitamente i 170 euro pagati per l’ospite. E non si tratta dell’unica donna che, a spese dei cittadini, gli assessori regionali abruzzesi hanno ospitato – con pranzi e cene annesse – nelle loro camere d’albergo. È raro, molto raro, trovare hotel a 4 stelle: gli atti d’indagine, condotta dai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli, mostrano una sfrenata predilezione per 5 stelle extra lusso. Nazario Pagano (Forza Italia), presidente del Consiglio regionale e assessore deve giustificare spese per 8.500 euro. La sua predilezione per i 5 stelle extra lusso emerge sin dall’anno dell’insediamento quando, tra il 24 novembre e il 4 dicembre, sempre per motivi istituzionali, viaggia tra Caracas e Miami, in Florida, senza mai trovare una soluzione più economica. Eppure, a volte, era davvero a portata di mano. Come nell’ottobre 2009, quando si reca istituzionalmente a Sanremo, e passa tre notti all’hotel Royal – 5 stelle categoria lusso – alla modica cifra di 900 euro (300 euro per notte). Per giustificare la spesa, Pagano “autocertifica” che, in quella situazione, non aveva trovato soluzioni più economiche. Eppure ai carabinieri è bastato un minuto, il tempo di attraversare la strada, per verificare che – proprio di fronte all’hotel Royal – c’era un dignitosissimo albergo. Scartabellando tra le presenze, poi, hanno scoperto che, in quelle tre notti, l’hotel di fronte, aveva l’80 per cento delle camere libere. Dai registri del Royal, gli investigatori, verificano che l’assessore non ha ospitato nessuno anche se ha sempre cenato – con spesa rimborsato – in coppia con qualcuno. E sembra quasi un’eccezione. In ben altri quattro casi, infatti, Pagano ha pernottato – pagando con soldi pubblici – con un’ospite donna. In nessuno di questi 4 casi s’è trattato della moglie, che avrebbe dovuto comunque pagare di tasca sua, ma, al contrario, s’è trattato di quattro donne diver-se tra i 35 e i 45 anni. L’assessore alle politiche attive del lavoro, Paolo Gatti (Fi) -si legge ancora su "Il Fatto"-ospita invece una sola donna – anche in questo caso non si tratta della moglie – ma per due notti consecutive: Albergo del Senato, costo 235 euro, pagati con carta di credito istituzionale e presunto rimborso indebito – per il soggiorno della signora 249 euro". Il valzer delle camere doppie. Spuntano tante donne dalle carte che hanno dato corpo all’inchiesta. Ventidue notti con ospiti fantasma, scrive “Il Messaggero”. Chiodi, Pagano e Castiglione «Dimostreremo che non è così». A pochi giorni dagli interrogatori dei politici eccellenti indagati per l'inchiesta Rimborsopoli, a tenere banco, paradossalmente, non è tanto la questione penale relativa ai reati che la Procura di Pescara ha contestato a vario titolo agli indagati (peculato, truffa e falso ideologico) quanto piuttosto quella delle fughe d'amore o comunque dei viaggi in compagnia di presidenti e assessori regionali coinvolti nell'indagine. Una speciale classifica che è guidata dal presidente del Consiglio regionale Nazario Pagano, che nel suo carnet avrebbe ben otto pernottamenti con donne nei suoi numerosi viaggi istituzionali in Italia, ma anche all'estero. E tutti in alberghi a cinque stelle anche se, come gli contesta la Procura, avrebbe potuto e dovuto pernottare in hotel meno costosi e ugualmente dignitosi e peraltro disponibili. Fra le donne che avrebbero diviso le stanze d'albergo con i mariti eccellenti, ci sono naturalmente anche le mogli, anche se la loro presenza è sporadica, se non limitata ad una o massimo due presenze. Pagano, ad esempio, dei suoi otto pernottamenti con donne è senza dubbio il più gettonato: ci sarebbero ben cinque donne diverse, moglie compresa, con le quali ha diviso alcuni suoi viaggi istituzionali a spese della Regione. Lo segue a ruota, a pari merito soltanto per il numero di pernottamenti in compagnia, l'assessore Alfredo Castiglione, anche se l'esponente politico di centrodestra ha sempre diviso la stanza con la sua compagna, tranne una volta in cui nella stessa stanza erano in tre. Poi c’è il presidente della giunta, il governatore Gianni Chiodi, con sei pernottamenti in compagnia di moglie e non solo. I nomi delle donne che si sono accompagnate con i vari politici indagati figurano nella relazione investigativa stilata dai carabinieri e in base alla quale sono stati poi ipotizzati i reati contestati, e scritti i capi di imputazione che, però, non fanno menzione di queste donne. Quando i militari si sono recati in questo o quell'albergo non hanno fatto altro che verificare i documenti che ognuno è obbligato a depositare alla reception per dimostrare la propria identità. Ai magistrati il compagno o la compagna di turno non interessa: interessa quella stanza d'albergo, quel pranzo, quella cena, che secondo le richieste di rimborsi presentate dai singoli politici riguardavano soltanto assessori o presidenti, ma in effetti coinvolgevano più persone: interessa che a godere dei servizi d'albergo o ad usufruire del pasto erano in due o più mentre dai documenti contabili risultava soltanto la presenza dell'interessato alla trasferta istituzionale. «Non è così, le accuse della Procura possono essere contestate e lo dimostreremo concretamente» spiegano le difese di tutti gli indagati importanti della Rimborsopoli d’Abruzzo. E la fase che sta per arrivare, quella degli interrogatori davanti ai pubblici ministeri Giuseppe Bellelli e Giampiero Di Florio, dovrà servire per fare chiarezza solo ed esclusivamente su questi fatti. Salvo poi approfondire le indagini se dovesse venir fuori che chi ha accompagnato l'uno o l'altro degli esponenti politici, poi ha anche avuto un suo ritorno economico a danno della Regione.

Sul Fatto Quotidiano, “Abruzzo turismo sessuale dalla giunta terremotata”. Il Fatto Quotidiano, con un articolo di Antonio Massari, oggi torna a riaccendere i riflettori sull’Abruzzo dopo aver seguito le vicende del sindaco Cialente. Questa volta, in prima pagina, c’è l’inchiesta dei rimborsi spese che riguarda la Regione Abruzzo e che ha coinvolto il governatore Gianni Chiodi, il presidente del Consiglio Nazario Pagano e 23 tra assessori e consiglieri. “Si può spiegare tutto”. Il governatore abruzzese annuncia di essere in grado di giustificare ogni centesimo, dei 37mila e 500 euro pubblici spesi, durante le sue 185 missioni istituzionali. Un episodio da spiegare, per esempio, riguarda la notte del 13 marzo 2010 e l’ospite della stanza 114, nell’Albergo del Sole di Roma – zona Pantheon – pagata 340 euro, con soldi contanti, durante una visita istituzionale nella Capitale. I carabinieri del nucleo investigativo di Pescara, infatti, spulciando tra i rimborsi di Chiodi, hanno verificato che quella notte, nella stanza 114, il governatore non era solo. Non era neanche con sua moglie, a dirla tutta, poiché ha condiviso la camera con una dipendente dell’amministrazione regionale. Il punto - com’è ovvio - non riguarda la libertà, per il governatore Chiodi, di condividere la sua stanza d’albergo con chicchessia. Il punto è che – secondo l’accusa – questa libertà va pagata con soldi propri e non con denaro pubblico. E invece – stando alla ricostruzione dei carabinieri – Chiodi, dopo aver speso in contanti 340 euro, chiede un rimborso per 357, incassando indebitamente i 170 euro pagati per l’ospite. E non si tratta dell’unica donna che, a spese dei cittadini, gli assessori regionali abruzzesi hanno ospitato – con pranzi e cene annesse – nelle loro camere d’albergo. E' raro, molto raro, trovare hotel a 4 stelle: gli atti d’indagine, condotta dai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli, mostrano una sfrenata predilezione per 5 stelle extra lusso. E anche per i viaggi in business class, come quello da 2.872 euro, pagato da Chiodi con carta di credito regionale, per il volo Teramo-Washington del 22 ottobre 2009: biglietto intestato a Daniela Clementoni – parliamo della consorte del governatore – che quel giorno viaggiò con Chiodi. “La Regione non ha pagato il biglietto per mia moglie – dice il governatore, accusato di truffa, peculato e falso, con 24 tra consiglieri e assessori – ed è facile verificarlo dall’ordine di bonifico, indirizzato all’agenzia di viaggi, che è a disposizione degli inquirenti”. Resta il fatto che, per il viaggio in questione, Chiodi ha comunque prenotato per se stesso una business class da 2.800 euro. Tra le spese istituzionali che il governatore dovrà giustificare, anche la cena al ristorante “Vecchio Porco” di Milano, pagata con carta di credito, al costo di 227 euro, per la quale – secondo l’accusa – non ha mai esibito la ricevuta. Era il 18 febbraio 2010 e gli investigatori si chiedono perché, la cena istituzionale, fu pagata non solo a Chiodi, ma anche agli altri quattro commensali. Tra i casi più singolari – e in qualche modo seriali – c’è quello dell’assessore Nazario Pagano (Forza Italia), presidente del Consiglio regionale e assessore per la Salute, che deve giustificare spese per 8.500 euro. La sua predilezione per i 5 stelle extra lusso emerge sin dall’anno dell’insediamento quando, tra il 24 novembre e il 4 dicem­bre, sempre per motivi istituzionali, viaggia tra la venezuelana Caracas e Miami, in Florida, senza mai trovare una soluzione più economica. Eppure, a volte, era davvero a portata di mano. Come nell’ottobre 2009, quando si reca istituzionalmente a Sanremo, e passa tre notti all’hotel Royal – 5 stelle categoria lusso – alla modica cifra di 900 euro (300 euro per notte). Per giustificare la spesa, Pagano “autocertifica” che, in quella situazione, non aveva trovato soluzioni più economiche. Eppure ai carabinieri è bastato un minuto, il tempo di attraversare la strada, per verificare che – proprio di fronte all’hotel Royal – c’era un dignitosissimo albergo. Scartabellando tra le presenze, poi, hanno scoperto che, in quelle tre notti, l’hotel di fronte, aveva l’80 per cento delle camere libere. Dai registri del Royal, gli investigatori, verificano che l’assessore non ha ospitato nessuno anche se ha sempre cenato – con spesa rimborsato – in coppia con qualcuno. E sembra quasi un’eccezione. In ben altri quattro casi, infatti, Pagano ha pernottato – pagando con soldi pubblici – con un’ospite donna. In nessuno di questi 4 casi s’è trattato della moglie, che avrebbe dovuto comunque pagare di tasca sua, ma, al contrario, s’è trattato di quattro donne diverse tra i 35 e i 45 anni. L’assessore alle politiche attive del lavoro, Paolo Gatti (Fi), ospita invece una sola donna – anche in questo caso non si tratta della moglie – ma per due notti consecutive: Albergo del Senato, costo 235 euro, pagati con carta di credito istituzionale e presunto rimborso indebito – per il soggiorno della signora 249 euro. Gli assessori della giunta Chiodi, comunque, trovano difficilmente disponibilità di soluzioni standard, per i loro soggiorni. Persino a Roma che, da capitale del turismo, pullula di alberghi d’ogni categoria. Il vice presidente della Giunta, per dirne una, il 25 agosto 2010, trova posto nel modesto – si fa per dire – hotel Piazza di Spagna. Costo: 411 euro. Non è solo. Non è neanche in coppia. Quella notte, nella stessa camera, dormono in tre: il vice presidente Alfredo Castiglione (Fi) ospita anche la compagna e un terzo uomo, di cittadinanza indiana, che potrebbe essere un parente della donna. È lo stesso Castiglione che, tra le missioni istituzionali, può vantare un “incontro preliminare per la costituzione di una macro area della regione adriatico jonica”. E Castiglione viaggia così tra le perle del Salento. C’è poi chi, come l’assessore al Turismo Mauro Di Dalmazio, annovera tra le spese istituzionali 4 Campari Orange e 2 bottiglie di vino bianco Rajamagre. E chi, invece, chiede i rimborsi ma dimentica per ben 4 volte di allegare la “motivazione” del viaggio: è il caso di Mauro Febbo (Pdl) che, preda di un’amnesia, omette di comunicare che, una notte in albergo, ha ospitato anch’egli una donna. Era sua moglie, sì, ma secondo l’accusa, comunque, l’albergo gliel’abbiamo pagato noi.

Gianni Chiodi e la ragazza portata in hotel con i tuoi soldi, scrive  Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Il presidente della Regione Abruzzo dovrà chiarire ai magistrati il soggiorno con una donna all'albergo del Sole a Roma, nel 2011. Per l'accusa, tutto a spese dei contribuenti. Ma non solo: dubbi anche sull'incarico ottenuto dalla stessa donna. Soltanto una «debolezza» personale, per la quale ha spiegato di aver chiesto il perdono a moglie e figlie. Ma «nessun favoritismo» nei confronti della ragazza che aveva soggiornato con lui nell’Albergo del Sole, nella notte del 15 marzo 2011. Così ha cercato di difendersi il presidente della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi (eletto con il Pdl), dopo che il Fatto Quotidiano aveva riportato come la giovane ospitata dal governatore – con i soldi dei contribuenti, secondo l’accusa della Procura – avrebbe poi ottenuto, attraverso la giunta regionale, un importante incarico pubblico, battendo la concorrenza di altre 22 candidate. Dovrà adesso fornire spiegazione anche di fronte ai pm Giuseppe Bellelli e Giampiero Di Florio, accusato, insieme ad altri 24 tra consiglieri ed assessori, di truffa, peculato e falso nell’ambito dell’indagine sui rimborsi spese della regione Abruzzo. «Dorme con Chiodi e ottiene l’incarico», aveva titolato ieri il Fatto, precisando come il caso fosse partito durante l’indagine sulle missioni istituzionali della giunta regionale. Attraverso l’analisi dei rimborsi e delle ricevute del governatore, gli inquirenti avevano scoperto come la notte del 15 marzo 2011 il governatore avesse soggiornato all’albergo Del Sole, a Roma. Chiodi pagò 340 euro in contanti, chiedendo poi un rimborso di 357 euro. Peccato che, quando gli investigatori hanno controllato il registro degli ospiti dell’albergo, hanno scoperto come, nella «camera 114» Chiodi non avesse dormito da solo. Con lui c’era una donna, ma il governatore ha omesso di dichiarare: un punto sul quale dovrà ora fare chiarezza ai pm. In pratica, per l’accusa il soggiorno della donna fu pagato con i soldi dei contribuenti. Ma non solo: perché, tre mesi dopo, dalla notte passata con il presidente, la donna otterrà anche un incarico pubblico con designazione del ministero. A ricostruire la storia era stato il quotidiano diretto da Antonio Padellaro: «La nomina avviene a luglio, su indicazione della giunta regionale guidata da Chiodi. Non si tratta di un incarico privato: è una selezione con bando pubblico. Il bando pubblico viene pubblicato sul bollettino ufficiale della Regione, che lo approva il 20 dicembre 2010, e la signora della stanza 114 presenta la propria candidatura. La macchina burocratica si mette in moto e il 9 marzo 2011 la Regione costituisce “il gruppo di lavoro per l’istruttoria delle istanze presentate”. Sei giorni dopo – stando agli atti d’indagine – la signora dorme con Chiodi nell’albergo Del Sole di Roma dove, come sappiamo, viene registrata. Ma il governatore, al momento del rimborso, omette di comunicare alla Regione di aver condiviso la camera con la signora in questione. Nel frattempo, per l’incarico pubblico previsto dal bando, sono giunte ben 22 candidature. E il “gruppo di lavoro” istituito dalla Regione provvede all’istruttoria: solo 12 candidati – si legge nei documenti regionali – sono in “possesso dei requisiti”. La signora della stanza 114 è tra loro. Ma è necessaria un’ulteriore “scrematura” poiché i posti a disposizione sono soltanto due. La commissione regionale, il 6 aprile, decide di “rimettere” alla giunta il compito di individuare i designati: tra loro c’è proprio la donna che, pochi giorni prima, ha dormito nella stessa stanza con il governatore». Chiodi non è stato l’unico eletto della regione Abruzzo accusato di aver pagato con soldi pubblici il pernottamento di una donna: sempre il Fatto, alcuni giorni prima, aveva svelato come anche l’assessore Nazario Pagano (Forza Italia), presidente del Consiglio regionale, avesse ospitato ben quattro donne, tra i 35 e 45 anni. Ma non solo: una di queste, svelò quotidiano, entrò anche in affari con la Regione, come dimostra una fattura analizzata dagli inquirenti, per un importo di 943 euro. E come dimenticare le accuse che pesano sull’assessore abruzzese Luigi De Fanis, ricorda il Corriere della Sera, «talmente obnubilato dal sesso che arrivò a contrattualizzare la sua segretaria, chiedendole per iscritto di onorare quattro volte al mese il patto del talamo dietro lauto compenso». Sul Corriere della Sera Gianni Chiodi ha ammesso di aver passato la notte con la giovane all’Albergo del Sole, definendola una «debolezza» e spiegando di ricevere il perdono dei familiari. Ha però allontanato le altre accuse, compresa quella di aver favorito la giovane che ha poi ottenuto l’incarico pubblico: «Ho fatto un errore, lo ripeto, una cosa che è finita lì, ma ora provo pure una grande amarezza — si sfoga finalmente Gianni Chiodi —. Perché qui mi si vuol far passare per uno che ha fatto la cresta alle spese, che ha chiesto rimborsi che non gli spettavano e che si è approfittato in tutti i modi del suo ruolo pubblico, del suo potere. Ebbene, io qui lo posso dire, senza tema di smentite, che quello di cui si parla non era un concorso pubblico e che quella persona, che oggi prende 200 euro al mese per il suo incarico, 200 euro ho detto, io non l’ho mai favorita. Il suo curriculum, piuttosto, fu valutato da una commissione regionale di cui facevano parte pure i sindacati, dico la Cgil, capito?, cioè voi immaginate che io possa andare dalla Cgil a chiedere di favorire una persona…». Ha cercato di difendere anche la giovane: «Nemmeno lei mi ha mai chiesto nulla», ha continuato Chiodi. Non senza azzardare complotti contro di lui:  «Io lo so, perché il 25 maggio in Abruzzo si vota ed è chiaro che qualcuno mi vuole far fuori», ha spiegato. E sull’accusa di aver omesso di dichiarare di aver dormito con una donna all’Albergo del Sole, in occasione della richiesta di rimborso, ha spiegato: di aver pagato lui stesso in contanti (340 euro) e di aver presentato al suo ufficio indicazioni chiare: «Nel foglietto si indicava che la camera era stata occupata da due persone, perciò non so se la cosa sia sfuggita all’ufficio regionale o alla Ragioneria, stiamo ricostruendo, toccava a loro decurtare dal rimborso la spesa sostenuta per l’ospite», ha concluso Chiodi, in attesa di essere sentito dai pm, il prossimo 4 febbraio.

«È stato un errore. Ho già parlato con mia moglie Daniela e con la più grande delle mie tre figlie, Eleonora, che ha 22 anni e studia a Roma. Ci ho già parlato e ci riparlerò, confido nella loro comprensione e alla fine, malgrado tutto, spero di tenere unita almeno la mia famiglia. Poi, dopo l’incontro che avrò coi magistrati, parlerò chiaro anche ai cittadini...». Scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. Mai visto Gianni Chiodi così. Il Governatore della Regione Abruzzo, 52 anni, sta soffrendo, la voce gli si incrina un paio di volte durante la nostra conversazione, citerà Terenzio («Homo sum, humani nihil a me alienum», nulla di ciò che è umano mi è estraneo) e poi anche Gandhi («Non bisogna aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia»), cercando conforto nella letteratura e così preparandosi all’interrogatorio del 4 febbraio prossimo davanti ai pm Giuseppe Bellelli e Giampiero Di Florio, a Pescara, dov’è accusato insieme con altri 24, tra consiglieri e assessori, di truffa, peculato e falso nell’ambito dell’indagine sui rimborsi spese della Regione Abruzzo. La «debolezza» del Governatore, spuntata dalle carte dell’inchiesta pescarese, risale alla notte del 15 marzo 2011, un soggiorno all’albergo Del Sole, a Roma, vicino al Pantheon, stanza 114, in compagnia di una donna che non era sua moglie e che due mesi dopo - attenzione - vedrà preferito il suo curriculum a quello di altre 22 concorrenti e otterrà così un incarico pubblico quadriennale alle Pari Opportunità regionali, con tanto di nomina del ministero del Lavoro. Insomma, è forte il sospetto che l’interesse privato, personale di Chiodi, abbia sconfinato in modo pesante nella sfera pubblica. E per questo motivo, siamo andati a chiedergliene conto direttamente a casa sua, a Teramo, dov’è stato sindaco dal 2003 al 2008 e dove vive, in un bel palazzotto, con le figlie e la moglie Daniela, che però sta di sopra e per tutto il colloquio non si vedrà mai comparire. «Ho fatto un errore, lo ripeto, una cosa che è finita lì, ma ora provo pure una grande amarezza - si sfoga finalmente Gianni Chiodi -. Perché qui mi si vuol far passare per uno che ha fatto la cresta alle spese, che ha chiesto rimborsi che non gli spettavano e che si è approfittato in tutti i modi del suo ruolo pubblico, del suo potere. Ebbene, io qui lo posso dire, senza tema di smentite, che quello di cui si parla non era un concorso pubblico e che quella persona, che oggi prende 200 euro al mese per il suo incarico, 200 euro ho detto, io non l’ho mai favorita. Il suo curriculum, piuttosto, fu valutato da una commissione regionale di cui facevano parte pure i sindacati, dico la Cgil, capito?, cioè voi immaginate che io possa andare dalla Cgil a chiedere di favorire una persona...». Chiodi è un fiume in piena, sembra vivere quest’intervista quasi come un lavacro, in vista delle prove dure che l’aspettano, specie in famiglia: «E nemmeno lei - continua il Governatore - la donna che ha dormito con me nella stanza 114 e che per rispetto adesso vorrei tenere fuori, mi ha mai chiesto niente, mai un aiuto, una protezione... Una relazione personale, di tre anni fa, sottolineo, che diventa pura macelleria, ecco quello che mi amareggia: famiglie massacrate, carriere esposte al pubblico ludibrio. E questo per un puro obiettivo politico, io lo so, perché il 25 maggio in Abruzzo si vota ed è chiaro che qualcuno mi vuole far fuori. Ma non s’illudano i miei nemici, saranno gli elettori a dirmi, quel giorno, se dovrò andar via...». Chiodi è anche pronto a documentare il suo racconto, dice che la stanza d’albergo la pagò lui stesso in contanti (340 euro) e che poi presentò - come sempre - al suo ufficio in Regione la fattura per il rimborso, «ma il foglietto era chiaro - puntualizza il Governatore - indicava che la camera era stata occupata da due persone, perciò non so se la cosa sia sfuggita all’ufficio regionale o alla Ragioneria, stiamo ricostruendo, toccava a loro decurtare dal rimborso la spesa sostenuta per l’ospite». Più in generale, però, fa davvero impressione questa brutta storia di assessori del centrodestra indagati, l’assessore al Turismo (Mauro Di Dalmazio), alla Salute (Nazario Pagano), all’Agricoltura (Mauro Febbo), il vicepresidente del Consiglio Alfredo Castiglione, quest’elenco di alberghi a cinque stelle, voli transoceanici, mogli, amanti e spese pazze sempre con la carta di credito regionale. Una storia dai tratti pure boccacceschi, se si pensa a quell’ex assessore talmente obnubilato dal sesso che arrivò a contrattualizzare la sua segretaria, chiedendole per iscritto di onorare quattro volte al mese il patto del talamo dietro lauto compenso (è l’accusa che pende su Luigi De Fanis). «No, vedrete, questa storia si sgonfierà come le altre - scommette però Mauro Febbo, assessore all’Agricoltura -. Non siamo mica una Giunta di mandrilli, anche se oggi, a Pescara, i colleghi mi prendevano in giro e mi dicevano: beato te che a casa non hai problemi, perché viaggiavi solo con tua moglie... Oh beninteso: le spese di mia moglie erano sempre a carico mio». Il presidente Chiodi, però, non ha proprio voglia di scherzare: «Ho costruito tutta la mia vita politica sulla base della correttezza, del rigore, dell’attenzione ai conti - conclude amaro -. Ho dovuto combattere con lobby potentissime e antichissime per risanare la Sanità, abbattere il deficit di un miliardo di euro, tagliare i costi, abbassare le tasse regionali, limitare il budget per la rappresentanza, liquidare carrozzoni inutili, chiudere le comunità montane al livello del mare, eliminare 250 nomine di Cda, dimezzare le auto blu. Da solo, come commissario della Sanità e commissario per la ricostruzione del terremoto, ho gestito in questi anni 15 miliardi di euro. Uno stress tremendo. Una responsabilità enorme e un’assoluta solitudine nelle scelte che sicuramente pesò in quei giorni. Ma non mi posso fermare, ho un ruolo da svolgere. E, come Gandhi, ora provo a ballare sotto la pioggia».

“Mi obbligava a fare sesso”. Ecco il contratto hard tra l'assessore e la segretaria. Spunta il foglio firmato dal politico abruzzese Luigi De Fanis in cui promette soldi alla sua collaboratrice in cambio di incontri erotici quattro volte al mese. Lui sigla il documento poi lo butta, ma la donna lo recupera dal cestino e lo consegna agli inquirenti assieme all’assegno, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Una storia incredibile, quasi impossibile. Invece eccolo il contratto sessuale stipulato dentro la sede della Regione Abruzzo tra l'assessore alla Cultura Luigi De Fanis e la sua segretaria: nove righe scritte a mano su un foglietto giallo di 13 centimetri. "Io sottoscritto Luigi De Fanis - si legge nel documento poi strappato dallo stesso politico e faticosamente ricostruito dagli agenti del Corpo Forestale dello Stato - nuovo accordo per novembre (...) do 3mila euro (...) per amore con regalo (...)". Questo è ciò che rimane di quel foglietto. Insieme al documento, la polizia giudiziaria - che da oltre un anno si occupa dello scandalo che sta facendo tremare i palazzi del potere regionale - ha rinvenuto anche un assegno di duemila euro che proprio De Fanis, esponente di spicco del Pdl (e ora in quota Forza Italia) aveva consegnato alla segretaria lo stesso giorno. Così, quando durante l'interrogatorio di due mesi fa il pm della Procura di Pescara, Giuseppe Bellelli, ha mostrato alla donna (indagata insieme all'assessore per una vicenda di tangenti nel settore delle manifestazioni culturali) quei due documenti, lei è crollata e ha raccontato tutto. "Lui era talmente tanto ossessionato dalla mia... da me. Un giorno ha anche buttato a terra i computer in ufficio, ha fatto un macello... Un macello!" mette a verbale la segretaria il 21 novembre scorso in una stanza del palazzo di Giustizia di Pescara. "Così lui mi fa un foglio, mi chiama e mi dice: senti, io mo ti faccio un contratto. Un contratto... se tu quattro volte al mese stai con me io ti do 3.000 euro al mese. Allora io sentendo questa cosa gli ho detto: scusa, me la scrivi, per favore? Voglio il contratto scritto. Hai detto questa cosa, adesso scrivimela. E lui me l'ha scritta. Me l'ha scritta e mi ha fatto l'assegno. Gli ho detto: adesso firmalo. È un contratto, me lo devi firmare. Dopo questo... lui si è reso conto, evidentemente, che io avrei fatto qualcosa e lo ha strappato. E l'ha buttato nell'immondizia. Io vado via e chiamo l'altra segretaria e dico: Concetta, per favore, mettimi da parte l'immondizia dell'assessore, perché ha strappato una cosa e gli serve domani. La devo riprendere perché gli serve, ha sbagliato a strapparla. Io il giorno dopo vado in ufficio e ricompongo questo foglio con il relativo assegno che mi aveva fatto. Era un foglio piccolo giallo e poi lo aveva fotocopiato e io ho cercato di ricomporre tutti e due. Con il relativo assegno che era... era datato 28 novembre... questo assegno. L'assegno è da 2.000 perché non ce li aveva... Mi ha detto: poi te lo faccio il mese prossimo. E così ho messo tutto da parte...". L'interrogatorio che Repubblica è in grado di pubblicare è lungo 90 pagine e svela anche che negli uffici della Regione Abruzzo l'assessore girava con una pistola. "Un giorno arriva con una busta in mano e inizia a tirare fuori alcune cose: una tazzina da caffè, un pentolino, cose che dice che aveva preso da casa. Ad un certo punto esce fuori questa pistola e mi minaccia, mi dice che se... insomma, se io non... non stavo con lui non dovevo stare con nessuno, e quindi lui mi avrebbe uccisa e si sarebbe ucciso pure lui. Questa era la sua fissazione. Io non potevo parlare con nessuno. Mi ha puntato la pistola al viso...". La segretaria racconta che De Fanis era tanto ossessionato da lei da arrivare al punto di tentare di uccidere la moglie (è indagato dalla Procura di Lanciano). "Nella sua mente malata decide che l'unico modo per potersi liberare della moglie era liberarsi proprio di lei... fisicamente. Una volta parla al telefono non so con chi, e così vengo a sapere il suo vero intento. Riscuotere l'assicurazione che poco prima aveva aumentato alla moglie, perché lui era senza soldi e aveva uno scoperto in banca di... non lo so se 70.000 euro...". E poi entra nei particolari: "ha tentato di avvelenarla con un farmaco che provoca l'infarto, ma non c'è riuscito. Lui è medico e la ricetta se l'è fatta da solo". La segretaria nel suo interrogatorio tira più volte in ballo il governatore della Regione Abruzzo, Gianni Chiodi. "Avevo questo foglio che lui mi aveva scritto (il contratto di De Fanis, ndr) e che poi aveva strappato. Io volevo mettere tutto insieme per poi, il 1° dicembre, consegnare tutto a Chiodi. Questo era il mio intento... Perché Chiodi era il suo responsabile. Gli volevo dare queste cose, questi assegni, e poi se la vedevano loro. Io non volevo avere più niente a che fare con queste persone. Sarebbe finalmente uscito tutto questo fuori". E la donna rivela che De Fanis era stato avvisato che c'erano indagini su di lui da parte della Procura di Pescara, direttamente dal presidente della Regione. "Sapeva che ad indagare era lei..." dice la donna rivolgendosi al magistrato Bellelli. "Glielo ha detto Chiodi, glielo ha detto Fabrizio Di Stefano (senatore di Forza Italia, ndr), glielo hanno detto loro... Lo sapeva anche l'assessore regionale ai trasporti (Giandomenico Morra, ndr)". E nelle 90 pagine di racconto c'è spazio anche per i viaggi con l'auto della Regione per motivi personali, per le assenze dal lavoro e le "finte" missioni all'estero. "Qualche tempo fa è partita per Londra una delegazione dell'ufficio cultura con in testa l'assessore. Ma non era un viaggio di lavoro. Se lo sono inventati il motivo istituzionale. De Fanis è stato anche fermato dalle forze dell'ordine londinesi. "Era ubriaco e molesto. Era fuori di testa".

"Sesso per contratto 4 volte al mese: ecco i dettagli e la mia verità..." Parla Lucia Zingariello, assistente dell'assessore abruzzese con cui avrebbe sottoscritto un accordo a luci rosse: "Non è vero, Repubblica ci ha marciato". Intervista di Marco Minnucci Su “Libero Quotidiano”. Lucia Zingariello, 35 anni, pugliese trapiantata in Abruzzo, è indagata per concussione, peculato e truffa nell’inchiesta «Il Vate», insieme all’assessore alla cultura della regione Abruzzo Luigi De Fanis; finisce agli arresti domiciliari il 12 novembre 2013 per poi tornare in libertà. «L’avvenente segretaria», come è stata chiamata sui giornali, è al centro dell’attenzione mediatica di questi mesi per un fantomatico «contratto sessuale» con l’assessore. La Zingarello si è sfogata con Libero, senza violare la decisione del pm che ha imposto l’impossibilità di parlare dei capi d’imputazione fino a oggi 20 febbraio.

Ci parli del famoso «contratto sessuale» con l’assessore De Fanis, «3000 euro al mese per 4 prestazioni».

«È falso che la forestale abbia trovato il contratto nella pattumiera di casa mia. Hanno eseguito la perquisizione dalle sei meno venti del mattino alle cinque del pomeriggio e quel foglio non è mai stato trovato, non è presente negli atti della magistratura. Una montatura».

E chi avrebbe operato tale montatura?

«Ho visto per la prima volta quel contratto su Repubblica, in un articolo firmato da Giuseppe Caporale. Hanno inserito delle parti chiaramente inverosimili. Ad esempio il mio nome, Lucia, si vede chiaramente che è stato inserito forzatamente in un dato passaggio. Hanno detto che il foglio è stato trovato in mille pezzi e che hanno impiegato un mese e mezzo per ricomporlo ma, per magia, viene pubblicato con un solo taglio visibile. Per fortuna alla perquisizione erano presenti mio marito e mia figlia, altrimenti non so come avrei fatto a spiegare a mio marito che non avevano trovato nulla».

Comunque lei non ha negato una qualche forma di contratto.

«Ho negato il contratto per come è stato presentato e per quello che implicava. Mi sento di dire solo due cose. La prima è che c’è stata una riunione di maggioranza a giugno 2013 ad Atri, dove De Fanis mi ha informata di un procedimento nei suoi confronti; da quel momento i suoi comportamenti hanno sicuramente risentito di quella notizia. La seconda è che l’assessore ha una personalità “esuberante”, e solo chi lo conosceva bene non rimaneva offeso dai suoi scherzi».

Era uno scherzo anche quando l’assessore le fece ascoltare la registrazione della moglie che vomitava, dicendole che le aveva somministrato un farmaco che può portare all’arresto cardiaco?

«Mi creda… lasciano il tempo che trovano, vista la sua personalità. Stessa cosa a Torino…».

Si riferisce alla telefonata intercettata durante il Salone del Libro di Torino di maggio 2013, in cui De Fanis le parla della bottiglia di champagne pagata con la carta della Regione?

«Si, ma anche lì la storia è stata completamente travisata. C’era anche mio marito a Torino, come c’era mia figlia. Quella sera i nostri impegni agli stand finivano alle 20, ero stremata, poiché ho dato tutta me stessa per l’organizzazione dell’evento, così ho deciso di tornare in albergo con mia figlia. Mio marito invece è andato insieme a De Fanis e a altri al Caffè Torino. Stavo dormendo quando mi arriva quella telefonata, fatta in presenza di mio marito, in cui De Fanis parla della bottiglia. A parte il fatto che l’assessore ha pagato la bottiglia con i suoi soldi, ma la verità è che mi ha telefonato come per vendicarsi che non li avevo accompagnati. Peccato che le intercettazioni si fermino alle parole ma dietro alle parole c’è il temperamento delle persone».

E il suo precario stato di salute?

«La forestale mi ha sequestrato i documenti che attestano un  mio iter sanitario lunghissimo, pieno di errori medici, che si è concluso nel luglio 2013 con la diagnosi di una patologia molto grave. Come si può pensare che una persona che vive questo tipo di problematiche si riduca a inventarsi nomi in codice e ad essere la complice di una frode com’è stata descritta?».

Cosa ne pensa dell’informazione di cui è stata oggetto in questi mesi?

«L’informazione non distingue chi è debole e chi è forte. La gente è stanca, scontenta di tutto e di tutti, per questo quando viene messa alla berlina una persona un po’ importante, diventa subito il capro espiatorio dei problemi di tutti. Credo che la verità, come la mia, a volte sia banale, ma questa banalità non fa più presa sulla gente; per questo alcuni responsabili dell’informazione, appena annusano una situazione ambigua, ci si tuffano per montarla ad arte».

L'AQUILA ED IL SOLITO VIZIO: LA RUBERIA.

In regione come al comune: stessa solfa. Di seguito i vari reportage di distinte colorazioni politiche. Ma con un unico filo conduttore: l'indignazione. L'esito, come tutte le cose della giustizia italiana, è incerto ed indefinibile. Un dato rimane perenne: la cattiva luce che si dà ad un territorio già abbastanza martoriato e l'impronta dell'immagine di gente abruzzese dedita solo alla ruberia.

L’AQUILA: MEZZO PD IN GALERA! TANGENTI SULLA RICOSTRUZIONE POST-TERREMOTO. Indagato anche il vice sindaco Roberto Riga, scrive Basta Casta. Tangenti sull’Aquila terremotata, bufera sulla Giunta del Pd Cialente. Traballa la Giunta di Cialente. Scoperto il sistema corruttivo che, attraverso un rodato giro di tangenti, garantiva onerosi appalti legati alla ricostruzione del dopo sisma. Una nuova bufera si abbatte sull’Aquila del dopo terremoto. A finire invischiati nell’inchiesta sono assessori e funzionari pubblici del Comune, ma anche imprenditori, tecnici e faccendieri. Un sistema corruttivo che, attraverso un rodato giro di tangenti, garantiva onerosi appalti legati alla ricostruzione dopo il sisma del 6 aprile 2009 che provocò 309 morti, 1.600 feriti e oltre 65mila sfollati. Tra le otto persone coinvolte spicca il nome dell’attuale vicesindaco dell’Aquila, Roberto Riga, ora indagato, che all’epoca dei fatti era proprio assessore all’Urbanistica. L’operazione è stata denominata “Do ut Des” proprio per sottolineare come gli indagati avessero creato un sistema di tangenti ben radicato nel tempo e sul territorio aquilano, al fine di ottenere delle dazioni di denaro per l’aggiudicazione di alcuni appalti relativi a lavori di messa in sicurezza di edifici danneggiati dal sisma del 2009. Le accuse vanno dal millantato credito alla corruzione, dalla falsità materiale e ideologica all’appropriazione indebita. Reati, secondo l’accusa, che sarebbero stati commessi dal settembre 2009, quindi pochi mesi dal devastante sisma che ha causato 309 vittime, al luglio 2011. L’entità delle presunte tangenti contestate è di 500mila euro, mentre è stata accertata l’appropriazione indebita, attraverso la contraffazione della documentazione contabile per 1,2 milioni di euro. Condotte attraverso presìdi tecnici, in particolare intercettazioni ambientali e telefoniche, le indagini per gli inquirenti hanno mostrato che le tangenti venivano pagate sia in denaro sia attraverso veri e propri moduli abitativi provvisori (map) che sarebbero stati poi rivenduti. “Sto malissimo, mi sento tradito, perché ho sempre raccomandato a tutti la massima trasparenza e il rispetto della legge”, ha commentato il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente, in carica anche ai tempi dei fatti. Tra le quattro misure cautelari agli arresti domiciliari, disposte dal gip Giuseppe Romano Gargarella su richiesta dei sostituti procuratori Antonietta Picardi e David Mancini coordinati dal procuratore Fausto Cardella, ci sono anche due personaggi di spicco del panorama aquilano. Il primo è sicuramente Pierluigi Tancredi, attuale dirigente dell’Asl numero 1, più volte assessore negli anni Duemila: all’epoca dei fatti era consigliere comunale delegato per il recupero e la salvaguardia dei beni costituenti il patrimonio artistico della città. L’altro è Vladimiro Placidi, 57enne assessore comunale alla Ricostruzione dei beni culturali dopo il terremoto nel primo mandato del sindaco Cialente, nonché direttore del Consorzio dei beni culturali della Provincia dell’Aquila. Ai domiciliari anche Daniela Sibilla, 38enne dipendente del Consorzio beni culturali e già collaboratrice di Tancredi durante i mandati da assessore, e Pasqualino Macera, all’epoca funzionario responsabile Centro-Italia della Mercatone Uno. Oltre a Riga, gli altri denunciati c’è Mario Di Gregorio, 45enne direttore del settore Ricostruzione pubblica e patrimonio del Comune dell’Aquila, all’epoca dei fatti funzionario responsabile dell’ufficio Ricostruzione. Nei guai anche Fabrizio Menestò, 65enne ingegnere di Perugia che all’epoca era direttore e progettista dei lavori per le opere provvisionali di messa in sicurezza di Palazzo Carli, sede del rettorato dell’Università dell’Aquila. E ancora: Daniele Lago, 40enne imprenditore di Bassano del Grappa, ad della Steda, aggiudicataria di alcuni appalti.

Un terremoto di tangenti scuote il Pd dell’Aquila. Soldi e abitazioni provvisorie in cambio degli appalti per i lavori di ricostruzione, scrive Fabio Capolla su “Il Tempo”. Un terremoto politico. Un terremoto che ferisce la città dell’Aquila e non rende onore alle tante persone morte sotto le macerie. Nell’occhio del ciclone i lavori della ricostruzione. Un’indagine che ha portato all’arresto di quattro persone finite ai domiciliari mentre altre quattro sono indagate. Gli arrestati sono: Pierluigi Tancredi, aquilano, all'epoca dei fatti consigliere comunale e delegato per il recupero e la salvaguardia dei beni costituenti il patrimonio artistico della città, attuale direttore del Settore Ricostruzione pubblica e patrimonio del Comune; Daniela Sibilla, all'epoca dipendente e collaboratrice del consorzio dei beni culturali della Provincia; Vladimiro Placidi, aquilano, all'epoca direttore del Consorzio dei beni culturali della Provincia dell' Aquila e assessore alla Ricostruzione; Pasqualino Macera, all'epoca funzionario responsabile Centro-Italia della Mercatone Uno spa. Gli indagati sono il vicesindaco Roberto a Riga che ha rassegnato le dimissioni; Mario Di Gregorio, 45, direttore del settore Ricostruzione pubblica e patrimonio del Comune dell’Aquila che è stato sospeso dal servizio e che all’epoca dei fatti era funzionario responsabile dell’ufficio Ricostruzione; Fabrizio Menestò, 65, ingegnere di Perugia, direttore e progettista dei lavori per le opere provvisionali di messa in sicurezza di palazzo Carli, sede del rettorato dell’Università dell’Aquila; Daniele Lago, 40, imprenditore di Bassano del Grappa presidente della Steda Spa. Le indagini si sono concentrate sulla Steda srl che avrebbe pagato tangenti ad amministratori e faccendieri. Tangenti pagate in contanti, con consulenze fittizie ma anche con i Map, i moduli abitativi provvisori come nel caso di Pierluigi Tancredi, al quale la Steda ne ha dati cinque ancora da montare che secondo l'accusa Tancredi avrebbe rivenduto ricavandone 200 mila euro. La tangente per il vicesindaco sarebbe invece arrivata all’interno di una bottiglia di grappa. Per il sindaco Massimo Cialente « un fulmine a ciel sereno, mi sento fortemente tradito». Tutti i suoi proclami sulla legalità nella ricostruzione smontati da chi gli sedeva accanto. «Chiedo veramente, disperatamente, alla magistratura piena luce, comunque e dovunque illuminando qualsiasi angolo, qualsiasi luogo di questa amministrazione comunale. Ciò perché la cosa drammatica è che qualsiasi ombra sul processo che va dalla prima emergenza fino ad oggi per quanto riguarda il processo della ricostruzione getta un discredito terribile, danneggia l'immagine di una città che deve convincere non solo l'Italia ma il mondo che deve essere ricostruita».

Dalle prime ore della mattina dell’8 gennaio 2013 oltre 40 agenti della Polizia di Stato stanno eseguendo arresti e numerose perquisizioni nella provincia aquilana, scrive “Il Corriere della Sera”. La nuova inchiesta sul post terremoto, denominata «Do ut Des» o «Eagle Affair», fa riferimento a tangenti che coinvolgono il Comune dell’Aquila su appalti legati alla ricostruzione post-terremoto del 6 aprile 2009. Tra i coinvolti l’attuale vice sindaco Roberto Riga (di Alleanza per l’Italia, indagato), che in mattinata ha annunciato le proprie dimissioni: «In questo momento mi tiro da parte da ruolo vicesindaco e di assessore per dimostrare che il bene generale della città conta molto» ha detto Riga in una conferenza stampa. «La città dell’Aquila non si può permettere di avere freni - ha sottolineato -. Altri magari non l’hanno fatto ma io lo faccio». Le perquisizioni riguardano ditte, abitazioni e lo stesso Comune di L’Aquila nei confronti di attuali ed ex assessori e funzionari pubblici aquilani ritenuti responsabili, a diverso titolo insieme a imprenditori, tecnici e faccendieri, di millantato credito, corruzione, falsità materiale e ideologica, appropriazione indebita su appalti legati alla ricostruzione post-terremoto del 6 aprile 2009. Tangenti per 500.000 euro, elargite a funzionari pubblici, sarebbero state la contropartita per l’aggiudicazione di alcuni appalti relativi a lavori di messa in sicurezza di edifici danneggiati dal sisma del 2009, tra cui Palazzo Carli, sede dell’Università di L’Aquila. Dalle indagini è emersa anche l’appropriazione indebita della somma di 1.268.714 euro, da parte di alcuni indagati, relativa al pagamento di taluni lavori. I fatti di reato commessi a L’Aquila, si riferiscono al periodo che va da settembre 2009 a luglio 2011. Secondo fondi investigative, uno dei funzionari coinvolti si sarebbe fatto regalare da alcune ditte impegnate nei lavori edili di ricostruzione, moduli abitativi provvisori (Map) che sarebbero poi stati rivenduti. Le perquisizioni si sono concentrate in studi professionali ma soprattutto al Comune dell’Aquila in cui sono custoditi i progetti e i finanziamenti del post-terremoto. Tra le otto persone coinvolte, spicca dunque il nome di Roberto Riga, all’epoca dei fatti assessore all’Urbanistica. Personaggi di spicco anche due dei quattro arrestati ai domiciliari. Si tratta di Pierluigi Tancredi, 60 anni, attuale dirigente dell’Asl numero 1, più volte assessore della giunta di centrodestra negli anni Duemila, all’epoca dei fatti consigliere comunale delegato per il recupero e la salvaguardia dei beni costituenti il patrimonio artistico della città; e Vladimiro Placidi, 57, assessore comunale alla Ricostruzione dei beni culturali dopo il terremoto nel primo mandato del sindaco, Massimo Cialente, nonché direttore del Consorzio dei beni culturali della Provincia dell’Aquila. Ai domiciliari anche Daniela Sibilla, 38, dipendente collaboratrice del Consorzio beni culturali e già collaboratrice di Tancredi durante i suoi mandati di assessore, e Pasqualino Macera, 56, all’epoca funzionario responsabile Centro-Italia della Mercatone Uno Spa. Oltre a Riga, gli altri denunciati sono Mario Di Gregorio, 45, direttore del settore Ricostruzione pubblica e patrimonio del Comune dell’Aquila, all’epoca dei fatti funzionario responsabile dell’ufficio Ricostruzione; Fabrizio Menestò, 65, ingegnere di Perugia, all’epoca direttore e progettista dei lavori per le opere provvisionali di messa in sicurezza di palazzo Carli, sede del rettorato dell’Università dell’Aquila; Daniele Lago, 40, imprenditore di Bassano del Grappa, Ad della Steda Spa, aggiudicataria di alcuni appalti. Sono 13 le perquisizioni, svolte presso alcune ditte, abitazioni private e dentro gli uffici del Comune dell’Aquila. Le indagini, fa sapere la polizia, sono partite dalle indebite condotte di un imprenditore veneto (amministratore di una società per azioni) che, comunque, intendeva procacciare lavori sulla ricostruzione per l’azienda, e che ha trovato la disponibilità  corruttiva in alcuni amministratori pubblici aquilani e nei loro sodali, pronti a ricevere tangenti, approfittando della situazione emergenziale. «Mi sento profondamente tradito». Così il sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, ha commentato ai microfoni di Rai News 24 l’inchiesta sulle tangenti sulla ricostruzione. «Chiedo alla magistratura - ha aggiunto - di andare fino in fondo. Qualsiasi ombra non solo sulla ricostruzione ma anche sulle prime messe in sicurezza getta un’ombra enorme su una città già martoriata».

L'Aquila, casette del terremoto usate come tangenti. Vicesindaco indagato si dimette. Tra i quattro arrestati ci sono due ex assessori. Riga (Centrosinistra): "Sono sereno". Un sistema di mazzette descritto da un imprenditore veneto messo alle strette. Nell'inchiesta anche appalti per la ricostruzione promessi in cambio di finanziamenti elettorali al partito “La Destra”. Il sindaco Cialente: "Sorpreso e tradito", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Militari al lavoro per allestire una tendopoli nei primi giorni del post terremoto. All’Aquila le tangenti non si pagano più solo in contanti, ma anche con le casette del terremoto. Con i moduli abitativi provvisori. E così quei fabbricati di legno che per migliaia di aquilani, a quasi cinque anni di distanza dal sisma, ancora oggi sono luoghi del dolore, del rifugio dalla disperazione per aver perso la propria casa, invece per alcuni politici locali sono diventati tangenti, soldi sporchi. C’è anche questo nelle carte dell’ultimo scandalo della ricostruzione post-terremoto che questa mattina ha portato all’arresto di quattro persone, tra cui due politici: Pierluigi Tancredi, ex assessore di Forza Italia ed ex consigliere comunale Pdl alla 'salvaguardia dei beni artistici dell’Aquila' e Vladimiro Placidi, ex assessore comunale nominato come tecnico nella giunta di centrosinistra, delegato alla ricostruzione dei beni culturali. Gli altri due arrestati sono Daniela Sibilla, collaboratrice di Tancredi e l'imprenditore abruzzese Pasqualino Macera. Tra gli altri quattro indagati, invece, c’è anche il vicesindaco dell’Aquila, Roberto Riga (Centrosinistra), sospettato di aver ricevuto una tangente di 10 mila euro, nascosta dentro un pacco dono con una confezione di grappa, per la promessa di un appalto. "Lascio l'amministrazione dell'Aquila proseguire il suo lavoro con tranquillità. In questo momento mi tiro da parte da ruolo vicesindaco e di assessore per dimostrare che il bene generale della città conta molto. Sono sereno e non voglio che ci siano ombre sul lavoro dell'amministrazione comunale - ha detto poi Riga, annunciando in conferenza stampa le sue dimissioni-. La città dell'Aquila non può avere freni". Il vicesindaco dimissionari aveva detto di aver accolto la notizia delle indagine come "un fulmine a ciel sereno su una vicenda che non conosco. Confido nella magistratura che faccia il suo corso, fornirò elementi per mettere in evidenza la mia piena estraneità. Per le mie azioni c'è la piena tracciabilità - aggiunge - comunque ho un'informazione di garanzia, non un rinvio a giudizio". Le indagini dell'operazione 'Do ut des', effettuate dalla Squadra mobile dell'Aquila in collaborazione con quelle delle questure di Perugia e Teramo, sono partite dai lavori di puntellamento di Palazzo Carli, sede del Rettorato dell'Università dell'Aquila, nel centro storico della città. Oltre a Riga, sono indagati un dirigenti del Comune, un tecnico e un imprenditore, tutti sottoposti a perquisizione domiciliare e presso gli uffici di appartenenza, per gli stessi reati contestati agli arrestati: millantato credito, corruzione, falsità materiale ed ideologica, appropriazione indebita. Si tratta di Mario Di Gregorio, direttore del settore Ricostruzione Pubblica e Patrimonio del Comune dell'Aquila (ora sospeso dall'incarico), all'epoca dei fatti responsabile dell'Ufficio Ricostruzione; Fabrizio Menestò, ingegnere, all'epoca dei fatti direttore e progettista dei lavori per le opere provvisionali di messa in sicurezza di Palazzo Carli e di Daniele Lago, imprenditore. Alcuni indagati si sarebbero indebitamente appropriati, previa contraffazione della documentazione contabile, di circa 1.250.000 euro, relativa al pagamento di parte dei lavori. A mettere tutti nei guai è stato un imprenditore veneto, Daniele Lago, amministratore delegato della Steda spa. Messo alle strette dagli agenti della squadra mobile rispetto a un presunto illecito per un valore superiore a un milione di euro (legato a un appalto), Lago ha deciso di confessare e raccontare al procuratore Fausto Cardella e ai pm David Mancini e Antonietta Picardi il sistema delle tangenti nella città del post sisma. "Gli indagati hanno rivelato una dedizione costante ad attività predatorie in danno della collettività, arrivando a suggerire i metodi corruttivi, a costituire società ad hoc, a rappresentare realtà fittizie, anche in momenti (il post sisma) in cui il dramma sociale e umano avrebbe suggerito onestà e trasparenza. Da ciò si ricava la certezza della reiterazione di reati della stessa specie”, scrive il gip Romano Gargarella nell’ordinanza d’arresto motivando le esigenze cautelari. "Tancredi anche in virtù del suo ruolo politico pubblico si è posto nel dopo-sisma, caratterizzato dalla fase dell’emergenza, come collettore di compensi di imprese in cambio di agevolazioni per il conferimento di lavori", è scritto ancora nell’ordinanza. E sarebbe proprio Tancredi, oltre a farsi consegnare dalla Steda del denaro per il suo aiuto, a chiedere e ottenere, secondo la Procura - attraverso una società creata ad hoc per incamerare i proventi illeciti - anche cinque Map, cinque Moduli abitativi provvisori, del valore di 40 mila euro l’uno. Moduli che poi, secondo l'accusa, provvederà in parte a rivendere. Ma le tangenti - secondo quanto raccontato dall’imprenditore - hanno riguardato anche il vertice dell’amministrazione comunale dell’Aquila nella persona della il vicesindaco Riga. Scrive il gip Gargarella: “L’amministratore della Steda spa ha riferito che uno degli appalti che gli vennero 'offerti' riguardava quello relativo all’esecuzione delle opere provvisionali di messa in sicurezza di un immobile della dottoressa Sabrina Cicogna, medico presso l’ospedale dell’Aquila. Dalle dichiarazioni del Lago emerge che l’assegnazione di quell’intervento gli venne garantita oltre che da Tancredi, anche da Riga, vicesindaco de L’Aquila”. E per ottenere quell’appalto a Lago fu chiesto di finanziare con un contributo elettorale di 5mila euro il partito politico 'La Destra', di cui "la Cicogna era esponente locale". Massimo Cialente, sindaco della città da due legislature, ha convocato a stretto giro una riunione della giunta comunale "per cercare di capire, analizzare fatti ed assumere le decisioni conseguenti". "Sto malissimo - ha detto - , mi sento tradito, perché ho sempre raccomandato a tutti la massima trasparenza e il rispetto della legge. Avevo nominato Placidi per le sue capacità tecniche perché in quei drammatici momenti mi serviva un tecnico ed ho scelto lui in quanto direttore generale del Consorzio beni culturali, istituzione della quale il Comune é il maggiore azionista, ed ho pensato che fosse il tecnico più bravo. Quanto a Tancredi - ha aggiunto Cialente - avevo pensato a lui come consigliere comunale di opposizione, ma mantenne la sua delega per soli due giorni in seguito alla levata di scudi in seno alla maggioranza. Poi Tancredi si dimise perché mi disse che voleva lavorare nella ricostruzione come agente per la ricerca di appalti. Sibilla è una sua collaboratrice, gli altri non li conosco". Per quanto riguarda Riga, il primo cittadino dell'Aquila ha detto che è ancora prematuro, dato il rapido susseguirsi dei fatti, pensare a chi lo sostituirà: ''In questo momento non ci possiamo permettere di avere nemmeno un'ombra, perciò è giusto che si faccia da parte per avere la possibilità di difendersi. La cosa drammatica è che qualsiasi ombra getta discredito sull'immagine di una città che deve essere ricostruita - ha aggiunto Cialente -. Anche se per quanto si è potuto capire finora, pare che il tutto sia circoscritto ad un appalto per la messa in sicurezza di un palazzo. Ma qualsiasi pelo rovina l'immagine dell'Aquila". È preoccupata per gli effetti negativi che potrebbe avere la vicenda sul processo di ricostruzione la senatrice Pd Stefania Pezzopane: "È un brutto colpo, provo amarezza e delusione. Magistratura e forze di polizia stanno facendo il loro dovere e mi auguro si faccia piena luce sull'intera vicenda e che si individuino tutti i responsabili. Oltre allo scandalo per il fatto in sé, avverto purtroppo la spiacevole impressione che tutto questo avrà ulteriori conseguenze negative sul processo di ricostruzione.  Temo che sarà sempre più difficile ottenere consenso alle nostre richieste di risorse e di attenzione nazionale, se si dà spazio  a vicende e comportamenti illegali". Il deputato abruzzese Sel, Gianni Melilla, invoca una Commissione parlamentare: ''Ferme restando le garanzie costituzionali degli indagati'', esprime ''il più convinto sostegno all'azione degli organi preposti al controllo, alla vigilanza e alla repressione di ogni fenomeno criminale collegato alla ricostruzione''. Melilla ricorda che 3 mesi fa ha presentato in Parlamento una richiesta di Commissione di inchiesta parlamentare sui sui fenomeni di corruzione legati alla ricostruzione dell'Aquila. "Quella proposta è stata lungimirante - evidenzia - e tornerò a chiedere oggi la messa in discussione della mia proposta nell'interesse dell'Aquila e dei suoi cittadini onesti''.

La sinistra rubava sul terremoto. Lascia il vicesindaco dell'Aquila. Subito dopo il sisma contestarono Berlusconi e Bertolaso, accusati di speculare sul dramma. Ora la cerchia del sindaco Pd Cialente è sotto inchiesta per mazzette, commenta Gabriele Villa su “Il Giornale”. Prendiamone atto: nel panorama della distillazione spunta una novità. Oltre alla grappa giovane, alla grappa affinata, alla grappa aromatica è entrata ufficialmente in commercio (un commercio sottobanco, intendiamoci) la grappa «mazzettata». Una bottiglia di grappa, cioè, impreziosita da una tangente di diecimila euro. Esattamente quanto sarebbe arrivato a casa del vicesindaco dell'Aquila, Roberto Riga, a leggere quanto scrive il gip Romano Gargarella, nella sua ordinanza. Un Riga che, nella «gran confusione», legata alla ricostruzione post terremoto, avvenuto nel 2009, nel capoluogo abruzzese, avrebbe ricevuto una tangente di 10mila euro, nascosta dentro un pacco dono con una confezione di grappa, in cambio del suo interessamento per far vincere un appalto. Guardate che cosa va a capitare proprio nei salotti e nelle stanze dalla specchiata e sbandierata onestà. Proprio in casa Pd. Nelle stesse stanze da dove, fin da subito, fin dai primi mesi della ricostruzione e poi ancora, prima, durante e dopo i «giorni delle carriole e degli scarriolanti» (ricordate le proteste per entrare nella zona rossa e caricare simbolicamente le macerie?) si lanciavano accuse, insulti e sputi contro Silvio Berlusconi, Gianni Letta, Guido Bertolaso. E persino contro l'avvocato Ghedini, accolto così, durante una sua semplice e innocua comparsata. «È stato un fulmine a ciel sereno, mi sento fortemente tradito» si è affrettato a dichiarare, ieri, con aria contrita, il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, commentando quella che è stata soprannominata l'inchiesta «Do ut Des» sulle presunte tangenti negli appalti per la ricostruzione avviata il 6 aprile 2009. E ha ragione a sentirsi tradito quel Cialente che, con il Cavaliere non è mai stato tenero fin dai loro primi incontri, perché fra gli altri accusati c'è anche Vladimiro Placidi, 57 anni, assessore comunale alla Ricostruzione dei beni culturali dopo il terremoto nel primo mandato del sindaco, nonché direttore del consorzio dei Beni culturali della Provincia dell'Aquila. «Mi tiro da parte come vice sindaco e assessore perché vorrei lasciare tranquilla l'amministrazione comunale, il sindaco e la giunta senza avere dubbi sulla propria attività», ha invece dichiarato Roberto Riga, (ex Api poi confluito in area Pd) che fino a poche settimane fa aveva anche la delega alla Protezione civile e che, all'epoca dei fatti, era assessore all'Urbanistica. Le accuse, mosse contro otto persone, tra indagati e arrestati (le indagini sono state portate avanti dalla Squadra mobile guidata da Maurilio Grasso, figlio di Pietro) sono eloquenti: millantato credito, corruzione, falsità materiale ed ideologica, appropriazione indebita. Mentre 13 sono le perquisizioni, in alcune ditte, abitazioni private e dentro gli uffici del Comune dell'Aquila, scattate ieri nelle prime ore della mattina. Eppure dalle oneste sponde del Pd c'era chi, come la presidente della Provincia Stefania Pezzopane, che ora siede in Parlamento, tuonava che: «Per rispetto della nostra gente, il problema va affrontato in fretta, consapevoli che le macerie possono costituire fonte di reddito per la nostra terra, non per gli speculatori». Pensate un po'. Una presidente tutto d'un pezzo, appunto, che anche recentemente, dopo aver preconizzato la decadenza di Berlusconi, ha brillato per la sua ironia invitandolo a scontare l'eventuale anno di pena nel cratere sismico «per svolgere attività di utilità sociale a favore della ricostruzione post-sisma in particolare nella gestione e manutenzione dei progetti case così constaterebbe in prima persona il miracolo aquilano». Ma gli insulti, macerie o no, non sono mai mancati contro Berlusconi e i suoi uomini. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta venne accolto da un simpatico coro: «Letta vedi de jittene», persino durante la cerimonia religiosa in onore di San Pietro Celestino, in Piazza Duomo. E il popolo delle carriole, con un gruppo di rappresentanti dei comitati cittadini srotolò gli striscioni con parole grevi, al passaggio di Berlusconi anche quando giunse all'Aquila per consegnare le onorificenze di protezione civile. Mentre Bertolaso, insultato a intermittenza, fu accolto davanti alla basilica di Collemaggio da un drappello di contestatori armati di striscioni e pistole ad acqua. «Per rinfrescargli le idee», dissero. Ma, intanto qualcuno all'Aquila le idee le aveva già chiarissime.

IL VALORE DEI SOLDI.

Abruzzo 2013: anno di scandali e delle prese per il culo. La condanna di Del Turco, l'inchiesta sui rifiuti, lo champagne di De Fanis, il crac Tercas, la parodia Razzi-Crozza... etc etc.

ABRUZZO 2013: IL FAR WEST DEI POLITICI AVVENTURIERI. Secondo noi di Abruzzo Independent (e non solo), scrive  il (sub)direttore Marco Manzo, la Regione Abruzzo si è distinta quest'anno in Italia per un singolare, tristerrimo (concedetecelo), primato: quello degli scandali giudiziari e delle prese per il culo. Certo, l'annus horribilis per la "Valle Verde d'Europa" non si è ancora chiuso questo 2013 ma ormai ci siamo vicini. Per noi comuni cittadini assistere allo scempio della nostra terra, che è stata considerata una specie di Vandea o, se volete, un Far West, dove politici di ogni colore, avventurieri e faccendieri, hanno imperversato convinti di farla franca, non è per nulla divertente. Ma per fortuna non sempre le ciambelle riescono col buco e la magistratura, quando ha potuto, è riuscita a drenare il fango. Se si pensa alle cronache giudiziarie di questo anno c'è da mettersi le mani nei capelli. Nel 2013 Ottaviano Del Turco, ex governatore della Regione Abruzzo, è stato condannato a 9 anni e 6 mesi in primo grado, per aver ricevuto mazzette dal re della sanità privata Vincenzo Maria Angelini. La prova regina della corruzione fu documentata da immagini scattate col cellulare e riscontri di telepass oltre alle dichiarazioni dello stesso Angelini. Secondo la testimonianza avrebbe consegnato in contanti 200.000 € all'ex presidente dell'antimafia, ricevendo in cambio un misero sacchetto di mele che, per quanto buone, valevano certamente meno. Sempre nel 2013 in provincia dell'Aquila è scoppiato il bubbone su uno dei tanti filoni dell'inchiesta sull'uso dei fondi europei per la ricostruzione dei comuni del cratere. Un dirigente della Provincia è finito agli arresti domiciliari per presunte tangenti su appalti nei lavori di consolidamento delle scuole del territorio, danneggiate dal sisma del 9 aprile 2013. Naturalmente, anche in questa storia di presunta corruzione, non sono mancate le "sveltine", cioè sesso con le escort dentro l'auto blu dell'Ente. A questo grottesco episodio se ne aggiunge fresco fresco dai risvolti anche boccacceschi. L'assessore regionale alla cultura Luigi De Fanis, è finito agli arresti domiciliari per una storia di mazzette che l'amministratore avrebbe preteso da coloro a cui affidava l'organizzazione di eventi culturali. De Fanis aveva una vita dispendiosa, offriva champagne a 130 € a bottiglia pagando, però, con i soldi della regione. A finire nell'inchiesta denominata "Vate", anche l'avvenente segretaria 32enne, amante di lui. Alla mercè della cronaca Nazionale anche il presunto contratto sessuale (ancora non si sa) firmato da lei, col quale si impegnava a garantire prestazioni extra almeno 4 volte al mese. Finita qui. No, perchè noi abruzzesi non ci facciamo mancare mai niente. E, non siamo da meno dei toscani e marchigiani, perchè anche qui un banchiere che conta è finito in carcere: si tratta dell'ex direttore generale della Tercas, accusato di reati gravi come la bancarotta fraudolenta, ostacolo all'attività di vigilanza e associazione per delinquere. La Guardia di Finanza di Roma ha sequestrato bene per 199 milioni di euro, tra questi auto di lusso, appartamenti, ville con piscina e barche. Non è una bella immagine quella della nostra regione che ospita a Bussi la più grande discarica abusiva d'Europa. A ridicolizzarci del tutto, qualora ce ne fosse bisogno, ci ha poi pensato Maurizio Crozza con la riuscitissima imitazione dell'onorevole Antonio Rozzi detto mister "Fatti li cazzi tua". Cari abruzzesi, quelle appena enunciate sono solo alcune delle malefatte qui commesse. Altre ben nascoste sono là che attendono di svelare quanto è profondo il fondo del barile. Ma adesso è giunto il momento di dire basta. Basta! Prima che sia troppo tardi. Siamo abruzzesi, mannaggia! Siamo quelli che hanno liberato l'Italia dalla dittatura nazi-fascista. Non facciamoci più rappresentare da gente indegna. Riprendiamoci il nostro meraviglioso Abruzzo. Adesso.

Tangenti Abruzzo, ecco l'audio che incastra l'assessore De Fanis. La registrazione effettuata dall'imprenditore Mascitti durante il colloquio con l'esponente del Pdl è la carta principale in mano ai pm che accusano l'amministratore di corruzione, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. "Queste sono le spese vere? 2300 euro? Allora chiedi quattro... Questo è quello che deve venire a me...". Così parlava dentro gli uffici della Regione Abruzzo l'assessore alla Cultura, Luigi De Fanis, mentre chiedeva tangenti a un giovane imprenditore dello spettacolo, Andrea Mascitti. L'assessore non poteva immaginare che Mascitti in quel momento stesse registrando la conversazione con il suo I-Phone, e che stesse già collaborando con la Procura di Pescara dopo aver segnalato agli inquirenti le "richieste di denaro" del politico del Pdl. E questa registrazione, che Repubblica.it è in grado di anticipare in esclusiva, è ora la principale carta dell'accusa nei confronti dell'amministratore Pdl. L'inchiesta portata avanti dal procuratore Federico De Siervo e dal pm Giuseppe Bellelli ha portato all'arresto di De Fanis (avvenuto il 13 novembre 2013), della sua segretaria e di un prestanome dell'assessore che gestiva una associazione culturale "schermo" verso la quale, secondo l'accusa, il politico faceva confluire i denari che raccoglieva dagli imprenditori. Ed è proprio nell'ambito dell'inchiesta su De Fanis che è emerso tra l'altro il "contratto sessuale", la scrittura privata che De Fanis fece firmare alla sua assistente perché avesse rapporti d'amore con lui una volta alla settimana. Un contratto che la segretaria durante il suo interrogatorio ha affermato essere stata costretta a firmare in quanto De Fanis era "ossessionato" da questo rapporto. De Fanis alcuni giorni fa ha chiesto di essere ascoltato ed ha respinto ogni addebito.

"Farai sesso con me una volta a settimana". Il contratto shock tra assessore e segretaria, trovato in una perquisizione. De Fanis, responsabile per la cultura alla Regione, è agli arresti per tangenti. "Lui era ossessionato da me, mi ha costretto, non ho potuto rifiutare". Le prestazioni venivano pagate con un forfait di tremila euro al mese, continua Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. C'era un contratto sessuale in vigore negli uffici della Regione Abruzzo. Un documento vero e proprio. Lo aveva redatto e sottoscritto - nero su bianco - l'assessore regionale alla Cultura, Luigi De Fanis. E in quel contratto, il politico del Pdl, 53 anni, medico, eletto alla Regione a suon di voti, pretendeva sesso dalla sua segretaria. La donna doveva "stare insieme" all'assessore - è scritto testualmente nel documento - almeno quattro volte in un mese. Per fare "l'amore". Così è riportato nell'accordo in vigore da diversi mesi. Tutto avveniva in cambio di denaro: trentaseimila euro annui. E lei, 32 anni, giovane e avvenente componente dello staff di De Fanis, che già aveva ottenuto da lui l'incarico di componente della sua segretaria particolare (da 1.200 euro al mese) per altro senza vincere nessun concorso, quell'ulteriore contratto - questa volta sessuale - lo aveva firmato. E ne teneva una copia in casa. Ed è proprio lì che, un mese fa, gli agenti della polizia giudiziaria della Procura di Pescara l'hanno trovato, seppur strappato in mille pezzi. Quando hanno varcato la soglia della casa della donna che si trova in un piccolo paese della provincia di Chieti, per notificarle un ordine d'arresto (con l'accusa di essere complice dell'assessore nel chiedere tangenti ai piccoli operatori culturali), gli agenti del Corpo Forestale dello Stato hanno notato subito quei foglietti strappati e buttati nel cestino. Ci sono poi volute alcune settimane per rimettere insieme i pezzi e valutare con attenzione il contenuto di quella "prova" e il suo reale significato. E la scoperta è stata sorprendente. La conferma è poi arrivata, pochi giorni fa, dalla stessa segretaria, durante il suo ultimo interrogatorio. Incalzata dalle domande del pm Giuseppe Bellelli ha chiarito la natura di quel contratto. "L'assessore era ossessionato da me... - ha messo a verbale - mi ha costretto a firmarlo. Io non ho potuto rifiutare. Ho avuto paura..." questa è stata la sua difesa. La sua spiegazione. "Voglio uscire da questa storia, sono additata da tutti come "quella lì" e io non ha fatto nulla: però non ho preso un centesimo di quelle tangenti e ignoro cosa sia successo..." ha detto al pm. "Io avevo un lavoro nella sanità a tempo indeterminato ma, in quel periodo mi trovavo in una situazione particolare perché mia madre stava male. È stato De Fanis a propormi di fare la sua segretaria. Mi misi in aspettativa e accettai il lavoro perché avrei potuto gestire meglio i miei problemi perché dovevo lavorare per 3 giorni. De Fanis mi propose il lavoro, anche se non ho mai partecipato alle sue campagne elettorali, anzi io ho la tessera del Pd... ". Il secondo contratto è stato poi un passaggio obbligato, ha spiegato. La segretaria ha ammesso di aver avuto una relazione con l'assessore e di essere stata costretta a onorare quel contratto. "Vai a timbrare, poi esci e vai a farti bella.... " le diceva De Fanis al telefono senza sapere di essere intercettato "poi ritorni e timbri. Basta che fai quattr'ore... Chi ti conta la jurnata... capit?". "In Regione è una consuetudine timbrare e uscire per faccende personali - si è difesa la segretaria - Quando sono entrata lì nell'ottobre 2012 in molti facevano così. Io partecipavo a missioni, a riunioni esterne. Una volta sola sono andata dall'estetista. Anche i miei colleghi si comportavano così e non credevo di fare nulla di male...". "Ora la mia vita è un incubo. Non vado più in giro per il mio paese. Ricevo telefonate anonime, gente che mi vuole incontrare, che mi insulta. L'impatto dell'arresto sulla mia vita è stato devastante, perché sono mamma di una bambina piccola". Certo è che dal verbale del suo interrogatorio è emersa con tutta evidenza la storia di un ufficio pubblico regionale - deputato a programmare i soldi da destinare al settore della cultura - trasformato in un'alcova. E asservito alle volontà dell'assessore. De Fanis ora dovrà rispondere anche di peculato perché come è scritto nelle carte dell'inchiesta avrebbe "utilizzato con la segretaria la macchina della Regione per viaggi privati a Roma e a Bologna dissimulando le finalità esclusivamente personali dietro la finalità istituzionale". 

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

MAGISTRATI: MACCARONE E SCHETTINI, FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA.

Intanto il magistrato Vincenzo Maccarone è innocente. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula pi ampia: il fatto non sussiste. Finisce così il calvario dell’ex sostituto procuratore generale della Cassazione, un calvario iniziato l’8 maggio del 2007. Quella sera un gruppo di agenti della Guardia di Finanza avevano bussato alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattarono le manette e l’alto magistrato venne condotto nel carcere di Regina Coeli, rinchiuso in una cella di isolamento. L’arresto era nato da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore L. G. Lo scopo: aiutare G. a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia, una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi all’obbligo di dimora nel comune di Osimo. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Maccarone dalla Procura generale di Roma alla Corte d’appello de L’Aquila. Da allora sono passati due anni e il gup Palmisano, il 16 luglio scorso, ha accertato che Maccarone e gli altri imputati sono innocenti. 16 luglio 2009. Il magistrato Vincenzo Maccarone è stato assolto, scrive Riccardo Arena su “Il Detenuto Ignoto”. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula più ampia. Il fatto non sussiste. Vincenzo Maccarone è innocente. 8 maggio del 2007. È sera. Un gruppo di agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattano le manette. Il magistrato viene condotto nel carcere di Regina Coeli. È rinchiuso in una cella di isolamento. È la notte più difficile nella vita dell’alto magistrato. Un magistrato stimato da tutti. L’arresto nasce da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore G.. Lo scopo: aiutare G. a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia. Una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi agli arresti domiciliari. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Macccarone dalla Procura generale di Roma, alla Corte d’appello de L’Aquila. Passano 2 anni e un Giudice accerta che Maccarone, e gli altri imputati, sono innocenti. Sulle agenzie stampa di questo errore giudiziario ovviamente non c’è traccia. Ma è questa una vicenda che comunque deve far riflettere. Una riflessione che deve riguardare la Giustizia di oggi. Una riflessione che deve essere però condotta con un approccio concreto, e non accademico. Riflettere sulla concreta efficacia di una regola. Riflettere sul modo in cui concretamente la regola viene applicata. Un approccio concreto che deve suggerire riforme concrete. Riforme che devono riguardare sia norme che magistrati. Inutile girarci intorno. Maccarone, come tanti altri imputati ignoti, non doveva essere arrestato. La regola di diritto è stata violata. Senza una riflessione concreta su casi come questo, non si andrà lontani. La giustizia, sarà sempre più inefficiente e, con essa, la magistratura sarà facile bersaglio di riforme insensate fatte da un legislatore incapace. Occorre fermarsi e riflettere.

Punta il dito contro altri colleghi Chiara Schettini, l’ex giudice della Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma arrestata dalla procura di Perugia con le ipotesi di falso, peculato, corruzione e minacce, scrive Valentina Errante su “Il Messaggero”. Nel corso dell’interrogatorio di venerdì scorso, il giudice si è difesa per otto ore negando di avere incassato i soldi sottratti alla curatela, ma ha anche accusato altri giudici, responsabili, secondo l’indagata, di avere applicato i metodi che le vengono contestati incassando i soldi dei fallimenti.

PARCELLE GONFIATE

Sono due i magistrati chiamati in causa da Chiara Schettini venerdì scorso davanti al gip di Perugia Lidia Brutti e al pm Emanuela Corradi. Il magistrato ha accusato altri due giudici delegati della sezione fallimentare di Roma che, secondo l’indagata, ancora detenuta, avrebbero preso i soldi dai fallimenti affidando incarichi a professionisti amici pronti a gonfiare le parcelle. I soldi, sottratti ai creditori, sarebbero poi stati poi spartiti tra giudici e professionisti. Chiara Schettini, fino al momento dell’arresto in servizio a L’Aquila, ha anche indicato le procedure fallimentari nel corso delle quali sarebbero avvenuti gli episodi di appropriazione da parte degli ex colleghi, fornendo elementi per eventuali indagini. Le accuse, d’altra parte non alleggeriscono minimamente la posizione del magistrato, ma potrebbero dare il via a nuove indagini.

UN «TESORO» SPARITO

Secondo i pm sono tre i fallimenti ai quali il giudice Schettini, insieme all’ex compagno, il commercialista Piercarlo Rossi, e a un piccolo esercito di prestanome e finti creditori, sarebbe riuscita a sottrarre 4 milioni e 800 mila euro. Agli atti dell’accusa ci sono soprattutto le parole di Federico Di Lauro, ex curatore fallimentare, poi finito in manette, che ha raccontato le modalità di appropriazione di Schettini e del suo ex compagno, consegnando ai pm anche le registrazioni dei dialoghi con il giudice. Ma le indagini della procura di Perugia riguardano anche un’altra procedura fallimentare, quella della società Fanni 2000, non ancora contestata al magistrato. E, non a caso, tra i motivi dell’arresto ci sono le minacce della Schettini a un avvocato, perché ritrattasse le denuncia presentata in procura sulle procedure prefallimentari della Fanni 2000.

In base a quell’esposto, che il giudice avrebbe voluto ”sistemare”, pensando così di salvarsi davanti al Csm che l’aveva trasferita da Roma a L’Aquila, la Schettini, il curatore e un consulente avrebbero favorito uno dei creditori, falsificando anche un verbale di udienza e autorizzando il curatore a una transazione a vantaggio della società creditrice. Un atto annullato dal giudice che ha sostituito la Schettini dopo il suo trasferimento.

TUTTI DENTRO: IL GIUDICE CHIARA SCHETTINI.

Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, e nel grado giusto, ed al momento giusto, e per lo scopo giusto, e nel modo giusto: questo non è nelle possibilità di chiunque e non è facile. (Aristotele)

«Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». Le parole sono ancora più inquietanti perché arrivano da un Giudice: Chiara Schettini, scrive Giulio Cavalli. Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l’ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata il 12 giugno 2013 per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c’è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l’aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l’avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione…. È veramente una rottura senza limiti… Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». Secondo quanto scrivono ‘Il Messaggero’ e ‘Il Fatto Quotidiano’ la procura di Perugia sta indagando sulla gestione delle procedure fallimentari del Tribunale di Roma. Ovvero di come il Tribunale assegna i vari casi di crisi aziendali ai curatori fallimentari, avvocati o commercialisti, che in base al valore della pratica che gestiscono vengono pagati cifre in alcuni casi molto alte. L’ipotesi al vaglio degli inquirenti è che a “guidare” queste assegnazioni ci sia un sistema clientelare o corruttivo. L’inchiesta, scrivono ‘Messaggero’ e ‘Il Fatto’, è partita da un esposto presentato da Francesco Taurisano, fino a pochi mesi fa giudice della Fallimentare di Roma, che accusa i suoi ex capi: il presidente di sezione, Ciro Monsurrò e il presidente del Tribunale di Roma, Paolo de Fiore. L’accusa, al vaglio del procuratore capo di Perugia Giacomo Fumo, ha per oggetto le nomine della “procedura fallimentare più grande d’Europa”, cioè la Federconsorzi, la gestione da parte del Tribunale di Roma del crack del gruppo Di Ma-rio (un importante gruppo di costruzioni prima dichiarato fallito, poi rimesso in amministrazione straordinaria e poi recentemente nuovamente dichiarato fallito) e infine le nomine del presidente del Tribunale Paolo de Fiore. Secondo ‘Il Fatto’ un esempio fatto da Taurisino per far capire le procedure che sarebbero adottate nel Tribunale fallimentare, è quello dell’avvocato Giuseppe Tepedino. Avvocato che, secondo l’esposto, avrebbe cumulato incarichi milionari dal Tribunale: Taurisino fa notare che la moglie di Tepedino è la segretaria del presidente del Tribunale di Roma De Fiore e nipote del presidente della sezione fallimentare Ciro Monsurrò. Ma il caso più importante citato nell’esposto di Taurisino è quello di Federconsorzi. Al centro dell’esposto c’è l’ultima tornata di nomine dei commissari Federconsorzi che – almeno stando a quanto denunciato – sarebbe stata oggetto di una disputa durissima tra giudici alla fine della quale un commercialista già nominato (Roberto Falcone) avrebbe rinunciato all’incarico per le pressioni indebite del presidente del Tribunale fallimentare Ciro Monsurrò, che aveva in mente un altro nome e che avrebbe quindi nominato un altro commissario, con cui era, secondo l’accusa, in “ottimi rapporti”. Chiara Schettini, ex giudice fallimentare del Tribunale Roma, è stata arrestata mercoledì mattina 12 giugno 2013 su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. Il giudice, nel frattempo trasferito ad altra sede, è stato raggiunto da una ordinanza di custodia cautelare in carcere. Perquisizioni sarebbero ora in corso da parte dei magistrati perugini a Roma. La giudice è accusata dai pm di Perugia di essere coinvolta in una “cricca di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma”. Insieme a lei, iscritti sul registro degli indagati ci sono anche il presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, e il giudice a latere Nicola Pannullo. Il nome della giudice Schettini era balzato agli onori delle cronache alcuni anni fa in merito alla controversa sentenza, da lei firmata, che diede momentaneamente il via libera all’utero in affitto per una donna che non riusciva ad avere figli. La cricca dei curatori fallimentari, sarebbe secondo l’accusa, di una serie di sentenze pilotate che attraverso la redazione di documenti falsi e scritture notarili con firme “taroccate”, avrebbero lasciato confluire quantità ingenti di denaro su conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro, per poi sparire nei paradisi fiscali.

Chiara Schettini: «Io giudice, più mafiosa dei mafiosi». Giusto per ripristinare i rapporti di forza: «Cioè di fronte a certi atteggiamenti io divento più mafiosa dei mafiosi». E ancora, sempre al telefono con uno dei «suoi» curatori fallimentari (Federico Di Lauro): «Gli ho detto (riferendosi al suo compagno Piercarlo Rossi) guarda, io ci metto un attimo a telefonare a dei miei amici calabri che prendono il treno, vengono, te danno una corcata de botte e se ne ripartono». Così parlava Chiara Schettini, l'ex giudice fallimentare del Tribunale di Roma, arrestata per peculato, ricordando di volta in volta ai suoi interlocutori che il giudice era lei, scrive Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Che lei, una volta informata, era in grado di risolvere i problemi. Nelle sue vene, sottolinea spesso sforzandosi di prevalere sui suoi interlocutori, c'è sangue «calabrese». Di buona famiglia, cresciuta ai Parioli, ottimi studi, curriculum prestigioso, conversazione colta, eppure Chiara Schettini, è la stessa donna che, con brutale determinazione, firma e spedisce un fax di incontrovertibili minacce nei confronti di uno degli avvocati che l'aveva denunciata ai magistrati di Perugia. Fax peraltro indirizzato a un personaggio controverso, Massimo Grisolia, ingaggiato in prima battuta per convincere un testimone a ritrattare accuse contro di lei. Nel documento, trasmesso ai primi del 2013, si legge: «Ho riflettuto sul fatto che potrei soprassedere alla richiesta restitutoria (15mila euro utilizzati da Grisolia) ma lei caro professore mi deve togliere dalle palle il suo amico Massimo (l'avvocato Vita); ho saputo che ha richiesto la riapertura di due procedimenti ovviamente da lui stesso promossi e conclusi con conferma di archiviazione.... È veramente una rottura senza limiti... Lei deve far capire al suo amico che è meglio che non insista perché non domani, nè magari dopo domani ma anche fra dieci anni io lo ammazzo». Pochi dubbi quindi che sui risarcimenti pilotati al fallimentare (dove buone e consolidate relazioni possono tuttora aprire molte porte) tra gli anni 2004 e 2008 - tutte procedure approfondite dagli investigatori coordinati da Nello Rossi - la Schettini avesse un ruolo determinante. Tra i frutti delle perquisizioni eseguite mercoledì 12 giugno 2013, con l'arresto della Schettini, l'affiorare di ulteriore documentazione che proverebbe il coinvolgimento di Grisolia, una sorta di «faccendiere» secondo gli investigatori di Perugia, nelle vicende della giudice. L'interrogatorio di garanzia è previsto per venerdì. La Schettini, assistita da Carlo Arnulfo e Giovanni Dean nega ogni addebito e risponderà alle domande del pm Manuela Comodi.

Sentenze pilotate e giudici sotto inchiesta. Coinvolta Chiara Schettini, famosa per il via libera all'utero in affitto e compagna di un commercialista. L'accusa: «Consulenze d'oro e crediti pagati senza verifiche», scrive Haver Flavio su “Il Corriere della Sera”. Il caso più eclatante è quello della sceneggiatura commissionata da una azienda specializzata nella produzione di olio extravergine d'oliva, liquidata con due milioni e mezzo di euro. E poi ci sono «consulenze d'oro». Sentenze in tempi da «Guinness dei primati» per la giustizia nostrana, appena un giorno. E crediti pagati senza fare verifiche approfondite. L'inchiesta sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare ha registrato nelle ultime ore un clamoroso e, per certi verso inaspettato, salto di qualità: i nomi del presidente della sezione che ha adottato la maggior parte delle sentenze finite sotto inchiesta, Fausto Severini, del giudice a latere Nicola Pannullo e delle relatrice dei provvedimenti, Chiara Schettini, sono stati iscritti sul registro degli indagati dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi. L'accusa è grave, peculato. Proprio ieri il pm ha interrogato a lungo nel carcere romano di Regina Coeli i personaggi arrestati nella prima fase dell'inchiesta dai colleghi della Capitale, che hanno trasmesso poi per competenza alle toghe della città umbra il fascicolo. E dopo la reiterazione dei provvedimenti di custodia cautelare da parte del gip di Perugia Lidia Brutti, le deposizioni di ieri hanno consentito di delineare con maggiore precisione il quadro di ruoli e complicità utilizzati per arrivare a ottenere «provvedimenti pilotati» su decine e decine di ricchi fallimenti all'esame del Tribunale di Roma. La posizione più delicata è quella del giudice relatore. La Schettini, diventata nota alcuni anni fa per la controversa e contestatissima sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli, è la compagna di uno degli arrestati, quel commercialista Piercarlo Rossi che ? secondo l'accusa ? sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti falsi e scritture notarili con firme «taroccate» che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi ? con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce ? nei paradisi fiscali. Le bancarotte su cui si sono ufficialmente accesi i fari sono tre. Della «Pasqualini», della «Tecnoconsult» e della «Domitia Hospital» le toghe si sono occupate in un lungo lasso di tempo, almeno una decina d'anni fino al 2005. Nel caso del fallimento della prima l'escamotage per dirottare e incassare i soldi liquidati è stato quello che più di altri ha insospettito per le modalità e per la facilità con cui la «cricca» ha proceduto: il commercialista Federico Di Lauro (marito della show girl di origini cinesi Dong Mei, arrestata in un altro procedimento), era riuscito a far inserire tra i creditori gli autori di una sceneggiatura per una serie di fiction televisive dal titolo «Serial giallo». Peccato che le indagini dei pm romani Stefano Fava e Giorgio Orano e del procuratore aggiunto Nello Rossi abbiano portato alla luce ben altra attività: il core business della «Pasqualini» ? è stato ricordato negli ordini di cattura ? era «estrazione, raffinazione e commercializzazione dell'olio di oliva».

