Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
INGIUSTIZIA
E
RIBELLIONE
SECONDA PARTE
ANTONIO GIANGRANDE
INGIUSTIZIA E RIBELLIONE
BIOGRAFIA DI UN ITALIANO VERO
LA MAFIA TI UCCIDE,
TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI
INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI
ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI
RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi
è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle,
interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con
sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia
elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo,
chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società,
che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio
Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si
incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che
bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci
si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di
noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il
Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente
domani."(Arthur Schopenhauer)
“L'Italia tenuta al
guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e
massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere
legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi,
invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il
rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini
e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge,
vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto”
degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed
istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la
responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
SOMMARIO
INDICE PRIMA PARTE
UNA
BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).
L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER
AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA
CHE SIAMO.
PREMESSA:
LA CREDIBILITA’.
PREMESSA:
IL PERCHE’ DI UNA MISSIONE.
PREMESSA:
GLI OSTACOLI.
PREMESSA:
LA CENSURA.
PREMESSA:
IL DIRITTO D’AUTORE ED IL DIRITTO DI CITAZIONE.
PREMESSA:
IL DIRITTO DI CRITICA.
PREMESSA: LE NUOVE
IDEOLOGIE.
PREMESSA: IL
PROGRAMMA POLITICO.
INTRODUZIONE.
COS’E’ LA POLITICA
OGGI?
PRESENTAZIONE
DELL’AUTORE.
PERCHE’ NON SON DIVENTATO AVVOCATO.
"PADRI DELLA
PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA
NOSTRA ROVINA.
E’ TUTTA QUESTIONE
DI COSCIENZA.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
I MEDIA ED I LORO
PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
LA CHIAMANO
GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI
TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI".
FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
TUTTA L’ITALIA E’ PAESE
PER UNA LETTURA
UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA
DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
INDICE SECONDA PARTE
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
VADEMECUM DEL
CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’
UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE
DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI?
CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA
MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE.
LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA.
SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA
ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE
ZOPPO.
QUANDO I BUONI
TRADISCONO.
DUE COSE SU
AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE
FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E
MARADONA.
ANCHE GESU' E'
STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO
ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED
UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI
INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI
BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE:
INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. ANTONIO GIANGRANDE E RITA ROMANO: DAVIDE E GOLIA.
LA DENUNCIA PER ABUSO DI UFFICIO E LA CONTRODENUNCIA PER CALUNNIA E
DIFFAMAZIONE. LE CARTE PUBBLICHE DEL PROCESSO PUBBLICO DEL TRIBUNALE DI POTENZA.
MAI DIRE MAFIA: IL
CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
IPOCRITI. IL GIORNO
DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI OLOCAUSTI.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI
DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA,
SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE
DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI
DI STATO.
PER LA TUTELA DEI
DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL
CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.
DIRITTO E
GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI
E MOSTRI A PRESCINDERE.
TARANTO. GUERRA DI TOGHE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
SARAH
SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI
MANETTARI.
VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA,
LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL
CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI
ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
“TARANTO: NON SOLO SCAZZI, SERRANO,
MISSERI. QUEL TRIBUNALE E’ IL FORO DELL’INGIUSTIZIA”.
TARANTO FORO
DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON
CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.
PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??
L’INTERVISTA MAI FATTA AD ANTONIO GIANGRANDE.
CAMPAGNA PER LA LEGALITA' E LA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO.
LA IRRESPONSABILITA' DEI MAGISTRATI.
ITALIA, GIURISPRUDENZA ILLOGICA E DANNOSA.
LA SITUAZIONE ITALIANA. L’ITALIA DEL TRUCCO: L’ITALIA CHE SIAMO.
FISCO E TASSE. ITALIA: RACKET DI STATO.
5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI.
DISGUSTO SANITA’. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE: FONTE DI TUTTE LE MAFIE.
FALLIMENTOPOLI IN ITALIA. FALLIMENTI DI AZIENDE SANE: FABBRICA DEL REDDITO PER
GLI OPERATORI GIUDIZIARI.
INQUINAMENTO. QUELLO CHE NON SI FA.
L'AGRICOLTURA. LA VOGLIONO SMANTELLARE.
LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.
LA SICUREZZA NELLE SCUOLE. QUELLA CHE NON C’E’.
GIUSTIZIA E LEGALITA’: CHIMERE IRRAGGIUNGIBILI. ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E
LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.
L'USURA. BANCARIA E DI STATO?
LE CARCERI. OMICIDI E TORTURA DI STATO. COLPEVOLE INDIFFERENZA. QUANDO GLI ALTRI
SIAMO NOI.
CENSURA ED INFORMAZIONE.
LE AFFISSIONI ELETTORALI ABUSIVE. VISIBILITA’ ABUSIVA E SELVAGGIA.
NOMINA TRUCCATA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.
I CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.
L'ACCESSO ALL'IMPIEGO PUBBLICO. LO SCANDALO DELLE STABILIZZAZIONI.
BARRIERE ARCHITETTONICHE.
PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE.
LAVORO E SINDACATI.
PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.
IL DIRITTO D'AUTORE. UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
LA BIGENITORIALITA' ED L’AFFIDO CONDIVISO.
“LA
COSTITUZIONE CHE VORREMMO”.
DOSSIER INGIUSTIZIA E RITORSIONI.
RICHIESTA DI REMISSIONE DEL PROCESSO PER MOTIVI DI LEGITTIMO SOSPETTO.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
RICORSO AL TAR. UNA SENTENZA GIA’ SCRITTA.
PARLIAMO DI LAVORO.
L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.
UNA GENERAZIONE A
PERDERE.
LA MAFIA DELLE
RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.
LE DONNE IMMIGRATE
PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
I
VICINI DI CASA
UNA BALLATA PER L’ITALIA
(di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Tra i nostri avi abbiamo
condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo
una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei
contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti,
mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o
sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa
sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e
ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli
stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Codardia e collusione sono le
vere ragioni,
invece siamo lì a
differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni,
po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non
sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza
altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e
non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto
da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo,
omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Simulano la lotta a quella che
chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le
lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più
forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i
fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli
innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è
questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici
truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui
più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le
strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare
tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica
Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi
anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e
non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci
spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e
l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere
vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Siamo senza lavoro e senza
prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci
rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi,
nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente
è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è
tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre
pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche
l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa
che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Gli ordini professionali di
istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione
catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti
i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in
Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma
non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano
senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa
con tanta pazienza,
non è la figlia del
rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Questa è un’Italia figlia di
spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e
merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti
e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e
nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma se tanti fossero cazzuti
come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi
governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a
rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne
vanto,
ma quest’Italia mica mi piace
tanto.
Rivoglio l’Italia
all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da
liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo:
sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per
arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta
l’11 agosto 2012)
Il Poema di
Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e
che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di
te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od
in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa
od in Albania.
Siamo italiani, della
provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della
penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente
sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è
vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai
denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi
come il serpente.
Le donne e gli uomini sono
belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei
paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il
Torrione,
come abbiamo la Giostra del
Rione,
per far capire che abbiamo
origini lontane,
non come i barbari delle terre
padane.
Abbiamo le grotte e sotto la
piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le
cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da
padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi
importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla
Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla,
chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e
porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri
e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le
foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e
da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma
con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i
marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e
medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te
ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini
ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea
che hai.
Su ogni argomento è sempre
negazione,
tu hai torto, perché l’ha
detto la televisione.
Solo noi abbiamo
l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani,
invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai
porci vorresti dare,
quelli li rifiutano
e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il
giardinetto,
dove si parla di politica
nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con
l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per
spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via
per mare,
dove i giornalisti ci stanno a
denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra
siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i
peccati.
Per una volta alla domenica
che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto
diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la
fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con
i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio
dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo
per la festa.
Non ci scordiamo poi della
processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo
dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove
portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché
abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il
campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo
giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi,
il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i
cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le
fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma
basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro
passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la
Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano
terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il
sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro
pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro
famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti
ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le
sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato
Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare
meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua
patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono
contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti
pure i nani,
che se non arrivano alla
ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli
altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche
li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia
della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non
mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti
faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non
hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e
la panza,
per loro la mente non ha
usanza.
Ti lascio questo poema come un
quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi
stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente
e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e
non ti dà aggio.
Se non lasci opere che
restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che
dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia
ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di
Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà
già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè,
ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in
Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri
puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti
la provincia tarantina,
simu sì pugliesi,
ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè
piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu
all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche
tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so
viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li
masculi so belli o carini,
ma ni spusamu
sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu
e puru lu Torrioni,
comu tinumu la
giostra ti li rioni,
pi fa capii ca
tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari
ti li padani.
Tinimu li grotti e
sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti
l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu
donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu
si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni
‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala
gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni
pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li
bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li
manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti
li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci
tu tai,
e no piccè puru ca
tu sai.
Tinumu la caserma
cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li
marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli
elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a
studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li
villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù
ti la lauria ca tieni.
Sobbra
all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu,
piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu
l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani,
inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli
puerci tai,
quiddi li scanzunu
e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza
cu lu giardinettu,
do si parla ti
pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza
cu l’orologio iertu,
do si parla ti
palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza
ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu
li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi
donca pari simu amati,
e
donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la
tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti
paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu,
cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu
Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e
Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti
loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè
ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma
scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do
si portunu li fili,
li facimu batà a
lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport
tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni
iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e
l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza,
li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu
cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu
picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia
a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e
la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani
ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu
loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè
amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu
li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero
donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati
e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu
lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa
alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta
in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua,
so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si
sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu
alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu
e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali
mancu li penzu,
puru ca loru olunu
mi calunu,
iu passu a nanzi e
li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra
la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi
incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè
campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani
mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu
divertimentu e la panza,
pi loro la menti no
teni usanza.
Ti lassu sta
cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu
sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu
nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi
sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi
ca restunu,
tutti ti te si ni
scordunu.
Pi l’autri paisi
puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa,
nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24
aprile 2011, dì di Pasqua.
ANTONIO GIANGRANDE
INGIUSTIZIA E RIBELLIONE
SECONDA PARTE
|
CURRICULUM VITAE
DI GIANGRANDE ANTONIO Antonio Giangrande, nato in una famiglia sbagliata, una delle tantissime nel meridione, egoista, retrograda ed ignorante, dove si fanno nascere i figli, collusi e codardi, per far ricchi i genitori ed assisterli nella vecchiaia. I figli nati per utilità e lo studio è di impedimento. I figli di quella generazione sono schiavi dei genitori ed al contempo, per non essere egoisti come loro, sono schiavi della progenie.
|
DATI PERSONALI |
Giangrande Antonio Di Oronzo Giangrande bracciante agricolo
22/04/1937 – 10/10/2022 e Antonia Santo bracciante agricola 21/02/41 Nato ad Avetrana (TA) il 02-06-1963 Residente ad Avetrana (TA) in via A. Manzoni n.
49 Tel/Fax
099.9708396
Cell.3289163996 |
DATI FAMILIARI |
Moglie da 01/03/1984: Cosima Petarra Erchie 08/05/1964 addetta impresa
pulizie Figli:
1.
Mirko
Giangrande Manduria 26/01/1985: Avvocato più giovane d’Italia a 25 anni
con doppia laurea primina e diploma secondario con soli 4 anni, con 10 a
tutte le materie, e non 5; Addetto Ufficio per il Processo UPP;
Professore di Diritto degli istituti superiori.
2.
Tamara
Giangrande Manduria 16/08/1986, coadiuvante familiare impresa
artigianale manufatti in cemento Nipoti, figli di Tamara:
1.
Antonio Minò
Francavilla Fontana 29/03/2015
2.
Nicolò Minò
Francavilla Fontana 07/09/2020 |
TITOLI DI STUDIO |
1.
Diploma di Licenza Media il 23 giugno
1977
2.
20/02/84. Iscritto nel Registro degli
Esercenti il Commercio al dettaglio di Taranto: Tab.:
I-II-III-IV-V-VI-VII-VIII-XIV (tabella speciale tabaccai).
3.
Diploma di Ragioniere e Perito
Commerciale presso l’Istituto Statale Tecnico Commerciale Luigi Einaudi
di Manduria (TA) 5 luglio 1992:
A.
Privatista per tutti i 5 anni;
B.
Voto: 36/60.
4.
Laurea in Giurisprudenza presso
l’Università Statale di Milano 11 luglio 1996.
A.
Vecchio Ordinamento Quadriennale;
B.
Studente Lavoratore e famiglia a carico (moglie
e 2 figli);
C.
26 annualità superate in 2 anni;
D.
Voto: 79/110
5.
Titolo regionale della Regione
Puglia: Operatore dei Servizi Giudiziari: Perito Fonico Trascrittore
Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.
Qualifica regionale di 600 ore: 350 ore di teoria, 250 ore di stage.
Inizio 25/02/2023 fine 01/08/2023. Corso svolto presso Dea Center di
Salice Salentino (Le). Oneri omnicomprensivi 3.000 euro.
6.
Certificato Internazionale di
Alfabetizzazione Digitale rilasciato da Salvemini il 10/06/2024, Ente
accreditato presso l'ente di accreditamento nazionale (MIM - Direttiva
170/2016) registrato con ID Sofia N.85971 conforme ai framework europei
(DigComp 2.2) |
CERTIFICATO PENALE |
Incensurato – nessun carico pendente Questo nonostante i reiterati tentativi di
incriminazione di alcuni Magistrati ed Avvocati di Taranto per reati di
opinione per aver denunciato la malagiustizia a Taranto e per aver
scritto inchieste in tutta Italia. L’intento era, oltre impedirmi l’abilitazione
forense, impedirmi di partecipare ai Concorsi Pubblici, per cause
inibenti di procedimenti penali conclusi con condanne o ancora in corso. Procedimenti estinti senza seguito: Mancini, De
Prezzo, Calora, Dimitri, Cavallo, Romano, Coccioli, Bravo, Lazzara, ecc.
|
CONOSCENZE DELLE LINGUE |
1.
Scolastica:
A.
Inglese;
B.
Francese;
C.
Tedesca. |
CONOSCENZE INFORMATICHE |
Sistema Operativo: Windows Applicativi:
Word, Excel,
Frontpage, Microsoft Expression |
PATENTI
AUTO |
A, B, C, D, E, (CAP non rinnovato) |
POSIZIONE
MILITARE
|
Servizio Militare assolto dal 27 maggio 1982 al 9
maggio 1983 presso il Battaglione Logistico Paracadutisti di Pisa |
ESPERIENZA LAVORATIVA |
1.
Coadiuvante
all’autolavaggio di famiglia a 14 anni: dal 2/06/1977 all’1/09/1979
2.
Emigrato in
Germania a 16 anni dal 1/09/1979 al 1/05/1980
3.
Da 1/05/1980
all’27/05/1982 coadiuvante al negozio al dettaglio di generi alimentari
di famiglia.
4.
Servizio
militare da 27/05/1982 al 9/05/1983
5.
Dal 9/05/1983
al 13/09/1990 Imprenditore Commerciale Autonomo:
A.
Commerciante
carni;
B.
Commerciante
frutta;
C.
Pizzaiolo e
Ristoratore stagionale.
6.
Dal 13/09/1990
al 17/06/1991: Guardia Giurata Particolare e Responsabile Unico della
sicurezza del cantiere presso Igeco spa di Lecce.
7.
Dal 17/06/1991
all’1/09/1992 Pizzaiolo e Ristoratore stagionale.
8.
Dall’1/09/1992
all’11 luglio 1996 studente universitario lavoratore a Milano con moglie
e figli a carico.
A.
Dall’1/09/1992
all’1 aprile 1993 Co.Co.Co
B.
Dall’1/04/1993
all’ 1/11/1993: Investigatore Privato e responsabile unico della
sicurezza del Centro Direzionale di Segrate (MI) presso la De Pittis
Investigazioni Milano
C.
Dall’1/11/1993
all’11/07/1996 Co.Co.Co.
9.
Dal 17/04/1998
al 17/04/2004: Praticante Avvocato con patrocinio legale presso Il
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto e Titolare di Studio
Legale ad Avetrana. Non abilitato Avvocato dopo 17 anni di esame di
Stato a causa di ritorsione per aver denunciato l’esame nazionale
truccato di abilitazione forense, da cui è scaturita la riforma del
2003. Il D.L. 112/03
è convertito nella Legge 180/03.
10. Dal 17/04/2005 al 20/02/2007: Imprenditore Professionale (Agenzia d’Affari) nel campo assicurativo e dell’infortunistica stradale. Sub-agente plurimarche ed antesignano per l’offerta più conveniente, fino a che il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo e, di fatto, la ricerca della tariffa più conveniente. Il Regolamento prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’ISVAP. In questo modo l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia. Il Regolamento inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro. Il Regolamento impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti. Il Regolamento impone l’iscrizione dei subagenti solo se indicati dagli agenti presso cui operano, imponendo di fatto il mono mandato. Lo stesso agente, però, è anch’esso mono mandatario, così obbligato dalla compagnia. Il Regolamento è a favore di tutte le compagnie di assicurazione, le quali obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.
11.
Dal 20/02/2007
a tutt’oggi: Saggista e Sociologo Storico. Pubblicazione su Google e su
Lulu di oltre 445 saggi pluridisciplinari letti in tutto il mondo. Dal
24/07/2020 Amazon, da cui si traeva la quasi totalità del profitto di
vendita, ha chiuso l’account di pubblicazione, per aver rendicontato ed
approfondito il fenomeno del Covid. |
INCARICHI PUBBLICI |
1.
04/03/2018.
Presidente di Seggio elettorale
2.
03-04/10/2021.
Segretario di Seggio Elettorale. |
CONCORSI PUBBLICI |
La procedura concorsuale assevera
la legalità, ma non rispecchia la legalità.
Gli scritti:
Nei Concorsi Pubblici ci sono due
tipi di prove scritte:
Quella con risposte uniche e
motivate, la cui correzione è, spesso, lunga, farraginosa e fatta da
commissioni clientelari, familistici e incompetenti che non correggono,
o correggono male non avendo il tempo necessario, o la preparazione
specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione.
Quella con domande multiple,
spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono
velocità di correzione e uniformità di giudizio.
Chi è abituato all’aiutino
disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se non conoscendoli in
anticipo.
Il metodo di correzione degli
elaborati negli esami di Stato (vedi Avvocati/magistrati) o nei concorsi
pubblici è sempre lo stesso: si dichiarano corretti i compiti che non
sono stati nemmeno visionati. Per attestare ciò detto, non si abbisogna
di microfoni o microspie nelle segrete stanze delle commissioni e dei
"Compari". Basta verificare i tempi di correzione se siano sufficienti e
controllare le prove se e come sono state corrette, anche in relazione
alle altre prove ritenute idonee. I Tar di tutta Italia ne scrivono di
nefandezze commesse. Nel ribellarsi, però, non si caverà un ragno dal
buco: perché così fan tutti!! Giudicanti, ingiudicati.
L’orale: I commissari d’esame
sono nominati dalle Amministrazioni procedenti. Ergo: fanno i loro
interessi.
Il loro interesse è avere come
dipendente un elemento affidabile e/o esperto, più che preparato.
In questo senso la Commissione in
sede di esame orale:
sceglie l’affidabilità del
candidato in base al nominativo ricevuto da terzi;
sceglie l’esperienza del
candidato in base agli incarichi pregressi coperti già in altre
Amministrazioni Pubbliche. In questo caso il giudizio dei commissari è
indirizzato, anche se vi è scena muta.
La Commissione è preparata in
base alle sole domande da loro poste e non su tutti gli argomenti
d’esame. Se l’argomentazione del candidato approfondisce il tema, la si
mette in difficoltà e scatta la ripicca.
La prova orale, madre si tutte le
arroganze e presunzioni. In sede di esame orale ti trovi di fronte una
schiera di Commissari di esame che fanno sfoggio della loro sapienza
rispetto a te e rispetto a loro stessi. L’oggetto dell’esame non verte
sulla tua perizia rispetto alle materie esaminandi, ma sulla capacità di
metterti in difficoltà rispetto alla loro presunzione di saperne più di
te e del loro collega commissario. Tu che hai superato a pieni voti lo
scritto ti trovi di fronte una barriera di contestazioni, di
approssimazioni, di fuorvianze, che ti inceppano i ricordi e che minano
il tuo stato psicologico. Se invece sei un amico o conoscente, o,
meglio, un raccomandato, tutto cambia. Le domande sono benevole, o i
voti sono in contrasto con la scena muta, o con risposte incomplete o
fuorvianti. I senior, pur senza limitazioni all’accesso, poi sono
penalizzati: non idonei a prescindere. Chi già opera in altri corpi,
magari assunto con un concorso truccato, e per capriccio e sazietà vuol
cambiare, è favorito, pur se incapace. Fortunati una volta, fortunati
per sempre. Meglio allora se non si fanno più le prove orali.
1.
02/06/1976. Domanda nell’Arma dei Carabinieri: lettera morta. Esito
scontato per un giovane che non è raccomandato.
2.
13/09/1991. Concorso della Polizia di Stato, scritto voto 8.16, tra i
primi 50 sul oltre 20.000 candidati. Il seguito: lettera morta. Esito
scontato per un giovane preparato che non è raccomandato.
3.
29/10/1991, prova di guida e 25/01/1992 prova psico-fisica-attitudinale
superate al concorso del Ministero della Giustizia per autisti degli
automezzi speciali: mai chiamato. Esito scontato per un uomo preparato
che non è raccomandato.
4.
26/10/1992. Concorso all’ATM di Milano per ferrotranviere. Prova di
guida: mai chiamato. Esito scontato per un uomo preparato che non è
raccomandato.
5.
16/01/1997. Concorso di Uditore Giudiziario: lettera morta. Esito
scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.
6.
04/05/1998. Domanda per nomina di Giudice di Pace. Lettera Morta. Esito
scontato per un uomo preparato che non è raccomandato.
7.
18/11/1999. Concorso di Comandante del Corpo di Polizia Municipale di
Manduria. Candidati oltre 300. 5° allo scritto, all’orale preceduto da
chi aveva indetto e regolato il concorso. Esito scontato per un uomo
preparato che non è raccomandato.
8. Dalla
sessione di esame di Avvocato 1998 alla sessione di esame di Avvocato
2014, per 17 anni, alla prova scritta si è dato sempre – stranamente -
un voto uguale (25/30) a tutti e tre gli elaborati (civile, penale,
amministrativo), insufficiente al superamento dell’esame, a mo’ di
ritorsione per le battaglie intraprese. I ricorsi al Tar, rigettati, ma
accolti per tutti gli altri, per le medesime ragioni. Esito scontato per
un uomo preparato che non è raccomandato.
9. Dal
2000 al 2023 non ho potuto svolgere concorsi pubblici per procedimenti
penali pendenti con accuse risultate infondate, per calunnia in
riferimento alle accuse di malagiustizia e concorsi truccati in enti
pubblici e di abilitazione, specialmente in avvocatura, di cui si è
stati promotori per la riforma della legge (Legge 18 luglio 2003, n. 180
conversione Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, Legge Castelli della
migrazione degli elaborati).
10. 22/05/2023. Iscritto
nell’elenco Asmelab degli aspiranti Comandanti della Polizia Locale,
dopo aver superato l’esame scritto per presentare interpello all’orale
delle Pubbliche Amministrazioni richiedenti, o scritto se troppi
interpellanti. Esito scontato per un sessantenne preparato. Per ogni
risposta corretta verrà attribuito al candidato un punteggio di 0.166
periodico, con arrotondamento per eccesso (0,166), per ogni risposta
errata o non data verrà attribuito il punteggio 0 (zero). Questo è un
concorso per chi dà più risposte esatte, non per chi dà meno risposte
sbagliate, magari a domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit
o abbuoni), come quelle del Ministero della Giustizia o Agenzia delle
Entrate.
11. 10/07/2023. Comune di
Venosa (PZ), aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti
229, partecipanti alla prova scritta 120, posizionato 5°. Per ogni
risposta corretta verrà attribuito al candidato un punteggio di 0.166
periodico, con arrotondamento per eccesso (0,166), per ogni risposta
errata o non data verrà attribuito il punteggio 0 (zero). Questo è un
concorso per chi dà più risposte esatte, non per chi dà meno risposte
sbagliate, magari a domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit
o abbuoni), come quelle del Ministero della Giustizia o Agenzia delle
Entrate. Esame orale pubblico a Venosa il 14/07/2023. Preceduto. Esito
scontato per un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non
raccomandato.
12. 06/09/2023. Comune di
Gattinara (VC), aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti
76, posizionato 5° IDONEO, esame orale pubblico a Gattinara il
18/09/2023. Preceduto ingiustamente. Esito scontato per un sessantenne
preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.
13. 02/10/2023. Comune di
Anacapri (NA), aspiranti Comandanti della Polizia Locale, interpellanti
249. Preceduto. A tutti sono poste due domande secche: una obbligatoria
sugli appalti pubblici. Nessuno ha saputo rispondere in modo esauriente,
meno che uno... Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
14. 10/10/2023. Comune di
Vigliano Biellese (BI), aspiranti Comandanti della Polizia Locale,
interpellanti 53. Preceduto. Commissione: non idonea. Esito scontato per
un sessantenne preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato.
15. 20/11/2023 e 23/11/2023
Concorso Agenzia delle Entrate. Su 129.751 candidati arrivato tra i
primi 13.000. Esito scontato per un sessantenne preparato. Selezione
pubblica per l’assunzione a tempo indeterminato di complessive 3970
unità per l’area funzionari, per attività tributaria - Agenzia delle
Entrate
- 0,08 per ogni domanda errata;
+ 0,43 per ogni domanda corretta;
0 punti per ogni domanda omessa.
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
Esito Prova: Non Superata
Punteggio Totale: 20,92 punti
52 corrette 18 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
Selezione pubblica per
l’assunzione a tempo indeterminato di complessive 530 unità per l’area
funzionari, per i servizi di pubblicità immobiliare - Agenzia delle
Entrate
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
- 0,08 per ogni domanda errata;
+ 0,43 per ogni domanda corretta;
0 punti per ogni domanda omessa.
Esito Prova: Non Superata
Punteggio Totale: 15,82 punti
42 corrette 28 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
16. 16/12/2023 Comune di
Savignano Irpino (AV), aspiranti Comandati della Polizia Locale.
Commissari impreparati. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
17. 13/02/2024 Comune di
Capri (NA), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissari in mala
fede. Graduatoria di già graduati in altri corpi di polizia che non
hanno risposto a tutte le domande, o fatto in modo incompleto o
fuorviante. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma considerato
vecchio e non raccomandato.
18. 20/02/2024 Comune di
Beinasco (Ente capofila) (TO), elenco di idonei aspiranti Comandati
della Polizia Locale dei comuni aderenti allo specifico accordo (Bruino,
Castagnole Piemonte, Orbassano, Rivalta di Torino, Sangano ed il
Consorzio C.I. di S.). Prova scritta: 5° su 50 candidati. Questo è un
concorso per chi dà più risposte esatte, non per chi dà meno risposte
sbagliate, magari a domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit
o abbuoni), come quelle del Ministero della Giustizia o Agenzia delle
Entrate. Esito scontato per un sessantenne preparato.
19. 07/03/2024 Comune di
Borgomanero (NO), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Paese senza
bagni pubblici, nemmeno in stazione ferroviaria. Commissione domestica e
pretenziosa. Candidati due, di cui uno già funzionario in altro ente.
Entrambi bocciati. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
20. 18/03/2024 Comune di
Melfi (PZ), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissione
domestica. Come di solito nelle città del Sud, una marea di candidati:
oltre 100. Una trentina presenti all’orale. In virtù della privacy
risultati dei 6 idonei in anonimato con corrispondenza ad un numero
domanda, di cui non si riesce a risalire al titolare, nemmeno per sé
stessi. Esito scontato. Esito scontato per un sessantenne preparato, ma
considerato vecchio e non raccomandato.
21. 13/05/2024 Comune di
Panicale (PG), aspiranti Comandati della Polizia Locale. Commissione
domestica. Commissari in mala fede. Graduatoria di già graduati in altri
corpi di polizia che non hanno risposto a tutte le domande, o fatto in
modo incompleto o fuorviante. Esito scontato per un sessantenne
preparato, ma considerato vecchio e non raccomandato. Così per me, così
per altri interpellanti presenti. Ti danno il 6/10 per impedire anche lo
scorrimento della graduatoria.
22. 05/06/2024 Concorso
Ufficio per il Processo. Su 72.901 candidati superato dai giovani
avvantaggiati dalle norme sul concorso (Il punteggio per le lauree
conseguite nei sette anni precedenti valgono doppio). Esito scontato per
un sessantunenne preparato. Concorso pubblico, per titoli ed esami, su
base distrettuale, ad eccezione di Trento e Bolzano, per il reclutamento
a tempo determinato di 3.946 unità di personale non dirigenziale
dell’Area funzionari, con il profilo di Addetto all’Ufficio per il
processo, da inquadrare tra il personale del Ministero della giustizia
A ciascuna risposta è attribuito
il seguente punteggio:
- Risposta esatta: + 0,75 punto;
- Mancata risposta: 0 punti;
- Risposta sbagliata: - 0,375
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
Non Superata
Punteggio Totale: 19,875 punti
31 corrette 9 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti
23. 09/01/24 iscrizione al
"Concorso pubblico, per titoli ed esami, per il reclutamento di un
contingente complessivo di n.152 (centocinquantadue) unità di personale
non dirigenziale, a tempo pieno e indeterminato, da inquadrare nell’Area
Funzionari del Ministero della difesa, con competenze in materia
giuridico amministrativa (Codice A.1)". Esame il 10 luglio 2024. Idoneo
non vincitore su 36.323 candidati. Titoli di preferenza: gioventù.
A ciascuna risposta è attribuito
il seguente punteggio:
- Risposta esatta: + 0,75 punto;
- Mancata risposta: 0 punti;
- Risposta sbagliata: - 0,25
(0,375 relazionali)
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni).
ESITO PROVA GNGNTN63H02A514Q
GIANGRANDE ANTONIO
Superata
Punteggio Totale: 21,25 punti
30 corrette 10 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti. Con lo stesso
criterio di punteggio avrei superato il concorso dell’Agenzia delle
Entrate e del Ministero della Giustizia (UPP), con meno domande
sbagliate (9).
24. 27/03/2024 iscrizione
al concorso "REGIONE PIEMONTE - CONCORSO PUBBLICO PER AUTISTI - BANDO N.
211". Esame il 24 luglio 2024. Candidati 977, presenti 406, voto 25,37,
escluso tra i primi quaranta previsti dal bando.
25. 25/04/24 iscrizione ad
AVVISO del Comune di Ginosa DI MANIFESTAZIONE DI INTERESSE PER IDONEI IN
GRADUATORIE DI CONCORSI PUBBLICI PER L’ASSUNZIONE A TEMPO PIENO E
DETERMINATO DI N. 4 UNITÀ DI PERSONALE DEL PROFILO PROFESSIONALE DI
AGENTE DI POLIZIA LOCALE: mai chiamato.
26. 12/05/2024. Iscrizione
concorso "Avviso di selezione pubblica per l’aggiornamento, relativo
all’anno 2024, dell’Elenco di Idonei da assumere quale Agente della
Polizia Locale nella Provincia di Lecce e negli enti locali aderenti
allo specifico accordo. Esame il 19 luglio 2024.
A ciascuna risposta è attribuito
il seguente punteggio:
- Risposta esatta: + 0,75 punto;
- Mancata risposta: 0 punti;
- Risposta sbagliata: - 0,18
Questo è un concorso non per chi
dà più risposte esatte, ma per chi dà meno risposte sbagliate, magari a
domande ingannevoli, fuorvianti o errate (Tar dixit o abbuoni). ESITO
PROVA GNGNTN63H02A514Q GIANGRANDE ANTONIO
Superata
Punteggio Totale: 19,77 punti
29 corrette 11 errate 0 non date
La prova viene considerata
superata con un punteggio uguale o superiore a 21 punti. Con lo stesso
criterio di punteggio avrei superato il concorso dell’Agenzia delle
Entrate e del Ministero della Giustizia (UPP), con meno domande
sbagliate (9).
27.
16/06/2024 iscrizione GRADUATORIE DI CIRCOLO E DI ISTITUTO DI III FASCIA
DEL PERSONALE AMMINISTRATIVO, TECNICO E AUSILIARIO della scuola.
28. 16/06/2024 iscrizione
concorso Asmel aggiornamento elenchi ISTRUTTORE VIGILANZA CAT. C1 |
ESPERIENZA ASSOCIATIVA |
Fondatore e Presidente Nazionale della
“Associazione Contro Tutte le Mafie”
www.controtuttelemafie.it -
www.telewebitalia.eu Primo presidente di Avetrana del Circolo politico di Alleanza Nazionale |
ATTIVITA’ SPORTIVE |
Calcio – Paracadutismo militare – Corsa di resistenza - Podismo
Boxe – Arti marziali |
FUNZIONI AZIENDALI OFFERTE
|
Figura Professionale Duttile, Competente |
MOVIMENTAZIONE
|
Disponibilità alle trasferte |
LEGGE SULLA PRIVACY
|
Autorizzati al trattamento dei dati ai sensi del D.Lgs. 196/2003 |
Dr Antonio Giangrande
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei
processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla
parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani
sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di
scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della
Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di
Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va
bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un
popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo”
di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle
cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene
le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene
che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce
sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel
formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe
dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a
Berlusconi.
Esemplare anche è
il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie
della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo
campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra,
Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in
associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia,
si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di
Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua
ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi:
«...
e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una
frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta
presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna
inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente
identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano
Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il
potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale
dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato
Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato
detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul
degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che
hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato
a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un
incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il
potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo
psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità
professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette
anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione
indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici
uffici per
Silvio Berlusconi:
il
processo Ruby
a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una
camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore
abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia
Turri,
Orsola De Cristofaro
e
Carmen D'Elia hanno
accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa,
rappresentata dai pm
Ilda Boccassini
(in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano
Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo
presenzi in dibattimento)
e
Antonio Sangermano.
I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli
atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di
Giorgia Iafrate,
la poliziotta che affidò Ruby a
Nicole Minetti.
Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di
diverse
olgettine,
di
Mariano Apicella
e di
Valentino Valentini.
Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a
Ruby,
Karima El Mahroug e
al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo
cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono
destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il
profitto".
I paradossi
irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo
il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta
tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi
i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa
non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati».
Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e
nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola
sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia».
Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in
difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo
assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la
giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin
dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non
poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più
in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i
testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni
portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della
Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno
preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e
tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole,
hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella
professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia.
Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei
giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le
trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere
dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni,
previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio
abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno
dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del
Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata
Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi
procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al
teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in
servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva,
infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico
ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in
condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato -
ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però,
nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che
afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura
finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a
Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia.
Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti",
con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era
presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul
libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello
- io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre
lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai
visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata
dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la
verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato".
Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze
che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea
di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista
Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di
chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne
giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione
diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato
di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di
Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni
internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far
contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era
stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni
Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca
diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si
sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali
di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore
Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un
viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del
tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non
piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo
per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro
Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere
conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di
testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità
assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non
ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi.
Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e
protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di
questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza
precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi.
Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma
soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla
condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film
Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi.
Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento,
la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità.
Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti
usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in
difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi,
bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi,
traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello
Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi,
tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati
travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte
alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver
testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di
diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale
il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che
se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati
omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere.
Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di
concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a
Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai
pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di
prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da
quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il
cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non
solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto
a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi
per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo,
uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi
istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da
realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il
tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi
juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è
stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere
rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi
noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare
una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il
caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni
e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada
Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della
Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver
ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi
juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era
sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007,
per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato
condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo,
determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati
come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove
anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per
Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima
Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento
per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di
Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al
fratello e al nipote.
Caso Marta Russo.
L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di
Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e
quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni,
studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa
all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola
alla testa.
Caso Jucker.
Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di
stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di
reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno
conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di
carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte
d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico
Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di
carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni
personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato
Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado,
Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di
reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa
ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della
provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era
stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione
per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e
tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante
gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino
supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi
minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di
poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli
(ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone.
Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate
rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna
a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli
8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel
novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e
Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di
Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi
Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate
due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre
imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della
moglie.
Pesaro. Picchiò e
gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno
scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per
sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà
versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila
per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la
notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata
Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto
15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi,
ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà
rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso:
condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi
Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion
Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San
Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della
'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà
scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati,
giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato
omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il
cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio
d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del
reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In
Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di
carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere
che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare
insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con
l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il
1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente
a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto
jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di
Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato
storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo
chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di
falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super
testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato,
perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima
Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima
Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti
coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora
Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno
c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un
colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su
di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono
anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai
contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96
alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati
eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non
c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora
arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi
ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono
soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite,
tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la
Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma
alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo:
beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per
calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i
verbali dei pentiti.
Taranto, Milano,
l’Italia.
“Egregi signori,
forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di
avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a
Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne
deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri.
Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non
per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di
avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e
inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come
l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni
d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che
possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo
concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere
truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per
gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni,
come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi
non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là
dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia
vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami,
vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza
del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il
più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa,
senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del
dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le
vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non
per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi.
Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno
centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete
sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un
ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche
questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose:
potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché
morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e
grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di
dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 150 mila e
questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e
l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un
ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più
mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi.
Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei
945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si
cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui
rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in
galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li
chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno
di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò
succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per
calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di
avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i
cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio
Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e profondo
conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta
presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non
candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di
caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come
cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di
presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto
dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A
Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso
della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta
alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della
Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è
tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%
a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per
esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5
minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi
fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso
scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna”
all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le
intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per
l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o
mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle
streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i
professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura
uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche
l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il
dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono
l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste
sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari
pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta
presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le
azioni di tutela: una denuncia per
calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi
responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti.
Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla
dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica.
Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato
che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi
è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una
consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche
la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in
quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre
alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce
l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il
tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi,
se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può
spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per
occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli
avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame,
verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed
in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i
compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a
fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione
possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo
dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari
dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta,
non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera
primaria, fonte del plagio,
presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale
corrispondenza.
Essi, al di là
della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e
l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui
pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle
massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la
propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi
i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati
e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma
permettendo).
Dovrebbero, i
commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere,
accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo
dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho
denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati.
Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o
pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la
credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL
CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO:
spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte
dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di
studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza
(perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso
quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto.
Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le
Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed
i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME:
spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che
hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale
presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato
nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la
commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma
(decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18
luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli
Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal
Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri
nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli
avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità
anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre
sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del
proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od
osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle
componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame.
Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato,
del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le
Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e
clientelari.
I CONCORSI FARSA:
spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come
il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i
lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE:
le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei
fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse
nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame.
Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente
aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con
massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive.
Sessione
d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella,
Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato
bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n.
1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e
poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di
un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in
modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a
sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore.
Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico
sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei
dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da
molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si
prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a
rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era
incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il
comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e
conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura.
Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo)
al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno
scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME:
spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni
prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del
sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per
l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede
all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle
Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del
tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di
ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in
precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte
le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti
all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in
un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la
prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle
relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di
testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE:
c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande
salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso
di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e
materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello
Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di
materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati
dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il
“Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame
di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova
annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è
permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come
succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere
da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e
nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo
scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte
per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla
commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei
elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti
identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile,
diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali
anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente».
Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo
svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa:
“scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di
non perdere il filo». «Che
imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non
avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata,
che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà
il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata
ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso
specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca
delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001
promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in
trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati
arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord
dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel
mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a
Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del
luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di
giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono
numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente
accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona
e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di
candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai
sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra
gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare
che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il
procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero
così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997
rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di
indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare
dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per
avvenuta prescrizione». Tutto finito.
Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse
nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame.
Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente
aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con
coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe
l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni
permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il
magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici
commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso.
I commissari
d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era
rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare
l’opera primaria, fonte del plagio,
presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale
corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare
che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione
totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo
essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per
suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur
essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono
per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della
riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti
sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si
dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano
integralmente i compiti.
In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in
vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto,
giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola
manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più
tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso.
Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi
non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto
a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in
maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono
qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per
copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi
ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led
viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in
classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo
della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente
formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e
arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display
elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO:
il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente
un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero
essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio.
Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari
firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI.
Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed
eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di
tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la
commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame
del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale
della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche
sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione
delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un
corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari,
giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli
elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si
legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo,
senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite
di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono
altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e
professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i
compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno
raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso
nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono
mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia
d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali,
familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni
abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un
indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni
avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il
rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in
relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il
cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione.
Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa
avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero
aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la
concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono
persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e
più competenti».
Paola Severino
incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata
all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per
infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal
Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School»
promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio
Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta
fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio
futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo
sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto
sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare
fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che
si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per
i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i
test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto
pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi
l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili,
quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di
tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque
a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia
famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi
agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia.
Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici
e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di
preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di
specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre
2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile,
la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi
promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi
spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati
previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia.
Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento
degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati
scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di
specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione
rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice
l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura
degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i
curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me
visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun
candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre
temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra
obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano
Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il
concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in
base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3
minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta
chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno
dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad
ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della
commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame
divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane
Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di
abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle
20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in
Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La
denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno
spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per
manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i
compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un
consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si
è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette
le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza
di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette,
significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record
da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che
ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori
hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa
identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori,
Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso.
L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la
presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità"
serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre
l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di
loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato
dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra
rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o
meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi
sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del
giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza
di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti,
ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e
giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò
denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se
la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere
un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza.
Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione,
quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per
leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido
il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa
magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato
tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli
orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni
voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di
professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi
agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un
servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi
di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al
concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato
ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico
ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi,
classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per
magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali
dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media
(comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e
quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel
1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una
vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che
vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario,
tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si
occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti
i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo
dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi
di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne
scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato
proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario
esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da
promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009
apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano
torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500
vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha
voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni
dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più
strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma
di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati
nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso,
figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria,
figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però,
ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al
concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI.
Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo
al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si
presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio
Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il
Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino
non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex
procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era
il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari
componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo
fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di
Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli
orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un
falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in
una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima
non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti
per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione
diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani
nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale
gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato
(una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale
episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo
stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali
pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari
attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere
particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella
commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico.
Sessione
d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella,
Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato
bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n.
1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e
poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di
un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in
modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a
sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore.
Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico
sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei
dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da
molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si
prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a
rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era
incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il
comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e
conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura.
Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo)
al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno
scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
Il
presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo
gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha
risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di
presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA.
Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di
giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro
amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di
battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso,
dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza
175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento,
economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una
dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni
sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le
operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per
il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito,
il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”,
secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di
abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion
di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle
commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e
giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del
loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non
promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro
presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento
giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella
massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio.
Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e
umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto
assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione
sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che
supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti.
All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di
Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di
esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento
amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo
tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica
amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione
esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in
relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio
sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul
terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso
a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da
evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante
principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n.
8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le
commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande.
Da venti anni
inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed
il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i
trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi,
insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di
processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena.
Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A
parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare.
Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro
Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi
compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA
CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA
MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL
DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI.
Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il
voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine
cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente,
altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha
prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato
ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more
ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni
successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti
(25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di
correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a
presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi
successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata
alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi
presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di
accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i
ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si
contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una
pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una
decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre
2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto
in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica
con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3
compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici
questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati
amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di
Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia,
perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene
notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e
con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il
presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato
dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e
testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono
state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina
d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente,
tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le
sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi
pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della
Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad
annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i
candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le
denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi
sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica
esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un
consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si
è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette
le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza
di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette,
significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record
da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che
ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori
hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa
identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori,
Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso.
Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni
parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da
Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno
che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per
l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati
amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un
imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i
magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare
controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati
amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero
stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un
candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già
patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata
sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già
scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello
di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel
precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del
Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare
in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il
ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo
addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta
fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008),
che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della
decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il
concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale
De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove
scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una
altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato
(Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo
Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza
(Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi
Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da
irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di
autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e
magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non
ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei
nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima
delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di
concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in
aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.
Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del
concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco
perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le
caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di
abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività
professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina
del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina
arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio
Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte
del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si
scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da
buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una
imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha
scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su Google libri o in ebook
su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che,
ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane
altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno
iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro
Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare
Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e
dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti
professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno
un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che
provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze
al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei
cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh!
Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza
dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la
regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente,
non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per
tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto.
La riforma forense, approvata con Legge 31
dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici
frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati
in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro
roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che
hanno dato vita al primo
Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della
professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934
n.36) questa contro riforma reazionaria
gli fa un baffo.
Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene
in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di
persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in
un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto
che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era
quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi.
In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un
tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la
portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto,
ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in
colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello
aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta,
la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il
vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva
alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su
mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia
inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni
arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per
danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote.
Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando
la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però,
che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi
metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto
distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha
disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio
ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però,
che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che
la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la
vecchietta di cui sopra.
Una prima volta
sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la
domanda.
Tutti i giudici di
pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla
collega.
La tapina chiamata
in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La
poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata.
La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i
testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non
sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui
ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa
hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per
calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la
persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello
sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in
collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante
del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due
fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue
le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei
deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per
condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le
accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé
o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante
dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia
contro se stesso.
La procura ed i
giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro
l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per
anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui:
non è suo.
Il paradosso è che
si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che
si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico
non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può
condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa
arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente
per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale
triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno,
erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino,
non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito
Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La
stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non
vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In
via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna
senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte
queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti
tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia
quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco
a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti?
Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana
da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state
fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere
Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della
mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla
quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una
relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della
polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La
relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano
della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto
Tartaglia.
La legge forse è
uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive.
Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro
della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio
2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7
Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati...
le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è
altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di
intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a
parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i
campanilismi e le lobby».
Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli,
scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco
del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex
Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che
in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna
di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare
qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No,
evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a
non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e
pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e
potenti. È la Lobby ed anche Casta
dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non
fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla
verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la
sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il
ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo
pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura,
tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori
onda la Cancellieri si lascia
scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere
tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non
vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura
democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i
deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi,
nudda sentu”.
I magistrati,
diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi
metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di
Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564
giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni
nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei
tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio
la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella
giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e
della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo
penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15
anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per
Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e
premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti
televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai
vista in Italia. Il 26 ottobre 2012
i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro
anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa
(il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice
una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9
novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso
in appello. L'8 maggio 2013 la Corte
d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di
interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio
2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013
l'udienza del processo per frode
fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da
Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se
ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi
2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo
1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni
di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici
uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare
a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale,
il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi
avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono
esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il
migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la
sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista
un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime
i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello
che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente -
ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi
della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e
la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro
giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare
una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono,
significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore
risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci
sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti.
Tutto
iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato)
consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a
Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle
centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla
sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano
per affermare questo.
E su come ci sia
commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso
Alessandro Sallusti che
si confessa. In
un'intervista al
Foglio
di
Giuliano Ferrara,
il direttore de
Il Giornale
racconta i suoi anni al
Corriere della Sera,
e il suo rapporto con
Paolo Mieli:
«Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo
governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno
scoop pazzesco.
E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai
tempi di Mani pulite il
Corriere
aveva due
direttori, Mieli e
Francesco Saverio Borrelli,
il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una
tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in
cui pubblicammo l'avviso
di garanzia
a
Berlusconi.
Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi
piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e
Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di
insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono
grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già
scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero
stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il
presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva
nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe
sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di
principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello
sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che
sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa"
giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente
d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino
Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato
impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno
strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una
cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è
innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna
subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle
parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni,
le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i
vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché
sfogarsi con il classico "Italia
paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai
boiardi di Stato. E' reato, in quanto
vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la
Corte di cassazione
- Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a
Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano
2 novembre 2005
fermò un
uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una
vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione
fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad
arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si
vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante
prese nota di quella frase e lo denunciò.
Mille euro di multa -
In appello, il 26
aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la
contravvenzione
arrivò la condanna,
pena interamente coperta da indulto.
L'uomo decise così
di rivolgersi alla Cassazione.
La sentenza poi confermata dai
giudici della prima sezione penale del Palazzaccio.
Il verdetto:
colpevole di "vilipendio
alla nazione".
Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata
- di
mille euro
per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua
intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera
manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in
qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in
offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica
obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice
penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione,
da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia,
lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la
Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in
manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di
ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività
nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il
comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro
la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di
un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto
un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini”
- il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo
materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente,
tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività
nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla
coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi
cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate
espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore
e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita,
che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto
ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha
proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che
schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari
italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei
colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire
noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia).
Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe
non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me
(Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi
come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della
classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari
(Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano
stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati
o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra
Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro
poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli
artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E
quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si
può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano
dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento
lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe
milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove
sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato
di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti,
manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai
giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il
Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E
poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il
regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo
renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è
assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per
convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale
architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al
riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento,
questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per
l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio
precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca
Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale
riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm
milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su
quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una
semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un
reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E
l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle
perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra
Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi
come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere
non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua
presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra
ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare
regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni,
dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa
dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive
consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di
Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie
sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese
Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse
dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier.
Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle
indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini
perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola
sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità
giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe
indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a
mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati
baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort.
In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa
di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa,
Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a
conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono
indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci
all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi.
Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di
Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni
di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per
Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del
processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha
giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per
induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione
degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle
indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi
legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la
stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il
Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della
falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio
Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette
anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche
minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di
reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione
minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore
“orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono
state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è
stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che
erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda
“definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a
discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e
balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare
nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la
conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo:
consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una
o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone
alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto
a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il
14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e
il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in
arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base
all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009
dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le
partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo
le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina
messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in
quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso.
Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani
donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo
scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali
all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip.
Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da
Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione
le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno
paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la
gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di
presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle
cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle
ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e
“ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella
concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina
e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il
pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di
chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse
quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza
del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere
anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente
il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali
composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute
le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre,
Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere
mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby
viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda
per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già
successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché
valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby;
disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei
suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini
difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15
gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze
furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a
Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati
verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche
perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò
Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante
abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la
Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado
«Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per
altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore
che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che
all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e
Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla
Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante.
«Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi
difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò
Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di
trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini
difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo
completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono
verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E
ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis
di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria
già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai
fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è
davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori
hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi
sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini
difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice
Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e
cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti
Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha
voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta
Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e
composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici
donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici
Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la
Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare
l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi:
una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di
una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che
ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori,
proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto
femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi
fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno
dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo
maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78
uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ida Boccassini,
che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di
Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia
orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia
orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo
entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano
di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo
studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello
spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha
accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la
residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia
anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure
avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la
europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il
sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente
del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro,
introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se
ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip
Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di
rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare
l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una
statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una
importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe:
«La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È
per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria
Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato
di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera
regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle
Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro
Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno
condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare
Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni?
Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano
molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una
battuta. La testimone
Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e
Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le
chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse
che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi
era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un
sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello
scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto,
presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose,
condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e
appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla
tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale,
invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a
tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino
è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di
Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato
assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno
condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola
De Cristofaro: sono i nomi dei
tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi
a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra
numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa
(perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso
chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica
De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando
ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del
Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore
professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della
Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini
sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si
trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”.
Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”,
sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere
della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la
sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione”
e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio
quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente
avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha
puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum
dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la
preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di
grande impatto mediatico.
Giulia Turri
è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per
Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due
degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto
l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e
droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche
Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro
è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a
quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di
chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia
si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti
parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne:
la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme.
La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno
2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e
all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby
sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza
pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini.
Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico"
del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di
Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita
democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano
storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere
il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato
che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia
Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6
aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due
degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato
e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni.
Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip"
Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio
l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti.
Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della
cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte
nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida
milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club,
gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad
Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola
De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere
nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per
Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica,
imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio
sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve
diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei
procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di
giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio
Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu
un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a
Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di
condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli
altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio
Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei
derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso
Taranto. Ed è lo stesso “Libero
Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia
Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco,
il giudice per le indagini preliminari che
sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di
Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si
Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di
giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a
cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per
annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni,
i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha
una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una
donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si
aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle
ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura
19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si
è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della
direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva
ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle
ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è
cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze
sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione
del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera
con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino
che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu
assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il
peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Corriere
della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli
articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito
«avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi
occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa,
il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il
Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha
chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i
ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per
incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle
grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva
non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da
farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si
aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale
che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle
otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha
preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier
Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere
posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di
Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo
nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un
modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né
figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore
dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò
nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di
Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito
nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come
segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo
lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere
che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona
riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia,
proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra
all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la
procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore
giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o
dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura,
rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe
avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di
quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase.
«Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire
dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e
poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il
tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del
foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori:
i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è
occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno
ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un
suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per
presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non
c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con
il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una
comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da
farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso
Scazzi. Quelle del tutti dentro anche
i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come
imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra
il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice
a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata
registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il
presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due
posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e
se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah,
sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel
caso Vendola. Susanna De Felice,
il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che
rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola,
Desirée
Digeronimo
(trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione
del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione)
inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio
segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del
governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato
Raffaele Fitto. Condannarono Fitto:
giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni:
Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono
ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”.
La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel
dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro
anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il
procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito
Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta
che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla
procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte
d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché
si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le
motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di
Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva
condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli
altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo
serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna
elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della
magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa
campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi.
Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal
presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono
utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi -
aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha
condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo
dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel
quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento
era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi
giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà
precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella
di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto
vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente
l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti
che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è
capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato
svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di
Taranto che è stata denunciata da
Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da
questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice
criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano
ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un
sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei
fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato
l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto
amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si
professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua
testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire
«Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che
riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna
mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza
femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a
capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità
diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste
donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono
donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale.
E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono
una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per
assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna?
A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La
presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle
funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e
pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176
ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma
le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8
dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle
funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso
maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno
all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio
e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure
che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli
si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella
funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi);
che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il
complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe
inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella
donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle
necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità,
specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più
articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si
ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione
giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare
con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua
sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi
della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da
ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione
che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne
poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era
maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto
richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si
scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della
partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51
che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di
prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni
giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò
ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27
dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte
di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini.
La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben
poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle
differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non
fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario
aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè
il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte
Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il
richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le
donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di
potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del
9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche,
professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata
in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore
giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state
indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il
primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono
vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura.
Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha
registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5%
per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“
dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli
anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente
le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al
40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il
trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga
superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile
dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi
forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza
sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore
a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle
donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile,
almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico
modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato
unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed
introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena
legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro
ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave
quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli
uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e
della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle
donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello
dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate
gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,
tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole
comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al
femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia
grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse
è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO
ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo
Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale.
Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette -
Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia
delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di
abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che
impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a
vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da
altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello
che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei
allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda
su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su
dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle
Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è
la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia
dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo
stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti,
io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi
mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco
Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un
tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono
le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può
sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso
Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi
dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi
e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene.
L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e
squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i
ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli
altri (meglio se sinistri) e se a
questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In
questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione
proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le
sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo
vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli
italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno
l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone
in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012,
un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo
cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa,
pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i
poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali
per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012
infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede
nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo
stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo
certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente
dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si
dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una
mancanza di servizi corrisponde una
Spesa pubblica raddoppiata.
E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte
riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di
euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno
studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche)
che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È
uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la
questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una
interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul
federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo
Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema
ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le
tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali
(+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il
ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle
amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di
regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%:
il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per
fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una
esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello
locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a
livello centrale. I cittadini si
aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi,
maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder
aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla
Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi
vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono
aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli
ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del
573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre
il 17%.
Nonostante che i
Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che
è clamorosa
l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire
i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in
versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter
giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove
negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di
rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo
vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di
diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte -
va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai
visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».
Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le
infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella
Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali,
no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente,
nulla succede per caso. Intanto,
però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti
chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di
condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al
Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi
condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con
l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci
ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra
– Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino
– Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena
– La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da
augurio.
Caimano
– Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni
Moretti.
Cignalum
– Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum
(v.).
Cimice
– Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba
– Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo
– Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto
pre-mortem.
Delfino
– Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il
d. del caimano
(v.).
Elefante
– Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come
un e. in una cristalleria”.
Falco
– Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le
picchiate.
Gambero
– Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo
– Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre
attuale.
Giaguaro
– Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo
– Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo
– Uno che spera che
non vincano né i falchi né le colombe.
Orango
– L’inventore del
Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge)
ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione
– Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino
(v.).
Porcellum
– Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa
– Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo
- Chi non vuol
vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino
– Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga
– La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla
ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”.
La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita
ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle
carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una
risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante
tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare
attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole
del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi
ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in
carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una
situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che
tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è
scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento.
Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni
carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe
possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e
considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha
una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia
cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile».
«Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del
carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura
Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità
e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare
«giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche
agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte
«c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un
dipendente).
“Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno
intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro
con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in
concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto
uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi
bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a
castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di
migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi
di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata
la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando
è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la
capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie
carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614.
«Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita,
sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione
nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai
detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia
e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro
è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un
ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere
della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una
sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il
Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che
conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23
luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il
miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i
giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano
i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La
seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di
mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che
Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero:
"Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli
avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo.
E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora
qui con noi».
Ma proprio questo è
il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone
della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano
credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro,
Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il
cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi
raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di
arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio
Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu
lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993
ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e
a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia
di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome
di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le
forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite.
Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo
dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in
un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva
costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare -
è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era
davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla
mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si
impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila
miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in
carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai.
Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due
personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato.
Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava.
Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva
raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma
non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto
piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire
chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro
nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino;
restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo
trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire
simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva
non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in
Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E
Giulio Andreotti.
«Il vero capo la
fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in
carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli,
tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e
per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho
conosciuto là».
Torniamo a Gardini.
E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco
Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero
l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica
alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli
sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di
porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di
Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i
conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria
Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era
ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino
presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le
frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi
arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai
carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo
venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con
discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di
Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per
avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo
arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere
stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in
piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il
poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto.
Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma
solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra.
Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva
mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo
dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in
quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore,
qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma
spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità,
Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo
neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio
d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che
era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si
serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per
me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di
mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non
volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una
svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei
mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa,
sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le
carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai
arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia
dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la
relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal
capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di
Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli
imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che
abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è
vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli
parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i
soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani
d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti
e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la
Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni.
Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno
abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di
Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per
autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle
mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro,
allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe
Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive
Stefano Zurlo su “Il Giornale”.
Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in
parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio
'93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta
Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della
Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di
più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex
leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con
la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro
tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di
quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di
Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il
Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco.
Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe
dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva
portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici
corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del
grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito
di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il
suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del
quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era
salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il
messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i
destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo
dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo
quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i
brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e
dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile
Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la
responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se
la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della
chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini
era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che
lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello
fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe
ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se.
E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di
Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano.
L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a
denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco",
scrive
Paolo Bracalini
Ieri come oggi la
farsa continua.
Dopo 5 anni arriva
la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo
Ottaviano del Turco
è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di
Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese.
L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil
all’epoca di
Luciano Lama
è accusato di
associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva
chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe
intascato 5 milioni di euro da
Vincenzo Maria Angelini,
noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura
Villa Pini.
«E' un processo che
è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè
senza prove
-
attacca l'ex
governatore dell'Abruzzo intervistato al
Giornale Radio Rai
-. Hanno cercato disperatamente le
prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di
teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno
per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20
anni di carcere come
Enzo Tortora».
E a
Repubblica
ha poi affidato un
messaggio-shock: «Ho un
tumore,
ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio
2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale
di Del Turco,
Giandomenico Caiazza,
che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo
richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza
che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale
del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo
di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un
precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i
soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico,
Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione
Camillo Cesarone
e a
Lamberto Quarta,
ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver
intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato
il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e
consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per
28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito
dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente
della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale
Walter Veltroni
si autosospese dal
Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione
nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e
il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco
condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per
presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna
traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci
su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a
favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del
tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi
nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco.
Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si
sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato
e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle
sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta
più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima
in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un
processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di
riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove
anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice).
Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il
piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore
Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi.
Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato
eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia
di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i
soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto
alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei
milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate
con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle
liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione
sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al
processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella
requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex
segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della
commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a
conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre
confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a
un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri
assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa
in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle
cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di
centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i
carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che
sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a
Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver
distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni
sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di
lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti
teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere
utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato
ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con
le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali
come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini
sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero,
prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi
inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua
casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è
vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti,
a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche
per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x?
Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi
vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la
prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la
persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto
risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento.
Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava
quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della
giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato
prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove
portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono
tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per
fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla
convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti)
qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la
parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il
reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio
vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due
sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di
darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e
riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in
una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei
mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato
senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia
molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura
accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle
parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà
sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di
difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI
GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla
grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi
tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti
di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due
esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di
carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato”
Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e
6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette
non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il
suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere
attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per
cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti,
più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine
internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di
patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e
lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che
variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8
mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto
giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio
confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede,
subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene
inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito
di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non
trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano,
né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a
identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da
segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate
è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica
opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando
a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho
ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col
suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro
dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale
non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue
colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle
emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che
meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza
diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità
o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure.
Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col
(buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti
ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del
24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa
ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex
governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli
era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data"
Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del
Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel
corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita
"l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere
indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere
soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente
attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a
delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie
di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e
apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre.
E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più
costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le
valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui
"in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe
doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria.
Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente
denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in
presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes",
sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i
magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico
elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una
approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il
Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla
Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato
ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia
già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come
Tortora.
Un punto di vista
(di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del
Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero
Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della
persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il
problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si
adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia
cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci
rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di
persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di
potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di
civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del
Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo
è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura
inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e
collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita
la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro
è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di
innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per
questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le
prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili
giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver
“favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto
assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono
rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli
indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna
anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo
nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico
dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una
prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni
indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula:
insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei
quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni
ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un
solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è
assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio.
Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno
(per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla
sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina
d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di
indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo
intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina
di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per
oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della
storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base
esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva
ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e
fannullone: loro il problema della giustizia.
Le condanne abnormi
sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si
può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo
Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo
Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il
problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I
casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica
che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza
magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a
forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha
finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun
paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e
un’intangibilità così.
Accade, nelle
carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano
sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi
che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non
mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio.
Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso
e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli
stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla
custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo
qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha
stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di
procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione,
non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già
stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti,
l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma
“bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23
luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si
applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha
stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze
cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può
applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da
considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione
del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo
costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma
censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di
legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno.
Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la
disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore
sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere,
pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le
esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte,
a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità
graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da
differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a
prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare,
parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete».
Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012,
accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a
Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma
la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile
con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è
quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse
dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per
il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato
della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince
che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo.
Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la
custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare
misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici
costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore?
Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare
la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e
riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore
non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione
del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla
Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al
regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del
pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla
sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti
decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari
debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel
2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti
in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia
cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di
un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una
misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici.
Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte
dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte
Costituzionale,
scrive Deborah Dirani su Vanity Fair.
C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la
maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era
molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio
del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole
l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non
pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più
a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni
fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che
la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno
scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei
due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno.
Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie
dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si
ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la
faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli
di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di
uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe.
Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella
notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non
esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il
suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le
ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che
quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di
Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in
custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza
definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano
non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la
Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009
che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una
minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge
del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà
personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i
giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli
arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per
la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le
sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4
corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le
gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con
una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche
ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del
Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano
automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto
all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere
subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale).
Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua
luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella
che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in
galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che
possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari
(fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra
mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne
a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su
i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se
e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non
è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello
che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un
taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere
umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice
qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha
certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si
dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a
questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in
galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete,
alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà
fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti,
un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al
corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno
sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro
per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire
perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per
scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un
capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne.
Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari
italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per
tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni
unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il
principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano
Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei
giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle
intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel
caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo
Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe
italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al
collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica.
Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema
corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa
da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così:
spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza
pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra,
magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito
dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore,
alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i
titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti.
E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno
teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i
procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva
anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una
ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto
Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e
composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di
Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente
centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo
Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle
sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni
unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per
tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di
Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito
indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il
tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel
verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e
non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice».
Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due
misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E
poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono
protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va
ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il
ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere
rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione
mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura
giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante
sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato
dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro,
apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio
giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle
loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il
principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di
giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta
di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche,
sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di
sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più
strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o
di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo
meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14
vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e
obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici
italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa
Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in
equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il
cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il
secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e
fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito
disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro
non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al
datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il
comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento,
mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro
dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere
discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona
per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro
apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono
uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico.
Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di
famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice
del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD,
fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca
Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer
(giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato),
fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari
italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI
TUTTI!!!!
ITALIA PAESE
DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione
europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi,
“Le Iene” no!!
E la stampa censura
pure…..
Pensavo di averle
viste tutte.
La
Commissione Europea ha
aperto una
procedura di infrazione
contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla
responsabilità civile dei giudici
al diritto comunitario.
Bruxelles
si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i
risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del
1988
e assai stretta: il
legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso
di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede
“Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri
errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li
avvantaggia rispetto ad altri
lavoratori
e
professionisti
italiani, ma anche
rispetto ai propri
colleghi europei.
La legge italiana
117/88
restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo
e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere
della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al
querelante
che chiede
risarcimento
per il
danno subito.
Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al
diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e
della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza
anche ai casi di
sbagliata interpretazione delle leggi
e di
errata valutazione delle prove,
anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche
per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici,
paghiamo noi.
Inoltre su un altro
punto è intervenuta l’Europa.
Condannare un giornalista alla
prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi
eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A
stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a
Maurizio Belpietro, direttore di
Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di
cronaca (“dare e ricevere notizie”) e
proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in
redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte
europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa,
con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla
Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i
giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la
fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il
17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle
perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei
supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il
valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie
attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti
dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia)
che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella
tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una
violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si
erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano
pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano
anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore
regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era
stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati
pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato
una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende
e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui
il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la
Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10
della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una
pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei
giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a
identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un
documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il
giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse
della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte -
che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono
informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i
giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di
indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i
giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti
riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far
conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di
fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte
europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di
“Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della
Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in
seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur
dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato
previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia”
divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3
“L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore
Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono
al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole
per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le
eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di
Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che
entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale,
sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto
la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà
d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il
diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto”
– diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato
Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha
ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo
diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della
Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata
rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la
lesione».
«Sono felice per la
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio
Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente
dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica
Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci
contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto
importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella
che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si
sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una
preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una
vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un
punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e
lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare
informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte
sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato
punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una
battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile.
Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta
con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm.
Antonio Ingroia,
nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta
l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili,
presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale
dell'avvocato Danilo Ammannato.
Antonio Ingroia
denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il
segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del
Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della
professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione
l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora.
Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione
"ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue
sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è
ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale.
La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per
violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul
mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in
materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte
inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde
acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città
di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è
riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della
direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane
non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto
adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure
per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto
questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse
altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di
Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci
ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a
pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di
altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de
“Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato
censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti,
Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra
Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di
professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è
truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena
approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a
scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE
IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si
imbatte nel caso di
Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle
Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
Una storia
davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza
parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a
farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere
il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha
subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno
inondato il 25 settembre 2013 la pagina
Facebook di Le Iene,
noto programma di
Italia Uno
la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti,
servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però
l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio
proprio dai loro stessi
fan.
Tempo fa
Andrea Mavilla,
blogger, filmò
un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali:
l’uomo dimostrò che i tre
militari
rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un
pacchetto della stessa. I
carabinieri
dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di
verbale
che il
pasticcere
li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti
parcheggiando la
volante
quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del
negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A
quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una
ritorsione da parte dell’arma:
i
carabinieri
sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una
perquisizione
dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute
Le Iene:
Viviani,
inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un
servizio
andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la
pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del
pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il
servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è
proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il
filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di
Italia Uno
non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social
network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv
criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal
sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e
Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di
persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono
in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte
per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori
bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case
improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche
insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di
amianto.”
In effetti il
filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla
situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del
pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie
bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel
servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso
nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle
baracche. «Scusate
ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte
le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la
televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop,
specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la
televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare
televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte
non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli
agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di
quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai).
Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".»
Giovanni scrive: «quello
è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori
stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo
il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di
ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo
documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia.
Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra
le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti.
Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei
pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità
di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume
illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e
non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che
eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica
dei luoghi.
Ai
buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro,
distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori,
togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue
penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede
ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per
verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti
criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui
il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa
verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI
L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE.
L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”,
tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”.
Opere
reperibili su Amazon.it.
Alla
fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la
Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le
toghe
paghino per i loro
errori: adesso
lo pretende la
Ue, chiede “Libero Quotidiano”.
La
Commissione Europea ha
aperto una
procedura di infrazione
contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla
responsabilità civile dei giudici
al
diritto comunitario.
Bruxelles
si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i
risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del
1988
e assai stretta: il
legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso
di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento
di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del
novembre 2011 la
condanna all'Italia da parte della
Corte di Giustizia Ue
per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile
dei giudici, mentre già nel
settembre 2012
la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del
decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di
Mario Monti
e
Enrico Letta
non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai
provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto
dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo
sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono
chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una
normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri
lavoratori
e
professionisti
italiani, ma anche
rispetto ai propri
colleghi europei.
La legge italiana
117/88
restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo
e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere
della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al
querelante
che chiede
risarcimento
per il
danno subito.
Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al
diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e
della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza
anche ai casi di
sbagliata interpretazione delle leggi
e di
errata valutazione delle prove,
anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche
per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le
autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante:
cambieremo la legge.
In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un
procedimento di infrazione, cioè a una cospicua
multa.
Insomma, non pagano i giudici,
paghiamo noi.
La proposta di
aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico
della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè
Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a
constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto
quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel
2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge
italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo
eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali
errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle
norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che
hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola
incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti
europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei
magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la
responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa
grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha
interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che
abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione
Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla
magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi
nell'applicare il
diritto europeo,
non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o
colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia
importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da
provvedimenti comunitari.
Pronta la replica
delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e
personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del
cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele
Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue.