Ex giudice fallimentare arrestata a Roma, i soldi finivano a Miami, scrive Valentina Errante su “Il Mattino” e su “Il Messaggero”. Due appartamenti al Colosseo, gli investimenti a Miami e le società lussemburghesi. Poi alcune case a Fregene e una Madonna di Campiglio gestite da società fiduciarie. Era lì che finivano i soldi sottratti ai fallimenti, almeno secondo il gip Lidia Brutti, che due giorni fa ha arrestato il giudice Chiara Schettini con le ipotesi di peculato, falso, corruzione e per le minacce a un avvocato che doveva ritrattare le accuse nei suoi confronti. Un reato commesso in concorso con gli avvocati Antonio Casella e Roberto Clemente, anche loro indagati. L’ordinanza racconta come il giudice, nonostante i procedimenti pendenti «non abbia mai modificato il suo modo di esercitare la giurisdizione, piegandola agli interessi propri e dei professionisti di cui si è di volta in volta servita con una non comune determinazione e scaltrezza e con capacità di determinare altri a delinquere, offrendo loro prospettive di crescita professionale e facile arricchimento». I soldi del fallimento Tecnoconsult, una dei tre curati da giudice e finiti sotto accusa, secondo le indicazioni del compagno della Schettini, Piercarlo Rossi, dovevano essere accreditati sul conto della società lussembrurghese Xtelis international limited o sulla Allegra Investment di Federico Mario Carlo De Vittori, il riciclatore elvetico della coppia. Si legge nell’ordinanza: «Rossi aveva formato le false lettere di incarico per giustificare i crediti, poi aveva provveduto a gestire la pratica relativa alla cessione del credito del Baldi (procuratore all’incasso di tutti i finti creditori) alla società Allegra Investment, riconducibile a De Vittori. Quest’ultimo secondo le indicazioni di Rossi, aveva poi girato le somme alle destinazioni finali: 650mila euro all’acquisto dell’appartamento di via del Colosseo, con somme transitate estero su estero, euro 188mila 459 a Ugo Valenti negli Stati Uniti, destinati agli investimenti immobiliari a Miami». Ma sono due gli appartamenti, in via del Colosseo, acquistati da Rossi e Schettini con i soldi dei fallimenti. Il secondo, del Comune di Roma, viene riscattato dalla vecchia affittuaria con i soldi di Rossi e Schettini. «Appaiono significativi - si legge nell’ordinanza - i molteplici contatti telefonici di Chiara Schettini con vari soggetti nell’imminenza della scadenza della rata Imu di dicembre 2012 che palesavano come, fra non poche ansie, avesse dovuto occuparsi in prima persona delle gestione dei relativi pagamenti». Immobili intestati a società, alcune delle quali collegate a fiduciarie riconducibili a Rossi, e sequestrate al momento dell’arresto del professionista. Case a Fregene e Madonna di Campiglio. «L’indagata giungeva addirittura a ipotizzare di avanzare istanza di restituzione e si preoccupava di precostituire prove della provenienza della provvista utilizzata per l’affitto di Madonna di Campiglio da conto corrente intestato alla madre defunta, nonché della propria partecipazione diretta alle trattative finalizzate alla stipulazione del contratto preliminare». E’ stato il curatore fallimentare Federico Di Lauro a raccontare ai pm com’era andata: «Dopo l’estate 2010 la Schettini mi chiamò e mi disse che voleva regalare un gommone al suo compagno Piecarlo, se potevo aiutarla a trovarne uno. Ci incontrammo all’Eur con l’amico mio andammo a provare l’imbarcazione al Circeo. Dopo qualche giorno la Schettini mi chiamò e mi disse che il gommone le piacevae aveva intenzione di prenderlo. Mi riferì però di dire all’amico mio che, in cambio del gommone, gli avrebbe conferito un buon incarico in una procedura fallimentare. Alla fine la compravendita non andò a termine perché la Schettini, sospesa dala funzione, non garantiva il conferimento dell’incarico».

Era stata trasferita a L'Aquila nel marzo stesso, come pubblicato nel Bollettino ufficiale del Ministero della giustizia. Oggi, è finita agli arresti, scrive “Abruzzo 24”. Si tratta di Chiara Schettini, romana, magistrato ordinario di quinta valutazione di professionalità con funzioni di giudice del Tribunale di Roma, trasferito al Tribunale di L’Aquila con funzioni di giudice. A riportare la notizia del suo arresto è il Corriere della sera nell'edizione romana. L'arresto è avvenuto mercoledì mattina su disposizione della Procura di Perugia. Il provvedimento - riferisce il Corriere della sera- sarebbe legato alla sua attività professionale nella Capitale. La Schettini, secondo quanto riferito dal Corriere, è coinvolta nell'indagine  portata avanti dal pubblico ministero di Perugia Manuela Comodi, sulla «cricca» di avvocati e commercialisti che imperversava alla Fallimentare di Roma. La Schettini è salita agli "onori della cronaca" anni fa per la controversa sentenza che diede (momentaneamente) il via libera all'«utero in affitto» per una donna che non riusciva ad avere figli. La Schettini è inoltre la compagna di Piercarlo Rossi, commercialista che — secondo l'accusa — sarebbe stato il regista della «cricca» di curatori fallimentari, avvocati e imprenditori diventati ricchi grazie a manipolazioni più o meno grossolane degli atti processuali. Documenti con firme falsificate che avrebbero consentito a fiumi di denaro di finire in conti correnti bancari in Svizzera e a Cipro e poi — con la consapevolezza che non se ne sarebbero più trovate le tracce — nei paradisi fiscali. Sull'arresto del giudice Schettini in servizio a Roma, c'è anche una lettera dell'ANM. "In relazione alle odierne notizie di stampa, relative all’avvenuto arresto del magistrato in servizio da quest’anno presso il tribunale di L’Aquila, Chiara Schettini, ivi trasferita fuori concorso dal Consiglio Superiore della Magistratura, la Giunta Distrettuale abruzzese dell’Associazione Nazionale Magistrati prende atto con disagio di quanto accaduto, convinta che, comunque, il merito delle vicende venga affrontato nelle aule di giustizia con i dovuti strumenti processuali. Con riferimento alla copertura del già esiguo e insufficiente organico di giudici del Tribunale di L’Aquila, Ufficio presso cui pendono indagini e processi di natura complessa e delicata, conseguenti alle molteplici conseguenze sociali e giuridiche del sisma del 2009, le cui ferite sono assolutamente aperte e drammaticamente attuali, la Giunta auspica che le prossime scelte di Autogoverno avvengano con particolare attenzione. In questo ambito si pone anche l’attesa di tutti gli operatori di giustizia aquilani per la nomina del nuovo presidente del Tribunale di L’Aquila, che si spera il Consiglio Superiore della Magistratura voglia adottare quanto prima".

Da un’istituzione ad un’altra.

L’AQUILA MASSONE.

Un posto di lavoro nel Dipartimento di Scienze chirurgiche dell'ospedale San Salvatore. Questo l'obiettivo che spinge il medico Gianfranco Cavaliere a entrare nella «Sala dei passi perduti» del tempio massonico della loggia «Guglia d'Abruzzo» di via Aldo Moro per chiedere di far parte della massoneria, scrive “Il Centro”. A occuparsi di lui è il fratello di un magistrato. Lo ammette lo stesso professionista aquilano, che poi finirà agli arresti domiciliari, insieme al professore romano Fabrizio Traversi, sedicente massone, nell'ambito dell'inchiesta sulla tentata truffa ai danni dello Stato da perpetrarsi attraverso la Fondazione Abruzzo solidarietà e sviluppo, vicina alla Curia arcivescovile visto che i due vescovi, Molinari e D'Ercole a lungo ne sono stati garanti con ruoli apicali. Nuovi dettagli emergono a una settimana dall'udienza del gup sulla richiesta di processo, formulata dalla Procura, a carico di Fabrizio Traversi, Gianfranco Cavaliere, Silvano Cappelli (sindaco di San Demetrio ne' Vestini), Nicola Ferrigni e monsignor Giovanni D'Ercole, vescovo ausiliare dell'Aquila. E così, dalle migliaia di pagine agli atti dell'inchiesta coordinata dal pm Antonietta Picardi e condotta dai carabinieri del Noe, spunta fuori il capitolo dedicato alla «tegolatura» di Gianfranco Cavaliere. Si tratta del rito con il quale il profano richiede l'ammissione alla loggia. Il medico Cavaliere decide di fare l'«alto passo» solo «dopo essersi consigliato con suo padre (il consigliere comunale Raffaele Tripoli) circa l'eventualità di aderire o meno». Anche il professor Traversi, che per gli investigatori è il fulcro del meccanismo messo in piedi, secondo l'accusa, per intascare direttamente parte dei 12 milioni di euro messi a disposizione per realizzazioni in ambito sociale dal dipartimento della famiglia dell'allora sottosegretario Giovanardi, si dà da fare per introdurre Cavaliere nella loggia aquilana. «Ma che è'sta storia che mi hanno detto che non potete tegolare Gianfranco?», chiede Traversi al massone incaricato di presentarlo. «Acchiappatelo subito e tegolatelo d'urgenza, mi hanno detto che non poteva essere fatto per i casini che ci stanno sulla Fondazione...poi ne parliamo in mezzo alle colonne...». Un ordine, quello di Traversi, eseguito il 2 novembre, giorno dei Morti, nella casa massonica del Grande oriente d'Italia in via Aldo Moro. Cavaliere è entusiasta. «È chiaro che con la massoneria adesso io rientrerò in quel reparto», frase che per gli investigatori è da riferirsi «ad alcune difficoltà finora incontrate ad avere un contratto di lavoro con l'ospedale aquilano». Traversi gli dice che «in sei mesi massimo un anno devi diventare maestro». Per l'accusa, l'appartenenza alla massoneria sarà fatta valere nei confronti del professore Gianfranco Amicucci (persona non coinvolta nell'inchiesta) direttore del Dipartimento di scienze chirurgiche dell'ospedale «presso il quale Cavaliere solo figurativamente è impegnato in un dottorato di ricerca dal momento che, in tutta la durata dell'indagine, non ha mai espletato alcuna attività lavorativa per quell'Unità operativa». Dagli atti emerge un altro particolare. Nella lista che viene fatta visionare al profano Cavaliere al momento del rito di ammissione compaiono, tra gli altri personaggi aquilani, anche figure di riferimento all'interno del Comune tra cui un giovane consigliere. Vincenzo Bonanno, «delegato magistrale Abruzzo Molise della Gran Loggia d'Italia» prende le distanze dalla vicenda. Sostiene il professore di inglese: «Affermare che i massoni sono coinvolti in faccende giudiziarie e illegali equivale a sostenere che tutti i Cristiani sbagliano o che tutti gli iscritti a un sindacato o un partito politico sono corrotti nel caso che qualche aderente non rispetti le regole del vivere civile. Il Centro ha avuto modo di visitare la sede della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù a Barete in occasione della sua inaugurazione nel maggio del 2010 e ha riportato l'intervista con il Gran Maestro Luigi Pruneti dalla quale risultava chiara e distinta la Massoneria del Grande Oriente d'Italia (Goi), alla quale apparteneva Licio Gelli con la sua famigerata loggia P2 e alla quale sembra siano iscritti il professor Fabrizio Traversi e il dottor Gianfranco Cavalieri (Cavaliere, ndr), da quella della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù palazzo Vitelleschi, maggioritaria all'Aquila e in Abruzzo e mai coinvolta in scandali o fatti illeciti. I rapporti dei nostri iscritti con le istituzioni sono sempre stati improntati alla massima trasparenza e correttezza e desideriamo non essere tirati in ballo, anche indirettamente, in intrallazzi di varia natura. Esprimo tutto il mio disappunto che la nobile Istituzione Massonica nella sua generalità sia stata coinvolta in fatti su i quali la magistratura aquilana farà piena luce e nel contempo desidero ribadire la completa estraneità dell'Obbedienza che rappresento dalle indagini di cui sopra».

Noi siamo il Grande Oriente, siamo la vera realtà massonica dal 1805. Quando una istituzione supera i duecento anni e ha espresso uomini che hanno contrassegnato il percorso di civiltà di questo Paese, un motivo ci deve essere". Questo il pensiero del Gran Maestro d'Oriente, Gustavo Raffi, riferito a Roberto Santilli su Abruzzo web oggi all'Aquila all'auditorium "Sericchi" della Carispaq per il convegno pubblico "Dall'Abruzzo per l'Italia" sul 150° anniversario dell'Unità d'Italia, organizzato dal Grande Oriente d'Italia Palazzo Giustiniani, dal Collegio circoscrizionale Maestri Venerabili Abruzzo e Molise e dalla Loggia Guglia d'Abruzzo, con il patrocinio della Regione Abruzzo, del Comune e dell'Archivio di Stato di Pescara. Intervenuti, tra gli altri, l'ex ministro della Difesa, Valerio Zanone, presidente del comitato scientifico per le celebrazioni del Grande Oriente d'Italia per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, Loris Di Giovanni, storico e presidente dell'associazione per l'Archivio di Stato di Pescara, Liliana Biondi, docente di Critica letteraria e Letterature comparate della facoltà di Lettere e filosofia dell'università dell'Aquila, Gianni Oliva, professore ordinario di Letteratura italiana presso la facoltà di lettere e filosofia dell'università "d'Annunzio" di Chieti e lo scrittore, giornalista e storico Giordano Bruno Guerri. Nulla di segreto, oggi. Perché, questo i massoni lo sanno, sono i segreti a far paura a chi vive in uno stato democratico.

E la massoneria, specie quella deviata, in Italia ha fatto il bello e il cattivo tempo. E di segreti ne custodisce ancora troppi.

«È vero che la massoneria, in determinati momenti storici, è stata una società segreta - spiega Raffi - ma non poteva essere altrimenti. Erano gli eventi che costringevano alla segretezza, perché si finiva in carcere o al patibolo. Durante il Fascismo, i partiti politici democratici erano società segrete. Ma lo scopo della massoneria non è prendere il potere. Io in questi ultimi dodici anni ho riallacciato i fili della storia - continua - ho ricondotto la massoneria dove doveva essere, evitando di dare per scontato che gli altri ti capissero senza che tu facessi nulla per essere capito. Ecco il motivo per cui, ad esempio, la presenza sul territorio veniva avvertita come qualcosa di impalpabile e generava inquietudine. Non si può pensare che gli altri ti capiscano senza che tu faccia nulla per essere capito».

C'è stato, però, un momento in cui qualcuno si è staccato dalla ''madre'' ufficiale e ha voluto fare di testa propria. E se fossero tutti come Licio Gelli? Perché rischiare?

«Non basta nascondersi dietro un'etichetta, non basta una sigla per dire che dei faccendieri sono massoni: se sono faccendieri, sono faccendieri, ecco quindi che il problema in Italia è la generalizzazione. Se un avvocato, o un giornalista, sono ladri, significa che tutti gli avvocati e i giornalisti sono ladri? Vogliamo farci capire, è questo che ci interessa. Per farlo, occorre comunicare, anche attraverso i mezzi di informazione.»

Clamoroso, anche i ''fratelli'' hanno bisogno dei media, della comunicazione?

«Serve un salto di qualità nell'informazione, nel mondo dei media non puoi essere eccessivamente riservato. Se rifiuti la comunicazione, sei condannato alla lapidazione. In Italia fino a qualche anno fa tutto ciò che era criminale, era fascista, poi dopo si è pensato a inventare qualcos'altro. La realtà, però, è ben diversa e va affrontata senza generalizzare. Fu il sottoscritto a firmare un comunicato stampa, quando un alto prelato di Trapani sparò nel mucchio, nominando mafie, massonerie, eccetera. Io, che mi considero un "attaccante", gli chiesi di fare i nomi e i cognomi e di specificare quale loggia fosse coinvolta. Insomma, gli chiesi di uscire dalla generalizzazione. Sono ancora in attesa di una risposta. Quando mi trovo davanti a fatti del genere, manca sempre il contraddittorio.»

E cosa può fare una loggia "scoperta" in un momento molto difficile della modernità?

«Noi non siamo una loggia "scoperta" ma una loggia, punto. Su cosa possiamo fare, posso citare la storia. Quando appare sulla scena la massoneria moderna, nel 1717, l'Inghilterra era straziata dalle guerre di religione. Tutti pronti a scannarsi, protestanti e cattolici. Degli uomini, allora, dissero, a un certo punto: "prima di scannarci, parliamone". Si chiama tolleranza, il rispetto dell'altro. Guardiamo l'Italia di oggi, prendiamo la nostra classe politica. Esistono forse il dialogo, il rispetto dell'altro? Siamo nella giungla, nell'inciviltà. Quindi, ben venga una scuola di formazione che educhi al dialogo, a comprendere che l'altro può offrire elementi di valutazione che possono far scoprire l'errore e aiutare a concepire che lo sbaglio è un momento di crescita. Non è una cosa da poco. Da una parte ci sono gli uomini del dubbio, dall'altra quelli delle certezze. Gli uomini del dubbio non hanno mai creato problemi all'umanità, anzi, hanno spinto l'umanità alla riflessione. L'eresia di oggi può essere l'ortodossia di domani.»

Quindi, in soldoni, cosa possono fare di buono oggi i massoni che figurano nei posti chiave della politica, della finanza, insomma, chi siede nelle stanze del potere? E perché c'è bisogno di loro nei posti più importanti? Non se ne può fare a meno?

«Se pensiamo che nelle logge ci siano certi personaggi, siamo fuori pista ma comunque a noi non interessa. Piuttosto, mi chiederei cosa ci facesse un genio come Mozart in una loggia. Perché un grande artista come lui ha scelto di diventare massone? Sarebbe stato un genio musicale a prescindere dall'appartenenza massonica, ma evidentemente l'esperienza della loggia gli ha offerto momenti di riflessione, di confronto, di allargamento degli orizzonti. La visione più ampia di cui il mondo avrà sempre bisogno.»

ABRUZZO MAFIOSO.

In Abruzzo sono aumentati i reati di associazione di tipo mafioso, soprattutto per l'attività di ricostruzione nel cratere del terremoto, definito il cantiere più grande d'Europa e quindi oggetto di interesse da parte di organizzazioni malavitose, riporta “Terre Marsicane”. Il dato emerge dalla relazione sull'amministrazione della giustizia nel distretto della Corte d'Appello dell'Aquila, presentata dal presidente vicario della Corte d'Appello, Augusto Pace, nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario presso l'auditorium della Scuola Ispettori della Guardia di Finanza di Coppito, all'Aquila. "Quanto ai reati di associazione di tipo mafioso, è da evidenziare un significativo incremento nel periodo nei procedimenti iscritti dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura dell'Aquila - scrive Pace nella relazione - legati all'incisiva attività di contrasto nella ricostruzione post terremoto che, com'era facilmente prevedibile, ha comportato l'arrivo di ingenti finanziamenti pubblici e il correlato rischio di possibili infiltrazioni della criminalità organizzata". Nella sua relazione, il presidente vicario della Corte d'Appello ha lodato l'attività di monitoraggio, di alcuni settori economici più esposti a rischio di infiltrazioni criminali, da parte delle istituzioni preposte alla prevenzione e alla repressione delle infiltrazioni. In particolare, ha sottolineato il ruolo del prefetto dell'Aquila: "Il modello d'azione per prevenire le ingerenze della criminalità organizzata negli appalti per la ricostruzione post sismica (con speciale riguardo alle commesse per il risanamento dei centri storici a cura della Regione Abruzzo e delle autonomie locali), per investimenti di molti miliardi e un tempo misurabile in termini di non pochi anni, pur lasciando sostanzialmente invariati gli ordinari poteri e competenze antimafia, vede nella figura del prefetto dell'Aquila il nuovo e originale baricentro dell'azione di contrasto, risultandone rafforzata la funzione di coordinamento e di indirizzo rispetto alla rete dei diversi soggetti istituzionali coinvolti". Il presidente vicario ha citato poi la recente indagine della Procura della Repubblica dell'Aquila che ha portato all'arresto di quattro persone legate alla 'Ndrangheta, "che tentavano di ingerirsi proprio nei lavori commissionati dai privati con l'impiego dei fondi pubblici". In merito è intervenuto anche il presidente della regione Gianni Chiodi: "L'azione di contrasto che si sta mettendo in atto contro le infiltrazioni malavitose è un'azione molto confortante, rassicurante. La preoccupazione che emerge e che emergerà prossimamente sarà il fatto che le infiltrazioni mafiose dovranno essere meglio monitorate per quanto riguarda la ricostruzione privata perché è il settore nel quale i rischi di infiltrazione sono molto elevati". "Per quanto riguarda la ricostruzione pubblica - ha aggiunto Chiodi - i meccanismi delle certificazioni antimafia, le analisi della Prefettura, gli screening, hanno consentito di intervenire in due casi attraverso informative atipiche. Per quanto riguarda la ricostruzione privata, questi meccanismi sono ancora più blandi, c'è il rischio alto e quindi ci vuole un'attenzione alta". Commentando poi i recenti arresti in Abruzzo per tangenti, Chiodi ha detto: "Sono vicende giudiziarie che la magistratura fa bene ad approfondire. Sapremo la verità giudiziaria dopo che ci saranno state le sentenze". Il presidente della Provincia dell'Aquila Antonio Del Corvo ha invece affrontato la questione dei Tribunali minori a rischio chiusura: "Ho apprezzato l'intervento del Presidente della Corte di Appello dell'Aquila, Augusto Pace nel momento in cui ha messo in evidenza la peculiarità del nostro territorio in rapporto alle riorganizzazioni che si stanno facendo dei tribunali soprattutto per quanto riguarda i carichi di lavoro e delle distanze data la morfologia della Provincia dell'Aquila che rappresenta la metà dell'intera regione Abruzzo. Noi abbiamo un vero problema infrastrutturale - ha aggiunto Del Corvo - di collegamenti per cui aree come l'Alto Sangro hanno difficoltà nel venire all'Aquila per discutere un processo. Per cui spero e credo come ha detto lo stesso Pace che il Ministero prenda in considerazione queste problematiche". "Le norme governative sulle liberalizzazioni mortificano il ruolo dell'avvocato". Con queste parole il presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati del'Aquila, Antonello Carbonara, presente all'inaugurazione dell'anno giudiziario in rappresentanza degli avvocati abruzzesi, ha abbandonato l'aula in segno di protesta contro le ultime norme che hanno coinvolto la categoria nel pacchetto liberalizzazioni. "Non possiamo mettere un banchetto per strada nel quale fare pubblicità, offrendo due cause al posto di una oppure promuoverci con insegne luminose installate fuori dai nostri studi - ha proseguito Carbonara -.Dobbiamo domandarci se questo è l'avvocato che si vuole al posto, invece, di un professionista che lavora con dignità e professionalità". L'abbandono dell'aula in segno di protesta da parte di Carbonara è stato accompagnato da una dichiarazione di Augusto Pace, il quale ha sottolineato: "Non possiamo fare a meno che rammaricarci della decisione che priva quest'aula di una importante presenza".

“L’Abruzzo non è mafioso” è una dichiarazione del presidente della regione Chiodi (Pdl) all’indomani del terremoto del 6 aprile 2009. La regione Abruzzo è famosa per un anomalo rapporto fra grande distribuzione e popolazione. Solo il comune di L’Aquila avrebbe la possibilità di soddisfare un bacino di duecentomila consumatori, ma ne conta solo settantamila. Anche sulla costa abruzzese c’è un numero di centri commerciali spropositato rispetto alla popolazione.

Mafia e criminalità in Abruzzo: il dossier di Codici e Adiconsum riportato da “Zone D’Ombra Tv”. Le Associazioni CODICI Abruzzo e ADICONSUM Abruzzo hanno inteso realizzare un osservatorio regionale sulla criminalità, al fine di mettere in luce l’evoluzione dello stesso nella regione nel corso degli ultimi anni. Tale lavoro è stato possibile grazie alla regione Abruzzo e in particolar modo all’Assessorato allo Sviluppo Economico, Innovazione Tecnologica e informatica che ha messo a disposizione un contributo per la realizzazione del documento. L’osservatorio è stato realizzato prendendo in esame le varie attività di contrasto alla criminalità svolte dalle forze dell’ordine nel corso degli anni 2010, 2011 e inizio 2012, toccando anche parte degli anni 2008 e 2009. In particolare sono stati visionati più di 11.000 articoli di stampa, attingendo dagli stessi i fatti di maggiore importanza sul piano della vastità dell’operazione svolta e del tipo di organizzazione coinvolta, quale fotografia della situazione nella regione Abruzzo. Fino a qualche anno fa la regione era considerata isola felice riguardo alle infiltrazioni mafiose. Il quadro attuale dipinge un Abruzzo non controllato egemonicamente da una grossa struttura mafiosa bensì da diverse organizzazioni criminali, sia dell'Italia meridionale sia estere, in perfetta simbiosi con quella locale che svolge la criminalità regionale nel riciclaggio di denaro di provenienza illecita in immobili e attività commerciali. Un altro dato che emerge dalle operazioni delle forze dell’ordine è quello sempre maggiore di espansione e di organizzazione autonoma nel nostro territorio delle mafie estere. Ne sono un esempio la criminalità organizzata albanese e marocchina che, attraverso l’ausilio di proprio personale stanziato stabilmente in Abruzzo, sono riuscite a controllare, oltre all’importazione della droga in Italia, anche lo spaccio sul territorio. Un altro esempio è quello della prostituzione, dove le mafie estere sono riuscite in diversi casi a controllare in maniera autonoma sia il traffico di donne verso l’Abruzzo che lo smistamento delle stesse su strada o in appartamenti. Stesso discorso anche per l’usura. Secondo Codici la nostra regione gioca un ruolo decisivo nel riciclaggio di denaro: «Dovrebbe, infatti, sorgere spontaneo il dubbio quando vediamo nascere in alcune città, come funghi, locali lussuosi per il gioco d’azzardo nonostante gli stessi siano quasi sempre poco frequentati o in alcuni casi vuoti o quando vengono concentrati a distanza ravvicinata diversi centri commerciali tali da risultare sproporzionati rispetto alla popolazione stessa del territorio che li ospita». I reati di usura ed estorsione tra il 2010 e 2011 sono stati circa 100 casi, anche se questi rappresentano solo una piccola fetta se pensiamo a quanti pochi siano chi ha il coraggio di sporgere denuncia. Una buona parte dei casi, circa un terzo, è perpetrata da famiglie rom del posto poiché possono avere una posizione di privilegio, avendo acquisito una buona conoscenza del territorio e potendo contare su grandi somme di denaro liquido frutto di attività come lo spaccio di sostanze stupefacenti, dato confermato da indagini delle forze dell’ordine che hanno portato al sequestro nel Teramano e nel Pescarese di beni e conti correnti per diversi milioni di euro a scapito di alcune famiglie rom. Per quanto riguarda la prostituzione, invece, sappiamo che è caratterizzata dalla presenza massiccia di ragazze dell'est Europa e dei paesi africani in gran parte nigeriani. Un dato inquietante ci arriva dai "reati ambientali": è ormai consuetudine acquisita, dalle imprese e società del posto, smaltire i propri rifiuti in discariche abusive allestite in luoghi poco visibili come lungo i corsi dei fiumi o in aperta campagna. In queste discariche si possono trovare dai rifiuti domestici ai copertoni delle macchine, dai rifiuti da cantiere fino a scorie speciali o anche nocive come eternit, vernici, oli esausti, prodotti da lavorazioni chimiche, ecc., che procurano siano un danno enorme all’ambiente, inquinando il suolo e il sottosuolo e i corsi d’acqua, sia un danno economico alla collettività costretta ogni volta a dover sopportare i costi di bonifica delle aree per diversi milioni di euro l'anno. Il traffico di stupefacenti forse rappresenta in Abruzzo l’attività più problematica. Dei casi qui sotto riportati, anche se rappresentano solo una parte delle operazioni eseguite, 254 sono gli interventi svolti negli anni 2010, 2011 e inizio 2012, con un’alta concentrazione, di quasi il 50%, nei territori costieri del teramano e del pescarese. Sempre nel corso degli anni 2010, 2011 e inizio 2012 sono stati sequestrati 251,014 chili di hashish, 60,283 chili di eroina, 65,799 chili di cocaina e 190,283 chili di marijuana che, sommati agli stupefacenti sequestrati nelle vicende che riguardano gli anni 2009 e 2008, arrivano a un totale di 791,512 chili di droga sequestrata! La regione Abruzzo può essere considerata un territorio appetibile dalle mafie sia italiane sia estere. Negli ultimi anni sono diversi gli episodi che fanno rilevare infiltrazioni da parte di quest’ultime, quasi a creare una suddivisione del controllo del territorio e in alcuni casi anche una sovrapposizione dello stesso in maniera tale da far venire meno quel clima di convivenza venutosi a creare, sfociando in scontri per il controllo del territorio. Le organizzazioni criminali di origine italiane che maggiormente hanno fatto rilevare la loro presenza nella regione sono la Camorra e la ‘Ndrangheta, anche se poi troviamo episodi che riguardano altre formazioni come la Sacra Corona Unita. Sono proprio queste, infatti, le due direzioni, Campania e Calabria, maggiormente utilizzate dalla criminalità organizzata locale per rifornirsi dello stupefacente necessario a soddisfare una buona parte della richiesta del mercato abruzzese. Un altro aspetto importante che emerge dalle varie attività delle forze dell’ordine è come Camorra e ‘Ndrangheta siano riuscite nel corso degli ultimi anni non solo a gestire il traffico di droga verso l’Abruzzo, cosa che hanno sempre fatto, ma a infiltrarsi con il proprio personale nel territorio abruzzese prendendo in mano anche l’organizzazione dello spaccio territoriale. Addirittura, in alcuni casi, la regione Abruzzo è stata utilizzata dalla ‘Ndrangheta come luogo ideale dove impiantare proprie raffinerie o utilizzate come deposito dei propri carichi di droga provenienti dalla Colombia. Aspetto confermato da alcune inchieste svolte dalle autorità che hanno portato allo smantellamento nel chietino di una raffineria gestita da calabresi affiliati alla ‘Ndrangheta, e nel teramano, invece, all’arresto di un’organizzazione della mafia calabrese che aveva allestito sul posto un punto di scarico e smistamento della droga e proprio lì, infatti, che l’organizzazione si stava adoperando per far arrivare un carico di 1,5 tonnellate di cocaina dall'America meridionale. Un’altra rotta molto importante di approvvigionamento della droga in Abruzzo è costituita da quella Albanese, anche se troviamo altre rotte come quella dall'Italia settentrionale, dal Lazio e dalla Lombardia fino ad arrivare all’Olanda e alla Germania. La rotta Albanese, a differenza della altre, è in mano alle famiglie criminali del posto. Tra queste spiccano i rom, per esempio, che nel tempo sono riusciti a strutturarsi come una vera e propria organizzazione criminale, arrivando a controllare una buona fetta del mercato della droga in Abruzzo, scavalcando in alcuni casi l’intermediazione delle mafie come la Camorra o la ‘Ndrangheta per il rifornimento della droga dall’Albania. Basti pensare che negli ultimi anni diverse operazioni delle autorità abbiano portato alla luce alcune organizzazioni criminali di rom strutturate con al vertice una famiglia che si occupava di mantenere i rapporti con le mafie estere, subito sotto di essa famiglie che si occupavano della gestione del traffico di droga tra i due paesi e del rifornimento all’ingrosso, anch’essi costituiti da famiglie rom dislocate sul territorio nei quartieri della droga come ad esempio a Pescara nelle zone di Fontanelle e Rancitelli. Una struttura che ricorda molto quella della ‘Ndrangheta. Poi ci sono le mafie estere che sempre di più tendono a infiltrarsi nel territorio per impadronirsene. Le più comuni sul posto sono di matrice albanese e quelle provenienti dal continente africano, in particolare marocchina. Queste sono state avvantaggiate non solo dalla posizione ideale del loro continente rispetto all’Italia ma anche dal fatto che da molti anni gli albanesi e i marocchini in Abruzzo hanno svolto un ruolo di manodopera nello spaccio per conto delle organizzazioni criminali italiane, tale da creare una presenza massiccia di connazionali sul posto da poter sfruttare. A fianco a quella albanese e marocchina troviamo anche casi d'infiltrazioni malavitose riconducibili a organizzazioni domenicane o pachistane, presenti sul territorio con organizzazioni in grado di gestire autonomamente il traffico di stupefacenti. Un ruolo molto espressivo nello spaccio è svolto, poi, dagli stranieri presenti in Abruzzo. Questi rappresentando una fascia debole poiché spesso e volentieri si tratta di persone con grandi difficoltà economiche e senza permessi di soggiorno, così da essere identificati dalle mafie come personale da reclutare e sfruttare per i compiti più rischiosi quali i corrieri della droga e lo spacciatore al dettaglio. Le etnie che maggiormente incontriamo in loco sono quella albanese e marocchina e, accanto a loro, anche se in misura ridotta, troviamo i rumeni, magrebini, sud americani, pachistani, senegalesi e tunisini.

OTTAVIANO DEL TURCO - STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA’.

Sanitopoli in Abruzzo, la Cassazione annulla la condanna a Del Turco. Ora si dovrà celebrare un nuovo processo per riscrivere la sentenza d’appello emessa dalla Corte d’Appello dell’Aquila, scrive Sergio Rame, Sabato 3/12/2016, su "Il Giornale". L'inchiesta e il processo sulle presunti tangenti nella sanità abruzzese hanno di fatto stroncato la sua carriera politica. Oggi, però, la Cassazione ha annullato la sentenza che lo aveva visto condannare per associazione a delinquere. E delle accuse granitiche di cui aveva parlato il procuratore capo nel giorno dell’arresto non resta più nulla. Per l'ex governatore della Regione Abruzzo, Ottaviano del Turco, si profila così un nuovo processo. Tutto da rifare. Si riparte dalla Corte d'Appello, ancora una volta. "Questa vicenda e quattro processi si frantumano con questa sentenza della Cassazione - commenta Del Turco - tutto ciò è la prova della situazione drammatica in cui versa il sistema giudiziario. Fortunatamente sono salvo perchè ci sono ancora molti magistrati fedeli ai principi della Costituzione". Per l'ex governatore, ieri sera, i supremi giudici della VI sezione penale della Cassazione hanno, infatti, disposto un processo d'appello-bis sulla "Sanitopoli" Abruzzo trasmettendo gli atti alla Corte di Appello di Perugia. Viene così a cadere il teorema su Del Turco che lo aveva visto condannato per il reato di associazione a delinquere. Diventa definitiva, invece, la condanna per induzione indebita. I giudici di Perugia, dunque, oltre a riesaminare la questione del reato associativo, dovranno determinare la pena e le statuizioni civili relative al reato di induzione indebita. Del Turco fu arrestato il 14 luglio 2008 assieme ad altre nove persone, tra cui assessori e consiglieri regionali. L'ex governatore fu detenuto in carcere a Sulmona per 28 giorni e, poi, trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. Qualche giorno dopo l'arresto, il 17 luglio 2008, Del Turco si dimise dalla carica di presidente della Regione e, con una lettera, si autosospese dal Pd, di cui era stato uno dei saggi fondatori e membro della direzione nazionale. Da quel momento ha avuto inizio il calvario giudiziario. La sentenza d'appello, che lo aveva condannato a quattro anni e due mesi di reclusione, ha però dimezzato la pena dopo aver demolito gran parte del castello di accuse che al primo grado erano state prese per buone. Le accuse, come aveva dimostrato anche ilGiornale, sono sempre provenute da un solo teste e non sono mai riuscite a dimostrare alcun passaggio di mazzette. "Il processo ha costruito una montagna schiacciante di fango - commenta ancora Del Turco - sono passati cinque anni dall'arresto e tutto si risolve con macchie di fango sul viso di persone perbene". L'ex governatore non dimentica quei ventotto giorni di isolamento in una cella a Sulmona: "Un letto, una porta con le sbarre e quattro secondini che mi controllavano a vista. Forse pensavano che mi sarei suicidato. Invece sono stati i processi a frantumarsi".

La parola ai Manettari.

Sanitopoli Abruzzo, per Del Turco Cassazione conferma induzione indebita e annulla associazione a delinquere. Dovranno essere rideterminate le pene per le tangenti dello scandalo che coinvolse l'ex governatore e alcuni componenti della sua giunta. L'ex parlamentare fu condannato in primo grado a nove anni e sei mesi e in secondo a quattro anni e due. "Non trovo in questa vicenda nessun altro senso, se non la evidente necessità di dare una parvenza, seppure grottesca, di giustificazione alla infamia che ha travolto una giunta regionale democraticamente eletta e con essa la vita mia e di molti di noi" dice l'imputato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 3 dicembre 2016. Dovranno essere rideterminate le pene per le tangenti della Sanitopoli abruzzese che videro l’ex parlamentare e presidente dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco, condannato in primo grado a nove anni e sei mesi e in secondo a quattro anni e due. La Cassazione ha infatti annullato con rinvio la condanna d’appello in relazione all’accusa di associazione a delinquere, ma ha confermato le tangenti con l’imputazione di induzione indebita che prima della legge Severino rientrava nel reato di concussione. Ad accusare Del Turco, che fu arrestato il 14 luglio 2008 per una lunga serie di reati tra cui anche la corruzione, l’abuso e falso, l’ex titolare della clinica privata Villa Pini di Chieti, Vincenzo Angelini, che rivelò ai magistrati di aver pagato tangenti per 15 milioni di euro in cambio di favori. Tra il primo e l’appello alcune accuse sono cadute, gli episodi corruttivi sono passati da 24 a 6 e davanti ai supremi giudici è arrivata l’associazione a delinquere finalizzata all’induzione indebita, che è stata confermata. Il giro di denaro, alla fine, è stato quantificato per Del Turco e gli altri imputati in 800mila euro. Tre le “dazioni” di denaro per l’ex parlamentare. Gli atti ora verranno inviati alla Corte di appello di Perugia. Ma la prescrizione maturerà prima della fine del prossimo anno. I magistrati umbri dovranno rideterminare il trattamento sanzionatorio per Del Turco, gli altri imputati, tra i quali l’ex assessore abruzzese alla sanità, Gabriele Mazzocca, e altri funzionari e componenti della vecchia giunta di centrosinistra, caduta sotto i colpi di questa inchiesta. Il legale di Del Turco, l’avvocato Giandomenico Caiazza, e le difese degli altri imputati, hanno sottolineato come le accuse fossero state mosse da un “bancarottiere seriale, condannato a più di 20 anni di reclusione per una distrazione di fondi pari a 105 milioni di euro”. “Spero che questo incubo termini e che a Ottaviano Del Turco sia restituita interamente la piena dignità: è un galantuomo che non ha mai preso nemmeno un euro di tangenti, è una ‘riserva’ della Repubblica e non si può distruggere una persona senza nessuna prova”, aveva sottolineato l’avvocato Giandomenico Caiazza nella sua arringa. Angelini però è stato ritenuto credibile dai giudici di appello che lo hanno assolto dall’accusa di corruzione, dopo che in primo grado era stato condannato a tre anni e sei mesi. Per il pg della Cassazione Aldo Policastro, che durante la requisitoria aveva chiesto la conferma della sentenza d’appello, Del Turco, insieme con amministratori della sua giunta, ha commesso “abuso esplicito dei suoi poteri, in riferimento alla grave situazione di dissesto finanziario in cui si trovata l’imprenditore Angelini”. L’accusa ha definito “esplicite” le modalità delle richieste di tangenti. Tra gli imputati e l’imprenditore, ha proseguito il pg “non c’era nessuna par condicio contrattuale”. Quella nei confronti di Angelini, titolare di alcune cliniche convenzionate con la Regione, è stata una “azione preordinata per ricattarlo subdolamente” come emerge dalla “trattativa sulla vendita della clinica Villa dei Pini”. “La Cassazione ha confermato definitivamente il reato di corruzione, che era il cuore dell’inchiesta: il passaggio di denaro c’è stato, e questo conferma la correttezza del processo” dice l’ex procuratore capo della Procura di Pescara, Nicola Trifuoggi, all’epoca capo del pool che insieme ai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli, diedero il via all’indagine. “Ora la Corte d’Appello di Perugia dovrà solo ricalcolare la pena dopo che è stato invece cancellato il reato di associazione per delinquere – chiude Trifuoggi – ma si tratta di un argomento tecnico per rimodulare la condanna, condanna che è definitiva”. “L’ex procuratore di Pescara esulta per la sentenza della Corte di Cassazione nei confronti di Ottaviano Del Turco. In fondo, lo apprezzo: sapersi accontentare di poco una virtù” scrive in una nota il legale Caiazza. “La Giustizia italiana, e le connesse risorse pubbliche necessarie, sono state impegnate per anni di processi e migliaia di pagine di verbali ad occuparsi delle strabilianti prove sul falso ideologico nella prima cartolarizzazione; su abusi di ufficio per budget provvisori manipolati, emendamenti legislativi segretamente modificati, documenti indebitamente sottratti alla legittima conoscenza pubblica, ispezioni sanitarie illegittime, ed una congerie di altre simili fandonie. Tutto questo al fine di prendere per ben 21 volte denaro da Angelini, per oltre 6 milioni di euro, dei quali nessuno ha saputo fornire prova nemmeno per un centesimo”. Sottolineando le sentenze della Corte di Appello, della Cassazione, il legale ricorda che “residuano, galleggiando incomprensibilmente il quel mare di assurdità, tre dazioni di denaro che Del Turco avrebbe richiesto ed ottenuto Dio sola sa perché. Il dottor Trifuoggi ci si lancia sopra, brandendole per cantare vittoria. È il degno finale di questa tragica farsa”. “La montagna di prove che doveva schiacciarmi, si è dimostrata per quello che era: una montagna di fango” dice Del Turco. “Quando sei sommerso da una montagna di fango e riesci a non soffocare è quasi impossibile che non ti rimanga addosso qualche schizzo. Già la corte di appello mi aveva assolto da tutti i reati di abuso e di falso ideologico. E da 18 delle 21 fantasiose dazioni di denaro che avrei ricevuto, e delle quali non è mai stato trovato un solo euro. Ora si dissolve anche l’associazione per delinquere. Non trovo in questa vicenda nessun altro senso, se non la evidente necessità di dare una parvenza, seppure grottesca, di giustificazione alla infamia che ha travolto una giunta regionale democraticamente eletta e con essa la vita mia e di molti di noi”.

La parola ai Manettari.

Del Turco condannato ma assolto, la post-verità di un corrotto, scrive Alberto Vannucci, Professore di Scienza Politica, il 10 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". L’hanno chiamata post-verità, è l’ultima frontiera di una politica destrutturata. Prodotto di strategie di chirurgica divulgazione di notizie fraudolente, amplificate nella loro propagazione dai social network. Rappresentazioni menzognere impermeabili a qualsiasi smentita, persino quella del fact-checking, il controllo dei fatti tipico del giornalismo tradizionale, che giunge in ritardo risultando così impotente. Nel tempo accelerato delle nuove tecniche di comunicazione la pseudo-realtà artefatta e illusoria ha già centrato il suo obiettivo: fissare nella mente dei destinatari, specie quelli appartenenti a specifiche cerchie emotivamente affini (simpatizzanti, militanti, “amici di”, etc.), un’immagine o una convinzione sulla quale qualsiasi contro-informazione ancorata alla verità scivola come acqua. La post-verità ha già plasmato il mondo a propria immagine e somiglianza. Siamo di fronte a forme di abuso della credulità popolare già note come leggende metropolitane, che vedono incrementare esponenzialmente la propria velocità e potenza diffusiva grazie ai flussi continui di informazioni generate dai nuovi media. Altra novità contemporanea è il loro impiego scientemente programmato da politici opportunisti per manipolare le opinioni pubbliche e il consenso. Donald Trump, il candidato più bugiardo nella storia d’America, non è stato eletto nonostante, ma grazie alle sue menzogne, che nessun ragionamento razionale è riuscito a smontare o confutare. Circa il 77 per cento delle sue affermazioni sono risultate false o non del tutto veritiere, durante la campagna elettorale si è calcolata la media record di una sua bugia ogni 3 minuti e 15 secondi. Una recente vicenda italiana – in parte eclissata dal cataclisma referendario – mostra un’applicazione autoctona, non priva di originalità, di questo meccanismo sofisticato di disinformazione. Nel caso italiano, o meglio abruzzese, la strategia della post-verità non è stata utilizzata per ottenere voti, ma per la riabilitazione di un politico corrotto. Stranamente poi il suo canale originario di diffusione, ancor prima della circolazione in rete, è stata proprio la stampa tradizionale – a dimostrazione che le classifiche sulla “libertà di stampa” che collocano l’Italia in una posizione sconfortante non sono poi così ingannevoli. Alla vigilia del referendum costituzionale quasi tutti i principali quotidiani nazionali e locali – tra le poche eccezioni proprio Il Fatto Quotidiano – danno notizia dell’apparente assoluzione di Ottaviano Del Turco, ex-segretario socialista, ex-membro della direzione del Pd ed ex-presidente della Regione Abruzzo, arrestato nel 2008 per le tangenti ricevute da un imprenditore operante nel settore sanitario. Almeno, l’innocenza del politico ingiustamente crocifisso dalla magistratura è la post-verità inoculata nel discorso pubblico. Difficile interpretare altrimenti i titoli che la Repubblica, La Stampa, Il Corriere, Il Sole 24 Ore, Il Giornale dedicano al caso, in buona sostanza: “La Cassazione annulla la condanna a Del Turco”. A corroborare questa interpretazione la generosa concessione di spazio alle tesi dell’avvocato difensore: “Spero che questo incubo termini e che a Ottaviano Del Turco sia restituita interamente la piena dignità: è un galantuomo che non ha mai preso nemmeno un euro di tangenti, è una ‘riserva’ della Repubblica”. Lo stesso “post-corrotto” si concede un’intervista autocelebrativa su La Stampa, in cui rievocando “l’infamia che mi ha travolto” proclama: “Mi hanno restituito l’onore. Doveva schiacciarmi una montagna di prove. Si è ridotta a una montagna di fango. E uno schizzo mi è rimasto addosso. Ma io sono innocente”. Soltanto un’attenta esegesi dei testi giornalistici permette di ricostruire meglio la natura maleodorante dello “schizzo di fango”. E’ la verità giudiziaria della vicenda, massima approssimazione della verità fattuale cui si è giunti al termine di un lungo e difficile procedimento. E non è cosa da poco. Si tratta della condanna di Del Turco e complici, resa definitiva dalla Cassazione, per cinque tangenti, corrispondenti a un totale di 850mila euro, riscosse dietro “indebita induzione” – corrispondente al vecchio reato di concussione – e del rinvio a un altro processo d’appello per ridefinire la pena da scontare e rigiudicare l’accusa di associazione a delinquere. Già incombe la prescrizione, magica rete di salvataggio per tutti i criminali in colletto bianco d’Italia, e questo forse spiega l’esultanza dei protagonisti. Ma soltanto nel mondo rovesciato del malaffare italiano, dove la post-verità dei corrotti si sposa con l’acquiescenza di una stampa connivente (o collusa) e con una cittadinanza indifferente (o confusa), può accadere che il politico colpevole conclamato di un grave reato di quasi-concussione, col quale si è depredata la sanità abruzzese per centinaia di migliaia di euro, celebri pubblicamente la propria condanna definitiva come “restituzione dell’onore” e dichiari di volerla festeggiare “a Collelongo, il mio paese, dove tanti in strada mi hanno abbracciato commossi”. E così, in questo abbraccio solidale al corrotto, si realizza anche simbolicamente il trionfo della post-verità all’italiana.

Sanitopoli Abruzzo, Del Turco: "Solo una montagna di fango". Il figlio Guido: "Una via Crucis, ma orgoglioso di essergli stato vicino". Trifuoggi: "Soddisfazione per conferma condanna corruzione", scrive il 3 dicembre 2016 “La Repubblica”. L'ex governatore d'Abruzzo, Ottaviano Del Turco (ansa)ROMA - "La montagna di prove che doveva schiacciarmi, si è dimostrata per quello che era: una montagna di fango". Così l'ex governatore dell'Abruzzo, Ottaviano Del Turco, ha commentato la sentenza della Cassazione della notte scorsa. "Quando sei sommerso da una montagna di fango e riesci a non soffocare è quasi impossibile che non ti rimanga addosso qualche schizzo. Già la Corte di Appello mi aveva assolto da tutti i reati di abuso e di falso ideologico. E da 18 delle 21 fantasiose dazioni di denaro che avrei ricevuto, e delle quali non è mai stato trovato un solo euro. Ora si dissolve anche l'associazione per delinquere. Non trovo in questa vicenda nessun altro senso, se non la evidente necessità di dare una parvenza, seppure grottesca, di giustificazione alla infamia che ha travolto una giunta regionale democraticamente eletta e con essa la vita mia e di molti di noi", ha concluso. "La sentenza si commenta da sola. Oggi finalmente la Cassazione ha demolito definitivamente l'ipotesi che la giunta Del Turco fosse un'associazione per delinquere", ha detto l'avvocato Giandomenico Caiazza. "Non puntiamo alla prescrizione - ha spiegato l'avvocato -. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la condanna, ciò vuol dire che o la Corte d'appello di Perugia troverà un'argomentazione diversa per ritenere che ci sia un'associazione per delinquere, oppure ci deve assolvere". "L'assoluzione prevale sulla prescrizione - ha insistito Caiazza - Perugia si deve pronunciare e spiegare alla Cassazione perchè eventualmente non ritiene di assolverci. Seppur volessimo immaginare astrattamente che la Corte d'appello volesse ricondannarci di nuovo, con motivazioni diverse, per associazione a delinquere, allora scatterebbe la presa d'atto della prescrizione del reato. Ma a noi non interessa, andremo a Perugia e saremo assolti. Il giudice può applicare la prescrizione solo nel caso in cui non ritenga doveroso assolvere". Caiazza ha comunque espresso soddisfazione per la sentenza "È l'ennesima demolizione definitiva dell'accusa originaria". Il figlio dell'ex governatore, Guido, ha scritto sulla sua pagina Facebook: "La sentenza è arrivata a mezzanotte, ricevo un mucchio di telefonate mentre cerco di prepararmi per andare a lavoro. Quello che ha deciso la Cassazione non mi è ancora chiaro. Sto bevendo litri di caffè per combattere l'effetto di calmanti presi nella giornata di ieri, dunque davvero a quest'ora non ho ancora capito nulla. Ho solo compreso che ci vorranno altri anni prima della parola fine". "Una via Crucis infinita - aggiunge Guido Del Turco -, ma di una cosa sono felice ed orgoglioso, che mio padre mi abbia dato la possibilità di stargli accanto, di vivere con lui le amarezze le sofferenze in questi anni. Sono tra i pochi giornalisti ad aver letto tutte le carte, che gridano la sua innocenza, ed il lavoro fatto per risanare la sanità in Abruzzo. Ha pagato, sta pagando un prezzo umano troppo alto all'amore per la sua terra. Alle parole di un bancarottiere condannato da più tribunali. Ci vorranno altri anni per mettere la parola fine, forse, almeno per me, è una delle ragioni per le quali vale la pena di vivere e lottare", conclude. Soddisfazione invece è stata espressa dall'ex procuratore capo di Pescara, Nicola Trifuoggi: "La Cassazione ha confermato definitivamente il reato di corruzione, che era il cuore dell'inchiesta: 'Il passaggio di denaro c'è stato, e questo conferma la correttezza del processo", ha detto l'ex procuratore capo della Procura di Pescara, Nicola Trifuoggi, all'epoca capo del pull che insieme ai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli, diedero il via all'indagine dopo le rivelazioni dell'imprenditore della sanità Vincenzo Angelini. "Ora la Corte d'Appello di Perugia dovrà solo ricalcolare la pena dopo che è stato invece cancellato il reato di associazione per delinquere - chiude Trifuoggi - ma si tratta di un argomento tecnico per rimodulare la condanna, condanna che è definitiva". Il caso. Del Turco in appello era stato condannato a 4 anni e 2 mesi di reclusione, una pena più bassa rispetto a quella inflitta in primo grado, paria 9 anni e mezzo. L'ex governatore dell'Abbruzzo, nell'ambito di questa indagine, fu arrestato il 14 luglio 2008 assieme ad altre nove persone, tra cui assessori e consiglieri regionali. Detenuto in carcere a Sulmona per 28 giorni, De Turco trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. Qualche giorno dopo l'arresto, il 17 luglio 2008, si dimise dalla carica di presidente della Regione e, con una lettera, si autosospese dal Pd, di cui era stato uno dei saggi fondatori e membro della direzione nazionale.

Era il 2008 e l’allora presidente dell’Abruzzo fu arrestato come un tangentaro e costretto alle dimissioni, senza che nessuno, nel Pd, dicesse una parola in sua difesa. E adesso, dopo la singolare ammissione dell’accusa, non viene chiesta l’assoluzione, ma una semplice riduzione della pena…scrive Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 17 novembre 2015. Adesso persino l'accusa, nel processo d' appello a Ottaviano Del Turco, ammette che non ci sono «riscontri» sulle presunte tangenti incassate dal governatore dell'Abruzzo costretto a dimettersi nel 2008, dopo essere stato arrestato nottetempo, come i peggiori malfattori: cioè, in parole povere, non si trovano, non si sa nemmeno se esistano. Ci arrivano adesso, meglio tardi che mai. Ma si sapeva già, lo sapevano tutti, bastava solo informarsi e non uniformarsi a priori ai bollettini stampa della Procura. Solo l'accusa, i giornali forcaioli e i giudici della sentenza di primo grado non se n'erano accorti: quelle tangenti non si trovavano, il presunto corruttore è stato creduto sulla parola, anni e anni di indagini non hanno scoperto niente, si è accusato un uomo di aver intascato tangenti mai trovate. Non c'erano «riscontri». Un uomo è andato in galera senza riscontri. Si è dimesso senza riscontri. All' indomani dell’arresto di Del Turco, il procuratore Trifuoggi, nella oramai rituale conferenza stampa (è la nuova moda) in cui chi conduce le indagini emette mediaticamente un verdetto preconfezionato di colpevolezza, aveva detto che quei riscontri c' erano ed erano addirittura «schiaccianti». Disse proprio così: «schiaccianti». Così schiaccianti che per trovare queste benedette tangenti hanno chiesto più volte supplementi di indagine: niente. L' accusatore si è fatto un videoselfie mettendo in evidenza il contante che avrebbe consegnato a Del Turco, ma poi si è dimenticato di accendere il registratore nel momento della consegna: anche qui mancano i riscontri, audio e video. Si dice che per condannare, occorre avere la certezza della colpevolezza di un imputato al di là di ogni dubbio. Ma la mancanza di «riscontri» è stata considerata una certezza e non un dubbio. Venerdì dovrebbe esserci la sentenza d' appello. L'accusa, appena ammessa la mancanza di «riscontri», cioè dell'oggetto stesso del reato, ha chiesto una riduzione della pena. Riduzione? Avremmo un primo caso di pena, ancorché ridotta, senza «riscontri». Certe cose non possono accadere? No, in Italia accadono. È accaduto a Del Turco che un magistrato, poche ore dopo l'arresto, abbia parlato di prove «schiaccianti». È accaduto che i media abbiano nella grande maggioranza fatto proprie le certezze senza «riscontri» dell'accusa. È accaduto che una Regione d' Italia abbia cambiato equilibri senza che il Pd spendesse una sola parola a favore di Del Turco. Questa sì, che è storia riscontrata.

E’ morto Ottaviano Del Turco, scrive Roberta Galeotti su "Formiche" il 14/07/2014. Lunedì 14 luglio 2008 è morto l'uomo politico Ottaviano Del Turco. La sua storia politica avrebbe meritato un epilogo migliore. L'ex ministro si è ritirato tra le montagne abruzzesi, dipinge e scrive. Nell’era delle morti virali sul web dei grandi personaggi pubblici, diamo l’annuncio della morte politica dell’ultimo segretario nazionale del partito Socialista, ex ministro delle Finanze ed ex presidente della Regione Abruzzo. Il 14 luglio 2008 è terminata la carriera politica di Ottaviano Del Turco tranciata dalle accuse di Vincenzo Angelini e dalla valanga di prove annunciata dal procuratore capo Nicola Trifuoggi. «Avrei voluto scegliere io il momento in cui ritirarmi dalla scena politica e, soprattutto, ritengo che la mia storia politica meritasse tutt’altro epilogo» il commento di Del Turco all’indomani dello scandalo mediatico che lo investì, cosiddetto Sanitopoli. Sono trascorsi 6 lunghissimi anni e, dopo un estenuante processo, il presidente dimissionario si è visto condannare a 9 anni e 6 mesi con un capo d’accusa modificato. A sessantanove anni l’ex presidente, ex ministro, ex onorevole, ex senatore non può più programmare la sua vita politica e preferisce, causa forza maggiore, «vivere qui, a Collelongo – dice ostentando noncuranza -, a casa mia guardando dove sorge il sole, da Pescara». La sua lunga e dignitosa storia politica comincia quando, neo licenziato alla scuola media, iniziò il suo apprendistato sindacale nella sede romana dell’Istituto Nazionale Confederale di Assistenza (INCA). Come sindacalista di area PSI, entrò nella segreteria provinciale della FIOM di Roma e quindi approfondì la sua conoscenza del sindacato dei Metalmeccanici entrando a far parte dell’ufficio di organizzazione centrale della FIOM (Federazione operai Metalmeccanici) della CGIL (1968). Alla guida per molto tempo della corrente socialista della CGIL, diventò segretario aggiunto durante la segreteria di Luciano Lama (1970-1986). Nel 1992 lasciò il sindacato e un anno dopo diventò segretario nazionale del PSI subentrando a Giorgio Bencenuto, che aveva provvisoriamente sostituito Craxi all’indomani dell’inchiesta Mani Pulite. Nel 1994 Del Turco venne eletto alla Camera durante la XII Legislatura con lo SDI e venne nominato vicepresidente della Commissione Affari Esteri; nella legislatura successiva venne eletto al Senato e ricoprì il delicato ruolo di presidente della Commissione antimafia (1996-2000). Durante il secondo governo Amato (2000) gli venne affidato l’incarico di Ministro delle Finanze. Nel 2004 venne eletto al Parlamento Europeo nella circoscrizione sud, con 180.000 preferenze, per la lista Uniti nell’Ulivo e si iscrisse al Partito Socialista Europeo. Ebbe l’incarico di presidente della Commissione Affari Sociali, la terza commissione per importanza. Nelle elezioni regionali del 3 e 4 aprile 2005 venne eletto presidente della Regione Abruzzo, per la coalizione dell’Unione con il 58,1% dei voti, dimettendosi dall’incarico di Strasburgo. Il resto della storia l’abbiamo raccontato in questi approfondimento. Come chiudere questa 5 giorni? Ho avuto l’onore di conoscere Ottaviano Del Turco, volevo che poteste conoscerlo un po’ meglio anche voi! Ambivo a cercare di raccontare quello che per sei lunghi anni si sapeva ma non si poteva dire. Ora le prove schiaccianti sono venute fuori ma contro qualcun altro e con molto meno clamore che se avessero trovato i 6 milioni di euro di tangenti ‘consegnati‘ a Del Turco. Non conoscevo il presidente Del Turco prima di affrontare un colloquio per la selezione del responsabile della sua segreteria ad aprile 2005. Abbiamo lavorato insieme per tre lunghi e duri anni. Ho potuto svolgere un master di alta politica a fianco a lui, quando la metà degli uomini politici abruzzesi non aveva il coraggio di incrociare il suo sguardo. E’ stato un uomo scomodo per la politica locale, non malleabile agli accordi e alle spartizioni, affatto avvezzo ad accondiscendere ai poteri forti. L’ex presidente della regione ha cercato di far volare alto questo piccolo Abruzzo e, oggi, ne paga il fio. Oggi vende i suoi quadri più preziosi per vivere e pagare le spese legali di un assurdo processo che lo ha ucciso. Il 14 luglio 2008 è morto l’uomo politico Ottaviano Del Turco.

Così il Pd isolò Ottaviano Del Turco. Riproponiamo il racconto della nostra Paola Sacchi, scritto per Panorama nell’Aprile 2013. Nel giorno in cui la cassazione ha annullato con rinvio il reato di associazione per delinquere per Ottaviano Del Turco – caposaldo dell’intero impianto accusatorio nell’inchiesta sulla sanità abruzzese – ecco un episodio su come l’ex governatore, ex numero 2 della Cgil di Luciano Lama e ultimo segretario del Psi, fu di fatto isolato dai suoi “compagni” del Pd. Ad eccezione di Enrico Letta che unico della sinistra in Transatlantico nel 2011 andò da lui per salutarlo. Lo sfogo amaro di “Ottaviano” e il saluto di “Enrico” nel racconto della nostra Paola Sacchi scritto per Panorama.it nell’Aprile 2013, nei giorni dell’incarico di Letta a premier. Era un paio di anni fa. Un pomeriggio a Montecitorio. Transatlantico affollatissimo, tutti i big presenti. Arriva Ottaviano Del Turco, l’ex senatore eletto dal Pd, finito nella bufera dell’inchiesta giudiziaria sulla sanità abruzzese. Solo alcuni cronisti parlamentari, compresa chi scrive, gli si avvicinano. Ottaviano, l’ex segretario generale aggiunto della Cgil di Luciano Lama, il socialista che lavorò sempre per l’unità dei lavoratori, ma che sul decreto della scala mobile difese fino in fondo le ragioni di Bettino Craxi, trattato come un appestato dai suoi “compagni” del Pd. Chi gli passa vicino e abbassa lo sguardo, chi si allontana, chi fa finta di aver ricevuto una telefonata sul cellulare. Del Turco, l’ultimo segretario del Psi, li guarda con compassione. E si sfoga con il cronista: “Guarda che roba… Ho incrociato giorni fa uno di questi signori vicino al Senato. Pioveva a dirotto. Lui ha abbassato l’ombrello sulla sua faccia pur di non incontrare il mio sguardo ed essere costretto a salutarmi…”. Ma a un certo punto l’ultimo segretario di Via del Corso interrompe lo sfogo con il cronista. Si alza dal divanetto dove è seduto. C’è Enrico Letta che è venuto a salutarlo. L’unico (del Pd) a farlo. E quel giorno Letta neppure sapeva che le foto, che misero Del Turco nel frullatore del processo politico, mediatico, giudiziario fino a sbatterlo in galera, fossero taroccate! Ma il codice di un Letta (Enrico nipote di Gianni) mette il rispetto degli altri prima di tutto. Vedremo ora se il giovane “Enrico” saprà resistere politicamente nella formazione del governo agli spiriti settari ed estremisti del suo partito.

Del Turco: “Sinistra complice di un enorme errore giudiziario. Renzi si liberi dei giustizialisti”, scrive Paola Sacchi il 3 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Parla lex governatore e sindacalista: Il populismo giudiziario è una malattia di questa Repubblica. Chi è stato complice della mia vicenda non può offrire latto riparatore che ha fatto la Corte di Cassazione. Il figlio Guido, nostro caro collega, giornalista politico del Tg5, su Facebook scherzando ha confessato di stare ancora bevendo litri di caffè per annullare l’effetto dei calmanti presi ieri notte (tra il 2 e il 3 dicembre) prima della sentenza della Cassazione. Ottaviano Del Turco al telefono, che gli squilla ininterrottamente da questa mattina (3 dicembre) alle 6 risponde a Il Dubbio, dichiarando tutta la sua gioia per l’annullamento (con rinvio) del reato più infamante, caposaldo di tutto l’impianto accusatorio nell’inchiesta sulla sanità abruzzese, ovvero quello di associazione a delinquere.  Lex governatore parla anche del suo Sì al referendum, di Lama, Craxi e Renzi. Onorevole Del Turco (ex di tante importanti cose: numero 2 di Luciano Lama alla Cgil, ultimo segretario del Psi, presidente di Regione, senatore) è soddisfatto? Sono molto contento di concludere la mia vicenda politica con una dichiarazione che dice: io non sono il capo di un’associazione a delinquere ma un uomo che ha dato qualcosa di sé alla storia della Repubblica, alla storia delle istituzioni della Repubblica. È una cosa che mi riempie di gioia, che probabilmente è anche la sanzione giusta al termine di un processo incominciato con una montagna di fango e che finisce con una montagna di riconoscimenti alla dirittura della mia esperienza alla guida della Regione Abruzzo. Purtroppo non è ancora del tutto finita la sua odissea giudiziaria. La questione fondamentale è che era rimasto in piedi un reato grande come un palazzo: l’associazione a delinquere. Ora questo reato non c’è più. Questa è la grande vittoria della sentenza di ieri. Una cosa che veramente mi riempie di gioia. Si è sentito abbandonato dalla sinistra in questi lunghi e amari anni? Sì e continua nella sua ostinazione. Perché la sinistra è stata complice di un errore giudiziario pazzesco. E dunque quelli che sono stati complici di questo non possono offrire l'atto riparatore che ha fatto la Corte di Cassazione. La sinistra ha abbandonato la battaglia garantista? Sì, il garantismo è una cosa penosa in questo Paese. Si è garantisti spesso con le cause dei tuoi amici, invece il garantismo è una regola costituzionale fondamentale che consente una vita e una dialettica civile mettendo insieme idee anche molto diverse. Però, insomma non si può avere tutto dalla vita. A me piacerebbe avere una sentenza che mi cancella i reati e che cancella dal dibattito tutti i giustizialisti cresciuti nel corso di questi anni. C’è una formula usata da Luciano Violante che io trovo molto bella. Violante ha parlato di populismo legato alle vicende giudiziarie. Il populismo giudiziario è una malattia di questa Repubblica. Tutte le sentenze che riaffermano sia i valori del garantismo sia i valori della Repubblica sono sentenze che vanno benedette. E quella di ieri è una di queste. Chi l’ha chiamata? Qualche nome ce lo può dire? No, intanto perché non voglio dimenticare nessuno e ci rimarrei male, perché sono state veramente tante le persone che mi hanno chiamato. E poi soprattutto non voglio far torto a chi avrebbe voluto chiamarmi e non ha potuto farlo. Io ringrazierò tutti quanti, uno ad uno, con la telematica, le lettere, le cartoline, le telefonate, tutto, non tralascerò niente e nessuno. Telefonate bipartisan? Sì, è da stamattina alle 6 che rispondo al telefono. Lei esprime una grande storia della sinistra riformista italiana, alla Cgil era il segretario generale aggiunto di Lama. Che ricordi ora le vengono in mente? Non mi faccia commuovere parlandomi di Luciano, perché è stata una delle persone più importanti della mia vita. Domenica 4 dicembre intanto si vota per il referendum. Che farà? Domenica si vota e io ho una ragione in più per votare Sì. Anche al premier Renzi, che è segretario del Pd, consiglia di battersi di più per il garantismo? Sì, spero che lui sia sempre garantista. D’altro canto per essere molto rispettati quando sei garantista devi essere molto severo con i giustizialisti. Renzi dovrebbe correggere quella definizione su Bettino Craxi liquidato come la sinistra dell’opportunismo, mentre Enrico Berlinguer è stato chiamato la sinistra dell’opportunità? Penso proprio di sì! Però queste polemiche della sinistra sono cose che drammaticamente non interessano più a nessuno. Nessuno più si entusiasma per una rissa tra ex socialisti e ex comunisti. Ma sono storie che avrebbero bisogno di altro. Io sono orgoglioso della mia storia dentro la quale c’è quella bella, gloriosa, piena anche di errori, del Partito socialista. Ma io sono nato in quella storia. E quella storia mi seguirà finché vivo.

Storia di Mike, che ha chiesto solo “verità e giustizia per Ottaviano Del Turco”. Chiacchierata di Chiara Rizzo su “Tempi” con l’inventore di una pagina facebook di contro-informazione sul caso dell’ex governatore: «Non è merito mio: è solo gente che ha voglia di sapere come funziona la giustizia».Mike Ballini è un geometra di 34 anni di Firenze. Un tipo come tanti, che si interessa di musica e a volte di politica: quanto di più lontano, insomma, dalle aule di un tribunale. Eppure è lui che ha inventato una pagina facebook su un caso giudiziario sempre più discusso, che in pochi mesi ha raggiunto 700 utenti fissi, e in una settimana, in un tam tam incredibile, fino a 55 mila contatti. La pagina si chiama “Verità e giustizia per Ottaviano Del Turco”: vuole diffondere notizie e una sorta di “controinformazione”, in un momento in cui del processo all’ex governatore dell’Abruzzo accusato di concussione si parlava solo su qualche giornale locale, su Tempi e su Radio radicale (che segue e registra tutte le udienze): «Non ho fatto nulla – racconta Ballini a tempi.it – e sono stupito io stesso: ho pensato solo che facebook poteva essere uno strumento utile per raccontare una storia di cui nessuno parlava più, dopo le prime pagine del giorno degli arresti cautelari di Del Turco. Non ho fatto nulla, ma ho visto che c’è solo molta gente che vuole davvero giustizia».

Cominciamo da lei. Chi è? E perché si è appassionato a questa vicenda? «Sono un ragazzo di 34 anni di Firenze e faccio il geometra. Il caso Del Turco mi ha sempre colpito, lo seguivo come semplice curioso, perché mi faceva tornare in mente un altro caso, quello di Enzo Tortora. Ci vedevo dei parallelismi: perché anche Del Turco è stato arrestato con clamore tremendo e poi, quando iniziavano a uscire notizie, diciamo così, “diverse” (come le indagini su Vincenzo Angelini) tutto veniva un po’ dimenticato. Di queste ultime svolte nell’inchiesta si leggeva poco o nulla sui giornali nazionali. Perché no? Allora ho cominciato a spulciare i giornali locali e il web per cercare qualcosa in più. E mi sono fatto l’idea che Del Turco fosse del tutto innocente: del tutto, non solo un po’.»

Dica la verità, lei è amico o parente di Del Turco. «Assolutamente no. Non l’ho nemmeno mai conosciuto fino a ottobre dell’anno scorso, quando avevo creato già da diversi mesi la pagina. Non sapevo nemmeno che voce avesse, se non avessi trovato una sua intervista su Radio radicale. Semplicemente mi sono detto che volevo fare qualcosa per far conoscere questa vicenda, per non lasciarla finire nel dimenticatoio.»

E su che basi si è convinto dell’innocenza di Del Turco? «Mettendo insieme i pezzi. La sua giunta stava appianando il deficit nella Sanità, e questo poteva dare fastidio a chi approfittava di altri tipi di benefits, come magari un imprenditore quale Angelini, il suo accusatore. Quando ho letto delle indagini su Angelini, mi sono persuaso. Così ho creato la pagina Facebook. Ho ripreso tutti i piccoli articoli, gli interventi che leggevo in giro e poi le dirette di Radio radicale e li ho resi pubblici. La pagina l’ho avviata a maggio 2013: all’inizio contava giusto un centinaio scarso di persone.»

E Del Turco? Lo ha conosciuto? «Sì, qualche tempo dopo su facebook ho preso contatti diretti con lui. Gli ho detto: «Vorrei fare qualcosa per te, ma non per un tornaconto personale». A ottobre 2012 ci siamo conosciuti per la prima volta di persona. E finora è stato anche l’unico incontro. Non abbiamo parlato di carcere o della sua vicenda giudiziaria, ma conversato di tutt’altro, ed è stato bello. Ero emozionato, e anche lui immagino. Gli occhi si illuminavano quando parlava di musica. Nonostante quello che gli è capitato, questa persona aveva la forza di emozionarsi dentro, mentre noi spesso ci inaridiamo per molto meno.»

Del Turco di recente ha voluto ringraziarla, definendo la sua pagina “una finestra sul mondo”. «In queste ultime settimane in cui la difesa ha iniziato a demolire le accuse, la stampa ha ripreso a parlare della vicenda con completezza, e noi siamo arrivati a 700 persone fisse in pochi giorni. Ho ripubblicato allora alcuni articoli di giornale. Ciò che rende facebook un motore potentissimo è che le attività delle persone vengono condivise in un passaparola che può diventare esponenziale. Così è successo anche per noi: abbiamo ripubblicato le immagini dei titoli che smascheravano alcune incongruenze di questa vicenda, su Il Giornale, Repubblica, e L’Unità. C’è stato un tam tam pazzesco. Non è merito mio: secondo me ‘è solo gente che ha voglia che sia fatta giustizia davvero. E questo spazio è stato un modo anche per Del Turco di raccontarsi, sebbene non dovesse fare niente, perché pubblico tutto io. Ecco: è una finestra sul mondo.»

Cosa l’ha colpita di più di questa sua attività? «Ho voluto che questa pagina fosse un posto libero, dove ognuno può esprimere la propria opinione. Ho notato così che ci sono stati molti messaggi di incoraggiamento, ma anche altri che invece mi raccontavano altre storie: “Colgo l’occasione di segnalare la vicenda del detenuto x o y ingiustamente carcerato”. Ecco, per me il senso di questa pagina è proprio questo, riportare fuori dalla sabbia, dalla cenere, vicende di malagiustizia che sono dimenticate ma non ancora concluse, e perciò vanno raccontate, perché sino ad oggi, anche quando se ne è parlato, lo si è fatto in modo parziale. Non mi piace invece quando qualche utente strumentalizza questo spazio o le vicende per parlare di politica. E tra le miriadi di post di incoraggiamento, c’è anche qualche insulto. Ma tutto questo l’ho lasciato comunque, perché se faccio una pagina per chiedere verità e giustizia, non sarò certo io a censurare alcunché.»

Intanto il processo cosa dice?

Le questioni relative alla giustizia e al suo pessimo funzionamento tornano ciclicamente d’attualità, scrive Walter Vecellio su Notizie Radicali. L’attualità, beninteso, scandita dai giornali e dai mezzi di comunicazione (per non dire di una classe politica, che non perde occasione per rivelarsi e dimostrarsi sorda e miope), perché chi ha la sventura di rimanervi impigliato, quell’“attualità” la conosce bene. E non ci si riferisce tanto alle iniziative di Silvio Berlusconi, e alle chiassate a palazzo di Giustizia di Milano dei suoi deputati, seguita dalla minaccia di gettare il paese nel caos. Piuttosto si pensa a vicende come quella che ha per protagonista Ottaviano Del Turco. E’ il 14 luglio 2008, Del Turco era presidente della Regione Abruzzo quando viene arrestato con l’accusa di corruzione sugli appalti sanitari regionali. Prove schiaccianti, assicurarono gli inquirenti, grazie alla testimonianza, determinante e decisiva, dell’ex re delle cliniche private della regione, Vincenzo Angelini. Cinque anni dopo di quelle prove schiaccianti e inoppugnabili non c’è traccia; solo che a svelare l’inconsistenza di tutto il castello accusatorio non sono stati gli inquirenti, che pure facilmente e doverosamente avrebbero dovuto e potuto farlo, ma la difesa di Del Turco. Chi doveva e poteva vedere, non ha voluto e potuto. Così sono trascorsi cinque anni. Del Turco ha patito una lunga e dolorosa carcerazione, è stato costretto alle dimissioni, la sua giunta travolta. Chi chiede scusa, ora? Anche se non c’è, evidentemente, risarcimento che possa sanare tutto ciò. Quel che è più grave è che chi sbaglia non paga mai. Intanto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha nuovamente condannato il nostro paese, per irragionevole durata dei processi. Nel caso specifico, la Corte rileva che «la procedura fallimentare di un creditore è durata circa 16 anni e 1 mese per un grado di giurisdizione”. Segue la formula incollata in tutte le sentenze di condanna: «La Corte a più riprese ha trattato delle istanze che sollevavano questioni simili a quella del caso di specie ed ha constatato una ignoranza/incomprensione dell'esigenza del «termine ragionevole», considerando i criteri derivanti dalla sua ben consolidata giurisprudenza in materia”. E c’è ancora chi dice che quella della Giustizia, di come non viene amministrata, la questione del diritto e della legalità violata, non sono le vere, grandi urgenze di questo paese, e rimprovera ai radicali l’errore di crederlo, e di operare di conseguenza!

Il castello di carte è venuto giù, quasi improvvisamente, con quello che Vincenzo Angelini ha chiamato un «coup de theatre», scrive Roberto Rossi sul “L’Unità”. Perché è stato proprio questo: un colpo di scena. Al processo contro Ottaviano Del Turco in corso a Pescara la credibilità dell’ex re delle cliniche d’Abruzzo, nonché principale teste, Angelini appunto, è franata in un istante. Ed è crollata proprio su quella che era stata la prova regina: la foto o, meglio, le foto. Famose, famosissime, la pistola fumante con la quale la Procura di Pescara ordinò l’arresto dell’ex governatore nel luglio 2008. In tutto erano tredici e rappresentavano il fulcro dell’accusa allora guidata dal procuratore Nicola Trifuoggi. Le principali, tutte consequenziali, ritraevano le varie fasi del pagamento della tangente a Del Turco: il denaro dentro una busta di carta, una sagoma che entrava nella casa dell’ex presidente della Regione a Collelongo e, infine, una busta identica alla prima ma piena di mele e noci. Per tutta la durata del processo l’ex imprenditore della sanità abruzzese, a giudizio a Chieti per bancarotta, ha messo sempre una data certa a quegli scatti: il 2 novembre 2007. Ma da ieri foto e giorno non corrispondono più. Gli scatti sono stati fatti prima, nel 2006.  Angelini, dunque, secondo le prove della difesa, mente. Su quelle foto, su quella data, ha costruito una larga fetta della sua credibilità, mentre la procura ha montato troppo in fretta l’accusa. Senza quella data saltano le ricostruzioni della presunta concussione perpetrata dalla giunta del Turco e il quadro processuale diventa uno schizzo astratto. E il castello frana. Ma come si è riusciti a retrodatare quelle foto? Per capire come si è materializzato il colpo di teatro si deve partire dall'analisi della macchina fotografica di proprietà proprio di Vincenzo Angelini. Ed è quello che ha fatto il consulente tecnico della difesa, Giacomo Gloria, sul materiale fornito dalla Procura pescarese. Gloria non ha fatto nulla di particolare se non analizzare la memoria della macchina stessa, una comunissima Panasonic Dmc-Fz25. Nonostante qualche scatto sia stato cancellato a mano, nella memoria della Panasonic ci sono 132 foto. Quasi tutti leggibili, tranne qualcuna sovrascritta. Ogni scatto ha un nome e una numerazione progressiva, assegnato in automatico proprio dalla stessa macchina e non modificabile se non lasciando una traccia. Dunque, le 132 foto sono tutte consequenziali e non sono state manomesse. Le prime ottanta non hanno una grande valore processuale. Ci sono ritratte delle belle auto, di cui Angelini amava circondarsi. Solo una può dirsi importante: vi si vede una signora, una collaboratrice dell’imprenditore, che legge un giornale. Il quotidiano porta la data del 16 giugno 2006. La foto, la numero 48, è rilevante perché permette di stabilire con certezza una data di partenza. La macchina fotografica è stata usata sicuramente per la prima volta dopo quel giorno. E poi, quando? Il problema è proprio questo, quando? Secondo Angelini, gli scatti successivi, da 82 a 95, quelli della presunta tangente, porterebbero la data del 2 novembre 2007. Cioè un anno e mezzo dopo. E queste foto hanno elementi che consentono una datazione? No, ma le successive sì. Perché, nonostante dalla macchina fotografica qualcuno le abbia cancellate, ci sono degli scatti rimasti in memoria successivi a quelli della probabile mazzetta. Sono quelli che vanno da 96 a 132. Recuperati dallo stesso tecnico della procura ma non utilizzati dai magistrati. Ritraggono una piccola frana dovuta a una rottura di condotta presso la zona dei depuratori di Villa Pini, la clinica più grande posseduta da Angelini (oggi all'asta), e alcuni lavori di manutenzione. Chi li ha fatti? La ditta Emoter. E quando? In un periodo compreso tra settembre e novembre 2006. La difesa, guidata dall'avvocato Giandomenico Caiazza, ne è certa. Tanto che sul banco dei testimoni ha chiamato il proprietario della società, Filippo Colanzi, e l’architetto che diresse i lavori, Fabio Pacillo, a confermare il tutto con fatture e bolle alla mano. Inoltre, proprio quell'area, a seguito dello smottamento, il 30 giugno 2006 fu sottoposta a sequestro dal Corpo forestale dello Stato e successivamente, il 14 settembre 2006 temporaneamente dissequestrata per permettere l’esecuzione dei lavori. Addirittura l'architetto ricorda anche che la frana fu fotografata dallo stesso autista di Angelini, Dario Sciarrelli. Se con la stessa macchina lo si può solo supporre. Ma è un particolare secondario. Quello che interessa, invece, è altro. Secondo la memoria della macchina fotografica, le istantanee che dovrebbero accusare Ottaviano Del Turco furono fatte un anno e mezzo prima di quello dichiarato in aula da Angelini, in un periodo che può essere collocabile tra il marzo del 2006 e il novembre dello stesso anno (in base ai lavori di riparazione, al sequestro del corpo forestale e, da ultimo, alle fatture della Emoter). Perché, allora, Angelini avrebbe mentito? E perché la procura non ha considerato di visionare tutta la memoria della macchina fotografica? Tra l’altro non è l’unica manchevolezza da parte dei pm. In cinque anni di indagini, ad esempio, non hanno mai acquisito i telepass dell’auto che la Regione aveva messo a disposizione per Ottaviano Del Turco. È importante? Certo. Ieri, infatti, grazie alla testimonianza degli autisti e ai loro rapporti di servizio, con i quali registravano tutti gli spostamenti dell’ex governatore, si è intuito che Angelini potrebbe aver mentito ancora. Perché mentre l’ex re delle cliniche, ieri cacciato dall’aula su ordine del presidente Carmelo De Santis per ingiurie nei confronti del collegio difensivo e della stampa, sosteneva di essere ricevuto a Collelongo, Del Turco avrebbe potuto trovarsi altrove. Magari in missione con la propria auto. Per capire meglio questo punto, tra l’altro, il Tribunale ha ordinato l’acquisizione dei movimenti telepass relativi proprio all’auto blu di Del Turco. Inoltre il tribunale ha anche ordinato di acquisire dalla società Autostrade tutti i movimenti di entrata al casello dell’auto di Angelini. Per poter meglio comprendere come sia possibile, ad esempio, viaggiare a 185 chilometri orari di media sull'autostrada A25 con i lavori in corso. Finora Angelini ha attribuito qualità magiche al suo autista. La procura gli ha creduto. Ma l’imprenditore ha dimostrato di non essere affidabile. Il castello è crollato. Rimetterlo in piedi sarà arduo.

LE RISATE SULL'AQUILA.

La risata del prefetto Iurato: "All'Aquila finsi commozione", scrive “La Repubblica”. Dalle intercettazioni emerge che, parlando con il suo collega Gratteri, ammette ridendo di avere "finto commozione" visitando la Casa dello studente distrutta dal sisma. Gli avvocati: "Fuorviante cogliere frammenti di lunghe conversazioni intercettate: il prefetto in oltre due anni di presenza sul territorio dell'Aquila ha dato prova di grande abnegazione e disponibilità". L'ex capo della polizia Izzo interdetto dai pubblici uffici. Poco dopo il suo insediamento nella carica di Prefetto dell'Aquila, città sconvolta dal terremoto, Giovanna Iurato "scoppiava a ridere ricordando come si era falsamente commossa davanti alle macerie e ai bimbi rimasti orfani". E' quanto stigmatizzano i pm di Napoli commentando una telefonata del prefetto intercettata. I magistrati napoletani - titolari dell'inchiesta sugli appalti per la sicurezza nell'ambito della quale Iurato è indagata per turbativa d'asta - fanno riferimento a una telefonata fra la stessa Iurato e il prefetto Francesco Gratteri, intercettata il 28 maggio 2010. "Commentando la sua prima giornata ufficiale - scrivono i pm - nella città martoriata dal terremoto (definita sarcasticamente da Iurato "una citta' inesistente, che non c'e"), scoppiava a ridere, ricordando come si era (falsamente) commossa davanti alle macerie e ai bambini rimasti orfani. Una risata non giustificabile dalle circostanze e dagli eventi tragici di quelle ore, che avrebbero imposto al rappresentante del Governo di assumere comportamenti ben diversi e non certo (a proposito di cinismo) legati alla predisposizioni di condotte e strumenti atti a prevenire e/o scongiurare indagini in corso". La vicenda è riportata nella richiesta di misure cautelari firmata dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e dai pm della Dda Vincenzo D'Onofrio, Raffaello Falcone e Pierpaolo Filippelli.

Le intercettazioni

"Appena metti piede in città, subito con una corona, vai a rendere omaggio ai ragazzi della casa dello studente". E' il consiglio che Giovanna Iurato, appena nominata prefetto dell'Aquila, ricevette dal padre. E' uno dei passaggi della telefonata intercorsa il 28 maggio 2010 tra Iurato e il prefetto Francesco Gratteri, intercettata nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Napoli sugli appalti per la sicurezza. I pm partenopei esprimono severi giudizi sul tono della telefonata, in cui emergerebbe la falsa commozione del prefetto:

IURATO: «Allora senti...sono andata...sono arrivata, subito mio padre, che è quello che mi da i consigli, quelli più mirati...»

GRATTERI: «Si lo so.»

IURATO: «...perchè è un uomo di mondo, saggio, dice: "...appena metti piede in città subito con una corona vai a rendere omaggio ai ragazzi della casa dello studente...".»

GRATTERI: «Brava.»

IURATO: «Eh allora sono arrivata là, nonostante la mia...cosa che volevo...insomma essere compita (fonetico)...mi pigliai, mi caricai questa corona e la portai fino a...»

GRATTERI: «Ti mettesti a piangere...sicuramente!»

IURATO: «Mi misi a piangere.»

GRATTERI: «Ovviamente, non avevo dubbi (ride).»

IURATO: «Ed allora subito...subito...lì i giornali: "le lacrime del Prefetto".»

GRATTERI: «Non avevo dubbi (eh, eh ride).»

IURATO: «Ehhhhhhh (scoppia a ridere) i giornali : "le lacrime del Prefetto".»

GRATTERI: «Non avevo dubbi (eh, eh ride).»

IURATO: «Poi si sono avvicinati i giornalisti: "perchè è venuta qua?". Perchè voglio cominciare da qui, dove la città si è fermata perchè voglio essere utile a questo territorio. Punto.»

GRATTERI: «Eh.»

IURATO: «L'indomani conferenza stampa con tutti i giornalisti.»

Gli avvocati

Gli avvocati Claudio Botti e Renato Borzone, difensori del prefetto Iurato, affermano: "E' sempre fuorviante cogliere frammenti di lunghe conversazioni intercettate: il prefetto in oltre due anni di presenza sul territorio dell'Aquila ha dato prova di grande abnegazione e disponibilità senso del dovere nei confronti di quella realtà e dei suoi cittadini".

Il prefetto Izzo

E' stata intanto disposta dal giudice di Napoli l'ordinanza di interdizione dal servizio chiesta nei confronti dell'ex capo della polizia Nicola Izzo e dello stesso prefetto Giovanna Maria Iurato, richiesta dalla Procura di Napoli nell'inchiesta sugli appalti per la sicurezza. I due alti dirigenti sono indagati per turbativa d'asta nel capitolo che riguarda l'appalto per il centro Cen di Capodimonte.

Mercoledì Izzo aveva fatto sapere al giudice che non si sarebbe presentato all'interrogatorio ritenendo l'autorità giudiziaria napoletana non competente per territorio sulla base di quanto affermato dalla Procura generale della Cassazione nel provvedimento di risposta a un'istanza della difesa. La Iurato invece aveva risposto per oltre sette ore alle domande del giudice respingendo tutte le accuse. Izzo è assistito dagli avvocati Bruno La Rosa e Franco Coppi, che preparano appello contro la misura per riproporre la questione di competenza e sostenere la carenza di indizi ed esigenze cautelari. Anche i legali della Iurato faranno appello contro l'interdizione disposta dal gip nei confronti della loro assistita: "Siamo molto stupiti che sia stata emessa la misura nonostante le oltre sei ore di interrogatorio e di puntuali chiarimenti forniti al giudice in quella sede. E siamo certi che, quanto prima, si riuscirà a dimostrare l'assoluta estraneità ai fatti".  Le indagini sono condotte dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza e coordinate dai pm Vincenzo D'Onofrio, Raffaello Falcone e Pierpaolo Filippelli con il procuratore aggiunto Rosario Cantelmo.