"L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto
comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei
giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari
Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale
magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo
di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità
civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti
uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i
magistrati? E invece no. I
magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con
pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla
politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si
possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive
Marvo Ventura su “Panorama”. La
Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei
confronti dell’Italia per
l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti
all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie.
Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita
delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che
in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la
proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del
2011 della Corte di Giustizia
che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto
europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora
l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la
legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi,
come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario
politico Silvio Berlusconi.
Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati,
c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva
purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non
pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere
discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente
inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di
farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi
contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della
giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre
ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la
fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila.
E l’Associazione nazionale magistrati
stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile
al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato
i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE,
comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non
avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in
linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo
caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una
parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e
alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti,
non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero
gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato
appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è
peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti
appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza
morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non
trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di
presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei
quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere
rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica
e capo del CSM.
L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega
“Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche
Giorgio Napolitano che, il 20
settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare
Loris D'Ambrosio, riflette sul
rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la
magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici
sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso,
vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più
convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di
"concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano
che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale"
propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -
senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del
conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità
emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero
momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la
soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto"
ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della
magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché
proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i
giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più
propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha
indubbio bisogno da tempo e che
sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione
repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma
bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio.
"L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso
della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e
dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire
l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del
protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come
Henry John Woodcock, o
giudicanti, come il cassazionista
Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere
quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo".
Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del
giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli
indagati.
Inoltre su un altro
punto è intervenuta l’Europa.
Condannare un giornalista alla
prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi
eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A
stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a
Maurizio Belpietro, direttore di
Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
In sostanza, scrive
Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali
italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi
nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino
all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi
redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni
pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal
terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora
più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo.
Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire
Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese
legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato
italiano a pagare a Maurizio Belpietro
10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della
condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per
aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente
diffamatorio a firma Lino Jannuzzi,
allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria,
la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il
carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro
codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della
libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche
Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio
Feltri su Il Giornale
intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti
. “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale.
Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia,
citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in
pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il
processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito
testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia
Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le
proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un
parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i
querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca
quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e
passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte -
che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a
dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un
sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso
alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema
marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee
non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con
le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono
ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la
punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche
il fondo di Belpietro è dedicato
alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti,
tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una
stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo
nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena
pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di
Libero.
La
questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di
rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho
sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni
sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a
far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un
errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il
carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori
giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo
via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel
portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente
non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di
legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti
debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno
devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di
stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori
della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel
che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla
Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione,
condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che
un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto
severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una
rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada
di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei
professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive
Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un
giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una
violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza
più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti
dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente
sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche
molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta
essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il
giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che
passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una
riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere
evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio,
scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione
simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani,
un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione.
All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere
certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla
tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si
potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da
distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la
Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare
non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il
contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che
Paolo Siani potrebbe provare».
Eppure Roberto
Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del
quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”.
Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione»
nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali
«Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e
Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati
condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila
euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai
giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da
almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani
campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi
articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra
(corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà
agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui
carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si
può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che
ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno
inondato il 25 settembre 2013 la pagina
Facebook di Le Iene,
noto programma di
Italia Uno
la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti,
servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio
dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi
fan.
Ma andiamo con ordine.
Tempo fa
Andrea Mavilla,
blogger, filmò
un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali:
l’uomo dimostrò che i tre
militari
rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un
pacchetto della stessa. I
carabinieri
dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di
verbale
che il
pasticcere
li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti
parcheggiando la
volante
quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del
negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A
quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una
ritorsione da parte dell’arma:
i
carabinieri
sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una
perquisizione
dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute
Le Iene:
Viviani,
inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un
servizio
andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la
pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del
pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il
servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è
proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il
filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di
Italia Uno
non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa
mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla,
blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su
YouTube
un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle
strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz
Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di
30 carabinieri si precipita a casa sua, a
Cavenago di Brianza,
comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel
filmato intitolato “operazione
pasticcini”
il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno
della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa
dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in
prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”,
commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”.
Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto,
notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro
spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre
carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La
realtà è un’altra.
E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e
mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni
malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i
carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il
loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le
disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato
richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti.
In
mano avevano un pacchetto,
è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato
Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza
e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine
mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato,
e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava
chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora
il blogger rischia guai grossi,
perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per
aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e
controbatte: “Ho le prove che dimostrano
i soprusi di cui sono stato vittima
– annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso
per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una
violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo
in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma
i carabinieri non dovevano entrare in casa mia
e la
vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e
mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de
Le Iene,
in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea
Mavilla
è
protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che
documentava una
macchina dei carabinieri
parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una
pasticceria.
Mavilla,
già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in
questura dove, racconta a
Matteo Viviani
de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato:
dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e
che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto
notare che, in seguito al sequestro
dei computer
di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc
dell’autore del filmato incriminato.
Uno
dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella
prima puntata de
Le Iene Show,
è stato quello curato da
Matteo Viviani
che ha documentato un
presunto caso di abuso di potere
perpetrato dai Carabinieri nei confronti di
Andrea Mavilla.
L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione
ospite di
Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque.
Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani
in lacrime:
ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la
verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando
Andrea Mavilla filma,
con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce
pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle
strisce per circa venti minuti
mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria.
Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad
Andrea
di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il
Comandante dei Carabinieri
si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il
materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo,
gli agenti avrebbero iniziato a perquisire
la sua casa alla ricerca di materiale compromettente.
Matteo Viviani,
nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i
carabinieri registrato tramite
Skype
da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a
Le Iene Show,
poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo
Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato
pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario
il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato
tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene
abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per
un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle
intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un
imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati
della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il
lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla
drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella
con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi
due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate
nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o
per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti
dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per
ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i
giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro
colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà
dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi
oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai
due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza,
invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti
sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o
addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati"
con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto
disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei
diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad
un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di
risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da
cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il
massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano
anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora
in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di
Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna,
non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non
confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa
grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro
i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e
portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in
cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere
all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse
coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò
di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle
intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta
denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu
confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente
indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un
suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza
di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e
tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso
abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila
euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli,
che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a
Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista
del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale:
"C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la
magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un
pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma
soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto
anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso
della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che
vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai.
Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza
dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in
movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza.
Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella
sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo
Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione
che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in
cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli.
Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a
tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli
continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare
contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa
sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non
solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per
farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro
errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e
basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita
cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti.
Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia.
Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.
Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di
cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente
l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma
non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica.
L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e
manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a
un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante
magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso
di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca,
perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non
appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto
immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per
essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale
solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di
pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri
interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco
allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi
oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche
noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice
Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei
politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il
fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del
Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un
pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da
Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la
parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed
esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è
lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione
per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo
blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica
insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin
Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso
conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non
hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole
diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28
agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il
mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne
trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle
dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana
dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza
americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che
è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi
il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli
uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto
applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di
"discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande
trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo
stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e
l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma
costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del
rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in
fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha
sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli
italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io
amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica
in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che
propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse:
non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una
sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui
abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo
tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e
personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la
seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per
andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo
piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono
neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in
quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E'
riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo
del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col
fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia
divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?»
potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita
accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care
amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla
alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione
importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si
guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore.
Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza
precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai
giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro
futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo:
occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata
percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente:
qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la
sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse,
un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e
di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre
proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente
volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre
famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non
ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti
con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi
particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili
per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per
la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più
la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di
una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature
dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità.
Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura
Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati
pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in
grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data
come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via
giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 -
’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni,
credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla
sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo
Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della
sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi
immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli
di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso
di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula
piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi
mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella
realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo,
tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e
morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun
riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno
aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha
riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro
volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me,
la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed
ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna
condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica,
con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere
definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti,
nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in
Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi
che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati
un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza
nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di
ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben
costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni
ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza,
due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in
capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società
Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi
a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici,
per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre
10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie
lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono
dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che
lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante
l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per
quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con
forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io
sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda
parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del
proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene
all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio
impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver
impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che
non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare
socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del
risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso,
di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di
mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio
giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della
democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi,
di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa
sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo
male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra
Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa
nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni
sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo
civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”,
ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile
uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon
senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di
forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So
bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la
politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una
inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un
mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla
vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi
tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta
sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica
stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del
tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci,
di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È
arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che
amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi
personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di
riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un
partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà
e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore
sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra
tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà,
della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia
sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i
cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima
della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il
nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e
rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia
sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà
diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la
maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma
maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare
ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per
liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in
campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà,
diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e
alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e
magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti
troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in
questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona
consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere
di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al
vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in
Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il
vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro,
non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno
a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti
politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati,
quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza
del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono
convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio
allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima
di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza
Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è
l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i
magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi
giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che
fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come
lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il
potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il
potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo
strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi
degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi.
Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla
povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a
carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali
mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che
l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un
cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di
innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è
vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a
Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del
popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa
che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della
povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama
bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità
soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le
filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la
verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e
criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno,
la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per
non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i
difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità
per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere
quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del
male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è
qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E
questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi
a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede
veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le
cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti
sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di
raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza
imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e
che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i
magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di
destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla
l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno
politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei
"Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami
di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi,
cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti,
ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della
malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i
magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca
l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di
astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi
prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe
intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di
fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare
informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il
ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è
affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio
approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e
l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e
relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi
provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa
dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti
lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Sono qualcuno, ma non avendo nulla per
poter dare, sono nessuno.
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene.
È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno
decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni,
mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove
dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in
cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono
rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta
del Partito Democratico (ex PCI), che
- in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di
diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano
in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di
errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta
di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro
ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna.
Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani
coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa
25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire
dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per
ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e
la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso
sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice
assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte
(metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel
2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se
questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per
il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti
di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono
ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di
errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato,
con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non
creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro
dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip
sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo
Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia
Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione
ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è
davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale
sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza
Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni
d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito».
Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è
impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di
Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per
gli stilisti
Domenico Dolce
e
Stefano Gabbana,
con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013
li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa
dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La
sentenza li obbliga a risarcire con
500mila euro il «danno morale»
arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli»
della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della
sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare,
può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita:
il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per
l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il
pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità
del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a
ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti
Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione
fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per
protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare
l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare
una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo
è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure
non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la
magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme
abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle
motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire
che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di
accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non
possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per
«danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è
andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare
zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché
occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a
infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità
soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le
filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la
verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e
criminali.
Rappresentare con
verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e
caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci
e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo
ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve
pur essere diverso!
Ha mai pensato, per
un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un
e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella
sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose
ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che
servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano
sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non
leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che
impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri
son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa.
Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio
comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”.
Oramai c'è anche il
sigillo della scienza: la
politica
rende intellettualmente
disonesti.
Lo dimostra uno studio condotto da
Dan Kahan
della
Yale University:
la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a
distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del
politico, come risulta dallo studio, prova
a ogni costo
a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte
- Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated
numeracy and Enlightened self-government”),
ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione
intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle
tavole numeriche relativa alla capacità di provocare
prurito
di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni
sociali,
i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte -
In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole
che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e
variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo
l'argomento ovvia
rilevanza politica,
le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti
aritmetici in
contraddizione
con le proprie
convinzioni,
sbagliavano
in maniera
inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione
sgradita.
Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni -
Il prof della Yale
non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però
condiziona
il cervello. Una
volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o
riscontro oggettivo che possa fargli cambiare
idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale
“La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle
categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi
greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E
facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire
l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci
la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una
“categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte,
con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si
pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli?
Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile
che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e
il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel
senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura
vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci
si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un
peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché
– la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i
propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un
medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui
dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già
dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano
anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente
affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la
consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si
è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi
legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma
guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad
oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato
era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera
politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio
delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era
sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona
prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito –
proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione –
accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il
detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col
piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione
che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato,
infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci
riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni
avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche
dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad
essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a
prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e
vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage
per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile
individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea
dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il
tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la
vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali,
dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più
della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette
con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un
linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi,
concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi,
leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non
sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica
infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del
termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare
dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile,
capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che
racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in
Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran
lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le
porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa
difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui
si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse
considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa
di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le
cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno
momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso
pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega
che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un
suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre
professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe
dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale
che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i
più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le
cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai
mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al
compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta
dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di
riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non
sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema
giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei
Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici,
magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL
MAGISTRATO?
"Giustizia usata
per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini...
Una sparata senza precedenti contro le
toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci
sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in
questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto
un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che
alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere,
per entrare in politica)». Alcuni
suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini
grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei,
sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una
sparata senza precedenti contro le
toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci
sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di
capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi
vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E
quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a
loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa
terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli
"non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la
forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre
vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni
di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del
libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm
milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si
sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla
quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria
è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha
concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi
citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba
fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore.
E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di
una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli
e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il
ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da
cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive,
chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo
altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene
Ilda Boccassini
a denunciare la
trasformazione sociale dell’identità del magistrato,
sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica
è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua
buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un
riconoscimento
che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della
legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di
assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE:
I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i
giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di
sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La
persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca
Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un
po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli.
«Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su
un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia».
Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano.
Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare
risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in
Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta
Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper -
anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società
italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili
da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La
magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono
condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra
preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio
quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma
scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme.
Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the
political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013».
Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la
casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le
attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono
eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano
condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa
succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e
dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le
mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati
empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un
partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici
sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali
aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una
chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di
autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento
nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il
partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con
l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli
organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione
sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di
sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro
(Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po'
bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato
inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati
forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle
indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra
appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di
destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di
voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di
destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di
autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due
ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e
finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto,
l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo
per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non
è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due
considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi,
che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale,
di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente
schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di
dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i
comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra:
quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra
preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni
caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta.
Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo:
fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il
suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei
Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici,
magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di
ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I
COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va
usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di
centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia,
da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari,
gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria
politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere
della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi
elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e
penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su
abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie
per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un
programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa
del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da
Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista”
prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo
la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema
sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una
classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si
dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di
sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove
il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e
municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si
moltiplicano.
Così gli ex Pci
condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici
trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive
Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud
d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie,
scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati
scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente
soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello
scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri
di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e
temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre
2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo
slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad
un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe
all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove
indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre
altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della
classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a
prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi,
stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri
nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte
pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti,
che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della
fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani,
Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex
tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di
euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle
infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra
con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto
sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di
94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina
Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato
tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto
rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che
certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le
minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al
trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente
bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i
quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi
provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è
l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo.
Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di
Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo
nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare
all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del
reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con
la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni
colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato
dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere
minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare
le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario
regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi
fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA
MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva
assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua
villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo
stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana».
Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato
definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre
mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese
avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in
cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la
sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi
familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore».
Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della
Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello
Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per
concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso
Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di
intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i
rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che
Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo
stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che
Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso
siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano
presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di
Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano
presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de
relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con
Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha,
con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi
a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze
dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio
mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale
dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è
«ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della
condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua
personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente
in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi
allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative
gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è
più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima
dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima
che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della
sua famiglia.
Chi paga il pizzo
per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a
tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora
denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche
parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia.
Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le
storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le
difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la
lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel
Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e
sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di
giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di
"collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono
necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono
un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno
visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché
è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco
apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse
problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima
utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla
stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché
non esiste.”
Lo scrittore
Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI.
L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su
Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media
genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al
guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e
massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere
legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi,
invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il
rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini
e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge,
vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto”
degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed
istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la
responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio
Giangrande.
«La mafia cos'è? La
risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia...
faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3
magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha
appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi
vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo
Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il
magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in
galera”.
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi -
ha dichiarato
Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 -
la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico
sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo
pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una
Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che
rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori
della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata
sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà
(che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un
diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché
essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti
politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e
massonerie.
Siamo un popolo
corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento.
Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere
politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e
logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere
formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione
di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo
essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è
rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità
giudiziaria.
La verità storica è
conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella
rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e
poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali
negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio
alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso
impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei
concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa,
finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di
imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una
balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato
d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i
carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona
(il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le
fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla
difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela.
Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una
nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna
sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade
per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di
revisione.
Non sarà la mafia a
uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle
stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non
proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti
la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare
loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e
voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la
Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene
le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene
che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce
sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel formulare la
richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo
condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è
il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie
della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo
campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra,
Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in
associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia,
si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di
Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua
ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi:
«...
e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una
frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta
presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna
inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente
identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano
Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il
potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la
legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la
Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul
caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della
discrezionalità.
Ed in fatto di
mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che
cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono,
i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca
non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale
anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello
che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio
c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che
nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?
La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro.
Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una
cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre
queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire
che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le
confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due
diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di
Milano.
Così come in fatto
di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La
camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per
addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici
truccati.
I criteri di
valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio,
ecc.
Secondo la
normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un
Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi,
che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire
nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza,
logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione
della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione
della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione
della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente
all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di
persuasione.
Ciò significa che la
comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica
e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari.
Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di
cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente
leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi
su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta,
irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento
svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un
periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei
singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le
ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della
logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione
esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti
universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi
relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre —
con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica
del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola,
ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e
chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si
è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA
CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro
il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza
soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio
anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella
autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato
che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi
materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali
consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione
della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per
prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad
indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità.
quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine
ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante
subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di
Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al
delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto
proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui
scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O
straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del
destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un
risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento
delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208
pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli
«allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la
frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che
si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...».
Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono
scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino
in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti
di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI
MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA
ESPOSITO
Qualcuno potrebbe
definirla una
famiglia
“particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è
Antonio Esposito,
giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino
anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode
fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da
testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del
Cavaliere. Poi c'è la nipote
Andreana,
che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di
Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione.
Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe
essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che
come scrive, mercoledì 28 agosto, su
Libero
Peppe Rinaldi,
è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di
Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a
indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso
che
Vitaliano Esposito,
ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno
stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della
famiglia fa parte anche
Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano,
che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume
di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora
già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio
Fede.
Una famiglia, gli
Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra
come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante
viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e
tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole
usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le
incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i
vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché
sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio,
non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio
alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale -
Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo
della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE
MAGISTRIS.
La famiglia e le
origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni.
Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito
per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era
magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre,
Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex
ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia
alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante
quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia
perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di
famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia
è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha
scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità.
Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un
ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie
comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La
Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico
dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la
politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di
Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60.
A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo
Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare
il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi,
infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero
corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta,
verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I
giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è
stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione
da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati.
Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica
l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di
diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura
della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive
l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la
semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i
temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo
sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso
Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama
Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de
Magistris.
LA FAMIGLIA
BORRELLI.
Biografia di
Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002).
Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta
del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte
d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della
Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe
Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella
minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e
nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non
sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano
piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido
ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock
tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto
salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato
perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia
di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di
essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così».
Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al
liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei
(titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte
al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato
presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in
magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese
conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò
vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di
fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale,
dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della
Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne
il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo
Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il
suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo
slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli,
Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare
mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del
Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale
d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo
tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il
posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo
solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e
anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito,
l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il
Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me».
Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la
nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo
mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche.
Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica.
Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia
amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo
indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da
accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con
passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA
FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una
delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola
Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti
della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione
agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini
appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte
della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e
condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione,
favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti
vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un
poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio
Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di
Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per
presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco
Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica)
(Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia
finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone,
imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a
delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un
crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al
1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e
muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa
si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco
e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche
lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo
trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo
sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina
e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e
quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra
tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di
denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di
ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda)
un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio
intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco
della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno
e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi
attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di
Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale
si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da
Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le
Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci
miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro
perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più
volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo
discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di
magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se
il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma
qui i parenti chiacchierati sono tre.
Fra l’altro osservo che
Alberto Nobili,
dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato
stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE.
LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei
Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici,
magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha
«prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori.
E quindi in tema di
giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore
di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e
stimati autori.
Sono il Dr Antonio
Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per
conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su
Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”.
Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione
la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si
osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho
scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni
città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.
Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera
scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con
l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore
quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni
qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi
è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi
magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari
emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su
Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso
gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa
più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana.
Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno
scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come
megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il
territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di
coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco
gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che
magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a
Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in
tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma
sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal
mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare,
degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia
da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei
programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando
i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La
domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi
programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla
di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli
ignavi?
Certo, direttore
Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon
programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello
professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di
levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al
bar: tutti allenatori.
Il suo programma,
come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo,
superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da
parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità
garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto
alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del
27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se
non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La
confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è
spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro
colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo
dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per
forza un garantista.
Alessandro Meluzzi:
«non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce
la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio
era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento,
sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del
processo?
E quello del dubbio
scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti
invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa,
però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti
delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto
di porre un termine al governo Letta».
Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non
mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che
amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere
incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E,
nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico
fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle
famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a
Tempi.
Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di
assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti
“magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei
salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro
di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi
politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è
avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il
coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere:
«Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di
una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario
che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un
calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm
del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né
pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta –
prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è
rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una
persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli
interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come
“sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate
nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono
responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli
italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso
fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione
finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno
fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e
piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per
questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere
invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come
quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe
ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del
centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando
il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi:
«Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a
sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro
schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse
a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una
nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le
condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti
fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più
chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento
delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della
modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati
della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata,
condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici
procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive
l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo
la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra
nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e
minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi
non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale
partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via
giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento
irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica.
Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che
senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che
ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e
fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho
scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto
la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma
perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile
al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole
una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea
ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi
dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per
esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per
primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato
se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di
giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto
sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei
confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di
trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove
la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di
aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi
imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione
di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e
prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci
come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano
educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma,
quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e
non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi
cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il
popolo italiano».
Sceneggiata in
fondo a destra,
scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo
può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin
con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima
serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su
Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in
queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto
populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio.
Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice?
Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire.
In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa?
Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre
la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di
Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma
ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e
Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita
partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i
dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande
sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta
lunga maratona in mattinata.
A Matrix
pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso
più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne
possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a
un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi
con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in
mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non
piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà
non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO
LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA
SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In
apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In
apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In
apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In
apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In
apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre
più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO
– In apertura: “La buffonata”.
Il Financial
Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta
al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione
a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di
BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria
di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana
anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e
chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo
l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando
alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una
photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente
adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex
premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non
perdere".
Il conservatore El
Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al
Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il
delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda
che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i
quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito
il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel
in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il
Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta
in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da
sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico
Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata
scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di
Berlusconi.
Il New York
Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia
indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali
russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che
dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi,
sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale
anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar,
che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride
sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le
Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la
defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la
fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi
cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra
Liberation.
Infine Le Figaro,
quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi
risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA
GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando
Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi
si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso
tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta
definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a
ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il
delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia
stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa
dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei
parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà
la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi.
Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al
Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo
Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto
perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita
discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia
al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della
giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30
del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un
lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa,
ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la
fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30,
“L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o
un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci
urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e
poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda
giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né
possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare,
può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto
focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il
presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi,
Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano
circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il
risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 -
dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della
scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel
pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo
alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi
dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo,
Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani,
Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi,
Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro
Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al
Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti
(escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali
si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In
questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria
a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a
seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che
''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo
una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non
hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una
prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla
sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al
Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono
comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta
fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi
ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del
partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala
antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se
uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''.
In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste
parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente
a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato
ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al
PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene
che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio
Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi
nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la
Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso:
voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le
12.10 Enrico Letta riprende la
parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti
drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime
gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula
e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del
M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della
persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti
proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal
Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono
cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di
governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente
del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi,
oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel
contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del
Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del
Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32.
Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la
dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e
senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha
rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato
è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un
governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando
tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere
solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il
clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione.
Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier
sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di
esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio
intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al
Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle
16.00 il Presidente del Consiglio,
Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un
rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore
precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da
transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma
si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della
conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per
la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel
dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle
21,30, la Camera ha espresso il
proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari.
Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un
governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa
trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi
spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di
merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se
volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una
storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo
sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la
Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di
Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una
tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue.
Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge
(assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue
regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a
ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti
delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti
in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno
mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine
di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in
giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle?
Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono
licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi
controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare
infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è
giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o
dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si
mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il
nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo
sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza
alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e
ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo
livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie
al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il
caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la
stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma
tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al
dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una
cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e
amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati
sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere
preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie,
i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore
è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una
commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle
probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai
irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i
privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in
fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il
refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere
in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande
rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa
troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del
privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati
di un Paese ancora feudale.
Un sistema
consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord
a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum,
Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta
condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15
concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle
università.
L’inchiesta di Bari
coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che
tutti sanno: le università sono una lobby, scrive
Vittorio Macioce su
“Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si
diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso.
Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di
vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante
componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano
così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se
sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto,
per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso
partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando
fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che
in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari
hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto
sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi
pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro
lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta
questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare?
L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e
pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è
che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per
fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È
quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una
costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta,
Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la
notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari
al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De
Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno
davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di
professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la
terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la
Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese
sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori,
con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri.
Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si
sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di
metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato
a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese
feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo
l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra
visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le
burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È
feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si
improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della
magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di
Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il
sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta
scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo
spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non
cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non
allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia
allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento
non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore
il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si
chiama Dc.
È una storia antica
quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno
trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di
Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e
ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università
telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo
Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che
parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi
di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato —
accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque
commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà
legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di
vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare.
Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La
prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che
citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta
del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore,
rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”.
Da una minuscola università telematica al Gotha del
mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del
Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha
individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi
universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I
finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari
avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli
accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e
Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex
garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato
i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare
tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università
di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma),
Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di
Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da
Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali.
La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche
Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della
Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono
elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli
incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di
commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario,
banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo
dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e
propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che
a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui
quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di
diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di
diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa
Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi
di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso
d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono
da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in
quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è
l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di
perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali,
istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al
vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi
universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente
d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e
propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in
grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda
fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori
ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo
il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini,
sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto”
nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi
di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici
procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in
quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di
perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri
trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli
accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla
Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men
che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più
grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione.
Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti
bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di
spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di
una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive
Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla
spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che
decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel
settore più delicato: la cardiologia.
Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario,
il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione
a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è
passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa,
l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato
la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi.
Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare
allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era
andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel
corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di
professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De
Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e
decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di
commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore
mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre
e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era
Paolo Rizzon, trevigiano
diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto
come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre
manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina
del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la
documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet,
non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri
finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino
l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della
“Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi
diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere
il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli
inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco
della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di
reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei
boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della
facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era
semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti
che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una
macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una
vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una
ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale
inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi
organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo
e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e
prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha
prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di
spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per
gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti
al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino
candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro
confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i
propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I
codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali,
ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari
delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza
definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore
Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario
sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al
primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una
lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo
a stranieri?
Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi
conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record
delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per
avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande
vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il
Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette
solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle
1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle
case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza
straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra
gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le
graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a
fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi
entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è
lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito
(basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli
immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet)
su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a
favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale
possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente
versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una
casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone,
consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una
potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di
costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a
sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono
nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho
molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla
casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a
trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi
stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e
assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano
essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso
godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli
enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i
5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi,
si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio
non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di
case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a
collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema
che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati
da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine
che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i
glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma
l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e
taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno
denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi
ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più
attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante
abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da
“esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un
qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da
“ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso
ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano
dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in
ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore,
qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe
rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso.
Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti
hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto.
Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i
nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari,
disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una
situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di
assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati
fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare
le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è
di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente,
fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa.
Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono
rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto,
è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo
sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono
clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e
affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per
Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate
abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto
permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga.
Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il
Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una
famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un
regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne
fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che
escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili,
vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha
la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente
problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare
che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai
presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti”
risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage
dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono.
Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine
vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma
implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito
che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali
delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli
appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x,
dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la
violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La
malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli
elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di
coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si
attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a
sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole,
chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai
ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti
minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un
alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e
dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio
2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case
degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro
ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che
regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima
del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una
legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009.
L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria
per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con
graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio?
Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle
norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una
battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati
e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da
ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli
enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è
pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci
sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e
nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna
circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica.
Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la
continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la
guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro
esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora
fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le
famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una
tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato
in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di
alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le
palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo?
Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità,
anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare
discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti
nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti
professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia
una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”.
I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di
«controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per
calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista
visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente
all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel
capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le
domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia
che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto
all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo
migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare
altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai
bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo
iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da
inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per
i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un
pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano,
Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi
assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia
camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando
le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri
«fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco,
praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti,
armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a
Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima
persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio
comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico:
«Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in
effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha,
avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di
proprietà?
Le Iene, 1 ottobre
2013: case occupate abusivamente.
23.40.
L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più
extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce
più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O,
peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per
molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta
la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una
casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un
immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano
scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri”
dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per
pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’
truffata anche lei.
L’occupazione
abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile,
scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile
può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella
disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal
senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro
i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il
legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di
ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto
ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi,
tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e
soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o
possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione
(e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere
altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando
và male.
Sotto il profilo
penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di
terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio
funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art.
635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa
abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio
(art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue
alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il
reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un
reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di
misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto
quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere
l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna,
non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che
l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che
offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche
laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini
nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità
di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei
vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello
penalistico.
La mancanza di
tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa
ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto,
come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove
si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali,
può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a
convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti,
occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche
ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle
ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59),
non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale
in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente,
solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il
coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza
scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe
rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza
che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in
essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di
questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te
la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano
commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato
l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un
sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che
consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché
"Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli
abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno
ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna
credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui
sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria
deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze
ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai
locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè
minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga
nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle
appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di
escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da
uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il
fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è
palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare
tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando
la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare
l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le
responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o
ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo
giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre
secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze
dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o
dell'omissione.
Cosa ha veramente
la Cassazione?
L'equivoco è nato
dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in
cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver
occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello
stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte
non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza
d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la
dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di
rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice
ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova
rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente
fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto
il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva
ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per
avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La
seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di
necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa
esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel
momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave
alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e
circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi
tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta
di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi
dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato
soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla
necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi
Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti,
attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e
ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54
Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo
surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro
preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di
eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura
cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità
dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze
del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di
Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il
caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di
proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione
avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il
sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi
difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della
responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta
indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per
la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In
sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva,
avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare
una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure
cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel
silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273
comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che
nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in
presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di
necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno
abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta,
e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel
lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso
sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è
ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei
fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con
riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto
concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che,
in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod.
proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato
compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una
analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di
espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale
in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità
della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi
in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità
della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di
investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la
fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000,
Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può
rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se
la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche
sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente
pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli
indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una
protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso
consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo
specifico.
L'articolo 633 cp
stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui,
pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a
querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa.
Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una
almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si
procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni,
fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato,
occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e
ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile
durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge
autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di
invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la
coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti
profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se
essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è
possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori
dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al
reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è
ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza)
nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al
pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di
servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è
limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono
ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare
contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può
assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a
permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per
apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno -
30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e
procedibilità d'ufficio.
Il reato
d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con
l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato
che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione
arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del
comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita
del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione
dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella
distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato
che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp),
conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la
consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo
trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale
invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai
sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538).
In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto
dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare
del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio
del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis
(edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di
per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è
sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si
devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha
mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi
titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma
anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti
predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare
"destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a
privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di
Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19
novembre 2011).
L'art. 634 c.p. -
Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei
casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con
minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la
reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si
considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci
persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione
possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633
è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di
conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non
qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti
profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso
di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di
cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice
introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di
turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del
possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare
l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art.
634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un
numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si
tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene
trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè
la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo,
sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di
violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in
flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine
di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per
tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia
giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano
portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto
sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi
ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero,
senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi
spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente
l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve
digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il
panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al
solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su
cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate
come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del
diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad
ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la
mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la
dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata
l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o
molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in
via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel
caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante;
in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo.
Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al
Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine
tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto
contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo
svolgimento.
A
difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di
enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a
far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente
spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di
manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative
all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una
funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare
integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche
verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della
proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere
di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità
del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione
di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di
nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni
inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA.
SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari
(e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza.
L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete
senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la
pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che
non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una
parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la
pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative,
professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i
poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si
rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti,
volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della
Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro
vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi
provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un
miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno
scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui
carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa
corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima
accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i
trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese
legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti,
mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati
chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna
che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i
disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero
dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per
integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti
asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre
soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le
frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di
porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7
milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal
Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i
rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per
misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come
co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il
fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome
perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel
2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus,
Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si
muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito
che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per
l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa».
Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le
organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero
dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi
pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto
e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli
albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro
diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi
retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire
come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati,
che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza
legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e
Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i
soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli
uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali
martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano
l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e
solidarietà.
Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo
Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto
significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si
presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini
su “La Repubblica”.
Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di
assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e
straniere.
Se saranno eletti,
buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i
propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà
internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e
Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del
parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere
un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte
queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la
destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più
attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la
cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente
trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma
dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i
cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è
così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che
ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche
estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento
fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il
volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo
che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra
italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra
che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi
sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il
calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che
ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria,
per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha
portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei
residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per
due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni
con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe
essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le
strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di
decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo
che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di
impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la
politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori
diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA
ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle
associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle
denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data
dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio
Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente
dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce
nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del
presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana
associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il
Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le
Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le
associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che
serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia
di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed
antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali
politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di
passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di
finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in
base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in
giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte
contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non
toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura
neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una
parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà
alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo
zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata
alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno
offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere
nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e
l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo
Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio
Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza
non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede
fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si
informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle
forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello
Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e
quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle
spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa
un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che
lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere
nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a
tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e
come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le
locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è
legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio
Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più
improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né,
tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il
monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche
nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se
scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato
non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri
sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli
avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono
critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno,
la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per
non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è
sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come
autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che
siamo” pubblicata su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google
libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali
youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del
territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi
italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non
sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!»
Il livore del PD,
SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti
dell’Associazione Caponnetto.
Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di
indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente
assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e
commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia
“Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché
più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo
in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai
più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la
vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe
dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono
oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra
all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler
privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo
mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato
la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi
ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché
il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose,
culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e
denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo
sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo
preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi
accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria
referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e
per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non
osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo
di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che
si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della
lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo
partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella
effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni,
del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione
Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio
quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli –
volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra
Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed
esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa
che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la
gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella
reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci
siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che
si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza
alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare
i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre
dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la
partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura
dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la
nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e
di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera
dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il
convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato
Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha
visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare
altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della
classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di
raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il
quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della
quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa
dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un
consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un
malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto.
Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del
PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri
confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e
lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto
probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente
ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché”
di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol
dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di
carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi
o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome
ma non di fatto.
E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della
legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le
cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una
sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i
problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci
dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici
domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di
cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che
solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli
errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie
ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella
democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è
Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a
sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto
bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per
risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più
indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti
che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione
e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome
di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e
contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro
questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in
via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei
politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è
un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei
propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle
società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il
giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche
bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non
è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la
questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera
che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa,
da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come
“antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera,
con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati.
Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano,
che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri
fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di
'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose
offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie
espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i
GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per
la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese.
Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle
grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e
connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al
fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che
impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al
mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri
fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto
importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima
di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma
una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il
caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti
delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale
tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha
una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle
propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome
della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi
immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a
Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un
bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno
eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale
chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche
in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore
con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale
era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il
sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi...
Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a
Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco:
Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”.
Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina
Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si
presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete
mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non
era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto,
che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione
antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come
macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni,
sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente
non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone
qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul
palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia
Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per
truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri...
quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del
personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano
decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI...
cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà,
sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi
Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del
Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito,
omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni
provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario
dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella
con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal
telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in
tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo
scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei
PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia
e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in
Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul
palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A
Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e
dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti
sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e
quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della
sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo
cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania.
A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente
spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali
supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e
salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di
quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don
Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li
ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le
amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e
continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova
ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci
la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora
la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a
Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e
dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della
politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei
palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No!
Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi
che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi
politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di
smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non
vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si
faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe
intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza
dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte
vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera
ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il
referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di
centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino.
Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra,
quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra
gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può
quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza
marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in
cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi
vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da
stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera!
Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una
delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il
“locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i
propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di
Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia
SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio
nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti
di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene
confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto
di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie!
Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo
per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi
crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna
dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è
proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono
brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere
demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un
fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni
amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal
anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il
CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione
Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto
del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le
mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa
pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi,
con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito
Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di
smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente
sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai
una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la
Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le
società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la
PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento
lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli
incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche
parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra.
Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna,
presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la
“colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali
hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per
avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor
prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse
di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo
Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione
nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio
alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E
mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un
perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera
contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di
tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio
devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che
dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla
devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da
quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato.
Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della
non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere
“di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono:
indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta
ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione
della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere
provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore,
Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il
marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente
apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non
era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni
amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata,
apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta
legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può
nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha
risposto: “No,
perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”.
Ecco: come possono
gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il
problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese
ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva
perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice
che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può
combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non
solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi,
crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici,
c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è
stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più
colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è
palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare”
la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee
pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi
racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni,
responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della
Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo
Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto
pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex
sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla
Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo
Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop
è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato
è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese
della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri
dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER
(ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di
Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa
della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera
riaffermava la sua indipendenza...
«A
Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco
politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli
amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che
svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con
ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in
Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il
fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle
mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai
porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli
appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in
Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste
dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì
quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore
Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il
sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in
bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò
una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che
hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti
con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il
Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando,
Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia,
SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di
Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata,
c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di
Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come
testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di
BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un
dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno
l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova
ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo
l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che
il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano
denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a
Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di
centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici
Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di
organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati
e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo
dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti
attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e
agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non
parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso
Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del
gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la
concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste
cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di
“strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni,
come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia
pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui),
promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la
pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della
Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita
della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni
occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il
boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di
iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una
bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale
devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come
si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI,
CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la
regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti
a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle
indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha
elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo
dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi
perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si
dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è
socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete,
in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività
fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la
comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo
riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla
rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo
una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti
di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la
realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera,
che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed
alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato
“utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto
perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole.
Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà.
Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni
meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi
spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni
confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi
piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono
coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel
Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle
primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come
contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece
silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura
siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è
stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi:
perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove
sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a
ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è
evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni
confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro
di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati?
L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera.
Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni
usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e
conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di
accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è
davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel
secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come
“paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto
l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo
rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o
complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative
funzionano o no?
«Quelli
che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e,
purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora)
macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha
lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai
stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di
ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia
mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul
fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo
che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i
giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di
assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero
mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo
spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al
clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia!
Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in
questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati.
Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica
“Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale
quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di
vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano
usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni
confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime
percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli
occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei
casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da
terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei
primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare
Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella
pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo
stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di
Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari
per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su
un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma
fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo,
è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate
avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni
possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito
della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di
quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella
norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione
questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio,
in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati
dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per
questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché
“monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio
non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a
costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie
clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete
provato a parlare con don Ciotti?
«Non
c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che
testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo
che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona
fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano
di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che
non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare
questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e
risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di
ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale
perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci
sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e
perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una
terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è
acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto
meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per
farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e
comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e
denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci
mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula
dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che
conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo
consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che
rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui
volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e
si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose
che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente
ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione
corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e
perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi
abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili,
riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due
comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla
Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma
si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine,
odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra
fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di
accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare
l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata
effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla
Liguria...
«Sì,
le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i
fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo
contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno
da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a
mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando
sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli
abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI...
poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro
esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa.
Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici”
del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di
Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti
tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla
Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la
variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe
provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in
Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando
in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del
Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano
promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho
letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non
funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora
questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era
salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che
in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente
l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi,
con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a
Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per
anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la
Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i
rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di
Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da
risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da
una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della
Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di
un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La
questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o
concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti
quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se
stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da
millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a
conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad
esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà,
né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e
cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha
un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la
lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un
problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura
nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui
i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una
quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione.
Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui
si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che
frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale,
che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini
legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio
Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di
tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le
elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella
spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del
boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio
Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni
del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto
dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e
poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con
questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso,
incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don
Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla
mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino
Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la
logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione
dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la
lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione
giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna
mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici
frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che
occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità
di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la
mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le
attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione,
prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali
illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è
lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché
Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con
la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci
fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la
politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie
indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso
obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative
“mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni
di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia
ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità,
connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non
è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come
il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve
il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna
ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il
dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive
delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte
ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don
Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto
della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi
nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che
se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne
avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere
l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso
rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare?
Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative
se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche
giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo
è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera
è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo
le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo:
visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per
promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E
quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un
ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come
unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi
alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le
mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni
giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine
per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna
mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto
è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre
maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni
Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla
vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni
esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha
investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera
regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha
speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala.
Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi
mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le
teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di
mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la
latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che
l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente
manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli
'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e
Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno
l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori
dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto
con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o
comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea
“ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E'
pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano
seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro
screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un
territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che
tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se
tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con
il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni
nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo
sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera...
magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si
rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare
da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante
si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera
dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E
questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera
torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il
presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che
abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è
fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E',
come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni
soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo
stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese
della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la
politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto
risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così
come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e
spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese
mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati
aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a
volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia
di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti
investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato
nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo
perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le
cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se
non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei
probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed
invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche
quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla
politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la
spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che
queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è
meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio
concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando
sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti
legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i
dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di
Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di
Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò
quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla
Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di
Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli
anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di
“educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo
asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con
il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro
che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi
crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e
dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No,
come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter
“abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per
quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da
“paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una
cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci
siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo
una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano
tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e
decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano
riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è
più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete,
non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi
convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della
Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono,
si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato
di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se
indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona
fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte
quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo
di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede,
per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto,
oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della
Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il
“nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno
fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel
briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi
in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come
stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per
quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente
no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di
omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti
ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo
mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta
società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione
spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti
“indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti
perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti.
Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad
una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete
poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe
Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno
domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e
parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far
vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe
ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni
anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi
non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno
cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che
vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella
sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta
di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla
concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene
e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori
dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una
diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi
cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei
ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli
permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è
sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche
qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo
problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con
chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora
totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli
esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di
Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via
Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il
Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci
può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A
Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come
pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione
della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei
Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di
Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il
Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente
regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato”
per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni
che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura
di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le
misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non
esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato
per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta,
che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è
presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed
uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle
risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione…
fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un
“atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza,
atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla
presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza
contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si
potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e
non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo
eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi
potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che,
essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto
che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e
proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di
Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica
ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere
presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà
consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza
viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo
intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data
conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di
Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante,
significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario
ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso
resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto
anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse
ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà
perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco
politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di
Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva
nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe
sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno
devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento
alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei
Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del
“faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro
grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad
Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata,
una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come,
Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa
consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro
lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta
all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono,
coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la
Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi
quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo
parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma
come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di
confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non
saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra
presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo
dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo
da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel
silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco
feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di
speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo
significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché
ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo
tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un
contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si
possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua
rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE
ZOPPO.
Roberto Gervaso:
terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo
dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La
lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di
“Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto
questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo
dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia
irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla
fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano
aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti.
Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia
ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che
cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le
cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa
una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo
conduttore?
«La
storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da
che parte cadere.»
Si
parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì,
perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi.
Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi
dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E
l’Italia?
«Ha
vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia,
società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle
rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri
forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che
si affacciò al balcone...
«Tutto
era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del
1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non
hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la
destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a
un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O
qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si
affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una
colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La
moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e
Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei
tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli
italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo
un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della
libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è
l’utopia dell’invidia.»
Ma
che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia
ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla
gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come
si chiama questa malattia?
«Mancanza
di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non
crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il
miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La
cura?
«Utopistica:
che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono
cominciare dall’alto.»
E
parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un
economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e
fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve
cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno
l’economia.»
Beppe
Grillo?
«Un
Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si
instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la
riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un
giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa
di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai
preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un
pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte
che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si
muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più
teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter
Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un
perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di
conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier
Luigi Bersani?
«Un
paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un
uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un
grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma
non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo
presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che
invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai
compagni.»
Cultura a sinistra,
Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due.
Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre
democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su
“Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio
dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la
cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i
mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a
partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica
hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata.
L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva
del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da
una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in
tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica
democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante
delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese.
Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale
antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento
anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società
politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di
obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza
silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno
progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema
tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio
senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È
rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel
ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno
strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della
sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro,
un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non
dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una
forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta
dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e
l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione
dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di
questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte
prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A
pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche
le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che
ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte
delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è
stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività
delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per
reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente
coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio
sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume
carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da
rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia
presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto).
Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei
partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da
maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della
società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo
dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è
progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli
stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un
sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto
molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato
svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal
Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena
politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa
dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è
stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica
all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla
polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di
maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs
Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato
la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso
dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti,
poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio
di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato
solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica
- e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse
sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di
attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente
qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non
meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della
«degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e
della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione
politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S,
rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo
all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme
dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo
protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI
TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio
2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo
Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai
pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su
“Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva
contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un
Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza
quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava
anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il
fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di
prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i
traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che,
nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il
sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di
seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò
l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più
notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se
ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno
spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite –
ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la
procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer
fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano
altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli
occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare
dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone
raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che
gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per
proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga.
Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo
l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 –
erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni
malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano,
Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia
di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri
del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il
carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di
Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne
brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al
padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una
brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un
maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul
ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua
pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro
della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile –
dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che
vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un
carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2
lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla
‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose
che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso
una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma
“nei secoli fedele”.
«Traditore per
smisurata ambizione».
Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale
di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo
Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila
euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò
questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante
del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri,
tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con
pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia
decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer
ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di
rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno
del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in
combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al
traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera».
La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma
il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta
da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a
delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto
ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime
responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un
distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli
stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer
non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo
assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di
immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i
condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou
Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu
(ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato,
10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a
Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi
ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e
Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra
il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la
solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa
dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta
vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della
carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del
decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che
dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di
sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97”
che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento
disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In
caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati
all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i
delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a
carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica
nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi
appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più
parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa
allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte
un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco.
Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata
di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza
contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex
sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio
in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di
condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di
ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di
militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di
malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie
condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo
provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del
Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante
condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al
generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata
ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle
istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono
stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di
violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro
custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di
polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in
carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della
Questura.
Ed ancora. Erano un
corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati
arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso
ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando
alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del
Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è
emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000
euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo
Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata
Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme
intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita
solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è
arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte
coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente
in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia
Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre
agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile
della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora.
Arrestati due carabinieri nel Barese,
chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati
dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del
capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano
chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova.
Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto".
La Suprema
corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013.
"Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo
all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la
linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava
all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo
accantonamento dei principi-cardine
dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde
nella
caserma di Bolzaneto
dove furono portati i
manifestanti no global
arrestati e percossi durante il
G8 di Genova nel
luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di
“assoluta
percettibilità visiva e auditiva
da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle
110 pagine
depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013,
sono state rese
definitive sette condanne
e accordate
quattro assoluzioni
per gli
abusi alla caserma
contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo
dei grandi processi
sui
fatti del luglio 2001. Nel precedente
verdetto d’appello,
i giudici avevano dichiarato
prescritti i reati
contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti
penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei
risarcimenti.
Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il
dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che
ciascuno dei comandanti
dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto
all’obbligo di
impedire l’ulteriore protrarsi
delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta
dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come
oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la
posizione vessatoria,
non volassero
calci, pugni o schiaffi
al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le
modalità di accompagnamento
nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le
modalità vessatorie e violente
riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour
denunciano come il “compimento dei
gravi abusi
in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data
l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili
sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione
penale, è “inaccoglibile
la linea difensiva
basata sulla
pretesa inconsapevolezza
di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante
gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero
dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro
incolumità”.
La Cassazione
descrive inoltre i
comportamenti inaccettabili
di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no
global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei
sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti
la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una
responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la
posizione di garanzia
da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro
comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non
necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni
e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei
no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le
violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto,
un’occasione per
dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras
reso invalido dalla polizia:
"Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del
2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella
sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze
dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna
possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati
sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai
cosa? Secondo me quel giorno alla
stazione di Verona
cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine
estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa
che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve,
raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di
Federico Aldrovandi,
me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega
a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di
vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per
tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la
battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura
scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello
contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la
sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia
furono sicuramente dei poliziotti,
ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri,
Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe
Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un
autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in
stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili.
Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di
tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la
moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso
potrà forse avere
un risarcimento:
ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato
rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni
gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più
facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei
poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi.
”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una
sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni
Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno
fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai
raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza
delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua
solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno,
persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La
diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma
cranio cerebrale.
Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo
parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché
nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato
solo in testa”. E avevano picchiato,
certifica il giudice
Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al
contrario”.
Diritti umani,
governo Usa attacca l'Italia:
“Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier
governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze
dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive
“FanPage”. Secondo il Governo
americano
i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti,
con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi
e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare
“l'uso eccessivo della forza da parte della polizia,
un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo
sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e
trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento
sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di
sfruttamento di lavoratori irregolari.
Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino
Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si
critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e
le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti.
Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la
loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio
decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta
contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la
fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di
Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha
denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi
periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”.
Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le
violenze nei confronti di rom, sinti
e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono
state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto
attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo
non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il
lavoro nero.
Polizia violenta,
la garanzia dell'anonimato.
In Europa gli
agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di
abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera
43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei
poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice
alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale,
avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la
notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai
saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in
Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora
identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la
possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state
numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima
campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto
la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty
International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di
polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in
parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i
limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha
attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza
del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le
caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i
criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a
questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la
questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai
preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali
paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono
infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia,
Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel
Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve.
Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto
esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una
riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare
interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto
completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno
trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse
è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il
dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è
a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su
queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme
riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne
il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare
solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno
strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali
dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato
autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa
può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e
dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice
l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della
polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società
civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato
solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto
che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della
polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è
sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento,
non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non
ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a
proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio,
braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22
luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione
dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti
inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun
cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il
rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno
stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò
che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora.
Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere
diverso. Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son
tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri
compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva
censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con
verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e
caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci
e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo
ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve
pur essere diverso!
Ha mai pensato, per
un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un
e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella
sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose
ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che
servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano
sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non
leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che
impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri
son tutti uguali.
“Pensino ora i miei
venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto,
quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU
AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani,
giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a
ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati
istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto
il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed
autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita
su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non
vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo
per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni
provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce,
trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi
vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato
del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di
Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (%
contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s:
contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti
che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce
questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza,
dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti
italici?
Prendiamo in esame
tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare
riscontro:
1. Parliamo dei
giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie.
Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice
Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una
corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come
direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere
per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione
e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà
giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli
estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una
legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto
soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la
notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del
Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a
dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene.
I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa
succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle
carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane
dentro?
2. Parliamo dei
politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e
mancanza di dignità.
«È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri
italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel
quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i
detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo
Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le
condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere.
«Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di
un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha
sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la
rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E
invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea
tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone.
Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un
Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità»
per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in
carcere.
Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il
sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei
detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni
irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene
detentive».
3. Parliamo della
sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua
infallibilità.
Il giustizialismo.
Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia
che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più
importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di
influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al
garantismo, che invece è un principio
fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di
non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di
esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale;
tale principio è sancito anche dalla Costituzione:
« La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole
sino alla condanna definitiva.»
La
negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli
umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di
chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese
l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E'
innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti
è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è
risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus
iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La
novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad
implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati
locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di
quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse
l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la
medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti,
nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul
tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto
al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa
del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso
della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto,
della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia
subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte
di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo
Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà
positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in
giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma
solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un
quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai
cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un
regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117
del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non
si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per
responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui
la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato
italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita
anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul
tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del
principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono
ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della
responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande
regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli
altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità
di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati
è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la
garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata
sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e
delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può
dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la
denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del
giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la
violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia
cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo
vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti
separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché
la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio
per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa
ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le
capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa
significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se
stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove
torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa
la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa
informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che
l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il
commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli,
nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno
ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché
prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza
dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo
qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che
questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite
voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e
poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di
politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e
giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta,
volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che
strizza l'occhio ai clan.
Poi,
naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche?
Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata
la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello
Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato
nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le
dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli.
In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo
è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra
che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis
su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che
devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di
chi queste frasi le dice.
C'è
il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro
espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche
sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su
Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è
accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un
sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti
dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello
sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire
che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto
dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie
partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e
l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare
a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha
solo svelata una volta di più.
Cosa
ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere.
Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con
quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la
colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una
categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli
italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e
l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere
anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex
fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria
ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati
assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano
Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore
delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da
circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette
preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio
Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario
Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto”
o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima
sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava
succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da
due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato
di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo
grado a 15 anni di reclusione. “Il
mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una
vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono
decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il
commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della
sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente:
circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa
di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti
fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda
Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra
questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso
certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23
febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una
inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale
che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure
cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per
Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille
atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto
sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di
Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo
piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti
con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio
di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori,
secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere
finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di
fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma
dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti
domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione
da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari
nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in
Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e
consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici
hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì,
all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel
dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non
sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che
giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti
infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito,
tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003
aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti
dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New
Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il
gip di Roma ordina l’arresto di Silvio
Scaglia, Stefano Parisi è
amministratore delegato di Fastweb,
continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia
dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro
dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una
conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun
reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e
mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo
lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un
avviso di garanzia, la sua
posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto
archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora
che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri
dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di
soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un
Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La
giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi
responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007
su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni
riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode
fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia
immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni
una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da
quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che
noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la
truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora
condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi
eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha
sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”.
Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva
evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto
chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e
degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano".
L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con
Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima
a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i
maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la
giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore,
trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho
combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla
evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e
sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne
pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il
periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di
Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo
della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli
arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di
Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte
Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli
arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per
disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena
dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura
definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno
più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle
Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava
dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in
mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse
accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di
arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo
esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma
immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di
quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da
anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli
artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi
una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era
notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso
che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione
su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima
una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi
Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso
in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti
comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è
meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più
ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di
impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di
isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una
farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi
sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di
non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile
inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in
un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm,
evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al
contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod,
l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a
Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo
solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana.
Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo
non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le
persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste
cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il
mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia.
Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di
garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con
tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà
della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine
di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai,
neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la
mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a
rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia
famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei
suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e
spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono
sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa
ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito
danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il
modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra,
per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco
dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che
ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto
per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con
fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio
politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che
vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom
non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si
debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola
Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima
dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la
tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano
gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque
conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di
verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo
legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso
(sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare
misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al
carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono
passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di
vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una
persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma
continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è
finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza
una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si
potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE
FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E
MARADONA.
Per tutti coloro
che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la
storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione
alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter
giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in
carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale.
Ha vinto
Sofia Loren.
Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte
tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della
madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe
dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per
una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della
dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren
concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le
tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920
milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal
fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia
facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren
aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha
perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la
Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario
durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della
Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti
accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione
tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la
causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta
al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del
cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in
carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso
suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia
all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la
famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo
commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il
1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si
escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film
ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni
successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata
congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione -
«l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai
quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni
successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una
retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film».
Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non
dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa
all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte,
rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della
Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un
reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922
milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che
avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren,
dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva
presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di
552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco
aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo
che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione
sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva
degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile».
Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre
la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la
liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini
abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di
sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974
(ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come
sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al
60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco -
in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di
differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla
certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono
fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate
all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila
euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente
si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il
miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti
speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente
ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia
Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni
quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente
pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma
l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe
potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela
presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero
lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche
sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren -
madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da
crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel
novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse
vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se
ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si
pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte
comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando
Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri
problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho
mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare
tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino,
tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto
no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità
venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il
gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha
fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié».
Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è
piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da
miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di
Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso
di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di
euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del
Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona
e il gesto dell’ombrello contro
Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non
educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà
il quotidiano di Napoli, il Mattino.
Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia:
appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di
Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini,
anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato
l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il
Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla
compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia,
Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel
mirino di
Equitalia,
che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex
calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata
al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la
trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di
polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato
un'azione legale
nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo
avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo
Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso
per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per
"ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa,
un'umiliazione
che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a
pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale.
Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo
i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di
13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013
ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono
pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al
Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive
Franco Bechis su “Libero Quotidiano”.
Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero:
lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show.
Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che
continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo
sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni
dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al
1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013
ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono
pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E
questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per
Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul
piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una
questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che
notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona
ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano
sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma
non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo
tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere
le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze)
perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del
fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione
va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel
mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in
Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e
Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia
tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in
Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le
notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e
Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano
né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza
appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on
line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina
(ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle
bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra
cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della
strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di
contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come
oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona,
Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e
fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi
e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre
al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con
cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per
eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva
all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i
calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle
società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi
avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il
fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona
e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a
quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero
dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca
fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto.
In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una
sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli
calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo.
Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il
passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni
non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso
Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal
sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e
Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende
a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia.
La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo
penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto
l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i
calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori
retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco
italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme
che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989:
quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo
essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione
non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si
fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque
sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha
provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché
tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua
ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai
poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in
Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo
trattino come qualsiasi cittadino...".
L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il
bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno
lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..."
L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via
etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un
qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in
Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le
polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In
Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole
viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca
dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio
assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39
milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non
rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e
delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme,
pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi
non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella
legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma
enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene
perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato
l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è
quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da
Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto
di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un
pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva
offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto
goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le
immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E'
STATO CARCERATO.
Come non dare
ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i
pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il
Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è
stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il
Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri
italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto
anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche
piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via
Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È
facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai
cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con
loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è
stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante
ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano".
Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete
parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza,
di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è
facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma
si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica,
telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in
mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io?
Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro".
Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a
nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è
così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva
dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato:
"ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da
bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi
avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non
giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli
muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei
due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non
giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere
giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad
essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i
sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a
future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc.
Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono
da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero
Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati,
viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti
dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa
un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano,
sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che
il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché
avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la
condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai
quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete
imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede
soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano -
allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della
fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non
ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è
proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma
voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti
coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una
quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso
rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi
maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo
accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un
funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza
che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa
conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che
i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva
ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli
italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex
viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è
spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi
età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi
certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per
prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo
approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in
Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in
media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che
ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli
appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il
governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri
giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è
dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare
lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo
funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la
lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo,
politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti
spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci
che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che
sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella
regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza
da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora
coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo
chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false
illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a
trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una
professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi
di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO
ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a
dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No!
L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da
decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge
spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami
di Stato?
«Dai dati emersi da
uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore,
saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED
ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla
collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle
tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce
della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film
Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a
intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e
dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La
commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due
magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti
professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i
documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per
come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori.
Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno
strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono
altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una
citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco
la spina”.
Sarà per questo che
Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non
riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di
Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a
suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si
racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista
professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono
gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di
eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri
allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha
superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una
professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri
intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le
qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del
resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che
Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle
Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo
parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa
Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero
solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione
di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione
degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto
l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla
caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi
queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un
sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo
l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere
alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un
codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce –
Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar
Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città
Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA
ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione
dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da
altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della
prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile
dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza
cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione
del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il
Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata
ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente
conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in
altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito,
che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice
preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”.
Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato
contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione
durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato
parimenti annullato”.
E a sua volta è la
stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di
avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti
sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013,
presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un
giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui
cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande
cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per
sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da
quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto
lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di
1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove
orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato
alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una
media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni
sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è
caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati
furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per
irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di
quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai
commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si
rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle
ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della
Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi
l'illegittima».
Che ne sarà di
tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e,
forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve
chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero
arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno,
su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato:
forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione
di merito.
Sicuramente
nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver,
questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di
2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però,
si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non
dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i
mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare
carriera!
LO STATO CON
LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La
famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di
Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze
dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido
ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad
ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino
indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia.
Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima
salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i
suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto
salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia
carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è
stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà
perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle
undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti”
da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra
itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice,
è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste
famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di
arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche
semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con
loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di
chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che
provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza
forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le
immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega
l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato
io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze
sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia
Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte
tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei
carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di
primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero
individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o
etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha
assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote
le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato
redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una
semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in
caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti
all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è
vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva,
che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà
ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il
trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico
Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre
2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono
arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora
stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a
Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non
escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale».
Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo
obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato
arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia
di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e
asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto
come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate
della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per
individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il
5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico
ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona.
Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il
maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo
della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua.
Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani ,
il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001
durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il
51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano
Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte
e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano
e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe
Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella
caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che
interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI
INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre
anni in cella da innocenti. A causa
di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per
mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di
risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In
Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente
incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il
dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser
agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio
mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure
altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e
al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli
Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si
sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre
anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano
niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in
concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro
tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si
trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del
tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per
Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri
di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di
calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa
facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così
detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso
in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con
l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a
leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non
solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a
spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa
piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e
controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in
genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico
in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se
di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà
perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda
si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i
fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era:
un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti
si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San
Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente
attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il
pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati
alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà
a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un
cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno
del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La
seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice
ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo,
però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere
dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si
accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi
Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze
dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno
circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è
passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro
cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29
settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero
Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di
geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare,
nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo
del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E
più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente
sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si
suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero
conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che
patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri,
frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente
fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando
viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione
illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che
si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello
che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un
processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza:
«Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di
arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in
concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la
pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che
non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in
realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il
fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare.
«Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si
vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle
strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri
era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due
fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può
immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli
spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono
del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?».
«Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in
caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i
giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice
di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre
ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il
rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito.
Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né
il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente
la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto
si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi
approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36
anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice
omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella
casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il
tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo
arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo
macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura
della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio
Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a
lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno
assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con
i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta
giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di
loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa
vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento
di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre
alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un
ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni
ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha
permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che
anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i
carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della
strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle
carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a
febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di
semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio
1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la
procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di
sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione,
che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di
Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti
degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il
killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere
diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio
di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera,
scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato
trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta.
Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla
grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di
droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore,
riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio,
invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola,
popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città
d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un
libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di
rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono
scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a
fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano
indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene,
altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una
storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato
comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico
quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare
il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche
per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan
nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori
50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in
Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale
Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà.
Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della
Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora
aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema
giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985,
riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano,
Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex
presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo-
giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul
pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel
2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione
penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli
gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la
Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i
tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i
termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere
scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio
Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il
pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto
però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è
altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il
tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli
stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI
BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha
rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di
disprezzo per il popolo.
La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo
del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e
ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti
quello che il Pd non ha detto per venti anni“,
è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama
(i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da
parte di Forza Italia).
«Signor
Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia
italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale,
etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che
si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono
ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi.
La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un
percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente
chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari,
corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito,
falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla
prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile.
Insomma un delinquente abituale, recidivo e
dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali.
Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi.
Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in
Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto
soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione
della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di
debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro
l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il
deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata
fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica
per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le
sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una
carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge
vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è
palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse
chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e
violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di
risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni
giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per
onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un
Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni.
Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei
deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV
legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante,
al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega
dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per
certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci
fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa
lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante
non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile
Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il
fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è
la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio
delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato
che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare
alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La
vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…)
L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal
finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel
momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica».
Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci
legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora
adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le
dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo
nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva
ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli
italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire
la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e
degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro
giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a
spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000
euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare
perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una
sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per
applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di
indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non
sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il
senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità
della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità
sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità
morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà
un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito
oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati
dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la
passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese:
disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno
zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi
dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo
Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento!
Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di
un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di
un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben
16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non
godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è
stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del
Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze,
una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri,
Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che
ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più
ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e
addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e
incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto
fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi
interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E,
invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per
cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto
all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città
sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando
Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti
tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali
informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si
conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali…
e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per
debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo
Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra
preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli
minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena
ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh,
sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene
svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece
un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto
del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del
sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di
rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo,
Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice
concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai
cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o
persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono
riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un
futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi,
retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola
Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del
"Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei
corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa:
"La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i
miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo
aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito,
anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è
decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è
ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso
errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida
d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle
che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il
senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio
Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente
Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che
voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al
Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi
in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio
Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata
di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre
riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del
Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E
il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per
la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di
collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e
ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di
craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in
questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono
routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida
dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo
punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E
continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male".
Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta
sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza
Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi
(Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire
Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori
azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al
voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola
persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al
socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon
senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di
interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da
fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i
garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una
decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro
responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che
governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E
con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato.
Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della
maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina
di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del
Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non
c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno,
figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo
Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi
Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della
stampa estera. Dalla Spagna al
Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le
prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non
sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio
Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e
proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano
la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano
all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario.
In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la
grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato".
Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex
premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa -
scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per
scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno
dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso
Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci,
definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la
democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela
Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non
reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione
serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi
sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di
esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il
quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole
dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo
pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal
Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica
italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua
apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel
sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il
giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi
assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti
giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non
Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S
pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico
"Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da
oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento
in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già
aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha
ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo
dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla
di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di
un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La
divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di
governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua
edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier
sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo
Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di
Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex
presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori
dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in
un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il
governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima
pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata
a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere
sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico".
Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph
scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un
nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di
rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato
ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una
condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al
Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di
apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal
Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera
- "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora
dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle
principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la
sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana
titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode
fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha
segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio
in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita
politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di
Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a
Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è
firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto
potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo
aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi
politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare
l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante,
mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il
Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna
americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del
Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è
possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento -
scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente
nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo
El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo
dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla
sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery
di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista
spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti
giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia
spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la
sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola.
E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per
le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area
conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la
notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si
definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle
spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come
un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per
politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al
pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno
dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra".
Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha
dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro
Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in
apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include
"I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno
abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la
notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di
Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria.
Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto
di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio
Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal
presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista
Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano
brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori
Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento
che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di
manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della
votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia
"cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal
Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri".
Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi.
Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno
spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per
due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo
mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il
77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per
attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss,
Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano.
Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove
andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta
con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei
poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse
inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta
Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in
"I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio
al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli
esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel
processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il
mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest,
ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con
Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di
Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il
visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture
dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati
uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto
nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio,
con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My
favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge
ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il
mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che
Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più
recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a
colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno
gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome
ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle
più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali
in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui
stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio
Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della
massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro
sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la
tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di
Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici
antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale,
poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio
(legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la
fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli
ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria
internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni
Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a
tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato
iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone
(inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta
in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene
illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri
massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di
Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi
ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle
pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe
dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono,
riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi».
Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin,
la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a
dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro,
scrive Magdi Cristiano Allam su “Il
Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre
2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del
Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno
ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro.
Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione
europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando
l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti
alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la
connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle
azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di
Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò
Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui
lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il
governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo
Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10
novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non
è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute
pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle
di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro
era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi
dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno
economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano
Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che
nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia
dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della
Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è
l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in
dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha
sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»;
«La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire
lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera
preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà
precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il
bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si
illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra,
interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per
salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia
e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra.
Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa
e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni,
limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua
missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al
riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale
dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai
banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la
democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo
che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare
a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con
imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete
di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far
rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav
obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela
i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare
i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti",
scrive Riccardo Pelliccetti su “Il
Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e
lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero
arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova,
che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la
rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il
dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi
che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad
altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli
occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate
l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e
la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero,
cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario
internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte
del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la
sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma
la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi
dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a
qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3
novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un
clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario
Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà
nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al
posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a
soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero
se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di
euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati
all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier
spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano
perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro.
«C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda
Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del
nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento.
Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il
contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il
toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri
rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo
la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo
attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa,
un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio
Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più
tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che
sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una
frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si
raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma
non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto -
sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo
italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria
con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo
incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto
da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli
italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di
rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna)
la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto
ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili
dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato
possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a
regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel
suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto
emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da
un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare
l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due
sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le
stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi
giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma
innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula
dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica
prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non
poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai
suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato
sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e
forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il
tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della
Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che
tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di
disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato
avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura
grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura
distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico.
Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a
finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare
questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano,
in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe
dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre
alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di
riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che
scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson
e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle
riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet
show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle
procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele
espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto
chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo
per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai
pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13
agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver
accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una
balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della
Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in
relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene
accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con
sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta
irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver
acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore
avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore
generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per
la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle
successive torture dell’imam Abu Omar, non
si è presentato mai al processo,
non ha mai confessato alcunché, non si
è mai pentito del gesto, non ha
chiesto scusa a nessuno, non ha mai
scontato un giorno di carcere e per la
giustizia italiana era un latitante al pari
del superboss Matteo Messina Denaro. La
grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi
dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con
il parere contrario dei magistrati. C’è ancora
qualche anima bella o dannata disposta a
sostenere la tesi che il presidente della
Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo
nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo
le cose con il loro nome: è mancato il
coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento
avrebbe aperto una fase nuova nella storia
di questo Paese, sarebbe stato l’atto di
non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni
di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione
per via giudiziaria del Cavaliere il quale,
statene certi, avrebbe abbandonato la politica
attiva. Il capo dello Stato ha avuto
l’opportunità di consegnarsi alla storia e
non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel
famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi
potranno essere riletti senza veli e senza
partigianerie capiremo se al suo mancato gesto
dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli
del cinismo, della pavidità o del calcolo
politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un
posto nitido Enrico Letta, il presidente del
Consiglio che ha conferito a questo Paese
una stabilità degna di un cimitero, come
ha giustamente notato il Wall Street Journal.
Incapace di avviare le riforme oramai
improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato
neppure capace di imporre il più impercettibile
distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è
rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di
una linea che voleva tenere distinte la
vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo
quando anche un bambino ne coglieva l’intimo
intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno
la vista lunga. E ora tutti sanno, anche
quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di
Letta non è quello di varare le riforme,
giustizia compresa, ma quello di mantenere il
potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia,
Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per
fondare il Nuovo centrodestra, che al
momento si distingue solo per la fedeltà
interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad
Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare
la realtà, a spalancare gli occhi sullo
scempio del diritto che si stava consumando,
a denunciare con argomenti solidi e di
verità l’inganno di una procedura interpretata
in maniera torbida e manigolda. Come quella
della retroattività della legge Severino sulla
decadenza (nona anomalia), che una pletora
di giuristi e politici di buon senso non
affini ma certamente lontani dal mondo
berlusconiano voleva affidare al vaglio della
Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche
per questo motivo il luogotenente del Cav
avrebbe dovuto elevare il caso B a
caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in
campo aperto i satrapi dell’informazione truccata.
E invece ha preferito chinarsi sulla propria
poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di
perderla, da consumare lo strappo di ogni
linea politica e di ogni rapporto umano con
il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in
questo triangolo delle Bermude, che si
autoalimenta nel nome dello status quo e
di un governo fatto solo di tasse e
bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la
conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno
inghiottito, macinato ed espulso senza tanti
complimenti. Neppure il colpo di reni finale
hanno sfruttato i tre del triangolo mortale,
quello offerto dalle nuove prove squadernate
dall’ex premier per chiedere la revisione del
processo. Un percorso perfettamente legalitario,
quello del Cav, condotto all’interno del perimetro
disegnato dal Codice di procedura penale e
che avrebbe dovuto fermare la mannaia
dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi,
ma soprattutto per una possibile e atroce
beffa: se la Corte d’appello darà ragione al
Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà
già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà
dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e
riprenda il suo posto». Con il corollario
non secondario che, senza lo scudo da
senatore, i picadores in toga potranno
infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio:
l’arresto (decima anomalia). In questa cornice
assai triste tocca togliersi il cappello di
fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato
del Pd di prima fila (almeno fino al 9
dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul
palco della segreteria del partito) che
martedì 26 novembre, dopo aver visto gli
elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se
fosse così mi aspetto una revisione del
processo come per qualsiasi altro cittadino». E
ancora: «In un Paese normale si sarebbe
aspettata la delibera della Corte costituzionale
sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese
normale questo? È una battutona, ditelo a
Matteo «Kermit», che magari se la rivende.
Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso
inizia un’altra faida, che lo metterà contro
Letta e Napolitano. I tre non possono
convivere: i loro interessi non sono convergenti,
i loro orizzonti non corrispondono. Per
questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo
delle belle. Sarà il seguito della politica
da avanspettacolo che ci hanno rifilato
negli ultimi mesi. Successe più o meno la
stessa cosa ai tempi di monsieur de
Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il
re, si illusero di avere la Francia in
pugno. Manco per niente. Iniziarono a
scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno
accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo.
Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete
capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di
magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra
la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della
magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di
Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e
una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo
Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il
crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio
d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra
Pci e Md che fece scattare Mani pulite.
Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per
ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore
contro la corruzione in Italia,
scrive Sergio
d'Angelo su
“Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova
Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani
magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino.
Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere
accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura.
Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La
giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e
più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di
potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti
in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della
società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la
prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale
discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta
italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo
giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema
fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti
privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso
l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine
giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante
cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la
sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e
delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a
«fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva
assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine
sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per
l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a
combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida
violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo
elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala
filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante
prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono
indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la
magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente
accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e
questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire
- «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che
fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche
prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri).
Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi
«suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma,
colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal
suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md,
vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito,
in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno
due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica
passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta
armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi
(economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in
discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro
assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale)
sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno
politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della
magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e
proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero.
Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente
interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci
sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito
il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di
look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo,
che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro
l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali,
che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita
dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali
e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il
proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di
un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds
uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono)
della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani
Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino:
Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad
opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal
perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti.
Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il
principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di
clausole sottoscritte per consacrarle.
Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con
la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti
Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai
magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito
accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia
estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il
nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa
priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle
indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un
significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla
sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12
marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano
Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm
statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il
nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del
pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai
colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva
mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era
noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò
fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di
Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un
esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco
Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne
narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una
posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad
acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza
pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e
l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si
avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio
1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime
avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con
il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito,
che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge
Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore
Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei
poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si
rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio
sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e
metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori
di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5
ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo
- a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello
Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà
stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare
millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano
malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi
il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira
dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali
indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la
magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la
Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava
fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un
pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna
forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché
l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla
magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri
privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia.
Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o
promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine
giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento
letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini
fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri:
l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a
giocarselo.
Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario.
I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla
nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato
il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica
negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare
una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico
della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa
scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire
né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi
pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze
politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse
evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le
Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in
pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella
filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della
sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento
di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds
aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col
sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza,
ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era
comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono
resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed
anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine,
intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse
e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito.
Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del
potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era
interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte
si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso
Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut
amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare
eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di
mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata
abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli
occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il
nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto.
Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo
(ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne
ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni
personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti
cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi -
caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i
membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica»,
e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme
per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire
il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo
sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della
magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo
nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data
dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo,
aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler
dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 -
indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto
di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In
realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha
difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi
ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva
pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a
propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro
colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona
- il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora
rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può
senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi
(processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero
(condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in
favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md,
come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del
Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente
Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di
sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi
potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con
risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa
(I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il
pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione
Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando
del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo
è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e
territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale
del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della
competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette
«indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi
alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente).
Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo
dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che
peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a
vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali
democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani,
ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e
autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica
significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno
correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare
l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare
quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a
meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse
politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria
drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di
una ormai inesistente classe politica.»
Sergio D'Angelo
Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle
procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank
Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode
di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”.
«Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di
tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico
cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per
andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo
dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee
precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che
rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di
Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un
fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare
carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma
nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di
sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché
sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex
Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog,
giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e
dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla
sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli
editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra
attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do
ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani
pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in
modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in
politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento
di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma
lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura».
Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il
problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che
vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm
contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto
politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono
le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono
all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e
quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle
toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così
capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il
progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero
Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura
che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui
pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i
suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno
come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono
che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese,
capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici
anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e
soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule:
«Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e
continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini
preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per
rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo
a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha
delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la
mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza
depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano
Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico.
Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di
debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per
obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in
atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra
tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a
gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente
la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che
"ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra
che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta
identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si
era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge
Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto
che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle
assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il
cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe
aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa.
Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a
livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia
costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio
avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza
Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli,
singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare
appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha
finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come
leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare
solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di
«convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia
- anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare
quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri
leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della
politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e
ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con
Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha
colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia.
Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è
complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata
«jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale -
all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale:
vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo,
schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per
colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in
vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare
tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle
azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica
difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e
prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato
di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994
per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650
giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un
proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino
a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per
salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è
cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura
- unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a
discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per
frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il
contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato
prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la
determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia
paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai
tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del
processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare
i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza
furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere
che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo
successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record:
tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci
condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo
la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata
descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese:
semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il
paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche -
quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da
trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di
discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo
dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia
effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e
mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si
accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine
della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei
vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E,
senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva
non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una
gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere»
purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più
ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza».
Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di
Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi
possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti
fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere
ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso
sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava
la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per
inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna
prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle
modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta
inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva
provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di
provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile
ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le
sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un
videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì
«sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla
magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far
decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente
di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato
«interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la
decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il
centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del
dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si
entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il
mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della
Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di
infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi
elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il
Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30
ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che
per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà
ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza,
dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le
mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto.
Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -
che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al
Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la
prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però,
dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito
degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura.
Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche
dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di
assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle
intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i
vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi
inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un
po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia
non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine
mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la
nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come
degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati,
poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio.
Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia
sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento".
Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La
mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre
2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma
soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la
responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la
conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici
sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo
mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora
Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella
parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia
perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè
la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si
gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo.
Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte,
individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che
vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire
nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere
di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno,
scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per
poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore
un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna
Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia
Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende
simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i
giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni,
ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina
fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione,
questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante
preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e
dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i
cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due
principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi
del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica
Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di
giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un
Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido
ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di
migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non
sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso
passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi
alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi
europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la
prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno,
rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima
volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca
pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico,
usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta
sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers –
sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre
più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo
piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe
comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le
quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato
da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di
dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le
ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con
il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre
trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione
Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano
scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in
famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri
genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che
alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi
precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima,
risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe
dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi
governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li
spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando
si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti
già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario
Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a
20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca
d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25
anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001.
Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in
particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio
Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La
figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime,
Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco
spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la
terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli
24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30
quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino,
l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di
Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del
posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una
carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di
Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale
guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi
giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma
probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque
non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di
altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non
avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i
figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se
messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da
reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il
destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque,
spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per
sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a
di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico,
protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo
Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso
la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco
Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il
motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della
carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura
concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare
interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia
italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del
capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non
nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso
l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato
persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni
pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi
di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia,
tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della
Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di
Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si
auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed
alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o
delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno
Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di
laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei
Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il
romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna
la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo,
attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto
diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi
riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi
Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata
a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a
studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino”
(così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al
termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta
decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle
lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie”
alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione
2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori
sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo
seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di
nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono
spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare
l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver
svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo
38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon,
autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha
scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò
a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu
distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito
estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra
che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e
che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti
figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora.
Non ci sono anormali, ma normali diversi,
scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa,
il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino
straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è
stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) -
che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma
anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una
cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che
opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi
può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra
scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie
di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza
potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una
persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati
criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e
genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo
perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio
coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente
malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute
non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e
solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché
non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto
più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che,
inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale
non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un
normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui
ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista
un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da
illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La
fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci
fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci
rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza.
Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che
per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto
quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o
meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono
spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici
quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere
"perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore
dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità
con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo
Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti
poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono
«scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un
eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da
un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori.
Non è populismo affermare che molti
dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e
definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato
statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le
sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi
contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una
pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una
nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un
contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi
ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e
purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello
Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita
del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma
temo che la risposta sia «nessuno».
Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui
si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con
serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto
una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una
bolla di sapone. Il messaggio che ci
viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non
sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un
posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello
che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene
confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica
amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e
sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato
di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si
rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore
dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile,
offensivo e dannoso. È la mancanza di
questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso
l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che
afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la
disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per
le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia
escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in
mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non
c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso,
sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico.
Chi, come i nostri politici, viaggia
sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre
strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è
invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini,
preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente
scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e
si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente
variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da
letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di
biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare
delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti
sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra
dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria.
Bisogna aver il coraggio di dirlo
apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa -
è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta
di un iceberg. Questo disprezzo per il
luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al
turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai
tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante.
Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che
esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non
serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi
da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso
non farlo? Per anni, camminando in
montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva
abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche
me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho
cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come
fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo
fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che
devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che
pervade ogni ambito della nostra società.
Così, pedalando desolata, pensavo:
come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di
noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i
rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche
bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e
dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze
principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi
diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla
loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la
passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti
noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda,
la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe
istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero
fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo,
ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE:
INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone
cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al
secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica.
Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto
nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto,
confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei
cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini
dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai
puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino
italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis
definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal
direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società,
quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla.
«Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il
dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale:
la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il
puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò
che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato
(lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana,
l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità
collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà,
autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi
(nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società
sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa
accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso,
crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del
sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di
conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso
ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis
si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della
agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella
scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi
identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e
ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo
decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza
all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila
del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei
trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012).
Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e
sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni
di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte
partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare
un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che
cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo
scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono
poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a
cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre
più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della
media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi
due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più
di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla
dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si
registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale
contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di
sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta
sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale
femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione),
l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da
parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che
studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno
almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al
formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove
energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche
l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il
primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare.
Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di
nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di
grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi
innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani
digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere
la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti
in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da
individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze
e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione
nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto
più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa
«crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può
contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse,
condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che
dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino
della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e
popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più
propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento
e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso
l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la
strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche
semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica
non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in
orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto
che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più
positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di
guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio.
Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di
Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la
tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici,
avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e
approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che
anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di
Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non
sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito
dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un
complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire
all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione
cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto
quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa
mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia.
«Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari
Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è
fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto
esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta
dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare
il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle
prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione
vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia
delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha
aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di
criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30
per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si
scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente
poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al
Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La
maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli
sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra
nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia-
mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene
irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord
est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi
rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la
clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto
all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini».
Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura
deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a
una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi
nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto
procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria
del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione
nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a
corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata
promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per
protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo
ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini"
"La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e
non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della
Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non
solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è
personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti
mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la
tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i
ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla
pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici
decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi
come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo
differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per
i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie
emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché
nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso".
Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella
Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg
ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è
correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa
natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti
preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte
fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o
l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere,
forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento
di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento
di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere
"esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con
la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società
separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi.
Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il
Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi
economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei
poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose",
sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla
situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca
socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza
speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di
massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati,
indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si
percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di
memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo
cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è
testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza,
una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che
resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che
incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla
situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro,
ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto
per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo,
attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand,
strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo
degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di
popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce
'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la
società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza
si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di
fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del
peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e
nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole
integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa
qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti,
visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con
prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non
si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da
collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e
"sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta
delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano
all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere
in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione
come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla
persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni,
sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando
spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente
necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa
rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del
peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di
rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli,
eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita:
«Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può
ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente
ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso.
Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di
codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo.
Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume
italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una
dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo
appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i
reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato
in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti
sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente
grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo
ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai
illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì
erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto
della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno
preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che
predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di
privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di
massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe
dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della
Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente
si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato
nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci
la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era
formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di
illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e
l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che
la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’
da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende
tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi
divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo
Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la
soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita,
non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza
strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter
giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se
voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco
io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me
lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di
commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve
«contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e
strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di
"autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita
«fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo
essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che
finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla
credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già
nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel
discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza
della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari
siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta
affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici,
logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei
definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile
leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per
ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una
visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha
paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi
italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in
abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando
l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei
soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”.
Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici
del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa
battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le
‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto,
le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro
numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce
l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa
Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio
2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è
presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La
prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se
casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste
separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da
parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri
con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento
nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in
corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe
violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici
assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti
presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono
ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori
dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva,
il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono
affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il
sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della
Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può.
Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è
molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono
cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte:
l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te
io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a
Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede
quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a
Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli
uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve
siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più
poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti
e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi?
Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti,
imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il
'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di
ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta'
sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si
possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre
Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e,
soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli
interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i
giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più
diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il
consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la
maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro
questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In
stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di
degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale
l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul
trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e
collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto
macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la
natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la
competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o
dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al
penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra
ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso
dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a
volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva):
quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni
e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida,
qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a
rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese
dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è
proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard
di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia
politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione
delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63
anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati"
o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia
il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura"
- come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e
frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in
Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari
sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una
elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell'
"immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo
"legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della
Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin
Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma
quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap
strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano
mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da
spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma
non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona,
bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto
addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono
preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre
in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due
marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico
impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca.
È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio
Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso
noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere
(dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più
importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli
altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa
estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare
essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese
del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e
pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli
italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed
eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le
ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia
ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di
Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli
ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di
chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue
Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo
Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a
Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla
della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e
Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and
Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e
sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli
adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai
suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica”
imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine,
destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro
delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad
intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di
questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena,
con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a
rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso
precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di
pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori
(ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli
alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i
costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità:
non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più
gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a
farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il
fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web.
Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo
più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la
possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti
senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta
diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche
tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la
paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione
destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle
istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del
diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve
essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere
prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto
un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in
un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.
Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più
di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero
dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione»
della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2
milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci:
l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di
base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna
del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno
sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui
numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro
Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti
legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo
stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia,
resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei
pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco
marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti
burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo
l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La
differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese
di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità
di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito
regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle
variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché
dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un
delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui
Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo
Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza
burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne
rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di
peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e
quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge
che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva
che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme
vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite,
modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in
disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati
dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in
forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli
orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo
decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato
al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies
dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al
31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n.
248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè?
Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni
di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione
meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi
svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più
confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto
curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele
Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici
elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero
dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se
le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere
«tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni
straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna
del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del
Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi
abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano
trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può
portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga,
i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori
sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di
Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di
rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento
della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme
che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico
ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è
fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui
no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato
parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo
Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già
gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila
caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto,
hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo
liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di
cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma
255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione
dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito,
con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma
853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi.
Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della
Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione
di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato
della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il
maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340
seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha
altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono
la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non
consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese
note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime
settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici.
Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali,
secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di
maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità
costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato,
attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero
di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento
dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche
le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una
preferenza. Accoglie in toto il
ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera
di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del
ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione
ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal
presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina
presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del
sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste
bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non
sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe
Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano,
Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI
NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON
UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI
ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può
avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado
superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è
indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art.
15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi
posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra
le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera
materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è
abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito
riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa".
Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con
quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine,
quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata,
conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono
abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità.
Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di
incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 –
Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di
una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma
cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai
Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario,
provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum.
Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro
ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 –
Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per
deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente
valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila
elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi
tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art.
79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80].
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad
eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata
se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è
raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le
modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine.
Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può
avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado
superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è
indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la
cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma
giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o
eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità
dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si
distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma.
Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello
temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad
essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da
una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della
legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto
retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere
applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi
anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività,
previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della
Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente
all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai
comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza
di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La
previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché
definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle
norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene
letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice
penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la
legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere
punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e,
se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la
legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia
stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone
elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto
(ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è
inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno
degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la
nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo
però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da
rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai
esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice
contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della
sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di
casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della
categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel
caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per
individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi
essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o
indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene
che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione
espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità
dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile,
inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non
definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o
consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal
caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere
considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento
essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza
non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in
materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è
prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione
adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la
autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto
sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali
attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la
legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza.
È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità
dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto;
quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché
emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio;
quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al
di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia;
è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una
materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto;
è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato,
indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello
stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale;
si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo
(solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità.
L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi
essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto
stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo;
l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non
esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto
amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di
illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso
di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa.
Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse
amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica
tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre
vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei
seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di
quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore
di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro
organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere.
Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di
cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o
quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di
consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile
soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge.
Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti:
si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le
regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla
legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto
illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere
eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto
ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un
provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice
amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli
effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere
suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive
Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua
le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità)
dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si
conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il
diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché
esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le
categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del
provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità,
che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto
romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione,
quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra
l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in
teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente
rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria
verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e
onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale
aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola
(atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori
problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come
il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più
gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non
completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un
atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se
residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai
sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la
giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa
di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera
l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe
riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge
definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di
diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora
una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del
diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la
sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér
l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase
cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o
quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di
merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il
legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore
nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le
varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi
di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la
giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel
corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel
mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né
completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina
commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza
delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola,
voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la
tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il
legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto,
che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e
la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità
del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno
ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle
ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità
dello Stato !
Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza
della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum,
immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga
numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole
trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una
sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto
retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti
sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor
di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi
anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi,
già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una
posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito
costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che
sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in
questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti
dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia
votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero
essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in
essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi,
modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello
Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e
quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per
effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento
illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli
effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe
affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico
nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto
che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab
origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e
costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata
di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero
prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri
economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate.
In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo
concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto
darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice
ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno
in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio
di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la
problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata
successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità
costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può
più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni
giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che
la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche
quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è
quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il
fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in
giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità
costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a
quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte
Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed
intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della
definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo
esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di
prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti
sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto
retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma
dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni
giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico
riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica,
l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza.
(Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla
Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle
situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla
decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione
dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in
quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato,
con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia
24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale
retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa
autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei
fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata
l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto
il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della
realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia
intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art.
13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore,
adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere
dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato
a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della
Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale
incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma
invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così
dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la
questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale.
Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della
pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso
ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di
approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia
la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul
fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti
futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe
compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della
Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che
la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo
quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte
si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e
questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente
dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in
mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti
illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una
nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei
principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e
due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e
preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale
sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno
pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della
Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo
nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi
effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il
Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla
possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge
elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro
di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito
delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della
democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti
consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo
da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia
sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto.
Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla
democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che
compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di
efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma
della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché,
sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di
questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la
popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili
e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in
animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le
prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini su “Il
Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille
parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più
verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un
argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche?
La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella
viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è
quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive
Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione
d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del
Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle
politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla
Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo.
Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le
fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che
consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito
l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i
tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può
modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo
massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le
decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la
notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De
Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul
finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e
via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno,
scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad
“artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi
fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del
cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti
mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire
quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che
succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure
arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché
qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il
problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale
siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che
pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.
Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella
patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il
cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che
dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta
dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della
politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere
superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né
giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra
dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai
ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei
magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva
diritto?
Filippo Facci: La
Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano
ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone.
I giudici
arrestano o no,
sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici,
non pagano
per i propri
errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba
finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere
il padre, se un
Englaro
possa terminare la
figlia, se uno
Welby
possa terminare se
stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il
ritardo culturale
e legislativo che
voi avete creato in vent’anni, ma i giudici
fanno anche un sacco di porcate,
e sono in grado di
svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma
siete voi pezzenti
che glielo avete
lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro -
o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo
culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di
cambiare il Porcellum
lo sapevano tutti,
anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi
esistereste solo per questo,
per cambiarlo,
siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati
eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già
detto, che cosa siete. E, ormai,
c’è una sola cosa
che rende
ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa
illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso
nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità
del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo
abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti
incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento
illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi
legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione.
Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di
i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare
uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e
quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che
il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase
"Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli
spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici?
Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva,
da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto
del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento
delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo
tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a
impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la
magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi
del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine
rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica
italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto,
incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge
propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza,
la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso
dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto
decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima
decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata
peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta
dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno
pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le
dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento
di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa
situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a
intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del
codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte
Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè
che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i
magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento
discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i
lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal
Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro,
cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta
all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse
possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione
amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la
decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi
sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri
del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura
ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni
date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene
di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione?
Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di
minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi
etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o
il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con
buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi».
Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino
intervistato da Tommaso Montesano su
“Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al
premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio
contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a
marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non
ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto
avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non
fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico.
Gianluigi Pellegrino, come il
padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del
centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge
elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni
anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar
del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare
finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per
l’indizione del voto del 2013).
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa.
Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da
parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle
norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati
senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo
per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i
commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della
Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli
eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono
stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide
prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei
l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il
tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati.
L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli
eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la
proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E
ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è
impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni
deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida
dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte
andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una
piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il
governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un
altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede
di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a
favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei
possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle
mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo.
E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla
proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un
ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un
saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo
caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi
sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla
rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o
perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che
cazzo di vita è?
A proposito degli
avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma
tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono
abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione.
Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i
candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la
differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo,
quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli
annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per
migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli
oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le
spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per
codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati.
Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in
conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far
pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo.
L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti
anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato
dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la
verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia
non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine
mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la
nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come
degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati,
poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio.
Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI. ANTONIO GIANGRANDE E RITA ROMANO: DAVIDE E GOLIA.
LA DENUNCIA PER ABUSO DI UFFICIO E LA CONTRODENUNCIA PER CALUNNIA E
DIFFAMAZIONE. LE CARTE PUBBLICHE DEL PROCESSO PUBBLICO DEL TRIBUNALE DI POTENZA.
Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed
otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo
tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.
Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi
elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.
Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio
presso il Tribunale di Taranto.
A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione)
perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05
r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore
Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata
di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa
Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo
che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento
persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona,
motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei
procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande
Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato
quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove
erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza
dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.
B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella
qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto
di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto -
depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del
Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola
innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il
Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico.
In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi:
“abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli
interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed
inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano
direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la
professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo
l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In
Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.
Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e
diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato
in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a
sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il
magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e
circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale
presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle
indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già
precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18
aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate
in data 22/03/2006
e rimaste lettera morta.
Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione
delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno
dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato
denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la
grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta
simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni
(erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative,
in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per
giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i
procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a
rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho
presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.»
Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna
scontata se fossi rimasto inerte,
sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.
La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento
dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui
tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la
professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla
lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.
In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per
la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma
per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei
magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso
killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.
D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed
evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto,
ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del
fatto determinato è ammessa nel processo penale.
Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno
della querela.
Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle
indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale
è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.
DENUNCIA ALLA S.V.
Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di
Manduria,
domiciliata in viale Piceno a Manduria,
per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle
circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,
IN QUANTO
Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio,
con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della
persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute
da prove.
Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande
Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato
quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le
prove erano evidenti sulla colpevolezza.
PREMESSO CHE:
Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da
parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine
di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale
n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006, la Romano assolveva
l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha
richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande
Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente
solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma
rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione
di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le
testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.
Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e
per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01
RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio
abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare
abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano
condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione
è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà
dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta
nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per
mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al
gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza
era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il
cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la
velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che
il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro
Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria
avevano degna attenzione.
Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di
sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del
sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n.
1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo
assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva
testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante
affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in
separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore,
Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il
De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.
Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver
denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in
reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti
presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di
assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai
presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La
posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di
difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in
data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM
la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata
assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto
l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia
riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande
Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia
testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che
con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.
Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande
Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte
era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei
luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei
luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica
si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa
testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.
Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice
Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia
Vincenzo.
"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia
penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non
essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o
del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio
del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste
dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora
si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia,
della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o
rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III
Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).
INDICE DOCUMENTI DI
ANTONIO GIANGRANDE
FUNZIONE SOCIALE
IMPUTATO
1.
Pag. 1. 02/04/1998. Verbale di giuramento di praticante avvocato abilitato alle
cause.
2.
Pag. 1. 13/02/2006. Iscrizione dell’Associazione Contro Tutte le Mafie
all’elenco prefettizio. Presidente Antonio Giangrande.
3.
Pag. 1. 11/02/2008. Ringraziamento ad Antonio Giangrande del Commissario del
Governo per la lotta alla mafia.
LA GRAVE INIMICIZIA
OGGETTIVA DEI MAGISTRATI DI TARANTO
4.
Pag. 3. 06/04/2001. Denuncia alla Procura di Lecce. Commissioni Esame Forense di
Lecce 1998, 1999, 2000 con i rispettivi presidenti: Antonio De Giorgi, Gaetano
De Mauro, Antonio De Giorgi. Commissari di esame i magistrati di Taranto.
5.
Pag. 2. 17/05/2004. Denuncia alla Procura di Lecce. Commissioni Esame Forense di
Lecce 1998, 1999, 2000, 2001, 2002, 2003. Commissari di esame i magistrati di
Taranto.
6.
Pag. 2. 24/10/2013. Ordinanza Tar Salerno 647/13 su irregolarità Commissioni
Esame Forense Lecce.
7.
Pag. 1. 25/02/2003. Risposta Istanza al Presidente della Repubblica contro gli
abusi dei magistrati di Taranto.
8.
Pag. 2. 10/04/2003. Interrogazione Parlamentare del Senatore Euprepio Curto
contro gli abusi dei magistrati di Taranto.
9.
Pag. 3. 23/09/2003. Esposto contro i magistrati di Taranto al Ministero della
Giustizia, alla Procura di Taranto, al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Taranto.
10.
Pag. 1. 03/12/2003. Risposta Istanza al Presidente del Consiglio contro gli
abusi dei magistrati di Taranto.
11.
Pag. 5. 18/04/2004. Denuncia a Busto Arsizio contro gli abusi dei magistrati di
Taranto.
12.
Pag. 1. 01/06/2004. Richiesta di Archiviazione da parte di Salvatore Cosentino
della Procura di Taranto della denuncia inviata alla procura di Busto Arsizio
contro gli abusi dei magistrati di Taranto e da questa rimessa alla Procura di
Taranto.
13.
Pag. 2. 10/06/2004. Denuncia a Bari tramite la Questura di Taranto contro
Salvatore Cosentino.
14.
Pag. 1. 20/07/2004. Riscontro esposto al CSM. Esposto con contenuto analogo alla
denuncia di Busto Arsizio.
15.
Pag. 1. 09/12/2004. Istanza al Parlamento Europeo contro i magistrati di
Taranto.
16.
pag. 1. 26/12/2004 Ratifica Esposto alla Prefettura di Taranto contro i
magistrati di Taranto.
17.
Pag. 2. 10/08/2004, 20/04/2005. Esposti al Procuratore Generale di Potenza per
gli insabbiamenti delle denunce contro i magistrati di Taranto.
18.
Pag. 2. 20/08/2004, 23/03/2007. Istanze Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
contro i magistrati di Taranto.
19.
Pag. 6. 17/03/2008, 18/04/2008. Istanza di avocazione delle indagini contro Rita
Romano, magistrato di Taranto e Commissario d’esame forense di Lecce, presentata
a Taranto, Potenza e Catanzaro. Istanza allegata alle 3 richieste di
ricusazione. Istanza contenente le frasi incriminanti la calunnia e la
diffamazione.
LA GRAVE INIMICIZIA
SOGGETTIVA DEL MAGISTRATO RITA ROMANO
20.
Pag. 11. 14/02/2006. Sentenza Salvatore Mancini emessa da Rita Romano, di cui al
punto 1 della richiesta di avocazione delle indagini. Assoluzione imputato e
discredito di Antonio Giangrande, parte offesa. Giudice Rita Romano.
21.
Pag. 4. 12/09/2003. Conclusioni avv. Leonardo Iavernaro, di cui al punto 4 della
richiesta di avocazione delle indagini. Accredito di Antonio Giangrande nel
processo Nadia Cavallo.
22.
Pag. 12. 18/12/2007. Sentenza Monica Giangrande emessa da Rita Romano, di cui al
punto 4 della richiesta di avocazione delle indagini. Condanna e discredito di
Monica Giangrande (sorella di Antonio) e discredito di Antonio Giangrande,
coimputato nel processo Nadia Cavallo. Parte offesa Nadia Cavallo. Giudice Rita
Romano.
23.
Pag. 9. 15/04/2008. Sentenza Vincenzo Gioia emessa da Rita Romano, di cui al
punto 5 della richiesta di avocazione delle indagini. Assoluzione imputato e
discredito di Erroi Salvatore (marito di Monica Giangrande e cognato di Antonio)
e discredito di Antonio Giangrande, difensore. Difensore dell’imputato: Nadia
Cavallo. Giudice Rita Romano.
24.
Pag. 3. Udienza del 04/10/2010 a Manduria. Istanza di ricusazione per il
processo Giuseppe Dimitri, presentata direttamente al giudice Rita Romano presso
la sezione distaccata di Manduria da Antonio Giangrande (difeso da Dionisio
Gigli), al Tribunale di Taranto ed alla Corte d’Appello di Taranto. 01/12/2010
risposta del Tribunale di rigetto per astensione del giudice.
25.
Pag. 1. 04/10/2010. Rinuncia del mandato dell’avv. Dionisio Gigli.
26.
Pag. 1. 01/02/2011. Rinuncia del mandato dell’avv. Giovanni Luigi De Donno per
due istanze di ricusazione per il processo Santo De Prezzo e per il processo
Nadia Cavallo, presentata, il 27/01/2011, direttamente al giudice Rita Romano
per l’udienza del 01/02/2011 presso la sezione distaccata di Manduria da Antonio
Giangrande (difeso da Giovanni Luigi De Donno), al Tribunale di Taranto ed alla
Corte d’Appello di Taranto.
27.
Pag. 3. Istanza di rimessione per legittimo sospetto per 3 distinti processi a
Taranto: Dimitri, De Prezzo, Cavallo.
LE ASSOLUZIONI DEI
MAGISTRATI ONORARI
28.
Pag. 3. 12/07/2012. Sentenza di assoluzione processo De Prezzo del GOT avv.
Frida Mazzuti.
29.
Pag. 3. 18/04/2013. Sentenza di assoluzione processo Dimitri del GOT avv.
Giovanni Pomarico.
ELENCO TESTIMONI DI
ANTONIO GIANGRANDE
Antonio Giangrande,
nato ad Avetrana il 02/06/1963 e residente ad Avetrana in via Manzoni, 51,
imputato.
Rita Romano, nata a
Roma il 30/05/1967, Magistrato Giudicante del Tribunale di Taranto e commissaria
di esame di avvocato di Lecce, parte offesa.
Per il n. 4-5:
Antonio De Giorgi, nato a Lecce, 11/06/42, domiciliato al Viale della Libertà,
60, Lecce. Presidente Consiglio Ordine Avvocati Lecce, Presidente Commissione
esame forense Lecce 1998, 2000, Presidente Commissione Centrale esame forense
2010, membro Consiglio Nazionale Forense ed Ispettore Ministeriale Esame
forense.