Poco dopo il suo insediamento nella carica di prefetto dell'Aquila, città sconvolta dal terremoto del 6 aprile 2009, Giovanna Iurato "scoppiava a ridere ricordando come si era falsamente commossa davanti alle macerie e ai bimbi rimasti orfani", scrive “Abruzzo web”. È quanto stigmatizzano i pm di Napoli commentando una telefonata del prefetto intercettata. Anche alla luce di queste risultanze, il giudice per le indagini preliminari di Napoli Claudia Picciotti ha firmato un'ordinanza di interdizione dai pubblici uffici nei della Iurato. La diffusione delle intercettazioni ha scatenato un turbine di polemiche. Particolarmente toccati dalle risate e dalle false lacrime, com'era prevedibile, i familiari delle vittime e in particolare dei ragazzi morti proprio alla Casa dello studente: "Dovrebbe essere nei nostri panni così piangerebbe davvero", il commento di una mamma a cui il sisma ha portato via il figlio. A questa e altre dichiarazioni sdegnate fanno da contraltare quelle degli avvocati della Iurato, che assicurano che da parte della loro assistita c'è stata "abnegazione verso i cittadini colpiti dal sisma". I magistrati napoletani, titolari dell'inchiesta sugli appalti per la sicurezza nell'ambito della quale Iurato è indagata per turbativa d'asta, fanno riferimento a una telefonata fra la stessa Iurato e il prefetto Francesco Gratteri, intercettata il 28 maggio 2010. "Commentando la sua prima giornata ufficiale - scrivono i pm - nella città martoriata dal terremoto (definita sarcasticamente da Iurato 'una città inesistente, che non c'è'), scoppiava a ridere, ricordando come si era (falsamente) commossa davanti alle macerie e ai bambini rimasti orfani". "Una risata non giustificabile dalle circostanze e dagli eventi tragici di quelle ore - proseguono i pm - che avrebbero imposto al rappresentante del governo di assumere comportamenti ben diversi e non certo (a proposito di cinismo) legati alla predisposizioni di condotte e strumenti atti a prevenire e/o scongiurare indagini in corso". La vicenda è riportata nella richiesta di misure cautelari firmata dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e dai pm della Dda Vincenzo D'Onofrio, Raffaello Falcone e Pierpaolo Filippelli.

LE REAZIONI

"La Iurato dovrebbe trovarsi nei nostri panni, allora sì che capirebbe cosa vuol dire piangere lacrime vere". È il grido disperato di una madre che ha perso il figlio nel crollo della Casa dello studente, Annamaria Cialente, a rompere il silenzio sdegnato tra i familiari delle vittime che assistono al processo dopo aver appreso delle intercettazioni in cui l'ex prefetto dell'Aquila rideva, ammettendo di aver pianto per finta proprio davanti a quel simbolo tragico del sisma del 2009. Una notizia sconvolgente, impossibile da metabolizzare, che ha lasciato senza parole molti, che ha guastato anche il pranzo a metà udienza, dopo un'ennesima mattinata di attesa, quando sul telegiornale nazionale appare il volto noto dell'ex rappresentante del governo e lo stomaco si chiude. "Che pensiamo? Che dobbiamo pensare ormai?", ribatte con una domanda la Cialente ai cronisti che le chiedono un commento a questa notizia grottesca. "Ci siamo contornati di gente che dovrebbe vergognarsi. Qualcuno si è messo a ridere perché avrebbe trovati i profitti", sbotta, ricordando l'imprenditore Francesco Piscicelli che pochi minuti dopo la scossa già pregustava il bottino della ricostruzione. "Gente falsa che non ha mostrato sentimenti veri", è invece la valutazione riservata con disprezzo all'ex prefetto. "Mio figlio, Francesco Esposito, è l'ottavo morto della Casa dello studente ed è morto per colpa di chi, oggi, si lava la coscienza", conclude la donna. La reazione è di sbigottimento ma anche "di pena e di disprezzo": i familiari delle vittime della Casa dello studente dell'Aquila sono sotto shock per l'intercettazione in cui l'ex prefetto della città, Giovanna Maria Iurato, dice di aver riso pensando alla sua finta commozione durante la visita, appena nominata prefetto, davanti allo studentato dove morirono otto ragazzi nel sisma del 2009. "Se questi sono gli uomini dello Stato bisogna trovarne altri. Questi soggetti rappresentano solo fame di potere. Non sono rappresentanti delle istituzioni", afferma Antonietta Centofanti, rappresentante dei familiari delle vittime. Le nuove risate sul sisma dell'Aquila, dopo quelle dell'imprenditore Francesco Maria Piscicelli ("Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto"), "sono l'esempio dell'ennesima situazione mediatica che ha scandito questo nostro tempo durissimo - racconta la Centofanti - La più crudele e pazzesca è questa del prefetto Iurato; la più tragica quella messa in atto dalla commissione Grandi rischi su ordine di Guido Bertolaso". "Trovo che non ci siano parole per raccontare ciò che sta accadendo in questa città, quanta mancanza di pietà c'è". Antonietta Centofanti, aquilana, nel sisma del 2009 ha perso il nipote Davide proprio nel crollo della Casa dello studente. Il suo sentimento, e quello di tanti altri cittadini, è di "grande solitudine" ma c'è anche "disprezzo per questa donna, che forse è anche una madre, e forse anche un po' di pena perché ci troviamo di fronte a una figura di scarsissimo spessore", conclude. "La lettura delle intercettazioni dell'ex prefetto Iurato mi ha colpito a tal punto da provocarmi un forte e doloroso senso di nausea. Ancora una volta, si dimostra che L'Aquila ed il terremoto sono stati, da troppi, trattati come un macabro teatrino, dove fingere dolore e improvvisare lacrime, strumentalizzando bambini e vittime del terremoto". Lo dice l'assessore al Comune dell'Aquila Stefania Pezzopane. "Noi che invece abbiamo pianto davvero - ha aggiunto - in un pianto collettivo di 100 mila persone, proviamo ribrezzo oltre che rabbia, per quello che ci tocca ancora sopportare. Non bastavano gli imprenditori Piscicelli e co. a ridere di noi". "Non bastavano Letta e Berlusconi preoccupati, alla vigilia dei funerali di Stato, che Bertolaso li sistemasse in posizione utile da far vedere al mondo la loro sentita commozione. Ci mancava anche una donna, Prefetto, inviata dal governo Berlusconi, a far lacrime finte e a riderci sopra. Un orrore. Un prefetto appena insediato che deride gli aquilani e si gratifica che i giornalisti presenti abbiano titolato le sue lacrime. Insomma è lusingata di aver ingannato i giornalisti e la città intera". "E l'interlocutore, altro uomo dello Stato che si diverte insieme a lei sulla nostra tragedia. Un'indecenza. Persone così - conclude Pezzopane - non possono svolgere compiti pubblici. Si inginocchi lì dove ha versato lacrime finte e chieda perdono, se ne ha il coraggio, a quei bambini vittime del terremoto a cui ha dedicato il suo sarcasmo". "Nei due anni di presenza a L'Aquila il prefetto Giovanna Iurato ha dato ampia prova di attenzione, rispetto e grande senso di abnegazione nei confronti dei cittadini così duramente colpiti dalla tragedia del terremoto". Lo affermano gli avvocati Claudio Botti e Renato Borzone, legali dell'ex prefetto del capoluogo abruzzese. I due legali hanno commentato così una telefonata della Iurato nella quale, secondo la procura, il prefetto userebbe un tono ironico parlando del sisma che aveva colpito L'Aquila. Quanto all'interdizione dai pubblici uffici disposta dal gip di Napoli, gli avvocati esprimono "stupore per l'adozione del provvedimento nonostante i precisi chiarimenti dati al gip durante il lungo interrogatorio cui Iurato si è sottoposta". Botti e Borzone si dicono "certi che quanto prima si riuscirà a dimostrare la completa estraneità ai fatti contestati". "Ci sto malissimo. La verità è una: mi sto accorgendo, a mano a mano che escono retroscena della vicenda aquilana, che abbiamo avuto tanta gente a lavorare con noi ma nessuno è entrato fino in fondo in questo dramma". Non solo in quanto sindaco ma come uomo e cittadino dell'Aquila, Massimo Cialente è attonito per le frasi shock del prefetto Giovanna Iurato. Il primo cittadino ha abbandonato la linea 'prudente' che ha avuto con AbruzzoWeb quando una settimana fa ha commentato la richiesta d'interdizione dai pubblici uffici: "Son convinto che chiarirà, l'ho conosciuta sul lavoro come una persona fin troppo attenta nei lavori che svolge", aveva detto allora. Quello che emerge, dichiara Cialente, "è la solitudine di questa comunità". "La cosa di quell'intercettazione che più mi colpisce - prosegue Cialente - è l'interlocutore della Iurato (il prefetto Francesco Gratteri) che questo racconto lo vive come fosse una cosa esterna". Il sindaco del capoluogo ricorda bene la commozione di Giovanna Iurato, poi rivelatasi falsa secondo i pm napoletani, perché conobbe il prefetto proprio quel giorno del maggio 2010, quando il prefetto appena nominato, alla presenza del primo cittadino, posò una corona di fiori davanti alla Casa dello studente dell'Aquila in memoria degli otto ragazzi morti nel crollo dell'edificio la notte del sisma. "La Iurato mi colpì - dichiara Cialente - e l'ho sempre vista molto partecipe. Ma la cosa che molto mi sorprende sono le sottolineature dell'interlocutore: questo fa capire come il dramma aquilano, che stiamo ancora vivendo al 100 per cento, da molti non sia stato compreso". "È una cosa molto triste ma non esprimo giudizi, perché le cose vorrei conoscerle nella loro interezza e nel contesto in cui si sono sviluppate". Così il ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri ai cronisti che le hanno chiesto un commento sulle considerazioni del prefetto Giovanna Iurato sulle vittime del terremoto all'Aquila, intercettata mentre parlava al telefono con l'ex capo dello Sco Franco Gratteri.

Ancora risate sul terremoto, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. "Grasse risate...", trascrive l'agente della sala intercettazioni della Procura di Pescara, mentre ascolta un imprenditore. E' l'estate del 2009, quella dei cantieri "miracolo" del Governo Berlusconi. In tv, gli italiani seguono con commozione il conto alla rovescia per la consegna delle case e delle scuole. Ma al telefono, pensando agli affari, Carlo Strassil (che in quel momento non sa di essere indagato per la vicenda di un'opera pubblica fantasma in provincia di Pescara) se la ride. un altro appalto finisce sotto i riflettori del magistrato Gennaro Varone (titolare dell'indagine): quello dei "certificati di agibilità" delle scuole dell'Aquila. Ventiquattro scuole. Un appalto pubblico (da 600 mila euro) che in pochi mesi si scopre essere stato ideato proprio da Strassil. Per affidarlo a se stesso. E così lo Stato paga, con i soldi del terremoto, un lavoro "inventato", e costato trecento volte di più del necessario, sostiene l'accusa. Il "complice" - è scritto nell'informativa della notizia di reato redatta dal Corpo Forestale di Pescara - è Gianni Guglielmi. Guglielmi, in quel momento, è Provveditore delle opere pubbliche per Lazio, Sardegna e Abruzzo.

Ora, invece, è il Provveditore per la Campania, e da pochi giorni è stato anche nominato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri commissario straordinario per il risanamento del fiume Sarno. Per l'appalto delle scuole ora Guglielmi è indagato per corruzione e abuso d'ufficio, e l'indagine - per competenza - da Pescara è passata all'Aquila, a un magistrato della distrettuale antimafia: Antonella Picardi.

Ed ancora. Piscitelli all’amo quando venne arrestato con l’accusa di corruzione negò tutto. Adesso che a capito di essere l’unico a pagare in un acricca di corruzione molto più estesa, ha deciso di parlare e spara accuse a funzionari, magistrati ed al commissario per i mondiali di nuoto Claudio Rinaldi. Sono finite le risate per l’imprenditore che si rotolava nel letto godendo all’idea degli appalti in arrivo grazie al sisma dell’Aquila, ai PM ha raccontato di mazzette in contanti, regali e favori…scrive Marco Lillo per "Il Fatto Quotidiano". Francesco De Vito Piscicelli sta parlando. La Procura di Roma non vuole commentare la notizia pubblicata ieri dal Messaggero e dal Corriere della Sera perché le indagini sono solo agli inizi ma una cosa è certa: l'imprenditore che si rotolava nel letto ridendo all'idea degli appalti in arrivo grazie al sisma dell'Aquila, l'uomo simbolo dell'inchiesta della Cricca, capace di atterrare contro legge e contro vento sulla spiaggia di Ansedonia per pranzare con mammà, incurante dell'arresto e del processo in corso, ha deciso di fare il pentito. Piscicelli era stato arrestato nel marzo del 2010 dai pm di Firenze con l'accusa di avere corrotto, insieme al patron della BTP Riccardo Fusi, i due funzionari pubblici della presidenza del consiglio Angelo Balducci e Fabio De Santis per l'appalto della scuola dei marescialli di Firenze. Quando era stato interrogato in carcere dai pm fiorentini aveva negato tutto. Quando gli avevano mostrato la fattura da 9 mila e 800 euro per il soggiorno di Carlo Malinconico (poi sottosegretario alla presidenza del consiglio con Monti) in un hotel dell'Argentario, Piscicelli aveva giurato: "mai pagato nulla a Malinconico, sarà un disguido". Ora il processo per la scuola dei marescialli è stato trasferito a Roma e il dibattimento procede spedito verso la sentenza. Proprio con i pm romani l'imprenditore ha parlato di mazzette in contanti, regali e favori ai funzionari della Presidenza del consiglio. Ovviamente l'imprenditore ha vestito i panni del concusso, costretto dai potenti a pagare per poter lavorare ma ora i Carabinieri del Ros di Firenze coordinati dal tenente colonnello Domenico Strada stanno verificano le sue parole. Il procuratore aggiunto di Roma Alberto Caperna e i due sostituti Ilaria Calò e Roberto Felici si sono limitati a prendere atto delle sue spontanee dichiarazioni e non hanno verbalizzato veri e propri interrogatori. Per ora. La collaborazione di Francesco De Vito Piscicelli appare un fiume impetuoso che deve solo essere irregimentato e promette sviluppi importanti. A spingere l'imprenditore a fare il grande passo sarebbe stata la sensazione di essere l'unico capro espiatorio di una trama di corruzione molto più estesa. Estromesso dal gran giro degli appalti dei grandi eventi, additato al pubblico ludibrio come una sorta di "nuovo mostro", De Vito Piscicelli ha deciso di togliersi i sassolini dalla scarpa. Il primo è la mazzetta pagata per ottenere l'appalto delle piscine dei mondiali di nuoto del 2009. La sua azienda, Opere Pubbliche, era entrata nel consorzio che si era aggiudicata la gara da 8,8 milioni per l'impianto di Valco San Paolo a Roma. I lavori sono costati alla collettività 16 milioni di euro. Il polo però è stato inaugurato solo a beneficio dei giornali per essere poi chiuso dopo pochi giorni. Oggi sul Tevere c'è solo uno scheletro di cemento con tre piscine abbandonate all'interno delle quali cresce l'erba. Le mattonelle sono divelte e la zona è in completo stato di degrado e abbandono. Tutto questo non è accaduto senza responsabilità di Piscicelli e dei funzionari che lo dovevano controllare. Il Fatto due anni fa pubblicò le conversazioni telefoniche tra Piscicelli e il direttore dei lavori quando, prima ancora di essere inaugurata, l'opera già mostrava segni di cedimento e il tetto si inclinava pericolosamente ogni giorno. Il 28 luglio 2008 Piscicelli informa il commissario competente per la presidenza del consiglio sulle opere dei Mondiali di nuoto, Claudio Rinaldi, che i responsabili sicurezza fanno storie. Proprio Rinaldi lo tranquillizza: "lascia ... ascolta il tuo Commissario ... allora domani so che viene quello della sicurezza e porta proprio no? (...) è uno che ci protegge non so se è chiaro. Allora lascia perdere le cazzate scritte ... va bè comunque dietro siamo protetti non ti preoccupare". Il 25 maggio del 2009 il geometra De Rosa preoccupato chiama Piscicelli e gli comunica che il tetto si è inclinato di ben 15 centimetri. Ovviamente nessuno solleva problemi e l'impianto di Valco San Paolo viene inaugurato il 9 luglio 2009, con il commissario Claudio Rinaldi che gioisce: «Un impianto di assoluto prestigio». Secondo Il Messaggero, proprio Rinaldi sarebbe uno dei funzionari accusati da Piscicelli di avere preso una mazzetta proprio per l'appalto di San Paolo. Accuse tutte da riscontrare, come quelle rivolte ad altri funzionari e, secondo le indiscrezioni di stampa, ad alcuni magistrati. Nelle prossime settimane l'imprenditore sarà risentito. Chissà se la Procura gli chiederà di quelle fatture pagate per i soggiorni (irrilevanti penalmente ma non certo dal punto di vista dell'etica pubblica) del sottosegretario Malinconico all'hotel Pellicano di Porto Ercole.

Ha sborsato quasi 20mila euro per 3 soggiorni di Carlo Malinconico, dimissionario sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. “Fa parte dei giochi di qualsiasi colore essi siano” spiega all'albergatore Sciò in una telefonata. Francesco Maria De Vito Piscicelli, evidentemente, si aspettava qualche favore. Del resto il suo modo di fare affari era quello e non ha avuto nessun timore a dirlo davanti ai pubblici ministeri romani del pool coordinato dal procuratore aggiunto Alberto Caperna: “Per ottenere lavori ho sempre dovuto dare in cambio soldi e gioielli, ma anche assumere figli e parenti di chi gestiva le pratiche. Il progettista dei lavori che mi avevano assegnato in occasione dei Mondiali di Nuoto mi è stato imposto da uno dei funzionari della Ferratella”. Piscicelli era stato arrestato nel marzo del 2010 dai pm di Firenze, ottenendo i domiciliari 2 mesi dopo per problemi di salute: l'accusa per lui era quella di aver corrotto Angelo Balducci e Fabio De Santis per l’appalto della Scuola dei marescialli di Firenze, uno dei filoni dell'inchiesta Grandi eventi. Dopo il trasferimento del processo a Roma, Piscicielli ha iniziato a parlare, a togliersi sassolini dalla scarpa, a fare nomi e cognomi di funzionari e dirigenti cui allungava le mazzette, a dire la sua sugli appalti del G8 e sulla cricca. L'imprenditore tentò il suicidio nell'aprile dello scorso anno.

Francesco Maria De Vito Piscicelli è un nome noto ai più la telefonata del 6 aprile del 2009 , nella quale, assieme al cognato Gagliardi, rideva del terremoto in Abruzzo, pregustando già la pioggia di quattrini che l'emergenza avrebbe potuto portare nelle sue tasche:

Piscicelli: «Si.»

Gagliardi: «Oh, ma alla Ferratella occupati di sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito… Non è che c'è un terremoto al giorno!»

P: «No… Lo so (ride).»

G: «Così per dire… Per carità… Poveracci.»

P: «Vabbuò, ciao.»

G: «O no?»

P: «Eh certo… Io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro il letto.»

G: «Io pure… Vabbuò… Ciao.»

Un aneddoto molto curioso che riguarda Piscicelli risale allo scorso 26 dicembre, quando l'imprenditore parcheggiò l’elicottero sulla spiaggia di Ansedonia (invece che nello spazio dedicato della sua villa), prendendo poi la madre sotto braccio e portandola a mangiare al ristorante “Il cartello”, rinomato locale dell’Argentario. Piscicelli, raggiunto dai vigili urbani, cercò di discolparsi parlando delle avverse condizioni meteorologiche, circostanza che non lo ha salvato da una denuncia per uso improprio del demanio.

TERREMOTO DELL’AQUILA: CONDANNATI I MEMBRI DELLA “COMMISSIONE GRANDI RISCHI”.

Il resoconto su una sentenza epocale raccontato da tanti punti di vista.

Terremoto dell'Aquila, condannati membri commissione Grandi rischi. Ricordate il terremoto che rase al suolo L'Aquila nel 2009? Secondo la giustizia italiana poteva essere previsto. Condannati a sei anni tutti i membri della commissione Grandi rischi. Così scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale” Dopo trenta udienze il giudice del tribunale dell’Aquila ha condannato a sei anni di reclusione i membri della Commissione Grandi rischi che parteciparono alla riunione del 31 marzo 2009 sugli eventi sismici all’Aquila, rassicurando i cittadini. L’accusa aveva chiesto la condanna a quattro anni. La difesa aveva puntato, invece, sulla impossibilità di prevedere i terremoti, posizione sostenuta da diversi ricercatori internazionali. Nella sentenza di condanna il giudice ha disposto, a titolo risarcitorio, una provvisionale che sfiora i sei milioni di euro per le parti civili di cui oltre due milioni di euro immediatamente esecutiva. Il giudice Marco Billi ha ritenuto i sette membri della commissione - l’organo tecnico-consultivo della presidenza del Consiglio, nella sua composizione del 2009 - tutti colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Ecco chi sono i condannati: Franco Barberi, presidente vicario della Commissione Grandi rischi; Bernardo De Bernardinis, già vicecapo del settore tecnico del Dipartimento della protezione civile; Enzo Boschi, all’epoca presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia; Giulio Selvaggi, direttore del Centro nazionale terremoti; Gianmichele Calvi, direttore Eucentre; Claudio Eva, ordinario di Fisica all’Università di Genova; Mauro Dolce, direttore Ufficio rischio sismico della protezione civile.

I pm: volevamo solo capire i fatti. "Non ci sono commenti da fare - dice il pm Fabio Picuti - se non quelli del giudice che ha letto la sentenza: tutto il filo conduttore del processo non era la ricerca di colpevoli, ma quella di capire i fatti, perché noi con il compianto procuratore capo, Alfredo Rossini, volevamo solo capire i fatti. L’Aquila - ha spiegato - ha consentito che si tenesse questo processo delicato e si arrivasse a sentenza".

Gli avvocati: ci saranno grosse ripercussioni. "Una sentenza sbalorditiva e incomprensibile, in diritto e nella valutazione dei fatti", ha detto l’avvocato Marcello Petrelli, difensore del professor Franco Barberi. "Una sentenza che non potrà che essere oggetto di profonda valutazione in appello". "Questa sentenza avrà grosse ripercussioni sull’apparato della pubblica amministrazione. Nessuno farà più niente", ha evidenziato l’avvocato Filippo Dinacci, difensore dell’ex vicecapo della Protezione civile e attuale presidente dell’Ispra, Bernardo De Bernardinis, e del direttore del servizio sismico del dipartimento della Protezione civile, Mauro Dolce.

De Bernardinis: innocente davanti a Dio e agli uomini. Uno dei condannati, il professor De Bernardinis, commenta così la sentenza: "Mi ritengo innocente di fronte a Dio e agli uomini. La mia vita da domani cambierà, ma se saranno dimostrate le mie responsabilità in tutti i gradi di giudizio - ha aggiunto - le accetterò fino in fondo". "Il processo ha sviscerato molte cose che dovranno trovare conferma negli altri gradi di giudizio". Poi ha aggiunto: "Non c’erano le condizioni per fare scelte diverse, quelle erano le scelte che potevo fare. Io avrei voluto evitare non solo questi morti, ma anche quelli del ’94 in Piemonte e in Irpinia".

Boschi: sono avvilito e disperato. L'ex presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), Enzo Boschi: "Sono avvilito, disperato. Pensavo di essere assolto. Ancora non capisco di cosa sono accusato".

I geologi: ingiuste accuse al mondo scientifico. Se la sentenza "dovesse riguardare la mancata previsione del sisma, ciò significherebbe mettere sotto accusa l’intera comunità scientifica che, ad oggi, in Italia e nel mondo, non ha i mezzi per poter prevedere i terremoti", ha detto il presidente del Consiglio dei geologi, Gianvito Graziano. "Tuttavia - precisa - penso che l’accusa non vertesse sulla mancata previsione del terremoto, bensì su un comportamento omissivo della commissione rispetto ad una situazione di rischio, sottolineando comportamenti non diligenti. Se di ciò si tratta - conclude il presidente dei geologi - è necessario leggere attentamente la sentenza per capire in cosa, esattamente, i membri della Commissione Grandi rischi abbiano peccato".

Il sindaco dell'Aquila: vogliamo giustizia per il dopo. Quando nell’assemblea a piazza Duomo all’Aquila, convocata dal sindaco Massimo Cialente per parlare della restituzione delle tasse, è arrivata la notizia della sentenza è partito un lungo applauso. Cialente ha spiegato che "volevamo questa sentenza per capire, ma il dramma non si cancella. Il comune si era costituito parte civile per chiedere giustizia: ma ora la giustizia la vogliamo anche per tutto quello che è successo dopo il 6 aprile".

Pezzopane: finalmente giustizia. Stefania Pezzopane, che il 6 aprile del 2009 ricopriva la carica di Presidente della Provincia dell’Aquila, è soddisfatta: "Ci voleva coraggio e i giudici ne hanno avuto. Finalmente un po' di giustizia per L’Aquila. Avevo già denunciato l’inganno e la superficialità dei quali si era resa colpevole la Commissione Grandi Rischi. Oggi più che mai sento tutto il dolore per l’inganno che abbiamo subìto".

Schifani: sentenza imbarazzante. "È una sentenza un po' strana e un po' imbarazzante" per cui "chi sarà chiamato in futuro a coprire questi ruoli si tirerà indietro". Lo ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani a Porta a Porta la sentenza. "Bisogna vedere le motivazioni", ha aggiunto, sottolineando di augurarsi che da lì "emergano scelte inoppugnabili da parte dei magistrati in questa sentenza".

Storica condanna per i membri della commissione Grandi rischi: sei anni di reclusione per tutti gli imputati, sei esperti e il vice direttore della protezione civile, Bernardo De Bernardinis. Così scrive “Il Corriere della Sera”. È questa la decisione del giudice unico Marco Billi che ha condannato i componenti della commissione Grandi rischi, in carica nel 2009. I sette avevano rassicurato gli aquilani circa l'improbabilità di una forte scossa sismica che invece si verificò alle 3.32 del 6 aprile 2009. L'accusa nei loro confronti era di omicidio colposo, disastro e lesioni gravi, per aver fornito rassicurazioni alla popolazione aquilana, in una riunione avvenuta solo una settimana prima del sisma. I pm hanno chiesto per loro la condanna a quattro anni di carcere, mentre i legali degli imputati hanno chiesto per tutti la piena assoluzione. Grande era l'attesa all'Aquila sulle sorti degli imputati. La sentenza è stata letta dal giudice unico Marco Billi alle 17 circa, dopo quattro ore di camera di consiglio. A intervenire per ultimo l'avvocato difensore Antonio Pallotta, legale di Giulio Selvaggi. Sette gli esperti e scienziati imputati, accusati di aver dato ai residenti avvertimenti insufficienti del rischio sismico. Precisamente si contesta loro di aver dato «informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie» sulla pericolosità delle scosse registrate nei sei mesi precedenti al 6 aprile 2009. La difesa ha puntato sulla impossibilità di prevedere i terremoti, posizione sostenuta da ricercatori internazionali. Tutta la comunità scientifica si interroga ora su un punto: le rassicurazioni eccessive possono indurre la gente ad adottare comportamenti rischiosi, ma può un errore di comunicazione valere una condanna per omicidio colposo?  Il giudice ha ritenuto i sette membri della commissione tutti colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. A Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva e Gianmichele Calvi sono state concesse le attenuanti generiche. Oltre alla condanna a sei anni, sono stati condannati anche all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. È «una sentenza sbalorditiva e incomprensibile in diritto e nella valutazione dei fatti» ha commentato l'avvocato Marcello Petrelli, difensore di Franco Barberi. «Una sentenza che - ha aggiunto - non potrà che essere oggetto di profonda valutazione in appello». Si è detto «avvilito, disperato» Enzo Boschi, ex presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). «Pensavo di essere assolto - ha aggiunto - ancora non capisco di cosa sono accusato». «Mi ritengo innocente di fronte a Dio e agli uomini» ha aggiunto Bernardo De Bernardinis, ex vicecapo della Protezione civile e attuale presidente dell'Ispra. «La mia vita da domani cambierà, ma se saranno dimostrate le mie responsabilità in tutti i gradi di giudizio - ha aggiunto - le accetterò fino in fondo». Levata di scudi, sulla sentenza, da parte dei professori del mondo scientifico: «È la morte del servizio prestato dai professori e dai professionisti allo Stato - ha detto il fisico Luciano Maiani, attuale presidente della commissione Grandi rischi - non è possibile fornire una consulenza in termini sereni, professionali e disinteressati sotto questa folle pressione giudiziaria e mediatica. Questo non accade in nessun altro Paese al mondo». Sorpreso e amareggiato anche il mondo politico. «È una sentenza un po' strana e un po' imbarazzante: chi sarà chiamato in futuro a coprire questi ruoli si tirerà indietro» ha detto il presidente del Senato, Renato Schifani. «Questa sentenza è la morte dello stato di diritto e una follia allo stato puro - ha commentato il leader Udc, Pier Ferdinando Casini - . L'obbligo previsionale in ordine a eventi tellurici è sancito». «Le sentenze vanno sempre rispettate - ha puntualizzato Pierluigi Bersani - ma l'importante è che prosegua la solidarietà. La giustizia deve fare il suo corso ma anche la ricostruzione deve farlo».

Gli scienziati su “Il Corriere della Sera”: «ora avremo paura di esprimere opinioni». Dal mondo accademico è una levata di scudi, appresa la notizia della condanna dei sette scienziati per le omissioni e la sottovalutazione del rischio per il terremoto dell'Aquila. Se i sei condannati ondeggiano tra sbigottimento e stupore, è netto il commento del fisico Luciano Maiani, attuale presidente della commissione Grandi rischi, quella appunto messa all'indice dalla sentenza del tribunale «È la morte del servizio prestato dai professori e dai professionisti allo Stato: non è possibile fornire una consulenza in termini sereni, professionali e disinteressati sotto questa folle pressione giudiziaria e mediatica. Questo non accade in nessun altro Paese al mondo»»

GLI SCIENZIATI NON VORRANNO ESPRIMERE PIU' LA LORO OPINIONE? E pure l'INGV (L'istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) esprime tutta la sua preoccupazione per la sentenza: dell'istituto faceva infatti parte l'ex presidente Enzo Boschi. Secondo l'Istituto: «La sentenza di condanna di L’Aquila rischia, infatti, di compromettere il diritto/dovere degli scienziati di partecipare al dialogo pubblico tramite la comunicazione dei risultati delle proprie ricerche al di fuori delle sedi scientifiche, nel timore di subire una condanna penale. Quale scienziato vorrà esprimere la propria opinione sapendo di poter finire in carcere?»

«IMPOSSIBILE PREVEDERE UN TERREMOTO» - Secondo quanto affermato dalla letteratura scientifica internazionale, prosegue la nota dell'Ingv: «allo stato attuale è impossibile prevedere in maniera deterministica un terremoto. Di conseguenza, chiedere all’INGV di indicare come, quando e dove colpirà il prossimo terremoto non solo è inutile, ma è anche dannoso perché alimenta in modo ingiustificato le aspettative delle popolazioni interessate da una eventuale sequenza sismica in atto. L’unica efficace opera di mitigazione del rischio sismico è quella legata alla prevenzione, all’informazione e all’educazione della popolazione in cui istituzioni scientifiche, Protezione Civile e amministrazioni locali devono svolgere, in modo coordinato, ognuna il proprio ruolo».

TERREMOTO. L'Aquila, Grandi rischi: 6 anni agli imputati. Maiani: "Nella sentenza profondo errore". Così scrive “La Repubblica”. Il verdetto, compresa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, colpisce i sette membri della Commissione all'epoca in carica, che avrebbe fornito false informazioni circa l'improbabilità della forte scossa che la notte del 6 aprile 2009 causò la morte di 309 persone. L'accusa aveva chiesto quattro anni di reclusione.

Condannati a sei anni per aver dato ai residenti avvertimenti insufficienti sul rischio sismico. Questa la sentenza per i sette componenti della commissione Grandi rischi, in carica nel 2009, che avevano rassicurato gli aquilani circa l'improbabilità di una forte scossa sismica, che invece si verificò alle 3,32 del 6 aprile 2009. L'accusa aveva chiesto quattro anni, ma Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Bernardo De Bernardinis, Giulio Selvaggi, Claudio Eva e Gianmichele Calvi, sono stati giudicati colpevoli di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose. Nonostante la concessione delle attenuanti generiche, sono stati condannati anche all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. "È la morte del servizio prestato dai professori e dai professionisti allo Stato" è stato il commento senza mezzi termini da parte del fisico Luciano Maiani, attuale presidente della commissione Grandi rischi, che ha aggiunto: "Non è possibile fornire allo Stato una consulenza in termini sereni, professionali e disinteressati sotto questa folle pressione giudiziaria e mediatica. Questo non accade in nessun altro Paese al mondo''. C'è "un profondo errore" nella sentenza che oggi ha condannato a sei anni i membri della commissione Grandi rischi, ha sottolineato Maiani. Le persone condannate oggi "sono professionisti che hanno parlato in buona fede e non spinte da interessi personali. Sono persone - aggiunge - che hanno sempre detto che i terremoti non sono prevedibili". A fronte della loro condanna, prosegue, "non c'è nessuna indagine su chi ha costruito in maniera non adeguata ad una zona antisismica. Questo è un profondo sbaglio". Il mondo politico non esprime un giudizio unanime sulla sentenza: per il presidente del Senato, Renato Schifani, si tratta di "una sentenza un po' strana e imbarazzante. Pone un problema serio e grave in relazione al quale chi sarà chiamato in futuro a ricoprire questi ruoli si farà da parte", ha dichiarato a Porta a Porta. "Le sentenze vanno sempre rispettate e la giustizia deve fare il suo corso. Ma è importante anche dare solidarietà a queste terre ed è per questo che tornerò ancora a visitarle'', ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Non è d'accordo con il verdetto l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: ''Ulteriore sentenza angosciante destinata a inibire assunzioni di responsabilità da parte di tecnici e scienziati e a determinare ingiustificati allarmismi e impraticabili proposte di ricorrente evacuazione''. Anche per il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini, la sentenza è ''una follia allo stato puro''. ''Credo che qualsiasi professionista - ha aggiunto Casini - di fronte a una sentenza di questo genere si tirerà indietro. Così è sancito l'obbligo professionale a non sbagliare''. Il giudice unico Marco Billi si è ritirato in Camera di consiglio alle 12,30 dopo l'ultimo intervento dell'avvocato difensore Antonio Pallotta, legale di Giulio Selvaggi. Gli imputati hanno aspettato quattro ore prima di avere il verdetto. Precisamente si contestava loro di aver dato "informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie" sulla pericolosità delle scosse registrate nei sei mesi precedenti al 6 aprile 2009. La difesa ha puntato sulla impossibilità di prevedere i terremoti, posizione sostenuta da ricercatori internazionali. "Una sentenza sbalorditiva e incomprensibile, in diritto e nella valutazione dei fatti", ha commentato l'avvocato Marcello Petrelli, difensore del professor Franco Barberi, "non potrà che essere oggetto di profonda valutazione in appello". Ammonta a 7,8 milioni di euro il risarcimento disposto dal giudice. A questa cifra vanno sommate le spese giudiziarie delle parti civili che ammontano a oltre 100 mila euro. Si dice "avvilito e disperato" Enzo Boschi, ex presidente dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), nella prima reazione a caldo dopo la sentenza. "Sono frastornato, devastato, ero convintissimo che sarei stato assolto perché non ho mai rassicurato nessuno. Sfido chiunque a trovare scritta, detta a voce, su tv o da qualsiasi parte una mia rassicurazione concernente il terremoto dell'Aquila", ha sottolineato Boschi. "E questo perché - aggiunge - nessuno è in grado di prevedere terremoti quindi io non rassicuro nessuno. La qualità degli edifici in Italia è tale che anche una piccola scossa può causare un disastro". "Mi ritengo innocente di fronte a Dio e agli uomini", ha detto il professor Bernardo De Bernardinis, ex vicecapo della Protezione civile e attuale presidente dell'Ispra. "La mia vita da domani cambierà, ma se saranno dimostrate le mie responsabilità in tutti i gradi di giudizio - ha aggiunto - le accetterò fino in fondo". ''Non mi aspettavo sei anni, pensavo che la condanna sarebbe stata inferiore. Non provo nessun godimento, nessuna sentenza ci ripaga di quanto accaduto'' ha detto Giampaolo Giuliani, il tecnico di ricerca che studia il radon come precursore sismico e che nei giorni precedenti alla tragedia aveva lanciato l'allarme. Nella sua replica il pm, prima che il giudice Marco Billi si chiudesse in Camera di consiglio, ha ricordato Guido Fioravanti, figlio di Claudio, avvocato e giudice tributario, oltre che una delle 309 vittime del sisma del 6 aprile. Morto nella sua casa in via Campo di Fossa, dietro alla Villa Comunale, crollata insieme a molte altre. "Noi crediamo alle persone offese - ha detto il titolare dell'accusa in aula -. Questo processo nasce perché è venuto da me Guido Fioravanti e mi ha detto: 'mio padre è morto perché ha creduto allo Stato'. Questo è stato il punto di partenza". Per Guido Fioravanti quello di oggi "non è stato un processo alla scienza", ma a "ciò che ha detto la scienza e che ha mutato in noi aquilani l'approccio al terremoto". Quella notte, Guido si era sentito con la madre verso le 23, subito dopo la prima scossa. "Mi ricordo la paura che usciva dalle sue parole. In altri tempi sarebbero scappati ma quella notte, assieme a mio padre, si sono ripetuti quello che avevano sentito dalla commissione Grandi rischi. E sono rimasti lì".

È preoccupato per le conseguenze che la condanna può avere il direttore dell'Istituto di geoingegneria del Cnr, Paolo Messina: "Una condanna durissima, e ciò che preoccupa sono le conseguenze che tale pronunciamento potrà avere: non vorrei passasse il messaggio che i terremoti si possono prevedere, perché ciò è impossibile. In linea di principio, allora, bisognerebbe evacuare l'intera popolazione ad ogni scossa?". La sentenza con la quale sono stati condannati i componenti della Commissione Grandi Rischi, "costituisce un precedente, in grado di condizionare in modo determinante il rapporto tra esperti scientifici e decisori,non solo nel nostro Paese", è scritto in una nota dello stesso istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che esprime "tutto il suo rammarico e la sua preoccupazione" per la sentenza di primo grado. ''Ci voleva coraggio e i giudici ne hanno avuto. Finalmente un po' di giustizia per L'Aquila''. È soddisfatta Stefania Pezzopane che il 6 aprile del 2009 ricopriva la carica di Presidente della Provincia dell'Aquila, dopo aver appreso l'esito della sentenza. Il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, ha spiegato che ''volevamo questa sentenza per capire, ma il dramma non si cancella. Il comune si era costituito parte civile per chiedere giustizia: ma ora la giustizia la vogliamo anche per tutto quello che è successo dopo il 6 aprile''. ''Sono pochi, hanno fatto bene, benissimo''. In piazza Duomo a L'Aquila i cittadini aquilani riuniti sotto al tendone per ascoltare il sindaco Cialente su tasse e tributi hanno così commentato a caldo le notizie sulla sentenza.

Le intercettazioni riportate da Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. L'Aquila, esperti a consulto sul terremoto: "Ma è soltanto un'operazione mediatica". E' la fine di marzo 2009, la città abruzzese da quattro mesi è ostaggio di uno sciame sismico e una nuova scossa di magnitudo 4.1 Richter ha appena fatto crescere la paura. Bertolaso racconta al telefono che sta organizzando una riunione di tecnici al solo scopo di tranquillizzare la popolazione. E sette giorni dopo, la tragedia. La riunione straordinaria della Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile, che si svolse all'Aquila durante lo sciame sismico sette giorni prima della scossa fatale, fu soltanto uno show. Una "operazione mediatica". I più importanti scienziati italiani furono inviati dal Dipartimento della Presidenza del Consiglio (dell'allora governo Berlusconi) nella città sotto shock per le quattrocento scosse di terremoto in quattro mesi solo per "tranquillizzare la popolazione", per comunicare alla pubblica opinione che si era di fronte a un "fenomeno normale". Lo rivela proprio Guido Bertolaso in un'intercettazione.

Un'intercettazione contenuta tra le duemila e duecento conversazioni registrate dai carabinieri del Ros di Firenze, formalmente inserita negli atti del processo sullo scandalo G8 alla Maddalena, ma che non fu mai trascritta. E che adesso Repubblica è in grado di documentare e di farvi ascoltare. E' il pomeriggio del 30 marzo 2009. Da quattro mesi la città dell'Aquila balla sotto i colpi dello sciame sismico. Alle 15.38 arriva un'altra forte scossa (magnitudo 4.1 della scala Richter). In città scoppia di nuovo il panico e scatta ancora una volta l'allerta per la Protezione Civile. La sera stessa, Bertolaso chiama Daniela Stati, assessore regionale alla Protezione Civile dell'Abruzzo. "Sono Guido Bertolaso...". La Stati: "Che onore...". Bertolaso: "Ti chiamerà De Bernardinis il mio vice, perché gli ho detto di fare una riunione lì all'Aquila domani, su questa vicenda di questo sciame sismico che continua, in modo da zittire subito qualsiasi imbecille, placare illazioni, preoccupazioni... Eccetera...". Ancora Bertolaso: "La cosa importante è che domani... Adesso De Bernardinis ti chiama per dirti dove volete fare la riunione. Io non vengo... ma vengono Zamberletti (l'unico che poi non parteciperà, ndr), Barberi, Boschi, quindi i luminari del terremoto in Italia. Li faccio venire all'Aquila o da te o in prefettura... Decidete voi, a me non me ne frega niente... In modo che è più un'operazione mediatica, hai capito? Così loro, che sono i massimi esperti di terremoti, diranno: è una situazione normale... sono fenomeni che si verificano... meglio che ci siano cento scosse di quattro scala Richter piuttosto che il silenzio, perché cento scosse servono a liberare energia e non ci sarà mai la scossa quella che fa male... Hai capito? (...) Tu parla con De Bernardinis e decidete dove fare questa riunione domani, poi fatelo sapere (alla stampa, ndr) che ci sarà questa riunione. E che non è perché siamo spaventati e preoccupati, ma è perché vogliamo tranquillizzare la gente. E invece di parlare io e te... facciamo parlare i massimi scienziati nel campo della sismologia". La Stati: "Va benissimo...". E, in effetti, il giorno dopo gli esperti andranno all'Aquila e ripeteranno esattamente le parole dette da Bertolaso alla Stati al telefono. La riunione durerà appena sessanta minuti e al termine si terrà una conferenza stampa. De Bernardinis parlerà ai microfoni di una situazione "normale...". "... La comunità scientifica conferma che non c'è pericolo, perché c'è uno scarico continuo di energia. La situazione è favorevole..." ."Si colloca diciamo in una fenomenologia senz'altro normale". A leggerla e ad ascoltarla ora, questa intercettazione, quasi tre anni dopo la tragedia, mentre è in corso all'Aquila un processo nei confronti proprio della Commissione Grandi Rischi, accusata di omicidio colposo plurimo e disastro colposo - per non aver correttamente valutato in quella riunione lo sciame sismico in atto - quella di Bertolaso suona come un'ammissione. Una confessione. Questa intercettazione - fino ad oggi sconosciuta alla Procura dell'Aquila - verosimilmente cadrà come un macigno sul processo, sul suo esito e sul ruolo che ebbe Bertolaso in quella vicenda. L'ex capo della Protezione Civile non fu iscritto nel registro degli indagati perché non era presente alla riunione. Ora si scopre che la convocò (senza andarci) al solo scopo di tranquillizzare (e tacitare la popolazione). Si adoperò affinché una riunione di importanti scienziati, formalmente chiamati a valutare uno sciame sismico su una zona ad alto rischio terremoto, fosse solo "un'operazione mediatica". Sette giorni dopo la catastrofe: 309 morti, 1500 feriti, e una città che, probabilmente, non tornerà mai più come prima.

Terremoto, la santa truffa

Questo è il titolo dell’inchiesta di Giuseppe Caporale su  “La Repubblica.” Due arresti nel capoluogo abruzzese. La fondazione "Solidarietà e sviluppo" aveva cercato di ottenere una dozzina di milioni dai fondi gestiti dal sottosegretario Giovanardi. Il sindaco Cialente che nel luglio del 2010 aveva lanciato l'allarme: "Avevo ragione io". L'imbarazzo del vescovato.

Nelle tasche della Curia i soldi della ricostruzione. Così il vescovo D'Ercole raccomandava i progetti della Onlus "Solidarietà e sviluppo" che avrebbe truffato 12 milioni destinati al dopo sisma dal sottosegretario Giovanardi. Il gip chiede due arresti e scrive: occorrono altre indagini sul ruolo dei vescovi in questa storia. Il vescovo ausiliare dell'Aquila Giovanni D'Ercole si raccomandava al sottosegretario Carlo Giovanardi per ottenere i fondi del terremoto. Anzi, per farli ottenere ad una onlus ("Solidarietà e Sviluppo") fondata dalla stessa diocesi dell'Aquila, dietro la quale, secondo la Procura si nascondeva una truffa. Una truffa per sottrarre 12 milioni di euro dal bancomat miliardario della ricostruzione dell'Aquila. Una truffa per la quale ieri sono state arrestate due persone (tra cui il segretario generale della Onlus, Fabrizio Traversi nominato proprio dai vertici della diocesi) e indagate altre tre (compreso il sindaco di San Demetrio dei Vestini, Silvano Cappellini). L'obiettivo era quello di ottenere i "fondi Giovanardi", quelli che il sottosegretario era riuscito ad accantonare nel "decreto Abruzzo" per la ricostruzione. Fondi destinati a progetti "per la famiglia e per il sociale" sui quali ci fu uno scontro con il Comune dell'Aquila. Il sindaco Massimo Cialente riteneva che dovessero essere destinati in parte (circa tre) per ristrutturare un centro anziani (al quale, poi, vennero effettivamente assegnati) e a un'altra ristrutturazione (per nove milioni) di un complesso nel centro storico. Su questa fetta, invece, si erano accentrate le mire della fondazione di origine curiale "Solidarietà e Sviluppo" i cui progetti, però, risultarono non conformi alla normativa. Cialente lo disse pubblicamente e attaccò anche Giovanardi quando, nel luglio del 2010, sembrava che la onlus stesse riuscendo nei suoi intenti truffaldini. Proprio dalle affermazioni del sindaco è partita l'inchiesta. Giovanardi risulta coinvolto in quanto i progetti della Onlus facevano riferimento al suo dipartimento della famiglia. Lo stesso senatore si lamentava pubblicamente del fatto che questi soldi che non venivano spesi. E il secondo arrestato, Gianfranco Cavaliere, è proprio un politico legato a Giovanardi. E così, dalle intercettazioni si scopre che mentre pubblicamente Giovanardi si lamentava dei ritardi della ricostruzione e dell'assegnazione dei fondi, al telefono invece si dava da fare per farli ottenere alla onlus della Curia.

Come si evince da una intercettazione tra lo stesso vescovo D'Ercole e Giovanardi. " Volevo soltanto dirti questo: siccome è ovvio che con questo nostro progetto probabilmente daremo fastidio a qualcuno, faranno un po' di questioni. Mi raccomando: tieni la barra ferma..." chiede D'Ercole.

"Ma ti immagini! Ma io ho solo bisogno che voi... cioè, che chi mi può dare il disco verde che è il commissario di governo mi dica "spendi" e io vengo lì con i soldi cash..." risponde Giovanardi. E D'Ercole "Noi.. noi in settimana ti diamo tutti i progetti nostri, pronti".

Giovanardi: "e certo.. bravo.. altro che carriole o non carriole.. scusami, altro che popolo delle carriole. Ce l'ho qua i soldi... che alla fine... veramente una cosa incredibile. Comunque, io aspetto ancora un po', poi risollecito il commissario, se magari tramite Cavaliere (uno degli arrestati, ndr) che è qua e poi dico "amico, io ho polemizzato con il sindaco, ma a me non mi fa mica (..) lo schieramento politico, eh! Se devo polemizzare con uno del Pdl ci penso due secondi, ma proprio non me ne può fregare di meno".

Da notare che proprio D'Ercole si farà fotografare con il popolo della carriole all'interno del centro storico, mentre con la pala cerca di rimuovere le macerie.

E Giovanardi a nome del dipartimento alla famiglia, nello stesso periodo, firmava anche una lettera di "congruità" per i progetti della Fondazione. Sollecitava poi anche il presidente della Provincia Antonio Del Corvo, affinché intervenisse. Ma l'appoggio del sottosegretario non era sufficiente, occorreva quello del commissario alla ricostruzione Gianni Chiodi - che seppure del Pdl - alla fine non appoggerà mai l'iniziativa. E la truffa così non andrà in porto. Eppure, i due arrestati avevano tentato in tutti i modi di raggiungere il loro obiettivo. Cavaliere al telefono parlava anche di come utilizzare i fondi del terremoto per la politica: "perché l'associazione Democratici Cristiani è un'associazione per gestire i 5 milioni di euro, parte dei 5 milioni di euro che Carlo (Giovanardi, ndr) c'ha sulla Fondazione".

Scrive il giudice per le indagini preliminari Marco Billi nell'ordinanza di custodia cautelare: "il senatore Giovanardi, da quanto risulta al momento, è stato sostanzialmente "utilizzato" dagli indagati, i quali hanno saputo fare leva sulla evidente volontà dello stesso di utilizzare i fondi, strumentalizzandone gli interventi di carattere politico nel tentativo di convogliare tutti o parte dei fondi sulla loro fondazione. Si è visto come al sottosegretario venissero fornite informazioni sull'evolversi della vicenda sapientemente filtrate e distorte, per spronarlo ad assumere atteggiamenti utili per il conseguimento dell'illecito fine prefissato. Si può in proposito ritenere che proprio lo stretto collegamento di Cavaliere con Giovanardi (dovuto alla medesima matrice politica di riferimento) abbia fornito concrete possibilità operative agli indagati".

Molto più dure le considerazioni del Gip sul ruolo della Curia e sui due vescovi dell'Aquila: "Si ritiene, in ogni caso, che il ruolo dell'arcidiocesi (ed il particolare dei vescovi Molinari e D'Ercole) debba essere ulteriormente approfondito nell'ulteriore corso delle indagini preliminari, al fine di accertare il livello di consapevolezza che gli stessi hanno avuto degli effettivi propositi degli indagati.

Sotto tale profilo, infatti, è da rilevare che tanto l'associazione Aquila Città Territorio quanto la Fondazione hanno la propria sede presso la Curia arcivescovile aquilana, che l'arcivescovo Molinari ha partecipato al la Fondazione fin dall'atto costitutivo e che Molinari e D'Ercole hanno partecipato personalmente all'incontro di Palazzo Chigi del 17.6.10 con il sottosegretario Giovanardi, Chiodi (commissario alla ricostruzione, ndr) De Matteis (vice presidente del consiglio regionale abruzzese, ndr) e Cialente (sindaco dell'Aquila, ndr)". Quindi, seppure allo stato i due vescovi non sono indagati, il Gip sul loro ruolo nella vicenda chiede indagini più approfondite.

Laconiche le considerazioni finali sul ruolo della stessa onlus della Curia da parte del giudice: "In nessuna di tali conversazioni si è potuto evidenziare un passaggio, un apprezzamento, una considerazione, una valutazione in ordine al merito dei progetti. I diversi progetti appaiono, infatti, considerati esclusivamente sulla base del relativo referente politico nonché sul grado di priorità che può essere loro riconosciuto in considerazione del possibile tornaconto economico e politico personale degli indagati. Manca, all'evidenza, una seppure generica e formale attenzione alle finalità concrete dei progetti, all'utilità per la popolazione, all'esigenza di creare una ragionata e consapevole scala di priorità delle esigenze, per utilizzare nel migliore modo possibile i fondi in esame. I diversi organi istituzionali coinvolti non sembrano operare in accordo tra loro né risulta esistente una struttura di raccordo tra gli stessi che possa comporre eventuali contrasti ed armonizzare le rispettive esigenze. Al contrario è evidente che tali organi operino in competizione tra loro ed il riferimento alla "guerra", seppure considerata politicamente, non appare troppo lontano dalla realtà".

"Quel progetto è la cosa più bella". "Mi raccomando, tieni la barra ferma". Il primo luglio 2010, in occasione della partecipazione del senatore Giovanardi ad un evento a Campobasso, Traversi chiede al Cavaliere di recarsi nel capoluogo molisano per avvicinare il sottosegretario in relazione ai progetti della Fondazione. Il Cavaliere, pertanto, avvicina il sottosegretario e lo mette in contatto, utilizzando il proprio telefono cellulare, con Mons. D'Ercole. Si registra la seguente conversazione:

Senatore Carlo GIOVANARDI : "Come va?"

Monsignor Giovanni D'ERCOLE : "Mah, abbastanza bene.. a L'Aquila, come tu sai, la situazione è sempre più difficile .. più complessa, veramente complicata, diventa anche difficile lavorarci".

Sen Carlo GIOVANARDI: "Io ho avuto ieri una telefonata di Mantini (onorevole del Pd,)"

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "eh.."

Sen Carlo GIOVANARDI: "L'onorevole... e mi ha detto "guarda, benissimo, quel progetto di D'ERCOLE è la cosa.." dice lui, eh io.. quindi.. "più bella che è stata fatta la più intelligente" e dico "bhè, sono contento che tu condivida.."

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Si, ma guarda: io voglio dirti solo questo. Noi abbiamo creato questo qui per fare in modo che si faccia qualcosa perché sennò non si fa nulla. Abbiamo messo in rete tutte le strutture possibili tutti i comuni, tutte le associazioni".

Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma dopo l'incontro di Palazzo Chigi, lo avete già fatto quest'incontro tecnico?

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "L'incontro tecnico sono andati a farlo oggi, stamattina. E io parto per l'Africa domani mattina. Volevo soltanto dirti questo: siccome è ovvio che con questo nostro progetto probabilmente daremo fastidio a qualcuno, faranno un po' di questioni. Mi raccomando: tieni la barra ferma".

Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma ti immagini! Ma io ho solo bisogno che voi.. cioè, che chi mi può dare il disco verde che è il commissario di governo mi dica "spendi" e io vengo lì con i soldi cash.."

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Il commissario di governo troverà tutti i cavilli".

Sen Carlo GIOVANARDI: "E bhè, ho capito, e se trova tutti i cavilli io che posso fare, cioè..."

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Vabbè, ma intanto dovrai dimostrare.."

Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma il commissario o il vice commissario?"

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "No, ma tutti e due a questo punto sono un po' .. sono un pochettino così, perché evidentemente la ragione di fondo è che siccome vedono che quello che dovevano fare loro non lo hanno fatto.."

Sen Carlo GIOVANARDI: "Ma guarda.."

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: ".. e lo fanno altri ..."

Sen Carlo GIOVANARDI: "Guarda, io ti dico: come sono venuto giù sei mesi fa a fare una conferenza stampa, io porto pazienza ancora un pò, poi torno a L'Aquila, chiamo tutti i giornalisti e dico "scusate, sono 13 mesi..."

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Esatto.."

Sen Carlo GIOVANARDI: ".. vabbè, 14.. che cerco di spendere 12 milioni in contanti per L'Aquila e mi dovete ancora dire dove li posso spendere".

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Noi.. noi in settimana ti diamo tutti i progetti nostri, pronti".

Sen Carlo GIOVANARDI: "E certo.. bravo.."

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Tutto quanto.. dopo di che.."

Sen Carlo GIOVANARDI: "Altro che carriole o non carriole.. scusami, altro che popolo delle carriole. Ce lo hi qua i soldi .. che alla fine.. veramente una cosa incredibile. Comunque, io aspetto ancora un pò, poi risollecito il commissario, se magari tramite CAVALIERE che è qua e poi dico "amico, io ho polemizzato con il sindaco, ma a me non mi fa mica (..) lo schieramento politico, eh! Se devo polemizzare con uno del PDL ci penso due secondi, ma proprio non me ne può fregare di meno".

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Ecco, io ti dico soltanto questo: noi stiamo lavorando seriamente l'unico obiettivo è quello di fare in modo che tutto il territorio si metta in moto, perché altrimenti non..."

Sen Carlo GIOVANARDI: "E che si facciano le cose soprattutto".

Monsignor Giovanni D'ERCOLE: "Ma noi siamo pronti. Il progetto è operativo, in settimana tu avrai tutti i nostri progetti".

Sen Carlo GIOVANARDI: "Perfetto. Ok".

Si salutano.

«Da tempo, e ad arte, è stata fatta passare l'immagine di un sindaco litigioso, pronto a contestare "benefattori e buone proposte". Ora, fermo restando l'augurio agli indagati di poter dimostrare la loro estraneità ai fatti, credo che il mio "strillare" possa essere giudicato in modo diverso». A parlare è il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente , che ricorda il no del Comune all'ingresso nella Fondazione e che aggiunge di aver chiesto alcuni giorni fa, entrando nello specifico dei fondi Giovanardi, l'accesso agli atti, «perché quell'inspiegabile distribuzione a pioggia dei fondi», dice, «non rende giustizia ai terremotati che chiedono strutture e servizi sociali». Cialente racconta anche della sua convocazione in Procura, come persona informata sui fatti, avvenuta quasi un anno fa. E dell'attenzione dei magistrati nei confronti delle sue "pesanti" dichiarazioni pubbliche rivolte all'indirizzo di Giovanardi che, in più occasioni, aveva accusato il Comune di non aver presentato progetti da poter finanziare con i "suoi" 12 milioni. «La nostra idea era quella di utilizzare i soldi per fronteggiare l'emergenza sociale nei termini indicati dalla normativa» aggiunge Cialente. «Avevamo presentato, oltre ai progetti per i nuovi quartieri, due proposte importanti che riguardavano la ristrutturazione dell'Ex Ipab in centro storico, da trasformare in sede del welfare, e dell'ex Onpi. Sono andato a Roma per promuovere questi interventi, ma Giovanardi ha risposto che c'era il progetto di questa Fondazione nella quale, successivamente, ci è stato chiesto di entrare. Cosa che non abbiamo fatto anche perché il metodo del finanziamento a pioggia era del tutto inaccettabile. Si è voluto accontentare tutti e non fare nulla. E oggi, a distanza di 29 mesi dal terremoto, ciò che pesa è avere ancora tende per l'aggregazione nelle new town. Nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di vita dei terremotati.

Un'operazione, quella della Fondazione, discutibile. Ma non voglio entrare nel merito dell'inchiesta, di cui si sa poco. Posso solo dire di avere piena fiducia nella magistratura». L'assessore comunale Stefania Pezzopane rincara la dose. «Sui fondi Giovanardi» dice «la nostra richiesta è sempre la stessa. Chiarezza! Lo chiediamo da tempi non sospetti. Il sindaco, subito dopo la pubblicazione della graduatoria dei fondi, ha firmato una richiesta di accesso agli atti.

Abbiamo chiesto al commissario Chiodi di rendere noti i verbali della commissione, di far luce sui criteri in base ai quali sono stati assegnati i punteggi a ciascun Comune. Richieste su cui non è giunta risposta. La vicenda dei fondi Giovanardi "puzzava" sin dall'inizio. Il Comune dell'Aquila presentava progetti seri, ma nessuno andava mai bene. Oggi i cittadini delle new town, che si sono visti negare i progetti, capiscono come vanno le cose! Alla Fondazione Abruzzo solidarietà e sviluppo il Comune non ha mai aderito. Dopo i primi contatti e incontri con i vertici della Fondazione, il Comune decise di non voler essere della partita. Non riuscivamo a comprendere perché ci dovesse essere un organismo che facesse da intermediario, da filtro, tra i Comuni del cratere e i fondi statali. La nostra mancata adesione allora aveva provocato qualche mal di pancia. Sono fioccate critiche da alcuni amministratori e dai vertici della Fondazione. Abbiamo poi appreso della costituzione di cooperative sociali formate ad hoc per gestire le strutture finanziate con i fondi Giovanardi. Alla luce delle ultime vicende e considerato che la Fondazione, attraverso i suoi vertici, in più occasioni ha palesato il suo collegamento con il dicastero di Giovanardi e che lo stesso Fabrizio Traversi come l'attuale presidente della Fondazione, Pierluigi Pollini, si sono rappresentati come collaboratori del sottosegretario, chiediamo a Chiodi un gesto di coraggio: blocchi la graduatoria dei fondi».

Fondazione con prelati, medici e manager. Ecco tutti i nomi di «Abruzzo solidarietà e sviluppo». I sindaci: tregua con L'Aquila. Prelati e ingegneri, medici e manager, architetti e avvocati. Chiesa e mondo delle professioni, c'è di tutto nell'organigramma di «Abruzzo solidarietà e sviluppo». Ecco tutti i nomi della fondazione finita nel mirino della Procura che vuole vederci chiaro sulla destinazione dei fondi per il sociale (12 milioni) stanziati dal sottosegretario alla Famiglia Carlo Giovanardi. Nella battaglia con L'Aquila per il progetto migliore, 11 Comuni firmano la tregua.

LA FONDAZIONE. Coi vescovi Giuseppe Molinari e Giovanni D'Ercole ai vertici, la Chiesa schiera anche don Gino Epicoco, «ministro» della ricostruzione della Curia aquilana e un prelato ciociaro, Alfredo Di Stefano, che collaborò con l'arcidiocesi per l'idea della settimana liturgica. Tra i vicepresidenti della fondazione ci sono Angelo Taffo (Confartigianato) e Maurizio Ortu (presidente dell'Ordine dei medici). Tra i consiglieri ci sono Maurizio Papale (collegio periti industriali) e l'imprenditore Luciano Ardingo del gruppo Spee che si occupa, tra l'altro, di telemedicina e teleassistenza, indicate tra le attività della fondazione. A completare l'elenco degli Ordini ci sono anche Gianlorenzo Conti (Architetti) e Paolo De Santis (Ingegneri). C'è pure il manager Asl Giancarlo Silveri.

CHI C'È. Ecco tutti i nomi. Presidente: monsignor Giuseppe Molinari. Vicario: monsignor Giovanni D'Ercole. Vice: Gianfranco Cavaliere, Angelo Taffo, Maurizio Ortu, Stefania Lazzari Celli, Pierluigi Biondi, Silvano Cappelli. Segretario generale: Fabrizio Traversi. Direttore generale: Angela Maria Crolla. Consiglieri: Augusto Ippoliti, Florindo Zarlenga, Sergio Calizza, don Luigi Maria Epicoco, monsignor Alfredo Di Stefano, Luciano Ardingo, Maurizio Papale. Revisori: Giuseppe Cossari, Giuseppe Giovanni Petrolini, Marcello De Carolis. Garanti: onorevole Vincenzo Scotti, Giovanni Maria Fara, Rocco Colicchio. Collegio scientifico: Francesco Beltrame, Pierluigi Pollini, Vito Albano, Gianfranco Amicucci, Gabriele Anelli, Salvatore Anfuso, Francesco Antonetti, Dario Banaudi, Ezio Bonanni, Francesco Bonino, Diego Bosco, Eugenio Burnengo, Anna Maria Cappa Monti, Palmina Cappussi, Dario Ceccotti, Ernesto Chiacchierini, Gennaro Citro, Danilo Coletti, Gianluigi Condorelli, Gianlorenzo Conti, Giuseppe Cossari, Luigi De Notaris, Paolo De Santis, Marcello Di Certo, Alessandro Di Loreto, Elda Anna Rosa Fainella Verini, Fabrizio Fasani, Anna Maria Giorgi, Claudio Gorelli, Norbert Lantschner, Marco Malavasi, Aldo Mancurti, Luigi Mastrobuoni, Umberto Masucci, Walter Mazzitti, Vittorio Miori, Antonio Morgante, Roberto Museo, Amos Nannini, Maurizio Ortu, Antonello Pandiscia, Cinthia Pinotti, Giancarlo Silveri, Ciro Sindona, Ivano Spallanzani, Urbano Strada, Marco Villani, Francesco Nicola Zavattaro, Sergio Zoppi.

I sindaci di Acciano, Barisciano, Fagnano Alto, Fontecchio, Fossa, Ocre, Poggio Picenze, San Demetrio ne' Vestini, Sant'Eusanio Forconese, Tione degli Abruzzi e Villa Sant'Angelo si sono riuniti per firmare la tregua con Cialente «Troppe polemiche, L'Aquila collabori di più».

POST SISMA: LA POLIZIA PROTESTA.

Post-sisma, la polizia protesta, scrive Matteo Marini su “L’Espresso”. Lo stato di emergenza termina il 31 dicembre 2012, ma aumentano i reati e le possibilità di infiltrazioni mafiose nella ricostruzione. Molti agenti 'aggregati', ovvero rientrati dopo il terremoto, continuano a essere precari e rischiano di andarsene. Ecco perché manifestano. La sagoma di cartone è quella di un agente di polizia, con divisa d'ordinanza. Ha un coltello conficcato tra le scapole. Lo slogan è didascalico ma gridato forte: "Pugnalati alle spalle". La protesta non riguarda solamente i tagli al personale e alle pensioni, come un po' in tutta Italia. A L'Aquila c'è un problema in più connesso, nemmeno a dirlo, al post terremoto: la città è diventata sempre più difficile da gestire e le forze di contrasto sono, al contrario, sempre più sottili. Non si tratta solo di ordine pubblico ma anche di prevenzione delle infiltrazioni malavitose quando inizierà la cosiddetta "ricostruzione pesante". Un problema che si intreccia con le storie degli agenti e delle loro famiglie, in bilico ormai da tre anni e mezzo. Un "picchetto" di quelle sagome trafitte attendeva il ministro Elsa Fornero in visita in città all'inizio di ottobre, così come il ministro Barca a giugno. Saranno "rispolverate" il 23 ottobre per i sit-in organizzati dai sindacati di categoria davanti alle sedi delle Regioni. Il problema a L'Aquila è quello degli "aggregati": sono i poliziotti nati o residenti nel capoluogo abruzzese che hanno richiesto di tornare nella loro città "per gravi motivi familiari" e lavorare lì, per avere anche loro la possibilità di raccogliere i pezzi, materiali e morali, di quello che il terremoto ha sbriciolato la notte del 6 aprile 2009. Erano 80 in tutto quelli tornati all'indomani del sisma. Una metà di loro è già rientrata al proprio posto negli uffici e nei reparti delle questure di tutta Italia.

La loro richiesta di restare nel capoluogo abruzzese non è stata più accolta. Gli altri sono ancora nel capoluogo abruzzese e regolarmente presentano domanda per rimanere. Ogni due mesi attendono la risposta dal Ministero per sapere se dovranno rifare le valigie per tornare a Milano, Roma o Genova e lasciare la loro casa e la famiglia a vedersela con i postumi del disastro e le carte burocratiche della ricostruzione. Una precarietà che si aggiunge al disagio di un contesto non certo rassicurante. Pochi numeri ma significativi descrivono la situazione dal punto di vista dell'ordine pubblico. Li ha esposti l'allora questore Stefano Cecere all'ultima festa della Polizia, a maggio: in provincia tra il 2011 e il 2012 sono state arrestate 380 persone contro le 176 dell'anno passato. Raddoppiate le denunce, che sono passate in un anno da 798 a 1450, 55.700 le persone identificate dalle 40.600 dell'anno precedente. Stesso discorso per le espulsioni, da 190 sono passate a 272. Aumentano i reati, dunque, mentre gli agenti diminuiscono.

Ora sono meno di 240, circa quanti ne erano in servizio il 5 aprile 2009. Ma da qui alla fine dell'anno, se dal Ministero dell'Interno non cambieranno idea, ne rimarranno 200 (quelli attualmente in organico perché, nel frattempo, in diversi sono andati o andranno in pensione). "La situazione è ingovernabile col personale che abbiamo ora. Sappiamo che altre città sono sotto organico ma qui è cambiato tutto negli ultimi anni". Lo spiega Fabio Lauri del Siulp, uno dei sindacati di polizia che assieme al Coisp e al Sap, tentano di portare sotto i riflettori quella che definiscono un'ingiustizia. "E' una battaglia quotidiana - gli fa eco Santino Li Calzi, collega del Coisp - gli ultimi erano stati bloccati su richiesta del questore per le elezioni del 2012. Poi sono ricominciati i rientri. Siamo arrivati a un massimo di 300 unità circa durante l'emergenza. Forse pensano che qui adesso sia tutto a posto". Formalmente lo stato di emergenza a L'Aquila sta per finire, il termine è il 31 dicembre 2012. L'Aquila è diventata un territorio difficile, è diversa sotto molti punti di vista. Prima di tutto quello urbanistico: il centro storico non esiste più, è "esploso" in 19 nuovi quartieri, le "new town" del Governo Berlusconi e i villaggi di moduli abitativi provvisori, le casette, contro cui hanno puntato il dito il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l'archistar Renzo Piano in occasione dell'inaugurazione del nuovo auditorium. Il territorio da coprire quindi è molto più vasto e complesso: "Ero a San Gregorio per un intervento, a ovest della città - racconta uno degli agenti di servizio alla volante, è uno degli ex aggregati, già costretto a tornare alla sede di appartenenza -quando dalla centrale hanno richiesto il mio intervento ad Arischia. Sono più di 30 chilometri, certo io li posso fare ai 200 all'ora se è una cosa grave, però...". Però oltre alle distanze c'è un centro storico deserto, in cui ogni giorno ancora "lavorano" gli sciacalli. Lo dimostra il numero di segnalazioni: "Solo stamattina abbiamo avuto sei o sette interventi per dei furti in case inagibili - ci spiegano - e ce ne sono ogni giorno perché la gente mano a mano li scopre e denuncia". E poi ci sono i cantieri, le imprese edili e gli operai. L'Aquila è diventato un polo di attrazione per la quantità di lavori da realizzare. Dalle riparazioni agli edifici con danni minori (classificati A, B e C) alla fase di ricostruzione delle case con lesioni più gravi, magari da abbattere, e i centri storici, sui quali si sono posati 43 mesi di polvere. A primavera l'ormai ex commissario straordinario alla ricostruzione, Gianni Chiodi, parlava di 9.000 cantieri da aprire entro la fine dell'anno. Significa tanta gente in più: "L'Aquila è diventato un porto di mare - racconta uno dei poliziotti - qui sono arrivate tantissime aziende, tantissimi operai. Molti vengono senza un lavoro, per cercarlo. Ci sono situazioni di forte disagio sociale. I controlli da fare, anche per quanti riguarda le immigrazioni e i cantieri, sono tanti, troppi". Da tre anni e mezzo gli "aggregati" aquilani lavorano, come dicono loro, "a costo zero". Per legge non possono fare straordinari. Non un euro in più della busta paga netta quindi. Mentre, una volta partiti, se dovesse esserci l'esigenza, "la Questura sarebbe costretta a chiamare personale da fuori, che costa molto di più perché ci sono indennità di missione e vari altri oneri". Li Calzi cita un esempio "per far capire come funzionano a volte le cose. Tra novembre e dicembre 2009 vennero inviati 20 agenti appena usciti dalla scuola. Non sapevamo dove metterli perché la città era fuori uso. E furono sistemati ad Avezzano. Solo per straordinari (un'ora di andata e una di ritorno), viaggio, vitto e alloggio costavano 100 euro in più a persona. Duemila euro in più al giorno". L'allarme, lanciato dallo stesso questore durante la festa della polizia di maggio è chiaro: "A L'aquila il pericolo mafie è forte". Lo sarà di più mano a mano che progrediranno i lavori e si sbloccherà il denaro pubblico. Anche in questo il lavoro di polizia è importante. Per il controllo dei cantieri soprattutto ma anche per il servizio di investigazione: "La squadra investigativa si è sempre più assottigliata: da tre persone, uno è andato in pensione e uno è aggregato. Se fanno rientrare l'aggregato che succede? Le indagini non si possono fare in solitaria. Anche la Digos, gli agenti in borghese, è ai minimi termini". In questo quadro manca ancora anche quella white list delle aziende "pulite" per i lavori della ricostruzione, ipotizzata già nel 2009, all'indomani del sisma, poi regolamentata ad aprile 2012 con le linee guida in un decreto. Ancora vuota. Mancano i punti di riferimento a livello istituzionale. A una richiesta di essere ascoltati, l'ex prefetto Giovanna Maria Iurato ha chiuso la porta agli aggregati, dirottandoli alla segreteria del suo ufficio. Ora è stata trasferita a Roma, al suo posto è arrivato l'ex prefetto di Messina Francesco Alecci. Pochi giorni fa è stato trasferito anche il questore, Stefano Cecere, ora ad Ancona mentre il capo della Mobile, Fabio Ciccimarra è stato sospeso a luglio perché condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi di reclusione (con interdizione dai pubblici uffici) per i fatti del G8 di Genova del 2001.  Gli agenti aggregati a giugno hanno inviato una lettera alle istituzioni (Prefettura, Questura, Provincia e sindaco) un appello caduto nel vuoto. Così hanno deciso di scrivere al Presidente della Repubblica, perché si sentono abbandonati, come era già accaduto per i Vigili del fuoco. Al capo dello Stato hanno raccontato "come a un padre" la loro precarietà di terremotati e di "precari" senza garanzie esprimendo anche il "timore per il depotenziamento dell'apparato di Polizia a L'Aquila". Molti di loro hanno chiesto il trasferimento da anni, alcuni anche da 20.

Richieste rifiutate o che non trovano risposta, per esempio a chi il trasferimento l'ha chiesto per "gravi motivi famigliari", magari per assistere i genitori malati. Ora sembra che la situazione si sia congelata. I rientri degli aggregati pare siano stati bloccati (anche se ancora non c'è nulla di ufficiale) ma quello che tutti sanno è che, entro la fine dell'anno, coloro che non appartengono alla Questura aquilana, come "immigrati" a casa propria, dovranno abbandonare famiglia e città per far ritorno alle loro sedi.

EDILIZIOPOLI E TERREMOTO

Sono accusati di non aver previsto il terremoto dell’Aquila, anche se ci è sempre stato detto che i terremoti non possono essere previsti. Per questo motivo i membri della Commissione grandi rischi sono stati rinviati a giudizio con l’imputazione di omicidio colposo plurimo e lesioni, perché non hanno allertato e fatto evacuare la popolazione abruzzese prima del terremoto che ha colpito la regione nel mese di aprile del 2009.

Il procuratore dell’Aquila Alfredo Rossini ha sottolineato: “I responsabili sono persone molto qualificate, e quindi avrebbero dovuto dare risposte diverse ai cittadini. Non si tratta di un mancato allarme, ma del mancato avviso che era necessario andarsene dalle case“.

Avrebbero sottovalutato gli allarmi relativi a un possibile, imminente terremoto all'Aquila, omettendo di adottare misure idonee a evitare il disastro del 6 aprile 2009 che portò alla morte di 309 persone. Per questo motivo il gup del Tribunale dell'Aquila, Giuseppe Romano Garganella, ha rinviato a giudizio i sette componenti della Commissione Grandi Rischi della Protezione civile che il 31 marzo 2009, sei giorni prima del sisma, parteciparono alla riunione che si tenne nel capoluogo abruzzese. Per tutti gli imputati l'accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni. Si tratta di Franco Barberi, presidente vicario della Commissione, del professor Enzo Boschi, presidente dell'Istituto nazionale di fisica e vulcanologia (Ingv), del vice capo del settore tecnico-operativo della Protezione Civile, Bernardo De Bernardinis, del direttore del Centro nazionale terremoti, Giulio Selvaggi, del direttore della fondazione Eurocentre, Gian Michele Calvi, del professore ordinario di fisica terrestre dell'Università di Genova, Claudio Eva, e del direttore dell'ufficio rischio sismico del Dipartimento della Protezione Civile, Mauro Dolce.

Il punto nodale dell'inchiesta è il verbale redatto dalla Commissione subito dopo la riunione del 31 marzo 2009, documento nel quale l'ipotesi di un imminente forte terremoto veniva definita poco probabile. La riunione con le massime autorità scientifiche del settore fu convocata per esaminare la fenomenologia sismica in atto da alcuni mesi nel territorio aquilano. Da quasi sei mesi si susseguivano scosse sismiche, culminate il 30 marzo con una scossa di magnitudo 4.0. Ma gli esperti non ritennero che la situazione fosse il preludio a una scossa devastante. «I forti terremoti in Abruzzo – evidenziò Boschi – hanno periodi di ritorno molto lunghi. È improbabile che ci sia a breve una scossa come quella del 1703, pur se non si può escludere in maniera assoluta». Secondo il procuratore capo dell'Aquila, Alfredo Rossini e il sostituto, Fabio Picuti, la Commissione non prese le necessarie precauzioni, a partire dall'ordine di evacuare immediatamente gli abitanti. Agli imputati viene contestata «una valutazione del rischio sismico approssimativa, generica e inefficace in relazione alla attività della Commissione e ai doveri di prevenzione e previsione del rischio sismico». Per l'accusa, dopo la riunione furono fornite «informazioni imprecise, incomplete e contraddittorie sulla pericolosità dell'attività sismica vanificando le attività di tutela della popolazione». Boschi ha ribadito di « ». Boschi, però, replica: “Non chiedeteci di fare i veggenti, continuo a fare il mio lavoro senza paura e ribadisco di  aver fatto sempre il proprio dovere “.

CHE COSA CONTESTA IL GIUDICE

leggiamo nella memoria che i sette imputati: “per colpa consistita in negligenza imprudenza, imperizia, in violazione altresì della normativa generale della Legge n. 150 del 7 giugno 2000 in materia di disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni effettuando, in occasione della detta riunione, una ‘valutazione dei rischi connessi’ all’attività sismica in corso sul territorio aquilano dal dicembre 2008 approssimativa, generica ed inefficace in relazione alle attività e ai doveri di ‘previsione e prevenzione’; e fornendo informazioni incomplete, imprecise e contraddittorie sulla natura, sulle cause, sulla pericolosità e sui futuri sviluppi dell’attività sismica in esame venendo così meno ai doveri di valutazione del rischio connessi alla loro qualità e alla loro funzione e tesi alla previsione e alla prevenzione e ai doveri di informazione chiara, corretta, completa cagionavano in occasione in occasione della violenta scossa di terremoto (magnitudo momento MW = 6.3, magnitudo locale ML = 5.8) del 06.04.2009 ore 3,32, la morte di” 32 persone (elencate nella memoria).

Il giudice non imputa agli accusati il fatto che non avessero previsto la scossa, perché prende atto e concorda con la comunità scientifica internazionale che a oggi non è possibile fare previsioni sull’accadimento di un forte terremoto, anche quando vi è una sequenza sismica in atto. La mappa di pericolosità sismica messa a disposizione dagli scienziati ad amministratori, politici, tecnici e cittadini è uno strumento di conoscenza che deve poi essere tradotto in azioni efficaci di prevenzione antisismica. Solo così sarà possibile salvare nel futuro vite umane in caso di altri, inevitabili, terremoti. Come già accennato in precedenza, la zona dell’Aquila è già dal 2006 (ordinanza PCM 3519 del 28 aprile 2006) inquadrata tra le aree a più elevata pericolosità sismica in Italia.

Tuttavia, il giudice ritiene che l’analisi della situazione in occasione della riunione del 31 marzo sia stata fatta con superficialità, che non si siano prese le più elementari misure precauzionali (quali non rimanere in casa nel caso di scosse), non siano stati forniti gli elementi necessari per poter mettere in atto comportamenti prudenti e siano state comunicate alla stampa informazioni fuorvianti che hanno indotto molte delle persone, alcune delle quali hanno perso la vita, a rimanere a casa, cosa che non avrebbero fatto nel caso il messaggio fosse stato meno rassicurante.

Oltre a ciò, il giudice ritorna sulla prevedibilità, contraddicendo le affermazioni più volte riportate nella memoria, e a pagina 194 dice anche che ”Le concause, anche quelle costituenti fatto illecito altrui, rientravano tutte nella sfera di prevedibilità degli imputati”, e in particolare “vi rientrava il giudizio di prevedibilità nel breve termine di un terremoto con i medesimi caratteri di quello verificatosi il 6 aprile alle ore 3,32″.

Il rinvio a giudizio, con l’accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni, dei componenti della commissione Grandi rischi della Protezione civile che si era riunita all’Aquila sei giorni prima del terremoto del 2009, scrive un nuovo capitolo dell’eterno sottotesto della storia italiana che parla di complotto, incuria, dolo, Stato corrotto. Di qualcosa che succede nascostamente, mentre l’Italia vive, arranca, lavora, e in cui la magistratura trova nuovi motivi di intervento e supplenza, mentre indica colpevoli già designati per il fatto di rivestire funzioni istituzionali. Con la sua decisione, il Gup dell’Aquila si è fatto sismologo, ha stabilito la prevedibilità di quel terremoto e l’eluso dovere, da parte della commissione Grandi rischi, di diffondere i dati dell’allarme.

Il tecnico di laboratorio Giampaolo Giuliani il terremoto dell’Aquila lo aveva previsto per il 29 marzo, e oggi è lui a dichiarare, dopo il rinvio a giudizio della commissione Grandi rischi, che «E' un fatto storico, sono contento. Non è  mai accaduto che su un fenomeno fisico fosse stata accertata una responsabilità  di chi era preposto all'incolumità delle persone. Questa vicenda insegna che la popolazione va correttamente informata, sempre. Spetta alle persone poi decidere cosa fare: libero arbitrio. - Giuliani ricorda - Cercai di contattare il sindaco di Sulmona per metterlo in guardia dai rischi del terremoto: Bertolaso mi insultò pubblicamente. Quella notte avvisai anche il sindaco dell'Aquila, che dopo aver parlato con me decise di dormire nel camper, ma a quel punto non poteva proprio fare di più".

Ci sono voluti 28 anni, dal 1972 al 2000, per mettere in piedi il San Salvatore, e pochi minuti per mandarlo al tappeto: i costi sono stati nove volte più del previsto. I giornali ci parlano che il progetto dell'ospedale porta la data 1967. Spesa inizialmente prevista 11.395 milioni di lire. Costi lievitati fino a quota 214 miliardi e 222 milioni. Ma lo scandalo nello scandalo è un ospedale senza agibilità in piena zona sismica. E’ lo scandalo dell’Aquila dove la struttura è stata evacuata subito dopo il terremoto perché pericolante. Ora un ispettore di polizia rivela ai microfoni di "Studio Aperto", il telegiornale di "Italia 1", del 14 aprile 2009 edizione delle 12,20 che l’ospedale dopo l’inaugurazione del 2000 non ha mai ricevuto il certificato di agibilità perché mancava l’accatastamento.

“Pare che non siano stati fatti neanche gli atti di vendita dei terreni- dice il poliziotto- e quindi non stando tutti gli atti di vendita, non la possono neanche accatastare, quindi come fai ad accatastare una struttura su un terreno che comunque non è tuo?”.

L’ispettore di polizia aveva presentato una denuncia in questura  il 28/12/2008. Nel documento si parla anche dei lavori alla filiale interna all’ospedale della Cassa di Risparmio dell’Aquila, spostata per fare un favore alla banca. I locali non avrebbero mai ricevuto l’agibilità.

“I poteri forti sono la banca – continua il poliziotto - la Cassa di Risparmio, che è comunque presente in tutto il territorio dell’Aquila ed anche dell’Abruzzo e fuori. E comunque c’hanno potere e l’ASL. Questi sono i poteri forti che ti tagliano le gambe. Quindi tu quando vai a toccare questi poteri………..”

La questura fa sapere che ci sono indagini in corso. La procura assicura controlleremo tutto.

Ma dopo questa denuncia per il poliziotto è iniziato l’inferno.

“Mi sono trovato il trasferimento d’ufficio in Questura. Morale della favola: alla fine hanno trasferito solo me d’ufficio. Quando ho fatto questa segnalazione, ho chiesto comunque che mi delegassero a fare le indagini e naturalmente non l’hanno fatto. Lo dico con tutto il cuore, fanno letteralmente schifo.”

Norme antisismiche violate. Abruzzo lunedì 6 aprile 2009, ore 3,32

Gli allarmi inascoltati. La scossa devastatrice. Le vite spezzate. La disperazione dei sopravvissuti. Il dramma dei bambini. Eroi e vecchi camion. Un reportage da “Il Corriere della Sera” a “L’Espresso” e “Panorama”.

I vigili del fuoco arrivati da tutto il Paese sono stati costretti a portare in Abruzzo anche vecchi camion scassati.

Bestioni appesantiti da venti anni di servizio o ancora di più, scrive "Il Corriere della Sera".  Che a volte, dopo un rantolo del motore, si sono fermati in autostrada e, come certi muli di una volta, non han voluto saperne di ripartire. Eccole qui, la faccia dello Stato. L’Italia dei vetusti «Fiat Om 90», «AF Combi» o «APS Eurofire» in servizio dai tempi lontani in cui il centravanti della nazionale era Paolino Rossi. Carrette di lamiera che dopo essere state lasciate «dieci anni nei capannoni» (parole di un comunicato ufficiale del sindacato di base Rdb-Cub) sono finite «fuori uso per problemi di ribaltamento e rotture ai supporti del serbatoio dell’acqua» e abbandonate lungo il percorso. Non puoi sentirti orgoglioso di come sgobbano i carabinieri e i poliziotti, le guardie di finanza e i forestali e tutti gli altri, senza ribollire d’insofferenza a guardare la mattina dopo, tra le macerie di Onna, la delusione dei volontari della Protezione civile del Friuli, che sono venuti giù coi loro cani e le loro tende e le loro attrezzature e stanno lì impotenti nelle loro divise nuove di zecca che non riescono a sporcare: «Sono già le dieci, siamo qua da ieri sera e nessuno ci ha ancora detto come possiamo renderci utili. Che modo è?».

È l’Italia. La «nostra» Italia. Piccoli egoismi e fantastica dedizione, efficienza e sciatteria, ripiegamenti individualisti e straordinario altruismo di uomini e donne accorsi da tutte le contrade a dare una mano.

Il gran Sasso, lassù in alto, domina severo. L’impresario edile Bruno Canali, ai margini di quella Onna in cui le ruspe scavano solchi tra le montagne di macerie per ricostruire il tracciato delle vecchie strade, mostra il suo villino: «Non c’è una crepa ». Spiega che l’ha costruita seguendo «tutti i criteri antisismici». A pochi metri, le altre case si sono sgretolate. Da lui non è caduto un soprammobile. Come fai a non arrabbiarti, a guardare le fotografie della biblioteca della scuola elementare crollata a Goriano Sicoli o, peggio ancora, dell’ospedale (l’ospedale!) dell’Aquila? Sono anni che si sa come si dovrebbe costruire, nelle aree a rischio. Non sono serviti a niente la durissima lezione del terremoto ad Avezzano né gli avvertimenti degli esperti che da decenni ricordano come le zone più esposte siano quella a cavallo dello Stretto di Messina, la Sila in Calabria, il Forlivese, la Garfagnana e la Marsica né il disastro di qualche anno fa in cui morirono i piccoli di san Giuliano. A niente.

«Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani», disse furente Jean-Jacques Rousseau a proposito del catastrofico terremoto di Lisbona del 1755. L’uomo non può sfidare impunemente la natura: questo voleva dire. Non può contare, spensieratamente, solo sulla buona sorte. Eppure così è sempre stato, da noi. E decine di migliaia di persone hanno continuato ad ammucchiarsi disordinatamente intorno al Vesuvio nonostante siano passati solo pochi decenni dall’ultima eruzione del 1944 quando la gente pazza di paura prese a girare con la statua di San Gennaro perché fermasse la lava già bloccata quarant’anni prima dal santo a un passo da Trecase. E migliaia di sindaci e assessori e vigili urbani hanno chiuso gli occhi per anni sul modo in cui, anche nelle zone più pericolose, venivano tirati su spesso con cemento scadente e piloni gracili i condomini e le scuole e gli edifici pubblici. Per non dire di chi aveva le responsabilità più gravi. Ma, come accusava Il Sole 24 ore del 7 aprile 2009, il varo delle nuove regole si è via via impantanato di ritocco in ritocco, di rinvio in rinvio, di proroga in proroga. Colpa della destra, colpa della sinistra. Basti ricordare che fu solo la Corte Costituzionale, nel 2006, tra i lamenti e gli strilli dei costruttori («Siamo molto preoccupati per il rischio di paralisi nei cantieri, si potrebbe bloccare l’edilizia!») a bloccare una legge troppo permissiva della Regione Toscana spiegando che no, «in zona sismica, non si possono iniziare i lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico».

Ed è sbalorditivo, oggi, tornare indietro soltanto di qualche giorno dal sisma. E trovare la conferma che mai, prima dell’apocalisse del 6 aprile 2009, erano state nominate parole come sisma o terremoti nella proposta edilizia del governo Berlusconi alle Regioni del giugno 2008, mai nella prima bozza del «piano casa», mai nell’in­tesa del 31 marzo 2009. Mai. Con il terremoto in Abruzzo Claudio Scajola detta alle agenzie che il piano casa «dovrà essere utile anche per le protezioni antisismiche» e il nuovo documento dato alle Regioni, ritoccato in tutta fretta, ha un «articolo 2» nuovo nuovo. Dove si spiega, sotto il titolo «misure urgenti in materia antisismica» che «gli interventi di ampliamento nonché di demolizione e ricostruzione di immobili e gli interventi, che comunque riguardino parti strutturali di edifici, non possono essere assentiti né realizzati e per i medesimi non può essere previsto né concesso alcun premio urbanistico sotto alcuna forma ed in particolare come aumento di cubatura, ove non sia documentalmente provato il rispetto della vigente normativa antisismica».

Evviva. Ci sono voluti i lutti di Onna e la distruzione dell’Aquila e quelle file di bare allineate, però, per cambiare il testo originale dato alle Regioni solo una settimana prima. Dove l’articolo 6, precipitosamente soppresso dopo il cataclisma abruzzese, era intitolato «Semplificazioni in materia antisismica». Meglio tardi che mai. Purché dopo una settimana, un mese, un anno, non torni tutto come prima.

Qualcuno adesso dovrà indagare. Una volta sepolti i morti e sistemati gli sfollati, dovrà spiegare perché a L'Aquila il cemento impastato dieci o vent'anni prima già si sbriciola come pane secco. Dovrà dire perché queste travi si sono spezzate e hanno fatto un massacro. Come in Abruzzo, con il brivido delle scosse di assestamento e il vento del Gran Sasso che spazza le macerie di via Luigi Sturzo, centro città, cento per cento di morti nelle case nuove là in fondo alla strada. Nuove. Eppure sono venute giù.

Se due mesi di sciame sismico riducono così il cemento, allora l'allarme lo dovevano dare molto prima. Invece questo passerà alla storia come il primo terremoto previsto in Italia. E, purtroppo, anche come il primo snobbato dalle autorità. Hanno ignorato l'annuncio del disastro molti sindaci della provincia per finire, su su, agli esperti della Protezione civile.

Eppure la previsione di Giampaolo Giuliani, tecnico del laboratorio scientifico del Gran Sasso insultato e denunciato per procurato allarme, non è uno scoop da premio Nobel. Che la liberazione di gas radon dagli strati profondi delle rocce riveli l'arrivo di un forte terremoto, lo si impara al primo anno di Geologia all'università. Anche in Italia. È vero che non è possibile conoscere con precisione quando colpirà la scossa. Ma a L'Aquila e lungo l'Appennino la terra tremava e da fine febbraio. Avere un laboratorio di fisica proprio dentro il Gran Sasso, la montagna attraversata dalle faglie e dalle tensioni geologiche di questo disastro, era poi una immensa opportunità. Forse bastava sfruttarla. Nessun preallarme nemmeno per i soccorsi in una regione fatta di antichi paesi di sassi e pietre.

Lunedì 6 mattina a Civita, una frazione a pochi chilometri da Onna, vicino all'epicentro in provincia, gli abitanti hanno dovuto sbarrare la strada a un convoglio dei vigili del fuoco per chiedere loro di estrarre due persone. Le hanno tirate fuori che erano già morte. I pompieri son ripartiti subito per L'Aquila. I cadaveri sono rimasti a Civita, per terra, fino alle quattro del pomeriggio: "Quando è arrivata un'auto delle pompe funebri", raccontano i testimoni. Sono le priorità a stabilire dove si devono fermare i convogli. I primi sono stati inviati dove c'erano più cadaveri: a L'Aquila, a Onna, a Paganica. Così gli abitanti delle piccole frazioni hanno dovuto aspettare. Non c'erano alternative. Da martedì, secondo la Protezione civile, con l'arrivo dei rinforzi da tutta Italia, anche i centri più piccoli sono stati raggiunti. Nonostante la previsione del terremoto, però, gli abitanti della città e di tutta la provincia avevano creduto alle rassicurazioni degli esperti della commissione Grandi rischi, riprese dal capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, dal governo e dalle autorità locali. Nessuno immaginava che perfino le costruzioni più moderne di L'Aquila fossero trappole. Non lo sapevano i ragazzi italiani e stranieri morti e feriti nel pensionato universitario, nemmeno i quattro studenti sepolti in due stanze prese in affitto in un'altra villa in via Sturzo. Non lo poteva immaginare.

Gran parte delle strade di L'Aquila in quei giorni era al buio. In molte case però non mancava la luce. Vedi le finestre illuminate dentro le tapparelle abbassate. Credi che ci sia qualcuno lassù. Invece è la fotografia di lunedì 6 aprile, ore 3,32, il momento esatto della scossa, 5,9 gradi della scala Richter, nemmeno un record in Italia.

A metà di via Sturzo la fuga di una famiglia su un'Alfa Romeo è rimasta bloccata al cancello, quando un grosso pezzo di cornicione l'ha colpita in pieno. In una camera da letto spogliata dai muri perimetrali è ancora accesa l'abat-jour sul comodino. Sui balconi sopravvissuti al crollo, il bucato steso la domenica sera. I libri negli scaffali. Le sveglie che ancora suonano la mattina presto. Persiane semichiuse che ricordano le ville calcificate di Pompei. Istantanee di vita quotidiana. Al buio si intuisce la sagoma di quattro donne avvolte nelle coperte di lana. Si fanno coraggio insieme e dormono sulle sedie davanti alla casa di una di loro. Non hanno voluto andarsene al centro di raccolta. Pochi passi più avanti, in fondo a via Sturzo, le fotoelettriche illuminano il vuoto. Due ruspe rimuovono il groviglio di tondini di ferro. L'armatura a queste costruzioni non manca. Stupisce l'apparente fragilità del cemento. Tre o quattro ville, tutte uguali, si sono accasciate sui loro piani. Resta soltanto il tetto di due. In una sono morti due anziani. Nella seconda almeno quattro studenti tra i quali un ragazzo della zona di Vasto, in Abruzzo. La sua mamma sostenuta da un'amica piange da ore. «Ho provato a far suonare il suo telefonino», sussurra, «risulta irraggiungibile. Un collega di università di mio figlio ha invece chiamato il telefonino di un suo compagno di stanza sepolto là sotto. Quello suona ancora, ma da domenica notte nessuno risponde».

Subito più avanti il cumulo di macerie nasconde la bimba di tre anni e tutta la sua famiglia. Rimossi i blocchi di cemento, trovano prima il piccolo materasso del lettino. Si vede subito che apparirà un bambino. Non ci sono più bare. Nemmeno bodybag, i sacchi utili per trasportare le vittime delle emergenze, che l'Italia ha regalato negli anni scorsi alla Libia. I soccorritori liberano dai calcinacci una coperta di lana. La ripiegano per usarla come barella. Avvolgono la piccola nella lana e la adagiano sulla terra. Vigili del fuoco e guardia forestale interrompono per qualche minuto il lavoro a mani nude nei detriti. Li guida un abitante del quartiere in tuta blu, grigio di polvere fin nei capelli. «Adesso restano da trovare un'altra bambina, la sua mamma e il suo papà», spiega l'uomo al capo operazioni dei pompieri: «Poi dobbiamo tirare fuori gli anziani che abbiamo visto nella casa accanto. Ma non so quanti sono». Arriva finalmente l'ambulanza, allontanata per caricare le macerie su due grossi camion. «Come si chiama questa bambina?», chiede un'infermiera della Croce rossa. Nessuno sa rispondere. Non ci sono parenti. Non ci sono vicini. Tutti sotto le macerie. Forse una quindicina di morti. Tutti sepolti dal crollo di case relativamente nuove. Intorno le costruzioni più vecchie e i condomini sono rimasti in piedi. Hanno danni strutturali. La facciate bombardate. Ma i loro abitanti hanno almeno avuto il tempo di svegliarsi e fuggire.

In via Sant'Andrea all'angolo con Generale Francesco Rossi, prega la mamma di Armando Cristiani. Per arrivare fin qui bisogna sfidare i calcinacci che le scosse sparano come cecchini dalle cime dei palazzi. Antonio Rossi, il papà, cammina su e giù con un piccolo ombrello in mano e un sacchetto di biscotti sottobraccio. Era la cena che un vigile urbano gli ha regalato. Sulla montagna di macerie continua il lavoro di altri eroi. Rischiano la vita e altri crolli per salvare Marta, un'altra studentessa tradita dalle norme antisismiche dei palazzi dell'Aquila. Una ragazza raggiunta nel pomeriggio dagli speleologi e dai soccorritori del Club alpino italiano. «Marta ci ha detto di aver sentito delle grida salire dalla tromba delle scale. Una voce molto più sotto di lei», racconta uno speleologo: «Abbiamo chiamato, abbiamo provato ma non ci ha risposto nessuno». Antonio Cristiani è convinto che suo figlio sia lì ad aspettare che qualcuno lo tiri fuori. Erano sei studenti in affitto, in un appartamento al terzo piano. Tutti dispersi. «Ho sentito mio figlio sabato sera», racconta la mamma, «mi ha detto che c'era appena stata una forte scossa. Eravamo preoccupati, ma lui diceva che poi passava».

Trema ancora la terra. Scosse forti che fanno crollare i muri che ormai non si reggono più. Gli speleologi portano in superficie Marta, la avvolgono, la caricano su un'ambulanza. «La ragazza era incastrata accanto a un armadio», racconta il soccorritore che l'ha liberata: «Sotto c'era il vuoto e dovevamo stare molto attenti a non farla cascare più in basso». Questi soccorritori sono ragazzi di poche parole. Lo speleologo dice solo che di mestiere fa il carpentiere- saldatore: «Niente nomi, non servono». E se ne va sulla montagna di macerie a cercare Martina, studentessa di Ingegneria gestionale. È la grande Italia dei volontari, quanto mai uniti da Nord a Sud. I genitori di Martina aspettano avvolti in una coperta. Il padre è rassegnato: «Ormai mi devo mettere il cuore in pace». In via Persichetti, altro quartiere, altra strage. I condomini sono sbrecciati. Le case dell'Ottocento sembrano quasi indenni. In mezzo il crollo delle palazzine più nuove ha spianato l'isolato. Due bare attendono in mezzo alla strada che qualcuno le recuperi. “L'Aquila - Visa Persichetti, non identificata", scrive un soccorritore con il pennarello sul nastro adesivo. L'assenza di funzionari dell'anagrafe impedisce al momento di sapere chi sono i residenti a ogni indirizzo. L'identificazione verrà fatta nei prossimi giorni. Anche se la mancanza di numero civico sul nastro adesivo non sarà d'aiuto. Appare nel buio Pasqua E., la mamma di Alice Dal Brollo. È arrivata da Cerete in provincia di Bergamo e scopre che nessuno sta scavando nella casa di sua figlia. Poco fa c'è stata una scossa oltre il quarto grado Richter. Per questo i vigili del fuoco si sono allontanati. Tornano poco dopo con la guardia forestale. «Alice è sicuramente lì. Una sua compagna di stanza l'hanno già trovata morta. Un'altra, ritornata a L'Aquila da Sora poco prima del terremoto, è riuscita a scappare. Forse mia figlia è bloccata». La quarta studentessa, anche lei di Sora, deve ringraziare l'influenza che si è presa. E domenica sera non è tornata a L'Aquila. Alle nove del mattino i genitori scoprono che Alice è morta. Come Luigi Giugno, 34 anni, guardia forestale, ucciso nell'unica camera da letto crollata nel loro palazzo. L'hanno trovato sopra il lettino del suo bimbo, Francesco, 2 anni, che ha tentato inutilmente di proteggere. Accanto il cadavere della moglie e la valigia già pronta per il ricovero al reparto maternità. Francesco questa settimana avrebbe avuto una sorellina. Anche la loro casa sembrava sicura.

Dovremmo costruire case antisismiche, come in Giappone e in California dove i palazzi tremano ma pochi si fanno male. Invece spenderemo quei soldi per un grande ponte a Messina. Silvio Berlusconi l'ha ripetuto in questi giorni. Dove? Dopo aver visto le macerie a L'Aquila.

Il crollo della prefettura. L'ospedale lesionato. La questura inagibile. Così i soccorsi sono rimasti senza testa. Perché nonostante le scosse nessuno aveva verificato gli edifici ? Si chiede Primo di Nicola su "L'Espresso".

Giù la Prefettura: quello che doveva essere il centro nevralgico della gestione dell'emergenza è completamente fuori uso e ridotto a un cumulo di macerie. Inutilizzabile anche la questura, altro luogo considerato fondamentale per affrontare le grandi calamità. E poi si sbriciolano anche gli impianti dell'ospedale San Salvatore, inaugurato dieci anni fa, costruito con colonne in cemento armato e sale operatorie di cartapesta. Così il terremoto spazza via tre dei pilastri dei soccorsi: obbliga la Protezione civile a rivedere da zero i piani di intervento, in una zona che da sempre si conosce come sismica e che da settimane vive una sciame di scosse. Ma dove nessuno si era preoccupato di verificare la robustezza dei capisaldi per affrontare la crisi più drammatica: fino a domenica il palazzo ottocentesco della Prefettura era il fulcro di ogni strategia.

Davanti al collasso di queste strutture, il professor Franco Barberi, vulcanologo e presidente vicario della Commissione grandi rischi, non usa mezzi termini. "È desolante vedere un simile spettacolo di inefficienza e imprevidenza in un paese come il nostro che a misurarsi con le conseguenze dei forti terremoti dovrebbe essere abituato da sempre". E accusa: "Le responsabilità sono diffuse a tutti i livelli, purtroppo siamo un paese che non impara le lezioni". Invece l'emergenza è stata doppia, trasformando la pianificazione in improvvisazione.

Guido Bertolaso, sottosegretario e commissario straordinario per questo disastro, è stato persino costretto a sdoppiare la sala operativa, il cervello di tutte le operazioni. Una parte è finita nei locali della scuola sottufficiali delle Fiamme Gialle, una parte ha dovuto addirittura chiedere ospitalità a una struttura privata come la Reiss Romoli: un centro di alta formazione per le telecomunicazioni appartenente a Telecom Italia. Eppure, mai come questa volta si poteva essere pronti a scattare. Bastava rispettare la legge e ascoltare i segnali della natura, usando buon senso.

Dopo la strage di San Giuliano di Puglia, dopo l'assurdità di un terremoto che rade al suolo soltanto la scuola ossia l'edificio che doveva essere più solido, dopo la morte di quei ventisette bambini erano state varate nuove regole. Ma sono passati sette anni da quel sisma, scioccante ma di dimensioni limitate, e i controlli sui palazzi pubblici non sono ancora diventati operativi: rinvio dopo rinvio, l'entrata in vigore delle norme continua a slittare. La legge ignora i tempi della terra. E così in Abruzzo tanti sono morti per colpa di verifiche che i legislatori hanno preferito rimandare. Con oltre 70 mila edifici da esaminare, finora in tutta Italia di verifiche ne sono state fatte sette mila, appena il dieci per cento del totale. In Abruzzo la media è ancora più bassa. Quanto, nessuno lo sa esattamente. Un alto responsabile della Protezione civile che preferisce mantenere l'anonimato confessa con rabbia a “L'Espresso” di avere chiesto questi dati alla Regione Abruzzo senza riuscire ad ottenerli. Quello che è sicuro invece è che nessun intervento è stato fatto negli ultimi anni sugli edifici crollati all'Aquila, nonostante la Protezione civile disponesse di 280 milioni di euro per l'analisi della vulnerabilità e la messa in sicurezza delle strutture strategiche.

Il palazzo della Prefettura, per esempio, per la sua storica usura, secondo il professor Barberi andava pesantemente rinforzato. Oppure, in mancanza di volontà o di risorse, abbandonato a favore di un'altra sede sicura che ospitasse il quartiere generale dei soccorsi. Altre strade da seguire non ce n'erano. Non aver fatto né una cosa né l'altra apre un delicato capitolo sul fronte delle responsabilità che, secondo Barberi, "vanno comunque individuate". Il crollo della Prefettura ha infatti fatto perdere ore chiave. Subito dopo quella maledetta scossa delle 3.32 la macchina dell'emergenza a L'Aquila è rimasta senza testa: nessuna centrale, nessuna rete di collegamenti per coordinare il territorio con le strutture nazionali. Per indirizzare i soccorsi verso i paesi più colpiti, per orientare i mezzi a seconda delle necessità. "C'era un gravissimo problema di reti telefoniche e non riuscivo a contattare, dirigenti della provincia e sindaci", denuncia il presidente della Provincia, Stefania Pezzopane: "La gravità di quello che stavamo vivendo non è stata percepita subito".

I vertici delle operazioni si sono prima installati nella scuola di Telecom Italia, poi si sono trasferiti nella base della Guardia di Finanza, che disponeva di spazi per i veicoli e di connessioni con tutti gli apparati dello stato. Per ore c'è stato incertezza su come rintracciare i responsabili delle operazioni e sulla gestione delle informazioni. Ore preziose, in cui altre persone potevano essere salvate: altri superstiti oltre ai cento estratti dal coraggio di abitanti e soccorritori. Perchè nessuno ha verificato la stabilità della Prefettura? I piani di intervento, che la indicavano come centrale dell'emergenza, ricadono sotto la responsabilità della Protezione civile. Ed è incredibile che nonostante lo sciame di scosse che da giorni sia mancata la minima precauzione. Stefania Pezzopane parla di "tragedia annunciata": "Soprattutto dopo quello che succedeva da due mesi con numerosissime scosse come quella forte del 30 marzo che ci aveva portato alla chiusura di scuole". A più di dieci ore dal sisma, dichiara sempre la presidente della Provincia: "Ho l'impressione che la situazione del circondario sia stata sottovalutata".

La scossa del 30 marzo poteva essere un segnale d'allarme per mettere la macchina della Protezione civile in posizione di lancio. L'area interessata dai fenomeni sismici dista pochissimo da Roma, da Pescara e da Ancona, con una rete autostradale celebre per la sua estensione. Ci sono a distanze ridotte aeroporti civili e militari, ci sono basi di elicotteri, ci sono caserme dell'esercito e delle forze dell'ordine. C'era tutto per essere ineccepibili. E invece sono venuti a crollare i pilastri per la gestione dell'emergenza, lasciando nella confusione le prime ore, quelle più importanti per salvare le persone intrappolate tra le macerie.

Ancora più grave il caso dell'ospedale San Salvatore, entrato in funzione nel 1994 e che avrebbe dovuto resistere ad ogni genere di sisma. Invece è stato addirittura evacuato per le pesanti lesioni strutturali registrate anche nell'armatura del cemento. "E pensare che è costato tantissimo", afferma il suo direttore generale Roberto Merzetti: "In più, secondo le carte di cui disponiamo era stato a suo tempo garantito per resistere a terremoti addirittura più forti di quello che abbiamo appena registrato".

Non si sa quali garanzie siano a suo tempo state date per la Casa dello studente crollata e costata la vita di alcuni ragazzi. Anch'essa però era stata realizzata in cemento armato puntualmente spappolatosi sotto la spinta del sisma. Cemento del tutto particolare e inadatto alla bisogna e sul quale, sospettano in Regione, costruttori disonesti potrebbero avere speculato realizzando armature di scarsa qualità. Su tutto questo già si invoca l'intervento della magistratura. Perché i soccorritori arrivati sul posto lunedì si sono prodigati per tirare fuori dalle macerie quante più persone possibili, ma quelle ore chiave perse nell'assenza di un quartiere generale possono avere determinato la fine per molte altre vite imprigionate tra le travi. Nella speranza che almeno questa volte la lezione serva a evitare altri disastri futuri.

“Qui sono cadute anche le case nuove”. Parole di allarme del sindaco de L’Aquila a conferma che non sono crollate soltanto le vecchie case in pietra del centro storico: il terremoto del 6 aprile ha distrutto o danneggiato in modo tale da renderli inabitabili anche palazzi moderni. L’ospedale, un presidio che non dovrebbe solo restare in piedi ma anche funzionare in emergenza, è stato evacuato e dichiarato inagibile (per il 90%). Come l’hotel “Duca degli Abruzzi”, che non era in un palazzo di pietra antica e si è accartocciato su se stesso. O la chiesa di Tempera, a sette chilometri dall’Aquila, che era un edificio moderno, fino alla ormai tristemente nota Casa dello studente, in via XX Settembre, costruita a metà degli anni sessanta e crollata su se stessa.

Un problema non solo dell’Abruzzo, che pure è zona ad elevato rischio sismico. La Protezione civile calcola che in Italia siano 80 mila gli edifici pubblici “vulnerabili”: scuole, ospedali, uffici, caserme. A essi vanno aggiunte le infrastrutture presenti in zona (strade, ferrovie, ponti). Le scuole costituiscono una vera emergenza: quelle edificate in zone a rischio sarebbero 22 mila, 16 mila delle quali in aree ad alto rischio; di queste circa novemila sarebbero prive di criteri antisismici e potrebbero subire danni in caso di scosse. Si calcola che gli ospedali da mettere a norma siano invece 500. Ma a chi tocca intervenire? Chi decide le priorità, anche economiche? Un’autorità centrale specifica non esiste e gli enti responsabili sono una quantità enorme: le regioni hanno competenza per ospedali e strutture sanitarie, province e comuni per le scuole, lo Stato per prefetture e caserme. Dal 2003 la Protezione civile dirama con regolarità ordini di verifica, i controlli però sono impossibili, così come capire quali siano le priorità: bisognerebbe pianificare interventi in un lungo arco di tempo, almeno un decennio. Lo stesso discorso andrebbe fatto per il patrimonio edilizio privato. Un monitoraggio completo su scala nazionale non è stato fatto, ma soltanto una mappatura in alcune aree particolarmente a rischio.

Secondo statistiche Istat elaborate dall’ Associazione Nazionale dei Costruttori Edile (ANCE), le case costruite in base alla normativa del 1974 sono un terzo del totale in quanto gli immobili a uso abitativo costruiti prima di quell’anno sono 7,2 milioni, il 64 per cento. Si stima che tre milioni di italiani vivano in zone a elevata sismicità, soprattutto lungo la dorsale appenninica del Centro e Sud Italia (dalle Marche alla Calabria fino alla Sicilia), quasi 21 milioni in aree a media sismicità, più di 15 milioni e mezzo in aree a bassa sismicità e circa 20 milioni in aree a sismicità minima. Oltre un terzo del territorio nazionale presenta un rischio terremoti medio - alto.

Il presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri, Paolo Stefanelli, è stato molto netto: “Non stupisce affatto che della Casa dello studente sia crollata la parte più giovane. Tutti gli edifici costruiti negli anni ‘50 e ‘60, a causa del tipo di cemento armato usato, sono a rischio sismico in un tempo tra i 5 e i 30 anni”. E, a proposito del piano casa presentato dal Governo, dice: “Questo piano potrebbe rappresentare uno stimolo importante per ricostruire edifici a rischio a costo zero per lo Stato. Chi demolisce un edificio per ricostruirlo ampliato del 35 per cento potrebbe dare in permuta la volumetria aggiuntiva all’impresa che fa l’intervento ed avere un’abitazione sicura praticamente a costo zero con la consapevolezza che tanto prima o poi quell’edificio avrebbe richiesto un intervento radicale ai fini della sicurezza”.

A oggi, dice Stefanelli, manca ancora una norma che renda obbligatorio il monitoraggio sul tempo di vita delle costruzioni. Forse solo quella, perché di norme sull’edilizia antisismica l’Italia ne ha quattro, tutte contemporaneamente in vigore. Il decreto ministeriale 16 gennaio 1996 (”Norme tecniche per le costruzioni in zona sismica”) seguito, dopo il terremoto del 2003 in Molise, dall’Ordinanza della Protezione Civile 3274, che ha rimappato il territorio nazionale, aggiungendo zone sismiche o elevandone la classe. E poi altri due decreti, uno del 2005, l’ultimo del 2008, denominato “Nuove norme tecniche per le costruzioni in zona sismica”. Scienziati e tecnologi parlano chiaro: serviranno strutture antisismiche. Così a mettere le proprie competenze a disposizione delle popolazioni colpite dal sisma scende in campo il CNR che ha progettato, e testato con successo un anno fa in Giappone, una casa antisismica in legno, capace di resistere all’onda d’urto di magnitudo 7,2 della scala Richter, pari al sisma di Kobe che uccise, nel 1995, oltre seimila persone. Il progetto si chiama Sofie, Sistema costruttivo fiemme, ed è un prototipo messo a punto dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle ricerche (IVALSA CNR), insieme alla Provincia di Trento.

A convalidare il progetto italiano, spiega il CNR, “sono stati i laboratori dell’Istituto nazionale di ricerca sulla prevenzione disastri (NIED) di Miki, in Giappone, dove, alla fine del 2007, la casa di legno di sette piani e 24 metri di altezza realizzata dall’Ivalsa-Cnr di San Michele all’Adige ha resistito con successo al test antisismico considerato il più distruttivo per le opere civili: la simulazione del terremoto di Kobe di magnitudo 7,2 sulla scala Richter”. “Il legno è una valida alternativa ai metodi costruttivi tradizionali, in acciaio o muratura, e soprattutto un’alternativa economica, visto che, a parità di costi, le prestazioni e i rendimenti sono migliori”, dice una nota del Cnr. Attualmente, il primo esempio di rigorosa applicazione della tecnologia Sofie a un edificio pubblico è in fase di realizzazione a Trento, con un collegio universitario di 5 piani che ospiterà, in piena sicurezza, circa 130 studenti.

DOSSIER ABRUZZO

Un film-documentario di Giuseppe Caporale, "Colpa Nostra", ci spiega quanto sia insita in ognuno di noi la responsabilità di quanto succede in una terra che, anzichè essere isola felice, è terra di scandali ed inchieste giudiziarie. La cronaca ci parla dell’ennesimo arresto eccellente in Abruzzo. Si tratterebbe di una delle più  grosse inchieste sui rifiuti mai fatta in Italia, quella che ha portato agli arresti domiciliari per corruzione, peculato ed abuso d'ufficio, l'assessore alla Sanità della Regione Abruzzo, Lanfranco Venturoni. L’Abruzzo un piccolo fazzoletto di terra con un milione di abitanti una piccola regione dell’Italia centromeridionale vien da sempre elargita come una terra di persone forti e gentili. E un susseguirsi di scandali che hanno portato nelle patrie galere anche intere giunte e si nello sport siamo lontani anni luce dalle metropoli, ma se dovessimo giocare a tangentopoli o clientopoli ce la giocheremmo alla pari. Anzi potremmo vincere. La mente mi riporta a rileggere una nota testata giornalistica dei tempi di tangentopoli (“il piano regolatore è roba nostra” l’Abruzzo si scopre come Milano – una regione sotto inchiesta -). Così venne scoperchiato il vaso di PANDORA nella nostra terra. In quella occasione vennero arrestati 100 politici dell’allora politica di casa nostra. Ecco alcune delle storie di allora. Da elicotteri dello Stato usati a fini personali; violazione sulla legge sul finanziamento dei partiti; pagato cene elettorali in un momento proibito dalla legge. Come poi non scordarsi la notte di San Michele, alla fine di settembre, l'intera giunta regionale, compreso il presidente, finisce in carcere perché i fondi della Cee sono stati dati agli amici degli amici, invece che assegnati secondo graduatoria. Ad Avezzano, il sindaco, oltrepassa la soglia di un penitenziario (con alcuni assessori) per una lunga storia di tangenti. A Chieti, la giunta comunale venne decapitata dai giudici, perché una scuola elementare, pagata quasi due miliardi, è stata costruita a metà. Il racconto potrebbe continuare sino a Pescara, passando per Teramo, deviando per Lanciano. E' un racconto non diverso da tanti altri che stanno macchiando la nostra terra già martoriata. La gente è sconcertata, non ha più fiducia nelle istituzioni, negli uomini a cui aveva dato il voto. Un giovane laureato di Chieti confessa: "C'è un particolare emblematico: un ex assessore della Dc, arrestato in uno dei tanti blitz dei carabinieri, era anche l' avvocato difensore di altri assessori regionali a loro volta inquisiti. In quell’anno la giustizia non ha più guardato in faccia nessuno da quando, in primavera, venne divulgata una cassetta con una registrazione sconvolgente. Si sentiva al telefono la voce di un consigliere comunale aquilano, il quale parlava con un conoscente. Gli veniva chiesto il cambio di destinazione di un terreno. "Non ti preoccupare . rispondeva . il piano regolatore è roba nostra, di Dc e Psi. Lo dirò a Domenico e tutto sarà risolto. Però, capisci, la campagna elettorale costa, i soldi non bastano mai...". Quarantacinque milioni, insomma, che dopo 8 mesi portano il consigliere in galera. E' la prima goccia di un vaso che sta per traboccare. Come lo era stata, qualche mese avanti, la storia degli elicotteri dei pompieri e della Forestale usati dall' ex ministro Gaspari per andare a una partita di pallone e ad una festa di paese. Ma è a settembre che l'aria diventa irrespirabile. All'Aquila, vive un giovane magistrato, con la carica e la vitalità del collega lombardo Di Pietro. Si chiama Fabrizio Tragnone e, in un baleno, dopo aver valutato la denuncia di un professionista, l'ingegner Francesco Mannella, spedisce in carcere l'intera giunta regionale (Dc, Psi e un liberale). Mannella voleva costruire un albergo al suo paesello, Ateleta, dove non esiste nemmeno una pensione. Mannella fa domanda per ottenere i fondi della Cee (denominati Pop), ma il danaro non arriva. Va alla Regione a chiedere spiegazioni e gli impiegati rimangono sul vago. Allora, spinge a fondo. "Voglio vedere l'elenco dei fortunati", dice. La situazione diventa confusa, progetti meno interessanti dei suoi sono stati promossi; il suo, bocciato. Perchè? "Posso usare il telefono?", domanda ad un commesso. "Certo", replica l'addetto. Il professionista chiama i carabinieri, racconta tutto, e 4 giorni più tardi il blitz dei carabinieri fa piazza pulita del governo regionale. Nella rete finiscono tutti, anche il presidente della giunta. I consiglieri inquisiti sono 21 su 40, la crisi politica dura a lungo, finchè non si risolve con una soluzione cha lascia di stucco la maggioranza dell'opinione pubblica. Al vertice della nuova giunta c'è un "indagato" per i fondi Pop, mentre sulla poltrona di presidente del consiglio siede un "toccato" dalla stessa vicenda. Ormai, la "mani pulite" abruzzese non conosce ostacoli: da clientopoli si tramuta in tangentopoli. Nell'occhio del ciclone finiscono Avezzano, Teramo, Pescara, Chieti. Ad Avezzano, le mazzette sporcano pure un incontro di boxe che ha per protagonista il campione del mondo Francesco Rosi. Si indaga su una tangente che si sarebbero divisi l'organizzatore e un assessore. Usl, licenze commerciali, detersivi d'oro, discariche, terminal di autolinee, gestione di acquedotti: i fronti giudiziari si moltiplicano a vista d'occhio. Per poi finire nelle vicende dei giorni nostri sanitopoli, fira, etc.

Dossier Abruzzo di Alessio Magro. Un lavoro da tempo studiato che riteniamo opportuno pubblicare proprio ora che la ricostruzione nell’aquilano, dopo il forte sisma che ha colpito la zona, aprirà sicuramente importanti sbocchi per le infiltrazioni mafiose negli appalti. La criminalità organizzata, da anni ormai attiva sia nella Marsica che sulle coste abruzzesi, è sicuramente interessata a non perdere una fonte sicura di guadagno. Il dossier descrive una infiltrazione silenziosa ma profonda, in un tessuto divenuto crocevia del riciclaggio e del reinvestimento dei proventi illeciti, ed è un monito per non sottovalutare la pervasività delle mafie, soprattutto in questo lacerante frangente storico. Quella dell’Abruzzo criminale è la storia di una negazione. È La storia di un’isola felice che isola felice non è, da tempo. O forse lo è, ma solo per le mafie. Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, ma anche le organizzazioni straniere (quelle albanese e cinese in testa) si muovono tra i monti della Marsica e sulla costa da diversi anni. Fanno affari, si infiltrano nell’economia, mettono le mani sugli appalti, costruiscono basi operative per latitanti e per i traffici di droga. Capitali da riciclare, investiti in aziende e immobili (sono ormai 25 i beni confiscati alle mafie nella regione, in ben 15 comuni e in tutte e quattro le province). E ancora la tratta delle bianche, la prostituzione di strada e quella nei locali della costa, l’usura e le estorsioni. L’Abruzzo è la regione dei parchi, è il cuore verde d’Europa, ma è anche terra di ecomafie, che sversano rifiuti tossici nelle lande inabitate della regione. Una regione malata di corruzione: dalla Tangentoli degli anni 90 agli scandali recenti, dai provvedimenti giudiziari che hanno colpito la giunta regionale nel 1992 all’arresto del governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco.

Infiltrazione e sottovalutazione.

Quella dell’Abruzzo criminale è una storia di sottovalutazioni. Di continue e insistenti dichiarazioni di estraneità, anche di fronte all’evidenza dei fatti. Le mafie in Abruzzo non ci sono, e se ci sono vengono dall’esterno. Criminali meridionali oppure stranieri. Criminali di passaggio. Una visione intanto riduttiva: le famiglie meridionali emigrate abitano ormai da decenni nella regione del Gran Sasso, africani e slavi hanno messo ormai radici, così come le frange criminali al loro seguito. Non passano affatto, restano. Ed è una visione pseudo-antropologica al confine con il razzismo culturale: come se mafia e criminalità fossero insite nel dna di alcuni popoli, di alcune razze o di certi tipi di italiani. Una visione che impregna le dichiarazioni di politici, amministratori e troppo spesso operatori della giustizia. Ogni banda sgominata è una malattia debellata, in una società sana. Ogni inchiesta è la reazione di un corpo sano e non il sintomo di una patologia. Eppure l’omertà, a detta di chi opera sul campo, è regola anche tra gli abruzzesi. Una visione che è un esempio classico di rimozione: la commissione parlamentare antimafia visitò nel ’93 l’isola felice – all’indomani della bufera giudiziaria del ’92 (nove arrestati su undici componenti della giunta regionale) e di una serie impressionante di inchieste su politica-mafia-massoneria – lasciando ai posteri un dossier al vetriolo. È la relazione Smuraglia, sintesi del viaggio nelle regioni a “non tradizionale insediamento mafioso”. Conclusioni: in Abruzzo, così come nel resto dell’Italia centrale e settentrionale, le cosche sono presenti, radicate, potenti e attivissime. Molto più sul versante economico che su quello del controllo del territorio. Ma non per questo meno pericolose. Già da allora, più di 15 anni fa, era chiaro che la partita contro le mafie si sarebbe combattuta sul fronte del riciclaggio. È tutto scritto: le isole felici non esistono. Lettera morta. Perché ancora oggi il discorso attorno alle presenze mafiose trova resistenze, negazioni, riduzionismi, spesso nascosti dietro la sacrosanta esigenza di non creare allarmismo e non cavalcare l’onda del sensazionalismo. Criminali d’altrove, si dice troppo spesso. Eppure la malavita abruzzese è ormai organicamente inserita in contesti mafiosi tradizionali (vedi estorsioni, gioco d’azzardo, prostituzione e droga tra Pescara, Teramo e Chieti). E soprattutto ci sono un certo ceto politico-amministrativo e una certa imprenditoria che flirta, a dir poco, con le mafie ad altissimi livelli. Non hanno la coppola e la lupara, non sparano, ma riciclano i milioni del narcotraffico, corrompono, pilotano gli appalti, truffano, devastano il territorio, inquinano l’economia, investono in immobili e capannoni, avviano società finanziarie. Giacca, cravatta e colletto sporco. Ma non ci sono solo le mafie d’alto bordo. Le inchieste Histonium nel vastese, i dati sull’usura e sul racket ci parlano di una regione avviata da tempo verso una dimensione mafiosa classica, col controllo del territorio e il consenso della paura. L’Abruzzo non è di certo la Calabria o la Campania, non è la Sicilia, non è la Puglia (non ancora), ma non è nemmeno la Svizzera. Il 10% dei commercianti paga il pizzo, una percentuale da allarme arancione. E Pescara è la capitale dell’usura, prima città in Italia secondo tutti gli indicatori di rischio. Avviso ai naviganti: l’usura non è più, da decenni, roba da cravattari. Dietro lo strozzino ci sono le mafie. Sempre.

Un fenomeno di importazione.

È innegabile che il fenomeno mafie in Abruzzo sia comunque un fenomeno d’importazione. Ad aprire le porte, però, è stata proprio la Giustizia, con un’infelice gestione dei soggiorni obbligati: decine di boss e affiliati meridionali inviati al confino sui monti e sulla costa. Una pratica dalle conseguenze nefaste in tutta l’Italia centro-settentrionale. Ecco che l’Abruzzo ha visto l’espandersi di cellule criminali, schegge dei clan pronte a trapiantare i traffici illeciti coltivati al Sud. Reti di fiancheggiatori che hanno favorito nel tempo la pratica del riciclaggio, degli investimenti legali di capitali mafiosi, ma anche l’organizzazione di basi per latitanti e scissionisti in fuga dalle guerre di mafia. Gli affari col tempo sono evoluti, spesso le diverse mafie hanno trovato l’accordo basato sul guadagno, nella loro isola abruzzese, felice e pacificata. In un certo senso però le mafie ci sono sempre state: l’Abruzzo ha un fenomeno peculiare, la presenza atavica di famiglie rom (“nomadi stanziali” è la definizione ossimoro che si legge nelle relazioni ufficiali) dedite ad attività criminali. Hanno in mano la partita dell’usura e lo spaccio al dettaglio della droga. Famiglie come quella dei Di Rocco che siedono ormai al tavolo nazionale delle cosche, trattando a testa alta coi calabresi, i camorristi e i siciliani, ma anche con gli slavi. La rotta balcanica, i porti dell’Adriatico, i clan albanesi in contatto con la cupola slava. Sono gli ingredienti che fanno dell’Abruzzo un crocevia dei grandi traffici di cocaina, ma anche di eroina. Il consumo di stupefacenti è elevatissimo (l’Abruzzo è tra le prime regioni per sequestri e denunce legati all’eroina), una piazza di spaccio tra le principali. Nell’ultimo decennio, diverse grandi inchieste hanno coinvolto i monti del Gran Sasso e la costa, operazioni che rimandano a traffici intercontinentali (con gli Usa, con la Colombia, con la Turchia e la Bulgaria, oltre che con i Balcani). E alle porte di Pescara è stata scoperta una delle più grandi raffinerie di polvere bianca presenti in Europa.

Mafie straniere, ecomafie, corruzione.

Droga e prostituzione sono le attività principali delle mafie straniere in Abruzzo. Sono gli albanesi a gestire i grandi traffici (adesso con un preoccupante asse slavi-campani). E a promuovere la tratta e la prostituzione. In strada, ma anche nei locali notturni della costa. Una pratica redditizia, sfruttata in proprio anche dai rumeni e dai cinesi. Il pericolo giallo è la vera emergenza: nella regione è presente una delle comunità asiatiche più strutturate. Una presenza che si accompagna all’emergere di clan mafiosi agguerriti e misteriosi (vedi operazione Piramide a Pescara). E c’è il pericolo russo, quei grandi faccendieri che fanno affari come al monopoli. L’isola verde è preda delle ecomafie. Tonnellate di rifiuti tossici scaricati abusivamente, discariche illegali, cave riempite di ogni cosa, un po’ ovunque. Caso eclatante è quello di Bussi sul Tirino, una delle discariche più grandi d’Europa. E poi c’è la mala amministrazione, i fiumi inquinati e i mari contaminati, il turismo che arranca, con sullo sfondo tanti, troppi casi di corruzione, di appalti sospetti. Corruzione dilagante, endemica. Legami tra politica, amministrazione, mafie e massoneria. Intrecci perversi, trame occulte e intricate che spesso hanno l’Abruzzo come scenario.

Dall’inchiestona sull’autoparco milanese di cosa nostra a Tangentopoli negli anni 90, dalle tangentine locali fino alle presunte tangenti che avrebbero intascato Del Turco e il sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso. Ma è appunto sul fronte del riciclaggio e degli appalti che si gioca la partita. Grandi capitali di provenienza sospetta, investimenti abnormi, commesse e gare con diverse ombre. Una storia ancora da raccontare quella della lavanderia Abruzzo. Una storia che di recente ha un primo punto fermo: il tesoro di Ciancimino, ex sindaco e boss di Palermo, sarebbe stato custodito e fatto fruttare proprio nella Marsica, attraverso società e prestanome. Una storia venuta a galla grazie all’impegno di Libera Marsica e alle inchieste puntuali di organi di informazione dal basso come Site.it e Primadanoi.it. Una storia ancora da raccontare, ma soprattutto da indagare.

La mala locale e la mala d’importazione.

Il quadro dell’Abruzzo criminale ha tre elementi peculiari che ne hanno caratterizzato lo sviluppo: la presenza di reti neofasciste e criminali legate alla banda della Magliana, la capillare presenza di potenti famiglie rom dedite ad attività illecite, il numero elevatissimo di soggiornanti obbligati spediti nella regione negli ultimi decenni.

I banditi della Magliana.

È l’abruzzese Tony Chicchiarelli, il famigerato falsario, il legame tra la banda di Enrico Nicoletti e la realtà criminale della regione. Il documento apocrifo con il quale si annunciò la morte di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, passato alla storia come il falso comunicato numero sette del Lago della Duchessa, fu realizzato appunto da Chicchiarelli. Storie di eversione fascista, di manovre dei servizi deviati, di manovalanza criminale, massoneria e mafia. Con l’Abruzzo a fare da sfondo ad alcuni capitoli di queste vicende dagli intrecci oscuri e intricati. Perché quel Lago si trova in provincia di Rieti, a pochi chilometri dalla provincia de L’Aquila. Zone dove i neofascisti tenevano i loro campi di addestramento. Zone dove latitanti e miliziani trovavano una rete di fiancheggiatori per le loro azioni. La banda della Magliana, educata alla scuola della Cosa nostra di Pippo Calò e della ‘ndrangheta di don Mommo Piromalli, ha esteso nel tempo la propria azione in Abruzzo: estorsioni, riciclaggio, usura. Attività che quel che resta della banda ha proseguito fino ad oggi. Una buona notizia: le case abruzzesi sequestrate ad Aldo De Benedittis ed Enrico Nicoletti diventeranno presto delle scuole.

Gli “zingari”.

Che le mafie in Abruzzo siano un fenomeno di importazione è innegabile. Anche se le famiglie rom sono attive da sempre. Una presenza che si fa sentire: racket, traffici di droga, usura. E che viene rilevata anche dagli indicatori statistici: Pescara, L’Aquila e Chieti sono ai primi posti nelle classifiche della penetrazione criminale, zone dove tradizionalmente operano le famiglie “zingare”. Si tratta di organizzazioni assimilabili a quelle mafiose: il vincolo associativo, il controllo del territorio, i collegamenti con le altre organizzazioni criminali. A farla da padrone sono le famiglie Spinelli ma soprattutto Di Rocco, ormai una organizzazione affermata a livello regionale, collegata ai camorristi del clan “Aquino-Annunziata” di Boscoreale (Na). Famiglie che negli ultimi anni invadono nuovi terreni, colonizzando il vicino Molise.

Il confino.

Come nelle altre regioni del Centro e del Nord, la pratica infelice dei soggiorni obbligati ha dato il la alla colonizzazione mafiosa. Diverse famiglie siciliane, calabresi, campane e poi pugliesi hanno potuto utilizzare basi d’appoggio in Abruzzo, anche grazie alla presenza di affiliati, o addirittura boss, confinati lontano da casa. Basi per i traffici, ma anche per le operazioni “legali”, gli investimenti economici, in una parola il riciclaggio. Un esempio: il boss della ‘ndrangheta Michele Pasqualone ha svernato in Abruzzo, mettendo in piedi nel corso degli anni una cosca dedita alle estorsioni e all’usura (operazione Histonium, 2008).

Il picciotto Gabriellino.

La storia di Fioravante Palestini è come un romanzo criminale. Fioravante è un ragazzone di due metri per cento chili. Diventa famoso tra i 70 e gli 80: è l’icona della Plasmon, il forzuto che figura nella pubblicità della casa di biscotti. Soprattutto diventa un graduato del crimine. Fioravante, per tutti “Gabriellino”, è uno a cui piace fare la bella vita e menare le mani. A Teramo conosce l’insolito ospite fisso di un albergo. Gaspare Mutolo da Palermo vive lì, residenza da confinato. Il boss di Cosa nostra si muove in Ferrari, continua a frequentare la Sicilia con spostamenti lampo. L’attrazione è fatale. E così Gabriellino, arruolato nell’esercito della mafia, finisce nei guai, grossi guai. Tornerà a casa, a Giulianova, solo dopo venti anni di carcere egiziano. Nell’83 è a bordo di un mercantile greco sul canale di Suez, con gli occhi fissi sul carico di 230 chili di eroina e 25 di morfina base destinato alla mafia. Venti anni per traffico internazionale di droga. Gabriellino non ha mai parlato. Parlano i fatti: l’Abruzzo è da decenni il crocevia di grandi traffici di stupefacenti, è una delle principali piazze di spaccio in mano alle mafie di tutti i tipi.

L’isola dei pentiti.

L’Abruzzo è anche la terra dei collaboratori di giustizia. Lì vengono spediti, in tantissimi, per vivere sotto falsa identità. Forse un po’ troppi. E spesso nemmeno in gran segreto. C’è Carmelo Mutoli, palermitano, genero del bosso della Noce Francesco Scaglione, tra i testi dell’accusa nel processo per la strage di Capaci. Collabora dal ’94, ma nel ’95 non viene ammesso in via definitiva al programma speciale di protezione, e viene pubblicamente invitato a lasciare la propria casa abruzzese. Ne arriveranno molti altri. Tanto che nel 2000 a l’Aquila c’è un corto circuito. In aprile si suicida Giuseppe Arena, di Taurianova. Pochi giorni dopo Antonio Maletesta, anch’egli collaboratore di stanza in Abruzzo, è protagonista di una sparatoria. C’è anche Bruno Piccolo, il pentito dell’affaire Fortugno, che vive a Chieti sotto falso nome, prima del suicidio alla vigilia del secondo anniversario dell’omicidio, nel 2007.

Zona franca.

In Abruzzo ci vanno anche per sfuggire ai guai. Nel ’90, mentre a Reggio Calabria impazza ancora la guerra di mafia, scatta un blitz che porta in cella una trentina di ‘ndranghetisti. Cinque affiliati alla cosca Rosmini – del cartello guidato da Giuseppe Condello, il Supremo, che risulterà vincente – vengono arrestati a Montesilvano, ospiti da parenti. Gestivano insieme alcune attività commerciali nella zona. Anche Giovanni Spera, figlio del boss siciliano Benedetto Spera di Belmonte Mezzagno, si trasferisce in Abruzzo, nel ’94, per sfuggire ai regolamenti di conto in atto nella sua terra. E si mette al lavoro, riciclando e investendo. Nel 2008 gli porteranno via i beni accumulati.

Ai pugliesi piacciono i monti.

I mafiosi della Sacra corona unita scelgono l’Abruzzo per il soggiorno obbligato. E per le latitanze. Nel ’96 finiscono in cella due affiliati alla Scu. I carabinieri li prendono a L’Aquila, mentre danno la caccia al superlatitante Antonio Bruno, di Torre Santa Susanna (Brindisi). Il boss della mala pugliese è riuscito a sfuggire a cento militari impegnati sul campo. Bruno era tra i collaboratori nel maxiprocesso alla Scu, prima della fuga rocambolesca nel ’93 e la successiva ritrattazione via missiva. Anche Andrea Russo, nel listino dei 100 più pericolosi, affiliato ai Piaulli-Ferraro di Cerignola, viene preso nel luglio del 2007.

‘O sistema, in trasferta.

Nel febbraio del ’92 Enrico Maisto viene ucciso a Popoli (Pescara). Originario di Giugliano, era un boss della camorra, affiliato ai Nuvoletta. Una conclusione tragica. A tanti altri campani, ai quali pare non dispiaccia l’Abruzzo, è andata un po’ meno male. Attorno al 2006 cadono nella rete due pericolosi camorristi alla macchia: sono Nicola Del Villano, braccio destro del boss casalese Michele Zagarioa, e Giuseppe Sirico, della famiglia di Nola-Marigliano. Anche il boss Lorenzo Cozzolino è catturato, nel 2008 nella zona del vastese.

Dagli anni ’80 a Corruttopoli.

Quella dell’Abruzzo criminale è la storia di una rimozione. Il pendolo degli allarmi e dei negazionismi oscilla pericolosamente, fino in tempi recenti. Ancora nell’84, la mafia è solo quella del cinema, quella del film “Tragedia a New York” di Gianni Manera, che fu girato anche da quelle parti. Negli 80 le relazioni di inaugurazione degli anni giudiziari regalano commenti ottimistici: “esente dalla criminalità organizzata”, “isola felice”, “non a rischio”. Così anche le analisi degli investigatori, dei politici, degli esperti. Non tutti. Si parla solo di fattarelli, di droga, prostituzione, microcriminalità, sempre in un’accezione individualistica: 4mila tossicomani (nel ’91) o diverse centinaia di prostitute non sono il risultato di traffici organizzati, ma sono solo migliaia di storie, singoli casi umani o scocciature, dipende dal punto di vista.

L’allarme attentato a Falcone.

Anche quando qualcosa accade è vissuto come un evento esterno, come al cinema: ecco che l’allarme attentato che coinvolge niente meno che Giovanni Falcone è solo un episodio. Siamo nell’89, il 19 luglio (coincidenza macabra) il giudice palermitano arriva in elicottero al carcere di Vasto per interrogare Gaetano Grado, cugino di Totuccio Contorno, arrestato pochi mesi prima. Durante i controlli nella zona vengono ritrovate in un casolare munizioni da guerra, 200 proiettili per carabine di precisione, pallettoni caricati a lupara, pistole lanciarazzi, forse da utilizzare per un agguato. Il periodo è caldissimo: qualche settimana prima, il 20 giugno, va in scena il fallito attentato dell’Addaura. La riservatezza sugli spostamenti del giudice è massima. Ma il suo arrivo è preceduto da telefonate minatorie al carcere. Talpe a parte, nessuno si chiede come sia possibile approntare un arsenale a 700 metri da un carcere di massima sicurezza in una regione che si vuole esente da infiltrazioni mafiose.

Il market del tritolo.

Un parallelo: dopo diversi anni, nel ’96, a Tagliacozzo spunta fuori un deposito di esplosivo, con sei quintali di tritolo e 1500 detonatori. Un carico proveniente dall’Est, probabilmente destinato a rifornire le mafie. Quando c’è l’offerta, di solito, vuol dire che la domanda c’è.

1991, suona la campana.

Nel nuovo decennio qualcosa cambia. Sullo sfondo si fa largo la consapevolezza di una presenza che diventa sempre più ingombrante, si lanciano ripetuti allarmi, sugli appalti, sulla corruzione. C’è ancora il Pci quando si parla a viso aperto di presenze mafiose (e non di pericolo virtuale) nel Parco Nazionale. Cominciano a circolare i risultati investigativi portati avanti dall’alto commissario antimafia Domenico Sica: dubbi su alcune società finanziarie, crescenti segnalazioni di estorsioni e aumento del numero di attentanti a fine estorsivo. I sintomi ci sono tutti. Nella seconda metà del ’91 il velo è squarciato. Arrivano prese di posizione durissime. E poco dopo il finimondo.

Stampa e propaganda.

In agosto un dirigente pescarese dell’Arci subisce un’intimidazione. Secondo il segretario regionale Victor Matteucci si tratta di una ritorsione per l’avvio di una raccolta di firme “Contro le infiltrazioni della mafia negli organi di informazione abruzzese”. Una denuncia pesante, che trova la ferrea opposizione del’Ordine dei giornalisti, ma anche qualche migliaio di adesioni in pochi giorni. Nel settembre il leader della Rete Leoluca Orlando, che polemizza duramente con la giunta regionale guidata dal dc Rocco Salini, chiama le cose col proprio nome: “L’Abruzzo non è e non potrà essere una zona franca rispetto alla mafia”.

Appalti che scottano.

Arrivano dai costruttori i primi malumori per la poca trasparenza nella gestione degli appalti pubblici. Si lamenta l’invasione di ditte esterne. È il sistema che inizia a sgretolarsi. Crepe vistose: i sindacati denunciano il pericolo (ma è un eufemismo) di infiltrazioni camorristiche e mafiose negli appalti, soprattutto in provincia di Pescara. La torta è golosa: depurazione, metanizzazione, acquedotti, reti fognanti, smaltimento dei rifiuti, grandi infrastrutture.

L’arte mafiosa.

Scoppia un caso riguardo il restauro di monumenti e opere d’arte nella regione. Il sovrintendente denuncia il pericolo di infiltrazioni negli appalti: ribassi eccessivi offerti da ditte campane e siciliane. Segue una dura polemica, alimentata dal Psi (schierato in difesa dell’autonomia dei comuni nella gestione delle gare). Un caso che si sgonfia pochi mesi dopo, con l’archiviazione.

I siciliani.

Ma non passa inosservata la presenza dei Cavalieri del lavoro catanesi, quei cavalieri-costruttori dell’apocalisse mafiosa raccontati da Pippo Fava: Gaetano Graci ha vinto da anni l’appalto per la costruzione delle barriere frangiflutto lungo la costa, mentre per la costruzione di un lotto dell’università di L’Aquila c’è una società che risulta essere di Carmelo Costanzo. Se il dato giudiziario è lungi da venire, per il Pds è ormai chiaro che l’Abruzzo fa gola a cosa nostra.

Corruttopoli.
L’Abruzzo è presto scosso dal terremoto corruzione. Nel giugno ’91 la regione si trova davanti al referendum sulle preferenze dopo anni di condizionamento clientelare del voto, grazie alla pratica massiccia delle preferenze plurime e delle cordate elettorali. Quelle cordate che vedono le correnti dc l’un contro l’altra armate. Fedelissimo del plenipotenziario Remo Gaspari, allora ministro per la Funzione pubblica, è il presidente della giunta regionale Rocco Salini. Lo scontro è altissimo, si arriva alle accuse pubbliche di corruzione e mafiosità. Lo scandalo cova per mesi, fino all’ottobre del ’92: scatta un’inchiesta sui piani operativi plurifondo (Pop), nove degli undici della giunta regionale, compreso il presidente Salini, vengono arrestati con l’accusa di truffa alla Cee (un’inchiesta poi arenata). Ai quali si affiancherà presto il vicepresidente del consiglio regionale (Psi) per un’inchiesta sui corsi di formazione professionale.

I profeti dell’isola felice.

Si chiede lo scioglimento del consiglio, si invoca la visita della commissione parlamentare antimafia, perché come dice Orlando “la mafia fa affari in Abruzzo con il consenso dei politici locali”. Una visita che era stata già chiesta, trovando in Salini uno strenuo oppositore e in Gaspari il profeta dell’isola felice, con tanto di attacco alla magistratura. A battezzare ufficialmente l’espressione “Abruzzo isola felice” è Victor Matteucci, nel frattempo transitato nelle fila della Rete. In qualità di studioso, redige un libro bianco sul sistema clientelare della regione, sugli stretti rapporti tra mafia e politica. 

SCANDALO CONCORSI PUBBLICI

ASSUNZIONE PUBBLICA SENZA CONCORSO IN ABRUZZO

Il concetto sembrerebbe semplice semplice: «assunzioni a tempo indeterminato per 260 precari in violazione delle norme». Se, poi, a questo, aggiungiamo il sospetto di una infornata di parenti, amici, conoscenti, «amanti» di dirigenti regionali, amministratori, politici e via dicendo, la questione diventa incandescente.

È tornato a denunciare stamattina il consigliere di Forza Italia, Giuseppe Tagliente, la proposta di stabilizzazione avanzata dall'assessore al personale, Giovanni D'Amico, che in realtà nasconderebbe «la più grande operazione clientelare degli ultimi anni».

E a destare scalpore è la lista dei 260 nomi che PrimaDaNoi.it pubblica integralmente il 12 febbraio 2008 e che nasconderebbe moltissimi figli di un "dio maggiore", i quali avrebbero avuto precedenza su molti altri nella corsa al posto fisso, quello per tutta la vita, per giunta in una amministrazione pubblica, dopo aver avuto un primo rapporto contrattuale a tempo determinato. Una bella soddisfazione, dunque, specie se si considera che nessuno di questi dovrà sottoporsi alla spiacevole e fastidiosa gogna della selezione pubblica.

E questa operazione rischia anche di avere una replica (ci sarebbe in circolazione già una seconda lista con almeno 150 nomi con i “figli di un dio... medio”).

A destare l'attenzione sono nomi molto ricorrenti della vita pubblica e amministrativa della nostra regione, nomi che trovi prima o poi nei posti che “contano”.

Ci sono ex amministratori trombati alla ricerca dello stipendio fisso ma anche figli eccellenti di dirigenti, addirittura almeno tre componenti dello staff del presidente Del Turco, chiamati con incarico fiduciario.

Tra gli stabilizzandi ci sono anche i celebri vignettista e fotografo (recentemente diventato giornalista pubblicista grazie alla collaborazione con la Regione).

Sono una decina i «raccomandati» individuati dal consigliere di Forza Italia, lasciando intendere che è solo una prima scrematura, mentre moltissimi altri potrebbero essere nascosti all'interno della lista.

I tentativi di stabilizzazione dei lavoratori precari della Regione hanno da sempre scatenato polemiche vivaci portate avanti con una passione dallo stesso Tagliente che verso la fine del 2006, in due interrogazioni, portò l'assessore D'Amico a chiarire un po' di numeri sulla vicenda.

Così si scoprì che «il conferimento di incarichi di collaborazione è conseguenza sia della restrizione della possibilità di effettuare assunzioni di personale, sia della necessità di poter contare con urgenza su specifiche professionalità non presenti nell'organico dell'amministrazione, indispensabile per il buon congelamento degli uffici».

Le parole da tenere a mente sono:«restrizione», «necessità», «urgenza», «specifiche professionalità», «indispensabili».

Tutte caratteristiche tra le altre cose previste dal decreto Bersani che la giunta regionale ha recepito con delibera solo otto giorni dopo le insistenze di Tagliente facendo partire l'entrata in vigore delle restrizioni non da agosto 2006 ma da gennaio 2007.

Dalla risposta dell'assessore D'Amico -siamo ad aprile 2007- «risultano in essere 212 incarichi di collaborazione» di cui 118 portati in dote dalla precedente legislatura di centrodestra.

«Ad oggi, però, risultano almeno 260 contratti di collaborazione ma in realtà il numero esatto è ignoto, forse persino allo stesso assessore D'Amico», ha detto Tagliente, «inoltre, non risulta che le procedure di evidenza pubblica siano state sempre utilizzate in tutte le direzioni di giunta. Invece, risulta ed è chiaro che molte assunzioni sono state fatte in forma diretta e clientelare prima che scattassero le procedure selettive per sottrarle, evidentemente, a rischio di una possibile bocciatura».

«Nella lista dei 260», continua ancora Tagliente, «risultano certamente parenti molto stretti, mariti, figli, fratelli, anche più di uno per nucleo familiare, di direttori, dirigenti, funzionari, dipendenti ed ex dipendenti della Regione, diversi dei quali proprio del settore personale di cui è responsabile l'assessore D'Amico, che almeno a casa sua avrebbe dovuto garantire il rispetto delle regole e, perché no, dell'opportunità e della correttezza politica».

ALCUNI DEI PRECARI IN VIA DI STABILIZZAZIONE

E Tagliente ha stilato la sua "lista nera" di raccomandati.

Il primo è Antonio Di Giandomenico, ex presidente Aptr, consigliere comunale dell'Aquila, nonché marito di una funzionaria e segretaria dell'assessore al personale.

Segue Angelo Tarquini, figlio di due funzionari del settore personale.

Luca Lagnemma, figlio del dirigente di giunta e dirigente del consiglio.

Luigi Ranieri, fratello del sindacalista Cgil e figlio dell'ex direttore del personale.

Alessandro Moroni, figlio del direttore delle attività produttive e consigliere comunale dell'Aquila.

Roberta Galeotti, componente dello staff del presidente Del Turco.

Claudia Zordan, figlia del dirigente di giunta.

Maria Grazia Masciocchi, figlia dell'ex difensore civico regionale e commissario prefettizio di Sulmona.

Ludovico Iovino, figlio del dirigente del personale, Antonio, nonché firmatario della proposta di delibera di giunta proprio relativa alla stabilizzazione dei co.co.co.

Infine nell'esercito anche Luigi Salucci, figlio del sindaco di Collelongo, compagno di scuola di Del Turco e dirigente del suo partito per anni. Luigi è noto per essere stato il primo vignettista della Regione Abruzzo. Un bel primato che gli è valsa anche la stabilizzazione.

Chiude Egidio Marzicola, in arte Slim, dicono fotografo istituzionale (nato anche come servizio per i giornali ma in realtà mai partito e questo quotidiano non ha mai ricevuto nemmeno uno scatto), meglio inquadrato come fotografo del presidente Del Turco.

Marzicola, insieme a tutti gli altri, potrà finalmente diventare a tutti gli effetti dipendente pubblico senza aver superato un concorso grazie ai servigi resi all'attuale presidente pro tempore.

Rimangono due aspetti forse «marginali» della questione. Che cosa andranno a fare?

C'è il fondato rischio che pur volendo ammettere che tutto sia in regola si accrescerebbe la macchina amministrativa in maniera abnorme di figure che in realtà potrebbero non essere impegnatissime...

Altro aspetto che riguarda tutti è la spesa aggiuntiva per le casse regionali, in considerazione dell'aumento dei dipendenti. Da un approssimativo calcolo si può dire che il costo dell'operazione di sicuro non sarà inferiore ai 3-4 milioni di euro.

APPROFONDIMENTO. Perché il clientelismo fa irritare tanto? Forse perché impone lo "scavalcamento" di regole e graduatorie, forse perché diritti di terzi vengono calpestati, forse perché si occupano posti di lavoro con persone non preparate (altrimenti avrebbero utilizzato strade regolari).

Il problema vero, però, è che negli ultimi anni si è avuta una estremizzazione del fenomeno che ha assunto livelli mai toccati prima con risultati fin troppo evidenti: aumento spropositato dei dipendenti della pubblica amministrazione e conseguente spesa pubblica impazzita.

Certo occorrono vari distinguo: ci sono le nomine politiche, ci sono i portaborse, ci sono gli assunti a tempo determinato per titoli di studio e regolari graduatorie, ci sono poi i Cococo gruppo variegato con requisiti disomogenei, tra i quali spiccano i privilegiati chiamati direttamente.

Discorso a parte poi per i carrozzoni creati negli enti strumentali…

«Sul programma per la sistemazione dei precari», spiega Antonio Perrotti della Cgil Dirigenti a PrimaDaNoi.it, «voglio sottolineare che nell'attuale giunta non vi è nessun senso di responsabilità. Si continua a giocare "alle tre carte" con i fondi appositamente previsti per il personale. Non bisogna dimenticare poi che viene prevista dalla legge una possibile sanatoria (solo per il passato rispetto al 2007), circoscrivendo l'eventuale assunzione a quelli assunti con prove selettive prima di tale anno».

Perrotti è chiaro e non utilizza metafore:«le assunzioni-cooptazioni», quelle a chiamata diretta per intenderci, «sono state fatte in contrasto con i parametri nazionali e anche con fondi di settore destinati ad attività ordinarie o a finalità operative. Inoltre tutto quanto è avvenuto utilizzando società esterne di servizio come Collabora, Esosfera, Arit, ecc.».

In questo quadro, definito dalla Cgil «extra istituzionale e partitocratrico-clientelare» l'amministrazione creativa «si inventa una normativa estensiva che delinea una soluzione per tutti (tale da non creare contraddizioni e contrasti!) con particolare riferimento agli ultimi chiamati dall'ultima giunta "di sinistra"».

E sarebbe proprio qui la forzatura.

Proprio tra questi ultimi vi sono figli e parenti messi dentro su pressioni e "consiglio" dei politici che però matureranno il fondamentale requisito di 3 anni, solo nel 2010.

«Sarà molto interessante», aggiunge Perrotti, «come tale proposta potrà essere emendata in Consiglio regionale a vantaggio dei gruppi ma anche di chi magari si è trovato a passare per caso sotto i portici dell'Emiciclo. Qualche dirigente del bilancio regionale è fuggito da tale situazione mentre qualcuno più disponibile e accomodante (ma forse anche più direttamente interessato …..), continua ad avallare questa incerta situazione finanziaria, eludendo i riferimenti posti dal patto di stabilità e dalle altre normative nazionali per assumere circa 350 nuovi dipendenti».

CARROZZONI, ESTERNALIZZAZIONI, CONSULENZE: LA SPESA PUBBLICA SI IMPENNA

Nel dibattito sempre troppo silenziato dei "costi della politica" non si possono non conteggiare, oltre quelli diretti (stipendi, indennità ad amministratori di ogni ordine e grado), anche quelli indiretti, cioè costi che gravano sulle casse pubbliche e che non vi sarebbero se l'amministrazione si muovesse su logiche "razionali"e fosse diretta con il metodo del "buon padre di famiglia".

Anche gli sperperi clientelari per assunzioni inutili e consulenze milionarie fanno parte dei "costi della politica", materia della Corte dei Conti sempre troppo nell'ombra.

Alzi la mano allora chi si ricorda delle promesse di riformare gli enti strumentali. Sapete come è andata a finire?

Gran parte delle nostre tasse servono a colmare ancora spese almeno inopportune.

«Purtroppo anche la giunta Del Turco», sostiene ancora Antonio Perrotti (Cgil), «al di là delle dichiarazioni sulla stampa, continua ad essere praticata la logica delle esternalizzazioni attraverso società di comodo e consulenze ed incarichi per attività ed elaborazioni ordinarie che comunque potrebbero far capo alle strutture ed ai professionisti interni».

Insomma si fa fare all'esterno quello che potrebbero fare i dipendenti. Il perché è chiaro.

L'Arit ha una sede autonoma , proprie strutture e con tutti i suoi dipendenti («circa 60 assunti su indicazioni partitocratriche pagati da Regione e Provincia per oltre 1.600.000 euro l'anno») si configura come una struttura esterna che si occupa di informatica e che lavora di fatto per l'Informatica regionale surrogando molte funzioni ordinarie.

Abruzzo Lavoro dovrebbe avere un ruolo di supporto e consulenza ed, invece, «non ha un reale carico di lavoro», sostiene il sindacalista, «ma, si limita a fare solo qualche ricerca con un costo complessivo annuo di 800.000 euro».

Collabora ha superato quota 200 dipendenti («molti dei quali assunti come sopra!»), che, «senza essersi mai conquistata una commessa nel mercato, vengono da anni supportati da Regione e Provincia con fantomatici incarichi di ricerca». Entità che regolate dalle regole della politica degenerata non sono in grado di reggere il mercato ed hanno bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico.
Ecosfera che già faceva la consulenza –monitoraggio per il Docup, con la nuova giunta («dopo lo spoil system che ha permesso l'ingresso di "figli eccellenti"») è stata incaricata di ricerche sulla politica della casa. Ha vinto un bando di concorso per la redazione del nuovo Piano Paesistico per 1.245.000 euro. «Peccato che con la struttura interna», illustra Perrotti, «si poteva redigere per soli 12mila euro. Ecosfera ha suoi consulenti che hanno redatto il nuovo testo di legge urbanistica e nel frattempo si sta occupando nel territorio regionale di varie progettazioni e programmi operativi, tra questi la Società di Trasformazione Urbana per il Porto di Ortona dove ha addirittura fatto una proposta per circa 92.000 mc di attrezzature turistico-ricettive sul demanio marittimo».

Parco Scientifico e Tecnologico, tutto come sopra. Con i suoi circa 30 dipendenti è famoso "incubatore" che «non ha mai fatto una ricerca originale per ottenere una commessa esterna».

«Così come è grave», spiega ancora la Cgil, «il fatto che nonostante il governo, in sede di esame della finanziaria, abbia stralciato il finanziamento per l'Araen (Agenzia per l'Energia), a tal fine, sia stato comunque costituito uno staff diretto dallo stesso personaggio designato da Desiati».

L'Arta. Con la giunta Pace viene diretta da «l'enfant-prodigio Dionisio e, in deroga a norme finanziarie e tabellari concertate, sono state date funzioni e profili e sono stati assunti centinaia di Co.co.co per un impegno annuo di circa 2.200.000 euro. Personale qualificato che con la nuova giunta verrà in gran parte inquadrato attraverso il contestato concorso mentre i rimanenti potranno essere riassorbiti all'interno delle tante baracche pseudo scientifiche esistenti».

Molto critica la posizione della Cgil anche sulla Agenzia Sanitaria Regionale e sulla Aptr che surrogando compiti ordinari propri della Direzione Turismo, ormai costa 4.600.000 euro l'anno.

«Né, infine, possiamo dimenticare che per l'amministrazione dell'agricoltura regionale forse abbiamo più addetti alla burocrazia che lavoratori effettivi sul campo: infatti, a fianco delle strutture ordinarie (Direzioni regionali, IPA, UTA, ecc. ) , abbiamo creato l'Arssa, una sorta di duplicato della Direzione Agricoltura, dove, però, si fanno carriere e si svolgono funzioni meno trasparenti e proceduralizzate, che ci costa ormai 14.000.000 euro per stipendi e sedi, e più 2.500.000 euro per iniziative d'istituto».

«Come non dire della Fira e del suo efficiente staff», attacca ancora Perrotti nella sua analisi, «già oggetto delle attenzioni della magistratura, che, nonostante "l'incidente" e gli impegni a scioglierla, continua ad essere coinvolta per attività improprie anche da questa giunta». Continua a gestire diverse centinaia di milioni di euro tra i quali ancora i Docup, gli stessi finiti nell'occhio del ciclone proprio con l'inchiesta giudiziaria. Discorsi a parte (e già affrontati in passato) per gli incarichi affidati a Lamberto Quarta e per il "nuovo" strumento operativo della Regione, Abruzzo Engeneering, in corsa per gestire milioni di euro e aggiudicarsi il mega appalto sul wi-fi.

Sarà una delle operazioni tra le più "scientifiche" e mediaticamente perfetta, scrive "Prima da Noi". Ci sono i precari che protestano, scendono in piazza, con lo stipendio da fame ed i contratti che descrivono un lavoro che in realtà è ben diverso. E' gente che lavora e merita la stabilità. Ma ci sono precari e precari. Ed i precari "imbucati" non sono pochi.

Figli, parenti, nipoti, mariti vanno per la maggiore, sono quei dipendenti molto speciali con più di un santo in paradiso e mamma o papà su una poltrona chiave con la possibilità di chiedere un favoruccio all'assessore di turno che per fare "cassa" accontenta tutti.

I voti fanno sempre comodo e poi in tempi di saldi valgono il quadruplo: assumi uno ti vota tutta la famiglia. Tanto mica paga lui.

Sono circa 300 i precari assunti a progetto o a tempo determinato (fino al 2007), molti più di 20, forse 50, forse di più sono quelli che sono stati assunti a chiamata diretta con fortissimi sospetti di irregolarità.

E guarda caso sono pure quelli che hanno cognomi che viaggiano accoppiati.

Ma non si tratta di omonimia ma di parentela molto, ma molto stretta.

Tutto questo accade mentre l'Italia intera (tranne i partecipanti al banchetto) è indignata per quanto emerge dall'affaire Mastella che sembra confondere la normale attività politica con qualcosa di più.

Ed imporre nomi e fare clientele violando le leggi probabilmente è qualcosa di più rispetto a quella che i politici navigati chiamano "attività lobbistica".

E non sfugga nemmeno lo scandalo di Montesilvano e le tecniche utilizzate ai tempi dell'ex sindaco Cantagallo, tecniche clientelari emerse durante le indagini della polizia.

E non che Pescara ne sia completamente estranea: parenti, figli precari di padri molto vicini alla casta sono ovunque e sbarcano il lunario come possono.

E poi i sospetti sui concorsi taroccati…

Insomma i sentori ci sono tutti anche da noi, anche da noi la tensione è altissima, il malumore è alle stelle ed in quegli stessi uffici regionali il clima diventa sempre più invivibile.

Intanto, l'effetto principale è che la macchina amministrativa si ingolfa e spolpa sempre più soldi ai cittadini.

PROFESSIONE PARENTE PROFESSIONALE

Ma come si fa ad assumere tanta gente quando le assunzioni sono bloccate per gli enti pubblici?

Nulla è impossibile per quei diavoli di amministratori: hanno imparato tutti, così fan tutti, ovunque, dal più piccolo e insignificante paese fin su nei palazzi delle Regioni e dei Ministeri.

La legge però è chiara: c'è la possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione solo per «prestazioni di elevata professionalità», contraddistinta da una «elevata autonomia» nel loro svolgimento tale da caratterizzarle persino come «prestazioni di lavoro autonomo».

Ma siamo proprio sicuri che tutti questi figli di papà abbiano davvero tutta questa professionalità?

Sta di fatto che le clientele si tramandano di padre in figlio: c'è così l'attuale dirigente che ha fatto una carriera bruciante iniziando proprio da "precario" qualche anno fa chiamato a sua volta da papà dipendente regionale ed oggi fa lo stesso con il figlio, in sequenza: nonno, figlio, nipote.

C'è chi ne ha sistemati uno, chi tutti e due, questi poveri figli senza stipendio fisso...

E così dopo la protesta dei precari dell'Arta di ieri (quelli che protestano è molto probabile che abbiano parentele trascurabili) la Regione trova la forza di firmare una delibera che farà discutere.

L'assessore D'Amico ha dato il via libera al piano di stabilizzazione del personale precario.

Così potrebbero essere sanate tutte le posizioni in essere (compreso chi è stato chiamato direttamente senza concorsi e senza quelle scocciature delle graduatorie).

La delibera prevede la possibilità da parte della Giunta di continuare ad avvalesi del personale precario «in ragione proprio dell'approvazione del piano di stabilizzazione, in linea con quanto indicato nella Finanziaria nazionale».

Il provvedimento di Giunta indica anche la fase esecutiva con l'individuazione del piano di fabbisogno del personale che ora dovrà passare al vaglio della concertazione sindacale.

Una volta approvato il piano di fabbisogno si avvieranno le procedure di mobilità verticale per il personale interno e le procedure di stabilizzazione per quello precario, sia esso a tempo determinato sia co.co.co.

«L'atto approvato - commenta l'assessore D'Amico - è la conferma del rispetto degli impegni che questo governo regionale ha assunto con i rappresentanti dei lavoratori. Da una parte il superamento del precariato del personale della Giunta e dall'altro la valorizzazione delle professionalità interne acquisite in tutti questi anni con la mobilità verticale».

STABILIZZAZIONI FINO AL 2010

Il provvedimento votato dalla Giunta rappresenta per gli enti strumentali della Regione un atto di indirizzo mentre, per le Asl autorizza l'assessore Mazzocca a firmare accordi per dare risposta al personale precario delle aziende sanitarie che garantisce i servizi fondamentali.

Nello specifico, fino al 2010 la Giunta stabilizzerà il personale non dirigenziale assunto a seguito di procedure selettive pubbliche, in servizio a tempo determinato, che abbia maturato alla data del 31 dicembre 2007 e alla data del 31 dicembre 2008 almeno tre anni di servizio.

L'immissione in ruolo avverrà dopo l'approvazione del fabbisogno di personale a seguito di domanda e di una graduatoria formata sulla base della maggiore anzianità di servizio acquisita presso la Giunta.

Per il personale Cococo, esclusi quelli di nomina politica, sono interessati alla stabilizzazione quelli che al 29 settembre 2007 abbiano maturato tre anni di attività lavorativa e quelli che contrattualizzati alla stessa data maturino i tre anni nel successivo triennio 2008/2010.

Eppure l'infornata di collaboratori è continuata pure con l'anno nuovo e sarebbero oltre 350 in totale i precari, poco più del 20% dei lavoratori totali della Regione.

I costi della stabilizzazione saranno altissimi e tra loro ci sono i precari storici e i privilegiati…

E a nulla vale che la Regione abbia già un'altissima percentuale di dipendenti superflui.

Le denunce e gli esposti fioccano in procura e chissà che la magistratura non voglia fare chiarezza e spiegarci una volta per tutte la differenza che passa tra "l'attività di lobby" ed i reati penali connessi alle clientele.

MAGISTROPOLI IN ABRUZZO

L’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e poi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e il presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato dal cancelliere Scarpone, scrive "Prima da Noi". Il presidente del Tribunale di Teramo Antonio Cassano e l’ex gip di Teramo, nonché ex Giudice responsabile del Tribunale di Giulianova e poi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila Aldo Manfredi, sono iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Campobasso. All’origine dell’inchiesta, un esposto - denuncia presentato da un cancelliere in servizio nella sezione distaccata del Tribunale, a Giulianova, Guerino Scarpone, che avrebbe documentato esattamente un anno fa tutta una serie di presunte irregolarità legate alle procedure di vendita giudiziaria degli immobili.

Scarpone è noto alle cronache giornalistiche locali anche per i suoi trascorsi politici all’interno dell’allora Partito Socialista, nonché per il suo impegno alla vicepresidenza del Comitato Regionale di Controllo sugli atti degli enti locali.

Secondo l’accusa del cancelliere, si sarebbero ripetuti una serie di errori nelle procedure esecutive immobiliari e nelle vendite fallimentari. Nel registro degli indagati, infatti, sono finiti anche il Giudice delle esecuzioni e giudice delegato delle procedure fallimentari Flavio Conciatori, il Giudice onorario del Tribunale di Giulianova, Belinda Pignotti, il responsabile dell’ufficio esecuzioni immobiliari, cancelliere Giuliana Marinelli e l’operatore giudiziario Nino Cartone. Nel suo esposto, il cancelliere Scarpone riferisce di una diffusa e generalizzata prassi relativa alla pratica delle procedure esecutive immobiliari, che a suo dire non sarebbe corretta. Le vendite degli immobili oggetto di pignoramento fallimentare prese in esame nella denuncia, sono quelle che andrebbero dal 2001 al 2006. In quel periodo, il sistema adottato è stato quello delle vendite senza incanto dei beni immobili pignorati, ovvero delle vendite in cui non si effettuano vere e proprie aste.

Si trattava, va detto, all’epoca di una procedura sperimentale, che snelliva le pratiche e i tempi. Secondo il cancelliere, però, la prassi sarebbe stata non corretta nell’affidamento delle perizie e degli incarichi, nella nomina dei custodi, nella pubblicità delle vendite che non sarebbe di stretta competenza dell’ufficio ma affidata a società esterne, nell’utilizzo di notai per la predisposizione dei beni venduti, che secondo Scarpone non sarebbe esercitabile per le vendite senza incanto.

Questo sistema, sempre a detta dello stesso cancelliere, avrebbe appesantito l’economia delle pratiche di aggiudicazione del Tribunale, di fatto portando ad un aggravio di spese ingiustificato.

Tutte spese che andrebbero a gravare sul ricavato delle vendite stesse, a tutto danno dell’esecutato.

Raccolte le informa informazioni, il cancelliere aveva inviato una relazione alle varie autorità, e un esposto alla Procura della Repubblica. Gli atti, così come prevede la legge, sono finiti per competenza alla Procura di Campobasso, che è titolare territorialmente delle inchieste sui giudici e nella quale si è aperta un’inchiesta. Dopo alcuni mesi di indagine, però, il Sostituto Procuratore della Repubblica di Campobasso, Rita Caracuzzo ha ritenuto che non sussistessero elementi tali da rendere necessaria la prosecuzione dell’inchiesta e dell’iter giudiziario della stessa e ha avanzato una richiesta di archiviazione.

Ma il gip molisano Giovanni Falcione, raccogliendo l’istanza di impugnazione presentata dallo stesso Scarpone, ha fissato l’udienza in Camera di Consiglio per il prossimo 4 dicembre, nella quale si discuterà appunto se archiviare o meno l’inchiesta. In quella sede, ovviamente, gli indagati avranno la possibilità di dimostrare la loro totale buona fede e provare come la prassi di vendita non provocasse alcun aggravio di spese, così come il fatto che tutto si è svolto nel pieno rispetto delle regole.

ROCCARASO

Camillo Valentini, vittima di un errore giudiziario, che oggi appare tragico, tortuoso e soprattutto privo di persone che abbiano almeno il coraggio di chiedere scusa, e di rispondere dei loro errori costati la vita ad un uomo onesto, scrive "In Abruzzo". Anche la sorella dell’ex sindaco di Roccaraso morto suicida nel 2004 dopo essere stato arrestato ingiustamente, è stata assolta dalla Corte d’appello. Ecco cosa ne scrive Giulio Petrilli, del PD aquilano: “Qualche giorno fa la corte d’appello de L’Aquila ha assolto la sorella dell’ex sindaco di Roccaraso Camillo Valentini e un’altra persona, entrambi connessi all’inchiesta del fratello. Ripercorro un attimo la storia.

Era il 14 agosto del 2004. Un uomo di cinquant’anni, disperato, rinchiuso in una della del carcere di Sulmona – già balzato alle cronache per altre, simili vicende – decide di farla finita: si lascia soffocare, la testa dentro un sacchetto di plastica, stretto con due lacci di scarpe. Secondo il Pubblico Ministero che aveva disposto il suo arresto era colpevole di corruzione, e assieme ad altre persone aveva dato vita ad una specie di associazione mafiosa. Quell’uomo si chiamava Camillo Valentini, era sindaco di Roccaraso.

Aveva avuto sentore che la magistratura si stava interessando di lui, aveva chiesto di essere interrogato. Il magistrato, aveva fatto sapere che non aveva alcuna intenzione di interrogarlo, ma che era disposto a raccogliere dichiarazioni spontanee. Ma spontaneamente cosa dichiarare, se non si sa di cosa si viene accusati, e da chi, e perché? Alla vigilia del Ferragosto del 2004 Valentini era stato poi arrestato. E in cella, vinto dallo sconforto, aveva deciso di “evadere” come ogni anno, “evadono” dalle nostre carceri, settanta ottanta detenuti.

Diciotto mesi dopo, l’inchiesta su Valentini è stata archiviata. Non sono emersi elementi a suo carico. Dalle intercettazioni telefoniche che dovevano “inchiodare” il sindaco di Roccaraso non sono invece emersi elementi di reato. Insomma, si è scherzato. Solo che il sindaco Valentini è stato così “indelicato” da prendere la cosa tremendamente sul serio, e ne è stato sopraffatto. Al punto che ha preferito farla finita. L’archiviazione dell’inchiesta risale al 19 gennaio 2006. Qualche giorno fa la notizia dell’assoluzione della sorella del Valentini e di un’altra persona sempre connessa all’inchiesta dove fu coinvolto Camillo Valentini da parte della corte d’appello de L’Aquila che ribalta la sentenza di primo grado.

A questo punto al sindaco Valentini si vuole, almeno, pubblicamente chiedere scusa? Io con questo scritto lo voglio ricordare e penso all’arresto e a quei due giorni in cella d’isolamento che hanno sconvolto per sempre la sua vita ed è un’altra vittima di un errore giudiziario, purtroppo vittima nel senso più totale”.

PARLIAMO DI CHIETI

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI.

Non si è accontentato di telefonarle, mandarle bigliettini, fiori e cioccolatini con la normale frequenza di un qualunque innamorato, scrive “Prima da Noi”. Ma si è spinto fino a farle appostamenti dentro il palazzo di giustizia, dove entrambi lavoravano come magistrati, a pedinarla, e in un'occasione persino a tagliarle la strada, costringendola a una brusca manovra di frenata,sulla Avellino-Napoli. Il tutto per undici lunghi anni, scanditi da iniziative quasi quotidiane. E' per il suo «ossessivo corteggiamento» di una collega che ora un giudice del tribunale di Chieti, Federico Ria, è finito nei guai. Il 18 ottobre sarà processato dalla Sezione disciplinare del Csm , che lo accusa di aver «reiteratamente» molestato e disturbato la donna di cui si era invaghito e di aver, con questi comportamenti «gravemente scorretti» e «costituenti anche reato», leso il prestigio «dell'intero ordine giudiziario». Fatti avvenuti quando il magistrato e la vittima delle sue esagerate attenzioni lavoravano insieme al tribunale di Avellino. Il capo di incolpazione, formulato dalla Procura generale della Cassazione a carico del magistrato, che ha scelto di non nominare un difensore ma di affrontare il processo con le sue sole forze, racconta nel dettaglio la corte soffocante che Ria ha fatto «ininterrottamente» dal 1995 al 2006 alla collega. Non risparmiandole proprio nulla: «numerose telefonate mute e non, in ufficio e a casa», al punto di costringere la donna «a cambiare numero»; e «numerosissime lettere, pressoché quotidiane» , «anche a sfondo sessuale»; e poi ancora: «fiori, cartoline ,cioccolatini e messaggi d'amore lasciati sul parabrezza dell'autovettura» che la collega parcheggiava nel garage del tribunale. E non è finita: per spingerla a cedere alla sua corte spietata Ria ha fatto ricorso pure ad «appostamenti fuori dall'aula di udienza e apparizioni tra il pubblico» durante lo svolgimento di processi; e era capace di attenderla, «anche per lunghissimo tempo, nell'androne del Palazzo di giustizia o in tratti stradali che quotidianamente percorreva, la mattina lungo l'autostrada per raggiungere l'Ufficio, o la sera per rincasare", arrivando "persino a pedinarla in vari tratti di autostrada». Un crescendo culminato nel febbraio del 2006, quando Ria lungo il tratto di autostrada che da Avellino porta a Napoli, dopo aver inseguito e superato la vettura della donna, «le tagliava repentinamente e improvvisamente la strada, costringendola a evitare la collisione solo con una brusca frenata». Un atto che ha comunque messo la parola fine a una corte quasi da "Attrazione fatale".