Per il n. 8.
Senatore Eupreprio Curto. Via Municipio 9 o via Giuseppe di Vagno, 124,
Francavilla Fontana.
Per il n. 12.
Salvatore Cosentino, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il tribunale
di Locri (Rc) e commissario di esame di avvocato di Lecce.
Per il n. 19.
Rita Romano, Magistrato Giudicante del Tribunale di Taranto.
Per il n. 20.
Cosima Petarra, nata ad Erchie l’8 maggio 1964 e residente ad Avetrana in via
Manzoni, 51; Mirko Giangrande, nato a Manduria il 26 gennaio 1985 e residente ad
Avetrana in via Manzoni, 51.
Per il n. 22-23.
Nadia Cavallo, nata a Torino, il 24/01/1969 e residente in Avetrana alla via
F.lli Bandiera, 119 - via Roma, 134.
Per il n. 24-25.
Dionisio Gigli, via M. Imperiali, 32, Manduria.
Per il n. 26.
Giovanni Luigi De Donno, via XX Settembre, 8, Manduria.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.
Cari magistrati, rispondete a queste 5 domande, chiede l’Infiltrato speciale su
“Panorama”.
Puntuale come il solstizio d’inverno anche quest’anno è arrivato il giorno
dedicato all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un appuntamento che, da tempo
immemore (e che qualcuno potrà più o meno argutamente ricondurre all’entrata in
politica di Silvio Berlusconi) ripropone un oramai vetusto ed urticante refrain:
l’aggressione virulenta ai magistrati portata da esponenti della politica,
dell’industria, della società “incivile” e via discorrendo. Un piagnisteo
assurto a cifra simbolica di ogni prolusione dell’ermellino capo che, iniziato
il rito liturgico tra toghe, porpore e carabinieri in alta uniforme, fustiga
compulsivamente gli astanti in un crescendo di geremiadi al termine delle quali
ai poveri convenuti sembrerà apparire un’immagine di San Sebastiano provvisto di
feluca. Eppure da qualche tempo il nemico numero uno pare essere ridotto
all’impotenza, privo anche di quel malefico potere proto massonico giudaico
ghedinico di difendersi “dai” processi rinovellando il diritto positivo a ciclo
continuo. La stessa parte politica di riferimento pare disinteressarsi alle
sorti giudiziarie del capo, eccezion fatta per qualche amazzone arruolata al
solo scopo di diffonderne il verbo. Le condizioni sembrerebbero ideali, insomma,
per rimettere al centro di ogni valutazione afferente lo stato della giustizia
in Italia il tema del suo funzionamento o, per meglio dire, del suo
malfunzionamento. Ma fare ciò implicherebbe il portare sul banco degli imputati,
una volta tanto, proprio coloro che sono i primi responsabili dello sfacelo nel
quale il sistema giudiziario versa, cioè i magistrati. Se un’azienda non produce
utili i primi a rimetterci sono i manager, messi alla porta senza tanti
complimenti. Se una squadra di calcio inanella sconfitte il ben servito
all’allenatore è inevitabile. Se un programma tv non ottiene lo share sperato
viene chiuso senza troppa ossequienza verso il protagonista. Sono le regole del
gioco, valide ovunque e per chiunque ma non per la potente corporazione
giudiziaria che, al netto di lotte e faide intestine assai diffuse ma
altrettanto ben celate verso l’esterno, quando si tratta di difendere il
privilegio di casta e di appartenenza serra le fila come nemmeno la falange
tebana sapeva fare. Eppure qualche osservazione sul singolare set di regole che
presidia l’ordine giudiziario italiano dovrebbe essere agevole. Quale sistema
prevede una “sospensione feriale” per 3 mesi filati? Quale organizzazione non
prevede un controllo sul tempo effettivo trascorso in ufficio ovvero regola e
norma ogni forma di…telelavoro da casa? Quale altro ruolo istituzionale prevede
l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero?
Quale altro organo dello Stato e’ il giudice di se stesso? Ma, soprattutto, può
il dovere di imparzialità del giudice sposarsi con lo svolgimento di vera e
propria attività politica entro le varie “correnti” interne alla magistratura?
Qualcuno potrà negare che diversi esponenti di magistratura democratica abbiano
rivendicato apertamente le radici nel pensiero marxista leninista della propria
corrente? Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo
ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia
mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Leggevo sull’ultimo numero
di Panorama la storia di Livio Pepino che di magistratura democratica è stato
leader e che tutt’ora è molto attivo nella pubblicistica di riferimento della
stessa. Lasciata la toga Pepino ha trovato immediato impiego tra le fila del
movimento No Tav dove ha spedito il figlio in prima linea tra le frange più
radicali. E non gli è mancato l’estro di coprire di querele e richieste di
risarcimento danni il senatore piddino Esposito che aveva “osato” criticare
questo attivismo che, forse, potrebbe avere assunto forme poco consone al
passato di un giudice o, almeno, di quello che un giudice rappresenta o dovrebbe
rappresentare per il comune sentire. Ecco mi chiedo e domando: siamo sicuri che
i tanti Pepino che oggi circolano tra le toghe siano immuni da ogni
condizionamento ideologico dovendo rispondere a quella “orgogliosa affermazione
delle origini di essere “giudici a sinistra”, parole di Rita Sanlorenzo che di
magistratura democratica è stata segretario generale? I luoghi deputati alla
politica dovrebbero essere estranei alle aule di giustizia. Ma questa gigantesca
anomalia non trova mai sede e ragioni nei discorsi inaugurali dell’anno
giudiziario che si preferisono incentrati sul sempiterno nemico. La politica o
meglio una parte di essa. Se poi alla nouvelle vogue renziana dovesse venire in
mente di prendere atto di una simile situazione e, di conseguenza, tentare di
legiferare un consiglio, in tutta franchezza, ci sentiamo di darlo: attenzione,
morto un nemico…se ne fa un altro. E altri 20 anni di piagnisteo sono
assicurati. Ed ora veniamo a noi ed ai Magistrati di Taranto che tanto si
sollazzano a martirizzare Antonio Giangrande, che sembra l’unico, In Italia ad
essere diverso.
La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia
penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce
lecito esercizio del diritto di cronaca.
La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia
penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non
essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o
del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio
del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste
dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora
si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia,
della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o
rappresentato.
(Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603)
DENUNCIA/QUERELA PENALE ED INFORMATIVA DI REATO,
RICORSO/ESPOSTO AMMINISTRATIVO CON ISTANZA DI ISPEZIONE MINISTERIALE,
RICHIESTA DI RISARCIMENTO DEL DANNO PER RESPONSABILITA’ CIVILE DEL MAGISTRATO
(artt. 330, 333,336 c.p.p.) (Legge 241/90) (Legge 13 aprile 1988, n. 17)
AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Palazzo Chigi, Piazza Colonna 370, 00187 Roma – Italy
Per quanto di competenza per l’azione amministrativa e per l’azione civile per
il risarcimento del danno per responsabilità civile del magistrato.
AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Segreteria del Ministro
Dipartimento per gli affari di giustizia
Direzione generale della giustizia penale
via Arenula 70 - 00186 Roma
Ispettorato generale
Via Silvestri, 243 - 00164 Roma
Per quanto di competenza per l’inchiesta amministrativa e l’ispezione
ministeriale.
AL PRESIDENTE DEL TRIBUNALE DI POTENZA
Via Nazario Sauro,71 85100 POTENZA (PZ)
Per quanto di competenza per l’azione civile per il risarcimento del danno per
responsabilità civile del magistrato.
ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI POTENZA
Via Nazario Sauro,71 85100 POTENZA (PZ)
Per quanto di competenza per l’azione penale.
Si presenta, per fini di giustizia ed a tutela del prestigio della Magistratura
oltre che per tutela del diritto soggettivo dell’esponente, l’istanza di
accertamento della responsabilità penale ed amministrativa e richiesta di
risarcimento del danno, esente da ogni onere fiscale, in quanto già ammesso al
gratuito patrocinio nei procedimenti de quo. Responsabilità penale, civile ed
amministrativa che si ravvisa per i magistrati nominati per azioni commesse da
questi in unione e concorso con terzi con dolo e/o colpa grave. Elementi
costitutivi la responsabilità civile dei magistrati di cui alla Legge 13 aprile
1988, n. 17:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui
esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
nell’interesse di
ANTONIO GIANGRANDE,
nato in Italia ad Avetrana provincia di Taranto, il 02.06.1963 (codice fiscale
GNGNTN63H02A514Q), cittadino italiano (sesso maschile) di professione Presidente
della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio antimafia riconosciuto dal
Ministero Interni, residente in Italia, Avetrana (TA), via Manzoni, 51 (telefono
0039+099 9708396; telefax 0039+099 9708396 cell. 328 9163996 e-mail
presidente@controtuttelemafie.it). Incensurato, nonostante i continui attacchi
ritorsivi dei magistrati di Taranto.
PER IL PRIMO FATTO
Proc. 5089/05 RGNR, n. 2612/06 GIP, n. 10306/06 RGDT, n. 10346/10 RGDT
Parti offese: Cavallo Nadia – Famà Placido
Accusa: calunnia.
Il giudice Maria Christina De Tommasi: assoluzione per non aver commesso il
fatto.
Denuncia Contro
Avv. Cavallo Nadia Maria, denunciata,
nata a Torino il 24/01/69 e residente ad Avetrana (TA) alla via F.lli Bandiera,
19;
Dott.ssa Montanaro Pina, denunciata,
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto;
Dr. Fiore Ciro, denunciato,
Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Taranto;
Dr. Carriere Pompeo, denunciato,
Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Taranto;
PREMESSO CHE
L’Avv. Nadia Cavallo presenta il 10/06/2005 una denuncia/querela nei confronti
di Antonio Giangrande, sottoscritto denunciante, per avere, con più azioni
esecutive di un medesimo disegno criminoso, in unione e concorso con Monica
Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G., incolpato Cavallo Nadia
Maria del reato di truffa e subornazione, pur sapendola innocente. La denuncia
di Cavallo Nadia Maria è palesemente calunniosa e diffamatoria nei confronti di
Antonio Giangrande in quanto la denuncia di cui si fa riferimento e totalmente
estranea ad Antonio Giangrande e non è in nessun modo riconducibile ad egli.
Insomma: la denuncia a firma di Antonio Giangrande non esiste.
Pur mancando la prova della calunnia, quindi del reato commesso, comunque inizia
il calvario per il dr. Antonio Giangrande.
La dott.ssa Pina Montanaro apre il fascicolo n. 5089/05 R.G. notizie di
reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358
c.p.p., e nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di
accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non
esiste, chiede comunque in data 20 aprile 2006 il rinvio a giudizio di Antonio
Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.
Il Dr Ciro Fiore nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da
alcuna prova di accusa in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio
Giangrande non esiste, dispone comunque in data 02 ottobre 2006 il rinvio a
giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande.
Il processo a carico di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica
Giangrande contraddistinto con il n. 10306/10 RGDT si apre con l’udienza
del 06/02/07 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione
staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è
stralciata per vizi di notifica.
Il Dr Pompeo Carriere il 28/04/2010 riapre il procedimento Gip n. 2612/06,
dopo lo stralcio della posizione di Antonio Giangrande rispetto alla posizione
di Monica Giangrande per vizi di forma della richiesta di rinvio a giudizio. Su
apposita richiesta della difesa di Antonio Giangrande di emettere sentenza di
non luogo a procedere per il reato di calunnia ove ritenga o accerti che ci
siano degli elementi incompleti o contraddittori riguardo al fatto che
l'imputato non lo ha commesso, il dr. Pompeo Carriere, il 19 luglio 2010,
disattende tale richiesta e dispone nei confronti del Pubblico Ministero
l’ulteriore integrazione delle indagini e l’acquisizione delle prove mancanti
per sostenere l’accusa in giudizio contro Antonio Giangrande. All’udienza dell’8
novembre 2010, il Pubblico Ministero non ha svolto le indagini richieste, anche
a favore dell’indagato, e non ha integrato le prove necessarie. Ciononostante in
tale data il dr. Pompeo Carriere, pur non supportato da alcuna prova di accusa,
in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste,
dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di
calunnia.
Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n.
10346/10 RGDT si apre con l’udienza del 01/02/11 presso il Tribunale di
Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In
quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase
preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero
l’accusa di calunnia.
Solo in data 23 gennaio 2014, nonostante l’assenza alla discussione con
l’arringa finale dell’imputato (in segno di palese protesta contro l’ingiustizia
subita) e del suo difensore di fiducia e senza curarsi delle richieste del
Pubblico Ministero togato, che stranamente per questo procedimento è intervenuto
di persona, non facendosi sostituire dal Pubblico Ministero onorario, ed a
dispetto delle richieste dell’imperterrita presenza della costituita parte
civile, l’avv. Nadia Cavallo, che ne chiedeva condanna penale e risarcimento del
danno, il giudice Maria Christina De Tommasi, pur potendo dichiarare la
prescrizione non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande per
il reato di calunnia per non aver commesso il reato, in quanto non vi era prova
della sua colpevolezza. Per la seconda accusa dello stesso procedimento penale
riguardante la diffamazione, ossia per il capo B, la De Tommasi ha pronunciato
il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, nonostante avesse anche
qui dovuto constatare che il fatto non era stato commesso, per la mancanza di
prove a carico di Antonio Giangrande, in quanto l’articolo incriminato era
riconducibile a terze persone, sia come autori, che come direttori del sito web.
Declaratoria di NON AVER COMMESSO IL REATO. Dopo 8 anni, un pubblico Ministero,
due Giudici per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una,
dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione, sostituita dalla
dr.ssa Vilma Gilli ed a sua volta sostituita da Maria Christina De Tommasi.
Rita Romano ricusata per essere stata denunciata da Antonio Giangrande proprio
per la sentenza di condanna adottata nei confronti di Monica Giangrande.
Sentenza del 18/12/2007 con processo iniziato il 06/02/07. Esito velocissimo
tenuto conto dei tempi medi del Foro. Nel processo nato a carico di Antonio
Giangrande e Monica Giangrande su denuncia di Nadia Cavallo e poi stracciato a
carico di Monica Giangrande, la stessa Monica Giangrande era accusata con
Antonio Giangrande di calunnia per aver accusato la Cavallo Nadia di un sinistro
truffa. Monica Giangrande affermava nella sua denuncia che la stessa Avv. Nadia
Cavallo accusava lei, Monica Giangrande, di essere responsabile esclusiva del
sinistro. In effetti Rita Romano stracciava la posizione di Antonio Giangrande
per difetto di notifica del rinvio a giudizio e dopo l’espletamento del processo
a carico di Monica Giangrande condannava l’imputata. Ciononostante lo stesso
giudice riconosceva nelle sue motivazioni che la stessa Giangrande Monica
accusava la Nadia Cavallo sapendola colpevole, perché proprio lo stesso giudice
riconosceva tal Nigro Giuseppa come responsabile di quel sinistro che si voleva
far ricondurre in capo alla Giangrande Monica, la quale, giustamente negava ogni
addebito. L’appello contro la sentenza a carico di Monica Giangrande è stata
inspiegabilmente mai impugnata dai suoi difensori, pur sussistendone validi
motivi di illogicità della motivazione.
L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da
ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro
tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore
Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo
alla Procura di Potenza, Foro competente. Inoltre l’avv. Nadia Cavallo è molto
apprezzata dai magistrati Tarantini e da Salvatore Cosentino, ora alla procura
di Locri. In virtù della sentenza di condanna emessa contro Monica Giangrande
l’avv. Nadia Maria Cavallo ha percepito alcune decine di migliaia di euro a
titolo di risarcimento del danno morale e oneri di difesa. Evidentemente era suo
interesse fare la stessa cosa con il dr. Antonio Giangrande, con l’aiuto dei
magistrati denunciati, il quale però non era di fatto e notoriamente autore del
reato di calunnia, così come era falsamente accusato. Innocenza riconosciuta ed
acclarata dal giudice di merito, però, dopo anni.
PER IL SECONDO FATTO
Proc. n. 36/3015/09 RGNR, n. 243/12 GIP, n. 10244/10 RGDT, n. 10403/12 RGDT
Parti offese: Dimitri Giuseppe – Corigliano Renato
Accusa: Diffamazione a mezzo stampa.
Il giudice Giovanni Pomarico: non doversi procedere per remissione di querela
(ma in effetti per difetto di legittimazione ad agire)
Denuncia Contro
Dott. Bruschi Enrico, denunciato,
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto;
Dr. Carriere Pompeo, denunciato,
Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Taranto;
PREMESSO CHE
In questo procedimento risultano esserci due querelanti e quindi due persone
offese dal reato:
Dimitri Giuseppe querela in data 19/07/2004 Corigliano Renato perché si ritiene
vittima di Falsa Perizia giudiziaria. Corigliano Renato controquerela Dimitri
Giuseppe per calunnia e diffamazione per aver pubblicato la querela, in cui si
producevano le accuse di falsa perizia contro il Corigliano ledendo il suo onore
e la sua reputazione. Corigliano Renato non querela Antonio Giangrande. Dimitri
Giuseppe per la diffamazione subita dal Corigliano controquerela Antonio
Giangrande, pur non avendo il Dimitri Giuseppe legittimità a farlo, non essendo
egli persona offesa.
Insomma: la querela di diffamazione da parte della persona offesa contro Antonio
Giangrande non esiste.
Pur mancando la prova della diffamazione, quindi del reato commesso, comunque
inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.
Il Dr. Enrico Bruschi apre il fascicolo n. 3015/06 R.G. notizie di reato.
Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e
decreta egli stesso la citazione a giudizio saltando l’Udienza Preliminare.
Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10244/10
RGDT si apre con l’udienza del 05/10/2010 presso il Tribunale di Manduria –
Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione
di Antonio Giangrande è inviata al Giudice per le Indagini Preliminari per
l’Udienza di Rito.
Il Dr Pompeo Carriere il 26/11/12 apre il procedimento Gip n. 243/12.
Sostenuto dalla richiesta del PM Enrico Bruschi il dr. Pompeo Carriere,
ciononostante non vi sia la querela di Corigliano Renato contro Antonio
Giangrande e pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia
contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio
a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di Diffamazione.
Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n.
10403/12 RGDT si apre presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico,
sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici
succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la
mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di Diffamazione.
Solo in data 18 aprile 2013 Corigliano Renato è stato sentito ed ha confermato
di non aver presentato alcuna querela contro Antonio Giangrande. Corigliano
Renato e Dimitri Giuseppe hanno rimesso la querela, il primo perché non l’aveva
presentata e comunque non aveva alcuna volontà punitiva contro Antonio
Giangrande, il secondo non aveva addirittura la legittimità a presentarla. Il
giudice Giovanni Pomarico non ha potuto non acclarare il non doversi procedere
nei confronti di Antonio Giangrande per remissione delle querele.
Declaratoria di NON DOVERSI PROCEDERE PER REMISSIONE DI QUERELA. Ma di fatto per
difetto di legittimazione ad agire. Dopo 4 anni, un pubblico Ministero, un
Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa
Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio
Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti ed a sua volta sostituita da
Giovanni Pomarico.
L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da
ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro
tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore
Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo
alla Procura di Potenza, Foro competente.
PER IL TERZO FATTO
Proc. Brindisi 9429/06 RGNR, 1004/07 RGDT;
Taranto 8483/08 RGNR, n. 6383/08 GIP, n. 10329/09 RGDT, n.10018/11 RGDT
Parte offesa:Santo De Prezzo
Accusa: Violazione della Privacy.
Il giudice Frida Mazzuti: il fatto non sussiste.
Denuncia Contro
Dott.ssa Adele Ferraro, denunciata,
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi;
Dott.ssa Katia Pinto,
denunciata,
Giudice monocratico presso il Tribunale di Brindisi;
Dr Remo Epifani, denunciato,
Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto;
Dr. Martino Rosati, denunciato,
Giudice per l’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Taranto;
PREMESSO CHE
L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr.
Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web
della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome
dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli
elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.
La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi
apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore
dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno
dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web
della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il
Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007,
successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non
convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e
convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.
La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo
quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua
incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il
sito web.
In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si
oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo
presidente, Antonio Giangrande.
Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della
privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr.
Antonio Giangrande.
Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il
fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore
dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per
ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando
il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.
Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale
di Taranto apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore
dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo
decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.
Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09
RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il
nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il
01/02/2011.
Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede
l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa
Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande
perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web
associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito
web è ancora vigente.
Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due
pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici
monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di
ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa
Frida Mazzuti.
L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da
ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro
tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore
Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo
alla Procura di Potenza, Foro competente.
PER QUANTO SU DETTO
Pare evidente la tricotomia della responsabilità penale: il movente, il mezzo,
l’opportunità. Per gli effetti
SI CHIEDE ALLA S.V.
La certa condanna penale, civile ed amministrativa dei denunciati, così come
indicati, per violazione degli articoli di
legge che si riterrà di applicare, in particolar modo:
il reato previsto di cui agli artt. 81 - 110 – 368 c.p.
per avere con dolo o colpa grave, con più azioni esecutive di un medesimo
disegno criminoso, in unione e concorso tra loro e con terzi, con
denuncia-querela presentata all’A.G. e con atti giudiziari consequenziali,
incolpato il Dr Antonio Giangrande dei reati ascrittogli, pur sapendolo
palesemente innocente. Per il primo fatto: in Avetrana fino al 23 gennaio
2014. Per il secondo fatto: in Avetrana fino al 18 aprile 2013. Per
il terzo fatto: in Avetrana fino al
12 luglio 2012.
il reato previsto di cui agli artt. 81 – 110 - 595 comma 1°, 2°, 3°c.p.
per avere con dolo o colpa grave, con più azioni esecutive di un medesimo
disegno criminoso, in unione e concorso tra loro e con terzi, offeso la
reputazione del dr. Antonio Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G.
e con atti giudiziari consequenziali, incolpato il Dr Antonio Giangrande dei
reati ascrittogli, pur sapendolo palesemente innocente. Per il primo fatto:
in Avetrana fino al 23 gennaio 2014. Per il secondo fatto: in Avetrana
fino al 18 aprile 2013. Per il terzo fatto: in Avetrana fino al
12 luglio 2012.
il reato previsto di cui agli artt. 81 – 110 – 323 c.p.
per avere con dolo o colpa grave, con più azioni esecutive di un medesimo
disegno criminoso, in unione e concorso tra loro e con terzi, con atti
giudiziari consequenziali a denuncia/querela, in qualità di pubblici ufficiali
nello svolgimento delle loro funzioni o servizio arrecato un danno ingiusto ad
altri per aver incolpato il Dr Antonio Giangrande dei reati ascrittogli, pur
sapendolo palesemente innocente. Per il primo fatto: in Avetrana fino al 23
gennaio 2014. Per il secondo fatto: in Avetrana fino al 18 aprile 2013.
Per il terzo fatto: in Avetrana fino al
12 luglio 2012.
Altresì si chiede la condanna, così come la S.V riterrà opportuno per reati
consumati, continuati, tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre
norme penali, con le aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli
organi competenti per la violazione di norme amministrative. Altresì si chiede
il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, liquidato in via
equitativa dal giudice competente, per la sofferenza
che si è riservata al sottoscritto ed alle persone che mi stimano per la
funzione che io occupo e l’umiliazione e, soprattutto, per il dolore
difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di essere accusato
di calunnie tanto ingiuste quanto infondate.
DETTO QUESTO,
il denunciante con tale atto presenta denuncia e denuncia-querela penale ed
esposto amministrativo e richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei
magistrati contro i soggetti identificati, da soli, o in correità con persone
non conosciute, per gli atti e i fatti e per i reati applicabili, scaturenti da
una doverosa indagine, con istanza di punizione, con riserva di costituzione di
parte civile nell’instaurando procedimento penale. Inoltre si chiede, come
persona offesa dal reato, che gli venga comunicato ogni atto di cui ha diritto
di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt. 406 comma 3
c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma 2 c.p.p.
(richiesta di archiviazione). Si oppone formale opposizione, ex art.459 c.p.p.,
alla richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.
AI FINI PROBATORI
Per la presente denuncia si produce esclusivamente come fonte di prova il
dispositivo delle sentenze di assoluzione. Tutte le altre prove si trovano nei
fascicoli delle cause indicate giacenti presso la cancelleria del Giudice del
Tribunale di Taranto. Altresì si allega richiesta di archiviazione di Salvatore
Cosentino della denuncia contro i magistrati di Taranto.
Avetrana (Ta) lì 28 gennaio 2014
Si allega documento di riconoscimento
MAI DIRE ANTIMAFIA.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi
sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed
esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i
media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed
omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato
brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo
Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro
espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e
sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni
operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante
associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente,
mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia
è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le
Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro
associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia
telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli
chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva
come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese
tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva
parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora
ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia
ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti
succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo,
tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei
presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il
dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia
Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno,
il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex
parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di
Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il
piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere
comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere
nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato,
in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla
democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali,
prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun
consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri
farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con
assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia
Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel
pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque
discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi
responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura
politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene.
Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non
emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti
coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che
"l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine,
nel più breve tempo possibile".
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su
“Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La
celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino,
ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata
oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza
del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito
del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale
di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di
vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti
dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che
si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a
Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato
dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle
loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere
ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono
costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione
della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario
Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso
su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex
sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte
dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici
a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici
contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione
della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro
stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il
Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità
di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono
arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione,
concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi
finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo
Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito
assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per
mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e
al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo
scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal
sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco
Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i
fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte
altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” -
risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero
potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo
ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo
prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni
antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato
Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro )
e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur
raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7
milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124
euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta.
La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è
per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine
è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti
è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le
presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a
lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero
dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati
escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a
vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati
controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato,
avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine
è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito
amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di
disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle
associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal
solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in
pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni
principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le
associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una
lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività
contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura,
alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate
a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di
premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri,
presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella
lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La
lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di
pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il
silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la
questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto
prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi.
Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti
in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il
presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece,
nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata
dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli
interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive
Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi
sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione.
Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici
su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il
propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa
studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di
associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio
guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non
parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come
sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con
lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli
uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine
sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai
troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un
computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici.
Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si
utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è
gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta
e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici
contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica
alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I
giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali
chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche
amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla
Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano
smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio
accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli
importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono
svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli,
di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è
finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi
clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina
Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra
storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il
Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare
gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I.
(Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una
cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia
ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini –
sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si
occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per
l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto
trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito
amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono
stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S.
Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività
contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura,
alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate
a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di
premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà
documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità –
sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il
Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di
centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli
sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in
silenzio la camorra.
IPOCRITI. IL GIORNO DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI
OLOCAUSTI.
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27
gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime
dell'Olocausto perpetrato dai nazisti tedeschi. In Italia di questo evento ne
parlano tutti abbastanza, a volte anche a sproposito. Giusto per essere diverso
io parlo degli altri olocausti.
Bisognerebbe andare a vedere ogni volta se la storia ci viene raccontata nel
modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio
lavoro. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o
revisionare. E di questo parlarne con i leghisti e con chi nel profondo del suo
cuore è razzista.
Parliamo delle foibe e la cultura rosso sangue della sinistra comunista.
La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede
che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della
richiesta di una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. «Oggi
celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò
il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria,
della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro
l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex
Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni
c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono
oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili
fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani
colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro
case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni,
eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di
questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto
senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono
arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori,
pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri
servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro
migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero
crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi
vengono perpetrati in altre parti del mondo. Fu una guerra civile; e il furore
ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della
storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che
hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria
casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con
indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale
avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti
hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre
rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di
identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate.
Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo,
il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei
tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia
sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa
dobbiamo ancora nascondere?»
Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda
Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10
febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei
territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra
storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla
memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della
memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal
«Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce
di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile.
Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui
libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale,
zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in
un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con
cinquant'anni di ritardo.
C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con
migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come
bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva
alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi
agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i
compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è
diramato l’avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la
stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda
comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non
poco la cultura italiana del secondo Novecento.
E quello che è successo nel risorgimento e dell’unificazione dell’Italia di cui
ha festeggiato i primi centocinquant’anni di vita nel 2011, chi ne parla?
Ma è stato sempre così. Le future generazioni non devono dimenticare. Tutti noi
non dobbiamo dimenticare. PER NON DIMENTICARE: L’INGIUSTIZIA VIENE DA
LONTANO.
La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”,
scrive Giovanni Pecora. Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II dall’Italia
meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di buon cuore e
generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi con i suoi
Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati per accendere
il fuoco della ribellione al tiranno Borbone. Ed in effetti all’inizio fu così,
e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come un angelo
liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente
comprati dall’opera di intelligence posta in essere segretamente da Cavour,
facevano in modo che i soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun
modo l’invasione e gli insorti. Bastarono poche settimane per far comprendere ai
liberali ed al popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà,
ma semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi,
perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati
i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi
controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi
inermi. Per la retorica risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano
per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini
sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il
Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia,
Piemonte compreso. E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare
le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri falsificati
dalla retorica risorgimentale. Ma a volte, proprio per evitare che appaia un
racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che
scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti
“filo-meridionalisti”.
I FATTI. Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed
abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui al
Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo stato
d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione delle
leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra. Si promulga così la
cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per
oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di
combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del
re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero,
stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi
causando migliaia e migliaia di morti innocenti.
E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte le
sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne
abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane. Basterebbe questo
per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150 anni la
storia del risorgimento italiano. Altro che “fratelli d’Italia”… Poi
ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni
sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri,
“fedelissima” per definizione al re Savoia. Ecco cosa si legge nel sito
ufficiale dell’Arma: “La legge Pica permise la repressione senza limiti di
qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato
d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno
agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i
sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate
infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi,
poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei
diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non
esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti
dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi“. Non c’è bisogno di alcun
commento, mi pare. Vediamo allora cosa invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia
online, a proposito della legge Pica: “La legge 1409 del 1863, nota come
legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica,
fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio
Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e
temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da
successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua
finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel
Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.
Contesto preesistente. Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici
mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle
province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio si
era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al fine di
reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con
l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di
ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza formalità di
alcun genere. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe
Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate
senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti
dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in
base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si
chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi
dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Per
contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano
più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla
giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice
penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i
reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei
diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di
colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali
civili in favore di quelli militari.
Brigantaggio e camorrismo. La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la
repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si
attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene
contemplato il reato di camorrismo. Oltre ad introdurre il reato di
brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine pubblico
riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente criminalità
organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima volta, la pena del
domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia
produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo.
Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un’unica norma, il
parlamento italiano accostava impropriamente il mero banditismo all’attività di
brigantaggio politico propria della resistenza partigiana antiunitaria e
legittimista.
Le disposizioni normative. In applicazione della legge Pica, dunque, venivano
istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal
brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali
militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il
nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e,
dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in
un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle
milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in
danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene comminate ai condannati
andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito
con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze
attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro
che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a
vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo,
però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati
riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di
qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori
forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva
punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai
gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle
attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle
autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al
brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i
vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli,
camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di reclusione. Nelle province
definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti
erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due
cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere
delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che
potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi:
l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In
sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però,
chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per
consumare una vendetta privata. La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in
altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati
in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa. Attraverso le
successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur
essendo assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che
caratterizzava le province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo
era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero,
infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro
concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla
sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la
punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro
i villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.
Contesto sociale e politico. Già durante la fase di discussione, fu avanzata
l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed
arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il
provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro
prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose,
invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al
malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due
Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la
realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe
alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell’impiego
delle forze armate. In generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un
significativo “contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di
centoventimila unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese,
negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.
Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state
apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi
contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede
adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti,
assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito,
nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il brigantaggio è un gran male, ma male
più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una
vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde
quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si
arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le
spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi
comanda, ora di chi esegue quegli arresti». La legge Pica, fra fucilazioni,
morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000
briganti o presunti tali: per effetto della legge 1409/1863 e del complesso
normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra
arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono
55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori
forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore,
la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi:
l’attività insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni
successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.
CONCLUSIONE.
“L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le
città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il
“brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle
province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora più
acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in
vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e
temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e
combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il
cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla
giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale
Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva
essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto
il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i
condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a
vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione
ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile“.
(Ludovico Greco,”Piemontisi, Briganti e Maccaroni” – Guida Editore, Napoli,
1975).
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi
Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha
imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato
molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già
approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di
giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma
anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati)
dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che
possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte
perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così
un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre
meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a
difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello
stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato
di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno.
Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti.
Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente,
questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo
ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti)
rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite
dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di
una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta
posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della
professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del
ruolo professionale...
Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in
caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato
va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado
d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui
è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si
pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro,
ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per
pochi.
Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla
giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più
deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non
possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in
danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la
legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di
stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia
di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di
comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti
nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata
avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel
settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni,
che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei
cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del
Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo
strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula
durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito
democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier
bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel
ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato
grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole
tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo
governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di
mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in
giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli
incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati
toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non
casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta».
Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe
avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della
commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il
taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha
risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e,
secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre
Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i
suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato».
Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito
la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche
documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo
soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno
stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il
Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da
parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando
soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il
senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno
il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di
spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune
multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta
la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga
alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse
- un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi
per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni
che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda -
spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi
e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe
elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a
seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a
5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono
impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le
stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale
Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del
centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex
ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di
lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi
scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro
Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in
una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se
provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella
fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della
verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di
fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla
Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il
servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione
mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in
nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono
Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per
entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo
malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova
nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in
nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di
destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il
questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo
Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i
regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i
regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi.
Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente
del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge
che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al
momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI
DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di
corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai
denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una
dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute
dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono,
eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92%
dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare
la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è
riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità
burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento
ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km
di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta,
prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto
casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla
fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci
impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla
salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato
agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’
SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed
economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione
sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per
una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche
e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture
odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica
alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di
ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso;
ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di
popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili
determinati interventi.
Pertanto, tra le
condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte
situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di
esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di
povertà:
c) situazioni di
reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale
non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che
beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla
prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che
ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si
rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale.
Come avrete
capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso,
per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la
parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere
e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi,
può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale
carico del Sistema Sanitario Nazionale.
Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese
odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche
offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta
Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi
ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni
particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere
protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni
amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie
che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro.
Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la
lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle
Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si
deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed
impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta.
Per ogni male che
attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la
colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto
saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie,
sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori
dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato
il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti,
non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto,
per esempio, che saranno
processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio
dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i
presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria
e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni
2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la
reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi.
Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il
direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei
cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così
viene definito l’articolo.
Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per
noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la
mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale
e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi
se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente
potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del
Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti
italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore
della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che
riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il
precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo
ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione
Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in
risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani
Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di
presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande,
presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il
14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da
influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi
legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di
sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una
ignobile dentatura?” La risposta è
no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare
le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama
spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire
tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io
aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha
portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande
lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante
sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì
culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere
sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende
alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre”
che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una
buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura
pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare
le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso,
non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o
vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico
nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi
soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato
un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali
ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti
impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno.
Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl
che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi.
Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza
odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai
non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature
(mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è
molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi
quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo
dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con
i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola
parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari
Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare
quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce
sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di
abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia
parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri
come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene
e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo
denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che
il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott.
Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica
gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai
dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di
prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata
prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale
nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del
dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero
dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di
detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare
la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è
molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché
sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di
analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni
utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti
italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi.
Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il
dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost.
Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per
mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott.
Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande,
come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e
senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale
imperante.
Palermo. Morire,
nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un
dentista.