Il martedì, a Chieti, è un giorno di grande animazione, scrive Luca Villoresi su “La Repubblica”. In piazza Trinità c'è il mercato. E la mattinata del tribunale seguendo le rotazioni del calendario settimanale fissato per sfruttare al massimo le poche aule dell' edificio che ospitò il processo Matteotti è interamente occupata dalle cause civili, con il loro chiassoso viavai di avvocati, segretarie, falliti, litiganti in cerca di conciliazione, parti lese in attesa di risarcimento. La confusione, però, si arresta al secondo piano, sulla trincea del silenzio innalzata dalla Procura e dall'Ufficio istruzione. L'usciere anziano, chiamato il Presidente, scuote la testa. No, l'ispettore del ministero della Giustizia non è ancora arrivato. Ma è questione di ore. Dovrebbe arrivare oggi. E anche i corridoi sono nervosi. Guardi, mi dispiace... Solitamente sono molto cortese, ma adesso proprio non voglio rispondere a nessuna domanda. Il procuratore capo Paolo Amicarelli, che secondo alcune accuse avrebbe tentato di insabbiare l'inchiesta sullo scandalo dell' Ortacoop, apre la porta del suo ufficio solo per il tempo necessario a riaccompagnare il visitatore all'uscita. Ermanno Venanzi, il giudice che nel 1982 era stato delegato all'amministrazione controllata di un'azienda che non doveva valere più di 6 miliardi, ma che grazie al contributo delle casse pubbliche fu pagata più del doppio, non dice neppure buongiorno. Il giudice istruttore Maria Teresa Cameli, il giovane magistrato titolare del primo troncone dell'inchiesta, la ragazzina che secondo alcuni si sarebbe fatta mettere i piedi in testa dall' anziano Amicarelli tace a sua volta: No, non parlo con i giornalisti, scandisce precisa. Arrivederci a migliore occasione. Si sa solo che gli interrogatori proseguono. Tra i testi, anche il sottosegretario all'Agricoltura, il dc Romeo Ricciuti: all'epoca dei fatti era consigliere regionale e si oppose alla concessione della fideiussione regionale tesa a favorire la vendita della azienda agricola. Dal Palazzo di giustizia non filtrano altre notizie. Nemmeno 60 mila abitanti, un paio di migliaia di impiegati della Usl e un' università che produce filosofi e letterati disoccupati: Chieti, la città della camomilla come la sfottono in giro, è tranquilla e burocratica. Pescara, la metropoli tentacolare della regione, è a un quarto d' ora di automobile. Ma la frenesia commerciale ed edonista del centro costiero appare cento chilometri distante dal cocuzzolo teatino. La nuova economia, quella nata con gli anni Sessanta, ha scelto di vivere in pianura, accanto allo scalo ferroviario. L'antica, quella dei clientelismi e degli intrallazzi placidamente gestiti da gerarchie che sembrano risalire al tempo dei Borboni, è rimasta invece solidamente raccolta attorno a un centro storico che, nel raggio di cento metri, con il capolinea delle corriere che fanno la spola con la provincia, racchiude tutti i Palazzi del potere: quello della Giustizia, ma anche le banche, la cattedrale, i Comandi, il Municipio. Nessuno, in giro, ha però molta voglia di esporsi a commentare questa storia di tangenti distribuite, come si dice, a destra e a sinistra. Meno che mai il sindaco, discendente di uno storico presidente di Unità sanitaria locale: titolo che il padre voleva tramandare al figlio, ma che, a causa del cancan sollevato dalle opposizioni, non fu possibile conferire al ragazzo poco più che ventenne. Andrea Buracchio, il rampollo, all'epoca dovette così accontentarsi di un posto nel comitato di gestione; in attesa di assurgere al rango di primo cittadino di una giunta da quarant'anni monotonamente monocolore. Compito che, adesso, lo assorbe totalmente. Il caso Ortacoop? Il sindaco è molto occupato. Chieti fa quadrato, attorno al suo campanile. Anche perché, in fondo, questa provincia vecchia maniera che ha trovato in zio Remo Gaspari il proprio alfiere, preferisce lavare i panni sporchi in famiglia e, se scherza volentieri con le storie boccaccesche dei fanti, lascia stare i santi. E poi lo scandalo ha finito per sporcare un po' tutti. Anche i comunisti che adesso, attraverso il segretario, Sergio Colantuono, ribadiscono la loro totale estraneità, protestano contro un clima di sospetto che coinvolge tutto e tutti, invocano una rapida chiusura dell' inchiesta e, infine, puntano il dito accusatore contro il partito trasversale affaristico formato da esponenti della Dc e del Psi. Ma un certo imbarazzo rimane. Gli unici che gongolano, alla fine, sono i missini. Nicola Cucullo, il capogruppo, sul Corso, fa da Cicerone ai manifesti-collage che lui stesso ha composto e attaccato. Belli, no?. E sfodera un dossier: Ecco, qui c' è scritto tutto. Anche la storia del Magnifico Rettore, che dentro ci sono tutti, proprio tutti. Chissà. E chissà come andrà a finire. In poco più di nulla, a sentire quelli del Bar dello Sport. Il fatto è che Nino Pace, l' ex presidente del Consiglio regionale, finora era stato l' unico tra i politici incriminato per corruzione. E i socialisti ad essere i soli a pagare proprio non ci stavano. Ora è scoppiato questo casino. Finisce che quelli con le spalle meno coperte faranno da capri espiatori, e gli altri si metteranno d' accordo. E buonanotte. Beviamoci sopra. Un caffè. E due camomille.

LA SENTENZA DELLO SCANDALO.

 CORTE D’ASSISE DI CHIETI

N. 2/14 C. Sent.

REPUBBLICA ITALIANA

N.2/13 R.G.C.A.

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

N. 3198/12 N.R. PE

* * *

La Corte di Assise di Chieti composta da:

SENTENZA

Dott. Camillo ROMANDINI Presidente

Dott. Paolo DI GERONIMO Giudice a latere est.

Sig.ra Margherita SBORGIA Giudice popolare

Sig.ra Silvana BUCCELLA Giudice popolare

Sig.ra Maria Rosaria BIONDI Giudice popolare

Sig.ra Letizia MARTINI Giudice popolare

Sig.ra Rosella BARCHIESI Giudice popolare

Sig.ra Daniela SPADOLINI Giudice popolare

in data 19.12.2014

Data del deposito

2.02.2015

Il Cancelliere

Data di irrevocabilità

Visti gli artt.442 e 530 c.p.p. assolve gli imputati dal reato loro ascritto sub A) perché il fatto non sussiste.

Visti gli artt.521 e 531 c.p.p., previa derubricazione del reato contestato sub B) in quello di disastro colposo ex art.449 c.p., dichiara non doversi procedere nei confronti degli imputati per intervenuta prescrizione.

Motivazione riservata da depositarsi entro 45 giorni.

Chieti, 19.12.2014

Il Giudice est. Dott.Paolo Di Geronimo

Il Presidente Dott.Camillo Romandini

Maxi discarica di Pescara, ipotesi di pressioni sui giurati. Il processo a dirigenti e consulenti Montedison per i veleni di Bussi. Indagine al Csm sul giudizio in Assise. I magistrati togati avrebbero insistito sui giudici popolari per attenuare le accuse, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Il Consiglio superiore della magistratura ha aperto una pratica relativa alle presunte pressioni esercitate su due delle sei giudici popolari della corte d’Assise di Chieti che, lo scorso 19 dicembre, derubricò lo scempio della discarica di Bussi sul Tirino (Pescara), da disastro ambientale doloso a disastro colposo (poi prescritto) a carico di 19 imputati tra dirigenti e consulenti della Montedison. Quella camera di consiglio fu guidata dal giudice presidente Camillo Romandini e dal giudice a latere Paolo Di Geronimo. La sentenza sconfessò la tesi dei pm, Giuseppe Bellelli e Annarita Mantini, convinti invece che gli imputati andavano condannati a pene oscillanti tra i 4 e i 12 anni. Nel collegio di difesa della Montedison c’era anche l’ex Guardasigilli Paola Severino. A questo punto è pressoché scontato che il Procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, stia per aprire (se non lo ha già fatto) un fascicolo disciplinare sui due togati coinvolti. La decisione dell’ufficio di presidenza del Csm (di cui fa parte anche il Pg della Cassazione) è giunta dopo l’arrivo a Palazzo dei Marescialli di una lettera dell’avvocato Cristina Gerardis alla quale era allegato un servizio di Antonio Massari de «Il Fatto quotidiano» che ieri ha dato grande risalto alle «anomalie della sentenza sulla discarica dei veleni». L’avvocato Gerardis conosce nel dettaglio il processo perché vi ha preso parte in nome e per conto dell’Avvocatura dello Stato. «Le indagini e le valutazioni sulla vicenda sono state affidate alla Prima commissione», ha detto il vice presidente del Csm Giovanni Legnini che, tra l’altro, conosce molto bene la vicenda perché Chieti è la sua città. La prima commissione, presieduta da Paola Balducci, è quella specializzata nelle incompatibilità funzionali e ambientali dei magistrati che ora dovrà ricostruire, per quanto possa essere violato il segreto della camera di consiglio, cosa è avvenuto dietro le quinte della corte d’Assise di Chieti. Prima di andare a sentenza sulla Montedison, il collegio era comunque passato attraverso la ricusazione dell’ex presidente Geremia Spiniello, «reo» di aver detto in un’intervista che la magistratura avrebbe reso giustizia al territorio. Nella ricostruzione de «Il Fatto» ci sono le voci (anonime) di due donne sorteggiate per quella giuria popolare che parlano di «decisione non serena» e, soprattutto, alludono al braccio di ferro con i togati per rubricare tra disastro ambientale (doloso), quindi intenzionale, e disastro colposo: in particolare, una delle due giurate interpellate ha riferito: «Il giudice Romandini ci ha spiegato che se avessimo condannato per dolo, se poi si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente». La prima commissione, poi, dovrà scavare su una cena organizzata il 16 dicembre (tre giorni prima della camera di consiglio) in un locale pubblico di Pescara durante la quale una parte della giuria popolare e i due giudici togati avrebbero discusso open air di dolo e di colpa. Prima dell’intervento del Csm, la senatrice Dem Stefania Pezzopane, anche lei abruzzese, si era rivolta al governo con un’interrogazione: «Chiediamo di verificare le notizie secondo le quali la sentenza del 19 dicembre scorso di sostanziale assoluzione sulla discarica di Bussi sarebbe gravemente viziata». Stessa richiesta anche da parte del segretario dell’Italia dei Valori, Ignazio Messina, e dei deputati abruzzesi del M5S Andrea Colletti, Gianluca Vacca e Daniele Del Grosso che parlano di «troppe ombre sul processo Montedison per la discarica di Bussi». Ieri sera le commissioni Ambiente e Giustizia del Senato hanno licenziato senza modifiche il ddl sugli ecoreati che, a questo punto, andrebbe in aula per essere approvato, come da impegno assunto da Matteo Renzi, prima della pausa per le elezioni.

Bussi “processo anomalo”. Il Fatto torna sui misteri irrisolti: «Gerardis fece il nome di Legnini». Nell’inchiesta sul giudice Romandini che è arrivata a Campobasso (archiviata) e al Csm c’è anche il nome del vice presidente del Csm, scrive il 28 Aprile 2018 "Prima Da Noi". «I pm dissero che tutto era già deciso e di averlo saputo da persona più in alto del ministro. Io pensai a lui». Sono le parole di Cristina Gerardis, avvocato dello Stato che ha seguito il processo di Bussi sulla maxi discarica contro Montedison, la quale ben due anni fa venne sentita dal procuratore generale della Cassazione. Nel lungo interrogatorio, nell’ambito dell’inchiesta sul processo anomalo, la pressione sui giudici popolari da parte del togato Camillo Romandini (accuse archiviate in sede penale) e le voci che parlavano di sentenza già nota almeno un mese prima della sua lettura in aula, la Gerardis raccontò quanto a lei noto per aver frequentato molti dei personaggi che ruotavano intorno al processo, compresi avvocati, pubblici ministeri, investigatori ed il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, che durante le fasi finali di quel processo la volle come direttore Generale. A distanza di quattro anni dalla sentenza e tre anni dalle prime rivelazioni di “anomalie”, il Fatto Quotidiano ritorna sull’argomento puntando lì dove nei primi articoli inchiesta l’argomento era rimasto sfumato e cioè l’eventuale ruolo avuto da Giovanni Legnini, vice presidente del Csm. Il suo ruolo nel processo o di suoi eventuali colloqui con i pm Anna Rita Mantini e Giuseppe Bellelli (oggi vice procuratore aggiunto di Pescara la prima, e capo della procura di Sulmona il secondo). Nell’estate 2016 il procuratore generale della Cassazione -scrive nell’articolo Antonio Massari-  chiede conto a Gerardis di un incontro che si è tenuto il 4 dicembre 2014, a venti giorni dalla sentenza, in uno studio legale, tra i pm che conducevano il processo sulla discarica di Bussi, l’avvocato dello Stato e alcune parti civili. Fu in quella sede che i pm riferirono una notizia che ai più parve incredibile: «i pm Giuseppe Bellelli e Annarita Mantini» , riassume Il Fatto raccontando il senso dell’annuncio dei pm riportato da Gerardis nel suo racconto, «dissero che era tutto inutile e che avremmo perso. Abbiamo chiesto come facessero a saperlo e la dottoressa Mantini ha detto che ne avevano avuto certezza da una persona più importante del ministro di giustizia. Come ho interpretato questa frase: ho ritenuto che si riferissero al vice presidente del Csm Legnini». Si tratta di una semplice deduzione dell’ex direttore generale Gerardis che oggi ritornano d’attualità proprio alla luce di polemiche, tutte interne al Csm, e che partono proprio dal procedimento disciplinare in corso al giudice Camillo Romandini e al cambio del collegio giudicante avvenuto in corsa e contestato dai magistrati estromessi. Il Fatto ha sentito Giovanni Legnini che è stato chiaro e lapidario su diversi punti. «Abbiamo chiesto a Legnini se abbia mai discusso con i pm Bellelli e Mantini, o con il giudice Romandini del processo», riporta Massari nell’articolo. «Non ho mai parlato con i magistrati – risponde Legnini – degli esiti del procedimento Bussi». Il vicepresidente del Csm è categorico: «È certo che non sia io la ‘persona più importante del ministro’ a cui qualcuno ha voluto riferirsi». Poi aggiunge: «Ho sempre avuto in grande considerazione il lavoro straordinario dei pm e sono sempre stato dalla parte dei cittadini e non degli inquinatori». Legnini rivendica il suo impegno sul risanamento della discarica di Bussi: «Da parlamentare – puntualizza – riuscii a ottenere importanti risorse sia per disinquinare le sorgenti, lavori poi realizzati in tempi rapidissimi, sia per lo stanziamento di 50 milioni, purtroppo ancora inutilizzato». E sul procedimento disciplinare a Romandini in corso dice: «ho da subito comunicato al consigliere Antonio Leone di non voler presiedere quel collegio giudicante». Il motivo? «Proprio perché me ne ero occupato da parlamentare». E sul fascicolo pendente precisa: «Il dibattimento non è ancora stato aperto e il collegio è quello titolare, al quale era stato assegnato, come era obbligatorio fare». Nessun ruolo nella vicenda del 4 dicembre 2016 e nelle vicissitudini dell’inchiesta su Bussi: «Mere congetture – conclude – poiché i miei comportamenti sono sempre stati trasparenti e rispettosi dei miei doveri istituzionali».

Rimane il fatto, accertato e confermato da moltissimi testimoni, che in quello studio legale di Roma i pm annunciarono che avrebbero perso, come effettivamente avvenne, e di averlo saputo da qualcuno più importante del ministro della giustizia. A chi si riferivano? Non lo hanno mai detto nei 4 anni trascorsi.

Bussi "processo anomalo", il Fatto: «sapevano tutti anche il vice del Csm Legnini». Ad ascoltare le rivelazioni dei pm anche la polizia giudiziaria, scrive il 22 giugno 2015. "Prima Da Noi". Come una valanga, o meglio come una frana che pian piano si stacca, sta venendo giù lo scandalo del processo Bussi, della sentenza anticipata e delle presunte pressioni sui giudici popolari e chissà che altro ancora. La “montagna” non è ancora venuta giù ma lo smottamento è in atto e rischia di travolgere tutto quello che c’è a valle. Il nuovo terremoto, l’ennesimo, lo provoca il Fatto Quotidiano, l’unico giornale in Italia ad affrontare la grana del “processo anomalo” che di fatto è un tonfo assordante che si perde nel silenzio siderale di un universo che guarda altrove. Il giornale diretto da Marco Travaglio, dopo il primo scoop del 13 maggio 2015 ha pubblicato notizie secondo le quali molti esponenti delle istituzioni erano stati informati sia delle pressioni sui giudici popolari sia soprattutto del verdetto in anticipo. Tra questi il presidente della Regione Abruzzo, Luciano D’Alfonso, gli avvocati di parte civile, l’avvocato dello Stato, Cristina Gerardis, persino i pm Bellelli e Mantini e, notizia di ieri, anche il Csm di Giovanni Legnini. Il senatore di Chieti del Pd, nominato lo scorso anno alla carica più alta dell’organo di autogoverno della magistratura dopo il Presidente della Repubblica, avrebbe saputo in anticipo di «voci» circa l’esito del processo. Si tratta –lo ricordiamo- del processo sulla mega discarica di Bussi e sull’avvelenamento delle acque che vedeva imputati 19 persone per lo più ex dirigenti e tecnici della Montedison. Legnini tuttavia non avrebbe potuto fare molto perché non avrebbe ricevuto alcun esposto firmato fino a quando non ha ricevuto quello di Gerardis, il giorno stesso della pubblicazione del primo articolo de Il Fatto (5 mesi dopo la sentenza), e poche ore dopo la pubblicazione, con tempi di reazioni rari per il Csm, è stato aperto un fascicolo. Gerardis ha poi dichiarato di aver saputo in anticipo l’esito della sentenza già a dicembre ed il perché non abbia denunciato allora (o quanto meno il giorno dopo la sentenza) rimane un mistero. Così come rimane un mistero il perchè tutti gli altri non abbiano fatto nulla per informare superiori ed istituzioni di un fatto di una gravità unica. Ora a cercare di fare chiarezza ci sono diverse indagini tra cui quella della Procura di Campobasso che ha già sentito i giudici, Gerardis ed anche i pm Bellelli e Mantini per un totale di «sette ore», una circostanza che si attendevano in pochi visto che l’indagine riguarda le presunte pressioni sui giudici popolari da parte del presidente del collegio Camillo Romandini, fatti per i quali i pm sono estranei. Eppure i magistrati che hanno condotto le indagini ed il processo illustrando migliaia di documenti sono stati interrogati per molto tempo. Cosa abbiano detto è ancora segreto. Secondo le notizie pubblicate da Il Fatto il giorno cruciale della “fuga di notizie sulla sentenza” è il 4 dicembre 2014, ben 15 giorni prima della sentenza, quando i pm in compagnia di «un agente della polizia giudiziaria del corpo forestale» hanno partecipato ad un incontro alla presenza degli avvocati delle parti civili, dell’avvocatura dello Stato. Secondo il giornale l’incontro è preparato ed organizzato perché i pm hanno già saputo che il processo è «già scritto» ed infatti sarebbe stato proprio uno dei pm - davanti ad almeno una decina di testimoni- a dire «si va verso l’assoluzione». In quella riunione sarebbero stati forniti anche ulteriori particolari della notizia che hanno fatto intendere a tutti i presenti che non si era in presenza di «semplici voci» o «chiacchiericcio» ma di una notizia più che attendibile anche perché proveniente da «un esponente delle istituzioni». Tanto attendibile che poi si realizzò in pieno. Dunque, persino la polizia giudiziaria presente all’incontro era a conoscenza ed ascoltò le rivelazioni dei pm senza denunciare e, per il momento, la Forestale non parla e non è possibile sapere se il comando provinciale fu avvisato dell'episodio. Una sequela di omissioni -più che grave- pericolosa e per certi versi inspiegabile se non altro per la sua “solidarietà” che di fatto ha “contagiato" decine di persone. «Guardatela questa fotografia» scrive Antonio Massari su Il Fatto, «c’è tutto lo Stato! Due pubblici ministeri, la polizia giudiziaria, l’avvocatura dello Stato: tutti hanno notizia che nel processo c’è qualche anomalia e aggiungiamo che voci raggiungono anche il Csm». Bisogna aggiungere che alla riunione erano presenti diversi avvocati delle parti civili tra cui i rappresentanti di Solvay mentre tra le parti civili del processo figurano enti (Comuni e province) e altre istituzioni. Il Fatto poi ricorda l’altro episodio misterioso, quello dell’esposto che avrebbe dovuto informare ufficialmente il Csm fatto predisporre dai giudici popolari che denunciarono pressioni. Ebbene di quell’esposto il giornale ne dà conto anche se non è stato poi spedito. La bozza di denuncia è rimasta nel cassetto di qualcuno perché qualcun altro consigliò i giudici popolari di non farlo. Il giornale di Travaglio poi mette nel mirino anche l’informazione locale che di questa vicenda non si è appassionata e non sta seguendo, nemmeno dopo le rivelazioni di peso che un alto impatto stanno avendo sulle istituzioni locali. Una sorta di “distrazione collettiva” difficilmente spiegabile ma non certo fatto nuovo in Abruzzo. «Resta ancora un vuoto da colmare», si legge su Il Fatto, «non abbiamo letto una sola intervista a D’Alfonso, una sola domanda sull’argomento, nessuno che gli abbia chiesto se davvero sapeva in anticipo della sentenza, nessuno che gli abbia chiesto nome e cognome di chi eventualmente gli avesse fornito la notizia». Noi - vista l’impossibilità di rivolgere direttamente domande a tutti i vari soggetti coinvolti - le abbiamo pubblicate invitando chiunque avesse e potesse farlo a rispondere. Non abbiamo ricevuto ancora nessuna risposta.

Processo Bussi, l’avvocato che denunciò voci su tangente da 3 mln: «incommensurabile miseria umana». Il racconto: io ho pagato un prezzo altissimo, scrive il 20 novembre 2017 "Prima Da Noi". «Ho versato fino all’ultima goccia di sangue per il processo sulla discarica di Bussi. Quella vicenda è stata connotata da incommensurabile miseria umana. Lo dico con tristezza perché per la mia terra ho fatto tantissimo e ho pagato un prezzo altissimo». Sabato pomeriggio, al termine della proiezione e del dibattito sul documentario commissionato dal Movimento 5 Stelle al regista Walter Nanni sulla discarica di Bussi, l’avvocato di alcune parti civili Patrizia Di Fulvio ha chiesto la parola. «Perché quando vengo nominata non ho problemi ad alzarmi e a dire "eccomi, sono qui"». A nominarla, poco prima durante il dibattito moderato da Primo Di Nicola, era stato il giornalista del Fatto Quotidiano, Antonio Massari, che nei mesi scorsi aveva scritto proprio sulla Di Fulvio e sulla sua denuncia circa voci che circolavano alla vigilia della sentenza su una presunta tangente da 3 milioni di euro per orientare il verdetto a favore degli imputati.

LE VOCI. Era il 28 novembre 2014, un venerdì, a Chieti c'era una udienza del processo, durante la pausa pranzo l’avvocato Patrizia Di Fulvio scrisse all'avvocato Luca Santa Maria, che sostituiva all’udienza, «un sms nel quale si parlerebbe di corruzione, tangenti, di soldi», aveva ricostruito Massari. Vista la gravità dei fatti raccontati nell’articolo, PrimaDaNoi.it contattò l’avvocato Di Fulvio che chiarì ulteriormente quanto detto al giornale di Travaglio. «Era il 28 novembre venerdì e durante la pausa pranzo come abbiamo fatto altre volte insieme ad altri avvocati siamo andati in un bar dietro il corso di Chieti. C’erano anche i pm Bellelli e Mantini oltre a Cristina Gerardis e altri avvocati ma con precisione non saprei dire chi ci fosse quel giorno lì. Dopo il panino la Mantini mi prese da parte e mi disse esattamente quanto riportato negli sms, e cioè che Edison stava cercando di corrompere i giudici con tangenti, che avevano offerto soldi ai giudici. Che tali notizie erano certe perché provenivano da fonti attendibili, certe, fidate e verificate. Queste notizie immediatamente dopo mi furono confermate dall' avvocato Gerardis, la quale aggiunse che le sapeva già da una settimana e che aveva ritenuto di riferirle prima ai pubblici ministeri.  Il riferimento della dottoressa Mantini era comunque a plurime fonti (attendibili, certe, fidate e verificate)». E’ a questo punto che l’avvocato sconvolto per quanto appreso scrisse due sms in sequenza al suo collega di studio Santamaria. Ecco che cosa scrisse: «Edison sta cercando di corrompere i giudici con tangenti me lo ha confermato anche Cristina». A seguire: «hanno offerto soldi ai giudici è stato accertato dalla procura della Repubblica». Su quest’ultimo Di Fulvio precisò: «quando ho scritto che “è stato accertato dalla procura” intendevo dire che per la procura di Pescara erano fonti fidate e verificate».

PAGATO PREZZO ALTISSIMO. Dopo mesi di silenzio, durante i quali sia il giudice che la società hanno azionato denunce per diffamazione e tutti gli altri soggetti istituzionali non hanno spiegato quanto successo, Di Fulvio è tornata a parlare. Probabilmente non era nemmeno sua intenzione farlo ma quando è stata citata ha sentito il dovere di intervenire. Così sabato pomeriggio ha chiesto la parola spiegando: «per quel processo ho versato fino all’ultima goccia di sangue, lavorando accanto alla Procura, all’avvocatura. Non sapevo che in questo incontro si sarebbe parlato della voci sulla presunta tangenti di 3 milioni di euro. È naturale per me, se vengo citata, dire ‘eccomi’, perché ho la mia dignità». L’avvocato ha ribadito di non essersi mai sottratta alle proprie responsabilità e ha detto che «questa vicenda è connotata da incommensurabile miseria umana, lo dico con umiltà e tristezza. Per la mia terra ho fatto tantissimo, tutto quello che era nelle mie possibilità, forse anche oltre. Con amore, con grandissimo senso del dovere, ho pagato un prezzo altissimo per questa incommensurabile miseria umana che ha caratterizzato il comportamento di altre persone, anche alte cariche dello Stato e questo mi rattrista come cittadino e come avvocato. Non posso e non voglio dire altro».

TORTO: «E’ DOVERE DI OGNI CITTADINO DENUNCIARE ANCHE I MAGISTRATI». Nel dibattito ha voluta lasciare la sua testimonianza anche Lorenzo Torto, il cittadino di Rapino che da anni ha ingaggiato una battaglia contro diversi aspetti del sistema burocratico e della magistratura. Sue alcune denunce contro il giudice Camillo Romandini e oggetto di diverse interrogazioni parlamentari dal 2015 che attendono risposta. «Per esperienza personale», ha detto Torto, «vi dico che è giusto che un cittadino si assuma la responsabilità di lottare contro un sistema che non funzione e che dimostra criticità. Queste criticità sono molto evidenti nel caso del giudice Romandini perchè non è mai successo che un magistrato sia stato titolare di una impresa agricola individuale per diversi anni, dal 1996 -2015, percependo notevoli contributi pubblici. Chi doveva controllare non ha mai controllato e attendo le risposte alle interrogazioni del Movimento 5 Stelle dal 2015. Il giudice deve restituire bei soldi all’erario… E’ un dovere di ogni cittadino segnalare un comportamento così vergognoso, come ho fatto io, perchè posso dire che questo magistrato ha due procedimenti disciplinari e dovrà dare spiegazioni sui soldi percepiti dalla Agea e dalla Regione Abruzzo. Aggiungo che Romandini è stato ex presidente dell’Ater Lanciano, poi nel comitato etico della D’Annunzio e mi domando: un giudice che ha tutti questi incarichi pubblici come fa a non avere commistioni con la politica? Di recente ho fatto visita alla Corte dei Conti perchè sono due anni che hanno una mia denuncia ma la procuratrice contabile è affetta da amnesia. Questa è verità, le responsabilità si devono cercare anche nella magistratura perchè ci sono giudici che si sacrificano per una giustizia giusta e altri che la utilizzano per altri fini».

Processo Bussi: azione disciplinare contro giudice Romandini ma la verità rimane segreta. Per il ministro c’è stata violazione degli obblighi; per la procura di Campobasso nessun reato, scrive il 13 settembre 2016 "Prima Da Noi". Sul processo di Bussi e sulla anticipazione della sentenza la beffa continua. Un’azione disciplinare è stata emessa contro il giudice Camillo Romandini che presiedeva il collegio per aver violato obblighi imposti ai giudici ma la procura di Campobasso -che doveva indagare su cosa effettivamente fosse successo- ha archiviato. Non solo, dopo le indagini non sarebbe stato ravvisato alcun illecito ma l’effetto perverso (in questo caso) è che il segreto su tutta la vicenda continuerà ad essere totale dopo la prova che cose indicibili sono successe intorno a quel processo. Che cosa è successo oggi? Finalmente dopo oltre un anno è stata discussa in Parlamento una interrogazione firmata da diversi deputati, tra cui Antonio Castricone (Pd) e Andrea Colletti (M5s), tutta basata sulle rivelazione che il Fatto Quotidiano pubblicò a maggio 2015. I fatti riportati in diverse inchieste giornalistiche si riassumevano in alcune dichiarazione dei giudici popolari che denunciavano alcune pressioni ricevute dal giudice Romandini per orientare l’esito della sentenza contro i dirigenti Montedison, accusati di avvelenamento delle acque e disastro ambientale, verso una assoluzione e prescrizione. Dalla inchiesta giornalistica è emerso che l’esito della sentenza era noto almeno un mese prima e di sicuro era a conoscenza dell’attuale presidente della Regione, Luciano D’Alfonso, che poi l’avrebbe riferita a molti altri esponenti delle istituzioni. Secondo il Fatto Quotidiano anche il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini, avvocato di Chieti e già parlamentare Pd, sarebbe stato a conoscenza dei fatti, così come l’allora avvocato dello Stato, Cristina Gerardis sarebbe stata depositaria di una serie di informazioni circa fatti che sarebbero avvenuti prima della sentenza e anche lei li avrebbe riferiti a diversi esponenti istituzionali. Gerardis proprio in quel periodo, sconosciuta in Abruzzo, venne scelta da D’Alfonso per occupare la carica tecnica più alta in Regione: direttore generale. In seguito agli articoli dei giornali fu aperta una inchiesta presso la procura di Campobasso che volle ascoltare numerosi protagonisti tra i quali anche i pm del maxiprocesso, Anna Rita Mantini e Giuseppe Bellelli, oltre a vari esponenti politici indicati da testimoni e dalle stesse giudici popolari. Quelle indagini, però, sono state archiviate a gennaio 2016 facendo calare il segreto - che qualcuno spera sia perpetuo - essendo un atto non appellabile per il quale non è possibile fare accesso agli atti. In tutto questo tempo, nonostante la pubblicazione di notizie oggettivamente sconvolgenti, si è sempre registrato il silenzio più totale su ogni fronte, persino da parte di quelle stesse persone che all’epoca ebbero il coraggio di denunciare.

CHE COSA HA DETTO IL SOTTOSEGRETARIO ALLA GIUSTIZIA. Il sottosegretario alla giustizia, Gennaro Migliore ha detto: «il Ministro, nell'esercizio delle proprie prerogative, ha prontamente avviato, per il tramite delle competenti articolazioni, gli accertamenti volti a fare piena luce sulla vicenda riportata dagli organi di stampa.  All'esito dell'istruttoria, lo scorso mese di maggio il Ministro ha promosso l'azione disciplinare nei confronti del dottor Camillo Romandini, per violazione degli articoli 1 e 2, comma primo, lettera e), del decreto legislativo n. 109 del 2006, per avere ingiustificatamente interferito nella libertà di determinazione dei giudici popolari componenti del collegio della Corte di assise dallo stesso presieduto, ponendo in essere condotte idonee a condizionarne la serenità di giudizio.     Analoga iniziativa è stata promossa dalla procura generale presso la Corte di Cassazione». La norma citata prevede che «Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni.  Il magistrato, anche fuori dall'esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorche' legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell'istituzione giudiziaria». Inoltre il sottosegretario ha confermato che l’inchiesta penale di Campobasso è stata chiusa con una archiviazione il 5 gennaio 2016. Antonio Castricone (Pd) si è detto parzialmente soddisfatto dalla risposta mentre molto più duro è stato Andrea Colletti che ha evidenziato molti degli aspetti critici di questa vicenda, peraltro acuiti proprio dalla risposta governativa (e dalle zone rimaste oscure). Colletti per esempio ha fatto più volte riferimento alle incredibili dichiarazioni del precedente presidente del tribunale, Geremia Spiniello, per una vita restio a dichiarazioni, puntuale, integerrimo, severo e affatto incline alla scena mediatica che, invece, subito dopo una udienza rilasciò una dichiarazione in aula affermando che i giudici «avrebbero fatto giustizia». La Cassazione adita dalla Montedison ha poi confermato la ricusazione del giudice il quale venne sostituito da Camillo Romandini. «Ora», ha aggiunto Colletti, «io già sapevo dell'archiviazione del GIP avvenuta a gennaio, però mi piacerebbe conoscere le motivazioni di questa archiviazione. È sempre molto difficile per dei magistrati indagare su altri magistrati, lo comprendo benissimo. Non conosco la vicenda in questione perché non ho le carte, però non è il primo caso di omertà tra magistrati, dove è meglio non vedere. È una vicenda ovviamente conosciuta perché il vicepresidente del CSM Legnini è proprio di Chieti ed esplica la sua attività forense e politica in Chieti. Io però mi domando per quale motivo è stata archiviata questa indagine. C’è un'indagine per calunnia a carico del giornalista de il Fatto Quotidiano Massari? C’è un'indagine per calunnia a carico dei due giudici popolari che hanno riferito tutto quanto? È falso o è vero quello che hanno riferito Massari e i due giudici popolari? Si è indagato su quanto detto dall'avvocato Cristina Gerardis oppure no? Si è indagato su quanto detto o riferito da il Fatto Quotidiano sul presidente della giunta della regione D'Alfonso? Si è scoperto perché un magistrato così esperto come Geremia Spiniello abbia fatto tali dichiarazioni talmente avventate?» «Mettendo tutte queste cose insieme ancora non si scopre la verità e purtroppo a causa di quest'archiviazione, e visto che nessuno potrà fare ricorso contro questa archiviazione perché è lo Stato la vittima e non tutti i cittadini della Val Pescara, non potremo mai scoprire da un punto di vista giudiziario la verità. Allora l'unica arma che abbiamo è scoprirla da un punto di vista almeno politico d'indagine ed è proprio per questo motivo che, oltre alla mia interrogazione che ho presentato più di un anno fa, ho presentato un'ulteriore interrogazione per verificare cosa è successo nella procura di Campobasso, perché si è chiesta quell'archiviazione, perché è stata disposta l'archiviazione e se in conseguenza sono state disposte indagini a carico dei due giudici popolari e del giornalista. Non possiamo avere due verità opposte: o c’è qualcosa che non è andato in quel processo, e quindi è sbagliata l'archiviazione o è falso quanto dichiarato da il Fatto Quotidiano e dai due giudici popolari. La verità in questo caso non può stare nel mezzo ed è per questo, sottosegretario, che non posso ritenermi soddisfatto».

L’OMERTA’ DI STATO CONTINUA: NESSUNO HA RISPOSTO ALLE NOSTRE DOMANDE

PRESSIONE SUI GIUDICI POPOLARI

1) Il malcontento di alcuni giudici popolari era già noto ad alcuno prima della sentenza?

2) Qual è la vera ragione per cui i giudici popolari non hanno denunciato le presunte “pressioni” del presidente Camillo Romandini?

3) Che ruolo ha svolto in questa vicenda l’allora avvocato dello Stato Cristina Gerardis e quando è venuta a conoscenza delle “pressioni” e del verdetto?

4) Che cosa ha fatto la Gerardis quando è venuta a conoscenza di notizie riservate del Collegio? Da chi ne è venuta a conoscenza e con chi ne ha parlato?

5) Ricordate il caso del primo giudice della Corte d’assise Geremia Spiniello? E’ stato ricusato in seguito a sue dichiarazioni in tv appena dopo la fine di una udienza del processo dicendo la frase (ambigua) «faremo giustizia per il territorio». Le domande allora sono: c’è qualcuno che può indicare una intervista televisiva di un qualsiasi giudice appena dopo l’udienza e nella stessa aula di udienza? L’inflessibile Spiniello prima di quella volta aveva rilasciato interviste simili?

LA SENTENZA ANTICIPATA

6) D’Alfonso era a conoscenza della sentenza prima del 19 dicembre 2014 come ci risulta e come pubblicato da Il Fatto; chi informò D’Alfonso e a chi ne parlò il governatore?

7) D’Alfonso conosce il giudice Camillo Romandini? Lo ha incontrato tra il 2014 ed il 2015 e se sì per quali ragioni? Se sì hanno per caso parlato anche della sentenza di Bussi?

8) D’Alfonso ha mai informato la Gerardis del verdetto prima della sentenza?

9) D’Alfonso e Gerardis hanno poi informato altri esponenti istituzionali della notizia che loro sapevano essere certa e proveniente da fonte attendibile (e non semplici voci)?

10) I pm Giuseppe Bellelli e Anna Rita Mantini erano a conoscenza delle notizie riservate e se sì da chi sono stati informati? Se sono stati informati hanno aperto un fascicolo di indagine magari ancora segreto per la verifica delle informazioni?

11) Ipotizzando che la notizia di eventuali pressioni sui giudici popolari e di un verdetto già scritto era cosa nota, qualcuno pensò di informare anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini, la più alta autorità in materia e per di più di Chieti dunque conosciuto e conoscitore della realtà locale?

12) Che ruolo hanno svolto i vari avvocati delle parti civili e nello specifico della Solvay? Notizie di presunte irregolarità sono giunte fino a loro?

13) Che ruolo hanno svolto gli avvocati degli imputati della Montedison? Anche a loro la notizia è giunta in anticipo?

14) Ci risulta che esistono diverse “prove” che potrebbero raccontare vari spezzoni della storia in possesso di alcuni “attori” anche non protagonisti. A che cosa sono servite queste “prove” visto che non sono servite a denunciare possibili reati? Potrebbe esserci almeno in astratto la possibilità che tale materiale possa essere utilizzato in maniera impropria e divenire mezzo di “pressione” verso figure istituzionali?

15) Ammettendo pure che –come dicono molti- le anticipazioni del verdetto sono state giudicate “non attendibili” e “voci generiche” perché nessuno ha sentito il bisogno di denunciare il 20 dicembre, giorno dopo la sentenza, affinchè le autorità competenti accertassero la verità? Perché i politici che sanno continuano a tacere? Chi sta guadagnando da questa vicenda e chi ci sta perdendo?

Bussi, il “processo anomalo”: anche i pm conoscevano la sentenza in anticipo. Sarebbero stati informati da un personaggio istituzionale, scrive il 19 giugno 2015 "Prima Da Noi". Sette ore davanti ai colleghi di Campobasso per rispondere e ricostruire tutti i fatti ancora avvolti da una fitta nebbia che riguardano il processo anomalo di Bussi, le presunte pressioni sui giudici popolari e la sentenza anticipata settimane prima. I pm della procura di Pescara, Giuseppe Bellelli (appena promosso procuratore a Sulmona) e Anna Rita Mantini sono stati ieri dall’altra parte della barricata, interrogati dai colleghi molisani come persone informate sui fatti. Secondo l’articolo di oggi de Il Fatto Quotidiano anche Bellelli e Mantini erano a conoscenza dell’esito della sentenza settimane prima che il verdetto venisse letto in aula, perché informati da una fonte autorevole e istituzionale. Furono loro, scrive il giornalista Antonio Massari, a dire la frase «saranno tutti assolti, è già tutto deciso» secondo le testimonianze raccolte dalla Procura di Campobasso. E a parlare ai pm di una decisione già presa, come riferiscono «fonti accreditate» con le quali ha parlato il giornalista, sarebbe stato il governatore D’Alfonso. Dunque se così fosse l’assoluzione era praticamente una notizia che conoscevano tutti, da Cristina Gerardis dell’Avvocatura dello Stato, a diversi avvocati, passando per il presidente della Regione, Luciano D’Alfonso e i pm che sostenevano l’accusa in dibattimento. Ma a differenza di quanto voluto far capire non si trattava affatto di «voci e dunque per questo penalmente irrilevanti» come ha dichiarato Cristina Gerardis al Tg3 ma di una notizia che per la sua provenienza era sicuramente attendibile anche perché le parti erano a conoscenza anche dei contorni entro i quali è scaturita la «anticipazione».  Ma soprattutto, secondo il giornale di Travaglio che oggi fornisce nuovi e inquietanti dettagli, ci sarebbero molte persone coinvolte nel caso e si racconta, peraltro, anche un episodio piuttosto criptico che dovrà essere valutato dai magistrati di Campobasso che stanno indagando. Al centro dell’episodio narrato -ma non chiarito fino in fondo- un incontro attorno «ad un tavolino» di alcuni personaggi istituzionali (di cui non vengono fatti i nomi) coinvolti nella questione e la frase ambigua, riportata dal Fatto, pronunciata da uno di questi: «il passaggio c’è già stato. Si andrà verso l’assoluzione». Cosa si intendeva non è chiaro e toccherà probabilmente alla magistratura valutare anche questo episodio. Si tratta di un ennesimo episodio della incredibile e gravissima saga che ruota intorno ad un processo che sembra sempre più diventare un crogiuolo di commistioni ed interessi vari dove tutti sembrano dimenticare diritti e doveri e a farne le spese è proprio la “giustizia”. I due pm Bellelli e Mantini nelle scorse settimane sono stati ascoltati a Pescara per circa un'ora e mezza anche dalla Commissione parlamentare sulle attivita' illecite connesse al ciclo dei rifiuti presieduta dall'onorevole Alessandro Bratti (Pd). Mentre a Campobasso sono già stati sentiti tutti i giudici, togati e popolari, ed ognuno ha fornito la propria versione. Secondo quanto siamo riusciti ad apprendere Gerardis avrebbe raccontato una storia molto lunga ed articolata e illustrato moltissimi particolari della vicenda ancora non pubblici. Anche i giudici popolari avrebbero confermato quanto già trapelato sui giornali ed aggiunto ulteriori particolari inerenti la formazione della volontà nell’ambito della sentenza Bussi. Dunque dopo qualche settimana di pausa il Fatto ritorna e rincara la dose e dalle notizie trapelate si evincono almeno due fatti importanti. Il primo è che i pm Belleli e Mantini, avendo contezza della sentenza prima del tempo e informati direttamente da un personaggio istituzionale (chissà se proprio dal presidente Luciano D’Alfonso) sapevano bene che la notizia aveva piena attendibilità anche perchè poi confermata nei giorni successivi anche da altre fonti. Se così’ stanno le cose bisogna allora credere che i due magistrati andarono in aula più volte con la piena consapevolezza che qualcosa di grosso e grave era successo. Bisogna ammettere anche che i due magistrati -impegnati in una durissima requisitoria per la gran parte impeccabile e mastodontica - sapevano di parlare al vento e sapevano che quei giudici che avevano di fronte avevano in realtà già deciso. Stessa cosa evidentemente quando hanno speso ore a tavolino per incardinare il ricorso per Cassazione che dovrebbe cancellare una tra le più contestate e meno genuine sentenze della storia della Repubblica italiana. E che dire dell’episodio strano del “tavolino”, magari di un bar, nel quale un personaggio afferma riferito alla sentenza «il passaggio c’è già stato». Ma chi sono queste persone che si interessano così tanto a questo processo, chi ascolta e perché? Di che passaggio parliamo? Ma è possibile che dietro un processo vi siano tali e tanti lati oscuri e che coinvolgono tante persone che non hanno minimamente sentito il bisogno di denunciare e tantomeno fare chiarezza preferendo reticenza e omertà. Qui però ora si rischia grosso perché c’è una procura che indaga e qualche volta anche il silenzio può essere un reato.Intanto nessuno, infatti, ha inteso rispondere alle domande che PrimaDaNoi.it ha pubblicato qualche giorno fa indirizzate agli esponenti istituzionali a conoscenza dei fatti. La vicenda oltre che grottesca sta assumendo toni da farsa ma potrebbe diventare una bomba atomica sempre che la procura di Campobasso intenda andare fino in fondo e ne abbia la possibilità.

Discarica Bussi, i pm: nei Sessanta ogni giorno una tonnellata di veleni nel fiume. La “confessione” in un documento del ’92, scrive il 7/04/2014 triskel182. Continua il processo in Corte d’Assise a Chieti sulla discarica della ex Montedison. Nuove rivelazioni dei pm Annarita Mantini e Giuseppe Bellelli: gli imputati sapevano dell’acqua dal 1992. E per il perito dell’accusa, la discarica continua a inquinare. Entra nel vivo il processo per la discarica di veleni di Bussi, la più grande d’Europa. E si conoscono dettagli inquietanti. “Fino a tutti gli anni ’60 il sito industriale chimico di Bussi – in provincia di Pescara – ha sversato una tonnellata al giorno di veleni residui della produzione nel fiume Tirino. E’ il passaggio forte della requisitoria dei pm Annarita Mantini e Giuseppe Bellelli al processo in Corte d’Assise a Chieti sulla discarica della ex Montedison. Ma il colpo a sorpresa è arrivato durante la requisitoria dei Pm, quando l’accusa ha mostrato un documento agli atti datato 1992 e che, per i pm, si riferisce alla conclusione di una riunione tra alcuni degli imputati. Uno schema ‘confessione’ in cui si citano problemi di clorurati nell’acquedotto Giardino. Problemi che continuano: perché, a quanto appreso, il perito della procura di Pescara, citato dai pm Mantini e Bellelli nel corso della requisitoria, definisce la megadiscarica dei veleni a Bussi una “pistola fumante” che continua a inquinare. Per il perito il “capping”, la copertura, ha avuto effetto positivo ma i valori sono ancora oltre la soglia, con la conferma da perizie ad hoc. Per il perito della difesa, invece, sarebbe il fiume Tirino a contaminare alcuni pozzi. La Procura di Pescara durante la requisitoria ha reso pubblica anche una lettera inviata nel 1972 dal Comune della città, a firma dell’assessore all’Igiene e alla Sanità Giovanni Contratti, ai vertici della Montedison di Bussi nella quale chiedeva di rimuovere i rifiuti tossici interrati nel sito perché costituivano un pericolo di inquinamento concreto per le falde acquifere dell’acquedotto Giardino che forniva l’acqua potabile a tutta la Val Pescara. Per i Pm questo dimostra come già allora si sapesse degli effetti letali dell’interramento dei rifiuti. In un altro passaggio della requisitoria, con l’ausilio di foto aeree, i pm hanno spiegato che due anni dopo quella lettera, nel 1974, la discarica era arrivata al 75% della capienza, giungendo a completa saturazione nel 1983. Solo nel 2007, 35 anni dopo la lettera dell’assessore Contratti, la Guardia forestale ha messo i primi sigilli alla discarica Tre Monti. A fine marzo di quest’anno, con il processo davanti alla Corte d’Assise di Pescara, 19 responsabili dell’ex colosso devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque, mentre sono finiti sul registro degli indagati anche otto dirigenti della società francese Solvay che nel 2002 aveva acquistato il polo chimico dall’Ausimont (gruppo Montedison). Una prima stima dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) per il ministero della Salute valuta un danno ambientale di 8,5 miliardi di euro e un costo di 500-600 milioni per la bonifica della discarica che al momento appare ricoperta da un “sarcofago”, con un telone impermeabile e sopra un terrapieno di ghiaia, come la tomba di un faraone. Per effetto della legge per il terremoto dell’Aquila, finora ne sono stati stanziati una cinquantina. Ma questi soldi – come precisa il sindaco di Bussi, Salvatore La Gatta – sono destinati alla bonifica e alla reindustrializzazione dello stabilimento che oggi è fermo. Da repubblica.it

LA GIUSTIZIA IN DISCARICA, A BUSSI NIENTE COLPEVOLI (Antonio Massari), scrive il 20/12/2014 triskel182. Sopra, la mega discarica di Bussi sul Tirino (provincia di Pescara), dove sono stati gettati per trent’anni rifiuti tossici e pericolosi. Inquinanti che – è l’accusa – penetrarono nel terreno avvelenando la falda acquifera che serve tutta la zona di Pescara. Ben 700 mila persone bevvero e usarono quell’acqua per anni. PER I GIUDICI NESSUNO AVVELENÒ L’ACQUA DISTRIBUITA A 700 MILA PESCARESI, NONOSTANTE IL PARERE CONTRARIO DELL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ: 19 ASSOLTI. Il disastro ambientale l’hanno causato, sì, ma senza averne intenzione. E nel frattempo è arrivata la prescrizione. L’acqua sarà pure stata contaminata, come dimostrano le analisi dell’istituto superiore della Sanità, ma loro non l’hanno mai avvelenata: assolti. Il processo sulla mega-discarica di Bussi e sul disastro ambientale causato dal polo chimico della Montedison – Ausimont vedeva imputate 19 persone, tra le quali dirigenti e tecnici della Montedison, ritenute responsabili dello sversamento dei veleni nelle falde acquifere.   L’epilogo   S’è chiuso con con 19 assoluzioni. Eppure, che fino al 2007 l’acqua sia stata “compromessa” e “contaminata da sostanze di accertata tossicità”, l’aveva certificato l’Istituto superiore di Sanità. Carta straccia – dobbiamo dedurne, in attesa della motivazione – visto che ieri la Corte d’Assise di Chieti ha assolto tutti gli imputati perché il “fatto” – ovvero l’avvelenamento delle acque – “non sussiste”. La sentenza arriva intorno alle 5 del pomeriggio, quando la Corte legge un dispositivo di sei righe che, da un lato, derubricano il disastro ambientale – dichiarandolo già prescritto – da doloso in colposo e, dall’altro, sentenziano che non vi fu alcun avvelenamento delle acque. Sconfitta l’accusa, sostenuta dai pm Annarita Mantini e Giuseppe Bellelli, può esultare la difesa. E tra i vincitori, in questo processo, c’è una donna in corsa per la candidatura al Quirinale, Paola Severino, che difende Mauro Molinari, geologo e consulente della Montedison. L’ex ministro aveva sostenuto in aula e davanti alle telecamere che “non è con i processi penali che si ottengono i risultati in tema di ambiente, non basta trovare il capro espiatorio”, aggiungendo che la responsabilità delle bonifiche deve essere estesa allo Stato. La linea Severino – e degli altri difensori – ha evidentemente convinto la corte d’assise presieduta dal giudice Camillo Romandini, subentrato a Geremia Spiniello, ricusato perché aveva osato dichiarare, in un’intervista, che la Corte avrebbe “reso giustizia al territorio”. Un affermazione che, secondo i difensori, preordinava un giudizio di colpevolezza.   Il “caso” Flick   La tensione nel processo è stata costante. Anche ieri mattina, quando in aula è stato menzionato il nome di un altro ex ministro che, seppure indirettamente, ha avuto un peso nell’ultima discussione: parliamo di Giovanni Maria Flick e del suo “parere pro – veritate” in materia di disastro ambientale. Un parere che non gli è stato commissionato nell’ambito del processo Bussi, ma che ha scatenato una polemica arrivata comunque in aula, ieri, a pochi minuti dalla sentenza, con tutto il suo peso della sua analisi, considerata l’autorevolezza di chi lo firmava: il reato di disastro ambientale – sostiene Flick in sintesi – potrebbe risultare incostituzionale e aver bisogno, quindi, del parere della Consulta. L’ex presidente della Corte Costituzionale, contattato dal Fatto quotidiano, non ha voluto rivelare chi gli ha commissionato il parere: “Non posso rivelarlo, ma vi assicuro che la richiesta non è giunta da nessuna delle parti in causa, del processo Bussi io non conoscevo neanche l’esistenza”. Flick – senza alcun riferimento espresso al processo Bussi – ha pubblicato il suo parere proprio sul sito penalecontemporaneo.it: l’editore della rivista è l’avvocato Luca Santa Maria, difensore della Solvay che, in questo processo, s’è costituita parte civile contro la Montedison. La rivista ha poi deciso di rimuovere il “parere” (non in quanto “incompatibile” con la linea difensiva di Santa Maria, come abbiamo scritto erroneamente nell’articolo di ieri) perché la linea editoriale prevede di non pubblicare documenti redatti in favore o comunque su incarico di una parte processuale. L’avvocato dello Stato Cristina Gerardis aveva sostenuto in aula che il parere di Flick fosse un “messaggio” alla Corte, ieri la difesa ha reagito ribaltando l’accusa, prima che la Corte si riunisse in consiglio per emettere la sentenza. Il disastro ambientale c’è stato, sostiene la sentenza, ma soltanto colposo e comunque prescritto. Nessun avvelenamento delle acque, invece, nonostante una mole di documenti e verbali di interrogatori raccolti dall’accusa certificassero il contrario.   Scienza e sentenza   I pm hanno sostenuto che alcuni imputati sapevano che l’acquedotto Giardino, a partire dal 1992, fosse stato inquinato. E l’acquedotto riforniva acqua a un bacino di 700mila persone in tutta la Val Pescara. E ancora: documenti sul mercurio ritrovato nel 1972 nei pesci e nei capelli dei pescatori del porto di Pescara. E le dichiarazioni di una dirigente dell’Arpa, messe a verbale dal comandante della Guardia Forestale, Guido Conti: “… è stata accertata la presenza di sostanze potenzialmente a rischio per la salute umana… Sarebbe stato necessario vietare l’erogazione e la distribuzione delle stesse acque…”. Resta in piedi la partita per il ripristino ambientale dell’area. “Dall’esito di questa sentenza – dice l’avvocato dello Stato Gerardis che ha chiesto 1,8 miliardi di risarcimento – non dipende per lo Stato alcuna decisione per ottenere il ripristino ambientale dell’area: il procedimento del ministero dell’Ambiente, nei confronti della Montedison, pende tuttora davanti al Consiglio di Stato. È già pronta la citazione civile, nei confronti dell’azienda, per il ripristino dell’ambiente e gli eventuali danni economici laddove non fosse possibile fermare l’inquinamento”. “Sulla discarica di Bussi – ha dichiarato il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti – ricorriamo in appello. Chiediamo la condanna dei responsabili e il risarcimento per danni ambientali”. Da Il Fatto Quotidiano del 20/12/2014.

“NON CONDANNIAMOLI, POSSONO PORTARCI VIA QUALSIASI COSA” (Antonio Massari), scrive il 13/05/2015 di triskel182. IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La lettura della sentenza che si è svolta a porte chiuse nel Tribunale di Chieti il 19 dicembre 2014. Tutti assolti i 19 imputati a processo a Chieti, per le discariche della Montedison. MONTEDISON (DISCARICA DI BUSSI), I GIUDICI POPOLARI RIVELANO: “NON ABBIAMO NEPPURE LETTO GLI ATTI, A CENA CI HANNO CONSIGLIATO DI DERUBRICARE IL REATO”. No non ero serena”. Gli occhi sono lucidi. “Non ero serena quando ho emesso la sentenza per la discarica di Bussi”. La signora si tortura le mani. “Capivo l’importanza di questa sentenza, sono stata sorteggiata, ho preso tutto molto seriamente, certo con i miei limiti, con le mie conoscenze giuridiche, ma io in questa sentenza, soprattutto nelle sue motivazioni, proprio non mi riconosco”.  “Neanche io ero serena”, dice l’altra signora, “ma le dico di più: non abbiamo mai letto gli atti del processo”. Quei 25 ettari inquinati   dalla vecchia fabbrica   Sebbene il processo non riguardi imputazioni di omicidio – ed è bene sottolinearlo – è anche vero che molta gente continua a chiedersi se la morte dei propri cari abbia mai avuto un nesso con i 25 ettari inquinati dalla vecchia Montedison.   È il caso, per esempio, di Nadia Tronca che è rimasta vedova nel 2005, quando suo marito è morto per una nefropatia da piombo. La signora Tronca ha pubblicamente chiesto, con delle dichiarazioni al quotidiano abruzzese Il Centro, di capire se vi sia stato un nesso tra la morte del marito, che per 18 anni ha lavorato alla Siac, nello stabilimento di Bussi, e l’inquinamento delle falde acquifere. “Il posto di lavoro non era buono: questo mi diceva mio marito. E l’inquinamento in questa zona non è una scoperta e sì, la gente ha paura, perché non sa che cos’è accaduto con certezza, non sa perché alcune persone sono morte giovani”.   Anche per questo, rispetto all’immaginario che ruota intorno a un processo e a una sentenza, sebbene non vi fossero imputazioni per omicidio, l’idea che i giudici popolari non abbiano letto neanche gli atti, stride davvero parecchio. “Sembrava potessimo vedere le carte   ma poi non se n’è fatto più niente”. “Mai letti”, ribadisce la prima, “ci abbiamo provato, li abbiamo chiesti, in un’occasione sembrava potessimo vederli, ma poi non se n’è fatto più niente… Nessuno ce l’ha negato, ma alla fine, questi atti, non li abbiamo mai letti”. Le due signore – che chiedono di mantenere l’anonimato – sono tra le sei giudici della corte d’Assise che, il 19 dicembre scorso, hanno emesso la sentenza sulla mega-discarica di Bussi e i veleni della Montedison. Quel pomeriggio di dicembre, i 19 imputati furono assolti dal reato di avvelenamento delle acque mentre, per il disastro ambientale, la Corte derubricò il capo d’imputazione in disastro colposo. Nessuna pena anche in questo caso: era sopraggiunta la prescrizione. Dopo cinque ore di camera di consiglio, il presidente della corte d’Assise, Camillo Romandini, legge un dispositivo di sei righe. I pm – Belleli e Mantini – avevano chiesto condanne, per gli ex dirigenti e tecnici di Montedison, che andavano dai 12 ai 4 anni. Il Fatto Quotidiano è riuscito a ricostruire, parlando con i giudici popolari, quel che accadde il 19 dicembre e nei giorni precedenti. “Siamo disposte a confermare tutto dinanzi ai giudici – rivelano le donne – se un magistrato ci chiama racconteremo la nostra verità”. Secondo la loro versione, innanzitutto, i giudici popolari non hanno letto un solo atto del processo. “Ci siamo rifatte alle slide viste in udienza e alle parole sentite in aula”. Ma c’è di più.   La discussione   tra vacanze e viaggi   La sentenza fu emessa alle 17 e le cronache raccontano di una seduta durata circa cinque ore. “In realtà – ci spiegano – appena ci siamo riuniti abbiamo ordinato il pranzo. Dopo aver pranzato abbiamo iniziato a discutere del più e del meno, di vacanze e viaggi, finché, dopo un bel po’ di tempo, abbiamo iniziato ad affrontare la decisione”. “Abbiamo aspettato che arrivassero le cinque, ma della sentenza non abbiamo discusso tutto il tempo”, conferma un’altra giudice. Le cronache raccontano anche che la decisione è stata presa all’unanimità. “Nella sostanza è andata così – dicono entrambe   – ma in realtà noi eravamo su un’altra posizione. Non avremmo voluto derubricare il dolo in colpa. Eravamo in linea con la posizione dell’avvocatura dello Stato: eravamo in quattro giudici popolari su quella posizione. E io sono tuttora convinta che vi sia stata la consapevolezza di inquinare”. Avete votato contro? “No – ci rispondono   – perché non v’è stato alcun voto. Nessuno ci ha chiesto di votare individualmente. La seduta s’è conclusa con la domanda: “Siamo tutti d’accordo?”. Nessuna di noi ha più obiettato. Avevamo capito che la prescrizione sarebbe intervenuta. Ma non abbiamo più replicato. Ed è finita così”. Il punto, però, è che le giudici sostengono di non essere state serene nel loro giudizio. E che proprio quest’assenza di serenità è il motivo che le ha spinte a non opporsi più di tanto alla derubricazione da dolo in colpa. Per capirlo – stando sempre alla loro versione – bisogna fare un salto indietro di tre giorni.   A tavola l’avvertimento del rischio grosso   Il 16 dicembre, alcune delle sei giudici popolari, cenano insieme con il presidente della Corte d’Assise, Camillo Romandini, e il giudice a latere, Paolo di Geronimo, in un locale pubblico di Pescara. È un incontro conviviale, a poche ore dalla sentenza e, nell’occasione, tra una portata e l’altra, si discute del processo. “Durante la cena dico: per me il dolo c’è – racconta una delle giudici – e non ero l’unica”. “A quella cena c’ero anche io – conferma un’altra giudice – e anche io sostenevo che, per me, il dolo c’era”. “Noi la cena l’abbiamo organizzata proprio perché volevamo discutere del dolo – aggiunge l’altra – anche perché non eravamo riusciti a leggere nessun atto…”. “In realtà ci era stato già spiegato che non potevamo condannare per dolo… – continua l’altra – volevamo però capire perché il dolo non c’era…”. E qui arriva il punto più controverso della ricostruzione. “Il giudice Romandini ci ha spiegato che, se avessimo condannato per dolo, se poi si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo…”. La norma sulla “rivalsa” per i giudici popolari, in realtà, prevede una fattispecie ben precisa: “Rispondono soltanto in caso di dolo” oppure di “negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove”. E sia l’accusa, sia l’avvocatura dello Stato, contemplavano il dolo di alcuni imputati nel processo. Abbastanza difficile, insomma, che la responsabilità ricadesse sui giudici popolari. Eppure così è andato – in base alle ricostruzioni raccolte da Il Fatto Quotidiano – il processo alla mega discarica di Bussi. Il risultato è noto. In base alla sentenza, gli assolti, il disastro ambientale l’hanno causato, sì, ma senza averne intenzione. E nel frattempo è arrivata la prescrizione. L’acqua sarà pure stata contaminata, come dimostrano le analisi dell’istituto superiore della Sanità, ma loro non l’hanno mai avvelenata. L’accusa, sostenuta dai pm Annarita Mantini e Giuseppe Bellelli, viene sconfitta. Idem l’avvocatura dello Stato, rappresentato da Cristina Gerardis, che in aula, durante il processo, aveva pronunciato parole durissime. I pm sostengono che alcuni imputati sapevano che l’acquedotto Giardino, a partire dal 1992, fosse stato inquinato. E l’acquedotto riforniva acqua a un bacino di 700mila persone in tutta la Val Pescara. E ancora: nel processo vengono depositati documenti sul mercurio ritrovato nel 1972 nei pesci e nei capelli dei pescatori del porto di Pescara. E le dichiarazioni di una dirigente dell’Arpa, messe a verbale dal comandante della Guardia forestale, Guido Conti: “… è stata accertata la presenza di sostanze potenzialmente a rischio per la salute umana… Sarebbe stato necessario vietare l’erogazione e la distribuzione delle stesse acque…”. Il processo si chiude con l’assoluzione e la prescrizione. La difesa può esultare. Inclusa Paola Severino, che difende Mauro Molinari, geologo e consulente della Montedison. “Non è con i processi penali che si ottengono i risultati in tema di ambiente, non basta trovare il capro espiatorio”, aveva dichiarato Severino davanti ai giornalisti, aggiungendo che la responsabilità delle bonifiche deve essere estesa allo Stato. Poche ore dopo, la linea Severino – e degli altri difensori – ha convinto la corte d’Assise presieduta dal giudice Camillo Romandini. Giudice subentrato a Geremia Spiniello, che fino a pochi mesi prima ha presieduto la corte, salvo essere ricusato. Il motivo: aveva osato dichiarare, in un’intervista, che la Corte avrebbe “reso giustizia al territorio”. Un’affermazione che, secondo i difensori, preordinava un giudizio di colpevolezza. Dopo questa dichiarazione – “renderemo giustizia al territorio” – Spiniello è costretto ad abbandonare il processo e a lasciare il suo posto a Romandini.   “Si assumano le responsabilità   di ciò che affermano”. “Non posso commentare le dichiarazioni dei giudici popolari – commenta Romandini al Fatto – che si assumono la responsabilità di ciò che dicono. Non posso commentare perché sono tenuto alla segretezza di quanto accaduto in camera di consiglio”. I giudici hanno potuto leggere gli atti? “Sono stati messi nelle condizioni di poter decidere. E nella massima correttezza e trasparenza”. E sulla cena, sulla possibilità che dovessero risarcire i danni, per una eventuale condanna con dolo ribaltata in appello? “Non posso riferire nulla che riguardi le nostre discussioni in camera di consiglio”. Da Il Fatto Quotidiano del 13/05/2015.

BUSSI, LA RIVELAZIONE A TAVOLA “È GIÀ DECISO, TUTTI ASSOLTI” (Antonio Massari), scrive il 14/05/2015 triskel182. LE PARTI CIVILI LO SEPPERO 15 GIORNI PRIMA. “DA CHI? LO DIREMO AI GIUDICI”. È il 4 dicembre 2014. Al giorno della sentenza mancano ancora due settimane. Le parti civili – sia quelle private, sia quella pubblica, cioè l’Avvocatura dello Stato – sono riunite a Roma per organizzare le repliche in udienza. A cena, però, avviene un dialogo che nella cronologia degli eventi ha una grande rilevanza. Il Fatto Quotidiano ha ricostruito questo episodio incrociando le fonti, che chiedono l’anonimato ma assicurano: “Confermeremo tutto dinanzi al Csm o a giudici che vorranno interrogarci”. “Una persona – raccontano – ci ha detto testualmente: ‘Saranno tutti assolti, è già tutto deciso’”. Chi è questa persona? “Lo riferiremo soltanto ai magistrati competenti”, assicura una delle fonti, “ma un fatto è certo: quell’affermazione fu perentoria”. Lo scenario del 4 dicembre 2014 è un altro tassello da verificare per scoprire come andò il processo sulla mega-discarica di Bussi, nel quale l’accusa chiedeva la condanna per avvelenamento delle acque e disastro ambientale, ma la Corte d’assise assolse i 19 imputati e, derubricando il disastro ambientale da doloso in colposo, non vi fu alcuna condanna per l’intervento della prescrizione. La profezia del “mister x” si avvera. Il Fatto, con questa ricostruzione, non intende accusare nessuno, tanto meno la Corte d’assise, ma semplicemente riportare il clima in cui si è svolto il processo sulla più grande discarica d’Europa. E il dialogo del 4 dicembre, ad appena due settimane dalla sentenza, dimostra che non era un clima sereno.   CHE IL CLIMA fosse teso era già chiaro a febbraio, quando viene ricusato il presidente della corte d’Assise, Geremia Spiniello. Al termine di un’udienza, il giudice viene intervistato e ripreso dalle telecamere, mentre dichiara: “Faremo giustizia per il territorio”. Le difese dei 19 imputati – tutti ex tecnici ed ex dirigenti Montedison – decidono di ricusarlo perché, con quell’affermazione, ha “preordinato un giudizio di colpevolezza”. La Corte d’appello di L’Aquila accoglie l’istanza. Spiniello abbandona la presidenza della Corte d’assise che deciderà sul processo Bussi. Al suo posto subentra Camillo Romandini. Ma non è finita.   Ad aprile le difese presentano in Cassazione un’istanza di spostamento del processo in altra sede ricusando, di fatto, i giudici popolari. Chiedono che il fascicolo sia spostato in una sede dove “i soggetti giudicanti non siano riconosciuti essere stati ‘contaminati’ ed esposti a pericoli per a loro salute”. Il processo viene sospeso fino alla decisione della Suprema corte che, però, respinge l’istanza delle difese e conferma la sede di Chieti. Passata l’estate, il processo si avvia verso le udienze conclusive e la partita si gioca soprattutto sul “dolo” degli imputati.   È il 25 ottobre quando l’ex ministro Guardasigilli Paola Severino interviene in aula, in qualità di difensore di uno degli imputati, lanciandosi in un’arringa di circa 3 ore rimasta famosa per la sua metafora fiabesca. “Per dare ragione alla Procura – dice Severino, intenzionata a smontare il dolo ipotizzato dall’accusa – avremmo dovuto avere tra gli imputati la strega che prende la mela avvelenata e la dà a Biancaneve”. E invece, secondo l’ex ministro, gli imputati erano ignari dei pericoli. “Gli imputati – aggiunge – sono soltanto dei capri espiatori. Non hanno mai dato la mela volontariamente e non volevano uccidere nessuno”. Il 19 dicembre, con la sentenza, la linea Severino risulterà vincente. Ma qualcuno, già il 4 dicembre, ben due settimane prima della sentenza, profetizza allarmato alle parti civili, inclusa l’Avvocatura dello Stato, che vi saranno le assoluzioni. “Siamo disposti a confermarlo dinanzi ai giudici”, ribadiscono le nostri fonti, “ma soltanto davanti a loro”.   IL 16 DICEMBRE, tre giorni prima della sentenza, alcune delle sei giudici popolari, cenano con il presidente della Corte d’assise, Camillo Romandini, e il giudice a latere, Paolo di Geronimo, in un locale di Pescara. Non è certo una seduta in camera di consiglio. È un incontro conviviale. Tra una portata e l’altra si discute del processo. “Durante la cena dico: per me il dolo c’è”, racconta una delle giudici. “A quella cena c’ero anche io – conferma un’altra giudice – e anche io sostenevo che, per me, il dolo c’era”. “Noi la cena l’abbiamo organizzata proprio perché volevamo discutere del dolo”, riferiscono entrambe, “anche perché non eravamo riusciti a leggere nessun atto, ci era stato spiegato che non potevamo condannare per dolo, ma volevamo capire perché il dolo non c’era…”. E qui arriva il punto più controverso. “Il giudice Romandini ci ha spiegato che, se avessimo condannato per dolo, se poi i condannati si fossero appellati, e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo…”. “Al momento del giudizio”, concludono le giudici, “non eravamo serene”. È su queste affermazioni – rivelate ieri dal Fatto – che il ministero di Giustizia e il Csm intendono fare chiarezza. Il giudice Romandini non commenta: “Non parlo della camera di consiglio”.

Bussi, i giudici popolari: "Non eravamo sereni". Il Csm apre pratica. Il Fatto Quotidiano riporta le testimonianze anonime di due di loro. Avrebbero subìto pressioni quando lo scorso 19 dicembre hanno emesso la sentenza per il processo in Corte d'Assise a Chieti in merito alla megadiscarica dei veleni della Montedison di Bussi sul Tirino. Circostanze che saranno valutate dal Consiglio superiore della magistratura, scrive “Il Centro”. Avrebbero subito pressioni e non avrebbero agito "con serenità" i giudici popolari che lo scorso 19 dicembre hanno emesso la sentenza per il processo in Corte d'Assise a Chieti in merito alla megadiscarica dei veleni della Montedison di Bussi sul Tirino. Lo rivela oggi "Il Fatto Quotidiano" in apertura. La procura di Pescara aveva chiesto la condanna per i 19 imputati a pene che variavano da 4 a 12 anni per avvelenamento doloso delle acque e inquinamento doloso. La sentenza della Corte D'Assise ha invece assolto tutti dal primo reato perché il fatto non sussiste e derubricato il secondo a colposo, cosa che ha comportato una riduzione della pena a 5 anni poi prescritta per tutti. Due giudici popolari che hanno chiesto l'anonimato spiegano al giornale una che «non ero serena quando hanno emesso la sentenza», e la seconda che «sopratutto nelle sue motivazioni, proprio non mi riconosco». «Ma le dico di più - ribadisce una dei due giudici popolari - non abbiamo mai letto gli atti del processo». Secondo "il Fatto" poi in una cena informale precedente alla camera di consiglio del 19 dicembre, presenti i giudici togati e quelli popolari, di fronte alla convinzione dei giudici popolari di emettere una sentenza di condanna per dolo, il presidente della Corte «ci ha spiegato che se avessimo condannato per dolo, se poi (gli imputati ndr) si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente chiedendoci i danni e avremmo rischiato di perdere tutto quello che avevamo». Interpellato dal giornale il presidente della Corte Camillo Romandini non ha voluto commentare spiegando che «i giudici popolari si assumono la responsabilità di ciò che dicono». «Sto vomitando». È il commento del deputato M5S pescarese Gianluca Vacca in merito alle rivelazioni del Fatto Quotidiano sulle presunte pressioni che avrebbero ricevuto i giudici popolari della Corte d'Assise di Chieti per il processo della megadiscarica di Bussi sul Tirino della Montedison. «Con il collega Colletti stiamo predisponendo una interrogazione parlamentare e chiederemo un ispezione ministeriale che faccia chiarezza su quanto accaduto. Ma è chiaro - conclude il deputato grillino - che la mia fiducia nei confronti della magistratura comincia a vacillare». «Se le fonti anonime, presentate come due giudici della Giuria popolare, de Il Fatto Quotidiano confermano quanto dichiarato al giornale ci troveremmo di fronte ad un fatto di gravità inaudita». Lo spiega in una nota il Augusto De Sanctis del Forum H2O, associazione che è stata in prima linea nella vicenda di Bussi. «Stiamo parlando di un processo con un potenziale impatto economico di miliardi di euro, della qualità della vita di centinaia di migliaia di persone e dello stato dell'ambiente di un'intera vallata. Giudici popolari che ammetterebbero di non aver letto gli atti processuali, di non essere stati sereni nella decisione e di non riconoscersi nella sentenza. Il Presidente della Corte Romandini che si trincera, anche in relazione ad una cena in un locale pubblico, dietro al segreto della Camera di Consiglio, non commentando una frase che avrebbe pronunciato e che Il Fatto Quotidiano riporta anche nel titolo per la sua rilevanza in questo racconto. Stiamo già valutando con i nostri avvocati un eventuale esposto. Ricordiamo che come Forum dell'Acqua commentammo immediatamente in maniera molto dura la sentenza, per le numerose discrasie che erano immediatamente riscontrabili. La Procura di Pescara ha presentato un ricorso direttamente in Cassazione ma dopo quanto pubblicato su Il Fatto Quotidiano ci sembra che vi sia ora ben altro da approfondire». «Riaprire il processo subito: ci era chiaro da subito che sotto ci fosse qualcosa». È lapidario il sindaco di Bussi Salvatore La Gatta dopo aver letto le rivelazioni sul processo della discarica Montedison. «Lo Stato non si vuole far processare e io l'ho detto il giorno della sentenza - prosegue La Gatta - e per decenni la Montedison era dentro lo Stato. Ora mi piacerebbe vedere una diversa volontà politica: non solo sul fronte della bonifica della discarica, che è urgente. La Montedison deve fare il suo dovere, ma anche lo Stato», conclude il sindaco di Bussi. Il Csm apre una pratica sulla vicenda dei giudici popolari del processo sulla discarica Bussi, che - secondo quanto riportato da un articolo del Fatto - avrebbero subito pressioni. Lo ha detto il vice presidente del Csm Giovanni Legnini. «Le indagini e le valutazioni sulla vicenda sono state affidate alla Prima Commissione», ha detto Legnini. La decisione di intervenire è stata presa «dopo aver ricevuto una missiva dell'avvocato dello Stato Cristina Gerardis su quanto riferito da articoli di stampa», ha spiegato il vice presidente.

Discarica Bussi, giudici popolari: “Dissero di non condannare Montedison per dolo”, scrive Antonio Massari il 13 maggio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. La rivelazione al Fatto Quotidiano: "Non abbiamo neppure letto gli atti, a cena ci hanno consigliato di derubricare il reato". A dicembre scorso i 19 imputati furono assolti dal reato di avvelenamento delle acque, mentre per il disastro ambientale la Corte disse che fu disastro colposo. “No non ero serena”. Gli occhi sono lucidi. “Non ero serena quando ho emesso la sentenza per la discarica di Bussi”. La signora si tortura le mani. “Capivo l’importanza di questa sentenza, sono stata sorteggiata, ho preso tutto molto seriamente, certo con i miei limiti, con le mie conoscenze giuridiche, ma io in questa sentenza, soprattutto nelle sue motivazioni, proprio non mi riconosco”. “Neanche io ero serena”, dice l’altra signora, “ma le dico di più: non abbiamo mai letto gli atti del processo”. Sebbene il processo non riguardi imputazioni di omicidio – ed è bene sottolinearlo – è anche vero che molta gente continua a chiedersi se la morte dei propri cari abbia mai avuto un nesso con i 25 ettari inquinati dalla vecchia Montedison. È il caso, per esempio, di Nadia Tronca che è rimasta vedova nel 2005, quando suo marito è morto per una nefropatia da piombo. La signora Tronca ha pubblicamente chiesto, con delle dichiarazioni al quotidiano abruzzese Il Centro, di capire se vi sia stato un nesso tra la morte del marito, che per 18 anni ha lavorato alla Siac, nello stabilimento di Bussi, e l’inquinamento delle falde acquifere. “Il posto di lavoro non era buono: questo mi diceva mio marito. E l’inquinamento in questa zona non è una scoperta e sì, la gente ha paura, perché non sa che cos’è accaduto con certezza, non sa perché alcune persone sono morte giovani”. Anche per questo, rispetto all’immaginario che ruota intorno a un processo e a una sentenza, sebbene non vi fossero imputazioni per omicidio, l’idea che i giudici popolari non abbiano letto neanche gli atti, stride davvero parecchio. “Mai letti”, ribadisce la prima, “ci abbiamo provato, li abbiamo chiesti, in un’occasione sembrava potessimo vederli, ma poi non se n’è fatto più niente… Nessuno ce l’ha negato, ma alla fine, questi atti, non li abbiamo mai letti”. Le due signore – che chiedono di mantenere l’anonimato – sono tra le sei giudici della corte d’Assise che, il 19 dicembre scorso, hanno emesso la sentenza sulla mega-discarica di Bussi e i veleni della Montedison. Quel pomeriggio di dicembre, i 19 imputati furono assolti dal reato di avvelenamento delle acque mentre, per il disastro ambientale, la Corte derubricò il capo d’imputazione in disastro colposo. Nessuna pena anche in questo caso: era sopraggiunta la prescrizione. Dopo cinque ore di camera di consiglio, il presidente della corte d’Assise, Camillo Romandini, legge un dispositivo di sei righe. I pm – Belleli e Mantini – avevano chiesto condanne, per gli ex dirigenti e tecnici di Montedison, che andavano dai 12 ai 4 anni. Il Fatto Quotidiano è riuscito a ricostruire, parlando con i giudici popolari, quel che accadde il 19 dicembre e nei giorni precedenti. “Siamo disposte a confermare tutto dinanzi ai giudici – rivelano le donne – se un magistrato ci chiama racconteremo la nostra verità”. Secondo la loro versione, innanzitutto, i giudici popolari non hanno letto un solo atto del processo. “Ci siamo rifatte alle slide viste in udienza e alle parole sentite in aula”. Ma c’è di più. La sentenza fu emessa alle 17 e le cronache raccontano di una seduta durata circa cinque ore. “In realtà – ci spiegano – appena ci siamo riuniti abbiamo ordinato il pranzo. Dopo aver pranzato abbiamo iniziato a discutere del più e del meno, di vacanze e viaggi, finché, dopo un bel po’ di tempo, abbiamo iniziato ad affrontare la decisione”. “Abbiamo aspettato che arrivassero le cinque, ma della sentenza non abbiamo discusso tutto il tempo”, conferma un’altra giudice. Le cronache raccontano anche che la decisione è stata presa all’unanimità. “Nella sostanza è andata così – dicono entrambe – ma in realtà noi eravamo su un’altra posizione. Non avremmo voluto derubricare il dolo in colpa. Eravamo in linea con la posizione dell’avvocatura dello Stato: eravamo in quattro giudici popolari su quella posizione. E io sono tuttora convinta che vi sia stata la consapevolezza di inquinare”. Avete votato contro? “No – ci rispondono – perché non v’è stato alcun voto. Nessuno ci ha chiesto di votare individualmente. La seduta s’è conclusa con la domanda: ‘Siamo tutti d’accordo?’. Nessuna di noi ha più obiettato. Avevamo capito che la prescrizione sarebbe intervenuta. Ma non abbiamo più replicato. Ed è finita così”. Il punto, però, è che le giudici sostengono di non essere state serene nel loro giudizio. E che proprio quest’assenza di serenità è il motivo che le ha spinte a non opporsi più di tanto alla derubricazione da dolo in colpa. Per capirlo – stando sempre alla loro versione – bisogna fare un salto indietro di tre giorni. Il 16 dicembre, alcune delle sei giudici popolari, cenano insieme con il presidente della Corte d’Assise, Camillo Romandini, e il giudice a latere, Paolo di Geronimo, in un locale pubblico di Pescara. È un incontro conviviale, a poche ore dalla sentenza e, nell’occasione, tra una portata e l’altra, si discute del processo. “Durante la cena dico: per me il dolo c’è – racconta una delle giudici – e non ero l’unica”. “A quella cena c’ero anche io – conferma un’altra giudice – e anche io sostenevo che, per me, il dolo c’era”. “Noi la cena l’abbiamo organizzata proprio perché volevamo discutere del dolo – aggiunge l’altra – anche perché non eravamo riusciti a leggere nessun atto…”. “In realtà ci era stato già spiegato che non potevamo condannare per dolo… – continua l’altra – volevamo però capire perché il dolo non c’era…”. E qui arriva il punto più controverso della ricostruzione. “Il giudice Romandini ci ha spiegato che, se avessimo condannato per dolo, se poi si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo…”. La norma sulla “rivalsa” per i giudici popolari, in realtà, prevede una fattispecie ben precisa: “Rispondono soltanto in caso di dolo” oppure di “negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove”. E sia l’accusa, sia l’avvocatura dello Stato, contemplavano il dolo di alcuni imputati nel processo. Abbastanza difficile, insomma, che la responsabilità ricadesse sui giudici popolari. Eppure così è andato – in base alle ricostruzioni raccolte da Il Fatto Quotidiano – il processo alla mega discarica di Bussi. Il risultato è noto. In base alla sentenza, gli assolti, il disastro ambientale l’hanno causato, sì, ma senza averne intenzione. E nel frattempo è arrivata la prescrizione. L’acqua sarà pure stata contaminata, come dimostrano le analisi dell’istituto superiore della Sanità, ma loro non l’hanno mai avvelenata. L’accusa, sostenuta dai pm Annarita Mantini e Giuseppe Bellelli, viene sconfitta. Idem l’avvocatura dello Stato, rappresentato da Cristina Gerardis, che in aula, durante il processo, aveva pronunciato parole durissime. I pm sostengono che alcuni imputati sapevano che l’acquedotto Giardino, a partire dal 1992, fosse stato inquinato. E l’acquedotto riforniva acqua a un bacino di 700mila persone in tutta la Val Pescara. E ancora: nel processo vengono depositati documenti sul mercurio ritrovato nel 1972 nei pesci e nei capelli dei pescatori del porto di Pescara. E le dichiarazioni di una dirigente dell’Arpa, messe a verbale dal comandante della Guardia forestale, Guido Conti: “… è stata accertata la presenza di sostanze potenzialmente a rischio per la salute umana… Sarebbe stato necessario vietare l’erogazione e la distribuzione delle stesse acque…”. Il processo si chiude con l’assoluzione e la prescrizione. La difesa può esultare. Inclusa Paola Severino, che difende Mauro Molinari, geologo e consulente della Montedison. “Non è con i processi penali che si ottengono i risultati in tema di ambiente, non basta trovare il capro espiatorio”, aveva dichiarato Severino davanti ai giornalisti, aggiungendo che la responsabilità delle bonifiche deve essere estesa allo Stato. Poche ore dopo, la linea Severino – e degli altri difensori – ha convinto la corte d’Assise presieduta dal giudice Camillo Romandini. Giudice subentrato a Geremia Spiniello, che fino a pochi mesi prima ha presieduto la corte, salvo essere ricusato. Il motivo: aveva osato dichiarare, in un’intervista, che la Corte avrebbe “reso giustizia al territorio”. Un’affermazione che, secondo i difensori, preordinava un giudizio di colpevolezza. Dopo questa dichiarazione – “renderemo giustizia al territorio” – Spiniello è costretto ad abbandonare il processo e a lasciare il suo posto a Romandini. “Non posso commentare le dichiarazioni dei giudici popolari – commenta Romandini al Fatto – che si assumono la responsabilità di ciò che dicono. Non posso commentare perché sono tenuto alla segretezza di quanto accaduto in camera di consiglio”. I giudici hanno potuto leggere gli atti? “Sono stati messi nelle condizioni di poter decidere. E nella massima correttezza e trasparenza”. E sulla cena, sulla possibilità che dovessero risarcire i danni, per una eventuale condanna con dolo ribaltata in appello? “Non posso riferire nulla che riguardi le nostre discussioni in camera di consiglio”.

Camera di coniglio di Marco Travaglio su "Il Fatto Quotidiano". Da ieri, grazie al nostro Antonio Massari, sappiamo che la sentenza della Corte d’assise d’appello di Chieti che mandò in parte assolti (per avvelenamento delle acque) e in parte prescritti (per disastro ambientale) 19 ex dirigenti e tecnici della Montedison, imputati per il mortifero inquinamento causato dalle discariche di Bussi sul Tirino (Pescara), è altamente sospetta di pressioni indebite di un giudice togato su alcune giurate. Le quali le hanno raccontate al nostro inviato, sostenendo di non essere state ammesse alla lettura degli atti e soprattutto di essersi sentite dire dal presidente che “se avessimo condannato per dolo, e se poi gli imputati si fossero appellati e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo”. La simpatica conversazione – raccontano sempre le due giurate, due cittadine come noi estratte a sorte per giudicare un caso più grande di loro – avvenne in un ristorante-pizzeria di Pescara il 16 dicembre scorso, tre giorni prima della sentenza. A quella cena, presenti il presidente della Corte e il giudice a latere, si parlò del cuore del processo: il “dolo” contestato dai pm Bellelli e Mantini ai 19 responsabili della Montedison, accusati di essere ben consapevoli dell’inquinamento che gli stabilimenti causavano da anni al territorio e di non aver fatto nulla per scongiurarlo e per mettere sull’avviso la popolazione, e dunque imputati di disastro doloso (intenzionale).   Le due (su sei) giudici popolari, da quel che avevano visto e sentito nelle varie udienze del processo, si erano convinte del dolo (come del resto la parte civile pubblica, l’avvocata dello Stato Cristina Gerardis). Il presidente invece optava per la colpa, che avrebbe portato alla derubricazione del reato di disastro da doloso a colposo, punito con pene inferiori e soprattutto con prescrizione più breve e già scattata. I diversi convincimenti fra i membri di un collegio (specie se misto, come quello dell’Assise, fra giudici togati e popolari) sono fisiologici. Così come la sentenza di primo grado che, derubricando il reato, fece scattare la prescrizione per il disastro ambientale. Ciò che è patologico sono tre elementi testimoniati dalle due giurate. 1) Il mancato accesso agli atti. 2) L’assenza del voto in camera di consiglio, decisivo per stabilire quale delle due tesi dovesse prevalere. 3) La frase che il presidente avrebbe pronunciato alla cena, che non poteva non coartare il libero convincimento dei giudici popolari, con la minacciosa prospettazione della loro rovina economica. Ora, sulla correttezza della condotta del presidente, si pronunceranno il titolare dell’azione disciplinare (il ministro Orlando, che ha già chiesto gli atti in vista di una molto opportuna ispezione alla Corte di Chieti) e il Csm, nonché i giudici della sede più vicina competente a giudicarlo. E, per fortuna, quel verdetto potrà essere ribaltato in appello, o addirittura rifatto in primo grado. Ma questa vicenda illumina meglio di tutte le chiacchiere politico-giuridiche il tema delicatissimo della responsabilità civile dei magistrati, specie alla luce della sciagurata legge approvata dal Senato il 20 novembre 2014 e dalla Camera il 24 febbraio 2015: proprio a cavallo del processo di Chieti.   “Finalmente i giudici pagano per i loro errori”, era il refrain dei trombettieri della cosiddetta “riforma”, e naturalmente del premier Renzi con le grancasse di tutta la grande stampa al seguito. Il risultato della campagna e della suprema porcata lo racconta a perfezione la nostra storia: stabilire che qualunque imputato può denunciare i suoi giudici (togati e popolari), attraverso lo Stato, per qualunque decisione sgradita, in qualunque fase del giudizio, e senz’alcun filtro di ammissibilità da parte del tribunale ricevente, equivale a sottoporre tutti i collegi alla spada di Damocle permanente delle cause per danni. Soprattutto quando sul banco degli imputati c’è un soggetto potentissimo (come la Montedison), per giunta assistito da un avvocato famoso e ben introdotto (come Paola Severino, fino all’anno prima ministra della Giustizia).   A furia di sproloquiare sullo strapotere dei giudici, si è perso di vista un fatto tipico dei tribunali: la bilancia della giustizia è squilibrata nel senso opposto a quello della vulgata corrente, con i pm e i giudici (specie quelli popolari estratti a sorte) nella parte del soggetto debole e l’imputato in quella del potere forte. E così la massima latina in dubio, pro reo va riformulata in sine dubio, pro potenti. In fondo è quel che volevano i “riformatori”, dopo troppi processi contrassegnati dalla legge uguale per tutti: ripristinare la vecchia, lurida giustizia di classe, forte coi deboli e debole coi forti. Ieri la Procura di Chieti ha umoristicamente aperto un fascicolo contro le due giudici popolari (di cui ovviamente custodiremo l’anonimato) per violazione della camera di consiglio, anzi di coniglio.   Già, perché la legge vieta di svelare ciò che avviene nelle segrete stanze dove si decidono le sentenze, anche se vi si commettono dei reati (così decise la Cassazione quando assolse il giudice Carnevale: i colleghi che lo accusavano di pressioni indebite nelle camere di consiglio dei processi di mafia non potevano svelarle, così lui fu assolto per le pressioni indebite). Un’assurdità che sarebbe ora di troncare: i cittadini hanno il diritto di sapere se le sentenze sono regolari o viziate da condizionamenti esterni o interni. Altrimenti vale il detto “le sentenze sono come le salsicce: meglio non sapere come si fanno”. In ogni caso, le pressioni denunciate sul processo di Chieti sono avvenute al ristorante, dunque nessuno ha violato alcun segreto. A meno che non si voglia istituire la pizzeria di consiglio.

Clamoroso. «Già tutto deciso»: la sentenza di Bussi fu comunicata due settimane prima, scrive A.B. su “Prima da Noi”. Ancora uno scoop de Il Fatto Quotidiano sui retroscena del processo più chiacchierato d’Abruzzo. Come una valanga. Scende dalla vetta e rischia di travolgere chi sta a valle. Un vero cataclisma istituzionale ai più alti livelli. Se la notizia delle presunte pressioni sui giudici popolari pubblicata ieri era eclatante, quella pubblicata oggi da Il Fatto quotidiano, sempre a firma di Antonio Massari, è senza mezzi termini sconvolgente. Secondo quanto riporta il giornale stamattina, alcune fonti - che rimangono anonime ma che assicurano che diranno tutto davanti ai giudici- l’esito della sentenza (assoluzioni e prescrizioni) era già noto almeno quindici giorni prima della lettura in aula da parte del presidente del collegio giudicante, Camillo Romandini. Una persona avrebbe comunicato alla fonte anonima del giornalista che la «partita era chiusa» cioè che la sentenza era già decisa e che, dunque, le assoluzioni erano pressocchè certe. Il giornale parla di una riunione a Roma il 4 dicembre 2014 dove si tiene un incontro tra le parti civili «sia quelle private che quelle pubbliche dove è presente anche l’avvocatura dello Stato», rappresentata nel processo da Cristina Gerardis. A cena sarebbe stata diffusa la notizia e la rivelazione. L’articolo poi ripercorre le tappe del processo: dalla ricusazione “shock” del giudice Geremia Spiniello che rilascia una intervista nell’aula dove si è appena conclusa l’udienza (al suo posto subentrerà Romandini) alla richiesta di spostamento del processo da Chieti ma la Cassazione dirà che Chieti va bene. Ampio spazio viene poi dedicato all’arringa dell’ex ministro Severino che è rimasta nella mente di molti per la sua «metafora fiabesca» ispirata alla strega cattiva di biancaneve e alla mela avvelenata. Arringa di tre ore in cui si sosteneva l’assenza totale di dolo, tesi poi sposata integralmente dal collegio giudicante. Il 16 dicembre (tre giorni prima della sentenza) il giornale ricorda la cena conviviale del collegio dove ci sarebbe stato l’avvertimento di Romandini alle donne giurate sulle possibili rivalse da parte della Montedison sui patrimoni privati dei giudicanti. «Il giudice Romandini», si legge nell’articolo, «ci ha spiegato che, se avessimo condannato per dolo, se poi i condannati si fossero appellati, e avessero vinto la causa, avrebbero potuto citarci personalmente, chiedendoci i danni, e avremmo rischiato di perdere tutto quello che abbiamo…”. “Al momento del giudizio”, concludono le giudici, “non eravamo serene”. È su queste affermazioni – rivelate ieri dal Fatto – che il ministero di Giustizia e il Csm intendono fare chiarezza. Il giudice Romandini non commenta: “Non parlo della camera di consiglio”». Troppe le implicazioni che derivano da questo nuovo scoop giornalistico. Il Fatto indica con precisione i “conoscitori del segreto”, cioè quegli avvocati delle parti civili del processo che pure avrebbero potuto parlare e non lo hanno fatto prima. Chi altri sapeva in anticipo del risultato? Ora anche il Consiglio superiore della magistratura ha aperto un procedimento per capire cosa sia effettivamente successo all’interno della Camera di Consiglio. L’annuncio è arrivato nel pomeriggio di ieri da Giovanni Legnini, da qualche mese numero due del Csm. Tutto grazie alla prontezza di riflesso dell’Avvocatura dello Stato, rappresentata da Cristina Gerardis poi diventata direttore generale della Regione Abruzzo, chiamata da D’Alfonso. E’ stata lei ieri mattina a informare Legnini, con «una missiva» che riferiva le notizie riportate da Il Fatto quotidiano e chiedere chiarezza. Abbiamo provato a contattare più volte Cristina Gerardis ieri senza esito e a lei avremmo voluto chiedere un commento su questa vicenda e a questo punto risulterebbe interessante leggere la sua informativa inviata ieri a Legnini, vice presidente del Csm, per capire cosa abbia scritto e in che termini. Secondo quanto emerge dall’articolo la Gerardis era presente alla riunione della “rivelazione”. Ha tenuto tutto per sé? Ha avvertito qualcuno? Che ruolo ha giocato in tutto questo la politica? Sempre ieri abbiamo cercato un commento del presidente della Regione, Luciano D’Alfonso in missione a Riga il quale ha preannunciando dichiarazioni di fuoco della stessa Gerardis che però non sono giunte insieme a quelle di Camillo D’Alessandro che hanno avuto la stessa sorte. Ma oggi alla lettura dei giornali il presidente si pronuncerà di sicuro. Un fatto è certo: quanto scritto e riportato è di una gravità assoluta e deve essere chiarito a tutti i livelli. Deve essere chiaro oltre ogni ragionevole dubbio chi ha fatto cosa, chi ha detto cosa, e chi invece non ha detto. Ora la storia prenderà “per cause di forza maggiore” una strada diversa da quella segnata dalla precedente indifferenza. Ora le procure dovranno lavorare e lavorare bene per capire anche perché si preannunciano una valanga di esposti sul tema. Eppure sono molte le incongruenze apparentemente illogiche di questa storia appena accennata. Per esempio sarebbe utile capire per quale ragione i giudici popolari -che hanno ritenuto di essere stati in qualche modo pesantemente condizionati e non hanno letto gli atti- non abbiano sporto denuncia ma abbiano atteso cinque mesi per parlare con un giornalista (riferendogli tra l’altro, scrive il quotidiano, «siamo pronti a ripetere queste cose davanti ad un giudice»). Sarebbe anche utile capire come e perché su questo processo siano girate da sempre molte “leggende metropolitane” alcune delle quali risultate profetiche e puntuali rispetto al verdetto tutt’altro che scontato per i più. E ieri è scattata la caccia ai giudici popolari e al ristorante della famosa cena della giuria dove i fatti sarebbero avvenuti. La sentenza è stata da molti contestata, compresi i pm che hanno proposto ricorso per Cassazione con pagine nette e inequivocabili sull’impianto giuridico, e ora le istituzioni tutte avranno il dovere di fare chiarezza su questa vicenda. E ieri è stata una giornata di “consultazioni” frenetiche anche nelle procure di Pescara e Chieti dove ci si è interrogati sul da farsi. Il clima è teso e per ora nessuno si sbottona ma è palpabile la tensione. Gli articoli tuttavia sono infarciti di una serie di possibili ipotesi di reato: per alcune di queste il codice prevede l’iniziativa d’ufficio, dunque obbligatoria, altri invece una querela di parte. Per esempio nel caso in cui qualcuno volesse contestare la veridicità delle dichiarazioni rese al Fatto Quotidiano si potrebbe aprire la strada, da parte dei giudici togati o degli altri giudici popolari, del reato di diffamazione o anche della calunnia (incolpare qualcuno sapendolo innocente). Le ipotesi più gravi, invece, riguardano il segreto della camera di consiglio che tutti i giudici devono mantenere (compresi i popolari), la violenza privata, oltraggio, forse omissione d’atti d’ufficio e altri ancora a seconda delle versioni dei fatti che saranno confermate. A queste si potrebbero aggiungere una dozzina di rilievi disciplinari per i soli giudici togati ma sempre che la versione fornita dovesse risultare vera. Per molti di queste ipotesi di reato che porterebbero ad aprire un procedimento però la sede competente vista la presenza di giudici (Romandini e Di Geronimo) dovrebbe essere la procura di Campobasso. Il reato certo, tuttavia, al momento è solo la violazione del segreto della camera di consiglio ed è probabile che proprio da questo partirà il Csm nella sua indagine ascoltando tutte le parti in causa. L’idea che viene fuori da una giornata “infernale” come quella di ieri è che l’articolo ha dato la stura a commenti di vario genere e in molti di questi si è tenuto a sottolineare come la sentenza fosse «strana». «Ci era chiaro da subito che sotto ci fosse qualcosa», ha detto ieri il sindaco di Bussi, Salvatore Lagatta. Il Forum dell’Acqua ha ricordato invece che il verdetto aveva mostrato fin da subito «numerose discrasie». Sul caso si espone con un editoriale dal titolo Camera di coniglio anche il giornalista e direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio secondo il quale emergerebbe, dopo l’inchiesta del suo giornalista, che la sentenza «è altamente sospetta di pressioni indebite di un giudice togato su alcune giurate». «I diversi convincimenti fra i membri di un collegio sono fisiologici», scrive Travaglio. «Ciò che è patologico è il mancato accesso agli atti, l’assenza del voto in camera di consiglio, e la frase che il presidente avrebbe pronunciato alla cena, che non poteva non coartare il libero convincimento dei giudici popolari, con la minacciosa prospettazione della loro rovina economica». Per Travaglio comunque questa vicenda sarebbe illuminante per quanto riguarda il tema della responsabilità civile dei magistrati, dopo la legge approvata dal Senato e dalla Camera proprio a cavallo del processo di Chieti. «Stabilire che qualunque imputato può denunciare i suoi giudici (togati e popolari) per qualunque decisione sgradita, in qualunque fase del giudizio equivale a sottoporre tutti i collegi alla spada di Damocle permanente delle cause per danni. Soprattutto quando sul banco degli imputati c’è un soggetto potentissimo (come la Montedison), per giunta assistito da un avvocato famoso e ben introdotto (come Paola Severino, fino all’anno prima ministra della Giustizia)». «Ieri la Procura di Chieti», continua Travaglio, «ha umoristicamente aperto un fascicolo contro le due giudici popolari per violazione della camera di consiglio, anzi di coniglio. Già, perché la legge vieta di svelare ciò che avviene nelle segrete stanze dove si decidono le sentenze, anche se vi si commettono dei reati. In ogni caso, le pressioni denunciate sul processo di Chieti sono avvenute al ristorante, dunque nessuno ha violato alcun segreto. A meno che non si voglia istituire la pizzeria di consiglio».

CHIETI E LA MASSONERIA.

«C'è la volontà, perpetrata da alcuni poteri forti occulti ( massoni e squali dell'alta finanza ), di assassinare la città di Chieti e di depredare la nostra ricca provincia che produce da sola il 67% del Pil regionale», scrive “Il Centro”. Così Cristiano Vignali, assistente di Storia delle Relazioni Internazionali, alla facoltà di Scienze Politiche dell'università di Teramo, scrive in una lettera inviata all'arcivescovo Bruno Forte, perché il presule interceda con «i politici cattolici e le comunità di fedeli della diocesi, per restare uniti nella tutela del bene comune: la sopravvivenza della Provincia di Chieti». Vignali è preoccupato per il dibattito aperto sul progetto di riordino delle province sollecitato dal governo Monti e per le «allarmanti notizie che circolano sui pesanti e irriverenti attacchi portati avanti da arrembanti politici di limitrofi centri costieri per scippare a Chieti la sua Provincia, nonostante sia l'unica che rispetti tutti i requisiti previsti dalla legge, al solo fine di sottrarre i vantaggi derivanti dai servizi che derivano dallo status di capoluogo, e impoverire i 104 comuni del suo territorio». Per l'assistente di Storia, siamo dunque alla fase conclusiva di una operazione «che mira a eliminare una volta per tutte Chieti». Perché ridimensionare Chieti? Secondo Vignali, è un progetto che va avanti dagli anni '90 del secolo scorso, «con il selvaggio avvento della globalizzazione e la conseguente perdita di potere della politica, che non riesce più a controllare le dinamiche economiche del territorio. Infatti, da quel momento, Chieti, che ha sempre avuto nel potere politico - amministrativo uno dei sui principali pilastri, in quanto sede direzionale di diversi uffici sia a livello nazionale, regionale, che provinciale, patisce una stato di sofferenza, a cui ancora non si riesce a porre rimedio. Ma, se si pensa di dividere il fronte interno delle nostre forze politiche ed economiche provinciali, al fine di far cadere la Provincia di Chieti nelle grinfie della "piovra gigante" costiera che vuole fagocitare tutto e tutti solo per egoistica sete di potere e di grandezza , ci si sbaglia di grosso». Vignali non ha dubbi. Soltanto « se si resterà uniti Chieti e la sua provincia» potranno sventare quello che si presenta come «più minaccioso pericolo del dopoguerra».

Le polemiche sulla recente nomina del manager della Asl di Teramo erano prevedibili. Forse meno il fatto che si potesse trattare di un vecchio esponente di una loggia massonica francese, scrive “Prima da Noi”. Che c’è di male? Nulla, probabilmente, se la massoneria rispetta le leggi ed i nobili principi che si è data. Tutto ruota intorno a Giustino Varrassi, 62 anni, laureato all'Università "La Sapienza" di Roma con la votazione di 110/110 e lode, è uno dei massimi luminari internazionali della terapia del dolore. Dal 2000 è professore Ordinario di Anestesia e Rianimazione. Ricercatore, professore anche all’estero membro dal 1974 della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIARTI); Membro dal 1977 dell'Aisd (Associazione Italiana per lo Studio del Dolore); Membro dal 1998 del Consiglio Direttivo dell'Aisd; Membro dal 1984 dell'Iasp (International for the Study of Pain); Membro dell'Iasp Task-Force on Acute Pain (1987-1992); Fondatore nel 1993 dell'Efic (European Federation of the Iasp Chapters); Segretario generale dell'Efic (1993-1999); Fondatore nel 1994 della European Society of Obstetric Anaesthesiology; Segretario Generale dell'Esoa (1994-1998); Tesoriere dell'Esoa (1998-2001); Tesoriere della Efic (1999-2002); Presidente dell'Esoa (dal 2001); Presidente dell'Aisd (dal 2003); President Elect della Efic (2005). Il professor Giustino Varrassi è inoltre autore di: oltre 400 lavori scientifici pubblicati su riviste mediche nazionali ed internazionali. Nel suo curriculum c’è scritto proprio tutto tranne la sua iscrizione alla loggia massonica francese Giuseppe Garibaldi di Nice (Francia) con la qualifica di maestro massone. Si tratta davvero di lui? Appena ieri la nomina in giunta. La decisione però sarebbe scaturita da due incontri a casa del governatore Gianni Chiodi al quale ha partecipato l’ex assessore Lanfranco Venturoni (ex assessore alla sanità appunto), gli assessori Mauro Di Dalmazio e Paolo Gatti, il segretario generale Enrico Mazzarelli, il socialista Nicola Di Marco e il consigliere di Fli Berardo Rabbuffo, Giandonato Morra e il sindaco Maurizio Brucchi. Una riunione istituzionale tenutasi nella casa teramana di Chiodi, come scritto ieri da PrimaDaNoi.it, una sorta di pre-giunta domiciliare. Scartati i contendenti Mario Molinari, manager uscente, e il suo predecessore Sabatino Casini, si è passati alla valutazione del curriculum di Varrassi. L’orientamento politico pure espresso più volte nei mesi passati era quello di nominare professionisti, se non teramani, almeno abruzzesi. L’ulteriore giallo che emerge contenuta in una interrogazione del consigliere di Rifondazione, Maurizio Acerbo, è che si sia trattato di un «blitz della giunta» poiché all’ordine del giorno della giunta la nomina del manager della Asl di Teramo non c’era. «Se il resoconto corrisponde alla realtà dei fatti», commenta Acerbo, «la modalità di selezione del direttore generale appare quantomeno discutibile e probabilmente non conforme alle norme vigenti in materia non essendo la sede e alcuni convenuti quelli che la legge individua per lo svolgimento di tale procedura. In campagna elettorale Chiodi aveva annunciato una rivoluzione meritocratica nella Regione Abruzzo i cui criteri sono di difficile comprensione visto che la sua maggioranza ha nominato alla carica di Difensore Civico, ruolo che dovrebbe caratterizzarsi per terzietà e indipendenza, un uomo di partito già noto come collaboratore del sen. Pastore e che lo stesso Presidente, in qualità di Commissario, ha proposto la nomina di un condannato per “culpa in vigilando” a vice-commissario per la ricostruzione aquilana (solo per citare due casi che hanno suscitato perplessità e polemiche)».

A meno che non si tratti di un caso di omonimia un tale Giustino Varrassi figura non solo nell’elenco pubblicato da L’Espresso nel 2001 che riporta i nomi di presunti massoni ma anche in un ricorso al Garante della Privacy nel quale lo stesso contesta proprio la pubblicazione di quell’elenco. Una contestazione rigettata dal Garante che ravvisa l’utilizzo del diritto di cronaca in maniera corretta. Insieme a Vararssi a fare ricorso c’è Diego Beltrutti eletto di recente Gran Priore del "Ordo Sacri Principatus Sancti Sepulchri", un ordine cavalleresco paramassonico. Secondo l’inchiesta de L’Espresso Varrassi era iscritto alla loggia Giuseppe Garibaldi di Nice (Francia) con la qualifica di maestro massone e dove erano iscritti molti italiani. Riferiva il settimanale che «C’è chi sostiene che molti sono emigrati, come massoni, dopo lo scandalo della P2. Altri hanno trovato nuova linfa per i loro affari». I dubbi manifestati sulla nomina e le ulteriori informazioni sono contenute in una interrogazione del consigliere Acerbo che ora attende risposte dal presidente Chiodi. Forse solo folclore dietro la nomina del manager della Asl da qualche anno più importante d’Abruzzo.

A Chieti nacque la Carboneria d’Italia, scrive Marino Valentini  su “Thate”. Sulla Carboneria, fenomeno dell’inizio del 19° secolo e cioè una organizzazione segreta anti-governativa con obiettivi repubblicani e costituzionali, in base a elementi di oggettiva interpretazione, si è portati a ritenere che la sua nascita sia avvenuta nel mezzogiorno d’Italia, in considerazione della grande floridità e del veloce propagarsi in pochi anni del fenomeno per tutta la Penisola.
Come è noto la Carboneria sorse dal seno della Massoneria, con riti, simboli e formule pressoché uguali ed in molti sono a sostenere che in Italia ebbe origine in terra d’Abruzzo. Però forse in pochi sanno che la Carboneria, che darà poi vita alla moderna massoneria, venne introdotta nel meridione d’Italia partendo proprio da CHIETI, la capitale della Provincia dell’Abruzzo Citeriore.  In questo quadro si inscrive la storia di Pierre Joseph Briot, a cui si deve il merito di aver introdotto la carboneria nel Mezzogiorno d’Italia; una figura minore quella di Briot ma decisamente significativa anche perché la sua vita rispecchia abbastanza fedelmente la parabola Rivoluzionaria, con i suoi eccessi, i suoi eroismi e le sue molte contraddizioni. Nato a Besançon nel 1771, dopo una sofferta crisi spirituale si lanciò con giovanile entusiasmo nell’attività politica allo scoppio dei primi eventi rivoluzionari. Buon oratore, abile polemista, di intelligenza pronta e sveglia, ottimo conoscitore ed ammiratore degli autori classici latini e degli illuministi (Rousseau in particolare), divenne ben presto il punto di riferimento dei patrioti di Besançon. Schierato per la Gironda, fu scelto per rappresentare le istanze dei suoi concittadini alla Convenzione; giunto a Parigi fu spettatore del colpo di stato giacobino delle giornate del 30 maggio – 1 giugno e tornato a Besançon, fece professione di sincera fede ai nuovi padroni della Francia. Incarcerato per qualche tempo all’indomani di Termidoro, fu eletto dal dipartimento del Doubs al Consiglio dei Cinquecento nelle tormentate elezioni dell’anno VII. Qui ebbe modo di legarsi a Luciano Bonaparte e a Jullien de Paris, si distinse come uno dei capi della fazione fruttidoriana e, nel triennio giacobino di espansione francese in Italia, fu il principale partigiano della necessità di favorire l’unificazione politica della Penisola: lesse infatti al Consiglio, accompagnandoli con veementi discorsi, tre pamplhets inviatigli dai patrioti italiani esuli in Francia dopo la caduta delle repubbliche sorelle. Fu l’amicizia di Luciano a salvarlo dalla deportazione dopo il 18 brumaio e sempre per l’intercessione dell’allora ministro dell’Interno, dopo circa due anni di relativa inattività ottenne l’incarico di commissario governativo all’Isola d’Elba. I contrasti con il generale corso Rusca non gli fecero riconoscere dal governo gli indiscutibili meriti del suo operato, anzi ne determinarono l’inopinata destituzione cui seguirono ancora due anni di “relegazione” controllata a Besançon. Caduto in disgrazia Luciano Bonaparte, suo vecchio protettore, non gli restò che fare valere i suoi appoggi massonici e alla fine ottenne l’interessamento del ministro dell’Interno Chaptal che, nel marzo del 1806, lo segnalò ad Andrea Miot per un incarico nel ministero dell’interno del regno di Napoli, appena passato sotto lo scettro di Giuseppe Bonaparte, dove peraltro era già giunto in qualità di ministro della polizia Cristoforo Saliceti, suo sodale giacobino. Fu, dunque, uno dei tre francesi ad essere nominati intendenti il 13 agosto 1806, qualche giorno dopo la promulgazione della legge “Sulla divisione ed amministrazione delle province del Regno”. Destinato ad una provincia relativamente tranquilla, come quella dell’Abruzzo citeriore, a Chieti, nella nostra città capoluogo, strinse solidi legami personali e politici col gruppo di intellettuali teatini, in particolare con Giuseppe Ravizza, suo efficiente segretario d’intendenza, diede vita, d’intesa con Miot e contro il parere di Saliceti, al primo Giornale d’intendenza (una sorta di bollettino delle leggi e degli atti amministrativi provinciali, strumento che si rivelerà indispensabile per l’applicazione delle nuove leggi), contribuì efficacemente alla repressione del fenomeno brigantesco, organizzò in modo efficiente l’ufficio dell’intendenza e curò l’applicazione delle prime leggi di riforma con particolare attenzione all’eversione della feudalità e allo stabilimento del nuovo sistema di pubblica istruzione. La vita tormentata ed avventurosa di questo giacobino di provincia che il “vento”rivoluzionario portò a inculcare il nuovo regime, condusse ad un duro scontro con il decurionato di Chieti, sede dell’intendenza, ed a determinarne il trasferimento ad altra sede, quella della difficile Calabria citeriore. Ma la particolarità di Briot, un personaggio vanesio, irascibile, coraggioso, ironico, che anche a Chieti lo si poteva osservare mentre passeggiava lungo le vie teatine ostentando il codino secondo la moda rivoluzionaria, consiste nel fatto che in base a documenti privati che sono stati visionati dopo la sua morte, Briot sarebbe stato nientemeno che il fondatore ed il capo della carboneria napoletana e perciò avrebbe segretamente cospirato contro Napoleone. Anche le fonti più autorevoli francesi danno per certa l’origine francese della carboneria napoletana, attribuendola al giacobino di Besancon, rilevando per la fondazione della setta nel Mezzogiorno alcune significative coincidenze: la diffusione nel Regno di Napoli della carboneria a partire dal 1806, data in cui vi giunse Briot in qualità di intendente dell’Abruzzo Citra mentre risiedeva nella nostra città, e il fatto che i primi moti carbonari scoppiarono proprio in Abruzzo e successivamente in Calabria e cioè, guarda caso, dove il vecchio giacobino attese alle sue pubbliche funzioni. Un’altra chiave di testimonianza a suffragio della origine teatina della carboneria, è offerta da Giovanni Pansa che, nel riportare la raffigurazione del sigillo segreto della vendita carbonara di Chieti (la VENDITA, secondo il gergo degli adepti che utilizzavano un vocabolario cifrato per non destare sospetti nella polizia, erano le sezioni locali composte di 20 affiliati che equivale all’odierno nome di Loggia), segnala che intorno vi si legge “Loge de la parfaite union à l’O. de Chieti”. Una delle prime vendite carbonare di Chieti recava il nome della vecchia loggia massonica-giacobina dell’Isola d’Elba, della quale uno dei capi, a partire dal 1803 fu proprio Pierre-Joseph Briot. Chi dunque avrebbe potuto dare quel nome alla vendita se non Briot stesso? Sulla base di questi elementi si può tentare una ricostruzione. Briot, tra il 1806 e il 1807, istituì a Chieti un Atelier massonico chiamandolo col nome della vecchia loggia di Morenas, che peraltro aveva rifondato all’Elba sotto altro nome. Esso probabilmente si mantenne nell’alveo della massoneria, anche se Briot dovette indirizzarlo secondo le sue idee. La nostra città è ricca di storia ed è stata non solo spettatrice ma anche creato i presupposti affinché eventi eccezionali che hanno segnato intere epoche, siano risultati significativi per le sorti politiche nazionali ed anche internazionali. Nel suo unico anno teatino, l’intendente Briot riuscì a dimostrare il suo grande talento di amministratore, cercando di sviluppare i lavori pubblici, l’istruzione, le opere di carità, e fondando pure un giornale locale. Come si fa ad ignorare nel 21° secolo questo notevole patrimonio di memoria storica che Chieti ha offerto ed offre tuttora, nonostante i tentativi altrui di calpestarne le testimonianze storiche che per fortuna non potranno mai perire, disprezzando, minimizzando, evitando e ignorando subdolamente e dolosamente tutto cio’ che è avvenuto e che ancora avviene nella nostra splendida città. Al di là di tale rilevanza, va peraltro precisato che l’Associazione MCT di Chieti, condanna apertamente sia le logge massoniche che le sette segrete che hanno avvelenato il tessuto morale e politico del nostro popolo: tali organizzazioni settarie, la cui fedeltà a potenze o lobby anti italiane è chiara e conclamata sono da tempo responsabili, unitamente alle potenze straniere a cui sono legate, di omicidi e stragi nel nostro Paese. Ciò che viene raccontato in questo articolo, riguardante eventi verificatisi a Chieti, sta a suffragare il fatto che, la storia non si fa solo glorificandosi dei successi che gli avvenimenti arrecano, ma bisogna avere anche il coraggio di raccontare le cose scomode e non vergognarsi di dire che sono accadute a casa propria: altrimenti non è più storia ma mera autocelebrazione.

CONCORSOPOLI. ESAMI E CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.

Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.

Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».

ESAMOPOLI IN ABRUZZO. SCOPERTI IN REGIONE 10 FALSI MEDICI.

Università, 19 indagati, «presentarono documenti falsi», scrive “Prima Da Noi”. Si è conclusa con 19 denunce l'inchiesta che il Nas di Pescara aveva avviato nell'agosto del 2006 sui partecipanti al bando di riconversione creditizia per la laurea in Fisioterapia, nell'anno accademico 2005/2006, indetto dall'Università degli Studi di Chieti. Iscrizioni all'università D'Annunzio e crediti formativi ottenuti grazie a documentazioni che sono poi risultate false.
A pagarne le spese saranno 19 persone iscritte nel registro degli indagati che di fatto hanno tratto in inganno lo stesso Ateneo. Acquisendo crediti formativi laurearsi diventava un po' più facile: meno corsi da seguire e soprattutto meno esami da sostenere. Ma gli inquirenti hanno scoperto il "trucchetto". Nel corso delle indagini sono stati 38 i provvedimenti di perquisizione e sequestro, sia presso le abitazioni degli indagati, sia presso l'Università di Chieti. Le indagini del nucleo pescarese erano finalizzate al rinvenimento della falsa documentazione prodotta dagli interessasti per l'iscrizione al corso di laurea e pare che sia stato trovato abbastanza materiale per confermare l'ipotesi accusatoria.

Gli indagati, denunciati alla Procura della Repubblica, dovranno adesso rispondere di falso ideologico e falso materiale, nonché a provvedimenti di sospensione adottati dall'Ateneo. Insomma, chi ha cercato scorciatoie illegali è meglio che resti fuori. Le indagini hanno riguardato, in particolare, l'analisi dei documenti presentati dai partecipanti al bando, circa 2000, attestanti il possesso dei titoli professionali abilitanti l'esercizio dell'attività sanitaria di Massofisioterapista e Tecnico della Riabilitazione, propedeutici alla partecipazione al bando.

All'indagine ha collaborato la stessa Università teatina che, con la segreteria degli studenti, ha fornito un prezioso supporto agli investigatori.

Concorsi pubblici, quando la profezia si avvera. E' sempre la stessa storia. Ai concorsi pubblici si va rassegnati, «tanto già si sa chi deve vincere…». Ma questa volta PrimaDaNoi.it ci aveva visto giusto e grazie alla segnalazione di un lettore avevamo indicato il vincitore un mese prima dei risultati, scrive Alessandra Lotti.

Opzione A: l'arte divinatoria esiste.

Opzione B: era una possibilità su 17 e il caso ci ha messo la sua parte.

Opzione C: il vincitore era già designato.

Qual è la risposta esatta?

Il quesito è inquietante, ma la realtà è una.

PrimaDaNoi.it, era riuscito a dire un mese fa, grazie alla segnalazione di un lettore chi avrebbe vinto un concorso per collaboratore amministrativo al Comune di Fossacesia.

Il nome era uscito fuori già nel corso della prova scritta quando qualcuno aveva notato che quella candidata era la stessa persona che aveva raccolto le domande di ammissione al concorso degli altri aspiranti e che quindi già lavorava all'interno del Comune. Già, lo sapevano tutti che quel concorso era stato disegnato su misura, come un abito di buona fattura per un giorno importante.

Quanto c'è di vero?

Impossibile saperlo ma la coincidenza non fa che alimentare sospetti su un mondo intero, quello dei concorsi pubblici, che appare sempre più come un buco nero, oscuro e pronto a risucchiare sempre e solo le persone con santi in paradiso.

«L'atmosfera dei concorsi pubblici», racconta la nostra "talpa" che negli ultimi mesi ha fatto esperienza sul campo («4 concorsi da giugno a oggi»), «è solitamente tranquilla, siamo tutti più o meno rassegnati».

Parlando, poi, il nome del vincitore salta sempre fuori.

«Non se lo tengono nemmeno segreto».

E' sulla bocca di tutti e tra gli scartati «nasce subito una comunella».

La solidarietà degli sfigati, la sfiga di non aver trovato uno sponsor.

«Ci raccontiamo le nostre esperienze, i racconti e gli aneddoti vissuti in altri concorsi».

Racconti frustranti, per ingannare l'attesa e andare al patibolo ancor più sfiduciati.

E il futuro vincitore, però, se ne sta in disparte, assicura: «non partecipa mai attivamente allo scambio di idee. Quasi si vergognasse….e provo tenerezza quando vedo qualche ragazzo giovane che viene, magari accompagnato da un genitore che cerca di fare il tifo sperando insieme al figlio in qualcosa di buono».

Ma un concorso pubblico non è la Caritas… non si fanno sconti per i disperati e nemmeno per chi ha una marcia in più: «ho visto persone veramente preparate arrivare ultime in graduatoria, dopo aver sostenuto colloqui con domande sul diritto amministrativo, nonostante lauree prese a pieni voti in economia o giurisprudenza».

Ma non sarà forse che la colpa può essere anche di chi viene scartato ingiustamente ma non fa valere i propri diritti? Non sarà forse proprio lo spirito di rassegnazione a contribuire al dilagare del fenomeno che esiste?

Ma non tutti sono alla loro prima esperienza da concorsisti: l'età dei candidati in genere va dai 25 ai 35 anni.

C'è quindi il neo laureato e anche chi, dopo oltre dieci anni di lavori precari cerca disperatamente la strada del posto fisso e dello stipendio sicuro.

«Quello che mi stupisce», racconta ancora il nostro testimone, «è la poca voglia di combattere, di ribellarsi a questo sistema che ci sta costringendo ad elemosinare i nostri diritti. Il fatto di accettare una situazione di questo tipo quasi passivamente dicendo "tanto cosa ci possiamo fare?"».

Nel corso degli esami scarseggia anche la trasparenza: «nel caso di Fossacesia i colloqui sono avvenuti a porte chiuse. Dicono per privacy, in realtà non sappiamo cosa un candidato dica ai selezionatori ed è impossibile quindi anche fare un confronto tra le varie interrogazioni».

Colloqui che molto spesso permettono di guadagnare punteggio più di titoli ed esperienze messe insieme.

Anche nel caso di Fossacesia: «Era lì che si giocava tutto. Se guardiamo la graduatoria di amministrativo osserviamo che non si specifica quali sono stati i criteri di assegnazione dei punteggi nei titoli».

E perché non impugnare una graduatoria se si è certi del bluff?

«E' oneroso e non vale la pena spendere 3 mila euro per il Tar per un contratto da 10 mila euro».
Ecco perché i nostri figli continueranno a sentire le “solite vocine” e perché nelle amministrazioni pubbliche non vi saranno mai le migliori menti.

PARLIAMO DI PESCARA

VERGOGNE IN TV. MULTA AL QUESTORE TRA STRISCIA E LE IENE.

Multa al questore, blitz de Le Iene a Pescara. Blitz de Le Iene a Pescara sulla vicenda del mancato pagamento di una multa per divieto di sosta da parte del questore, al quale era stato restituito il veicolo rimosso dal carro attrezzi, scrive “Il Pescara”. Dopo Striscia La Notizia anche Le Iene sbarcano a Pescara, ma per una questione completamente diversa rispetto al mercatino dell'area di risulta. Una troupe della celebre trasmissione, infatti, in due giorni ha intercettato e intervistato il questore Paolo Passamonti e il comandante della polizia municipale, Carlo Maggitti, sulla vicenda del mancato pagamento di una multa per divieto di sosta da parte del questore, al quale era stato restituito il veicolo rimosso dal carro attrezzi. Il fatto risale all'8 dicembre 2011, ma fu portato all'attenzione dell'opinione pubblica nell'aprile 2013 da un'inchiesta de Il Tempo, che pubblicò tutti i documenti, compresa la contravvenzione; qualche giorno dopo la Procura di Pescara inviò i Carabinieri nella redazione con un decreto di sequestro redazionale e domiciliare per il giornalista Marco Patricelli, autore dell'articolo, nei cui confronti arrivò poi anche la querela da parte del questore. Per l'inchiesta madre sulla restituzione dell'auto, che il procuratore capo Federico De Siervo aveva avocato al pool, il 4 agosto scorso è stata richiesta l'archiviazione. L'inviato del programma di Italia 1, Matteo Viviani, venerdì è riuscito a parlare con il questore Passamonti, mentre per interpellare Maggitti ha dovuto fare più di un tentativo, riuscendo alla fine a intervistarlo ieri alla stazione ferroviaria di Pescara. "Abbiamo voluto approfondire la vicenda - ha spiegato Viviani - considerando che è quanto meno strano ciò che è successo, con una multa fatta e poi scomparsa". Sulla questione c'è anche un procedimento giudiziario che vede imputato l'agente di polizia municipale Angelo Volpe, accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per essersi rivolto ai Carabinieri segnalando, con una denuncia contro ignoti, il mancato pagamento della multa da parte del questore dopo i controlli effettuati sui registri.

Multa al questore di Pescara: nel servizio delle Iene il pasticcio che offende le istituzioni. Non si salva nessuno: finanza, carabinieri, procura e comandante dei vigili: accuse pesantissime per tutti, scrive “Prima Da Noi”. Non si salva nessuno. Dalla ricostruzione delle Iene le istituzioni locali ne escono massacrate. Un pasticcio che getta discredito sulla attendibilità di molti uomini nelle istituzioni. E alla fine ad uscirne meglio è proprio il questore di Pescara, Paolo Passamonti, che appare non aver pagato la multa (mai contestatagli)  solo «per leggerezza». La vicenda della multa non contestata  e non pagata dal questore di Pescara segna un altro step importante con il servizio di Matteo Viviani andato in onda ieri sera, inviato due settimane fa a Pescara e sollecitato dal Movimento 5 Stelle locale che, con Domenico Pettinari, ne sta facendo una battaglia totale e di principio.
Il lungo servizio ricostruisce cronologicamente tutto l’accaduto ed ha il merito di mettere in evidenza le numerose incongruenze (e presunti reati) di cui più persone si sarebbero macchiate, molte delle quali rimangono ovviamente ignote. Ma i fatti parlano chiaro: si è cercato di tutelare il Questore così come «da prassi» perché a Pescara è normale restituire le auto delle cariche istituzionali, c’è anche una legge che lo prevede ma bisogna seguire una procedura precisa che in questo caso non è stata seguita. L’auto al questore è stata restituita la sera stessa senza alcuna contestazione né consegna di verbale né multa pagata. Il servizio inizia con la foto del Movimento 5 Stelle in tribunale a Pescara durante la prima udienza del processo ad Angelo Volpe, il vigile urbano che ha aiutato il collega a presentare la denuncia sulla scomparsa della multa. Due suoi colleghi: Donato Antonicelli e Claudio Di Sabatino i quali raccontano la loro storia, perché sono loro per un buon pezzo i protagonisti. Di Sabatino è l’agente che materialmente fa le multe in via Galileo alle auto parcheggiate sulla corsia del bus e dunque anche alla Mercedes del questore. E’ l’8 dicembre 2011. Dopo le multe il vigile chiama il carro attrezzi per la rimozione che avviene. La Mercedes era intestata al questore e non era l’auto di servizio anche se il Questore ha sempre detto di «essere in servizio».  Gli agenti raccontano a Matteo Viviani e poi anche ai carabinieri che hanno indagato, che il comandante dei vigili, Carlo Maggitti, chiamò la sera stessa l’ufficiale di turno per avvisarlo che sarebbe passato il questore a riprendere l’auto rimossa. Il vigile Di Sabatino spiega che altre volte sono state rimosse auto civetta delle autorità ma che esiste una procedura apposita per la restituzione. Il questore la sera va a riprendere l’auto e la storia finisce lì. Circa un anno dopo, però, una manina mette nell’armadietto di servizio del vigile Di Sabatino due fotocopie: una è il verbale della multa al questore e l’altra è la fotocopia del registro delle auto rimosse che riportano il numero del verbale, la cifra da pagare e l’avvenuta restituzione. E’ un foglio con molte caselle tutte compilate a mano: le uniche caselle rimaste bianche sono proprio quelle relative alla multa del questore dove non compaiono le cifre del pagamento, né indicazioni sulla restituzione dell’auto. Dal registro si evince che altri cittadini hanno pagato cifre per riavere l’auto (124 euro) e nulla viene riportato sulla multa del questore. «La cosa più assurda è», spiega la Iena Viviani, «che come agente della riconsegna dell’auto appare il cognome di Claudio senza però averne titolo» perché lui non riconsegna le auto. E’ questo un punto fondamentale: sul registro viene riportato il cognome di Di Sabatino per una mansione che non ha svolto e qualcuno avrebbe potuto addebitare a lui il mancato introito della multa del questore nelle casse comunali. E’ per questo che allora il vigile Di Sabatino ne parla con il collega Donato Antonicelli il quale poi per verificare la procedura relativa a quella multa chiede aiuto a sua volta ad Angelo Volpe per effettuare il controllo nel sistema informatico. E qui ancora una stranezza: la multa del questore nel sistema informatico non esiste. Angelo Volpe si mette in contatto con il suo ex comandante Ernesto Grippo e gli chiede un consiglio su cosa fare  e come procedere. Grippo si mette a disposizione e prepara la denuncia e si informa su quale forza di polizia sia la “più idonea” a ricevere il caso. Grippo e gli agenti raccontano alle Iene che sono andati prima alla finanza che si sarebbe rifiutata di accettare la denuncia una volta compreso che si trattava di indagare sul Questore. Poi è stata la volta dei carabinieri che in prima battuta hanno stigmatizzato chi non pagava le multe ma quando si sono resi conto che si trattava del questore hanno rinviato la formalizzazione della denuncia al giorno dopo. Viene stilato anche un verbale dal luogotenente di turno dei carabinieri che dice più o meno: «non prendevo visione dell’atto perché potevano concretizzarsi reati d’ufficio». Viviani fa notare che proprio questo fatto avrebbe imposto al carabiniere di prendere la denuncia poiché le forze di polizia sono obbligate senza eccezioni a ricevere. Grippo: «il carabiniere ha obbligo di raccogliere la denuncia». Dopo qualche giorno i vigili ritornano dai carabinieri ma il verbale di denuncia che ne esce è molto diverso da quello che volevano fare. Ancora Grippo: «Non c’è il passaggio della rimozione dell’auto del questore né tutti gli allegati», fa notare. «Viene qualche dubbio» annota la Iena. Fino a qui però la storia rimane tra pochi intimi fino a quando quasi a due anni dai fatti il giornalista de “Il Tempo”, Marco Patricelli, non pubblica sul giornale il primo di molti articoli sul caso, illustrando molti dei documenti della strana procedura. Viene spiegato che dopo la denuncia non vi era stato ancora il sequestro del registro delle rimozioni dei vigili. Viviani: «Che cosa ha pensato leggendo le carte?», chiede al giornalista. E Marco Patricelli commenta: «tre cittadini avevano pagato la multa ed un cittadino no». E poi il giornalista spiega di essersi trovato i carabinieri in redazione e a casa per una perquisizione che però è vietata dalla Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo che tutela al massimo il segreto professionale. Perché l’obiettivo dei carabinieri era proprio quello di sapere chi aveva dato la notizia al giornale. Patricelli: «il problema era diventato chi aveva dato la notizia al giornale e non il fatto raccontato». Alla fine i carabinieri dopo molti giorni arrivano al registro delle rimozioni e scoprono che mancano proprio le due pagine che servivano. Chi ha strappato le due pagine? Chi lo ha fatto però ha dimenticato che esiste una seconda copia del registro che viene sequestrata. Con questo materiale partono le indagini e vengono ascoltati i vigili ma gli inquirenti decidono di orientarle focalizzandosi proprio sulla fuga di notizie e non sul perché il questore non avesse pagato la multa. Vacca e Pettinari ricordano inoltre che il Ministero dell’Interno non ha ancora risposto alla interrogazione del M5s e che non esiste una relazione scritta del comandante Maggitti sul caso. Intanto l’inchiesta sul questore che non paga la multa viene archiviata, si continua a cercare la talpa che fornisce i documenti al giornalista Patricelli e si apre una nuova inchiesta su Angelo Volpe per violazione di segreto d’ufficio per aver raccontato la vicenda ad Ernesto Grippo, l’ex comandante. Il processo iniziato potrebbe portare una condanna fino a 4 anni ed il rischio è grosso. La Iena Viviani specifica che dopo la denuncia dei vigili si è creato un clima ostile nei loro confronti e sono stati tutti destinati ad altre mansioni: chi a scuola, chi nei parchi e Volpe, il motociclista più anziano, non fa più  servizio in moto senza nemmeno un ordine di servizio scritto, come prassi vorrebbe e disposta dal comandante. Il questore Passamonti viene sorpreso al ristorante ancora col boccone in bocca da Viviani. Passamonti colto di sorpresa chiede di spegnere la telecamera ma Viviani insiste. Il questore allora pacato spiega  che «prima di trovare un posto quella sera ci ho messo 20 minuti, poi ho parcheggiato. Torno  e vedo che è stata portata via la mia auto. Chiedo che mi accompagnino a prendere la macchina.  All’epoca la strada era molto più buia e non si vedeva bene la segnaletica orizzontale. Nessuno mi ha detto “questore le contestiamo questo e quest’altro”, mi hanno detto solo “può riprendere la macchina”. Non sono io che devo dire “mi dovete fare la contravvenzione”». Viviani: «il questore era in servizio ed aveva tutto il diritto di riprendere l’auto ma prima i vigili avrebbero dovuto dargli multa e verbale, facendogli pagare il carro attrezzi. Ma così non è stato». Il questore: «Se mi fosse arrivata la multa avrei fatto ricorso. Mi dice lei che interesse avevo a non seguire questa procedura? Io le pago tutte le multe. A Roma me ne hanno fatte moltissime. Non avevo interesse affinchè sparisse la contravvenzione. Oggi sono messo alla berlina come se fossi il più grosso delinquente d’Italia». E poi invita la Iena nel suo ufficio e gli mostra il fascio di multe che ha pagato «senza dire una parola». Ma il “vizietto” di parcheggiare dove non si può non sfugge a Viviani che contesta (questa volta senza multa!) al questore l’infrazione di aver parcheggiato davanti ad un passo carrabile quando l’auto però era stata già spostata nel frattempo da qualcun altro. Viviani: «Sicuramente il questore ha peccato di leggerezza senza farsi troppe domande quando è andato a riprendere la sua auto ma il problema sono i tre vigili…». Maggitti conferma che il questore Passamonti lo ha chiamato chiedendogli di poter riprendere l’auto. Maggitti però dice alla Iena che è l’ufficiale di turno «di sua spontanea volontà» a decidere. Viviani: «bugia». Maggitti ripete il concetto e viene smentito due volte proprio dagli agenti che riferiscono che l’ordine è partito da Maggitti stesso: «riconsegnare l’auto». Anche nelle relazioni di indagine dei carabinieri si legge che «il comandante disponeva il prelevamento dell’autorità e la restituzione del mezzo». E Maggitti: «non conoscevo le carte». Viviani: «Perché la multa del questore non segue lo stesso iter che seguono le multe dei cittadini normali?» Maggitti in difficoltà più volte si inerpica su un’altra giustificazione: «questa non è una multa: questo è un preavviso per il pagamento in misura ridotta». Smentito clamorosamente per la seconda volta: le Iene mostrano il documento che in cima riporta la scritta «verbale» confermando che si tratta di multa vera. Il verbale è stato poi consegnato a Maggitti il quale poi non avrebbe fatto partire l’iter previsto per legge. Maggitti non va meglio nemmeno quando Viviani gli mostra la pagina del registro con le caselle bianche. Maggitti: «quello che è stato fatto è totalmente legittimo» e le caselle bianche devono essere così perché «l’auto è stata riconsegnata subito». Viviani: «Ed il carro attrezzi chi lo paga?» Maggitti: «Il carro attrezzi è pagato dai cittadini… » poi si corregge: «la ditta privata fa un lavoro a vuoto….» Viviani: «Ed Angelo Volpe che non va più in moto?» Maggitti: «Con una accusa così pesante è giustificato… c’è un pro-ce-ss-ooo» Il servizio si chiude con Volpe: «Ho dato una mano ad un collega a presentare una denuncia. Tutto questo mi sembra assurdo». Un bel pasticcio che non fa onore proprio a nessuno.

Contravvenzione «fantasma» al questore. Esposto-denuncia sul tavolo dei carabinieri. Altri cittadini hanno versato dai 95 ai 125 euro. Ottanta euro di contravvenzione, due punti decurtati dalla patente, più le spese di rimozione affidata al carrattrezzi, scrive Marco Patricelli su “Il Tempo”. C’è da aspettarselo, se un cittadino qualunque lascia la sua auto in sosta in corrispondenza della fermata dell’autobus e interviene la polizia municipale. Ma poi accade che in un secondo momento si scopre che l’auto è intestata a un cittadino importante, e allora sul verbale delle rimozioni rimangono in bianco la casella col numero di ricevuta/fattura e della sanzione pecuniaria per l’intervento del carrattrezzi. Accade, ma non dovrebbe mica accadere. Il verbale di contravvenzione in questione, elevato in via Galilei a Pescara l’8 dicembre 2011, è stato spiccato dallo stesso vigile urbano e nella stessa via a a quattro autovetture: il proprietario della seconda ha pagato 124,98 euro, quello della terza 99,18, quello della quarta 94,71, e ognuno di essi ha pagato la sanzione amministrativa. L’intestatario della prima e della riga con le caselle in bianco, è il questore Paolo Passamonti. L’auto contravvenzionata era intestata a lui, come da regolare visura al Pra. Se non è stato il questore a lasciare l’auto in divieto, era qualcuno che ne aveva la disponibilità. Ma a chiedere direttamente la riconsegna della vettura, secondo quanto ricostruito, sarebbe stato proprio lui. E per portarsi via l’auto, è indubbio che qualcuno deve averlo autorizzato. Qualcuno più in alto del semplice addetto del Corpo della Municipale o dell’ufficiale di servizio, perché con queste cose meno ci si scherza e meglio è. Ci si scherza talmente poco che la vicenda è finita sul tavolo dei carabinieri, sotto forma di esposto-denuncia. Un atto formale che risale a pochi giorni fa, e precisamente il 12 marzo, e sul quale vige una rigidissima consegna del silenzio. Sembra che a intervenire sulla questione sia stata sollecitata la Guardia di finanza, ma evidentemente senza troppi risultati concreti. Se le cose sono andate così - non dovrebbe essere diversamente stando alle fonti documentali - il problema è serio, se non addirittura serissimo. Ed è uno di quei problemi per il quale il silenzio suona tanto di arroccamento nel privilegio. Il colonnello della Municipale e comandante a vita, Carlo Maggitti, stavolta non può fare al suo solito e aspettare che passi la buriana. Chi ha dato l’ordine di soprassedere su quella contravvenzione risponde di un reato penale e di una prevaricazione morale che offende i cittadini onesti. Tutti. Se nel frattempo il questore ha pagato, gli fa onore; se non l’ha fatto, spieghi perché. Ma lo faccia subito, e non solo per rispetto degli altri 3 automobilisti che quel giorno, l’8 dicembre, hanno dovuto mettere mano al portafogli. Nulla esclude che quell’auto fosse in servizio, ma se la legge è uguale per tutti, il questore avrebbe dovuto comunque pagare le spese del carrattrezzi e poi sulla contravvenzione fare ricorso al prefetto, che sicuramente l’avrebbe accolto. Di tutto questo non c’è traccia. Ma c’è un esposto ai carabinieri. Sono in tanti a dover dare una risposta.

Multa al questore di Pescara: due versioni per una verità. Il colonnello aveva chiesto tempo al sindaco Mascia per ricostruire l’accaduto. L'Associazione Codici preannuncia un esposto alla Procura e chiede le dimissioni del comandante della Municipale, scrive Marco Patricelli su “Il Tempo”. No, non siamo affatto su «Scherzi a parte», dove alla fine tutto si spiega. Il questore Paolo Passamonti (martedì ufficialmente in ferie, secondo comunicazioni della Questura, ma poi raggiunto) pone domande sulla sua contravvenzione non pagata: lui chiede, invece di fornire risposte. Il comandante della Municipale Carlo Maggitti si era preso due giorni di tempo per fare rapporto su una vicenda di cui, ha detto al sindaco, non sapeva nulla, quando poi lo stesso questore ha riferito di averlo chiamato al telefono e di averlo interessato alla rimozione. Memoria labile, a non ricordare che la Municipale ha portato via l’auto privata di Passamonti che gli ha telefonato e l’ha pure mandato a prendere con vettura di servizio? O che altro? Quanti buchi, nella ricostruzione di quell’8 dicembre 2011, e soprattutto che buchi in quelle caselle bianche sul registro delle rimozioni che affermano un fattore incontrovertibile: la vettura del questore è stata portata via dal carrattrezzi, poi è stata restituita senza tirare fuori un euro. È questo il punto, e solo questo. Non è affatto, come sostiene Passamonti, se fosse o meno in servizio l’8 dicembre. Certo, la città dovrebbe rallegrarsi che il questore in persona ispeziona il centro in un giorno di festa, in funzione antitaccheggio e antiscippo, e lo fa addirittura con la sua Mercedes e non a spese del contribuente. Forse si rallegra un po’ meno quando il questore, che è il capo della polizia, dà l’esempio di parcheggiare in prossimità della fermata dell’autobus di via Galilei, invece di pagare la tariffa oraria di sosta nelle ampie praterie delle aree di risulta. Forse il delicatissimo servizio di controllo era di molto preminente all’intralcio alla circolazione e al divieto. Finirà che la colpa è del povero vigile verbalizzante, l’agente Di Sabatino, che ha invece fatto appieno il suo dovere, Codice della strada alla mano (e non sarebbe proprio il caso che passasse i guai del vigile Celletti impersonato da Alberto Sordi). Ecco, Passamonti dovrebbe magari spiegare in quale delicata operazione era impegnato da dover lasciare in fretta e furia la Mercedes dove l’ha lasciata. S’è stupito che gliel’abbiano prelevata col carratrezzi, ma non se’è stupito che gliel’abbiano restituita gratis dopo che lui stesso ha consegnato le chiavi affinché gliela riportassero dal deposito al comando della Municipale, dopo aver contattato Maggitti. Da uomo di Legge non si è stupito neppure che la contravvenzione non gli sia mai stata recapitata, altrimenti, che diamine, l’avrebbe subito impugnata davanti al prefetto: era al servizio del cittadino. Adesso tocca a Maggitti, che ha detto di non sapere nulla della vicenda, produrre o spiegare che fine ha fatto la contravvenzione, o perché la Mercedes sia stata restituita senza pagare il carrattrezzi della ditta Di Blasio, chiamato dai vigili e rientrato in deposito: la berlina è stata scaricata a terra e caricata amministrativamente sul registro. La contravvenzione era un verbale di contestazione, non un preavviso, e porta il numero 111548. Il rilascio gratuito non è previsto da nessuna norma e non risulta a memoria d’uomo che un qualsiasi automobilista si sia potuto riprendere l’auto sulla parola che, tanto, il ricorso al prefetto sarebbe stato sicuramente accolto. Il colonnello Maggitti dovrebbe produrre al sindaco la stampa della cosiddetta Procedura informatica di concilio. E se non c’è o non risulta, il che sarebbe per lo meno strano, spiegare perché. Ma soprattutto deve spiegare quelle due caselle bianche sul registro. La multa non è stata pagata e non c’è annotazione del ricorso al prefetto, che quindi non sarebbe stato neppure fatto, forse perché la storia si riteneva conclusa qui . Dov’è il verbale di riconsegna, che non può essere rilasciato senza oblazione? Non risulta che il questore abbia pagato al ritiro, né qualcun altro per lui. Se fosse stato fatto, ma non lo è stato, come potrebbe essere "sparita" la ricevuta prima dell’annotazione? E l’importo? È pacifico che la rimozione era stata già verbalizzata con presa in carico (n° 3722) quando il questore è andato al Comando. Passamonti poteva evitare di vestire i panni stretti della vittima: se avesse pagato avrebbe fatto il suo dovere di cittadino e avrebbe poi utilizzato tutti gli strumenti che la Legge consente a lui e tutti gli altri cittadini che non possono chiamare il comandante della Municipale. Sarà poi la Procura a spiegare se ci sono eventuali risvolti penali. Il registro delle rimozioni, a 20 giorni dall’esposto-denuncia, ieri non era stato ancora acquisito dai carabinieri. Quanto a tutto il resto, che tristezza.

Dalla zia alla zia Troppe cose all’insaputa. Dalla zia di D’Alfonso, sponsor principale di Luciano Ovunque, a quella di Carlo Maggitti. Il colonnello della Municipale convoca la Disciplinare di cui fa parte, pur essendo parte in causa, ma un... Dalla zia di D’Alfonso, sponsor principale di Luciano Ovunque, a quella di Carlo Maggitti. Il colonnello della Municipale convoca la Disciplinare di cui fa parte, pur essendo parte in causa, ma un problema di salute della zia gli impedisce di passare attraverso le forche caudine del Municipio presidiato da M5S e dove diversi suoi agenti lo stanno aspettando, scrive Ul. Ch. su “Il Tempo”. Aspettano da lui una risposta dall’8 dicembre 2011, ma lo sfingeo Maggitti tace. In sede di Disciplinare Domenico Pettinari ha precisato al direttore generale Ilari che, essendo superiore gerarchico di Maggitti, potrebbe rispondere anche lui se il comandante ha stilato il rapporto richiesto ad aprile 2013 e, se no, perché. Colpo basso, ma a segno. Anche per Ilari, come per il sindaco Mascia, molte cose sono avvenute a sua insaputa. Anche per Maggitti sarebbe avvenuto tutto a sua insaputa. Anche per il questore Paolo Passamonti è avvenuto tutto a sua insaputa, visto che ha sempre ribadito che non ha mai chiesto niente a nessuno: a sua insaputa è stato prelevato da un’auto della Municipale, a sua insaputa gli hanno restituito la Mercedes portata via dal carrattrezzi, a sua insaputa se l’è portata via con una contravvenzione fantasma contro la quale non avrebbe proposto ricorso. A nostra insaputa, di cittadini e di contribuenti, c’è invece la verità. Forza e coraggio, procuratore Federico De Siervo: dia semplici risposte processuali a fronte dei silenzi fattuali dei protagonisti. Chi ha dato l’ordine di restituire l’auto al questore senza pagare nulla? Chi e perché ha violato le regole per chiedere e ottenere il rilascio della vettura? Forza e coraggio.

Due opzioni per il comandante della Municipale Carlo Maggitti: o entro oggi presenta la relazione amministrava che gli ha chiesto per iscritto il direttore generale del Comune di Pescara Stefano Ilari, oppure motiva perché non lo fa, continua Marco Patricelli su “Il Tempo”. Deve motivare, altrimenti si mette a rischio di procedimento disciplinare, e anche se al Comune l’aria è quella degli ultimi giorni di Pompei, il colonnello difficilmente potrebbe sottarsi come da 14 mesi a questa parte. La richiesta ufficiale gli è stata notificata venerdì scorso, e il comandante aveva chiesto tempo per cercare «le carte». Il giorno dopo, sabato, si è messo in ferie; ieri è stato all’Aquila; oggi deve spiegare come andarono le cose l’8 dicembre 2011 sulla multa «fantasma» all’auto del questore Paolo Passamonti. La relazione amministrativa gli era stata chiesta ad aprile 2013 dal sindaco Luigi Albore Mascia, e allora Maggitti aveva detto che aveva bisogno di tempo perché due addetti della Municipale erano «in ferie». Passa oggi che vien domani, dopo oltre un anno quella relazione non è mai arrivata. Nel frattempo è successo di tutto, compreso l’avviso di garanzia al vigile urbano che con l’esposto ai carabinieri scoperchiò il vaso di Pandora di una vicenda che, da qualsiasi punto la si guardi, è assai poco edificante: ritardi, omissioni, zone d’ombra, verità sottaciute, carte sparite e versioni di comodo. Poi Maggitti ha avuto l’idea di far convocare la Commissione disciplinare per il suo agente, commissione di cui lui stesso faceva parte, salvo poi non presentarsi adducendo come giustificazione l’improvvisa malattia di una zia. A questo punto anche il più smaliziato avrà riflettuto sul fatto che il comandante pretendeva da un suo sottoposto una spiegazione sui fatti per i quali lui stesso non aveva presentato la relazione amministrativa, e di cui lui stesso avrebbe dovuto giudicare come membro della Disciplinare. È stato allora Domenico Pettinari dell’Associazione Codici a rivolgersi direttamente al direttore generale del Comune di Pescara, in qualità di superiore gerarchico del colonnello Maggitti, per spingerlo a fare chiarezza sulla vicenda. Proprio ieri Pettinari si è recato dal procuratore capo Federico De Siervo ed ha avuto notizia che era stato ritrovato l’esposto presentato da Codici diversi mesi fa, dato per smarrito dall’Urp: era in visione al pm Giampiero Di Florio ed è stato riconsegnato alla collega Annarita Mantini. Le inchieste, su questa vicenda, si intersecano. Ma non si sa ancora chi e perché ha dato l’ordine di riconsegnare l’automobile al questore, prelevata dal carrattrezzi in via Galilei in quanto parcheggiata nello spazio della fermata dell’autobus. Né soprattutto come mai quella contravvenzione, che attivò per l’appunto l’intervento del carrattrezzi, sia finita nel nulla. Il questore ha sempre sostenuto che quel giorno era in servizio, ma non risulta che abbia inoltrato ricorso amministrativo al prefetto per l’annullamento. Fatto sta che il questore venne prelevato da un’auto della Municipale e gli venne restituita la Mercedes. Come andarono le cose la Procura finora non l’ha spiegato, ma ha chiesto il rinvio a giudizio per presunta violazione del segreto d’ufficio dell’agente che presentò l’esposto ai carabinieri. Vedremo cosa presenta oggi Maggitti, che il 28 aprile in Municipio ha prestato solenne giuramento come dipendente comunale.

Maggitti a rapporto sulla multa «fantasma». E il Comune dell’Aquila rivuole da lui 3.500 euro. Piove sul bagnato per il comandante della Municipale di Pescara Carlo Maggitti, scrive Marco Patricelli su “Il Tempo”. Nell’arco di 24 ore si è visto raggiungere da due siluri sotto la linea di galleggiamento, i cui effetti sono ancora tutti da valutare. Il primo è partito dall’Aquila, sotto forma di decreto ingiuntivo per recuperare «3.453,48 euro oltre accessori». Il secondo è stato sganciato dal direttore generare del Comune di Pescara, Stefano Ilari, che da lui vuole il rapporto amministrativo chiesto ad aprile 2013 dal sindaco Luigi Mascia sulla vicenda della mulota «fantasma» all’auto del questore Paolo Passamonti: un rapporto che non è mai arrivato ma che adesso dovrà arrivare, ed entro la scadenza fissata nero su bianco, a pena di procedimento disciplinare. E pensare che proprio il colonnello giorni addietro ne ha fatto avviare uno nei confronti del vigile urbano che con un esposto ai carabinieri scoperchiò il vaso di Pandora sul "fattaccio" dell’8 dicembre 2011, quando cioò la vettura del questore venne prelevata dal carrattrezzi dopo la contravvenzione per parcheggio negli spazi riservati all’autobus in via Galilei, e poi restituita al legittimo proprietario, senza che risultasse alcuna oblazione e alcun ricorso amministrativo, secondo le procedure previste per legge per qualsiasi cittadino. Alla commissione disciplinare nei confronti dell’agente, che ha fatto semplicemente il suo dovere, Maggitti però non partecipò perché all’ultimo momento giustificò la sua assenza per l’improvvisa malattia di una zia. Se non metterà nero su bianco ciò che accadde quell’8 dicembre, si ritroverà dall’altra parte del tavolo. Ilari è suo superiore gerarchico e ha tutti i diritti di chiedere conto su quella vicenda, anche perché marcato stretto dall’Associazione Codici che su di essa presentò un esposto alla Procura, che però secondo l’Urp è andato «smarrito». Il segretario Domenico Pettinari, fresco di elezione a consigliere regionale, gli ha ricordato che è per lo meno singolare procedere contro un vigile, inquisito per rivelazione del segreto d’ufficio, quando il suo stesso comandante non ha mai fatto rapporto sui fatti oggetto della convocazione della Discipinare. E stavolta dall’ufficio è partita la richiesta scritta. Il colonnello, stando alle voci di caserma, non l’avrebbe presa molto bene. Non aveva neanche fatto in tempo ad assorbire la notizia che il Comune dell’Aquila, in base a quanto riportato nella delibera di Giunta, rivoleva da lui la somma percepita in più rispetto a quella spettante nel periodo compreso tra gennaio e luglio 2010 e nell’agosto dello stesso anno. Il Servizio risorse umane aveva in precedenza «invitato» Maggitti a restituire tale somma senza, però, ricevere alcun riscontro. Di qui la decisione di proporre ricorso in Tribunale. Tempi di carte e di carte bollate. Tempi di risposte e, soprattutto, di verità.

Multa fantasma: «Processate il vigile». Subito la convocazione davanti alla Commissione disciplinare, scrivono Marco Patricelli e Alessandra Farias su “Il Tempo”. Denuncia un fatto con profili di illecito amministrativo e penale, e si ritrova prima indagato e poi con una richiesta di rinvio a giudizio per la presunta violazione del segreto d’ufficio. Accade a Pescara, dove il braccio forte della Legge ha raggiunto un agente della Municipale che nel marzo dello scorso anno si era rivolto ai carabinieri per esporre la vicenda della restituzione dell’automobile del questore dopo che la stessa era stata multata e prelevata dal carrattrezzi, poiché lasciata in divieto in corrispondenza della fermata dell’autobus in via Galilei. «Il Tempo» si occupò della vicenda e pubblicò anche la documentazione, con il verbale di contravvenzione e il libro mastro di carico e scarico, dove non risultava alcun pagamento, neppure dell’intervento del carrattrezzi della ditta Di Blasio. Apriti cielo. I carabinieri intervennero con un blitz (quasi) simultaneo al Comando della Municipale e nella redazione del «Tempo», con tanto di provvedimento di perquisizione e sequestro a doppia firma: il procuratore capo Federico De Siervo e la sua vice Annalisa Giusti. Caccia aperta a chi aveva informato la stampa su un fatto che chiamava in causa, oltre al questore, anche il comandante della Municipale. Il sindaco Luigi Albore Mascia, dopo aver promesso fuoco e fiamme per fare chiarezza, si spense subito come un cerino; il suo assessore competente, Gianni Santilli, la prese con fastidio: ambedue pretesero a parole dal comandante Carlo Maggitti un rapporto amministrativo che non è mai arrivato. Ma adesso, con una velocità da acceleratore nucleare, il vigile inquisito, alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio con rito immediato, è stato subito convocato dalla Commissione disciplinare per il 15 maggio. La stessa commissione che a suo tempo dovette occuparsi della Croma della Municipale lasciata da un ufficiale in prossimità dell’ingresso Maratona dello stadio Adriatico, il disgraziato giorno della morte di Piermario Morosini, e della quale faceva parte il comandante Maggitti. Era uno dei tre membri e la votazione si concluse con due voti per la sanzione disciplinare e un’astensione. Sarà interessante sapere chi surrogherà il comandante, il 15 maggio, perché essendo parte in causa non potrà certo presenziare. A quanto risulterebbe, peraltro, non è stato ancora ascoltato dal magistrato dell’inchiesta principale. Sulla vicenda sono state depositate due interrogazioni parlamentari.

Multa fantasma al questore Vigile «processato» in Comune . È il giorno del giudizio, almeno di fronte alla Commissione disciplinare, per uno dei vigili urbani di Pescara che presentarono l’esposto ai carabinieri sulla multa «fantasma» all’auto del questore Paolo Passamonti, scrive “Il Tempo”. Vicenda poi raccontata in dettaglio da Il Tempo. L'aver denunciato un presunto illecito gli è valso però la richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio, seguita immediatamente dalla convocazione di fronte alla Disciplinare, di cui fanno parte il direttore generale del Comune Stefano Ilari, il responsabile del personale Gabriella Pollio e il comandante della Municipale Carlo Maggitti: lo stesso che ne ha richiesto la convocazione per aver rivelato cose «che devono rimanere segrete». Un fatto per il quale lo stesso colonnello Maggitti, però, non ha mai consegnato il rapporto amministrativo richiestogli 13 mesi fa dal sindaco Mascia. Il procuratore capo Federico De Siervo ha affidato alla vice Annalisa Giusti il secondo filone d'indagine, lasciando nelle mani del pm Giampiero Di Florio quello decisamente più scottante, da cui si attendono da oltre un anno risposte chiarificatrici. Oggi a sostegno del vigile sono mobilitati in Comune parlamentari e simpatizzanti del Movimento 5 Stelle. Andrea Colletti e Gianluca Vacca hanno presentato due interrogazioni parlamentari al ministro dell’Interno e della Giustizia su questa vicenda. È arrivato il tempo delle risposte.

Multa al questore, Passamonti querela il giornalista che raccontò la vicenda. Patricelli: «sono avvilito ma ho fatto solo il mio lavoro». Il questore di Pescara, Paolo Passamonti, ha denunciato per diffamazione il giornalista Marco Patricelli, caposervizio e responsabile della redazione pescarese del quotidiano Il Tempo (ma anche storico con diversi libri alle spalle), scrive “Prima Da Noi”. Passamonti contesta quattro articoli, scritti fra il 31 marzo e il 4 aprile scorso, in cui Patricelli aveva ricostruito la vicenda di una multa ricevuta dal questore. Il Tempo scoprì infatti che Passamonti venne multato nel dicembre del 2011 per divieto di sosta e la sua auto rimossa con il carroattrezzi. La sua berlina gli venne poi restituita direttamente al comando dei vigili urbani. Il giornalista scoprì anche che nè la multa nè la ricevuta di pagamento del carroattrezzi sarebbero state annullate, come prevederebbe la procedura e chiese al questore di spiegare cosa fosse accaduto. Qualche giorno dopo la Procura di Pescara dispose una perquisizione ai danni del giornalista, sia presso la redazione che nell’abitazione e il giornalista si è ritrovato indagato per violazione del segreto istruttorio. «Il procedimento penale avviato a marzo giace ancora sul tavolo del procuratore capo di Pescara, Federico De Siervo, che l’ha avocato a sé assieme al pool. Nessun atto è stato finora compiuto», spiega il giornalista ad Ossigeno. Lo scorso 31 ottobre, intanto, come detto il giornalista ha ricevuto dalla Digos la notifica della querela per diffamazione a mezzo stampa presentata dal questore nei suoi confronti e in quelli (per omesso controllo) del direttore del quotidiano, Sarina Biraghi. L’indagine è affidata alla procura di Roma, dove il giornale ha la sua sede centrale. «Sono colpevole sicuramente: di aver fatto il mio dovere e di aver scritto la verità», racconta ancora il giornalista. I fatti raccontati, continua, «sono veri, circostanziati e supportati da prove. Assistere a gesti di intimidazione – posso interpretarli solo così – come la perquisizione-sequestro e la querela, mi avvilisce come cittadino, non solo come operatore dell’informazione che risponde alle leggi, alla deontologia e alla sua coscienza». Patricelli può contare sulla tutela legale del suo giornale ma pensa anche ai tanti giornalisti precari che spesso lavorano senza nessun supporto e spiega: «se invece che a me tutto questo fosse capitato ad un collaboratore senza tutela, che conseguenze avrebbe potuto avere? Un giovane può facilmente considerare che non valga la pena correre rischi simili per fare questo lavoro».

Questore multato: partita l’inchiesta “speciale”. Perquisita redazione de “Il Tempo”, scrive “Prima Da Noi”. Per la Corte di giustizia europea perquisire giornalisti è vietato. La vicenda della multa non pagata dal questore di Pescara, Paolo Passamonti, sta montando sempre più e si sta trasformando in qualcosa di non comune. Dopo gli articoli dei giorni scorsi apparsi sul quotidiano Il Tempo si erano avute avvisaglie di una inchiesta penale avviata dalla procura di Pescara in merito alla sanzione che non sarebbe stata pagata. Proprio ieri sera, infatti, i carabinieri avevano perquisito il comando dei vigili urbani e richiesto documentazione inerente la vicenda. Dopo aver preso la documentazione dai vigili i carabinieri si sono recati nella redazione de Il Tempo con un decreto di perquisizione, anche domiciliare, ai danni del giornalista Marco Patricelli che si è occupato della vicenda, un provvedimento più che discutibile, molto singolare in Abruzzo, anche se non unico nel suo genere. Ma andiamo con ordine. Il questore di Pescara, Paolo Passamonti, viene multato nel dicembre del 2011 per divieto di sosta e la sua auto rimossa con il carroattrezzi. La sua berlina gli viene poi restituita direttamente al comando dei vigili urbani quando il questore, spiega, si trovava impegnato in un servizio interforze. Il quotidiano Il Tempo scopre poi che nè la multa nè la ricevuta di pagamento del carroattrezzi sono stati annullate, come prevederebbe la procedura. Ieri la procura di Pescara ha deciso di perquisire la redazione giornalistica alla ricerca di documenti. Stamane, sulla vicenda, intervengono il sindacato dei giornalisti abruzzesi e l'Ordine dei Giornalisti abruzzese. «E' veramente singolare - scrivono i due organismi di categoria in una nota congiunta - che si sottoponga a perquisizione la redazione de Il Tempo di Pescara in base ad un decreto che prevede anche la perquisizione domiciliare del giornalista Marco Patricelli che, sul giornale, da diversi giorni, sta pubblicando la vicenda relativa alla rimozione dell'auto privata, una Mercedes, del questore di Pescara e del mancato pagamento della relativa sanzione preliminare alla riconsegna della vettura stessa. Nel decreto, a firma del procuratore della Repubblica di Pescara e di un suo sostituto, si parla di acquisizione di prove per presunta violazione del segreto istruttorio. La magistratura inquirente - osservano Franco Farias (Assostampa) e Stefano Pallotta (Odg) - sa bene chi è il custode del segreto istruttorio. La risposta è una sola: i magistrati e gli addetti alle indagini. I giornalisti hanno un dovere prioritario: cercare e pubblicare le notizie. Non si può loro chiedere di nasconderle, di ignorarle. Dovere inderogabile dei giornalisti è quello della tutela delle fonti, ne va della loro professione e del diritto dei cittadini di essere correttamente e completamente informati su tutto». Per questo l'Ordine dei giornalisti e il Sindacato dei giornalisti abruzzesi hanno espresso preoccupazione per l'iniziativa della Procura di Pescara ritenendo che la perquisizione debba essere interpretata «come una sorta di intimidazione per costringerli a mettere la sordina a tutta la vicenda, ma questo non è tollerabile». Ordine dei giornalisti e Sindacato dei giornalisti - prosegue la nota - «esprimono solidarieta' al Tempo e al collega Patricelli invitandoli a non farsi intimorire da iniziative discutibili e a continuare nella ricerca della verità senza timori reverenziali. Questo genere di episodi - che attentano alla libertà di informazione - «si stanno, purtroppo, moltiplicando in Abruzzo. Pertanto l'Ordine dei Giornalisti e il Sindacato dei giornalisti abruzzesi ritengono urgenti interventi a tutela della categoria», concludono Farias e Pallotta. La Costituzione italiana da una parte riconosce il diritto all’informazione dei cittadini e dall’altra tutela il diritto di cronaca anche riconoscendo il segreto professionale (per poter garantire al giornalista di proteggere quelle fonti che altrimenti non rivelerebbero fatti e documenti) nell’ottica di far circolare sempre più notizie di interesse pubblico, vitali in una democrazia. La Corte di Strasburgo, con la sentenza Roemen, ha di fatto imposto l'alt alle perquisizioni negli uffici dei giornalisti  e dei loro avvocati a tutela delle fonti dei giornalisti. L'ordinamento europeo impedisce ai giudici nazionali di  ordinare perquisizioni -viene ribadito nella sentenza- negli uffici e nelle abitazioni dei giornalisti nonché nelle "dimore" dei loro avvocati a caccia di  prove sulle fonti confidenziali dei cronisti: "La libertà d'espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le garanzie da concedere alla stampa rivestono un'importanza particolare. La protezione delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri della libertà di stampa. L'assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall'aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni d'interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe essere meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di "cane da guardia" e il suo atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto.  Questi sono i principi  sanciti nella sentenza "Roemen" 25 febbraio 2003 (Procedimento n. 51772/99) della quarta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo.  La Corte giudica che delle perquisizioni aventi per oggetto di scoprire la fonte di un giornalista costituiscono - anche se restano senza risultato - un'azione più grave dell'intimazione di divulgare l'identità della fonte. Infatti, gli inquirenti che, muniti di un mandato di perquisizione, sorprendono un giornalista nel suo luogo di lavoro, detengono poteri d'indagine estremamente ampi poiché, per definizione, possono accedere a tutta la documentazione in possesso del giornalista.

DINASTOPOLI. LE DINASTIE DI PESCARA.

La dinastia, vizio all’italiana. Ma i figli non valgono i padri, scrive Guido Farò su “Il Tempo”. Un tempo furono i Savoia in Piemonte, i Gonzaga di Mantova, gli Este a Ferrara. Poi fu la volta dei Colonna, degli Orsini, dei Doria. Quindi toccò alle grandi famiglie che si contendevano Papi e cardinali, come i Barberini, i Ludovisi, gli Aldobrandini. Insomma, la dinastia, le dinastie, è una sorta di brand nazionale. Forse lo abbiamo persino esportato anche se altrove, come nelle Filippine, sono diventate sinonimo di corruzione al punto che i vescovi locali sono dovuti intervenire per stigmatizzare l’intreccio di parentele e favori, interessi e denari, potere e carriere che sta soffocando il Paese del Sud-Est asiatico. Le dinastie sono anche simbolo del potere che si perpetua ma anche simbolo di affidabilità negli stati Uniti, dove da decenni si affidano ai Kennedy, ai Bush e ai Clinton, senza fare differenza tra democratici e repubblicani, perché la dinastopoli è un morbo che flagella destra e sinistra senza differenza. Certo, gli italiani sono maestri. Su questo non ci sono dubbi. Come di recente è arrivato un Letta, Enrico, a palazzo Chigi, da dove poco prima ne era uscito un altro, Gianni. Peraltro due figure di spicco della nostra politica, nipote e zio, che hanno lavorato su sponde politiche opposte anche provengono dalla stessa famiglia politica, la Dc. Era un dc anche Antonio Segni, presidente della Repubblica, dopo essere stato presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, degli Interni, della Difesa, Provò a ripercorrere le sue tracce anche Mario Segni, suo figlio, che ebbe solo un momento di celebrità all’inizio degli anni Novanta quando cavalcando la voglia referendaria che serpeggiava nel Paese sembrava essere il nuovo salvatore della Patria. Arrivò Berlusconi e ne prese il posto. Segni è solo uno dei casi in cui i figli non sono riusciti a ripetere i padri. "Gemello" di Mariotto, sotto questo punto di vista, può considerarsi Giorgio La Malfa che per anni provò a raggiungere il padre Ugo, più volte a un passo dall’elezione a presidente della Repubblica. Il povero Giorgio è finito con l’essere persino espulso dal Partito Repubblicano di cui il padre fu leader indiscusso. Doppia fine ingloriosa anche per Stefania e Vittorio detto Bobo Craxi che con carriere pressoché separate, a destra e a sinistra, hanno provato a raggiungere le vette della politica toccate da Bettino, loro genitore. Non sono stati i soli. Anche Francesco Cossiga, sassarese come Segni, Capo dello Stato come Segni, ha visto il figlio Giuseppe cimentarsi in politica sino ad arrivare a ricoprire la carica di sottosegretario alla Difesa. Un’altra famiglia sassarese, i Berlinguer, questa volta comunista, un’altra dinastia (peraltro imparentata con i Cossiga). Lui, Enrico, divenne segretario del Pci. Ma in politica è toccato come meno sorte anche al fratello Giovanni, ai cugini Luigi (che fu ministro dell’Istruzione con Prodi), e Sergio che invece fece una breve comparsata nel primo governo Berlusconi. Anche il figlio di Enrico, Marco, ha avuto una esperienza politica ma ha preferito restare in seconda linea e lavorare per Rifondazione comunista senza mai candidarsi. Sua sorella maggiore, Bianca, ha invece scelto la strada del giornalismo e oggi dirige il Tg3. Ma il familismo non conosce latitudini o longitudini, non è un fenomeno regionale. Anche Arnaldo Forlani, storico leader della Balena bianca, ha visto il battesimo in politica di suo figlio Alessandro, divenuto senatore dell’Udc e nulla più. Un altro cavallo di razza dc, Ciriaco De Mita, non ha assistito invece al debutto politico della prole (che ha preferito il giornalismo) ma si è dovuto accontentare di un nipote, Giuseppe, divenuto vicepresidente della Regione Campania. Forse a sbarrare le strade ai De Mita junior sarà stato lo stesso capostipite, tutt’ora attivo in politica. Se don Ciriaco da Nusco - paesone a quaranta chilometri da Avellino - non s’è ritrovato qualche altro familiare sulle proprie orme è probabilmente dovuto al fatto che si son fatti largo soprattutto i figliocci. A cominciare da Clemente Mastella, suo braccio destro, suo portavoce, suo tutto fare e organizzatore delle sue truppe cammellate. Mastella da Ceppaloni - centro del Beneventano a una cinquantina di chilometri da Nusco - ha fatto un po’ di tutto. Ma non gli è bastato e non è bastato a sua moglie Sandra Lonardo, che fu eletta presidente del Consiglio regionale della Campania. Quello dei Mastella, marito e moglie, per i magistrati era un sistema di potere finanche illegale, tanto da configurarlo come un’associazione a delinquere. Inchiesta che poi si è andata via via sgonfiandosi. Ci provò anche Tonino Di Pietro, suo figlio Cristiano diventò consigliere regionale in Molise. Ma, come già scritto, sbaglierebbe chi pensasse che il familismo in politica è un affare meridionale, una questione del Sud. A riprova di ciò basta citare il fatto che il leader del principale partito nordista, Umberto Bossi, è finito travolto dalle accuse - anche giudiziarie - per via dei figli. «Rei», a quanto pare, di utilizzare i fondi pubblici del partito per le peripezie personali.  E chi immagina che la storia degli scettri politici che si tramandano a danno dei regni che si sfracellano, si metta seduto e stia tranquillo. Altre si affacciano all’orizzonte. Anche Silvio Berlusconi non riesce a resistere al desiderio di vedere il proprio nome riproporsi magari all’infinito. Già si scalda a bordo campo la primogenita, Marina, forse un po’ per costrizione perché la ragazza sembra refrattaria e preferirebbe l’impresa (di famiglia, naturalmente). Ma non potrà resistere ancora a lungo.

Chi trova un amico trova un Teodoro. Dinastia sempre abbonata al potere, scrive Antonio Fragassi su “Il Tempo”. Chi trova un amico trova un Teodoro, specie al Comune dove la famiglia non sbaglia un colpo da vent'anni. La famiglia sta per Maurizio, Gianni e Piernicola, i tre fratelli più corteggiati di Pescara. A chi li accusa di opportunismo rispondono che il problema è l'esatto contrario: loro non vanno dove si vince, si vince dove vanno loro. Ed è così dal 1994, quando i Teodoro appoggiarono la Giunta di centrodestra di Carlo Pace; è stato così nel 2003 quando al ballottaggio si apparentarono con Luciano D'Alfonso favorendo la vittoria del centrosinistra; il tris nel 2009 a sostegno di Luigi Albore Mascia (di nuovo un'Amministrazione di centrodestra); il poker quest'anno in appoggio a Marco Alessandrini (seconda volta col centrosinistra). Un format di successo che dura da un ventennio, quello dei fratelli Teodoro è simile a un pendolo che non oscilla, ma gira intorno a se stesso, fedele nei secoli al suo elettorato, tremila e passa voti conquistati negli anni dell'apprendistato in politica. Un elettorato quasi fideistico nei quartieri più popolosi e difficili di Pescara dove i fratelli hanno messo la bandierina prima degli altri, tanto che gli altri, intesi come partiti e liste civiche, nemmeno ci provano a scalzarli. Li accusano di familismo, di clientelismo, loro replicano che sono sempre stati vicini a chi soffre, lavorando sul sociale, storico cavallo di battaglia. Maurizio è ritenuto l'eminenza grigia: dopo essere stato consigliere regionale, ha sfiorato l'approdo in Parlamento e oggi ha chiuso con i ruoli di protagonista, ma continua a tessere la tela. Gianni il più visibile a livello di nomine: due volte vice sindaco, presidente della Gtm, consigliere provinciale, non si fa pregare quando c'è la baruffa, tant'è che per due volte ha rotto i ponti con le Giunte di centrodestra dove aveva acquisito deleghe strategiche; aveva provato il salto in Regione con D'Alfonso, ma gli è andata male e ora reclama spazio. Piernicola il "cucciolo" di famiglia, un posto all'Aca inframmezzato dall'esperienza di consigliere provinciale di minoranza e da presidente della Circoscrizione Porta Nuova, appena eletto in Consiglio comunale e probabile assessore con Alessandrini. Per loro destra e sinistra pari sono, a parole tutti prendono le distanze dai tre fratelli, nei fatti a Pescara chi vuole governare non può prescindere da Teodoro, non ancora.

La saga dei Teodoro, da 20 anni signori di Pescara, scrive Antonio Fragassi su “Il Tempo”. A grande richiesta, la serie dei Teodoro riprende a Pescara proprio quando sembrava che la programmazione fosse destinata a interrompersi. E invece il popolo dei tremila e passa elettori che hanno sempre confermato la fiducia alla famiglia Teodoro ha voluto che la soap politica più amata in riva all'Adriatico continuasse più forte e più bella che pria. Stavolta grazie a una Veronica, figlia di Gianni, che porta al proscenio la seconda generazione dei Teodoro. Il sindaco Marco Alessandrini credeva di aver messo all'angolo l'azzimato Gianni negando a lui l'ingresso in Giunta e chiedendogli una donna come assessore, convinto che l'ex vice sindaco della Giunta di centrodestra non avesse in kambusa il nome buono. E invece il Gianni, quando sembrava che la sua lista (Scegli Pescara) fosse destinata a rimanere fuori dai giochi, ha assestato il colpo a sorpresa proponendo la figlia Veronica, vent'anni fra un mese, studentessa al primo anno di Giurisprudenza, una passionaccia per la Magistratura e una venerazione per Falcone e Borsellino. Un profilo che piace molto ad Alessandrini, figlio del giudice Emilio ucciso dai terroristi di Prima Linea nel 1979, che della legalità ha fatto la sua bandiera in politica, anche se avrebbe preferito un assessore con diverso cognome. Poi, però, di fronte alla Veronica di Gianni, Alessandrini non ha saputo dire di no e così la saga della famiglia può continuare e i tremila fans sfegatati non si perderanno una puntata. D'altronde si erano abituati ad averli sotto casa da vent'anni, più dei protagonisti di "Un posto al sole": chiedere loro di rinunciarvi sul più bello sarebbe stato un sacrificio troppo grande. Una saga che merita di essere raccontata. In principio era Maurizio, il commercialista, l'eminenza grigia, colui che ha sempre tessuto la tela e si è fermato all'elezione di consigliere regionale. Poi venne Gianni, il più assiduo in politica, sei volte candidato sindaco, due volte vice sindaco con il centrodestra, in maggioranza più volte sia con la destra sia con la sinistra presidente della Gestione trasporti metropolitana (per intenderci quella che a Pescara sta gestendo il caso filovia) e consigliere provinciale. Infine arrivò Piernicola, dipendente dell'Aca (l'Azienda consortile acquedottistica), consigliere provinciale pure lui, poi presidente di una Circoscrizione, appena eletto in Consiglio comunale. I Teodoro, come tre tenores della politica, hanno costruito la loro fortuna nei quartieri più poveri e difficili di Pescara, riuscendo a guadagnarsi un credito e tanti voti a metà degli anni Novanta, credito e voti mai che li hanno sempre accompagnati nelle loro peregrinazioni da destra a sinistra e viceversa.

"Io, l'assessore più giovane d'Italia grazie a papà", scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Veronica Teodoro, 19 anni, è l'assessore più giovane d'Italia nei comuni oltre centomila abitanti. Ed è stata scelta da suo padre. «Quando papà Gianni me l'ha chiesto, mi è venuto un colpo… La mia migliore amica ancora non ci crede. Al telefono mi ha detto: mi stai prendendo in giro, vero?». Occorreva inserire una quarta donna nella giunta del nuovo sindaco di Pescara Marco Alessandrini, Pd, figlio del giudice Emilio ucciso da Prima Linea nel 1979. Una donna che fosse però "espressione" della lista civica "Teodoro", formazione centrista con più di mille voti alle ultime elezioni e due consiglieri comunali eletti: Piernicola Teodoro e Massimiliano Pignoli (anche loro parenti della famiglia Teodoro). Così papà Gianni — un passato tra Forza Italia e la Margherita — quando si è trovato di fronte al divieto di entrare lui in giunta e contemporaneamente all'obbligo di dover indicare una donna, ha proposto la figlia. E il sindaco Alessandrini ha detto sì, anche per evitare una crisi di maggioranza ancora prima di cominciare ad amministrare questa città di 123mila abitanti. E così da tre giorni, Veronica, studentessa di giurisprudenza a Bologna con tre esami all'attivo, due mesi di volontariato alla Croce Rossa e «nessuna esperienza politica», precisa lei stessa, è il nuovo assessore al Patrimonio comunale e alle Politiche giovanili. Non solo: «Anche all'associazionismo sociale, ai rapporti con il mondo del volontariato, all'Agenda21 e al marketing territoriale », sottolinea ancora lei. E come tutti gli altri assessori del Comune di Pescara riceverà un compenso di oltre 2mila euro al mese.

Quanto tempo ha avuto a disposizione per decidere?

«Papà mi ha dato solo due ore».

Come, papà? Non glielo ha chiesto il sindaco?

«No, è stato mio padre a chiamarmi. Qualche giorno fa mi ha detto: c'è questa opportunità, sappi che potrebbe non essere facile… Io senza pensarci troppo ho detto sì. Poi mi hanno chiamato tutti. Mio zio Piernicola che è consigliere comunale a Pescara. E anche l'altro mio zio Maurizio che diversi anni fa è stato assessore regionale. Anche il mio fidanzato e mia madre erano sorpresi. Penso proprio che adesso la mia vita cambierà».

Si è già pentita?

«Per niente, voglio dimostrare di essere all'altezza del ruolo che mi è stato assegnato».

Pensa di meritarlo?

«Ha scelto mio padre, è vero, ma alla fine il sindaco Alessandrini poteva anche dire di no. È lui che mi ha nominato e mi ha indicato come sua collaboratrice. Si fida di me, anche se mi conosce poco. Devo ricambiare questa fiducia».

Lei è in carica da due giorni. Ha già preso possesso del suo ufficio? Ha parlato con i suoi nuovi collaboratori?

«No, non so neanche quale sarà il mio ufficio. So solo che avrò dei segretari che mi aiuteranno nel lavoro di tutti i giorni».

Lei ha la delega al patrimonio comunale. Ha idea di quanti e quali siano i beni pubblici di cui dispone il Comune di Pescara?

«Sinceramente no, ma avrò modo e tempo di valorizzarli e metterli ancora di più al servizio dei cittadini».

Che opinione ha della politica?

«Non sono mai stata una di quelle che sputa addosso ai politici... Anzi, li ammiro, perché gestire un piccolo comune o una città come Pescara non è facile. Ci vuole coraggio e impegno».

Occorre anche competenza, però.

«Nel mio caso sono troppo giovane, mi serve solo tempo. Ho voglia di lavorare e impegnarmi ».

La sua nomina ha scatenato molte polemiche.

«Sono dispiaciuta soprattutto per i commenti di alcuni miei compagni di classe sui social network. Forse sono state le critiche che mi hanno ferito di più. Papà, però, dice che questo purtroppo rientra nelle difficoltà della strada che ho deciso di intraprendere».

Lascerà l'università?

«No, ma dovrò trovare una facoltà più vicina. Voglio diventare magistrato oppure avvocato. Spero di riuscirci conciliando tutto».

Veronica, figlia di Gianni Teodoro, risponde alle polemiche sulla sua presenza nella squadra del sindaco Alessandrini: lasciatemi il tempo e la possibilità per smentire tutte le critiche, quelle dei coetanei mi hanno fatto male, scrive  Ylenia Gifuni su “Il Centro”. La prima cosa che ha imparato il baby assessore Veronica Teodoro, a meno di 48 ore dal suo ingresso nella giunta guidata dal sindaco Marco Alessandrini, è farsi scivolare da dosso le critiche più feroci, evitare di rispondere alle frecciate scagliate dai suoi coetanei e non curarsi dei giudizi sprezzanti sulla storia politica della sua famiglia, sull’inesperienza e sulla giovane età. La studentessa 19enne, figlia dell’ex consigliere comunale Gianni Teodoro, si dice «dispiaciuta per le polemiche», invita i cittadini a lasciarle «il tempo e la possibilità di smentirli» e consiglia ai giovani di contattarla «per proporre idee e progetti per Pescara».

A meno di 20 anni è l’assessore più giovane d’Italia, studia Giurisprudenza e sogna di diventare magistrato. Ci racconti qualcosa in più su di lei.

«Sono una ragazza come tante altre. I miei interessi sono gli stessi dei miei coetanei: mi piacciono gli animali e ho praticato equitazione, amo la musica rock e metal e i Guns N’Roses. Faccio volontariato, mi sono diplomata al liceo classico D’Annunzio e vivo a Bologna da un anno. Il mio sogno nel cassetto è una carriera in magistratura, ma anche la professione di avvocato non mi dispiacerebbe. E’ un percorso difficile, ma ho sempre avuto le idee chiare fin da bambina. Mi ispiro a Falcone e Borsellino poiché ammiro tantissimo chi è disposto a sacrificare la vita per lo Stato. L’ultimo libro che ho letto è “Assedio alla toga” di Nino Di Matteo».

In campo politico invece quali sono i suoi punti di riferimento?

«Innanzitutto Matteo Renzi, per la sua giovane età e poiché rispecchia quel rinnovamento di cui oggi tanto si parla. Un altro esempio positivo è il ministro Maria Elena Boschi che ha 33 anni e fa l’avvocato. Peccato non averla conosciuta quando è venuta a Pescara».

Come concilierà lo studio con gli impegni amministrativi?

«Non sarà semplice. Sto valutando l’ipotesi di trasferirmi da Bologna a Teramo, anche perché il primo anno lontano da casa, dalla famiglia e dagli amici non è stato facile. Ma questa, per ora, è solo un’idea. Non voglio abbandonare né trascurare l’università. Ho fatto alcuni esami, Istituzioni di diritto romano e Diritto costituzionale, adesso sto preparando Diritto privato. Ho la media del 25 e punto ad aumentarla, anche se l’attività di assessore prenderà la maggior parte del mio tempo».

In seguito alla sua nomina si è scatenata una pioggia di polemiche, specie sui social network. Come ha reagito?

«Mi è dispiaciuto molto soprattutto leggere i commenti negativi dei ragazzi della mia età. Ma sapevo a cosa sarei andata incontro una volta accettate le deleghe, ero preparata. Sono l’assessore di tutti e vorrei e chiedo ai cittadini di lasciarmi il tempo e la possibilità per smentire tutte le critiche che mi sono piovute addosso».

Sente il peso della storia politica della sua famiglia?

«Nessun peso: sono orgogliosa del cognome che porto. Sono stati scritti dei commenti molto aspri anche sul mio profilo Facebook, ma non ho risposto. Vorrei che la gente mi giudicasse per quello che farò e non perché sono la figlia di…».

Nelle sue scelte amministrative si farà consigliare da suo padre?

«Mio padre mi sta spronando tantissimo e mi ha invitato a studiare per rendermi conto di tutto quello che c’è da fare per il bene della città. Farò del mio meglio, ma agirò in autonomia, anche se mi servirà l’aiuto dei più esperti. Non solo mio padre, ma soprattutto il sindaco e i colleghi della coalizione».

Che messaggio vuole dare ai giovani di Pescara?

«Dico ai miei coetanei di venirmi a trovare in Comune e contattarmi per portarmi le loro idee e i loro progetti. C’è bisogno dell’aiuto di tutti per fare qualcosa di utile. Un’idea che appoggio è la realizzazione di un centro di aggregazione giovanile: un luogo dove incontrarsi e discutere che ancora manca nella nostra città».

Cerca di non pensare al cognome e all’inesperienza Veronica Teodoro, vent’anni, quota rosa della giunta di Marco Alessandrini, ‘fresco’ sindaco di Pescara, cui spetterà un incarico da assessore, scrive Alessandra Renzetti su “Abruzzo Web”. Numerose sono le critiche piovute sulla Teodoro e sulla nuova amministrazione di Pescara. La Teodoro è figlia dell’ ex consigliere comunale del Partito democratico Gianni Teodoro, ed è senza dubbio il peso del cognome che ha scatenato un vespaio di polemiche, ma al neo assessore "poco importa", come lei stessa ha dichiarato. E non solo abbraccerà questa nuova realtà “con la consapevolezza di ricoprire un ruolo di rilievo”, ma affiancherà alla politica anche lo studio, "perché il mio sogno è diventare magistrato".

Veronica Teodoro, lei ha 20 anni ed è già diventata assessore. Come si sente?

«Al  momento sono molto emozionata, per me è una nuova realtà, però nello stesso tempo sento di avere una grande responsabilità e quindi cercherò di fare del mio meglio per non deludere nessuno. Anche se non sarà facile, so che non mancheranno le critiche.»

A proposito di critiche…

«È il cognome che porto a creare problemi. Anche se a parer mio non è un buon motivo per giudicare una persona, visto che io e mio padre siamo due persone distinte e separate. Io sono autonoma, voglio dimostrare che sono capace di sviluppare delle mie idee e per fare questo ho bisogno dell’aiuto di tutti.»

Non solo il cognome, anche l’età pesa sul giudizio nei suoi confronti.

«Non credo. Vero, molti mi considerano senza esperienza e sicuramente in una grande realtà come Pescara è importante averne, ma anch’io avrò modo di maturare la mia esperienza e per far ciò ho bisogno dell’aiuto di tutti, come ho già detto.»

Un assessorato implica una grande responsabilità.

«Una grandissima responsabilità, non certo un peso in un momento in cui, talmente è alta la tensione e talmente forte è l’emozione, che devo ancora abituarmi all’idea. È un mondo nuovo per me anche se indirettamente, l’ho già vissuto attraverso mio padre.»

A proposito di suo padre, le sta dando qualche consiglio?

«Mi sprona a lavorare ogni giorno, a fare del mio meglio per realizzare dei grandi progetti e soprattutto mi spinge ad essere sempre una persona onesta e leale.»

Vista l’esperienza da maturare, c’è qualcuno in particolare che ha già individuato come ‘guida’, almeno in questo inizio?

«Sicuramente mi lascerò guidare dai miei colleghi, dal sindaco Alessandrini e da mio padre. E spero anche in un grande aiuto da parte della cittadinanza.»

Oltre alla politica, però, c’è altro nei suoi progetti professionali.

«Studiare per diventare magistrato. È il mio sogno. Sarà dura, ma ci riuscirò.»

MAGISTROPOLI. IN CHE MANI SIAMO. QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Da “Il Giornale”: Sindaco contro agente: "Stavo con sua moglie e mi ha fatto arrestare". Il caso Pescara. Il primo cittadino di Montesilvano: "In cella per ritorsione del capo della Mobile. E il procuratore lo lasciò indagare". Rivelando i boccacceschi retroscena di una guerra di corna e di manette combattuta giudiziariamente (e poi al Csm) in provincia di Pescara, il 22 febbraio sollevammo, increduli, due interrogativi. Il primo: se il marito della vostra amante fosse un poliziotto impegnato a indagare su di voi, a mettervi sotto controllo i telefoni, riuscendo infine pure ad arrestarvi, dormireste sonni tranquilli o nutrireste perplessità sulla genuinità nelle indagini? Il secondo: stando così le cose protestereste con chi, a livello di Procura, coordina questi accertamenti senza porsi il benché minimo problema di una incompatibilità resa evidente dalle trascrizioni delle intercettazioni? Dieci mesi dopo, quegli interrogativi sono deflagrati al processo pescarese di Enzo Cantagallo, sindaco Pd di Montesilvano, finito in manette per corruzione nell’inchiesta Ciclone nel 2006 grazie alle indagini portate avanti dall’allora capo della Squadra mobile, la cui moglie, per l’appunto, era l’amante dell’imputato-sindaco (stando a quel che rivela quest’ultimo in aula). Un antipasto dello tzunami in arrivo si era avuto con la tempesta abbattutasi già sul Csm. L’ex procuratore capo Nicola Trifuoggi, celebre per il fuorionda con Fini contro Berlusconi, disse al sindaco di non preoccuparsi di ciò che oggi sembra invece preoccupare il presidente del collegio chiamato anche a fare luce sulla regolarità dell’indagine portata avanti dal poliziotto e dal pm Gennaro Varone. Dopo aver sentito un funzionario della questura testimoniare sulle «false voci» di una «presunta» relazione tra il sindaco e la moglie del suo ex capo, l’avvocato di Cantagallo è sbottato. E di lì a poco anche il primo cittadino ha deciso di rivelare ciò che per decenza si era ripromesso di tacere. A cominciare dalle pressioni ricevute dal capo della Mobile (e successivamente da altri poliziotti) per promuovere la moglie al vertice dei vigili urbani. Tant’è. Alla fine, «trovandomi accerchiato, seppur a malincuore», Cantagallo fece quella nomina. Di lì a poco, racconta il primo cittadino, con la donna nacque una frequentazione intensa e poi una «relazione corredata da forti sentimenti». I luoghi dei loro appuntamenti erano vari, e «furono oggetto di successive perquisizioni ad opera della Mobile». Così come i «regali costosi e importanti che ricevetti da lei», poi sequestrati dalla Mobile con l’ipotesi che fossero oggetto di corruzione. Secondo il sindaco, le voci della liaison iniziarono a girare, più lettere anonime finirono in questura, nel corso di un interrogatorio un’indagata spiattellò in faccia al capo della Mobile la cruda verità. Cantagallo dice d’aver temuto ritorsioni perché «avevo saputo che mi voleva morto». Insomma, il sindaco decise di sottoporre il caso alle cosiddette «autorità». Il prefetto «mi disse che se le cose stavano così» il poliziotto «non avrebbe dovuto prendere nemmeno un caffè a Montesilvano». Il procuratore capo di Pescara, Nicola Trifuoggi «mi rassicurò dicendomi che avrebbe fatto le sue indagini» ma «al contrario non verificò mai l’esistenza di questo rapporto e al contrario ha più volte dichiarato che il mio era un tentativo di insabbiamento». Un mese dopo il politico finisce dritto in cella avendo precedentemente saputo «che il capo della Mobile aveva inoltrato ben otto richieste di arresto al pm nei miei confronti».  Cornuto l’altro, mazziato lui. 

Bufera a Pescara, storia di corna e di manette diventa guerra tra giudici, da “Il Giornale”. Il sindaco di Montesilvano denunciò che su di lui indagava il marito della sua amante. Non fu ascoltato. Al Csm lo scontro tra il procuratore Trifuoggi e il suo vice Mennini. Se il marito della vostra amante fosse un poliziotto impegnato a indagare su di voi, a mettervi sotto controllo i telefoni, riuscendo infine pure ad arrestarvi, dormireste sonni tranquilli o nutrireste perplessità sulla genuinità delle indagini? E, soprattutto, protestereste con chi, a livello di procura, coordina questi accertamenti senza porsi il problema di una incompatibilità resa evidente dalle trascrizioni delle intercettazioni? A qualche ora dall’inizio di un processo di provincia che si preannuncia scoppiettante, velenosi interrogativi vengono sollevati da amici e colleghi di partito dell’abruzzese Enzo Cantagallo, ex sindaco Pd di Montesilvano, arrestato nell’inchiesta Ciclone che nel 2006 decapitò la giunta locale e che vede 36 persone alla sbarra (lui compreso) per reati collegati all’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. In questa sede non interessa far le pulci a un’inchiesta che sembra predestinata a scontrarsi con l’assenza di prove certe (gli assegni della presunta corruzione di un imprenditore non sono mai stati intascati dal primo cittadino perché finiti altrove, ad altro politico). L’interesse deriva da quanto emerso in sede di Csm, dove questa storiaccia di corna e di manette è stata oggetto di un pruriginoso procedimento disciplinare a carico di un magistrato (Pietro Mennini, ex aggiunto a Pescara, oggi procuratore capo di Chieti) assolto dall’accusa d’aver brigato per favorire il sindaco Cantagallo e il suo capo di gabinetto Lamberto Di Pentima per estromettere il capo della Squadra Mobile (...) «facendosi reiteratamente e insistentemente portatore presso il procuratore di Pescara, Nicola Trifuoggi (quello del clamoroso fuorionda con Gianfranco Fini, ndr) - si leggeva nel capo di imputazione al Csm - di voci e insinuazioni circa una presunta relazione sentimentale esistente tra il sindaco Cantagallo e la consorte di (...). Rappresentava in proposito che la cosa era di dominio pubblico donde la incompatibilità (del capo della Squadra Mobile, ndr) a proseguire l’attività». Come detto tutto ha inizio nel 2006, ma che qualcosa non tornasse in questa telenovela lo si scopre solo il 26 giugno 2010 allorché il quotidiano locale il Centro riporta queste frasi di Cantagallo: «Le centinaia di telefonate fatte col capo di gabinetto sulle indagini in corso erano motivate dal fatto che ero terrorizzato perché le indagini erano svolte dal capo della Squadra Mobile (...). Per questo durante le indagini ho voluto incontrare il procuratore Trifuoggi, il prefetto Lalli e il questore Consiglio per comunicare che non poteva indagare. Finita la fase dell’udienza preliminare, per evitare di minarne la serenità, documenterò per quale motivo sostengo questa tesi». Quella fase è passata, e quel che adesso rischia di venire fuori non è altro che il sequel di quanto parzialmente emerso al «processo» a palazzo dei Marescialli, e di quanto in passato riferito da Cantagallo a proposito delle pressioni per far assumere la moglie del capo della Mobile ricevute - sempre a suo dire - anche dal marito della sua futura amante. «Dopo la mia elezione a sindaco nel giugno 2004 - si lamentò Cantagallo - trovandomi letteralmente accerchiato alla fine optai per l’assunzione». Sempre a dar retta alla sua vecchia versione dei fatti, di lì a poco la contrapposizione con la neo-comandante dei vigili urbani sfociò in una relazione extraconiugale. Almeno fino ad aprile 2006 quando iniziarono a girare lettere anonime, anche in questura. Fu l’inizio della fine. Nel ricordare che «numerose volte il capo della Mobile chiese il mio arresto», Cantagallo ha spesso raccontato di aver provato a rappresentare a questore, prefetto e procuratore capo di Pescara la situazione di incompatibilità di chi indagava sul comune di Montesilvano. «Solo il prefetto concordò che se le cose stavano effettivamente così, il capo della Mobile non avrebbe potuto nemmeno prendere un caffè a Montesilvano». E il procuratore Trifuoggi? «Mi ricevette il 27 settembre, mi ascoltò ma non espresse alcuna valutazione al riguardo». Tant’è che lasciò il poliziotto al suo posto, nonostante lo stesso (è scritto nel dispositivo del Csm) presentò domanda di astensione dopo aver ascoltato quel che gli indagati dicevano, di lui e della consorte, al telefono. Successivamente veleni e sospetti di «intromissioni» nell’inchiesta hanno portato l’attuale procuratore di Chieti a difendersi al Csm. La sua colpa? Aver concordato con Cantagallo e col suo capo di gabinetto della necessità di parlare immediatamente dell’«incompatibilità» al suo diretto superiore. Personalmente, infatti, Mennini aveva anticipato al collega Trifuoggi la visita del sindaco di Montesilvano. È finita che son volati gli stracci fra magistrati e che di tutto questo pastrocchio chiederà ora conto al Guardasigilli un’interrogazione parlamentare. Da oggi ogni giorno è buono per rivelare in aula la verità, tutta la verità, extraconiugale e giudiziaria. Per cominciare occorrerà inquadrare il ruolo della moglie dell’ormai ex capo della mobile di Pescara (trasferito al Nord): sarà testimone della difesa o dell’accusa?

Perseguitata dai magistrati madre malata della deputata Pdl.

L'assurda vicenda dell'anziana mamma del sottosegretario Biancofiore. Indagata per una firma sbagliata, deve lasciare la casa di cura: poi è prosciolta, scrive Gian Marco Chiocci “Il Giornale”. Affetta da Alzheimer con inizio Parkinson (lei). Colpito da ictus celebrale che ne ha paralizzato la parte destra del corpo (lui, il compagno). Indagata e perseguitata la prima, quasi ottant'anni devastati dalla malattia, solo per aver messo la croce sulla casella sbagliata del questionario di accesso alla casa-albergo per anziani Inpdap di Pescara dove peraltro pagava una retta consistente doppia, per lei e per il suo compagno. Umiliato quest'ultimo, per le giornalate dedicate alla sua adorata Giovanna moralmente «colpevole» di essere la mamma della deputata berlusconiana Michaela Biancofiore e per «aver dichiarato il falso» - questa era l'accusa - al fine di accaparrarsi una sistemazione insieme alla sua metà nel centro di riposo abruzzese. Nella domanda di ammissione del giugno 2009, infatti, allorché chiedeva «in qualità di pensionata» di «poter essere ospitata presso la casa albergo di Pescara», tra le caselle denominate «singolarmente» e «unitamente al proprio coniuge», l'anziana malata di Alzheimer ha barrato la seconda perché convivente more uxorio da oltre 20 anni. Ma siccome il vincolo di coniugio è cosa diversa dalla convivenza, apriti cielo, chissà cosa c'è sotto, quale raggiro è stato realizzato tra la povera vecchia, magari la figlia deputata, e i vertici dell'istituto previdenziale. A settembre 2010, sulla scia di una denuncia interna, nell'ufficio giudiziario pescarese noto per mille polemiche (l'ex procuratore capo Trifuoggi è quello del fuorionda antiCav con Fini, del processo flop al sindaco D'Alfonso, dell'incredibile inchiesta su Del Turco) vengono indagati anche il presidente nazionale dell'Inpdap, Paolo Crescimbeni, e il responsabile del Welfare, Alessandro Ciglieri. Dopodiché il fascicolo arriva per competenza a Roma, e qui archiviato su richiesta del pm Paolo Ielo. I giornali abruzzesi e altoatesini si sono particolarmente eccitati («Indagata la mamma di Michaela Biancofiore», «Vedova, ha detto di essere sposata per far accettare il suo nuovo (sic!) compagno», «L'Inps ha avallato le false attestazioni della madre della Biancofiore»). Le motivazioni assolutorie del gup, improntate al buonsenso e alla lettura serena delle carte, si rifanno anche alle prove mediche esibite dall'avvocato Fabio Lattanzi, difensore della donna, dalle quali emergeva che al momento del fatto, la donna «era affetta da demenza di Alzheimer lieve moderato, come da valutazione neuropsicologica peraltro oggetto di aggravamento» come riscontrato da successivi accertamenti «da cui emerge - scrive il gup - che a oggi l'indagata è affetta da Alzheimer in stato grave». Letti gli atti d'indagine, confrontate le perizie di parte e il grave stato di salute della signora Giovanna, il giudice si fa l'idea che non v'è prova alcuna che l'indagata abbia volutamente, scientificamente, fregato il prossimo non avendo «ben compreso» le differenti qualità giuridiche. Ragion per cui «anche tenuto conto delle condizioni di salute e in presenza di deliberazioni Inpdap aventi oggetto analogo a quello in disamina con riferimento ad assegnazioni extra ordinem per situazioni di disagio sociale» il caso va archiviato. La deputata Pdl, oggi sottosegretario con delega alla Pubblica amministrazione e semplificazione, si dice felice e amareggiata al contempo. «Felice per l'esito scontato del procedimento penale nato sulla base di alcune inspiegabili, se non per motivi politici, denunce interne. Amareggiata perché questa vicenda è stata ovviamente amplificata dai giornali ai fini diffamatori della mia famiglia solo perché l'indagata era mia madre. La grancassa mediatica è stata semplicemente uno schifo. Ci sono stati sciacalli e speculatori che per colpire me hanno approfittato di una donna gravemente malata e del suo compagno, altrettanto malato, col quale convive da una vita. Avevano bisogno di respirare aria di mare e si ritrovano tra i monti di Bolzano, vicino casa. Vi sono centinaia di sentenze della Cassazione che equiparano le coppie di fatto a quelle regolarmente sposate. Non darò pace a chi ha infierito, in modo vile, su mia madre». Solo in un Paese che ha definitivamente smarrito il senso delle regole e del diritto, può considerare normale che magistrati della Procura della Repubblica di Pescara, vengano ascoltati dalla Commissione Parlamentare sulla malasanità in Italia".

Del Turco, l’avvocato Caiazza attacca il pool di magistrati di Pescara, scrive Filippo Marfisi su “Abruzzo Quotidiano”. I toni sono forti perché a suo dire si tratto di fatto davvero inusuale, se non unico, nella esperienza forense. A Domenico Caiazza, legale dell’ex governatore Ottaviano Del Turco, l’audizione del pool di magistrati pescaresi dinanzi alla Commissione parlamentare speciale d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale, non è andata proprio giù. Ma come, sostiene il legale in una nota “in quella sede – la Commissione presieduta dal senatore Marino – sono state fatte valutazioni durissime e sprezzanti sulla responsabilità di persone imputate in un processo in corso di svolgimento avanti ad un Collegio giudicante, e dunque ancora assistite dalla presunzione di non colpevolezza, ma come se non bastasse si rendano addirittura giudici della propria indagine, affermando – come fosse un fatto obiettivo ed incontrovertibile- che tanto è ciò “che sta emergendo dal processo”. Si vede che stiamo partecipando a due processi diversi”. Cose che possono accadere per il penalista romano “solo in un Paese che ha definitivamente smarrito il senso delle regole e del diritto, e può considerare normale che magistrati della Procura della Repubblica di Pescara, vengano ascoltati dalla Commissione Parlamentare sulla malasanità in Italia. Noi – aggiunge – abbiamo fino ad oggi assistito ad un processo nel corso del quale la Pubblica Accusa, lungi dal portare in Aula la Polizia Giudiziaria (Guardia di Finanza e NAS) che ha condotto le indagini, perché ne racconti e ne spieghi contenuto e fondatezza, comincia il racconto dalla coda, regalando il proscenio esclusivo ad Angelini ed i suoi cari, per raccontare la loro inverosimile, esilarante e grottesca storia di vittime della camorra guidata dal Presidente Del Turco (mentre la vicina Procura di Chieti ha appena chiesto il rinvio a giudizio di Angelini e famiglia per una bancarotta fraudolenta di oltre 100 milioni di Euro). Noi, e con noi il Tribunale e la pubblica opinione – scrive ancora Caiazza – ancora attendiamo di sentirci raccontare cosa sia stata la cartolarizzazione, quale la differenza tra quella della Giunta Pace e la Giunta del Turco, cosa e quali siano i crediti ‘non performing’ presenti nell’una ma non nell’altra, quali i meccanismi ispettivi adottati dall’una e dall’altra Giunta, quale il ruolo delle cliniche private nella spoliazione delle pubbliche risorse, quali i provvedimenti ‘illeciti’ adottati dalla Giunta Del Turco. Forse sarà perché è difficile raccontare oggi la stessa storia posta a base della decapitazione giudiziaria della Giunta Del Turco, ora che tutti (ma dico proprio: tutti) i provvedimenti giudicati illegittimi dalla Procura Pescarese (e all’epoca, puntualmente anche dal Tar Abruzzo), e indicati dall’Accusa come i capisaldi dell’ordito criminale, sono stati poi – ripeto: tutti – giudicati come legittimi dal Consiglio di Stato e perfino dalla Corte Costituzionale, e dunque regolano tuttora (camorristicamente?) la sanità abruzzese, avendo prodotto formidabili effetti sulla riduzione della spesa sanitaria (legge 20/2006 su controlli ed appropriatezza delle prestazioni; legge 6/2007 sulla revisione della rete ospedaliera; legge 5/2008 sul Piano Sanitario Regionale; legge 32/2007 sull’accreditamento delle strutture sanitarie; e così tutte le delibere di Giunta Del Turco sulla riduzione dei budget). Mentre attendiamo dunque che il processo finalmente inizi dalla testa, e non dalla coda – conclude l’avvocato Caiazza – diamo appuntamento – quanto alla credibilità di Angelini e dei suoi cari – al momento in cui la difesa sarà finalmente chiamata ad articolare le sue prove, che verteranno proprio sulla attendibilità di quei testi tanto cari alla Procura della Repubblica pescarese”.

PESCARA E LA MASSONERIA.

La Massoneria che non ti aspetti. Un reportage di Alessandra Renzetti su “Abruzzo web”.  Ci sono ancora molti dubbi oggi nei confronti della massoneria, forse perché in realtà se ne ha ancora una vecchia concezione storica che la inserisce in un mondo occulto, fatta di simboli e di chissà quali segreti. La Chiesa, poi, non ha di certo favorito la massoneria e l’Italia ha fatto fatica ad accettarla e a conoscerla meglio. Oggi, però, la massoneria sta tentando di ripulirsi delle vecchie teorie e lavorare perché venga accettata come un semplice “circolo culturale” in cui si discute, ci si confronta e si evitano discorsi politici che potrebbero accendere gli animi. Per avere una definizione più concreta di questa realtà, AbruzzoWeb ha intervistato un giovane massone (34 anni) originario della provincia di Pescara, che non vuole si riveli il suo nome; risposte, le sue, che aiutano a comprendere molto di più il concetto di “massoneria moderna”.

Molti non riescono a dare una vera definizione di “massoneria”: che cos’è in realtà e com’è nata? La massoneria in realtà è sempre esistita; la moderna massoneria è nata nel 1717 con la Gran Loggia Blu inglese, da cui partono tutte quante le altre ma la sua origine esoterica si perde nella notte dei tempi: c’è chi fa risalire la sua diffusione al tempo degli Ittiti, chi al tempo delle piramidi egizie; e questa sembra essere l’ipotesi più vera perché gli Egizi sono stati costruttori di piramidi che, però, in seguito sono state sostituite dalle cattedrali, strutture rilevanti nella simbologia massonica. Storicamente parlando, per esempio, la Rivoluzione francese è figlia della massoneria; per essere pratici: all’interno di ogni tempio massonico c’è scritto “liberté égalité fraternité” e sono proprio questi i principi base dei nostri incontri. Oggi la massoneria non è altro che un’associazione culturale composta da un’élite di persone, ma questo ha una spiegazione: gli argomenti e i temi che vengono trattati richiedono un livello culturale piuttosto elevato, motivo per cui, coloro che non sono culturalmente preparati, in genere non si avvicinano a questa realtà. È un luogo che ha un’organizzazione di tipo piramidale dove ci si confronta per crescere e migliorarsi ed è composta da logge, circoscrizioni e il Grande Oriente; la loggia fa capo all’Oriente, ed è il Maestro Venerabile che la coordina.

In che modo si diventa massoni? E quando si è avvicinato alla massoneria? Si diventa massoni quando si è presentati da un altro fratello, questo tecnicamente. Mi sono avvicinato alla massoneria all’età di 16 anni, quando ho iniziato a leggere libri relativi a questa realtà che ho capito essere diversa da quella descritta dall’immaginario collettivo. L’età minima per entrare è di 18 anni, io sono entrato a 26 e ho dunque iniziato a far parte di nuova generazione di massoni, di cui faccio ancora parte ovviamente. L’età media è bassa ora, ma è anche vero che i mezzi d’informazione permettono di avvicinarsi prima alla massoneria, che incuriosisce molto. Ho partecipato alla prima conferenza sulla massoneria a 17 anni a Pescara e il titolo se non ricordo male era “La massoneria nella vita moderna”. Si parlava di come il massone vede il mondo e ciò che lo circonda. Inutile dire che il mio interesse è cresciuto sempre di più e ho deciso che non avrei potuto non farne parte.

All’interno di una Loggia ci sono gradi da rispettare, in che modo vengono stabilite le gerarchie? Ovviamente molte sono le obbedienze presenti in Italia, ma quella di cui parlo io è il “Grande Oriente d’Italia” che conosco da vicino: è stata fondata nel 1805 e si trova a Roma a Villa il Vascello. Iniziamo con il dire che le gerarchie vengono individuate per elezione, qualsiasi scelta all’interno del “gruppo” avviene per votazione proprio perché c’è un grande rispetto dell’equità, ma anche del grado: possono votare solo i maestri, dunque bisogna diventare prima maestri per poter accedere alle votazioni e alle scelte. Dapprima si è apprendisti, poi si è compagni, ma una costante frequenza nel Grande Oriente d’Italia premia con il passaggio al ruolo di maestri, si è sottoposti a un rituale con cui coloro che sono già maestri in un certo senso festeggiano la “maggiore età” del nuovo maestro che finalmente può ricoprire un ruolo nella vita democratica massonica.

Si parla tanto di un principio base che è la democrazia, ma come mai all’interno di questa realtà non ci sono donne? C’è una “simbologia” dietro questa assenza? Sì è proprio così. Non ci sono donne, ma la loro assenza è giustificata con l’esoterismo. La simbologia nella vita massonica è molto importante e spiega molte cose: il simbolismo del Sole è riferibile alla figura maschile, il simbolo della Luna, fertile, è legato alla figura della donna. In realtà non è vero che non esiste una massoneria femminile anzi, all’interno della massoneria “Grande Oriente” esiste un’organizzazione che si chiama “Stelle d’Oriente” e tutte le donne maggiorenni che vogliono posso prendere parte alle attività: è del tutto femminile e lavora parallelamente a quello maschile, cambiano ovviamente solo i simboli ed anche per entrare nel gruppo “Stelle” bisogna essere parenti di qualcuno che è già inserito all’interno o avere rapporti di conoscenza con una sorella massone.

È cambiata la massoneria nel corso della storia? Se sì, in cosa? In realtà la massoneria moderna è cambiata poco nei princìpi, ma tanto nel modo di rapportarsi alla società. Oggi c’è una maggiore apertura verso l’esterno, ma non basta; se ne parla molto di più e con l’arrivo del Grande Maestro Gustavo Raffi, che ha fatto opera di comunicazione si è riusciti anche a eliminare i preconcetti falsi del passato. Noi per esempio siamo legati a un pensiero base, “tutto ciò che non si conosce non va temuto”, dunque probabilmente la massoneria in passato faceva paura proprio perché era meno nota. Da sempre la promessa massonica pone le leggi dello Stato al di sopra di tutto e nella nostra epoca sicuramente si basa molto di più su concetti filosofici ed è meno attiva rispetto al passato.

Si è parlato di simbologia, di esoterismo e di filosofia, ma qual è il rapporta tra la massoneria e la Chiesa? E qual è per esempio il vostro concetto di “divinità”? Questa è una domanda interessante soprattutto perché ha una premessa importante a monte: per entrare in un gruppo massonico bisogna credere in una divinità che può essere una divinità qualsiasi; democraticamente questa divinità che può essere anche diversa per ognuno di noi e viene chiamata “Grande Architetto dell’Universo”, è sicuramente un concetto molto generico ma abbraccia tutti i credi. All’interno del tempio si dice che è vietato parlare di politica e religione proprio per evitare dissidi tra fratelli che hanno convinzioni personali. Il massone ha un credo è che è alla base di una ricerca, ossia del miglioramento del sé, infatti è molto importante l’idea secondo cui “migliorando se stessi si migliora il mondo”. Chi entra in questo mondo deve fare un cammino e deve lavorare parecchio su se stesso. Non è un caso se all’interno del tempio c’è un muro definito “incompiuto” proprio perché non è finito e tale muro deve ricordare ad ognuno di noi che il lavoro sul “sé” dev’essere portato a termine.

Il rapporto tra massoneria e Chiesa è da sempre molto complesso, quest’ultima ha sempre accusato la massoneria che rivendica il libero pensiero. Il massone è l’uomo del dubbio quindi la Chiesa, che è dogmatica, di sicuro non è d’accordo con la massoneria e in alcuni casi, durante la storia, ha cercato anche di combatterla: il massone è l’uomo del discutibile, deve esserlo sempre e deve essere sempre alla ricerca di verità, ma deve cercare da solo, mai farsi aiutare o accogliere suggerimenti. La massoneria moderna s’ispira particolarmente a Giordano Bruno: non dimentichiamo che il “mea culpa” di Giovanni Paolo II chiede scusa per tutti i crimini compiuti dalla Chiesa tranne che per il processo e la sentenza a Giordano Bruno, considerato l’eretico per eccellenza.

Pensa che la massoneria subirà altri cambiamenti nel corso della storia? Difficile rispondere, soprattutto perché la massoneria cambia parallelamente alla società, è uno spaccato della società quindi se cambiano gli uomini cambia anch’essa. In questo momento in Italia stiamo lavorando molto per concederle un’apertura mentale maggiore in merito all’argomento: Paesi come Inghilterra, Francia, Usa non hanno paura di parlare liberamente di questo argomento, in quei Paesi le sedi massoniche sono tranquillamente indicate con cartelli stradali, mentre in Italia siamo ancora soggetti all’anonimato e forse il problema è proprio la Chiesa.

A proposito di questa lenta emancipazione che interessa la massoneria in Italia, è possibile che nel nostro Paese aleggi una sorta di razzismo ideologico? Personalmente non credo si tratti di razzismo ma semplicemente di poca conoscenza, figlia di un retaggio culturale italiano che ha sempre navigato contro. “In primis” la Chiesa, come già detto, l’ha avversata, quindi penso che sia normale che abbia difficoltà nell’essere compresa; poi non bisogna dimenticare che durante il fascismo fu vietata, la libertà di certo non era ben vista in quel periodo. C’è stato un altro grande limite imposto alla massoneria dallo scandalo della “Loggia P2” che ha fatto i suoi danni, purtroppo infangando il nome della pura massoneria, però poi è stata chiusa ed abbattuta.

Che c’è da chiarire su quella vicenda? P sta per “propaganda”, “2” è il numero della loggia, che è seconda, perché appunto fondata in seguito per dare la possibilità a quei fratelli massoni che non potevano vivere la vita massonica normalmente in quanto avevano impegni di vita quotidiana, dunque si trattava di una loggia trasversale; quando questa loggia si è accresciuta anche molti personaggi noti e importanti hanno iniziato a frequentarla vista la grande tolleranza, e l’allora Grande Maestro Licio Gelli ha cominciato a operare in autonomia senza rispettare le effettive regole del Grande Oriente: diventata insostenibile la situazione sono stati tutti espulsi, e le colonne del tempio sono state abbattute. Sicuramente si trattava di una Loggia deviata perché non ha operato in modo regolare. Mi viene da paragonare la P2 impazzita come la Uno Bianca della Polizia dove le persone abusano del proprio potere solo per scopo personale, certo questo non li etichetta come assassini ma nel fare ciò che vogliono pensano di poter essere al di sopra di tutti, non rispettando nel caso della massoneria, i propri fratelli.

“Grande Oriente d’Italia”: che cos’è in realtà? Come avvengono gli incontri? Posso rispondere solo per conto mio, non posso parlare degli altri massoni perché una delle prime regole è proprio il silenzio, non a caso non posso fare il nome di chi mi ha presentato come apprendista all’interno della Loggia però posso fornire notizie in più su questo “circolo di discussioni” . Tutte le massonerie sono definite “Grandi”, il termine “Oriente” però significa “obbedienza” e non è difficile capire perché in base a quanto detto in questa intervista. La prima è stata la Loggia Ausonia di Torino, sorta nel 1805, al momento però ce ne sono più di mille con più di 20 mila iscritti. Tra i grandi nomi storici che ne hanno fatto parte ci sono Garibaldi, D’Annunzio, Totò, che ha addirittura scritto “La Livella” di carattere massonico ed esoterico; la livella, di per sé, è un simbolo massonico proprio perché mette tutto sullo stesso livello. Durante i nostri incontri il Maestro Venerabile sceglie un tema di discussione e incarica un fratello di scolpire una tavola sul tema che è stato scelto; dà poi il via alla discussione e ognuno porterà il suo “mattone” per la costruzione del tempio che è il tempio, appunto, della conoscenza di se stessi e di ciò che siamo. Il simbolismo che tanto ha spaventato nel corso del tempo non è altro che identificazione storica e non s’identifica con nulla di arcano.

PESCARA E LA MAFIA.

MAFIA, L’ABRUZZO TREDICIESIMA REGIONE IN ITALIA.

L’Abruzzo, con un indice pari a 0,74, si posiziona al 13esimo posto della classifica nazionale per presenza mafiosa, scrive “Il Centro”. Sul podio vi sono Campania, Calabria e Sicilia, rispettivamente con 61,21, 41,76, 31,80. È quanto emerge dal rapporto «Gli investimenti delle mafie» realizzato dal centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.  L’Abruzzo, con un indice pari a 0,74, si posiziona al 13esimo posto della classifica nazionale per presenza mafiosa. Sul podio vi sono Campania, Calabria e Sicilia, rispettivamente con 61,21, 41,76, 31,80. È quanto emerge dal rapporto «Gli investimenti delle mafie» realizzato dal centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano per il Ministero dell’Interno e presentato a Milano. L’Abruzzo, rileva l’indagine, è una di quelle regioni, al di fuori dei territori a tradizionale presenza mafiosa, in cui si registra la rilevante presenza di un solo tipo di organizzazione, ovvero la Camorra, pari all’80,6% del totale. Seguono Cosa Nostra (8,9%), Ndrangheta (6,1%) e Sacra Corona Unita 4,5%. Analizzando le mappe presenti nel rapporto si evince che in Abruzzo vi sono alcune delle poche “isole felici” presenti in Italia, ovvero alcune aree delle province di Pescara e Chieti in cui la presenza delle mafie è nulla. Le attività illegali, in Abruzzo, registrano ricavi medi pari a 524 milioni di euro: spiccano lo sfruttamento sessuale, che va da un minimo di 47 ad un massimo di 212 milioni di euro, e le droghe (minimo 93 milioni, massimo 195 milioni). In particolare, i ricavi illegali della Camorra vanno da un minimo di 82 ad un massimo di 130 milioni di euro. Il volume d’affari del gioco d’azzardo si attesta tra i due e i tre milioni di euro. Rilevante anche il fenomeno dell’usura, con 9.790 famiglie coinvolte nel 2010 e ricavi annui pari a 72 milioni di euro.

Il rischio di presenza delle mafie in Abruzzo, generalmente basso nelle diverse aree della regione - si evince ancora dal rapporto -, diventa medio in alcune aree dell’Aquilano e del Teramano. Il rischio di infiltrazioni mafiose nell’economia ed in particolare nel settore delle costruzioni è medio-alto in tutta la regione.

Un film-documentario di Giuseppe Caporale, "Colpa Nostra", ci spiega quanto sia insita in ognuno di noi la responsabilità di quanto succede in una terra che, anzichè essere isola felice, è terra di scandali ed inchieste giudiziarie. La cronaca ci parla dell’ennesimo arresto eccellente in Abruzzo. Si tratterebbe di una delle più  grosse inchieste sui rifiuti mai fatta in Italia, quella che ha portato agli arresti domiciliari per corruzione, peculato ed abuso d'ufficio, l'assessore alla Sanità della Regione Abruzzo, Lanfranco Venturoni. L’Abruzzo un piccolo fazzoletto di terra con un milione di abitanti una piccola regione dell’Italia centromeridionale vien da sempre elargita come una terra di persone forti e gentili. E un susseguirsi di scandali che hanno portato nelle patrie galere anche intere giunte e si nello sport siamo lontani anni luce dalle metropoli, ma se dovessimo giocare a tangentopoli o clientopoli ce la giocheremmo alla pari. Anzi potremmo vincere. La mente mi riporta a rileggere una nota testata giornalistica dei tempi di tangentopoli (“il piano regolatore è roba nostra” l’Abruzzo si scopre come Milano – una regione sotto inchiesta -). Così venne scoperchiato il vaso di PANDORA nella nostra terra. In quella occasione vennero arrestati 100 politici dell’allora politica di casa nostra.

Ecco alcune delle storie di allora. Da elicotteri dello Stato usati a fini personali; violazione sulla legge sul finanziamento dei partiti; pagato cene elettorali in un momento proibito dalla legge. Come poi non scordarsi la notte di San Michele, alla fine di settembre, l'intera giunta regionale, compreso il presidente, finisce in carcere perché i fondi della Cee sono stati dati agli amici degli amici, invece che assegnati secondo graduatoria. Ad Avezzano, il sindaco, oltrepassa la soglia di un penitenziario (con alcuni assessori) per una lunga storia di tangenti. A Chieti, la giunta comunale venne decapitata dai giudici, perché una scuola elementare, pagata quasi due miliardi, è stata costruita a metà. Il racconto potrebbe continuare sino a Pescara, passando per Teramo, deviando per Lanciano. E' un racconto non diverso da tanti altri che stanno macchiando la nostra terra già martoriata. La gente è sconcertata, non ha più fiducia nelle istituzioni, negli uomini a cui aveva dato il voto. Un giovane laureato di Chieti confessa: "C'è un particolare emblematico: un ex assessore della Dc, arrestato in uno dei tanti blitz dei carabinieri, era anche l' avvocato difensore di altri assessori regionali a loro volta inquisiti. In quell’anno la giustizia non ha più guardato in faccia nessuno da quando, in primavera, venne divulgata una cassetta con una registrazione sconvolgente. Si sentiva al telefono la voce di un consigliere comunale aquilano, il quale parlava con un conoscente. Gli veniva chiesto il cambio di destinazione di un terreno. "Non ti preoccupare . rispondeva . il piano regolatore è roba nostra, di Dc e Psi. Lo dirò a Domenico e tutto sarà risolto. Però, capisci, la campagna elettorale costa, i soldi non bastano mai...". Quarantacinque milioni, insomma, che dopo 8 mesi portano il consigliere in galera. E' la prima goccia di un vaso che sta per traboccare. Come lo era stata, qualche mese avanti, la storia degli elicotteri dei pompieri e della Forestale usati dall' ex ministro Gaspari per andare a una partita di pallone e ad una festa di paese. Ma è a settembre che l'aria diventa irrespirabile. All'Aquila, vive un giovane magistrato, con la carica e la vitalità del collega lombardo Di Pietro. Si chiama Fabrizio Tragnone e, in un baleno, dopo aver valutato la denuncia di un professionista, l'ingegner Francesco Mannella, spedisce in carcere l'intera giunta regionale (Dc, Psi e un liberale). Mannella voleva costruire un albergo al suo paesello, Ateleta, dove non esiste nemmeno una pensione. Mannella fa domanda per ottenere i fondi della Cee (denominati Pop), ma il danaro non arriva. Va alla Regione a chiedere spiegazioni e gli impiegati rimangono sul vago. Allora, spinge a fondo. "Voglio vedere l'elenco dei fortunati", dice. La situazione diventa confusa, progetti meno interessanti dei suoi sono stati promossi; il suo, bocciato. Perchè? "Posso usare il telefono?", domanda ad un commesso. "Certo", replica l'addetto. Il professionista chiama i carabinieri, racconta tutto, e 4 giorni più tardi il blitz dei carabinieri fa piazza pulita del governo regionale. Nella rete finiscono tutti, anche il presidente della giunta. I consiglieri inquisiti sono 21 su 40, la crisi politica dura a lungo, finchè non si risolve con una soluzione cha lascia di stucco la maggioranza dell'opinione pubblica. Al vertice della nuova giunta c'è un "indagato" per i fondi Pop, mentre sulla poltrona di presidente del consiglio siede un "toccato" dalla stessa vicenda. Ormai, la "mani pulite" abruzzese non conosce ostacoli: da clientopoli si tramuta in tangentopoli. Nell'occhio del ciclone finiscono Avezzano, Teramo, Pescara, Chieti. Ad Avezzano, le mazzette sporcano pure un incontro di boxe che ha per protagonista il campione del mondo Francesco Rosi. Si indaga su una tangente che si sarebbero divisi l'organizzatore e un assessore. Usl, licenze commerciali, detersivi d'oro, discariche, terminal di autolinee, gestione di acquedotti: i fronti giudiziari si moltiplicano a vista d'occhio. Per poi finire nelle vicende dei giorni nostri sanitopoli, fira, etc.

Dossier Abruzzo di Alessio Magro su “Altra Benevento”. Un lavoro da tempo studiato che riteniamo opportuno pubblicare proprio ora che la ricostruzione nell’aquilano, dopo il forte sisma che ha colpito la zona, aprirà sicuramente importanti sbocchi per le infiltrazioni mafiose negli appalti. La criminalità organizzata, da anni ormai attiva sia nella Marsica che sulle coste abruzzesi, è sicuramente interessata a non perdere una fonte sicura di guadagno. Il dossier descrive una infiltrazione silenziosa ma profonda, in un tessuto divenuto crocevia del riciclaggio e del reinvestimento dei proventi illeciti, ed è un monito per non sottovalutare la pervasività delle mafie, soprattutto in questo lacerante frangente storico. Quella dell’Abruzzo criminale è la storia di una negazione. È La storia di un’isola felice che isola felice non è, da tempo. O forse lo è, ma solo per le mafie. Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, ma anche le organizzazioni straniere (quelle albanese e cinese in testa) si muovono tra i monti della Marsica e sulla costa da diversi anni. Fanno affari, si infiltrano nell’economia, mettono le mani sugli appalti, costruiscono basi operative per latitanti e per i traffici di droga. Capitali da riciclare, investiti in aziende e immobili (sono ormai 25 i beni confiscati alle mafie nella regione, in ben 15 comuni e in tutte e quattro le province). E ancora la tratta delle bianche, la prostituzione di strada e quella nei locali della costa, l’usura e le estorsioni. L’Abruzzo è la regione dei parchi, è il cuore verde d’Europa, ma è anche terra di ecomafie, che sversano rifiuti tossici nelle lande inabitate della regione. Una regione malata di corruzione: dalla Tangentoli degli anni 90 agli scandali recenti, dai provvedimenti giudiziari che hanno colpito la giunta regionale nel 1992 all’arresto del governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco.

Infiltrazione e sottovalutazione. Quella dell’Abruzzo criminale è una storia di sottovalutazioni. Di continue e insistenti dichiarazioni di estraneità, anche di fronte all’evidenza dei fatti. Le mafie in Abruzzo non ci sono, e se ci sono vengono dall’esterno. Criminali meridionali oppure stranieri. Criminali di passaggio. Una visione intanto riduttiva: le famiglie meridionali emigrate abitano ormai da decenni nella regione del Gran Sasso, africani e slavi hanno messo ormai radici, così come le frange criminali al loro seguito. Non passano affatto, restano. Ed è una visione pseudo-antropologica al confine con il razzismo culturale: come se mafia e criminalità fossero insite nel dna di alcuni popoli, di alcune razze o di certi tipi di italiani. Una visione che impregna le dichiarazioni di politici, amministratori e troppo spesso operatori della giustizia. Ogni banda sgominata è una malattia debellata, in una società sana. Ogni inchiesta è la reazione di un corpo sano e non il sintomo di una patologia. Eppure l’omertà, a detta di chi opera sul campo, è regola anche tra gli abruzzesi. Una visione che è un esempio classico di rimozione: la commissione parlamentare antimafia visitò nel ’93 l’isola felice – all’indomani della bufera giudiziaria del ’92 (nove arrestati su undici componenti della giunta regionale) e di una serie impressionante di inchieste su politica-mafia-massoneria – lasciando ai posteri un dossier al vetriolo. È la relazione Smuraglia, sintesi del viaggio nelle regioni a “non tradizionale insediamento mafioso”. Conclusioni: in Abruzzo, così come nel resto dell’Italia centrale e settentrionale, le cosche sono presenti, radicate, potenti e attivissime. Molto più sul versante economico che su quello del controllo del territorio. Ma non per questo meno pericolose. Già da allora, più di 15 anni fa, era chiaro che la partita contro le mafie si sarebbe combattuta sul fronte del riciclaggio. È tutto scritto: le isole felici non esistono. Lettera morta. Perché ancora oggi il discorso attorno alle presenze mafiose trova resistenze, negazioni, riduzionismi, spesso nascosti dietro la sacrosanta esigenza di non creare allarmismo e non cavalcare l’onda del sensazionalismo. Criminali d’altrove, si dice troppo spesso. Eppure la malavita abruzzese è ormai organicamente inserita in contesti mafiosi tradizionali (vedi estorsioni, gioco d’azzardo, prostituzione e droga tra Pescara, Teramo e Chieti). E soprattutto ci sono un certo ceto politico-amministrativo e una certa imprenditoria che flirta, a dir poco, con le mafie ad altissimi livelli. Non hanno la coppola e la lupara, non sparano, ma riciclano i milioni del narcotraffico, corrompono, pilotano gli appalti, truffano, devastano il territorio, inquinano l’economia, investono in immobili e capannoni, avviano società finanziarie. Giacca, cravatta e colletto sporco. Ma non ci sono solo le mafie d’alto bordo. Le inchieste Histonium nel vastese, i dati sull’usura e sul racket ci parlano di una regione avviata da tempo verso una dimensione mafiosa classica, col controllo del territorio e il consenso della paura. L’Abruzzo non è di certo la Calabria o la Campania, non è la Sicilia, non è la Puglia (non ancora), ma non è nemmeno la Svizzera. Il 10% dei commercianti paga il pizzo, una percentuale da allarme arancione. E Pescara è la capitale dell’usura, prima città in Italia secondo tutti gli indicatori di rischio. Avviso ai naviganti: l’usura non è più, da decenni, roba da cravattari. Dietro lo strozzino ci sono le mafie. Sempre.

Un fenomeno di importazione. È innegabile che il fenomeno mafie in Abruzzo sia comunque un fenomeno d’importazione. Ad aprire le porte, però, è stata proprio la Giustizia, con un’infelice gestione dei soggiorni obbligati: decine di boss e affiliati meridionali inviati al confino sui monti e sulla costa. Una pratica dalle conseguenze nefaste in tutta l’Italia centro-settentrionale. Ecco che l’Abruzzo ha visto l’espandersi di cellule criminali, schegge dei clan pronte a trapiantare i traffici illeciti coltivati al Sud. Reti di fiancheggiatori che hanno favorito nel tempo la pratica del riciclaggio, degli investimenti legali di capitali mafiosi, ma anche l’organizzazione di basi per latitanti e scissionisti in fuga dalle guerre di mafia. Gli affari col tempo sono evoluti, spesso le diverse mafie hanno trovato l’accordo basato sul guadagno, nella loro isola abruzzese, felice e pacificata. In un certo senso però le mafie ci sono sempre state: l’Abruzzo ha un fenomeno peculiare, la presenza atavica di famiglie rom (“nomadi stanziali” è la definizione ossimoro che si legge nelle relazioni ufficiali) dedite ad attività criminali. Hanno in mano la partita dell’usura e lo spaccio al dettaglio della droga. Famiglie come quella dei Di Rocco che siedono ormai al tavolo nazionale delle cosche, trattando a testa alta coi calabresi, i camorristi e i siciliani, ma anche con gli slavi. La rotta balcanica, i porti dell’Adriatico, i clan albanesi in contatto con la cupola slava. Sono gli ingredienti che fanno dell’Abruzzo un crocevia dei grandi traffici di cocaina, ma anche di eroina. Il consumo di stupefacenti è elevatissimo (l’Abruzzo è tra le prime regioni per sequestri e denunce legati all’eroina), una piazza di spaccio tra le principali. Nell’ultimo decennio, diverse grandi inchieste hanno coinvolto i monti del Gran Sasso e la costa, operazioni che rimandano a traffici intercontinentali (con gli Usa, con la Colombia, con la Turchia e la Bulgaria, oltre che con i Balcani). E alle porte di Pescara è stata scoperta una delle più grandi raffinerie di polvere bianca presenti in Europa.

Mafie straniere, ecomafie, corruzione. Droga e prostituzione sono le attività principali delle mafie straniere in Abruzzo. Sono gli albanesi a gestire i grandi traffici (adesso con un preoccupante asse slavi-campani). E a promuovere la tratta e la prostituzione. In strada, ma anche nei locali notturni della costa. Una pratica redditizia, sfruttata in proprio anche dai rumeni e dai cinesi. Il pericolo giallo è la vera emergenza: nella regione è presente una delle comunità asiatiche più strutturate. Una presenza che si accompagna all’emergere di clan mafiosi agguerriti e misteriosi (vedi operazione Piramide a Pescara). E c’è il pericolo russo, quei grandi faccendieri che fanno affari come al monopoli. L’isola verde è preda delle ecomafie. Tonnellate di rifiuti tossici scaricati abusivamente, discariche illegali, cave riempite di ogni cosa, un po’ ovunque. Caso eclatante è quello di Bussi sul Tirino, una delle discariche più grandi d’Europa. E poi c’è la mala amministrazione, i fiumi inquinati e i mari contaminati, il turismo che arranca, con sullo sfondo tanti, troppi casi di corruzione, di appalti sospetti. Corruzione dilagante, endemica. Legami tra politica, amministrazione, mafie e massoneria. Intrecci perversi, trame occulte e intricate che spesso hanno l’Abruzzo come scenario. Dall’inchiestona sull’autoparco milanese di cosa nostra a Tangentopoli negli anni 90, dalle tangentine locali fino alle presunte tangenti che avrebbero intascato Del Turco e il sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso. Ma è appunto sul fronte del riciclaggio e degli appalti che si gioca la partita. Grandi capitali di provenienza sospetta, investimenti abnormi, commesse e gare con diverse ombre. Una storia ancora da raccontare quella della lavanderia Abruzzo. Una storia che di recente ha un primo punto fermo: il tesoro di Ciancimino, ex sindaco e boss di Palermo, sarebbe stato custodito e fatto fruttare proprio nella Marsica, attraverso società e prestanome. Una storia venuta a galla grazie all’impegno di Libera Marsica e alle inchieste puntuali di organi di informazione dal basso come Site.it e Primadanoi.it. Una storia ancora da raccontare, ma soprattutto da indagare.

La mala locale e la mala d’importazione. Il quadro dell’Abruzzo criminale ha tre elementi peculiari che ne hanno caratterizzato lo sviluppo: la presenza di reti neofasciste e criminali legate alla banda della Magliana, la capillare presenza di potenti famiglie rom dedite ad attività illecite, il numero elevatissimo di soggiornanti obbligati spediti nella regione negli ultimi decenni.

I banditi della Magliana. È l’abruzzese Tony Chicchiarelli, il famigerato falsario, il legame tra la banda di Enrico Nicoletti e la realtà criminale della regione. Il documento apocrifo con il quale si annunciò la morte di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse, passato alla storia come il falso comunicato numero sette del Lago della Duchessa, fu realizzato appunto da Chicchiarelli. Storie di eversione fascista, di manovre dei servizi deviati, di manovalanza criminale, massoneria e mafia. Con l’Abruzzo a fare da sfondo ad alcuni capitoli di queste vicende dagli intrecci oscuri e intricati. Perché quel Lago si trova in provincia di Rieti, a pochi chilometri dalla provincia de L’Aquila. Zone dove i neofascisti tenevano i loro campi di addestramento. Zone dove latitanti e miliziani trovavano una rete di fiancheggiatori per le loro azioni. La banda della Magliana, educata alla scuola della Cosa nostra di Pippo Calò e della ‘ndrangheta di don Mommo Piromalli, ha esteso nel tempo la propria azione in Abruzzo: estorsioni, riciclaggio, usura. Attività che quel che resta della banda ha proseguito fino ad oggi. Una buona notizia: le case abruzzesi sequestrate ad Aldo De Benedittis ed Enrico Nicoletti diventeranno presto delle scuole.

Gli “zingari”. Che le mafie in Abruzzo siano un fenomeno di importazione è innegabile. Anche se le famiglie rom sono attive da sempre. Una presenza che si fa sentire: racket, traffici di droga, usura. E che viene rilevata anche dagli indicatori statistici: Pescara, L’Aquila e Chieti sono ai primi posti nelle classifiche della penetrazione criminale, zone dove tradizionalmente operano le famiglie “zingare”. Si tratta di organizzazioni assimilabili a quelle mafiose: il vincolo associativo, il controllo del territorio, i collegamenti con le altre organizzazioni criminali. A farla da padrone sono le famiglie Spinelli ma soprattutto Di Rocco, ormai una organizzazione affermata a livello regionale, collegata ai camorristi del clan “Aquino-Annunziata” di Boscoreale (Na). Famiglie che negli ultimi anni invadono nuovi terreni, colonizzando il vicino Molise.

Il confino. Come nelle altre regioni del Centro e del Nord, la pratica infelice dei soggiorni obbligati ha dato il la alla colonizzazione mafiosa. Diverse famiglie siciliane, calabresi, campane e poi pugliesi hanno potuto utilizzare basi d’appoggio in Abruzzo, anche grazie alla presenza di affiliati, o addirittura boss, confinati lontano da casa. Basi per i traffici, ma anche per le operazioni “legali”, gli investimenti economici, in una parola il riciclaggio. Un esempio: il boss della ‘ndrangheta Michele Pasqualone ha svernato in Abruzzo, mettendo in piedi nel corso degli anni una cosca dedita alle estorsioni e all’usura (operazione Histonium, 2008).

Il picciotto Gabriellino. La storia di Fioravante Palestini è come un romanzo criminale. Fioravante è un ragazzone di due metri per cento chili. Diventa famoso tra i 70 e gli 80: è l’icona della Plasmon, il forzuto che figura nella pubblicità della casa di biscotti. Soprattutto diventa un graduato del crimine. Fioravante, per tutti “Gabriellino”, è uno a cui piace fare la bella vita e menare le mani. A Teramo conosce l’insolito ospite fisso di un albergo. Gaspare Mutolo da Palermo vive lì, residenza da confinato. Il boss di Cosa nostra si muove in Ferrari, continua a frequentare la Sicilia con spostamenti lampo. L’attrazione è fatale. E così Gabriellino, arruolato nell’esercito della mafia, finisce nei guai, grossi guai. Tornerà a casa, a Giulianova, solo dopo venti anni di carcere egiziano. Nell’83 è a bordo di un mercantile greco sul canale di Suez, con gli occhi fissi sul carico di 230 chili di eroina e 25 di morfina base destinato alla mafia. Venti anni per traffico internazionale di droga. Gabriellino non ha mai parlato. Parlano i fatti: l’Abruzzo è da decenni il crocevia di grandi traffici di stupefacenti, è una delle principali piazze di spaccio in mano alle mafie di tutti i tipi. L’isola dei pentiti. L’Abruzzo è anche la terra dei collaboratori di giustizia. Lì vengono spediti, in tantissimi, per vivere sotto falsa identità. Forse un po’ troppi. E spesso nemmeno in gran segreto. C’è Carmelo Mutoli, palermitano, genero del bosso della Noce Francesco Scaglione, tra i testi dell’accusa nel processo per la strage di Capaci. Collabora dal ’94, ma nel ’95 non viene ammesso in via definitiva al programma speciale di protezione, e viene pubblicamente invitato a lasciare la propria casa abruzzese. Ne arriveranno molti altri. Tanto che nel 2000 a l’Aquila c’è un corto circuito. In aprile si suicida Giuseppe Arena, di Taurianova. Pochi giorni dopo Antonio Maletesta, anch’egli collaboratore di stanza in Abruzzo, è protagonista di una sparatoria. C’è anche Bruno Piccolo, il pentito dell’affaire Fortugno, che vive a Chieti sotto falso nome, prima del suicidio alla vigilia del secondo anniversario dell’omicidio, nel 2007.

Zona franca. In Abruzzo ci vanno anche per sfuggire ai guai. Nel ’90, mentre a Reggio Calabria impazza ancora la guerra di mafia, scatta un blitz che porta in cella una trentina di ‘ndranghetisti. Cinque affiliati alla cosca Rosmini – del cartello guidato da Giuseppe Condello, il Supremo, che risulterà vincente – vengono arrestati a Montesilvano, ospiti da parenti. Gestivano insieme alcune attività commerciali nella zona. Anche Giovanni Spera, figlio del boss siciliano Benedetto Spera di Belmonte Mezzagno, si trasferisce in Abruzzo, nel ’94, per sfuggire ai regolamenti di conto in atto nella sua terra. E si mette al lavoro, riciclando e investendo. Nel 2008 gli porteranno via i beni accumulati.

Ai pugliesi piacciono i monti. I mafiosi della Sacra corona unita scelgono l’Abruzzo per il soggiorno obbligato. E per le latitanze. Nel ’96 finiscono in cella due affiliati alla Scu. I carabinieri li prendono a L’Aquila, mentre danno la caccia al superlatitante Antonio Bruno, di Torre Santa Susanna (Brindisi). Il boss della mala pugliese è riuscito a sfuggire a cento militari impegnati sul campo. Bruno era tra i collaboratori nel maxiprocesso alla Scu, prima della fuga rocambolesca nel ’93 e la successiva ritrattazione via missiva. Anche Andrea Russo, nel listino dei 100 più pericolosi, affiliato ai Piaulli-Ferraro di Cerignola, viene preso nel luglio del 2007.

‘O sistema, in trasferta. Nel febbraio del ’92 Enrico Maisto viene ucciso a Popoli (Pescara). Originario di Giugliano, era un boss della camorra, affiliato ai Nuvoletta. Una conclusione tragica. A tanti altri campani, ai quali pare non dispiaccia l’Abruzzo, è andata un po’ meno male. Attorno al 2006 cadono nella rete due pericolosi camorristi alla macchia: sono Nicola Del Villano, braccio destro del boss casalese Michele Zagarioa, e Giuseppe Sirico, della famiglia di Nola-Marigliano. Anche il boss Lorenzo Cozzolino è catturato, nel 2008 nella zona del vastese.

Dagli anni ’80 a Corruttopoli. Quella dell’Abruzzo criminale è la storia di una rimozione. Il pendolo degli allarmi e dei negazionismi oscilla pericolosamente, fino in tempi recenti. Ancora nell’84, la mafia è solo quella del cinema, quella del film “Tragedia a New York” di Gianni Manera, che fu girato anche da quelle parti. Negli 80 le relazioni di inaugurazione degli anni giudiziari regalano commenti ottimistici: “esente dalla criminalità organizzata”, “isola felice”, “non a rischio”. Così anche le analisi degli investigatori, dei politici, degli esperti. Non tutti. Si parla solo di fattarelli, di droga, prostituzione, microcriminalità, sempre in un’accezione individualistica: 4mila tossicomani (nel ’91) o diverse centinaia di prostitute non sono il risultato di traffici organizzati, ma sono solo migliaia di storie, singoli casi umani o scocciature, dipende dal punto di vista.

L’allarme attentato a Falcone. Anche quando qualcosa accade è vissuto come un evento esterno, come al cinema: ecco che l’allarme attentato che coinvolge niente meno che Giovanni Falcone è solo un episodio. Siamo nell’89, il 19 luglio (coincidenza macabra) il giudice palermitano arriva in elicottero al carcere di Vasto per interrogare Gaetano Grado, cugino di Totuccio Contorno, arrestato pochi mesi prima. Durante i controlli nella zona vengono ritrovate in un casolare munizioni da guerra, 200 proiettili per carabine di precisione, pallettoni caricati a lupara, pistole lanciarazzi, forse da utilizzare per un agguato. Il periodo è caldissimo: qualche settimana prima, il 20 giugno, va in scena il fallito attentato dell’Addaura. La riservatezza sugli spostamenti del giudice è massima. Ma il suo arrivo è preceduto da telefonate minatorie al carcere. Talpe a parte, nessuno si chiede come sia possibile approntare un arsenale a 700 metri da un carcere di massima sicurezza in una regione che si vuole esente da infiltrazioni mafiose.

Il market del tritolo. Un parallelo: dopo diversi anni, nel ’96, a Tagliacozzo spunta fuori un deposito di esplosivo, con sei quintali di tritolo e 1500 detonatori. Un carico proveniente dall’Est, probabilmente destinato a rifornire le mafie. Quando c’è l’offerta, di solito, vuol dire che la domanda c’è.

1991, suona la campana. Nel nuovo decennio qualcosa cambia. Sullo sfondo si fa largo la consapevolezza di una presenza che diventa sempre più ingombrante, si lanciano ripetuti allarmi, sugli appalti, sulla corruzione. C’è ancora il Pci quando si parla a viso aperto di presenze mafiose (e non di pericolo virtuale) nel Parco Nazionale. Cominciano a circolare i risultati investigativi portati avanti dall’alto commissario antimafia Domenico Sica: dubbi su alcune società finanziarie, crescenti segnalazioni di estorsioni e aumento del numero di attentanti a fine estorsivo. I sintomi ci sono tutti. Nella seconda metà del ’91 il velo è squarciato. Arrivano prese di posizione durissime. E poco dopo il finimondo. Stampa e propaganda. In agosto un dirigente pescarese dell’Arci subisce un’intimidazione. Secondo il segretario regionale Victor Matteucci si tratta di una ritorsione per l’avvio di una raccolta di firme “Contro le infiltrazioni della mafia negli organi di informazione abruzzese”. Una denuncia pesante, che trova la ferrea opposizione del’Ordine dei giornalisti, ma anche qualche migliaio di adesioni in pochi giorni. Nel settembre il leader della Rete Leoluca Orlando, che polemizza duramente con la giunta regionale guidata dal dc Rocco Salini, chiama le cose col proprio nome: “L’Abruzzo non è e non potrà essere una zona franca rispetto alla mafia”.

Appalti che scottano. Arrivano dai costruttori i primi malumori per la poca trasparenza nella gestione degli appalti pubblici. Si lamenta l’invasione di ditte esterne. È il sistema che inizia a sgretolarsi. Crepe vistose: i sindacati denunciano il pericolo (ma è un eufemismo) di infiltrazioni camorristiche e mafiose negli appalti, soprattutto in provincia di Pescara. La torta è golosa: depurazione, metanizzazione, acquedotti, reti fognanti, smaltimento dei rifiuti, grandi infrastrutture.

L’arte mafiosa. Scoppia un caso riguardo il restauro di monumenti e opere d’arte nella regione. Il sovrintendente denuncia il pericolo di infiltrazioni negli appalti: ribassi eccessivi offerti da ditte campane e siciliane. Segue una dura polemica, alimentata dal Psi (schierato in difesa dell’autonomia dei comuni nella gestione delle gare). Un caso che si sgonfia pochi mesi dopo, con l’archiviazione.

I siciliani. Ma non passa inosservata la presenza dei Cavalieri del lavoro catanesi, quei cavalieri-costruttori dell’apocalisse mafiosa raccontati da Pippo Fava: Gaetano Graci ha vinto da anni l’appalto per la costruzione delle barriere frangiflutto lungo la costa, mentre per la costruzione di un lotto dell’università di L’Aquila c’è una società che risulta essere di Carmelo Costanzo. Se il dato giudiziario è lungi da venire, per il Pds è ormai chiaro che l’Abruzzo fa gola a cosa nostra.

Corruttopoli. L’Abruzzo è presto scosso dal terremoto corruzione. Nel giugno ’91 la regione si trova davanti al referendum sulle preferenze dopo anni di condizionamento clientelare del voto, grazie alla pratica massiccia delle preferenze plurime e delle cordate elettorali. Quelle cordate che vedono le correnti dc l’un contro l’altra armate. Fedelissimo del plenipotenziario Remo Gaspari, allora ministro per la Funzione pubblica, è il presidente della giunta regionale Rocco Salini. Lo scontro è altissimo, si arriva alle accuse pubbliche di corruzione e mafiosità. Lo scandalo cova per mesi, fino all’ottobre del ’92: scatta un’inchiesta sui piani operativi plurifondo (Pop), nove degli undici della giunta regionale, compreso il presidente Salini, vengono arrestati con l’accusa di truffa alla Cee (un’inchiesta poi arenata). Ai quali si affiancherà presto il vicepresidente del consiglio regionale (Psi) per un’inchiesta sui corsi di formazione professionale.

I profeti dell’isola felice. Si chiede lo scioglimento del consiglio, si invoca la visita della commissione parlamentare antimafia, perché come dice Orlando “la mafia fa affari in Abruzzo con il consenso dei politici locali”. Una visita che era stata già chiesta, trovando in Salini uno strenuo oppositore e in Gaspari il profeta dell’isola felice, con tanto di attacco alla magistratura. A battezzare ufficialmente l’espressione “Abruzzo isola felice” è Victor Matteucci, nel frattempo transitato nelle fila della Rete. In qualità di studioso, redige un libro bianco sul sistema clientelare della regione, sugli stretti rapporti tra mafia e politica. 

CONCORSOPOLI. SCANDALO CONCORSI PUBBLICI.

ASSUNZIONE PUBBLICA SENZA CONCORSO IN ABRUZZO.

Il concetto sembrerebbe semplice semplice: «assunzioni a tempo indeterminato per 260 precari in violazione delle norme», scrive “Prima da Noi”. Se, poi, a questo, aggiungiamo il sospetto di una infornata di parenti, amici, conoscenti, «amanti» di dirigenti regionali, amministratori, politici e via dicendo, la questione diventa incandescente. È tornato a denunciare stamattina il consigliere di Forza Italia, Giuseppe Tagliente, la proposta di stabilizzazione avanzata dall'assessore al personale, Giovanni D'Amico, che in realtà nasconderebbe «la più grande operazione clientelare degli ultimi anni». E a destare scalpore è la lista dei 260 nomi che PrimaDaNoi.it pubblica integralmente e che nasconderebbe moltissimi figli di un "dio maggiore", i quali avrebbero avuto precedenza su molti altri nella corsa al posto fisso, quello per tutta la vita, per giunta in una amministrazione pubblica, dopo aver avuto un primo rapporto contrattuale a tempo determinato. Una bella soddisfazione, dunque, specie se si considera che nessuno di questi dovrà sottoporsi alla spiacevole e fastidiosa gogna della selezione pubblica. E questa operazione rischia anche di avere una replica (ci sarebbe in circolazione già una seconda lista con almeno 150 nomi con i “figli di un dio... medio”). A destare l'attenzione sono nomi molto ricorrenti della vita pubblica e amministrativa della nostra regione, nomi che trovi prima o poi nei posti che “contano”. Ci sono ex amministratori trombati alla ricerca dello stipendio fisso ma anche figli eccellenti di dirigenti, addirittura almeno tre componenti dello staff del presidente Del Turco, chiamati con incarico fiduciario. Tra gli stabilizzandi ci sono anche i celebri vignettista e fotografo (recentemente diventato giornalista pubblicista grazie alla collaborazione con la Regione). Sono una decina i «raccomandati» individuati dal consigliere di Forza Italia, lasciando intendere che è solo una prima scrematura, mentre moltissimi altri potrebbero essere nascosti all'interno della lista. I tentativi di stabilizzazione dei lavoratori precari della Regione hanno da sempre scatenato polemiche vivaci portate avanti con una passione dallo stesso Tagliente che verso la fine del 2006, in due interrogazioni, portò l'assessore D'Amico a chiarire un po' di numeri sulla vicenda. Così si scoprì che «il conferimento di incarichi di collaborazione è conseguenza sia della restrizione della possibilità di effettuare assunzioni di personale, sia della necessità di poter contare con urgenza su specifiche professionalità non presenti nell'organico dell'amministrazione, indispensabile per il buon congelamento degli uffici». Le parole da tenere a mente sono:«restrizione», «necessità», «urgenza», «specifiche professionalità», «indispensabili». Tutte caratteristiche tra le altre cose previste dal decreto Bersani che la giunta regionale ha recepito con delibera solo otto giorni dopo le insistenze di Tagliente facendo partire l'entrata in vigore delle restrizioni non da agosto 2006 ma da gennaio 2007. Dalla risposta dell'assessore D'Amico -siamo ad aprile 2007- «risultano in essere 212 incarichi di collaborazione» di cui 118 portati in dote dalla precedente legislatura di centrodestra. «Ad oggi, però, risultano almeno 260 contratti di collaborazione ma in realtà il numero esatto è ignoto, forse persino allo stesso assessore D'Amico», ha detto Tagliente, «inoltre, non risulta che le procedure di evidenza pubblica siano state sempre utilizzate in tutte le direzioni di giunta. Invece, risulta ed è chiaro che molte assunzioni sono state fatte in forma diretta e clientelare prima che scattassero le procedure selettive per sottrarle, evidentemente, a rischio di una possibile bocciatura». «Nella lista dei 260», continua ancora Tagliente, «risultano certamente parenti molto stretti, mariti, figli, fratelli, anche più di uno per nucleo familiare, di direttori, dirigenti, funzionari, dipendenti ed ex dipendenti della Regione, diversi dei quali proprio del settore personale di cui è responsabile l'assessore D'Amico, che almeno a casa sua avrebbe dovuto garantire il rispetto delle regole e, perché no, dell'opportunità e della correttezza politica».

ALCUNI DEI PRECARI IN VIA DI STABILIZZAZIONE

E Tagliente ha stilato la sua "lista nera" di raccomandati.

Il primo è Antonio Di Giandomenico, ex presidente Aptr, consigliere comunale dell'Aquila, nonché marito di una funzionaria e segretaria dell'assessore al personale.

Segue Angelo Tarquini, figlio di due funzionari del settore personale.

Luca Iagnemma, figlio del dirigente di giunta e dirigente del consiglio.

Luigi Ranieri, fratello del sindacalista Cgil e figlio dell'ex direttore del personale.

Alessandro Moroni, figlio del direttore delle attività produttive e consigliere comunale dell'Aquila.

Roberta Galeotti, componente dello staff del presidente Del Turco.

Claudia Zordan, figlia del dirigente di giunta.

Maria Grazia Masciocchi, figlia dell'ex difensore civico regionale e commissario prefettizio di Sulmona.

Ludovico Iovino, figlio del dirigente del personale, Antonio, nonché firmatario della proposta di delibera di giunta proprio relativa alla stabilizzazione dei co.co.co.

Infine nell'esercito anche Luigi Salucci, figlio del sindaco di Collelongo, compagno di scuola di Del Turco e dirigente del suo partito per anni. Luigi è noto per essere stato il primo vignettista della Regione Abruzzo. Un bel primato che gli è valsa anche la stabilizzazione.

Chiude Egidio Marzicola, in arte Slim, dicono fotografo istituzionale (nato anche come servizio per i giornali ma in realtà mai partito e questo quotidiano non ha mai ricevuto nemmeno uno scatto), meglio inquadrato come fotografo del presidente Del Turco.

Marzicola, insieme a tutti gli altri, potrà finalmente diventare a tutti gli effetti dipendente pubblico senza aver superato un concorso grazie ai servigi resi all'attuale presidente pro tempore.

Rimangono due aspetti forse «marginali» della questione. Che cosa andranno a fare?

C'è il fondato rischio che pur volendo ammettere che tutto sia in regola si accrescerebbe la macchina amministrativa in maniera abnorme di figure che in realtà potrebbero non essere impegnatissime...

Altro aspetto che riguarda tutti è la spesa aggiuntiva per le casse regionali, in considerazione dell'aumento dei dipendenti. Da un approssimativo calcolo si può dire che il costo dell'operazione di sicuro non sarà inferiore ai 3-4 milioni di euro.

Perché il clientelismo fa irritare tanto? Scrive “Prima da Noi”. Forse perché impone lo "scavalcamento" di regole e graduatorie, forse perché diritti di terzi vengono calpestati, forse perché si occupano posti di lavoro con persone non preparate (altrimenti avrebbero utilizzato strade regolari). Il problema vero, però, è che negli ultimi anni si è avuta una estremizzazione del fenomeno che ha assunto livelli mai toccati prima con risultati fin troppo evidenti: aumento spropositato dei dipendenti della pubblica amministrazione e conseguente spesa pubblica impazzita. Certo occorrono vari distinguo: ci sono le nomine politiche, ci sono i portaborse, ci sono gli assunti a tempo determinato per titoli di studio e regolari graduatorie, ci sono poi i Cococo gruppo variegato con requisiti disomogenei, tra i quali spiccano i privilegiati chiamati direttamente. Discorso a parte poi per i carrozzoni creati negli enti strumentali…  «Sul programma per la sistemazione dei precari», spiega Antonio Perrotti della Cgil Dirigenti a PrimaDaNoi.it, «voglio sottolineare che nell'attuale giunta non vi è nessun senso di responsabilità. Si continua a giocare "alle tre carte" con i fondi appositamente previsti per il personale. Non bisogna dimenticare poi che viene prevista dalla legge una possibile sanatoria (solo per il passato rispetto al 2007), circoscrivendo l'eventuale assunzione a quelli assunti con prove selettive prima di tale anno». Perrotti è chiaro e non utilizza metafore:«le assunzioni-cooptazioni», quelle a chiamata diretta per intenderci, «sono state fatte in contrasto con i parametri nazionali e anche con fondi di settore destinati ad attività ordinarie o a finalità operative. Inoltre tutto quanto è avvenuto utilizzando società esterne di servizio come Collabora, Esosfera, Arit, ecc.». In questo quadro, definito dalla Cgil «extra istituzionale e partitocratrico-clientelare» l'amministrazione creativa «si inventa una normativa estensiva che delinea una soluzione per tutti (tale da non creare contraddizioni e contrasti!) con particolare riferimento agli ultimi chiamati dall'ultima giunta "di sinistra"». E sarebbe proprio qui la forzatura. Proprio tra questi ultimi vi sono figli e parenti messi dentro su pressioni e "consiglio" dei politici che però matureranno il fondamentale requisito di 3 anni, solo nel 2010. «Sarà molto interessante», aggiunge Perrotti, «come tale proposta potrà essere emendata in Consiglio regionale a vantaggio dei gruppi ma anche di chi magari si è trovato a passare per caso sotto i portici dell'Emiciclo. Qualche dirigente del bilancio regionale è fuggito da tale situazione mentre qualcuno più disponibile e accomodante (ma forse anche più direttamente interessato …..), continua ad avallare questa incerta situazione finanziaria, eludendo i riferimenti posti dal patto di stabilità e dalle altre normative nazionali per assumere circa 350 nuovi dipendenti».

CARROZZONI, ESTERNALIZZAZIONI, CONSULENZE: LA SPESA PUBBLICA SI IMPENNA

Nel dibattito sempre troppo silenziato dei "costi della politica" non si possono non conteggiare, oltre quelli diretti (stipendi, indennità ad amministratori di ogni ordine e grado), anche quelli indiretti, cioè costi che gravano sulle casse pubbliche e che non vi sarebbero se l'amministrazione si muovesse su logiche "razionali"e fosse diretta con il metodo del "buon padre di famiglia". Anche gli sperperi clientelari per assunzioni inutili e consulenze milionarie fanno parte dei "costi della politica", materia della Corte dei Conti sempre troppo nell'ombra. Alzi la mano allora chi si ricorda delle promesse di riformare gli enti strumentali. Sapete come è andata a finire?

Gran parte delle nostre tasse servono a colmare ancora spese almeno inopportune. «Purtroppo anche la giunta Del Turco», sostiene ancora Antonio Perrotti (Cgil), «al di là delle dichiarazioni sulla stampa, continua ad essere praticata la logica delle esternalizzazioni attraverso società di comodo e consulenze ed incarichi per attività ed elaborazioni ordinarie che comunque potrebbero far capo alle strutture ed ai professionisti interni». Insomma si fa fare all'esterno quello che potrebbero fare i dipendenti. Il perché è chiaro. L'Arit ha una sede autonoma , proprie strutture e con tutti i suoi dipendenti («circa 60 assunti su indicazioni partitocratriche pagati da Regione e Provincia per oltre 1.600.000 euro l'anno») si configura come una struttura esterna che si occupa di informatica e che lavora di fatto per l'Informatica regionale surrogando molte funzioni ordinarie. Abruzzo Lavoro dovrebbe avere un ruolo di supporto e consulenza ed, invece, «non ha un reale carico di lavoro», sostiene il sindacalista, «ma, si limita a fare solo qualche ricerca con un costo complessivo annuo di 800.000 euro». Collabora ha superato quota 200 dipendenti («molti dei quali assunti come sopra!»), che, «senza essersi mai conquistata una commessa nel mercato, vengono da anni supportati da Regione e Provincia con fantomatici incarichi di ricerca». Entità che regolate dalle regole della politica degenerata non sono in grado di reggere il mercato ed hanno bisogno di continue iniezioni di denaro pubblico. Ecosfera che già faceva la consulenza –monitoraggio per il Docup, con la nuova giunta («dopo lo spoil system che ha permesso l'ingresso di "figli eccellenti"») è stata incaricata di ricerche sulla politica della casa. Ha vinto un bando di concorso per la redazione del nuovo Piano Paesistico per 1.245.000 euro. «Peccato che con la struttura interna», illustra Perrotti, «si poteva redigere per soli 12mila euro. Ecosfera ha suoi consulenti che hanno redatto il nuovo testo di legge urbanistica e nel frattempo si sta occupando nel territorio regionale di varie progettazioni e programmi operativi, tra questi la Società di Trasformazione Urbana per il Porto di Ortona dove ha addirittura fatto una proposta per circa 92.000 mc di attrezzature turistico-ricettive sul demanio marittimo». Parco Scientifico e Tecnologico, tutto come sopra. Con i suoi circa 30 dipendenti è famoso "incubatore" che «non ha mai fatto una ricerca originale per ottenere una commessa esterna».

«Così come è grave», spiega ancora la Cgil, «il fatto che nonostante il governo, in sede di esame della finanziaria, abbia stralciato il finanziamento per l'Araen (Agenzia per l'Energia), a tal fine, sia stato comunque costituito uno staff diretto dallo stesso personaggio designato da Desiati». L'Arta. Con la giunta Pace viene diretta da «l'enfant-prodigio Dionisio e, in deroga a norme finanziarie e tabellari concertate, sono state date funzioni e profili e sono stati assunti centinaia di Co.co.co per un impegno annuo di circa 2.200.000 euro. Personale qualificato che con la nuova giunta verrà in gran parte inquadrato attraverso il contestato concorso mentre i rimanenti potranno essere riassorbiti all'interno delle tante baracche pseudo scientifiche esistenti». Molto critica la posizione della Cgil anche sulla Agenzia Sanitaria Regionale e sulla Aptr che surrogando compiti ordinari propri della Direzione Turismo, ormai costa 4.600.000 euro l'anno. «Né, infine, possiamo dimenticare che per l'amministrazione dell'agricoltura regionale forse abbiamo più addetti alla burocrazia che lavoratori effettivi sul campo: infatti, a fianco delle strutture ordinarie (Direzioni regionali, IPA, UTA, ecc. ) , abbiamo creato l'Arssa, una sorta di duplicato della Direzione Agricoltura, dove, però, si fanno carriere e si svolgono funzioni meno trasparenti e proceduralizzate, che ci costa ormai 14.000.000 euro per stipendi e sedi, e più 2.500.000 euro per iniziative d'istituto». «Come non dire della Fira e del suo efficiente staff», attacca ancora Perrotti nella sua analisi, «già oggetto delle attenzioni della magistratura, che, nonostante "l'incidente" e gli impegni a scioglierla, continua ad essere coinvolta per attività improprie anche da questa giunta». Continua a gestire diverse centinaia di milioni di euro tra i quali ancora i Docup, gli stessi finiti nell'occhio del ciclone proprio con l'inchiesta giudiziaria. Discorsi a parte (e già affrontati in passato) per gli incarichi affidati a Lamberto Quarta e per il "nuovo" strumento operativo della Regione, Abruzzo Engeneering, in corsa per gestire milioni di euro e aggiudicarsi il mega appalto sul wi-fi.

Sarà una delle operazioni tra le più "scientifiche" e mediaticamente perfetta, scrive ancora “Prima da Noi”. Ci sono i precari che protestano, scendono in piazza, con lo stipendio da fame ed i contratti che descrivono un lavoro che in realtà è ben diverso. E' gente che lavora e merita la stabilità. Ma ci sono precari e precari. Ed i precari "imbucati" non sono pochi. Figli, parenti, nipoti, mariti vanno per la maggiore, sono quei dipendenti molto speciali con più di un santo in paradiso e mamma o papà su una poltrona chiave con la possibilità di chiedere un favoruccio all'assessore di turno che per fare "cassa" accontenta tutti. I voti fanno sempre comodo e poi in tempi di saldi valgono il quadruplo: assumi uno ti vota tutta la famiglia. Tanto mica paga lui. Sono circa 300 i precari assunti a progetto o a tempo determinato (fino al 2007), molti più di 20, forse 50, forse di più sono quelli che sono stati assunti a chiamata diretta con fortissimi sospetti di irregolarità. E guarda caso sono pure quelli che hanno cognomi che viaggiano accoppiati. Ma non si tratta di omonimia ma di parentela molto, ma molto stretta. Tutto questo accade mentre l'Italia intera (tranne i partecipanti al banchetto) è indignata per quanto emerge dall'affaire Mastella che sembra confondere la normale attività politica con qualcosa di più. Ed imporre nomi e fare clientele violando le leggi probabilmente è qualcosa di più rispetto a quella che i politici navigati chiamano "attività lobbistica". E non sfugga nemmeno lo scandalo di Montesilvano e le tecniche utilizzate ai tempi dell'ex sindaco Cantagallo, tecniche clientelari emerse durante le indagini della polizia. E non che Pescara ne sia completamente estranea: parenti, figli precari di padri molto vicini alla casta sono ovunque e sbarcano il lunario come possono. E poi i sospetti sui concorsi taroccati… Insomma i sentori ci sono tutti anche da noi, anche da noi la tensione è altissima, il malumore è alle stelle ed in quegli stessi uffici regionali il clima diventa sempre più invivibile. Intanto, l'effetto principale è che la macchina amministrativa si ingolfa e spolpa sempre più soldi ai cittadini.

PROFESSIONE PARENTE PROFESSIONALE

Ma come si fa ad assumere tanta gente quando le assunzioni sono bloccate per gli enti pubblici? Nulla è impossibile per quei diavoli di amministratori: hanno imparato tutti, così fan tutti, ovunque, dal più piccolo e insignificante paese fin su nei palazzi delle Regioni e dei Ministeri. La legge però è chiara: c'è la possibilità di ricorrere a rapporti di collaborazione solo per «prestazioni di elevata professionalità», contraddistinta da una «elevata autonomia» nel loro svolgimento tale da caratterizzarle persino come «prestazioni di lavoro autonomo».

Ma siamo proprio sicuri che tutti questi figli di papà abbiano davvero tutta questa professionalità? Sta di fatto che le clientele si tramandano di padre in figlio: c'è così l'attuale dirigente che ha fatto una carriera bruciante iniziando proprio da "precario" qualche anno fa chiamato a sua volta da papà dipendente regionale ed oggi fa lo stesso con il figlio, in sequenza: nonno, figlio, nipote. C'è chi ne ha sistemati uno, chi tutti e due, questi poveri figli senza stipendio fisso...

E così dopo la protesta dei precari dell'Arta di ieri (quelli che protestano è molto probabile che abbiano parentele trascurabili) la Regione trova la forza di firmare una delibera che farà discutere. L'assessore D'Amico ha dato il via libera al piano di stabilizzazione del personale precario. Così potrebbero essere sanate tutte le posizioni in essere (compreso chi è stato chiamato direttamente senza concorsi e senza quelle scocciature delle graduatorie). La delibera prevede la possibilità da parte della Giunta di continuare ad avvalesi del personale precario «in ragione proprio dell'approvazione del piano di stabilizzazione, in linea con quanto indicato nella Finanziaria nazionale». Il provvedimento di Giunta indica anche la fase esecutiva con l'individuazione del piano di fabbisogno del personale che ora dovrà passare al vaglio della concertazione sindacale. Una volta approvato il piano di fabbisogno si avvieranno le procedure di mobilità verticale per il personale interno e le procedure di stabilizzazione per quello precario, sia esso a tempo determinato sia co.co.co. «L'atto approvato - commenta l'assessore D'Amico - è la conferma del rispetto degli impegni che questo governo regionale ha assunto con i rappresentanti dei lavoratori. Da una parte il superamento del precariato del personale della Giunta e dall'altro la valorizzazione delle professionalità interne acquisite in tutti questi anni con la mobilità verticale».

STABILIZZAZIONI FINO AL 2010

Il provvedimento votato dalla Giunta rappresenta per gli enti strumentali della Regione un atto di indirizzo mentre, per le Asl autorizza l'assessore Mazzocca a firmare accordi per dare risposta al personale precario delle aziende sanitarie che garantisce i servizi fondamentali. Nello specifico, fino al 2010 la Giunta stabilizzerà il personale non dirigenziale assunto a seguito di procedure selettive pubbliche, in servizio a tempo determinato, che abbia maturato alla data del 31 dicembre 2007 e alla data del 31 dicembre 2008 almeno tre anni di servizio. L'immissione in ruolo avverrà dopo l'approvazione del fabbisogno di personale a seguito di domanda e di una graduatoria formata sulla base della maggiore anzianità di servizio acquisita presso la Giunta. Per il personale Cococo, esclusi quelli di nomina politica, sono interessati alla stabilizzazione quelli che al 29 settembre 2007 abbiano maturato tre anni di attività lavorativa e quelli che contrattualizzati alla stessa data maturino i tre anni nel successivo triennio 2008/2010. Eppure l'infornata di collaboratori è continuata pure con l'anno nuovo e sarebbero oltre 350 in totale i precari, poco più del 20% dei lavoratori totali della Regione. I costi della stabilizzazione saranno altissimi e tra loro ci sono i precari storici e i privilegiati… E a nulla vale che la Regione abbia già un'altissima percentuale di dipendenti superflui. Le denunce e gli esposti fioccano in procura e chissà che la magistratura non voglia fare chiarezza e spiegarci una volta per tutte la differenza che passa tra "l'attività di lobby" ed i reati penali connessi alle clientele.

PARLIAMO DI TERAMO

VIGILI URBANI. CI VUOLE CORAGGIO A PARLARNE.

Sarà un disguido. Sarà un errore. Certo è che il 16 febbraio 2014 a cercare tra il personale della Polizia Municipale di Teramo Anna Capponi non c’è.

Gianni Chiodi Sindaco comprese la realtà e il bisogno di intervenire nella vigilanza della tutela ambientale, scrive Giancarlo Falconi su “I Due Punti”. Un ufficio "speciale" che si occupava di controlli a campione per abusi edilizi e di ogni altra natura. In tema di vigilanza ambientale occorre premettere che i reati che interessano la materia, sono, al pari dei reati di ogni altra natura, di competenza di ogni organo di polizia giudiziaria. Gianni Chiodi scelse nella polizia municipale, Anna Capponi. In pochi mesi la solerte vigilessa mise sotto sequestro oltre quindici cantieri del territorio comunale, compromettendo anche quel sotto tessuto clientelare che nutre la politica in generale. Non quella nel particolare dell'allora ex sindaco di Teramo e ora Governatore della Regione Abruzzo, che stimolava i procedimenti di controllo. Nel 2008 Anna (da sentenza) fu aggredita dall'imprenditore Domenico Claudio Sichini nel suo ufficio comunale. La colpa della poliziotta municipale era quella di aver fatto il proprio dovere. Sequestro di alcune costruzioni abusive e di terreni con la presenza di amianto discaricato. Era sola quel giorno negli uffici Comunali. Come mai? Come faceva l'imprenditore a sapere che non avrebbe trovato nessuno? Piccoli dubbi personali. Anna Ricorda solo quelle mani. Enormi. Ricorda la forza e la prepotenza. L'uomo, secondo il racconto e la deposizione di Anna, secondo il referto del pronto soccorso, gli causò lesioni ad un braccio guaribili in 30 giorni. Ieri la sentenza di condanna per ingiurie, minacce e violenze a pubblico ufficiale. Nove mesi. Anna per merito e onore, lavora nella squadra della polizia giudiziaria della Procura. Esiste oggi l'ufficio di vigilanza del Comune di Teramo? Sono previsti i controlli per abusi edilizi? Quanti sono i sequestri di cantieri? Facendo un  giro con la macchina con due amici geometri siamo pronti a dimostrare diversi abusi. Come mai questi cantieri non sono sotto sequestro? Nelle prossime settimane consegneremo al Sindaco di Teramo, Maurizio Brucchi, un libro bianco con segnalazioni e fotografie inequivocabili. Siamo sicuri che sarà ben felice di sanzionare eventuali difformità normative. Vero?

Quando una donna ha coraggio? Quando un uomo ha coraggio? Sempre quando crede in se stessa e nella legalità, scrive Giancarlo Falconi su “I Due Punti”. Anna Capponi, poliziotta municipale, laureata in Giurisprudenza è coraggiosa. La storia inizia nel lontano, ma non troppo 2009. Il 31 Luglio del 2009. Denunciata da i sigg.ri Domenico Sichini, Debora Sichini, Luca Sichini, per la fattispecie delittuosa di cui all' art. 323 c.p. (abuso d'ufficio), Anna non si è arresa. Dopo essere stata iscritta nel registro degli indagati ed essere stata sottoposta ad indagini, il Procuratore emetteva ordinanza di archiviazione poichè i fatti non sussistevano. Tutto in qualità di agente PM. Che cosa ha fatto Anna Capponi, difesa dall'Avv. Gennaro Cozzolino? Ha depositato una denuncia querela nei confronti dei soggetti denunciati per la fattispecie delittuosa del reato di "calunnia", con richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Teramo. Presso il Tribunale di Teramo si è tenuta l'ultima udienza, e con rito abbreviato richiesto dal difensore degli imputati, il Giudice D. CANOSA di Teramo, ha disposto la condanna degli indagati per reato di calunnia, condannandoli oltre alla pena ridotta, come stabilito da rito, al pagamento di una provvisionale nei confronti della scrivente parte civile e del pagamento delle spese legali e di giustizia. La storia non finisce qui, perchè Anna andrà avanti con un altro procedimento penale, che vi assicuriamo, scoperchierà molti segreti. Mi auguro di ascoltare, leggere, parole di solidarietà da parte del primo Cittadino, il sindaco Maurizio Brucchi, così solerte in altri casi, del comandante della polizia municipale di Teramo, Franco Zaina e dall'assessore al ramo, Giacomo Agostinelli. Come Amministratori e come uomini.

TERAMO. SEXY SCANDALO O BLUFF?

Arriva da Teramo la notizia delle presunte molestie: una vigilessa costretta ad un rapporto orale con il comandante, scrive “Abruzzo Indipendent”. E' notizia di poco fa che il comandante della polizia municipale di Teramo, Franco Zaina, sarebbe stato denunciato da una collega per molestie a scopo sessuale. Le accuse, tutte da dimostrare, sono state verbalizzate da una vigilessa che avrebbe denunciato di essere stata costretta a vedere un video hard (quello della showgirl Belen Rodriguez) ed a praticare un rapporto sessuale orale col superiore. L'abuso sessuale si sarebbe consumato nell'ufficio del comandante Zaina all'interno del comando dei vigili urbani in piazza San Francesco. Il pubblico ministero, Laura Colica, a cui è stato affidato il "caso" ha aperto un fascicolo su quanto afferma la vigilessa. Stando a quanto riportato da un quotidiano locale il comandante Zaina avrebbe dato mandato al suo legale di denunciare per calunnia la vigilessa. Dal Comune di Teramo fanno sapere, invece, che la donna già in passato ha presentato altri esposti e che è stato oggetto di provvedimenti disciplinari. Nessun commento sulla vicenda da parte del sindaco Maurizio Brucchi.

Gli inquirenti vogliono vederci chiaro e capire come tutto questo possa essere accaduto in un ufficio pubblico, dove c’è un continuo viavai di gente e di personale: per questa ragione sono stati ascoltati numerosi dipendenti, scrive Davide Falcioni su “Fan Page”. Intanto, però, il comandante ha querelato la vigilessa. Parallelamente a questa, tuttavia, la procura ha aperto anche un’altra inchiesta all’indomani della divulgazione della notizia, per la quale sono già stati inviati altri due avvisi di garanzia ad altrettanti giornalisti indagati per pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. Questo perché, come gli stessi inquirenti tengono a far sapere, vogliono verificare come è stato possibile che la notizia della denuncia delle presunte molestie a scopo sessuale nei confronti del comandante dei vigili, che vede coinvolti anche altri due sottufficiali per altre ipotesi di reato, sia stata resa pubblica. Ma il mestiere del giornalista, verrebbe da dire, sta proprio in questo.

La parola di lei contro quella di lui. Lei è una vigilessa teramana, A.C., che ha deciso due mesi fa di presentare in procura una denuncia molto grave, scrive Lorenzo Colantonio su “Il Centro”. Sostiene di aver subìto molestie sessuali dal suo comandante, Franco Zaina. Dove e come? Il fatto sarebbe avvenuto nell'ufficio di Zaina, quindi in una delle stanze del comando dei vigili nel piano interrato nel megaparcheggio di piazza San Francesco. La scena, così come l'avrebbe raccontata per iscritto alla procura la vigilessa, vede il comandante seduto alla sua scrivania. Davanti a sè Zaina ha il computer accesso. Da quella posizione, fa cenno alla donna di avvicinarsi per guardare lo schermo dove, sempre secondo la vigilessa, scorrono le immagini del video hard di Belen che da mesi è su Youtube. Il comandante a questo punto sarebbe andato anche oltre costringendo la vigilessa a un rapporto sessuale orale che però non sarebbe stato consumato perché lei si mette ad urlare e fugge da quella stanza. Fin qui la denuncia presentata in procura dove però, da due mesi, è ferma sul tavolo di un sostituto procuratore. La notizia è diventata pubblica solo ieri, in città ne parlano tutti. Ma si scopre che il pubblico ministero, Laura Colica, pur avendo aperto un fascicolo, non ha scritto nomi sul registro degli indagati né ha disposto atti di indagine. Zaina e il sindaco, Maurizio Brucchi, fino a ieri mattina, erano peraltro all'oscuro delle pesanti accuse mosse da A.C. «Non ho intenzione di prendere provvedimenti», commenta a caldo Brucchi che dice di conoscere bene la presunta parte offesa, A.C., che viene proprio dagli ambienti del palazzo di giustizia dove ha lavorato prima di essere trasferita al comando dei vigili alle dirette dipendenze di Zaina. In passato la stessa vigilessa è stata protagonista, sempre come parte offesa, di altre denunce sul posto di lavoro. Ma torniamo all'accusa di molestie sessuali contro il suo comandante che ieri si è subito rivolto a un legale di fiducia per sporgere una controquerela per calunnia. Chi lo ha incontrato, racconto di averlo visto prostrato, quasi sotto shock per le accuse che gli sono precipitate addosso. Naturalmente Zaina le respinge tutte: resta la parola di lei contro quella di lui. Ma il sindaco Brucchi sta dalla parte del comandante. Non ha diffuso note ufficiali, anche se ieri pomeriggio, in consiglio comunale, proprio nel rispondere a un'interrogazione sui vigili urbani, ha voluto esprimere «Stima e apprezzamento per il lavoro svolto da Zaina». E interpellato poi dal Centro, ha ribadito di conoscere la vigilessa ma di non aver preso alcun provvedimento disciplinare nei confronti del capo dei vigili. Insomma, in Comune nessuno può escludere anche un'ipotesi di ritorsione verso Zaina così pesantemente accusato. Ma tocca alla Colica, un pm donna, a stabilire la verità di questa brutta storia.

Luci rosse all’interno del Comando di Polizia municipale a Teramo, scrive Fabio Capolla su “Il Tempo”. Episodi sfociati in atti di violenza di cui ora si sta occupando la Procura di Teramo. Un caso delicato, molto, di cui non è trapelato nulla per diverso tempo e di cui nessuno rilascia chiarimenti. Al centro dell’episodio più grave, che viene contestato in una specifica denuncia all’autorità giudiziaria, ci sarebbe il comandante della Polizia municipale Franco Zaina, accusato da una vigilessa in servizio a Teramo, di averla sottoposta a molestie sessuali gravi. Un ambiente da caserma quello che si respirerebbe negli uffici all’interno del megaparcheggio San Francesco di Teramo. Ambiente pesante a cui spesso si rischia di sottostare per evitare problemi. Ma l’ultimo episodio sarebbe stato troppo pesante da far scaturire la denuncia. All’interno dell’ufficio del comandante sarebbe entrata la vigilessa per consegnare alcuni documenti. Con una scusa il comandante l’avrebbe convinta di fare il giro della scrivania e di passare dalla sua parte da dove, con facilità, avrebbe potuto controllare direttamente sul computer il lavoro da fare. Sorpresa, imbarazzo e sbigottimento quando al posto delle pratiche sul computer c’erano immagini di un film porno che stavano andando. «Il film di Belen», si leggerebbe nella denuncia presentata alla Procura. E mentre il comandante Zaina cercava di far vedere il film alla vigilessa l’avrebbe anche invitata a un rapporto sessuale. Violenza e imbarazzo di cui si è resa conto quasi subito, ma non abbastanza in tempo per impedire che l’ufficiale le prendesse con forza la mano per condurla sull’organo sessuale che, nel frattempo, si era scoperto. A questo punto la vigilessa avrebbe urlato, cercando di catturare l’attenzione di qualche collega che si trovava all’esterno nelle vicinanze dell’ufficio del comandante, all’interno dell’edificio. La paura di essere scoperto avrebbe fatto desistere dal suo intento il comandante, dando modo alla vigilessa di fuggire dalla stanza. Tutto questo stando alla denuncia che si trova ora nelle mani del sostituto procuratore Laura Colica che sta avviando una serie di indagini e accertamenti. Un’indagine che viene trattata con il massimo riserbo, ma che rischia di creare un vero e proprio scandalo in città. Da tempo voci non controllate, quasi leggende metropolitane, raccontavano di storie di sesso, più o meno consenzienti, consumate all’interno degli uffici della polizia municipale. Probabile che venga avviata anche un’indagine interna da parte del direttore generale Furio Cugnini. La notizia, a conoscenza del sindaco di Teramo Maurizio Brucchi, ad oggi non è mai stata affrontata o portata a conoscenza della giunta comunale. La vigilessa nella sua denuncia avrebbe descritto particolari della vita quotidiana al Comando della polizia municipale, non tralasciando altri dettagli. Le molestie sessuali dovranno ora essere dimostrate nelle attività di indagine e non si esclude che possano essere eseguiti anche esami informatici sui computer del Comune in uso agli agenti di polizia municipale. Negli ultimi anni l’amministrazione ha cambiato più volte i comandanti di polizia municipale. Dopo Fulvio Cupaiolo che ha appeso la divisa al muro per rimanere dirigente in altri settore del Comune, arrivò Adalberto Di Giustino che all’improvviso risultò non gradito all’amministrazione Brucchi e "convinto" ad assumere altro incarico all’interno dell’amministrazione comunale. Una defenestrazione di cui non sono mai usciti i veri motivi. Poi alla guida del corpo si sono alternati il tenente Angeletti e il comandante Zaina, fino a quando quest’ultimo non ha vinto il concorso che era stato bandito. Oggi il corpo di Polizia municipale entra nell’occhio del ciclone. Questa inchiesta pare destinata a fare rumore in città. E molto.

L'indagine su presunte molestie sessuali e attività di mobbing subite da una vigilessa all'interno del Corpo di Polizia municipale del Comune di Teramo sembra ormai essere alle ultime battute, scrive Alessia Marconi su “Il Tempo”. Tanto che nei giorni scorsi la Procura ha notificato tre avvisi di garanzia ad altrettanti indagati: il comandante della Polizia municipale, accusato dalla vigilessa di averla costretta a guardare un film porno e di aver tentato di costringerla ad un approccio sessuale, e due agenti di polizia municipale, questi ultimi a quanto si apprende accusati dalla stessa vigilessa di mobbing. Un atto dovuto, quello del sostituto procuratore Laura Colica, titolare del fascicolo, che dopo aver svolto indagini a tutto campo ed aver sentito anche tutti i colleghi della donna, che nei giorni scorsi sono sfilati in Procura mattina e pomeriggio, nei prossimi giorni ascolterà anche i tre indagati. E presumibilmente, dopo aver raccolto anche le loro dichiarazioni, procederà alla chiusura delle indagini. Un'inchiesta, quella svolta dalla Procura, avvolta dal massimo riserbo con le bocche di investigatori ed inquirenti che restano cucite. Un'indagine delicata, vista anche la gravità delle accuse che vengono mosse ai tre agenti, e che nei giorni scorsi ha visto l'apertura, da parte della Procura, di un'inchiesta parallela volta ad accertare come sia stato possibile che la notizia della denuncia presentata dalla vigilessa sia uscita sulla stampa in un momento in cui le indagini, secondo gli inquirenti, erano ancora coperte da segreto. Il reato contestato, in questo caso, è il 684 del codice penale: la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. La notizia, venuta alla luce il mese scorso, era deflagrata in città come una bomba. E aveva gettato ombre inquietanti sul comando di Polizia municipale, dove secondo la denuncia presentata in Procura dalla vigilessa alle presunte molestie subite dalla donna dal comandante del Corpo, si sarebbe aggiunta anche un'attività di mobbing portata avanti da alcuni colleghi nei suoi confronti. Accuse gravi, pesanti, con le indagini svolte dalla Procura che stanno adesso per arrivare al capolinea. Tanto che a breve il pm Laura Colica, dopo aver ascoltato gli indagati, potrebbe firmare l'avviso di conclusione delle indagini.

Nessuna molestia sessuale, nessun atto di mobbing, scrive “Il Tempo”. A due mesi dalla denuncia presentata in Procura da una vigilessa teramana nei confronti del comandante della polizia municipale Franco Zaina e di altri due agenti il pm Laura Colica e il procuratore Gabriele Ferretti chiudono le indagini e firmano la richiesta di archiviazione per tutti gli indagati. Una richiesta di archiviazione sulla quale adesso dovrà esprimersi il gip e arrivata dopo che le indagini svolte in questi mesi avrebbero fatto emergere l’infondatezza delle accuse mosse dalla donna nei confronti dei colleghi. Secondo la Procura, infatti, sarebbe stata raggiunta la prova che i numerosi fatti esposti dalla donna, che a luglio si sarebbe messa in malattia per mobbing presentando la denuncia a distanza di sei mesi, non sarebbero mai accaduti. Una convinzione, quella messa nero su bianco dai due magistrati nella richiesta di archiviazione, che sarebbe corroborata dalle dichiarazioni di una trentina di vigili urbani che nelle ultime settimane sono sfilati davanti al pm Laura Colica e che avrebbero negato l’esistenza di un clima da caserma all’interno del corpo di Polizia municipale. Le stesse vigilesse ascoltate dal pm avrebbero negato qualsiasi condotta sessualmente molesta da parte del personale maschile così come l’esistenza di attività di mobbing da parte dei colleghi, descrivendo un normalissimo ambiente di lavoro senza particolari problemi. Un quadro molto diverso, dunque, da quello denunciato dalla vigilessa che aveva accusato il comandante di molestie sessuali e i colleghi di mobbing.

Archiviata l’inchiesta sul caso della vigilessa. Nessuna violenza sessuale all'interno del comando di polizia municipale di Teramo. A mettere la parola fine all'inchiesta aperta alcuni mesi fa dalla Procura di Teramo dopo la denuncia di una..., scrive “Il Tempo”. Nessuna violenza sessuale all'interno del comando di polizia municipale di Teramo. A mettere la parola fine all'inchiesta aperta alcuni mesi fa dalla Procura di Teramo dopo la denuncia di una vigilessa, che aveva accusato il comandante dei vigili urbani di Teramo di averla molestata, è il gip Giovanni De Rensis che nei giorni scorsi ha accolto la richiesta di archiviazione presentata dal pm Laura Colica e dall'ex procuratore capo Gabriele Ferretti e rigettato l'opposizione all'archiviazione avanzata dalla donna attraverso il suo legale. Un'archiviazione che conferma dunque l'esito delle indagini svolte dalla Procura di Teramo, dove nei mesi scorsi erano sfilati, come persone informate sui fatti, tutti gli agenti in servizio al comando di Teramo. Agenti che avevano negato l'esistenza di un clima da caserma all'interno del corpo e di tensioni tra le vigilesse e i colleghi. Dalle audizioni, secondo la Procura, non era emersa alcuna prova di molestie sessuali. Tanto che al termine delle indagini era stata chiesta l'archiviazione sia per il comandante della polizia municipale che per altri due agenti, questi ultimi accusati dalla vigilessa di mobbing. Ma la donna, tramite il suo legale, si era opposta all'archiviazione, con il gip che poco prima della sospensione feriale aveva fissato un'apposita udienza. Udienza al termine della quale si era riservato la decisione, che è arrivata nei giorni scorsi con l'archiviazione del caso. La fine di un incubo per il comandante della polizia municipale, che nei mesi scorsi aveva annunciato di aver dato mandato al suo legale di controdenunciare la vigilessa per calunnia. Al momento ancora non si conoscono le motivazioni della decisione del gip, depositata martedì mattina. Il comandante della polizia municipale e i due agenti erano rappresentati tutti e tre dall'avvocato Guglielmo Marconi.

Non è ancora finita. Almeno così la pensano la vigilessa in servizio nel comando della polizia municipale di Teramo che accusa di violenza sessuale il comandante Franco Zaina e il suo legale, Ivan Polidori del foro di Roma, scrive “Il Centro”. Il decreto firmato dal gip Giovanni de Rensis che dispone l’archiviazione dell’inchiesta, così come richiesto dal pubblico ministero Laura Colica, non li ha convinti. Intendono proseguire la battaglia e annunciano un’istanza al pm per chiedere al gip di riaprire le indagini. L’istanza si baserebbe su elementi di prova nuovi, già forniti dalla stessa parte offesa ma finora non presi in considerazione. L’avvocato Polidori commenta così l’archiviazione – che riguarda anche altri due agenti del comando, accusati di mobbing dalla loro collega – dopo aver letto il provvedimento di de Rensis: «E’ un provvedimento che ci lascia sorpresi perché, a fronte delle nostre richieste di valutare nuove prove, non ne prende in considerazione alcuna. Il giudice ha fatto le sue valutazioni soltanto sul materiale probatorio già acquisito. Prima del provvedimento è passato oltre un mese dall’udienza in camera di consiglio che si è tenuta a seguito della nostra opposizione alla richiesta di archiviazione. In quella sede avevamo sollevato diverse questioni sulle manchevolezze e le lacune delle indagini, ma lui non ne tiene conto e archivia, a nostro avviso molto semplicisticamente. La vicenda denunciata dalla mia assistita è molto grave», continua Polidori, «e ritengo che finora l’opera di indagine sia stata fatta a metà. E’ stata ricercata la prova in un ambiente in cui vige una sorta di cameratismo. Che ci fossero certe situazioni nel comando della polizia municipale di Teramo era risaputo da molte persone, purtroppo c’è stato un coprirsi a vicenda. Noi abbiamo cercato di sollecitare al pm e al gip un diverso modo di ragionare, purtroppo non ci siamo riusciti». Alla luce di queste considerazioni, appare inevitabile che la parte offesa cerchi di evitare che cali il sipario sulla vicenda. «Sì, la mia assistita non si vuole arrendere e cercheremo in qualsiasi modo di non far finire così questa storia», annuncia Polidori. Quanto alle modalità di azione, il legale per ora si limita ad anticipare quella che a sua detta «è solo una delle possibilità», ovvero un’istanza rivolta al pm Colica. «Cercheremo», dice, «di sollecitare il pm a chiedere al gip di riaprire le indagini. Abbiamo elementi significativi, circostanze diverse da quelle che sono state valutate finora». Quali sono queste circostanze? Per ora non è possibile saperlo. Di sicuro, per ora, c’è che pm e gip hanno ritenuto insussistenti i fatti denunciati.

Licenziata dopo aver denunciato il comandante della polizia municipale per violenza sessuale e mobbing, scrive Nicola Catenaro su “Il Corriere della Sera”. È accaduto a Teramo. La protagonista è una vigilessa con undici anni di servizio alle spalle nel corpo cittadino, a casa moglie e madre premurosa. Nell’autunno del 2012 decide di denunciare il suo superiore perché, tra le altre cose, l’avrebbe costretta a guardare un video hard nel suo ufficio (quello già in circolazione sul web che ritraeva la showgirl Belen) e avrebbe cercato di ottenere da lei un rapporto sessuale orale. Il comandante, Franco Zaina, si è sempre difeso dicendo che la vigilessa si è inventata tutto e che quel giorno addirittura non era andato al lavoro perché si era dovuto sottoporre in ospedale ad un piccolo intervento chirurgico. Coinvolti con il comandante anche due altri agenti di polizia municipale, tutti assisiti dall’avvocato teramano Guglielmo Marconi. Le indagini della procura della Repubblica di Teramo, condotte dalla pm Laura Colica, si sono concluse lo scorso marzo con una richiesta di archiviazione. La donna si è opposta ma il gip del tribunale, Giovanni De Rensis, ha accolto la richiesta del pm. Ed è stata proprio l’archiviazione del caso a far scattare il provvedimento del Comune che, in seguito all’istruttoria della commissione disciplinare interna, ha deciso di licenziare lo scorso novembre per giusta causa la vigilessa, colpevole di aver avuto una “condotta calunniosa” e di aver “denigrato” l’immagine del corpo di polizia municipale. Come se non bastasse, la donna è stata anche indagata per calunnia. Decisa a non arrendersi, si è rivolta agli avvocati romani Serena Gasperini (già protagonista nel 2009 del caso Lorenzon di Fiumicino, come legale della famiglia della vittima ) e Daniele Fabrizi e alla criminologa Roberta Bruzzone ed ha annunciato battaglia. Ci sarebbero elementi nuovi che, secondo la loro tesi, dovrebbero consentire di riaprire il caso. «Abbiamo ricevuto l’incarico – rivelano i due legali a Corriere.it - di effettuare una serie di indagini difensive al fine di assumere informazioni ed ulteriori riscontri a quanto già emerso che, almeno fino al nostro intervento, il pubblico ministero non aveva voluto o potuto acquisire agli atti. Effettivamente fin dall’assunzione delle prime informazioni testimoniali sono emersi numerosi elementi che vanno a confermare la tesi fin dall’origine esposta dalla signora nella propria querela». Pertanto, a breve e appena ultimate le ulteriori attività di indagini necessarie, sarà chiesta la riapertura del procedimento penale «che con singolare celerità è stato archiviato». Gli avvocati parlano di una circostanza particolarmente rilevante della quale sarebbe stata fornita «ampia conferma da parte di più di uno degli informatori sentiti». «Il procedimento – sottolinea Roberta Bruzzone - sembra essere stato prematuramente e forse anche frettolosamente archiviato. Ci sono una serie di dati oggettivi che dimostrano chiaramente che quanto riferito dalla signora è tutt’altro che infondato. C’è poi il filmato, a cui lei ha fatto riferimento, la cui presenza era effettivamente all’interno dell’ambiente informatico del comando di polizia municipale». «Sono tranquillo e non ho niente da dichiarare – dice al telefono il comandante Zaina – io quel giorno non c’ero e il procedimento è stato archiviato. Non ho veramente nulla da aggiungere. E anche il licenziamento non è stato certo voluto né sollecitato dal sottoscritto». La decisione di mandare via la vigilessa è stata infatti adottata da una commissione disciplinare formata da tre dirigenti comunali (dei quali due erano donne) che, secondo quanto dichiarato dal sindaco Maurizio Brucchi, ha valutato oggettivamente gli atti ed ha ritenuto che ci fossero gli estremi per il licenziamento per giusta causa. «Dispiace dal punto di vista umano, certo – afferma il sindaco –, perché si tratta di un provvedimento estremo che quindi va sempre ben ponderato come credo sia stato fatto. È stato comunque stabilito da una commissione disciplinare, cioè un organo tecnico, che ha valutato le carte e ha preso una decisione». «Noi sosteniamo altro – obietta Renzo Di Sabatino, l’avvocato che sta seguendo per conto della donna gli aspetti legati alla vicenda professionale – ed è già pronto il ricorso al giudice del lavoro. Contestiamo intanto il fatto che la signora sia stata punita per aver denunciato degli episodi, che è un diritto insopprimibile di tutti. E se poi il Comune sostiene che il licenziamento dipende dalla falsità del contenuto della denuncia, noi ribattiamo che non è possibile dire che le cose denunciate siano false, è possibile solo dire che non sono state dimostrate».

Teramo, vigili urbani ubriaconi e baby sitter, scrive di Antonio Del Furbo su “Zone d’Ombra”. La città di Teramo è un'industria di idee e personaggi unici. Una terra con tante risorse ma con uomini delle istituzioni che sfigurerebbero anche nelle bettole delle cantine del Bronx. Il nostro viaggio nell'ambiente dei cappelli bianchi teramani che dovrebbero, secondo la legge, difendere i cittadini sono i primi a fregarsene delle regole e del buon senso. Così, questi agenti pagati da noi, impiegano il loro tempo un po' come gli pare. Tempo fa un vigile teramano, nel pieno delle sue funzioni, è stato fotografato appoggiato al banco di una pizzeria al taglio in compagnìa di una bella bionda. Peccato che la bionda non fosse una donna ma bensì un bel bicchiere di birra. «C'è anche il video e la cosa venne segnalata al comandante» aggiunge Marcello Olivieri. Per evitare che "super Pino", il vigile teramano che gironzola su facebook con dati falsi ci contesti l'articolo, gli chiariamo subito le idee. Abbiamo mandato una mail alla Polizia di Stato domandando se alle forze dell'ordine è consentito bere durante l'orario di servizio. Ecco la risposta:«Grazie per aver visitato il sito della Polizia di Stato. La risposta è no: non è consentito al personale delle forze dell'ordine di bere alcolici in servizio. Cordiali saluti». Ebbene, caro Pino Marino che ti nascondi dietro falso nome, i tuoi colleghi teramani non possono bere durante le ore di servizio così come tu, che sei mio dipendente, non puoi ciattare su facebook durante le ore di lavoro. Peccato che ogni comandante dei Vigili abbia sempre timore ad agire di qualche sottoposto per via dei sindacati. Non contenti, abbiamo ripreso, tramite i nostri avvocati, il testo della legge che, cari Pino Marino e  Franco Zaina (comandante dei vigili), dice:«la Legge 125 del 30 marzo 2001, (recante «Legge quadro in materia di alcol e di problemi alcolcorrelati) all’art. 15, . 125, attribuisce al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro della salute, il compito di individuare le attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro, per la sicurezza, l'incolumità o la salute dei terzi, per le quali è fatto divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche. Per questo motivo la Conferenza Stato-Regioni ha raggiunto un accordo ed individuato specificatamente quelle attività lavorative che comportano un elevato rischio di infortuni sul lavoro ovvero per la sicurezza, l'incolumità o la salute dei terzi, per le quali si fa divieto di assunzione e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». Quindi:«mansioni comportanti l'obbligo della dotazione del porto d'armi, ivi comprese le attività di guardia particolare e giurata». Ebbene, il vigile in questione ha avuto qualche richiamo? È stato sospeso? Oppure, come dovrebbe essere, è stato licenziato? Non crediamo all'ultima ipotesi ma nemmeno alle altre due perché, i timorati da Dio, possono fare e strafare in questa repubblica delle banane. Tant'è che un cittadino segnala che delle vigilesse "vanno a fare le baby sitter ai nipoti durante le ore di servizio". Il comandante dei vigili urbani Franco Zaina sarà a conoscenza di queste voci? Chissà. Certo è che nel caso le vigilesse facessero un secondo lavoro, vietato per legge, dovrebbero rispettare comunque il divieto di bere alcolici perché anche in quel caso la legge parla chiaro:«vigilatrice di infanzia o infermiere pediatrico e puericultrice, addetto ai nidi materni e ai reparti per neonati e immaturi; mansioni sociali e socio-sanitarie svolte in strutture pubbliche e private».

TERAMO MAFIOSA.

Inchieste su inchieste. Questo è il nostro blog. Denunce. Lettere aperte, chiuse, segrete. Incoscienza, forse un pò di follia, ma un grande desiderio di cambiare il mondo scrive Giancarlo Falconi su "I Due Punti”. Poveri illusi. Se a 40 anni sono ancora così, se tutto il mondo de I Due Punti, del senso di Maurizio Di Biagio, de L'Altra parola, degli amici giornalisti, che hanno il cuore che batte accanto alla gente, che hanno nella propria natura, l'illusione di poter fare qualcosa per gli altri, per quei valori sociali, per l'educazione verso il più debole, allora c'è qualche speranza. Io ho fiducia nella Giustizia, per questo continueremo nella nostra quotidiana ricerca della verità. Le minacce? Avete il coraggio di un'intervista? Noi siamo qui.  Ascoltate questa telefonata è arrivata ad un amico de I Due Punti, accusato di essere una nostra fonte. Una velata minaccia. Si fa il mio nome, ma questa è una vigliacca abitudine di grossolani personaggi teramani. La telefonata è arrivata in tarda notte ed è stata registrata. Io conosco il sapore della morte accanto, che ti stringe e ti fa sentire una presenza rassicurante. La conosco e ci convivo da anni. Non ho paura ed è per questo che tutti insieme costruiremo una Teramo diversa, migliore. C'è anche chi vuole denunciare i Blog, senza conoscere le ultime sentenze della Cassazione, dimenticando il WEB candidato al premio Nobel per la Pace. Un'altra denuncia che andremo a sottoporre agli organi preposti. Un'altra verità e vedrete quanti orchi cadranno nelle prossime ore. Questa telefonata, che sembra una "cafonata", ha convinto il nostro amico, a collaborare con la giustizia. Mi dispiace è tutto in mano della Procura. Troppo tardi.  Ascoltate, è la Teramo mafiosa che parla....e non finisce qui. “L’episodio increscioso dell’auto incendiata ad un noto editore di una rivista free – press teramana desta in tutta la città stupore e preoccupazione. Nell’esprimere la mia solidarietà ad Enrico Santarelli ed all’intera redazione di Prima Pagina chiedo che la magistratura faccia al più presto ampia chiarezza, scrive Arch. Berardo Rabbuffo, Presidente Gruppo Fli, su “I Due Punti”.  Consiglio Regionale. Malgrado si siano già verificati a carico delle stesse persone episodi analoghi in passato, auspico che non si tratti di un’intimidazione in stile mafioso. Aspettando i risultati di indagini serie ed approfondite, ritengo che nell’ambiente teramano i problemi legati all’editoria siano altri… e molto gravi. Credo che Santarelli sia molto capace nel suo lavoro editoriale riuscendo perciò a raccogliere diverse entrate pubblicitarie rispetto ad altri che beneficiano ampiamente di inserzioni istituzionali degli enti. Mi chiedo se sia giusto che importanti istituzioni pubbliche, società pubblico – private o associazioni culturali utilizzino fondi di provenienza pubblica, e quindi denaro dei cittadini, per fare pubblicità solo su determinate testate locali. Voglio essere più preciso. Perché la ASL, la Te.Am. o un’associazione culturale fanno pubblicità su alcuni periodici ed emittenti televisive e non su altre? Per esempio, potrebbe accadere che la Regione finanzi un’”autorevole” associazione culturale, che potrebbe occuparsi di musica, per centinaia di migliaia di euro, che poi l’associazione stessa, per promuovere la propria attività culturale, decida di acquistare degli spazi pubblicitari in taluni periodici e in determinate emittenti le quali, ricevuta l’”inaspettata” inserzione, avranno cura di incentivare alcuni giornalisti, alcuni personaggi ed alcuni politici rispetto ad altri. Si potrebbe trattare di un mezzo che utilizza il sistema di potere locale per elogiare certuni, mettere in cattiva luce altri, creare falsi miti nella speranza di imbonire i più. Penso  che in ogni caso non solo sia antidemocratico ed “antiteramano” ma anche illegittimo, in un periodo di crisi come l’attuale, “fabbricare” consensi elettorali e clientele con soldi di provenienza pubblica da attribuire solo agli amici degli amici”. L'inchiesta del settimanale de La Repubblica "Il Venerdì", "La Mafia a Tavola", si è occupata dei 50 miliardi di euro che la criminalità organizzata ricava dal mercato alimentare. Diviso e suddiviso da bravi fratelli, scrive Giancarlo Falconi su “I Due Punti”. Cosa Nostra e non vostra, ha in mano l'agricoltura sui mercati siciliani. La Camorra della gentile famiglia dei casalesi, gestisce il trasporto su gomma. La 'Ndrangheta vive nei mercati di Milano e Fondi (Latina), in Puglia, la Sacra Corona Unita è impegnata nel Caporalato, che ha esportato un pò in tutta Italia. Antonio Corbo ci fa molti esempi" Un' anguria appena raccolta vale 10 centesimi, al supermercato 1,20 euro. A Mondovì Cuneo, 14 bovini denutriti sono stati trovati in una stalla con altri 24 capi gia morti e pronti per la macellazione."Ma questo è solo la punta della piramide. Allarme salute. Abbiamo il pane cotto con forni abusivi e legname radioattivo o di materiale di scarto, la mozzarelle da latte inquinato, i tartufi neri radioattivi dalla Romania, il vino venduto da cisterne prive di igiene e di rispetto delle relative norme anticontaminazione e così per le insalate, l'acqua minerale, pomodori e molti prodotti ortofrutticoli. Nella regione Abruzzo si legge, che parte del mercato ortofrutticolo con prevalenza di patate e carote, è gestito dalle associazione criminali. La camorra più delle altre consorelle. Vi ricordo che il ruolo delle famiglie "violente" spazia dalla mediazione, al trasporto su gomme, la gestione dei rimorchi fino all'imposizione delle proprie cassette da frutta. Dopo le infiltrazioni mafiose per la ricostruzione ora abbiamo anche quella alimentare. Dobbiamo sconfiggere l'omertà e denunciare ogni minimo sospetto all'Antimafia. Aiutiamoci.

TERAMO E LA MASSONERIA.

La matassa è fatta da un solo filo, lungo, lunghissimo, scrive Giancarlo Falconi su “I Due Punti”. Non ha capo e non ha coda. Ha il centro nel Grande Maestro. La verità in fondo è semplice una volta che la matassa viene dipanata. La verità è nascosta dietro la nebbia delle connivenze. Come si può diradare questa cortina di omertà? Come si può costringere intere generazioni, abituate a essere sudditi e non cittadini, a credere in qualcosa di diverso? La strada si chiama rivoluzione culturale. Bisogna saper scrivere, leggere, denunciare, acquisire la consapevolezza di se stessi.

La Massoneria esiste, trama, governa, decide, fa affari, curando la nostra paura. Il nostro stato di bisogno. Ci vogliono gli esempi. I buoni esempi. Il rispetto della legge. Stampa, Forze dell'Ordine, Magistratura ma soprattutto...noi.

Che fine hanno fatto le inchieste a Teramo? Perchè Varrassi è ancora manager dell'Asl? Dopo il peculato, il reparto fantasma, le promozioni di molti medici politici. Robimarga compreso.Dopo i vari concorsi, gli affitti di rami d'azienda nella sua Asl. Dopo varie ed eventuali. La nostra Asl. Perchè la Regione Abruzzo ha scelto l'Avv Tedeschini come consulente?
Il consigliere comunale Giuliano Gambacorta mi querela. Tutto archiviato.

Perchè viene indagato per ciò che è stato scritto nel mio articolo e ancora non succede nulla?

Perchè dopo essersi dimesso dalla Sistema spa, il sindaco Brucchi non gli ha chiesto un passo indietro come consigliere comunale. Anzi, due.

Perchè la Procura non è ancora entrata al Ruzzo?

Perchè nessuno risponde ai nostri articoli di denuncia?

Perchè i dirigenti possono decidere chi pagare, come e quando?

Perchè si permette di sprecare molto denaro pubblico?

Vedi per esempio la camera per i farmaci antiblastici, l'Ufa, mai entrata in funzione per un costo di oltre 200 mila euro.

Perchè si permette che un appalto pubblico dal costo di 40 mila euro possa lievitare a quasi 1 milione di euro?

Perchè la Teramo Ambiente non ha mai firmato la convenzione con il comune di Teramo?

Come è stato possibile permettere a Faggiano e Gavioli, di mutare molte società senza colpo ferire?

Perchè non si è fatta una gara pubblica a livello europeo al passaggio tra Slia ed Enerambiente?

Perchè il comune di Teramo Proroga le proroghe?

Perchè al Ruzzo non viene effettuata la pulizia delle cisterne dove viene raccolta l'acqua?

Perchè si pagano alcuni imprenditori e altri no?

Perchè i concorsi per mobilità vengono annullati?

Perchè i concorsi hanno il sapore di famiglia?

Perchè l'inchiesta su Teramo Lavoro ha prodotto, finora, poco o nulla?

Perchè le altre inchieste sulla Provincia sono sparite nel nulla?

Perchè la stampa non scrive?

Perchè lavorano sempre le stesse ditte edili?

Perchè gli asfalti sono a tempo?

Perchè si fanno le perquisizioni all'Ater e poi...nulla?

Perchè ho il sospetto che la statua di Garibaldi, messa a far di guardia alla rotonda di Porta Madonna, guardi il Palazzo di Giustizia?

Perchè la politica di destra e sinistra ha lo stesso sapore?

Perchè le banche del territorio hanno abbandonato i teramani?

Che rapporto esiste tra alcuni imprenditori edili e la Politica?

Perchè le classi dirigenti indagate, rimangono tutte nello stesso posto?

Che succede a Teramo? Nulla.

Teramo è in mano alla nuova Loggia Delfico. Fatta di soldi, interessi personali, politica, attraverso il mutuo soccorso dei confratelli, tra affiliazioni e complicità. Noi diciamo no...lo diciamo con la forza di essere ultimi tra gli ultimi. Lo diciamo con la consapevolezza che qualcosa deve mutare per educare e sperare. La massoneria ha paura delle idee, dei diritti, della solidarietà comune, del disinteresse, dell'uguaglianza. Pensiamo agli altri e non lasciamoli soli nelle battaglie civili. Noi continueremo a fare domande.

Che fine fanno le inchieste a Teramo? Siete curiosi? Scrive ancora Giancarlo Falconi. Il libro "All'Oriente di Teramo" del professore Elso Simone Serpentini, racconta del potere massonico nella storia, nelle abitudini, nella tradizione teramana. Esponenziale ascesa nelle scuciture elitarie, di una società divisa in famiglie. Banche, industrie, istituzioni. "Perchè sono poche le inchieste giudiziarie che toccano la massoneria e il potere politico-finanziario e quelle poche che vengono avviate non approdano mai a nulla vengono improvvisamente archiviate?"

Serpentini gioca con la storia e la cronaca ricostruendo nomi, cognomi, volti, disinvolti, sconvolti. Altri sono nascosti tra le pieghe della nostra analisi. Vengono fuori dopo ore, come singhiozzi emotivi. Giustificando repentine ascese al potere o improvvisi silenzi da scandali sommersi. Ospiti che si alternano tra pagine nutrite di affreschi e pittate colorate. Sindaci, governatori, manager di asl, capitani di industria, ufficiali, avvocati, commercialisti, ingegneri, architetti e altri noti....travolti. Riflessi obbedienti del Grande Oriente d'Italia, della Gran Loggia Nazionale d'Italia, della Gran Loggia Regolare d'Italia. Il settencento che riemerge attraverso la corsa al grembiulino. Il potere massonico, il mutuo soccorso, un concetto bibliografico, che diventa consulto di archivio. Articoli di giornale che aprono altre chiavi di lettura, che rimandano a un'unica verità. Tutti graditi ospiti, attori con ruoli diversi. Citati in ordine non massonico. Lontani da ogni agape...Tancredi, Chiodi, Brucchi, Mazzarelli,Varrassi, Venturoni...fratelli d'Italia, personaggi in cerca d'autore. Intercettazioni, figli, padri, nipoti. Le pagine sul manager Varrassi, per esempio, ci regalano attimi di profonda commozione. Simboli che invadono la grafica moderna cittadina, ripetendosi attraverso occhi, mezze lune, compassi e squadre. La massoneria è dentro ognuno di noi...dormiente come il desiderio di sentirci superiori, diversi, scelti, prescelti...da quei lontani e visionari principi di luce. Serpentini vi guiderà attraverso gli abbracci massonici, la fratellanza, gli accettati, i doveri dei liberi muratori...nel tempio dei tempi. Leggete...e siate liberi di comprendere...

Ho un bel elenco. L'elenco aggiornato dei massoni italiani, scrive ancora Giancarlo Falconi. La versione 2006/2011 della lista Cordova dei primi anni 90. L'origine della lista? Un tipo importante che abitava una compagnia che non esisteva. Più di questo non vi dico, per ora. Questo è un dato ufficiale e concreto. Mi sto anche divertendo a stilare una classifica di merito. Uno studio lungo e approfondito. Nel frattempo le vecchie tre "M" teramane continuano a sussurrare nel capoluogo aprutino.

Ospito volentieri un articolo di Maurizio Di Biagio, giornalista e blogger teramano. "Teramo sotto scacco dalla massoneria. Grembiuli e compasso in città dettano legge. Guardati dalle carriere fulminanti, mi disse uno che la sapeva lunga. Alla nomina di un alto papavero di un ente locale da un lato spingevano P2, Opus Dei ("Cercare Dio nella vita quotidiana", il loro gingle!) ed un personaggio politico molto noto in città, una sorta di ras, dall’altra Comunione  e Liberazione. Il professore Elso Simone Serpentini rende noto sul quotidiano La Città i crocicchi che in Piazza Martiri si formano, tutti targati “P” e qualcosa, il numero progressivo fatelo voi, anche loro compasso e grembiulino. Compagni di scuola un tempo, manovratori di faccende regionali ora. “E proprio Teramo in Regione ha acquisito un potere politico rilevante” ma il presidente di “Vivi Città”, Marcello Olivieri, ipotizza “che questo peso specifico ancora non si riversa sulla massoneria locale, che al momento (per lui, nda) non è granché importante”. “Ci interroghiamo se molte delle scelte prese siano state fatte con la benedizione di quest’ambito – specifica – come ad esempio individuando dirigenti, politici e altro”. Tutto partì da alcuni simboli ritenuti massoni apparsi su di una brochure del progetto dell’amministrazione comunale “Teramo una città vestita di virtuale”. Comparvero infatti avatar, compasso, squadra e una colonna dorica “segno del potere massonico” aggiunge Elso Simone Serpentini. Per lo storico e scrittore teramano, che nasconde accuratamente una lista di massoni locali (tra l’alto scaricabile dal web), non vi sono dubbi: la colonna oltretutto è il logo della rivista del Grande Oriente “Hiram”. Traccia anche alcuni collegamenti con la società Arcus, fino a giungere al presidente Cossiga, passando per Propaganda Fide. Mette le mani avanti asserendo che la Massoneria non va criminalizzata (“non è un’offesa dire a qualcuno che è massone”) ma se in città “si mettono insieme alcuni tasselli i conti ridanno”. Marcello Olivieri, che vuole portare la vicenda dei simboli davanti al Prefetto e alla Procura, è più esplicito: “La massoneria ha le mani sulla città”. Il Teramano intende anche interessare le reti nazionali televisive del caso. “Ora – conclude – vorremmo sapere se chi governa al Comune di Teramo comprenda il significato di quel logo: vogliamo conoscere chi sono stati responsabili”. Conclude Serpentini: “Due segni manifestano l’operatività della Massoneria: la sopravvalutazione dell’uomo nel suo ruolo e la trasversalità sugli intenti comuni, quando ad esempio alcuni punti sono condivisi da forze che per natura devono essere antagoniste”.

Mi sono trovato a cena, l’altra sera, con un amico che sapevo “assai vicino” alla loggia massonica teramana, scrive Elso Simone Serpentidi su “I Due Punti”. La conversazione, ad un certo punto, si è spostata sulle date, ormai prossime, delle due presentazioni del mio libro “All’Oriente di Teramo. La massoneria teramana tra storia e cronaca”, Artemia Edizioni, 2013, pp. 392).L’interesse del mio amico all’argomento è diventato assai vivo e i suoi occhi si sono aperti ad un sorriso compiacente. Poiché anche in passato mi ero avventurato con lui in allusioni circa la sua “affiliazione”, non l’ha negata, ma, come fanno tanti, ha precisato che era datata, riferita ad un lontano passato, che attualmente egli era lontano da...Da cosa? Non gliel’ho detto, ma ho pensato alla mia convinzione che ci sono alcuni “status” che costituiscono quasi due modi di pensare e di essere e che, una volta, assunti, difficilmente sono dismissibili. Non si smette mai di essere (e tanto meno ci si può dimettere) carabinieri, giornalisti, mafiosi o massoni. Lo si rimane a vita. I massoni che non frequentano più attivamente i lavori di logge e non praticano più la massoneria si dice che sono “in sonno”, ma non per questo smettono di essere massoni. Ma quel che più mi ha colpito della conversazione con il mio amico è che, ad un certo punto, ha detto che la massoneria teramana era “poca cosa”, accompagnando il giudizio con un gesto della mano che intendeva dare una rappresentazione visiva di quella pochezza. E io ho pensato che anche questo sminuire l’importanza della massoneria è tipico dei massoni che non possono negare di esserlo. Secondo loro non è vero ciò che si dice dell’importanza della massoneria, che se ne esagera l’importanza, che se ne sopravvaluta il potere, che se ne esagera l’influenza. Dice la stessa cosa chi della massoneria sa poco e ritiene che si tratti di una cosa del passato, che ormai non esiste più e che non è altro che folclore. Ovviamente, c’è anche chi ritiene che la massoneria sia importantissima e influentissima, potentissima, ne vede la presenza ovunque e dietro ogni decisione e sempre coinvolta nei complotti e implicata nell’intreccio di poteri occulti. Insomma, esiste, nel giudizio che si ha della massoneria, e questo vale sia per il piano internazione, che per quello nazionale e locale (teramano intendo) come un pendolo che oscilla tra la massoneria intesa come “poca cosa” e la massoneria intesa quasi come “cosa nostra”.  Poca cosa o cosa nostra? Né l’una nell’altra. La verità sta in mezzo. Niente non è, ma nemmeno è tutto. Il tentativo di sminuirne l’importanza viene operato anche da quanti ne beneficiano per la loro carriera, per la loro ricerca di influenza sociale o di potere vero e proprio. Esso è comune anche a quanti praticano con successo il “mutuo soccorso”, a quanti  nelle logge partecipano regolarmente ai riti delle proprie Obbedienze e incontrano “fratelli” impegnati in ruoli che potrebbero porre in essere qualche conflitto di interesse. Accade, per esempio, che nelle logge comuni si incontrino amministratori pubblici e titolari di appalti pubblici ai quali quegli amministratori hanno conferito gli appalti. Accade che avvocati che difendono imputati sottoposti a giudizio civile o penale incontrino i giudici che su quegli imputati devono emettere sentenze o giudicati, che politici di diversi e contrapposti orientamenti politici si incontrino in piena trasversalità, accade che nel corso di lavori che dovrebbero essere dedicati solo a riflessioni filosofiche e filantropiche vengano assunte decisioni politiche, decise nomine di dirigenti pubblici e presidenti di enti pubblici e para pubblici o conferimenti di appalti pubblici e privati. Accade anche che si prendano gli opportuni accordi per accordare prestiti multimilionari  a imprenditori “fratelli” da parte di istituti di credito nei cui consigli di amministrazione (o nei cui posti chiave, di direttore o di vice direttore) siedano persone che hanno anche loro, nella loro borsa, specialmente il venerdì sera,  il grembiulino rituale e a volte anche il cappuccio, la squadra e il compasso. E questo, se non è proprio “cosa nostra”, non è nemmeno “poca cosa”. Mi è capitato di sentire un congiunto dell’unico teramano presente nella lista degli iscritti alla P2, con tanto di tessera, dire che sì, a casa sua, arrivavano delle strane carte, ma che nemmeno il suo congiunto ne conosceva la natura e l’importanza. Che l’affiliazione c’era stata, ma senza nemmeno rendersene conto, senza capire, senza sapere, senza vedere... Salvo poi a scoprire, da parte mia, che proprio quel congiunto su Facebook ha messo come immagine nel suo profilo un bell’occhio massonico, senza dare, evidentemente, importanza al fatto che la P2 fondò un giornale, affidato alla direzione di Maurizio Costanzo (affiliato anche lui) che si chiamava “L’occhio”. Anche questo “poca cosa”? Ed è poca cosa che in tutti o quasi tutti gli eventi culturali che a Teramo ricevono finanziamenti e riguardi proprio per la rinomanza degli organizzatori abbiano, come comun denominatore, riferimenti diretti o indiretti, provati o solo indiziari, all’istituzione massonica o alle “società filantropiche” (come le chiamo io nel mio libro) che ne costituiscono l’anticamera o già i primi gradini di un percorso iniziatico? Parlando di queste “società filantropiche” in relazione alla massoneria, il mio amico (commensale dell’altra sera) negava ogni relazione con la massoneria, contro ogni evidenza, perché ci sono diecine e diecine di prove di legami anche molto stretti. Salvo ad ammettere alla fine che si trattava di associazioni che lui definiva del “vorrei ma non posso”, lasciando quindi ad intendere che esisteva, quanto meno, una propensione, una vocazione, l’avvio di un percorso che poteva preludere ad una “tegolatura” (come i massoni chiamano i primi passi di quel percorso) o esserne la consacrazione iniziale. “Poca cosa” o “cosa nostra”? A Teramo e provincia il popolo dei grembiulini è cresciuto di numero e di importanza. Ma sbaglierebbe chi ne sopravvalutasse il ruolo così come sbaglierebbe chi lo sottovalutasse. Come gruppo di potere la massoneria è a Teramo non poco consistente e, anche se non possiamo dire con certezza quanti sono veramente i massoni teramani, sappiamo che non sono pochi. A parte gli iscritti alle logge locali, non pochi teramani sono iscritti a logge di altre città della regione e anche a logge extra-regionali, perfino a logge extra-nazionali.

Il potere delle Logge è in ascesa anche a Teramo, così come in Abruzzo. Molti massoni occupano posizioni chiave nella politica, nelle banche, nelle fondazioni, nelle istituzioni cittadine, nell'università, meno nelle industrie, anche per la crisi che investe da tempo questo settore, peraltro sempre in difficoltà e mai in grado di decollare davvero.  I rapporti tra la massoneria teramana e i cosiddetti "poteri forti" sono in alcuni casi assai stretti e hanno determinato alcune svolte e alcune scelte le cui ragioni non si spiegano se non facendo ricorso ad analisi che consentano di far luce su alcuni strani intrecci di interessi convergenti e su zone d'ombra tenute volutamente al riparo da occhi indiscreti e profani. E questo al di là della più volte ripetuta volontà di illuminare, di dar luce e verità, nella quale, ma solo come intenzione, si vuole far consistere l'essenza della massoneria. Ultimamente, nella nostra città, si è parlato di massoneria e poteri occulti, scrive Pietro Ferrari su “I Due Punti”. Sabato 29 gennaio, presso il Municipio di Bellante Paese, l'associazione "Nuove Sintesi" ha organizzato una conferenza con il Dott. Luciano Garofoli, studioso di autori come Pierre Virion, Pierre Faillant De Villemarest e i tanti che hanno approfondito il ruolo delle cosiddette "lobbies" nell'agone politico internazionale. Una chiacchierata con Luciano Garofoli, umbro ex allievo della Scuola Auritiana e conferenziere appassionato di tematiche legate all'occultismo e alla massoneria, potrà darci qualche spunto di riflessione preliminare.

D- Lei da anni studia le dinamiche sotterranee al "nuovo ordine mondiale", anche considerando ciò che si muove "dietro le quinte" di quello che in apparenza viene riconosciuto come potere politico. Questa conferenza avrà come oggetto preminente l'economia?

R- Economia è una parola di per se semplice se non ci fossero delle perturbative  "esterne" a renderla complicata  e sofistica. Sostanzialmente esistono due forme di economia  quella reale e quella finanziaria. Quella reale è data da tutto ciò che una nazione produce nell'arco di un'unità temporale, per esempio, un anno. Quindi tutta quella massa di beni e servizi che servono alla nazione medesima per la propria reale vita quotidiana. In questa forma rientrano le attività industriali, quelle artigianali, tutto ciò che di servizi vengono creati per rendere possibile sia la produzione sia gli scambi. Quindi ogni anno, da zero, si crea ricchezza reale tangibile vera. Accanto a questa c'è anche l'economia finanziaria che dovrebbe fare da supporto alla prima fornendo la messa a disposizione di quegli strumenti necessari a poter svolgere l'attività economica reale: credito, assistenza per la riscossione di  titoli di credito, anticipazioni  e cessioni i credito. Oggi con i grandi mezzi che sono necessari per poter svolgere un'attività è impensabile che un'azienda si possa autofinanziare: soltanto per pagare i propri fornitori, e farsi pagare dai propri clienti è necessario spesso un congruo periodo di tempo.

D - Ecco che arriva il ruolo del Banchiere...

R - Purtroppo l'economia finanziaria ha preso il sopravvento sulla reale ed ormai, grazie ad una mancanza totale di regolamentazione, una vera a propria assoluta anarchia (pensate migliaia di miliardi di dollari dei derivatives nemmeno vengo riportati a bilancio permettendo di rubare tutto e tutti) tutto è diventato un grande casino dove si gioca e si rischia con un rischio minimo ed un profitto massimo. Questo implica che se si deve rovinare un'azienda, un mercato borsistico, una nazione niente e nessuno può frenare questi raider delinquenti.

D - Quindi il vero potere non è appannggio dei politici ma di coloro che controllano l'emissione monetaria?

R - Sono sempre loro che riuniti in lobby bancarie, private, palesi od occulte programmano sviluppo o crisi di interi mercati, settori, nazioni: esempi li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.

D - Eppure certi fenomeni sembrano quasi dipanarsi come spontanei e necessari...

R - La globalizzazione non è un fungo spontaneo cresciuto all'improvviso ci sono voluti decenni, guerre, sangue imposizioni e ricatti per renderla attuabile: un ideale può essere considerato il libero mercato? Pare di sì!

D - Quindi anche l'ultima crisi finanziaria è stata in un certo senso, provocata lucidamente?

R - La grande crisi del 1929 o quella che ancora stiamo vivendo tra la gran cassa mediatica che innalza cantifore e peana al "tutto va ben madama la marchesa" sono state tutte pianificate e preparate da anni di mosse strategiche e giochi più o meno sporchi e corrotti. Banche, agenzie di rating, agenti di borsa, grandi capitani d'industria sono tutti coinvolti in questo gioco al massacro. L'obiettivo è quello di fare soldi presto e in quantità enorme...del resto non interessa niente.

D - In tutto ciò l'aspetto "filantropico" e umanitario che la massoneria rivendica, appare come un paravento per ben più penetranti strategìe di dominio. Forse gli ideali massonici sono talmente diventati nuovo "senso comune" che non ci si accorge più della massoneria stessa?

R - A questi soggetti si uniscono anche grandi Lobby più o meno umanitarie che magari fanno passare i loro simboli come elementi ornamentali o di architettura: che so una colonna greca, una squadra, un compasso da disegnatore, stelle e stelline in cieli più o meno azzurri, sigilli di antichi re, teschi e tibie. Ormai purtroppo come diceva Carrol Quigley: "il complotto è ad uno stato troppo avanzato, i congiurati troppo potenti". per esempio il controllo della moneta è ormai accentrato nelle mani dei veri proprietari i Banchieri Centrali che da padroni comandano i politici come se fossero dei valletti: e dalla moneta reale si passa alle varie carte di credito, i diritti speciali di prelievo, alle unità di conto, agli input che virtualmente spostano miliardi da un posto all'altro del pianeta.

D - In effetti la famosa "mano invisibile" (qualità tipica dei ladri) tanto cara ai liberisti sembra essere senza un corpo comandato da una mente. se vi è una "mano", vi sarà pure una "testa"...

R - Concludendo con un insospettato, il Presidente americano F. Delano Roosevelt:in politica nulla accade a caso. Ogni volta che accade un avvenimento, si può essere certi che esso è stato previsto perchè si svolga così. E alla luce di quanto detto prima sappiamo benissimo quale main cachè dirige! Grazie per la chiacchierata e in bocca al lupo per la conferenza.

Il magistrato Paolo Ferraro ha parlato di massoneria nell'ambito dell'omicidio di Carmela Melania Rea, la giovane donna trovata uccisa nel bosco di Ripe di Civitelle per la cui morte l'unico indagato è il marito Salvatore Parolisi, scrive “Il Corriere D’Abruzzo”. Ferraro ha denunciato una fitta rete di relazioni di sesso e massoneria che gravitano attorno alle caserme militari. 
Appuntamenti che rientrano in un programma militare chiamato l’Mk Ultra oggi Programma Monarch utilizzato negli anni 50 dalla Cia per influenzare il comportamento di determinate persone per indurle a compiti ingrati. Anche Melania Rea potrebbe essere caduta in questa rete. Ipotesi che ha trovato sostegno nel gip Giovanni Cirillo. 
Il magistrato Ferraro in un’intervista rilasciata alla web tv di Antonio Del Furbo, Zone d’Ombra, parla della sua esperienza. Dopo essersi accorto di strani movimenti in caserma ha registrato tutto. Quando Ferraro ha fornito le prove di tutto ciò non è stato creduto. Lo hanno dato per pazzo, è stato sospeso dal Csm per quattro mesi per gravi problemi di salute. Il gip pensa che Melania Rea abbia scoperto questi esperimenti nella caserma dove lavorava il marito e ne sia stata vittima prima della gravidanza e dopo la nascita della figlia ne stesse elaborando il ricordo.

L’Italia non è come ce la raccontano da 152 anni, dai tempi dell’annessione violenta dello Stivale (non certo la retorica “Unità”). Le menzogne partirono subito con la repressione feroce delle rivolte contadine nel Sud, etichettate dalla storiografia ufficiale prezzolata, come “brigantaggio”, scrive Gianni Lannes su “Lo Sai”.

Come aveva ammonito il presidente Dwigt David Eisenhower, al momento di lasciare la Casa Bianca: “Attenzione al complesso militar-industriale”. L’avvertimento pronunciato da un glorioso generale suona calzante. Eppure, In Italia, grazie ad un’impunità che dura da troppo tempo, l’élite militare gode di un potere di ricatto nei confronti della casta politica, in ragione della conoscenza di innumerevoli segreti “indicibili” ai più. Qualcosa che per un comune cittadino è semplice fantascienza. E di armadi della vergogna ce ne sono parecchi da spalancare al più presto. Nei tempi bui correnti per distruggere qualcuno gli apparati deviati possono utilizzare diversi metodi di “intelligence”: intimidazioni, minacce, attentati, eliminazione fisica, denigrazione e trattamenti sanitari obbligatori. Insomma, alla fine ti fanno passare per pazzo e così ti rendono innocuo, inattendibile. E’ una tecnica della CIA, per chi ancora si sveglia ora dal letargo.

Perché i sicari italiani del sistema di potere hanno deciso di annichilire il magistrato Paolo Ferraro?

Il giudice ha dichiarato: «Per il 14 marzo 2013 sono stato convocato in udienza dinanzi al giudice tutelare di Roma ( presidente della sezione Tribunale ) per la “nomina di ” amministratore di sostegno ” non alla mia anziana madre o alla signora terminale in ospedale .. ma a me .  Chi sa capisce quanto grave sia questa iniziativa e comunque spiego per gli altri che significa togliere a un soggetto autonomia capacità di agire ed in crescendo intrappolarlo rapidamente … nella direzione finale che è stata evidentemente tracciata dall’odio di chi credeva di poter mettere tutto a tacere Farlo a Paolo Ferraro significa esattamente quello che intuite e non servono parole».

A mio avviso, invece le parole servono eccome. Infatti, lo stesso Ferraro ha detto pubblicamente, quello che ho scritto già qualche anno fa. Altro che trattativa Stato & Mafia.

Argomenta Ferraro: «Noi siamo un Paese di confine. Stragi, eversione, uccisione di magistrati per bene hanno caratterizzato gli ultimi 20-30 anni, ma nessuno ci ha mai detto il vero perché. Bene, adesso lo dice chiaramente un magistrato che ha pagato un prezzo scontrandosi contro i poteri forti. Falcone e Borsellino sono morti perché partendo dalla ricostruzione della cupola mafiosa, attraverso dati internazionali, meccanismi di analisi finanziaria, attraverso le dichiarazioni orali ma non registrate di Buscetta, attraverso un’analisi complessa erano arrivati a individuare un grumo deviato, una grande organizzazione criminale, internazionale, una realtà associativa sovranazionale… Furono uccisi perché quel livello di contrapposizione dello Stato a queste derive ed oligarchie sovranazionali non era compatibile con il progetto che doveva controllare gli Stati mediterranei e l’Italia. Ma questo non ve l’hanno detto. Ancora oggi vi raccontano della trattativa Stato- mafia».

Allora, per quale ragione sia il Governo Berlusconi che l’Esecutivo Monti non hanno fornito una risposta all’interrogazione parlamentare del senatore Elio Lannutti numero 4-06272, presentata il 17 novembre 2011? Forse, ai piani alti del potere tricolore, come sempre c’è qualcosa di oscuramente torbido da nascondere all’opinione pubblica?

Per l’omicidio di Melania Rea, il giudice Marina Tommolini ed il suo collaboratore, il maresciallo dei carabinieri Spartaco De Cicco, hanno subito a Teramo un attentato a testa ed avvertimenti particolari, tipici dell’intelligence dilettantistica del Belpaese. Più di tutto inquieta l’impunità garantita dallo Stato a chi delinque per conto delle alte sfere, a protezione di sette segrete, pedofili ed efebofili insospettabili, sadici e fanatici tutto compreso che infestano anche il web. In passato numerosi magistrati sono stati eliminati spietatamente. Altri hanno subito attentati come nel caso di Carlo Palermo costretto a lasciare la toga e e Ferdinando Imposimato a cui hanno ammazzato un fratello. Perché con Ferraro hanno usato un ‘altra tattica? Forse perché il giudice ha diffuso e condiviso certe sue scoperte denunciate all’Autorità Giudiziaria, e forse, frettolosamente archiviate dalla Procura del Repubblica di Roma? Per esempio, cosa accade da troppi decenni alla Cecchignola, e in decine di altre enclaves militari del Belpaese? Ne vogliamo discutere pubblicamente del massiccio traffico di droga nelle basi USA e NATO presenti in Italia. Vogliamo spalancare il vaso di Pandora tricolore?C’è qualche giudice serio e determinato a scandagliare fino in fondo la situazione senza guardare in faccia a nessuno? Purtroppo in Italia, attualmente, non esiste una vera opinione pubblica che abbia la forza di incidere e farsi sentire, ma masse più o meno manovrabili. Mi auguro di essere smentito presto dai fatti in controtendenza. Nel frattempo, non dimentichiamo che il silenzio assordante è mafia!

All'indomani della condanna all'ergastolo di Salvatore Parolisi, che continua a proclamarsi innocente, Rita Pennarola ripubblica brani principali dell'inchiesta uscita sulla “Voce delle Voci” a maggio 2012: \"GLI IMPUNITI\". Che spiega perche' Parolisi non fu forse assassino ma complice. Di personaggi innominabili.

Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell'ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, e' possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l'arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l'accusa di omicidio, ovviamente, il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo - o più probabilmente, potuto - rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell'altra. Così nessuno solleverà più  il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all'interno dell'esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell'assassinio.

LA LEZIONE DI IMPOSIMATO

«Accade talvolta - dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi - che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d'indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato - che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi illogici - è  stata confermata fra l'altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent'anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito - spiega Imposimato - non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l'ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi.
Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell'immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive.

IL GIP CHE SAPEVA TROPPO

A disporre l'arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l'omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest'ultima località è  in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l'autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni esemplari ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi alti del potere, quand'anche essi fossero all'interno della stessa magistratura.  Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l'arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all'istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l'uomo che aveva dettagliato l'esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani. Il 9 agosto Giovanni Cirillo lascia da un giorno all'altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d'Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un'intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l'incarico: «da due ore - esordisce - non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l'ordinanza di custodia cautelare del pm Monti), l'idea che Parolisi fosse finito in un imbuto, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l'amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: Finge di piangere. Inoltre, ha avuto fino all'ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com'è  di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania - dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l'indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sè». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi, iniziato a febbraio e tuttora in corso. Di sicuro, però, nel numero di luglio 2011 la Voce aveva ricostruito questa vicenda in maniera assai simile, con un Salvatore Parolisi costretto dalle sue stesse attività illecite prima a rendersi complice (non sappiamo con quale grado di consapevolezza) dell'assassinio di sua moglie, e poi a tacere, per evitare che dopo la prima, orrenda ritorsione nei suoi confronti, ce ne fossero altre.

LA FIRMA DEI CASALESI

Sì, su quel corpo straziato della giovane mamma di Somma Vesuviana c'è una firma a lettere di fuoco. La firma della camorra. Dopo l'atroce fine di Melania - moglie di un caporalmaggiore che era stato in Afghanistan, e sul cui conto corrente erano stati trovati 100mila euro durante le prime indagini – più nessuno potrà azzardarsi ad agire in proprio per trarre profitto da commerci sui canali esclusivi di gente come i Casalesi. Un linguaggio, quello degli omicidi di camorra, ben noto a pubblici ministeri e gip che abitualmente si confrontano con corpi incaprettati o mutilati in zone particolari, proprio per lanciare un avvertimento agli altri. Storie rimaste sepolte nei fascicoli giudiziari, o sottaciute nel buio dell'omertà per decenni, poi portate alla luce per la prima volta da Roberto Saviano e Matteo Garrone. Oggi sono patrimonio di una certa letteratura, eppure risultano ancora lontane dalla mentalità e dalle attitudini di taluni investigatori, «specialmente - dice un pm antimafia con lunghissima esperienza, oggi in pensione - se parliamo delle Procure di provincia dell'Italia centrale o del Nord, dove le Direzioni Distrettuali Antimafia sono lontane e così pure i metodi investigativi, soprattutto la tempestività delle prime ore, o la conoscenza approfondita di quei dettagli che immancabilmente conducono alle organizzazioni di stampo camorristico». Ma gli indizi, tanti, che nel delitto di Melania Rea potrebbero portare ai clan, pare non abbiano trovato spazio in alcuna attività investigativa specifica. Eppure sono tutti là, a formare una impressionante sequenza. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l'addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell'ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell'ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l'ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l'immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell'esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell'area il 18 aprile, a quell'ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

DA KABUL A TOLMEZZO

Poi c'è un'altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell'esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all'eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall'Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall'Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un'indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall'Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l'arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle missioni di pace deve poi essere stata un'altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall'Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Un anno fa, ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall'Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l'arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però  nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né  dell'inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un depistaggio quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio - commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra - quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l'hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent'anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è stato in qualche modo complice. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E' la legge ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI.

La giudice Paola Di Nicola a Teramo racconta la sua vita di donna magistrato: “La discriminazione pone un problema alle istituzioni e alla democrazia”, scrive “La Provincia di Teramo”.  Magistrato, figlia di un magistrato disvela nel suo libro d’esordio uno spaccato inedito sulla discriminazione di genere e mette un punto fermo sul principio di eguaglianza: è una questione di diritto e di democrazia e quando si realizza solo nella forma ma non anche attraverso processi culturali che lo concretizzano si creano seri problemi alla tenuta sociale e istituzionale di un Paese. Paola Di Nicola, figlia di Enrico Di Nicola, teramano, magistrato di lungo corso in Procure come quella di Roma, Bologna e Pescara e per un lungo periodo nel mirino di brigatisti “rossi” e “neri”, è tornata ieri sera in quella che è la sua terra d’origine, ospite della Biblioteca Delfico, per parlare del suo libro “La giudice”.  “L’unica donna magistrato in Italia che sfida le regole della grammatica e i pregiudizi storici firmandosi La giudice”, sostiene la casa editrice Ghena che l’ha pubblicato, “Da qui il titolo del libro, che racconta e spiega perché, per le donne, non sia tanto importante arrivare a ricoprire ruoli apicali quanto ’esserci con il coraggio e la consapevolezza del proprio diverso punto di vista, dopo averlo focalizzato e valorizzato". L’uso che nel titolo del libro si fa dell’articolo determinativo femminile viene approfondita nella prefazione della scrittrice Melania Mazzucco. Il testo è un intreccio incalzante tra la dimensione privata e quella pubblica, tra la normale quotidianità e la straordinarietà dei processi, tra il passato e il presente che segnano i cambiamenti stessi, avvenuti nella legislazione del nostro Paese. Introdotta dal direttore della biblioteca, Luigi Ponziani, l’intervento della giudice è stato preceduto dalle riflessioni del presidente della Provincia, Valter Catarra, dalla testimonianza diretta del giudice Laura Colica e del presidente del Tribunale, Giovanni Spinosa e dalle parole Anna Pompili, consigliera di  parità della Provincia che questo incontro l’ha voluto e promosso. “Questo libro denuncia il fatto che le donne hanno un problema di carriera anche in magistratura – ha sottolineato la Pompili – dove forse non te lo aspetti: una testimonianza tangibile di quanto lavoro ancora c’è da fare perché non vi siano più pregiudizi”. Le persone che Paola Di Nicola si trova a giudicare sono per lo più uomini: spesso uomini potenti: che gestiscono poteri economici, pubblici o criminali. Per questi uomini accettare di farsi interrogare o giudicare da una donna è per lo più  inaccettabile. “Questo pone un problema alle istituzioni perché se la donna rappresenta le istituzioni e questa rappresentanza non gli è riconosciuta, allora è la stessa tenuta delle istituzioni, della democrazia ad essere messa in discussione” ha detto ieri sera la Di Nicola raccontando molti degli episodi che descrive nel libro. Da qui la scelta di scrivere, di raccontare: “Scrivendo ho scoperto che la mia toga era ’diversa’ da quella dei miei colleghi uomini perché sotto c’era una storia, una cultura, un percorso diverso, diversissimo. Io ero stata vittima di pregiudizi che mi avevano impedito per 2000 anni di diventare giudice, loro no. Questi pregiudizi io non li avevo maturati, valutati, superati, li avevo interiorizzati e sperimentati sulla mia pelle, anzi sulla mia toga di giudice”. Leggendo il libro ed ascoltando l’autrice si fa mente locale su quello che non è affatto un particolare di secondo piano e che spiega tante cose sulla differenza di genere anche della nostra storia recente: le donne sono entrate in magistratura, in Italia, solo nel 1963. Prima era loro vietato. Persino un padre della Costituente, Piero Calamendrei, era contrario alle donne in magistratura, o meglio le vedeva confinate nella “gestione” del diritto di famiglia. “Come è  possibile che uomini tanto illuminati siano state vittime di questo pregiudizio culturale? “ si è chiesta ieri sera Paola Di Nicola che ha chiosato “Non ritengo che le discriminazioni riguardino solo magistratura o solo le donne, la ricerca dell’ identità di uomini e donne ha bisogno di un percorso comune e condiviso: laddove non c' e' il riconoscimento reciproco scatta il meccanismo discriminante”. Ad ascoltarla, ieri sera, anche il padre, Enrico Di Nicola, seduto in prima fila insieme alla moglie: un abbraccio ideale con i luoghi e le radici che, come ha detto la Di Nicola “le hanno dato gli occhi per giudicare”.

Da un giudice donna ad un’altra giudice.

L’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato dal cancelliere Scarpone scrive Daniela Facciolini su La Città Quotidiano e pubblicata su “Prima Da Noi”.

Il presidente del Tribunale di Teramo Antonio Cassano e l’ex gip di Teramo, nonché ex Giudice responsabile del Tribunale di Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila Aldo Manfredi, sono iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Campobasso. All’origine dell’inchiesta, un esposto - denuncia presentato da un cancelliere in servizio nella sezione distaccata del Tribunale, a Giulianova, Guerino Scarpone, che avrebbe documentato esattamente un anno fa tutta una serie di presunte irregolarità legate alle procedure di vendita giudiziaria degli immobili. Scarpone è noto alle cronache giornalistiche locali anche per i suoi trascorsi politici all’interno dell’allora Partito Socialista, nonché per il suo impegno alla vicepresidenza del Comitato Regionale di Controllo sugli atti degli enti locali. Secondo l’accusa del cancelliere, si sarebbero ripetuti una serie di errori nelle procedure esecutive immobiliari e nelle vendite fallimentari. Nel registro degli indagati, infatti, sono finiti anche il Giudice delle esecuzioni e giudice delegato delle procedure fallimentari Flavio Conciatori, il Giudice onorario del Tribunale di Giulianova, Belinda Pignotti, il responsabile dell’ufficio esecuzioni immobiliari, cancelliere Giuliana Marinelli e l’operatore giudiziario Nino Cartone. Nel suo esposto, il cancelliere Scarpone riferisce di una diffusa e generalizzata prassi relativa alla pratica delle procedure esecutive immobiliari, che a suo dire non sarebbe corretta. Le vendite degli immobili oggetto di pignoramento fallimentare prese in esame nella denuncia, sono quelle che andrebbero dal 2001 al 2006. In quel periodo, il sistema adottato è stato quello delle vendite senza incanto dei beni immobili pignorati, ovvero delle vendite in cui non si effettuano vere e proprie aste. Si trattava, va detto, all’epoca di una procedura sperimentale, che snelliva le pratiche e i tempi. Secondo il cancelliere, però, la prassi sarebbe stata non corretta nell’affidamento delle perizie e degli incarichi, nella nomina dei custodi, nella pubblicità delle vendite che non sarebbe di stretta competenza dell’ufficio ma affidata a società esterne, nell’utilizzo di notai per la predisposizione dei beni venduti, che secondo Scarpone non sarebbe esercitabile per le vendite senza incanto. Questo sistema, sempre a detta dello stesso cancelliere, avrebbe appesantito l’economia delle pratiche di aggiudicazione del Tribunale, di fatto portando ad un aggravio di spese ingiustificato.

Tutte spese che andrebbero a gravare sul ricavato delle vendite stesse, a tutto danno dell’esecutato. Raccolte le informa informazioni, il cancelliere aveva inviato una relazione alle varie autorità, e un esposto alla Procura della Repubblica. Gli atti, così come prevede la legge, sono finiti per competenza alla Procura di Campobasso, che è titolare territorialmente delle inchieste sui giudici e nella quale si è aperta un’inchiesta. Dopo alcuni mesi di indagine, però, il Sostituto Procuratore della Repubblica di Campobasso, Rita Caracuzzo ha ritenuto che non sussistessero elementi tali da rendere necessaria la prosecuzione dell’inchiesta e dell’iter giudiziario della stessa e ha avanzato una richiesta di archiviazione. Ma il gip molisano Giovanni Falcione, raccogliendo l’istanza di impugnazione presentata dallo stesso Scarpone, ha fissato l’udienza in Camera di Consiglio per il prossimo 4 dicembre, nella quale si discuterà appunto se archiviare o meno l’inchiesta. In quella sede, ovviamente, gli indagati avranno la possibilità di dimostrare la loro totale buona fede e provare come la prassi di vendita non provocasse alcun aggravio di spese, così come il fatto che tutto si è svolto nel pieno rispetto delle regole.

CARCEROPOLI

"Abbiamo rischiato una rivolta perché il negro ha visto tutto. Un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto...". Parole dal carcere di Castrogno a Teramo, parole registrate all'interno di uno degli uffici degli agenti di polizia penitenziaria, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Frasi spaventose impresse in un nastro. Ora questo audio è nelle mani della Procura della Repubblica di Teramo che ha aperto un'inchiesta sulla vicenda. Sono parole che raccontano di un "pestaggio" ai danni di un detenuto, quasi come fosse la "prassi", un episodio che rientra nella "normalità" della gestione del penitenziario. Un concitato dialogo tra il comandante delle guardie del penitenziario, Giuseppe Luzi e un agente che svelerebbe un gravissimo retroscena all'interno di un carcere già alle prese con carenze di organico e difficoltà strutturali. Il nastro è stato recapitato al giornale locale La Città di Teramo, ed è scoppiata la bufera. Il plico era accompagnato da una lettera anonima. In merito alla vicenda la deputata Radicale-Pd Rita Bernardini, membro della commissione Giustizia, ha presentato un'interrogazione al ministro Alfano. La deputata chiede al ministro Alfano se ritenga di dover accertare "se questi corrispondano al vero e di promuovere un'indagine nel carcere di Castrogno di Teramo per verificare le responsabilità non solo del pestaggio di cui si parla nella registrazione, ma anche se la brutalità dei maltrattamenti e delle percosse sia prassi usata dalla Polizia Penitenziaria nell'istituto".

Proprio la Bernardini ed il segretario Generale della Uil Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, hanno fatto una visita al carcere.

Un detenuto, Uzoma Emeka rinchiuso nel carcere di Castrogno, è in circostanza misteriose nell'ospedale di Teramo, scrive “Il Corriere della Sera”. Nigeriano, 32 anni, condannato a due anni per spaccio di stupefacenti, l'uomo aveva assistito il 22 settembre 2009 al pestaggio di un altro detenuto. In quell'occasione scoppiarono le polemiche perché un nastro anonimo, che parlava delle violenze, fu affidato alla stampa: «Non si massacrano così i detenuti in sezione, si massacrano sotto... il negro (Uzoma Emeka) ha visto tutto». Queste parole, dette da Giuseppe Luzi, capo delle guardie carcerarie ad un sottoposto, furono registrate da qualcuno e inviate al quotidiano locale La Città. Luzi fu sollevato dall'incarico dal ministro della Giustizia Alfano. Ora, a distanza di tre mesi arriva il decesso di Uzom. La procura ha aperto un'inchiesta anche su questa morte e secondo il quotidiano La Stampa, che riportava la notizia, i giudici hanno disposto che l'autopsia del giovane nigeriano sia filmata. Sentitosi male alle 8.30 mentre era al telefono con la moglie, Uzoma Emeka, è stato ricoverato in ospedale nel pomeriggio quasi cinque ore dopo ed è morto. «Non sappiamo, ma in ogni caso è certo che a Teramo si è verificato l’ennesimo caso di “abbandono terapeutico”», commenta in una nota Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto. «Ora, va da sé - aggiunge - si parla di "morte per cause naturali": ma sappiamo che oltre il 50% dei decessi in cella è classificato come dovuto a cause da accertare». Autolesionismo, abusi, morti improvvise, overdose presentate come suicidi, suicidi presentati come overdose, mancato aiuto, assistenza negata, «è un vero e proprio regime di omissione di soccorso - dice Manconi - quello che governa il sistema penitenziario italiano. Sullo sfondo di questo tragico avvenimento, l’ultimo di una lunga teoria di morti o inspiegate o sospette, c’è la vicenda del "negro ha visto tutto", del "massacro" involontariamente confessato, dei testimoni che esitano a parlare. Forse non ci sono "misteri" nel carcere di Teramo, ma certamente c’è un bubbone che va eliminato». Con il detenuto nigeriano morto nel carcere di Teramo le morti in carcere nel 2009 toccano quota 172: viene così superato il triste record del 2001, che aveva segnato con 171 detenuti morti, il numero più alto di morti in carcere nella storia della Repubblica. I dati sono dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere. Negli ultimi 10 anni, nelle carceri italiane, sono morte 1.560 persone, di queste 558 si sono suicidate. Per la maggior parte si trattava di persone giovani, spesso con problemi di salute fisica e psichica, spesso tossicodipendenti.