Da un ospedale
all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile
ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive
Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì
11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la
differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver
Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente
anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora
morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa
drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un
dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana,
18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare
immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore
era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più
nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La
Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma
purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto
specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata
portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno
tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva
invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite
polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo.
Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è
stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste
la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale
con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di
malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella
periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà.
Gaetana Priola,
18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”.
La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai
primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da
un ascesso
dentale mai curato.
All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di
vita. I medici le avevano diagnosticato uno
choc settico polmonare,
condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della
pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al
Bucchieri La Ferla
e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le
sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a
rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare
il
decesso.
Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva
insieme alla famiglia.
All'inizio
era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un
dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è
trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata,
forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18
anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere
Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il
dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico
per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della
ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di
una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella
casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di
Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e
mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata
sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo,
responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don
Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del
quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19
gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla
diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla
e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore
circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota
della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per
competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana
non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le
sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene
diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già
diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per
salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso
avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia
e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista -
ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si
trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli
italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso
delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario
nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura
peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità
pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto
da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso
rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa
accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei
denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al
fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a
Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli
effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico
rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche
perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite
odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale
Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore.
Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore
dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un
numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera
emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’
intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi –
prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per
garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo
assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento
del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari
dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi
adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono
publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal
latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per
descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e
senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella
professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato -
rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze
professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il
costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni,
presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi
di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo
dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la
corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg,
agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della
corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né
sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per
l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se
l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente
stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione.
Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha
mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro
esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio
Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto
del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno
sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano
opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei
commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio
di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque.
Il Servizio Anticorruzione negli anni
successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a
pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il
quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di
euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra
essere troppo alta perfino per noi! Ma
da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un
mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel
2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la
corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato
il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del
Pil mondiale. Applicando la stessa
percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi.
Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la
cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che
non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per
i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli
pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo
Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa
dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che
certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati.
Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e
magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio
esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito.
Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non
ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro
quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un
risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La
dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili
umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho
il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da
raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo
irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche
delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed
istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il
potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane
nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi
ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho
potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono
occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di
Meredith Kercher.
Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.
Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori
che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur
sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano
non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi
dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non
creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle
sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga
lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno
all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur
invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei
giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare -
ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani
potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui
l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto -
ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi
vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente
immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto
infondate».
Se lo dice lui che
è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi:
«Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito:
«Io sono
innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’
così...».
Sabrina Misseri: «Io
non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi:
«Io sono innocente».
Queste sono solo
alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente
condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in
carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e
rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare
a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto
compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è
il giudice di se stesso?
Di questa sorte
meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne
rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come
"compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e
Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa.
Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e
la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times
del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha
definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco
perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
Sono qualcuno, ma non avendo nulla per
poter dare, sono nessuno.
In un mondo
caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi
sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla
rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o
perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che
cazzo di vita è?
Noi siamo animali.
Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza
l’ingegno.
Al di là delle
questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri,
magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un
servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani,
prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro
amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”.
Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e
di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima
che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello
che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo
proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA,
SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare
come tali».
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia
riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai
circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013.
In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del
2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo
Scarano su “Il Giornale”. Le
evasioni fiscali
in Italia sono all'ordine del giorno: niente
scontrino,
niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha
scoperto che nelle sue casse c'è un
buco
di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non
incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo",
spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti
paradisi fiscali
- Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali
scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi
non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi
- dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione -
ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA
evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se
si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000
controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso
uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e
reati fiscali,
lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei
confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato
procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6
miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori
completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da
5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette
scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come
tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato).
Lo stato il primo evasore fiscale:
INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente.
Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non
ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di
versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap
che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto
discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi
dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS.
Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco
dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti.
Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce,
scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri
Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit
dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava
un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo
sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento
tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai
dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire
nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel
comparto produttivo.
Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti
delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del
presunto buco dell’Inps
come se fossimo dei privati e non mamma
Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un
paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più
piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di
pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno
in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di
queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere:
incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le
pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di
annacquare un gigantesco buco di bilancio.
Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta.
E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la
faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti
pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le
future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica?
Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà
maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo
schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo.
Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come
facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a
pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo
fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il
sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il
costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari
(anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali.
Ma restava un problema.
Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La
genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro
Damiano.
All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di
8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti
pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti
con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi
all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che
serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa
quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con
l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa
fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco
inizia a tremare.
Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri
dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse,
verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore.
In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i
contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo
di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese
il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che
plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un
servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua
nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli
sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte
purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può
prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato
Italiano. La morale è sempre quella.
Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e
contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte.
Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più
contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici,
scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla
Gestione Separata, cioè quel
particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei
lavoratori precari (come i
collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva,
non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà
in attivo per oltre 8 miliardi di euro.
Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari
italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora
in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il
rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i
contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una
situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole,
oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni
di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero
sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le
pensioni di altre categorie, compresi
gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei
«contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari,
parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla
gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in
trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i
requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico
per pagare quelle degli altri. È un assetto che
penalizza proprio i giovani e i precari,
che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel
mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente.
Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non
supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di
popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento
della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal
governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non
tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo,
ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno
vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE
DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album
omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da
"Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato
mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino
Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle
classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della
sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da
elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi
d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè
snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali,
scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù
da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria
collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga
misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista
inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte
no. La sindrome Nimby (Not in
my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario.
Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa
infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012
(fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of
office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione
dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e
scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono
indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e
comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”.
Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano
il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e
burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le
grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento.
Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le
stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di
capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal
Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua:
negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO?
A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione
pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di
risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente
casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una
parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali,
rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le
battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né
in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda
l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in
Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da
compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’
plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta
velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi,
che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo,
dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di
sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione
politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente
protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile.
In Italia non basta rispettare le
regole per riuscire ad investire
nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un
Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e
umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore
Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”,
iniziali dell’inglese Not In My
Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di
interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in
cui vengono costruite. I veti locali e
l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico
per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono
“cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi
amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso
e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome.
Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in
definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby
Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini
(40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica
(31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni.
Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni
territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla
settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le
infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La
fotografia che emerge è quella di un paese
vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae
investimenti perché è ideologicamente
contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è
la tendenza allo stallo. Quella
che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello
stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza
di "no" a prescindere, veti
politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a
far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente:
gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di
quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e
Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex
magistrato Luigi de Magistris, sindaco
di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei
rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della
rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla
raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto
l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern”
che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel
termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati
in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività
locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De
Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che
gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo
spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia
verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna
alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno,
che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo
cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del
potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’
quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è
insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei
vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo
Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire
ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento
generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma
il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze
se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non
possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo,
consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono
il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI
DI STATO.
Letta, Renzi e
tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della
politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un
anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E
sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto
dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con
l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi
(il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato
a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd,
sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo
convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche
alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica,
quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella
segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità
visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di
stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei
nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi
è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a
via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è
stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo
alcuni:
-
Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro
sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo
mondo.
-
Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva
Berlusconi.
-
Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo
Prodi.
-
Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
-
Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
-
Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il
governo Craxi.
-
Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il
record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente
difficili.
-
Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della
segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E,
proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato,
Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il
Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso
delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto
da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più,
Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere.
“Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero
prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto
varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un
ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi
vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si
sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una
durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il
Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo,
scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti
e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le
consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo"
Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo
campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a
piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il
futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato
eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica.
Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il
ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo.
È un
colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del
dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro
intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era
prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del
Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose,
la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia,
pardon, presidenziale.
Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni
Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei
presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli.
Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del
1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo
fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi
(che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e
amatriciane), il primo premier della seconda legislatura,
Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario
Monti
(entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad
interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua
squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo
nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più
tardi:
dubitiamo sia una coincidenza.
Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo:
anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio
partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno
successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e
democratiche elezioni).
Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché
Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo
Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più
disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da
Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi,
grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici.
La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo
Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva:
le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le
elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana,
a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di
spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia
vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a
legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per
premier).
Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle
elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e
Berlusconi.
Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è
fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato
costituzionale (sempre formalmente rispettato),
bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza
di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la
Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della
Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento
ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del
Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona,
sempre nominata dal Capo dello Stato.
I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il
proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica:
a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del
Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad
essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile
tradizione che
ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la
quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta
ad ogni legislatura.
Il
complotto, insomma, continua.
Nota per chi non se ne fosse accorto.
Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della
Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata
nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa.
La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia
legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una
Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e
non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta
incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente)
Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere
(ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un
adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di
quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno
da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola.
Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è
necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e
menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli
ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente
del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando,
ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia
recente,
Berlusconi
è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva
più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu
approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti,
che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta,
che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono
state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di
governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli
altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal
Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione
dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non
piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e
che soprattutto
si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti
difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare
(così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del
Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere
l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da
chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti.
L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su
Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo
Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il
premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa
contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte
si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come
giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e
magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è
spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi
urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per
difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è
la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del
Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i
partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica
e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il
Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza
dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal
Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se
quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un
nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce
in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non
attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello
nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del
Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione
diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge
elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha
favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di
centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da
un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non
essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del
Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della
Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare
il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si
formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di
un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza
completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi
piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione
non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI
DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile
che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se
i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di
questi mali.»
Così afferma il dr
Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal
Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti
foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere
effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza
troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai
parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI
DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO
OBBLIGATORIO
“Per tutelare i
diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un
servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 %
della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli
indigenti.
E' indigente chi
percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato
annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade
sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro
bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è
dedotta dal reddito complessivo.
Le attività
professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o
tassa o contributo.
Sono abrogate le
disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio,
televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel
1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio
Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di
Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca
sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del
verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale
è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste
cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un
comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno
ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".
Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella
filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e
Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come
Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro
quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la
versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo
ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica,
come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà
vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio
Gaber (1972)
Vorrei essere
libero, libero come un uomo.
Vorrei essere
libero come un uomo.
Come un uomo appena
nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un
bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e
vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un
uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è
star sopra un albero,
non è neanche il
volo di un moscone,
la libertà non è
uno spazio libero,
libertà è
partecipazione.
Vorrei essere
libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha
bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo
spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto
di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi
comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è
star sopra un albero,
non è neanche avere
un’opinione,
la libertà non è
uno spazio libero,
libertà è
partecipazione.
La libertà non è
star sopra un albero,
non è neanche il
volo di un moscone,
la libertà non è
uno spazio libero,
libertà è
partecipazione.
Vorrei essere
libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più
evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la
natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso
l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la
forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è
star sopra un albero,
non è neanche un
gesto o un’invenzione,
la libertà non è
uno spazio libero,
libertà è
partecipazione.
La libertà non è
star sopra un albero,
non è neanche il
volo di un moscone,
la libertà non è
uno spazio libero,
libertà è
partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” –
Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda.
Così cantava il
mitico Gaber in una delle sue canzoni “La
libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la
libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.”
Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi
libero?”,
certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole,
esprimere le proprie opinioni,
manifestare la propria fede
e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe
anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale
termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber
libertà è partecipazione:
partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi
essere inseriti in un dato contesto.
Libertà
non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in
maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa
strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una
società senza regole
sia l’antitesi
di sé stessa.
Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di
rispetto:
rispetto
per l’altro,
per le sue idee,
per la sua persona:
se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e
quindi alcuna speranza di libertà.
La libertà è un diritto innegabile.
Chi ha
il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di
ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la
pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto
padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il
terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo,
dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la
propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali,
tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo,
falciando così in pieno il
diritto alla libertà
di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e
mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi
sovviene la seconda strofa del
nostro inno nazionale
(di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il
nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi
fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito
della terza strofa: “Uniamoci,
amiamoci”
Dignità,
rispetto dell’altro,
partecipazione,
lievi seppur necessarie limitazioni:
questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni
da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”,
“lotta alle
cricche”,
giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi.
La libertà necessita di semplicità,
non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici
anni (o per lo meno, rifacendomi allo
Zibaldone
leopardiano), tutta
acqua e sapone
e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che
gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di
Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche
esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non
mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un
dilettante
Sarei sempre
presente
Sarei davvero in
ogni luogo a spiare
O meglio ancora a
criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il
cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai
peccati grossi
Non è mai
intensamente peccaminoso.
Del resto poverino
è troppo misero e meschino
E pur sapendo che
Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che
l'errore piccolino
Non lo veda o non
lo conti affatto.
Per questo io se
fossi Dio
Preferirei il
secolo passato
Se fossi Dio
rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e
poi si odiava
E si ammazzava il
nemico.
Ma io non sono
ancora nel regno dei cieli
Sono troppo
invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica
stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo
migliore.
Si, vabbè, lo
ammetto
non mi è venuto
tanto bene
ed è per questo,
per predicare il giusto
che io ogni tanto
mando giù qualcuno
ma poi alla gente
piace interpretare
e fa ancora più
casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli
errori di mio figlio
E specialmente
sull'amore
Mi sarei spiegato
un po' meglio.
Infatti voi uomini
mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo
compassione e finti aiuti
Ci avete proprio
una bontà
Da vecchi un po'
rincoglioniti.
Ma come siete buoni
voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che
ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per
i delfini e i cani
Per le piantine e
per i canarini
Un uomo oggi ha
tanto amore di riserva
Che neanche se lo
sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi
simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia
rabbia più bestiale
Che mi fa
male
e che mi
porta alla pazzia
È il vostro finto
impegno
È la vostra
ipocrisia.
Ce l'ho che per
salvare la faccia
Per darsi un tono
da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi
pedonali e poi servizi strani
E tante altre
attenzioni
Per handicappati
sordomuti e nani.
E in queste grandi
città
Che scoppiano nel
caos e nella merda
Fa molto effetto un
pezzettino d'erba
E tanto spazio per
tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori,
cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli
infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro
il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono
ancora nel regno dei cieli
Sono troppo
invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non
sono brave persone
E dove cogli, cogli
sempre bene.
Signori
giornalisti, avete troppa sete
E non sapete
approfittare della libertà che avete
Avete ancora la
libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio
pretendete
La libertà di
scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e
interessanti
Di presidenti
solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo
pieno di sgomento
Come siete
coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali,
necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe
proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul
disastro umano
Col gusto della
lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo
ammetto
La scomparsa totale
della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio
di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la
superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono
ancora nel regno dei cieli
Sono troppo
invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io
chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli
non vorrei ministri
Né gente di partito
tra le palle
Perché la politica
è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che
fanno questo
gioco
Che poi è un gioco
di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il
tifo
E tutti quelli che
fanno questo gioco
C' hanno certe
facce
Che a vederle fanno
schifo.
Io se fossi Dio
dall'alto del mio trono
Direi che la
politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi
pare a
Platone
Che il politico è
sempre meno filosofo
E sempre più
coglione.
È un uomo a tutto
tondo
Che senza mai
guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle
parole
E poi se le rigira
come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari
imparentati
Non ho nessuna
voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le
indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po'
stonati.
Quello che dite e
fate
Quello che
veramente siete
Non merita
commenti, non se ne può parlare
Non riesce più
nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare
inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come
scendere ai vostri livelli
Un gioco così
basso, così atroce
Per cui il silenzio
sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio
emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma
non son proprio capace
Di tacere del
tutto.
Ci son delle cose
Così tremende,
luride e schifose
Che non è affatto
strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere
la mano.
Io se fossi Dio
preferirei essere truffato
E derubato, e poi
deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più
tragica disgrazia
Piuttosto che
cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così
schivi e riservati
Ed ora con la
smania di essere popolari
Come cantanti come
calciatori.
Vi vedo così audaci
che siete anche capaci
Di metter persino
la mamma in galera
Per la vostra
carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche
abbastanza normale
Che la giustizia si
amministri male
Ma non si tratta
solo
Di corruzioni
vecchie e nuove
È proprio un
elefante che non si muove
Che giustamente
nasce
Sotto un segno
zodiacale un po' pesante
E la bilancia non
l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la
giustizia è una macchina infernale
È la follia, la
perversione più totale
A meno che non si
tratti di poveri ma brutti
Allora si che la
giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa
a non essere incazzati
Che in ospedale si
fa morir la gente
Accatastata tra gli
sputi.
E intanto nel
palazzo comunale
C'è una bella
mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in
questa messa in scena
Tutto si
addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se
io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa
facciata immonda.
Ma io non sono
ancora nel regno dei cieli
Sono troppo
invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto
come una macchia nera
Una specie di paura
che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le
estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli
invisibili avvoltoi
Dei pescecani che
non si sazian mai
Sempre presenti,
sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei
mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in
questo momento
Son proprio loro il
nostro sgomento.
Uomini seri e
rispettati
Cos'ì normali e al
tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro
i loro imperi
Una carezza ai
figli, una carezza al cane
Che se non guardi
bene ti sembrano persone
Persone buone che
quotidianamente
Ammazzano la gente
con una tal freddezza
Che Hitler al
confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi
terribili bubboni
Ormai son dentro le
nostre istituzioni
E anzi, il marciume
che ho citato
È maturato tra i
consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo
Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo
complici oppure deficienti
Che questi
delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono
neanche le loro vergogne
E sono tutti i
giorni sui nostri teleschermi
E mostrano
sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti
contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche
uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia
nera
È lo Stato.
E allora io se
fossi Dio
Direi che ci son
tutte le premesse
Per anticipare il
giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa
indifferenza
E la mia solita
distanza
Vorrei vedere il
mondo e tutta la sua gente
Sprofondare
lentamente nel niente.
Forse io come Dio,
come Creatore
Queste cose non le
dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno
non mi dovrei occupare
Né di violenza né
di orrori né di guerra
Né di tutta
l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche
Dio
Ha il proprio
inferno
Che è questo amore
eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA
di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo
nuovo
talmente nuovo che
è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e
altruista
orientalista ed in
passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo
ambientalista
qualche anno fa
nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo
nuovo
per carità lo dico
in senso letterale
sono progressista
al tempo stesso liberista
antirazzista e sono
molto buono
sono animalista
non sono più
assistenzialista
ultimamente sono un
po' controcorrente son federalista.
Il conformista è
uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha
tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di
opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia
di pensare pensa per sentito dire
forse da buon
opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo
paradiso.
Il conformista è un
uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista
s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai
comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e
vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode
la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo
galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo
nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e
ottimista
europeista
non alzo mai la
voce
sono pacifista
ero
marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non
ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista
aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di
una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo
con un dito e si sente realizzato
vive e questo già
gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a
tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo
nuovo
talmente nuovo che
si vede a prima vista
sono il nuovo
conformista.
Una canzone molto
ironica quella di
Giorgio Gaber,
un’analisi su chi sia veramente
il conformista
e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il
conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire
Gaber con questa canzone.
Il termine
conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e
regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di
gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere
molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che
la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature.
Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo
assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è
un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno
riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa
il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc.
è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani
pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e
comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e
comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone
Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili
caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere
tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in
cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“,
per poi diventare “orientalista“,
ricordandosi però di essere stato un “sessantottista”
e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“!
Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine
continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che
conformista.
Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di
cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a
dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è
forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si
adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza
problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare,
Gaber
lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente
i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e
devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di
Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di
riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho
capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è
la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura
chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la
democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per
scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano.
Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del
resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che
la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo".
L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo?
Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo
il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di
voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un
partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi
sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti
dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo
questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum
è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica,
attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se
mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha
qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se
vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di
azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico,
perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto
resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna,
cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio
durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la
verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il
pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il
contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che
va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al
10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o
diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri,
statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia,
che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto:
Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è
innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza
abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere
antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere
antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o
niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita.
Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti,
eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore!
Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa
esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma
più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per
lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa.
Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole,
e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più
gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la
qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico
sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti.
Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci
vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla
portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina
domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra
abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui...
“tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando
saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di
Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra
è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia
generazione ha perso.
La canzone vuol
mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra
politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su
luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber
a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai
minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per
mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al
momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si
definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è
nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la
prendiamo con la storia
ma io dico che la
colpa è nostra
è evidente che la
gente è poco seria
quando parla di
sinistra o destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella
vasca è di destra
far la doccia
invece è di sinistra
un pacchetto di
Marlboro è di destra
di contrabbando è
di sinistra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Una bella
minestrina è di destra
il minestrone è
sempre di sinistra
tutti i films che
fanno oggi son di destra
se annoiano son di
sinistra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Le scarpette da
ginnastica o da tennis
hanno ancora un
gusto un po' di destra
ma portarle tutte
sporche e un po' slacciate
è da scemi più che
di sinistra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
I blue-jeans che
sono un segno di sinistra
con la giacca vanno
verso destra
il concerto nello
stadio è di sinistra
i prezzi sono un
po' di destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
I collant son quasi
sempre di sinistra
il reggicalze è più
che mai di destra
la pisciata in
compagnia è di sinistra
il cesso è sempre
in fondo a destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
La piscina bella
azzurra e trasparente
è evidente che sia
un po' di destra
mentre i fiumi,
tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più
che sinistra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
L'ideologia,
l'ideologia
malgrado tutto
credo ancora che ci sia
è la passione,
l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove
è andata non si sa
dove non si sa,
dove non si sa.
Io direi che il
culatello è di destra
la mortadella è di
sinistra
se la cioccolata
svizzera è di destra
la Nutella è ancora
di sinistra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Il pensiero
liberale è di destra
ora è buono anche
per la sinistra
non si sa se la
fortuna sia di destra
la sfiga è sempre
di sinistra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso
a pugno chiuso
è un antico gesto
di sinistra
quello un po' degli
anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre
che di destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
L'ideologia,
l'ideologia
malgrado tutto
credo ancora che ci sia
è il continuare ad
affermare
un pensiero e il
suo perché
con la scusa di un
contrasto che non c'è
se c'è chissà
dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio
moralismo è di sinistra
la mancanza di
morale è a destra
anche il Papa
ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che
ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
La risposta delle
masse è di sinistra
con un lieve
cedimento a destra
son sicuro che il
bastardo è di sinistra
il figlio di
puttana è di destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Una donna
emancipata è di sinistra
riservata è già un
po' più di destra
ma un figone resta
sempre un'attrazione
che va bene per
sinistra e destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la
prendiamo con la storia
ma io dico che la
colpa è nostra
è evidente che la
gente è poco seria
quando parla di
sinistra o destra.
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra
cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO
ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo
di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto
evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare
l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano,
ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello
di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza,
nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco,
a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che
già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel
periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con
Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue
produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome
d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio
1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine
istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da
bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un
ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi
universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è
celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di
cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà,
si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il
genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia
da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor
G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di
contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati.
Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e
sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi,
però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.
Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia.
Povera Calabria,
scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”.
Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino.
Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo
un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con
mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come
difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal
lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi
ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta
doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese,
dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma
non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre
più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si
rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire
la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di
responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi
personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero
cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico
chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio
diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora
vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce
difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da
tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio
tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di
poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il
minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in
condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di
qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è
disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si
riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un
esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra
(difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e
croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la
'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la
disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera
Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni,
scrive Andrea Signini su “Rinascita”.
“IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI,
NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928
– Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e
lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal
giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali
sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi
disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi
leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima
intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della
magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente
della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91,
il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una
riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui
rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli
incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum
e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive
per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si
opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del
Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero
inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il
vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione.
Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento
di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti
per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti
nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per
imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato,
la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza
di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione
fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente
che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di
magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi
dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli
perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci
irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul
come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo)
fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa
di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura,
ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei
magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno
era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna;
Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che
saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano
di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve
preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più
da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad
oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per
rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia
della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento –
1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla
volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo
all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li
siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso,
Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene
rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la
corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il
potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo
(facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva
sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere
giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di
dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche
dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere
“mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre
poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non
siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a
pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste
“scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in
bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI
STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che
ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”)
clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura
(vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in
un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E,
di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà,
nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare
di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve
stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo
ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre
impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo
Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso
commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono
letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta
facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile
sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si
fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico
Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento
milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente
con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea”
quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i
suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato
della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la
magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio
del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista
ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera”
inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante.
Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere
legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere
giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La
corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il
compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara
Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il
Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette
ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e
peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare.
“SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente
normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato
vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si
perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da
una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà
costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene
prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una
elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa
l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie
affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi
stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in
cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla
vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato.
La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura
umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli
esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da
eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e
che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si
entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”.
Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il
veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del
potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa
prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo
truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col
curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di
farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei
mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te
danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di
Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra
intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più
volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il
“povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la
macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta:
parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di
un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento
della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.]
ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica
di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo
ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia
delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo
il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che
dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro,
prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a
Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo
è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi
hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi
dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo
tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita
posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto
il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è
andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita,
che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170
metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi
di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della
polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della
Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico
del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico
alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante.
Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina
e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi
proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale
ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le
sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e
di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe.
Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa
dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno
“Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro
gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione
funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno:
‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca
all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere
la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio
da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni
di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a
Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della
carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della
medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le
manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello
che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne,
evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a
dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi
complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una
delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità
hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto
all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi
anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la
procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male
saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante
un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è
lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il
punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del
genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una
cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta
che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della
cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo
(mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come
di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in
magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da
un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la
magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità
parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me
avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di
quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale
Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il
mafioso».
Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti
molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e
sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti,
arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di
Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione
il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel
carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia
penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata.
Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice
delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era
stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012
nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei
Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona
grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro
paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non
solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il
gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e
propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di
lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord
Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al
Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe
intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta
che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta
o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea
numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e
ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano,
all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del
calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di
quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana,
quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al
Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34
anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «...
Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in
ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che
entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di
Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del
tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come
conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui
Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio
delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente,
dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio
Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la
vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di..
ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il
Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una
steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL
CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè
prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per
codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro
canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali
razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo
occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le
mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti
continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna.
Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i
leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti
colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con
disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e
polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone
come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di
comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la
pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero
quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza
dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera”
sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate
sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma
costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E
FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E
STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA
RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE
UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA,
PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O
UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA'
SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI
GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI,
RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER
UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E'
REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO
COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE
PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI
UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA'
CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI
CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO
CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E
LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA,
DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI,
COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA
IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO,
I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI
MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO
IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI
CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA
COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO
COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI
CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE,
UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA
IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE,
SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA
ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI
INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI
DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE,
CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI,
I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE
REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI
PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA
REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE,
EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI
DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I
2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL
GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E'
CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i
meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano,
da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera
della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi.
L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia
politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal
partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto
l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche
da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi
considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia
politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo
Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi
economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord
degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un
territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana
teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda,
Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud
tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti
stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val
padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da
popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della
Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che
sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e,
conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di
queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica
federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A
fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno
d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania
era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma
anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera
e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il
termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato
politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come,
a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo
utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito
politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti
autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra
i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene
guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai
mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata
da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega
propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di
autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di
riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni
della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale
considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia,
proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata,
successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore
della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle
competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del
federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore
autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre
in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum
costituzionale del 2006.
« Noi,
popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica
federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole
pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.»
(Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di
una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine
della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per
l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con
il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il
"Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum,
si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica
Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da
presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi
elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale
della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano,
né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto
dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione
d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona,
Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate,
e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a
Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non
abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha
da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della
Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di
strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché
attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere
indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano
con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va,
pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in
campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato
le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio
ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di
stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi,
l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva
TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti,
delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una
Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a
livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive
il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la
selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della
Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza
Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della
Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni.
Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di
non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che
promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto
Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto
dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo,
non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima
edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord
organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4
milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il
Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il
Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord,
ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale
sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della
Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da
Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago
(1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo
presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito
dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia,
Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte,
dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti,
è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan.
L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come
vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia,
Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione,
Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco
Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo
Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile,
Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli,
presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto
2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni
delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania
comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni
dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si
è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord
come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del
territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione
(vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono
quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico
del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura
Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò,
tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico
italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore,
i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati
rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati
da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del
1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata
dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e
produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997
altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano
affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione
sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il
risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior
parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al
ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di
Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla
provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un
risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani
nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4%
contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero
diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore
doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini,
fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla
Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti,
portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione
di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani
(evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi
alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe
Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata
locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il
ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche,
senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione
nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega
Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera
sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle
Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto
indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta
firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il
Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di
secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa
da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o
contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario
Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in
questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare
con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La
voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini,
intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la
raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà
sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha
aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il
lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente
l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del
segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in
cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti,
dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il
pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania,
nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti
da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione -
ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì
a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre
regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo
la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani
alla secessione. Sul suo blog il comico
contro «l'arlecchinata» dei mille popoli,
scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo,
leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla
secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di
carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più
alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma».
«Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul
suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si
dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla
partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla
Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando
ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso
l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può
essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui
memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da
atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai
servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla
quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile
raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti.
E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle
partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque
maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel
Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di
popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme?
La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile
non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i
Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere
all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di
novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si
atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti
spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria,
territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani,
invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a
centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia,
qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord?
Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e
istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può
essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni
attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici
che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza
significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e
funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari,
come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse
troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla
Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta
e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per
andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive
Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i
meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per
sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud.
"Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa
bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e
incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni
meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi
addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto
di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di
Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di
chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci
ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque
sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì
vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e
sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto,
ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo
a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei
romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano
dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte".
L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla
criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che
ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito
anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano.
"Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa
scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della
sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor
fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno
affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa
Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una
sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai
fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud
a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza
tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le
ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa
dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud,
che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà
un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud.
Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il
Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona
poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i
Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione
italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a
galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli
che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per
emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a
rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud,
definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp.
80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop
congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo
è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di
ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi
con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per
«piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di
Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano»
- sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud
lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della
decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile
«alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla
velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di
antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo
poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è
anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che
dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che
hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una
lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando
che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto
decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà
finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i
fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di
Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una
guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del
territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello
predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze
meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è
anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la
modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che
alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di
lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della
malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato
e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto,
della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le
tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più
"privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La
narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al
matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla
camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e
scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e
alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio
su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore
simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il
piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti
e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne
ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie
all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del
Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie
all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista,
scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata
nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del
dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati
anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida
dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è
improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione
premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La
notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini
pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata
agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per
una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E
per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e
messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia
dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare
è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di
terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare
i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto
rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto
dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la
propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500
caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading
teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il
sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del
ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di
Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del
disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua
terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico.
«AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche
requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e
per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi
economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e
ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un
cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il
respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a
Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene.
Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua
trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più
«doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un
minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione
di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando
così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio
(tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro
"canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti
dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia,
laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta
nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio
raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese
d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico
impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata
ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo
passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria
restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti
pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il
piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla,
solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal
finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la
sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata
di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido
di rabbia, per la sua terra.
Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia.
Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il
treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di
treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili,
l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza
e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie
dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro
nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo
stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del
ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia
a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui
tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene
sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E
questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel,
vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di
montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente,
surreale, commuovente. Un tempo si
tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso
casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive
Giuseppe De Bellis
Ciononostante i nordisti, anzichè essere
grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso
sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”.
Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del
beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza
dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati
"beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il
coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La
"sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato
rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece,
cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio,
poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei
confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente
riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al
punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o,
addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il
benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da
penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla
dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha
incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie
esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo
del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo,
l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i
danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno?
A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato,
ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su
“Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista
diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così.
Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto
quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si
ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari.
Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver
dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei
momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non
ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è
anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più».
Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma
che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per
salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura
quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i
nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui,
quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso
tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci
ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà
tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha
fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una
ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine
cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente
beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i
loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro
maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha
promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di
eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito
della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così
negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State
attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di
invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini
grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di
tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini
eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe,
Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus,
Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno
generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond,
Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu
vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata,
Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro,
Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi
dire di lui.
Fenomenologia rancorosa
dell'ingratitudine.
La rabbia dell'ignorare il beneficio
ricevuto. Le relazioni
d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e
ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che
nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo
di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un
sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore".
Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle
relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel
corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico
madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la
possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi
significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di
autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza
di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso",
pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente
perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto.
Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli
altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale
difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che
instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle
prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le
proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò
comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del
relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve
predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente
modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una
posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare
giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire
i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio
provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le
informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della
realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi
mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una
modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona
che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in
termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e
le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela
insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa
difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non
elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio,
di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta
un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa.
Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza
che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si
instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi
possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia
costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile)
attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto
giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona
beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della
questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che
rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad
arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di
comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere
l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più
"meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci
apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops...
stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si
è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini
e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai
mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla
questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di
inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati
all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione
identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino
De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio
empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi
di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno
limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di
un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali,
storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per
niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il
risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo
stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare
una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e
cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il
respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che
accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri
(Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia
arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del
poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica
e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in
grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet
provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più
terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni
e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi
abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico
pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E
si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli
stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non
esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove
realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati
come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le
dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale
pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi
snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità.
Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro
lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le
forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia
di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite
sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta
secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia
più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti
rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con
una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il
proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside
della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a
tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno
dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso,
nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso
di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la
grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere
nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di
comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna
elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la
maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a
danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si
è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini
e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai
mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla
questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di
inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati
all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione
identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino
De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De
Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma
definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In
poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio,
quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo
fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale,
che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a
una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei
vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può
ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue
strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la
pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio
antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è
tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società
italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi
dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di
criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei
riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia
data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice
propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel
Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un
Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il
movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da
quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio
antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello
stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge
la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri.
Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una
categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello
dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il
Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale
rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità
stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le
regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra
indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al
piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle
accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un
vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si
recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso,
nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni
e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei
confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo
stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie,
giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la
proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di
governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato
improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente
inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato
centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in
Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e
sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio
sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere
con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di
Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul
Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la
differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive
Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani
anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno
del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di
essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi
stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo
storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le
dolenti note su
"La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale".
La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei
Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più
incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul
carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno
continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi
portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso
artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del
Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il
siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri
veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con
coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il
racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti,
rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad
avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale
dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si
accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco
del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della
camorra in
Assunta Spina.
Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che
in
Napoli milionaria
mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio,
irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con
film come
Rocco e i suoi fratelli
di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e
sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne
In nome della legge,
e Francesco Rosi, ne
Le mani sulla città,
vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i
meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel
distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente.
A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà
tutto lo Stivale ci penserà infine il
Gattopardo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud
antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si
fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista
Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud.
Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo
di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento
alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti,
volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si
confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non
c’è dubbio.
Benvenuti al Sud,
che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è
posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di
tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un
poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori
dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia,
mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di
Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del
pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce
anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque
inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a
Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto
inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi
dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette
alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non
solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre
sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui
la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi,
le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra
meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a
Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e
Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui
siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio
ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso
rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della
pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che
addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più —
scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di
folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti
all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a
ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del
meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il
profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario
sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi
interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte
di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che
davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica.
L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre
secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può
accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere
messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud
serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a
testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei
briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere.
Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia.
Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di
passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta
dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con
il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno
risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la
considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la
stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla,
ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di
regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione
del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del
Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica,
l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi,
ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le
rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa
incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di
peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a
cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la
peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in
polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che
è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale
che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che
il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo
finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad
esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale.
Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il
dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con
Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita
addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni
Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i
loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre
schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato
che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire
adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare
insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla
fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga,
nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica
e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria
e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico
degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006.
Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza
criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa
sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era
all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri.
Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta
archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti
non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco
tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un
ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel
senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante
sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e
quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta
per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli
ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza
pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si
sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione
toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la
sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto
“Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei
difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità
d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e
più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha
segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri,
arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di
camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex
capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali
risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il
sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria
rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura
Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un
tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la
malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia.
Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla
tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile
enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela
nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu
vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che
invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca
Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno
tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza
per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota
per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché
il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a
Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore
italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori,
nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed
italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la
città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra
esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore
uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina
momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a
toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli
negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che
nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce
bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per
raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella
lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di
canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel
1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino,
partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di
Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per
l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino
rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo
sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed
onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi
ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e
immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione
della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di
Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee”
alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato
solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si
sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto
da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa.
Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino,
un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide
gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa
persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di
“tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che
un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno,
sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il
fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia
per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano
che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire
l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del
1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello
del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i
fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della
professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che
cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non
ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e
freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono
anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta,
svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato
alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace
sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti
tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo
allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle
tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare
qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza
evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria
croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che
ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come
abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una
questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta
anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini,
veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se
per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis
polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero,
potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da
un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è
congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione
meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta
cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a
criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più
portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile
utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta
tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è
liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di
cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice
Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento
delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro
comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono
ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno
imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da
solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio
virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più.
Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una
regola: ogni libro di Pino
Aprile scatena
un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni”
e con “Giù al Sud”.
Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo
dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia
ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la
subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior
parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le
denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo
individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle
librerie “Mai
più terroni”,
un pamphlet edito da Piemme che
già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia
dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”,
che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente
del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a
sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel
giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una
teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale
la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica
dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande
maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano
costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto
di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione
che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei
territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche,
e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle
sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono
dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia
telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la
realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di
ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto
sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad
esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il
Sud è un luogo che non esiste da solo,
ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud
e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare
restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni
e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web,
chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano
di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni",
spiega
Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
Dal sottotitolo del primo libro («Tutto
quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali»)
al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario
di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che
fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più
figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E
come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto
contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla
conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella
nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La
risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno
stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i
massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi:
scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di
autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E
può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150
anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che
annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare
per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti
al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza
il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le
differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in
Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti.
Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua
perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di
ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera
1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli
aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e
sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima
volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può
fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un
privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui
perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a
disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni
pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo
lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora
quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di
un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi
necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare
tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata
sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori
del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il
vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano:
ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio
che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in
Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci.
Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche
quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col
pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento:
ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani
tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose
entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia),
meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare,
conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli.
Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù
al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia”
di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non
sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e
soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni,
colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di
"Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e
rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In
questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e
inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto
di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della
nuova generazione di trentenni meridionali,
colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità
meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso
di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e
sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse
per l’antropologia in
Calabria:
è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un
terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il
viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di
riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con
creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di
luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii,
vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra
“ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si
miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e
tramandano. In questo viaggio si incontra la
Murgia,
“giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla
tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra
grassa e feconda. E poi la
Puglia,
dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano.
Benessere e convivenza anche a
Riace,
altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed
extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di
ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e
tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie
di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro
terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le
distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che
si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione
della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal
tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno
costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di
tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto.
I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di
un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità
l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i
giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca,
aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio
di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a
trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono
quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima;
Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano;
Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra
lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia,
butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro
struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si
perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La
presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si
crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le
vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della
lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le
sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e
mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una
risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché
i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un
motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono
stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi
interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia
cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a
suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono
accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia
culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati
dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca
della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita
come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra
storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il
1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri
briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la
loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il
proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna
ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono
e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna
riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere.
Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in
piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare
l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le
infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale
dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con
scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare
vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata
d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda,
agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord
si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi
mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi
cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di
tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la
narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi
viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora:
«Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che
il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente
nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione
nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali,
perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande
industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media
industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione
subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud
avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe
distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si
chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico
momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci
si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e
personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro
vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo
non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le
motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo
pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non
vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel
progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue
leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere
di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non
è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa
per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in
potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo
un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto
smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria
storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare
l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e
conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si
continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella
contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak,
fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende
il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede
della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo
computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base
dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto,
ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in
tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che
versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari,
ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il
prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple
si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di
saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal
fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli
italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto
sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la
quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche
di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da
Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia,
bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama
Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si
chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama
ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer
innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono
nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza
averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un
annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano
alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato:
“portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora,
avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non
intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i
pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano
fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con
quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna,
guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare
ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca.
“Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli
dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci
pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state
facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti?
Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I
vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno
documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci
sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano
fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e
apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza.
E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è
volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi
acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri,
a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli
incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste
pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un
finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che
è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le
spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i
rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva,
registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una
pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente
bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore.
Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E
poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un
amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma
noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi
avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro
motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i
documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente
bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La
sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la
finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o
i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della
porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano
i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno
dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un
giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete
fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è
meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli
fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne
devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e
scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi
per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri
contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno
venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in
questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e
gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è
meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel
cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè
saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame
e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove
impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto
truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una
professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di
corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di
saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal
fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che
tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o
truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di
avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza
diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non
gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la
fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa
faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro
tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la
cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che
meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di
successo.
Anche perché i
furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni
principe del foro di Bruxelles.
Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che
da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti
itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo
permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del
curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera
Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a
Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un
problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie
all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere
verdi e a insultare l’Italia
durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani
hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale
della devolution. E
così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole
essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto
l’abilitazione alla professione forense in
Belgio (non come il ministro
Gelmini che da Brescia ha scelto
Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a
Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega
lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il
Fatto quotidiano”.
Perché
Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre
in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più
facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno
rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il
2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare
l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La
mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è
stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine
con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a
quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame?
Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure
in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a
Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro,
Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il
sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è
velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso
per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non
c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci
pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In
Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo
bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni
della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo
bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di
Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi
dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo
Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei
anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi,
nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella
città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò
a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la
professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in
Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è
rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia
con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno
trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a
corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di
passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha
partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente
dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il
mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di
Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini
del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol
srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro
di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso,
pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia
Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti
cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di
lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e
commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini.
“…il governo formulerà alle categorie proposte
di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di
abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto
appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del
Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni
all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un
praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle
tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della
professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL
ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era
inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello
Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha
ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani,
tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima
volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei
giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai
inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di
riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche
si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non
sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e
l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli
interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o
messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO
TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è
iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal
proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera,
mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non
corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro
tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche,
che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano
remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi.
Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero
“Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi
vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la
veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante
il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico
venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento,
contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori
in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro
manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che
io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune
anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati,
me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto
scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo
facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano
valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000.
Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce.
Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce
il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli
avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà
socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv.
Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e
qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che
per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è
confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997
afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si
sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e
che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai
professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La
percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001,
36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame,
perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello,
si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei;
Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello
nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli
abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con
ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni
d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai
verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta
che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce,
eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR,
con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la
sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di
glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede
di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che
obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le
attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato,
garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo
sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del
1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame
di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e
sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella
situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la
Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza.
Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari
archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza
non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano.
L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di
legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per
diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati
non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla
limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in
Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame.
A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la
Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri
candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono.
Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003.
Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce.
Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie
aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di
Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il
Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica
degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense
che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati
dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data
03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i
rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle
associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i
Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere
rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro
incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in
Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la
decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche,
di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di
Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito
fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il
compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in
sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli
atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale
marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella
Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei
Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però,
acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per
abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad
essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma
è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in
carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura,
il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla
prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai
candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione
edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i
Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo
che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione
riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza
dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in
cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01,
Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono
entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente
dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie.
Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava
per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con
il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla
Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15
(il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati
che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la
trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente
dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando,
l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il
fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con
la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per
vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla
valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza
n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della
motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR.
Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di
sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle
spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004.
Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di
Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati
continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati
dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei
Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati
leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto
ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza
estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale,
ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e
onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se
non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del
Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia
formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori
Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica
presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del
Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione
Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in
data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati
contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera
morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe
del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli
stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta
avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni.
Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni
attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo
che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della
concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di
Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e
presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e
Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti
da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso
colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe
del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli
elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai
palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state
omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno,
Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che
l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti
perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,
perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti,
anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata
l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe
del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a
sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione
non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca
collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione
delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45,
11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame.
Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari,
in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione
di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte
contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con
omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di
bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno
15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il
minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese,
in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai
brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso
collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità
del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro
complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti
professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero
della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al
quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al
fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello
reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione;
giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta
esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia,
presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari,
Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente,
iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente
indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce
disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in
altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare,
comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le
illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del
Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte:
le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura
in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e
sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal
sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il
Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato
denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia,
chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari,
per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato:
insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del
Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri
legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai
genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su
internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il
tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6
pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi
fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del
giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da
commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi
nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da
commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione
con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale
forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e
quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno
informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro
dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio
Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le
denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno,
per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame
forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo
scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho
provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia
meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice
di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria.
Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore
universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica,
risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di
apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione
del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi,
senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la
comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la
nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti
giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe
del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato
risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza
di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane,
viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo
per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di
ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”:
la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2
magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza
preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la
decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del
Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della
metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’
la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko.
Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e
comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato
impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza,
Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta.
Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il
provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina
ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni
precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di
Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di
presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta
una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire
l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene
nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva
considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane
d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25
anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente
con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore
salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei
tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la
laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento
dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio
degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria:
non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni
previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto
antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma
nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede
di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi
suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di
Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione
Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko
Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo
giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in
alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di
Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante
l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio
non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra
versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a
cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti.
Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai
lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di
studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul
caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per
sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita
di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro
chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che,
venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista
professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed
oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense
impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa
per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto
proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui
il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato).
Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense
tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel
che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari
noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato
perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del
Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per
fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv.
Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense,
in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del
distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di
riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del
Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina
degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con
le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180:
“Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per
ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti
avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in
sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della
commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale
forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto,
assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno
un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere
designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De
Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto
da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito
della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a
fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel
Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente
di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale.
La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di
avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di
consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se
non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla
nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per
la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente
di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato
dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale
Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello
stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia
nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia
l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si
esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si
sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono
quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare
Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni
comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha
partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo
strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato
designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente
della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica
che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate,
successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame
sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del
Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel
procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei
giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante,
riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre,
pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra
nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso
TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato
che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con
ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito
dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio
2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO
RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di
Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi
di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi
dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione,
sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata
e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte
Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del
principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle
norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012.
Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv.
Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione:
Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le
statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533
Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti
1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla
Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le
procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione
centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa
ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande,
dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è
denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici
punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi
sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto
ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito
degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi
truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il
rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono
i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un
certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio
su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti
sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti
web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie
quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la
tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è
affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno
2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il
voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità.
Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la
Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro
giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012.
L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico,
mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco
credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si
allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non
trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia
indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è
taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono
letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di
volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino
che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la
verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta
bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per
denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato
per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame
sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma
permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento
accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi
nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca
divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate
(inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del
concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma
permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a
me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio.
Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove,
tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa
disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il
peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia
permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi,
magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i
concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei
10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei
tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro
valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare
dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte,
non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di
Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno
fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio
Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa.
L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho
bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché
l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori
dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori
dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì
a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è
chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un
insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra,
‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie”
come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali
composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle
Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano
conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se
l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè
poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o
patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo
loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono
astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita
il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li
mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando
saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione
dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero
mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità
e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la
nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in
tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei
perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo
essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea.
Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di
un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la
bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci
attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci
rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo
diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni
e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente
non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace
e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti,
Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da
un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto
assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare
da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario,
oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito
di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così
come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è
inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono
presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di
abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del
secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma
c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla
commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce
sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza.
Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un
concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso,
n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione
insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente
innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di
trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle
more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive,
il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza
motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per
l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il
09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata
alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi
presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di
accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto
dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli
commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono
anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero
sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si
affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare,
insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i
compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania,
presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli
elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni
denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua
calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per
magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli
esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel
2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci
fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima
persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse
condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi,
tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non
si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità
menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a
dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito
dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati
in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la
siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare.
Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche
se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31
dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici
frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati
in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro
roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che
hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 -
Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la
legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo.
Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene
in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da
venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro
malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per
superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per
diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti
intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle
loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso
ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale
Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti
all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON
POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI,
AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E
TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n.
1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico
insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della
sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda
di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun
giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza
cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza
dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui
risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti
puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più
punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di
prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata
e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito
dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno
avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che
non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e
dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad
un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio
2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio
della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben
prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver
tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati
avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine
per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a
supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro
insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me,
ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011,
deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione
non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si
tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile
perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto
di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del
presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione
della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per
dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone.
Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed
affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge
spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami
di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina
Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha
scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami
pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO,
L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia.
Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”,
urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che,
senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame
di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per
saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le
tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di
Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso,
che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione
degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a
penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o
meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini
preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da
Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la
chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise
di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per
questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito
respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona
compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto
Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le
eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte
commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la
meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un
lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di
giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed
anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza.
L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che
nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche
Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele
D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di
avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni
passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono
destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti
ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta
dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di
cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa
di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte,
sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini,
tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non
si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi
per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno
rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle
streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR
Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un
codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di
abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti
sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo
Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n.
465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato
della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare
- TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di
correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte
copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento
della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è
desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha
accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la
mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In
particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la
Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto
penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato
di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna
specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta
“identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la
consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato
di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una
diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato
non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa
Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato.
Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già
decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013,
presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un
giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui
cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande
cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per
sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da
quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto
lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di
1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove
orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato
alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una
media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni
sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è
caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati
furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per
irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di
quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai
commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si
rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle
ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della
Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi
l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno
presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché
vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre
questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei
candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi
ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi
di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare
l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo,
superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute,
compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà
qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte
le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a
giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014.
Tutto come prima. Presidente di
Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente
coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la
forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.
Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare
la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà
sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono
state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle
prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo
contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla
Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per
diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami
di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille
praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla
Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati
già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web
da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa
travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano
coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli
da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19
giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è
arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello,
firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale
si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle
quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore
dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota.
"Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le
comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le
prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in
quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma
ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle
operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso".
Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si
sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta
accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di
uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico
in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro
utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono
il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul
sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca
professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è
possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di
lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale.
Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di
Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che
consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla
prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla
comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello
di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli
ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento
all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste
e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il
Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo
grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu
sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del
10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una
piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video
del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che
parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò
che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle
quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il
momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla».
I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto
per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha
documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai
commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si
perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il
silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento
d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà
dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta –
delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame.
Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di
Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di
dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non
c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli
esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la
telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione
20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa
ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora.
Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un
certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non
ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho
detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno
fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a
parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei
detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il
giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe
essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri».
Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più,
fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni
candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti
per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da
tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015.
Tutto come prima. Presidente di
Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente
coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la
forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di
Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il
ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo
ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo
tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare
l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La
mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è
stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine
con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a
quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame?
Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure
in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a
Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro,
Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal
1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a
proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco.
L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il
delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di
avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni.
Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti
quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il
sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non
vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per
essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi
anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi
di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza
motivazione e con quote prestabilite di abilitati.
Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.
Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla
casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie
se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare
la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e
denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto
nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di
abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto
le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i
Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti
diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito
di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria
dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe
restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i
cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono
intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo
aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i
due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la
violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione
professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per
chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia,
verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati
destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella
vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati),
sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la
prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si
sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti
dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in
bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti,
subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame
per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti
pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente
funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana
Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati
pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei
candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma
qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che
tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto
investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo
concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio
all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena
la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i
partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare
passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano.
Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le
tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno
dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della
facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno
ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il
parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la
Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro
componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che
aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li
aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via.
Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno
bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre
persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici,
telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori
devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato
e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri
si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia
Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento
viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo
la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o
pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o
titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed
all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti,
presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e,
in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre
mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi
qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga
invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne
nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati,
nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera.
Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo
fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della
Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e
condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di
candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere
arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi
figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della
discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato,
mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare
ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i
parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su
tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con
merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto
dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina,
ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di
riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali
dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha
invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web.
Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di
commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le
decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la
sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto,
28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo
di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche,
infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso
per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla
Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame
scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure
senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che
il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il
bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva
specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si
potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà
il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene
silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha
vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di
Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è
paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea
specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua
tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato
l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo
nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami
una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere
all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere
al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra
inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al
figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre
istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si
accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli
altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e
l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per
antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame
di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa
Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più
giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che
impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa
indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E
chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria,
scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di
avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento
ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da
'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi
cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i
colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori",
che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del
tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta –
intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri
redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla
Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla
fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a
fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni
è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno,
ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se
l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di
contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila
euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non
riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani –
protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro
pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa
(ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per
cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario -
Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia
giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura
viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria
assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal
blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook
pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda
dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali
non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle
partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha
lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi
Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al
livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa
forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione
generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche
incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E'
palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il
principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3,
quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a
seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione?
Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al
sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando
possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un
modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
DIRITTO E
GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso,
ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto
non previsto da alcuna norma, ma,
di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è
l’Insabbiamento.
Rispetto al
concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e
non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non
scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di
alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma
l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello
scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire
che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un
accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non
è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la
vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la
vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a
più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha
un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua
querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per
ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie.
Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio,
quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette
di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia
o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia
giudiziaria.
Ti mandano da un
avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se
poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti
diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di
attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma
si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del
redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la
conferma.
Quando l’atto
introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in
caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto
viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri
depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il
contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un
magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero
competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una
informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più
denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni
dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a
macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede
l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto
indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle
indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per
giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne
chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli
presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le
richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte
accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza
conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del
foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a
decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si
apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione
di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna
è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un
intervento divino, (o fortemente
terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare
l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la
ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non
viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia
inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe
della Cassazione.
Il secondo grado si
apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o
fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione
per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono
rinegate.
In terzo grado vi è
la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le
sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni
Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per
dire, la certezza del diritto….
Durante il processo
se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei
magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti
hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM
ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del
Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo
si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica
per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore
giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto
ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo,
che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma
solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono
italiani.
Per i miscredenti
vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania
Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono
violenza
spesso non c’è
giustizia
e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono
avvocate e operatrici
della
Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano
che puntano il dito
contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul
serio
le denunce
delle donne maltrattate. Secondo i dati su
1.545
denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale)
presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate
1.032
richieste di archiviazione; di queste
842
sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che
più della metà delle denunce sono
cadute nel vuoto.
Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per
maltrattamento ci sono state
1.070
richieste di archiviazione e
958
archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di
archiviare,
spesso de plano, cioè senza svolgere alcun
atto di indagine,
considerando le denunce manifestazioni di
conflittualità familiare
– spiega
Francesca Garisto,
avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico,
che occulta il fenomeno della
violenza familiare
e porta alla
sottovalutazione della credibilità
di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una
procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito
della
“leggerezza”
con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio
accaduto di recente: «Dopo una denuncia di
violenza anche fisica
subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione
de plano
qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la
violenza fisica come possibile
legittima difesa dell’uomo
durante un litigio».
Scarsa anche la
presa in considerazione delle denunce per il
reato di stalking
(articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è
stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di
stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le
archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti,
la situazione era migliore:
360 richieste
di archiviazione e
324 archiviazioni
su
867 denunce
nel 2011,
235
richieste di archiviazione e
202
archiviazioni su
783
denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia
poca fiducia nella giustizia
da parte delle donne?
Manuela Ulivi,
presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono
violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in
attesa di
separazione,
non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il
compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla
presenza dei figli:
su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159)
ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo
stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale
fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha
insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia
è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi,
finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso
innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno
da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché
paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI
E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti.
L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo
Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8
luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset)
dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore
dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul
morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta
tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche
un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per
gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali
invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare,
appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del
procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione
dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo
Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete
respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno
portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no?
Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia
un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e
togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta
la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo
stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di
normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa
dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero
volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la
somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di
Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come
commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente -
ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di
una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli
uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle
cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché
durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine
della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa
dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli
studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere
automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una
battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso
truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha
denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha
chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione
parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e
timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non
male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la
traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino
alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di
scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in
verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è
subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e
tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano
come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun
mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino,
errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”.
In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio,
legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via
D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de
“Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto
vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni
attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il
giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due
lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia
che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba
Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”,
edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre
processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo
e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in
discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte
di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di
Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito,
Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco
degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia”
Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un
processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i
nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi
di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo
(oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro
racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di
bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di
Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese
provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione
speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di
Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano,
Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente
di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare
indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e,
atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse
sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di
Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo
durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati
di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni
di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è
crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex
procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i
processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle
rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni
fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in
libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da
riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto
per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008
hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione
giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di
Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti,
sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo
Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo
Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato
in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni
di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante
o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare,
quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come
emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa
da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li
riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del
Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha
goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a
prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate.
La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono
Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi
italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese,
scrive Rosalba Di Gregorio su
“Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente
condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità
(incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi
una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto
grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo
2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il
"Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo
Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di
una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori
collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la
penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più
sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma
spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine,
16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa
il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo,
procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha
funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari
sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato
le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori
giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per
le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di
una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro"
del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino,
agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del
mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e
dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire
perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni
colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via,
perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno,
pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e
sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce
perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita
dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora
non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il
personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si
parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci
accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da
una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non
ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è
vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro:
dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è
"sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo
"spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso
per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata
col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora
sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che
significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti
metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha
indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a
lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho
sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti
sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che
l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori
dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la
sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più
sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da
quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a
riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per
prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna
è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì,
perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul
bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la
sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono
nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo
mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti
a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di
approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli
altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala
colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per
tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato
dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle
nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di
Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il
silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola.
Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I
"boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni
di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa,
entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il
"blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde.
Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che
succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso
l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del
blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato
aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li
terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi
minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho
parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa
e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la
mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a
Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di
guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha
detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che,
come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un
vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a
Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri,
asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua
influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo
Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino
bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino
Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella
strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave
accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in
primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi
riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del
"pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati.
Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e
Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo
"schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole.
(...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo
l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il
nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla
per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che
è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi,
quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era
peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a
Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a
tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure
bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si
stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere
prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo,
iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato
e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non
lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di
peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca,
scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda
parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati,
botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi
entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni,
calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la
facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due
tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa
sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta,
galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un
preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando
Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha
raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e
noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a
Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una
sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a
seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in
quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...)
riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92.
"Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia
all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento"
ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o
detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio
del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a
dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma
non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio,
nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i
detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di
essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi,
"l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta
violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene
d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di
resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i
racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra
quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei
corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra,
ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su
“La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,
“Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via
D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992
un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque
agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i
processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto
prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più,
rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto
falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla
verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e
incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci
obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e
che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da
dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto
più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera
vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di
via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e
dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e
processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua
figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una
certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa
che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio
del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque
innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di
dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene
definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi
“pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire
con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio
con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto
personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule
giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa
Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io
per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di
mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo,
i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare
antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni
professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza
entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su
quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato,
dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le
doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di
tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare
in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa
del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la
professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro
dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di
ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto
tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una
Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla
ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo?
Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni
professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per
questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o
meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra
essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse
ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a
Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a
coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del
19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di
serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la
prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro
“Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da
Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del
libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala».
Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo,
ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di
stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E
allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata
una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la
sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio,
«l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia
sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via
D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto,
sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di
mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato.
E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che
non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi
di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di
mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati
della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene,
i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa
all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i
nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza
discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa
stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in
parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi
della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso
pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola,
quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse
andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in
via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a
possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur
con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca
credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è
arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa
non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in
questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a
dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non
hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato
il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha
funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero
cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue
urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa
Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati
per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto
questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con
trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è
avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i
principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di
difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per
l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il
solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può
dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come
tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci
costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo;
mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo.
Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa
autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a
priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad
essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti
della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani,
actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre
persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in
debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità
processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche
breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento
antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però
essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non
condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva
qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché
dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo
tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità
scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in
quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di
Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel
periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale.
L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo
maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di
imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e
dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia
dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella.
Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e
settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero.
Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia,
nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del
super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con
ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”.
Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto
col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi
deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70
all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e
Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna
che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come
Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo
in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a
Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti,
l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su
commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da
mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole
scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato
trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi
segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in
tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai
identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi
raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni,
ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi
plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio
Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una
trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino
all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al
delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia,
all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi
rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra
eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se,
ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli
atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i
fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la
ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato
oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a
Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia
il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma
Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex
giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito
dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno
sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente
pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti
che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in
Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è
scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile
il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora:
qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni,
per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un
certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe
nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a
quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in
riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via
D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state
archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta
nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in
Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni
militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di
Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto
incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad
alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che
cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del
clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto
avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di
Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli,
che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando
per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava
intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un
uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni
tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un
sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto
1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto
Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo,
alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara.
Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento
dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama
Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il
sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la
cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a
Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la
cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per
concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito
contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca
di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì
per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola...
Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa
eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano
parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente
pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata,
anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi
soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano
commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un
poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore,
Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da
mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano
Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava
con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva
coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ".
Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela
Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È
lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo
hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che
vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di
collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra
tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio
porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo
colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al
colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza
con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi
uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia
ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano
"faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più
potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi
segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia.
"Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro
blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di
Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato
all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato
avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente
virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su
Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine
della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave
"faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata -
quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le
investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come
sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i
miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di
Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno
dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del
territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il
consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio
La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà.
"È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della
Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da
una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a
tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si
incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr)
con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha
raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla
trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo
chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano...
". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la
giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato
Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una
stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di
Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno
che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di
inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni.
Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai
magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di
Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di
ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate
siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni
Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione
dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la
depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la
serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di
sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua
casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito
attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989
dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua
villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche
Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino
Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato
dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino
ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo
figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua
presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti
addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine
(quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi
legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando
anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è
congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo
falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove
Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno
trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a
Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire,
articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano
e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella
perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il
confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il
riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un
mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava
Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva
cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era
il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era
a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso.
Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno
aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato
e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie
storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere
costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più
a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è
cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno
del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in
mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è
solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha
portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da
mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È
sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È
un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da
eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende
il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese
torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più
infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul
luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi
segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe
ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti
siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui,
libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di
nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e
l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro.
Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia
dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono
ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato
nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto
di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua
vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui,
anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a
raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli
lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice
subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i
miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con
qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola
volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la
lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di
fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è
diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono
arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi
hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a
Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra
mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa
c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava
Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei
servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello
che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del
1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo
piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora:
"Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo
neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo
che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia
sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine.
Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla
Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché
me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio
cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai
fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta
giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi
Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso
deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia".
Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della
presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro
il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino,
assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che
dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato"
che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa
state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra
cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto
a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo
di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita
per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi
portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83
di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che
tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati
come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De
Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di
centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello.
Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso
della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo
e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e
Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da
mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di
un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i
teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun
giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa
contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a
pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore
di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia:
ora basta questa barbarie !!!
Maurizio
Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra
procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e
incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione
preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì,
all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno
avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e
di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con
la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana.
Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama
e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i
primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con
Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla
procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini
erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e
il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm
diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a
dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni,
perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero.
Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente
all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato
difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile.
Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui
condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo,
né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non
è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è
modificata la procedura penale?
«Si intendeva
migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche
arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è
stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo
infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare
l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei
virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa,
perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è
necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna”
mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso
un colore politico?
«Il garantismo non
è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la
sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più
galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono
invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il
centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci
di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero
ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati.
Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla
procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e
incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il
pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione
tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola
Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che
Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci
sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello
stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione
preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello
Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica,
ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado.
Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una
sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più
segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si
svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro
in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale
Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici.
Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini
di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri
figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di
calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione
genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come,
spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati
che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco
lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che
l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato
comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una
piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della
stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato
i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno
dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue
perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le
confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il
caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo
sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta
natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al
contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi
drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione
mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili
crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio
della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo
stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si
trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno
la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara
del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin
dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità
di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio
extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse
sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria
comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso,
con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di
Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa
propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato
e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile,
triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la
vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente
insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che
delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente,
però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui
esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva
un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della
nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi,
di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il
tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla
faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da
sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo
comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un
uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del
giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle
indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta
anni accusato di essere
l’assassino di Yara Gambirasio.
A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in
persona:
«Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato
l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la
vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di
Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che
è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate
sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un
anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere
pazienti e aspettare le prossime ore.
Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato
prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo
come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la
stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive
Angela Azzaro su “Il Garantista”.
Un presunto colpevole
– al
solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al
solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara
Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e
stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche
ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con
il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di
“assassino”. Sentenza già emessa.
Il procuratore Francesco Dettori
si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo
riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto
alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale –
ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene.
Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il
diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato».
L’intervento di Alfano
ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del
ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in
quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore
fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima
pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende
l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche
prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o
quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La
caccia al mostro: giornali all’assalto.
Tra i titoli peggiori letti ieri,
spicca quello di
Repubblica.
“E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per
riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per
condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie,
Libero
(“Preso l’assassino di Yara”) e
il Giornale
che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su
molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione
di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto
del mostro solo pochi giornali, tra cui il
Corriere
(che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line)
e
l’Unità.
Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita
la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a
loro. Un caso esemplare di gogna mediatica.
Certo, non è la prima volta
che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la
presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono
tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né
primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la
condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove
certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro
dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle”
in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare
dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali
annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi
descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo
l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non
c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli
inquirenti.
Proprio un caso come questo,
così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia
fondamentale. Tutto fa pensare che
Massimo Giuseppe Borsetti
sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il
processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al
posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non
processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di
diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola
assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino
di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due
figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande.
Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena
di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal
suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità
della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del
presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori.
Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo,
inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la
vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una
storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e
giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma
anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura
piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara,
la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi.
Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir,
una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi
ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza
alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha
improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano,
quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida
del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare
per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per
chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda
ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile:
l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul
test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della
vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare
alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo
sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel
tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e
minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri,
madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il
carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e
riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non
c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore
“di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica”
scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di
Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre
del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e
viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della
sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei
assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta
di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti
dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza
quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E
soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il
cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché
tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo
di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio,
fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere
alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre
quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli,
hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto
così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo
interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al
linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la
madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una
finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca
un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”,
osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010
quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante
la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di
persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata.
“Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa
ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia
tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri
familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la
distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e
mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure
l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i
giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come
“complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che
invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e
ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora
fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze
e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea?
Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere
dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il
fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con
l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i
genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di
questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più.
Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il
Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui
giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non
da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a
condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile.
Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno
Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna
definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato
Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di
superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si
è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di
Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito
di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le
attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto
quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del
massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse.
Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna
mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina
che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso
l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento.
Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto
oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al
peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare
dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta
davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La
pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule
retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il
topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la
recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la
lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale,
con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere,
tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione
di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla
strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono
interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene
conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si
allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente
mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle
fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per
prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di
fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa
inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si
suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel
romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di
bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa
certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente
femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi
(Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il
1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri
di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I
miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con
il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura
di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e
soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo
d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per
diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni
psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da
libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e
perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un
sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli,
anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli
Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di
Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma
nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi
spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le
tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage
dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al
risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo
un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del
puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del
tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di
certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e
quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei
sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di
fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi
irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità
dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di
affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze…
i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che
minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina
e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire,
rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano
i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di
tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a
dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due
donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto
a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro
rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del
loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni
internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con
la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse
finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a
tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti
colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone
entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo
qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni
televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste
basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri,
magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le
incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su
delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience
indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si
aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche
senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di
considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive.
Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato
a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della
complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche
e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine
applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono
individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in
una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza
cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul
campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla
superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta
di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla
base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa
psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene
soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle
famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del
futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e
difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per
interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con
giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con
un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un
armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente
neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto
dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo
del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente
teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase
preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta
presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al
mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte)
abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo
dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito.
Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per
verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una
strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a
doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si
possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e
consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in
quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo
di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il
lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche
caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata
come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la
vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che
spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una
autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si
dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta
di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave
stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni)
diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove,
che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di
via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua
auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia
infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia
raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza
psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più
della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di
qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro
utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da
determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla
spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di
pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul
disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma
l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte
pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e
problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un
target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più
influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le
modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e
inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di
vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere
influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari
e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi
dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia
semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla
malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti
di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress
porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli
fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora
nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte
esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone
soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non
tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle
tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i
periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova
lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non
sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a
diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà
radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un
padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di
stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più
caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo,
pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare
andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far
riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind
Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul
Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato
dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress
da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di
montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari,
e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della
Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation"
nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi
in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione
fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a
una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e
sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la
possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la
conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già
conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli
esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma
agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se
il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai -
non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il
sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio".
Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal
grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da
una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a
causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti
sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o
una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione
di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni
di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante
della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a
dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale
di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e
partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai
magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui
assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come
capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo
Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva
bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli
perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per
il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui
a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva
"diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera
lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano
davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano
abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una
psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella
brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le
portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi
che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione
definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta
perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli
dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo
(solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress
incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi
del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo
Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie
allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu
condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni
si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato
ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro
per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è
riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto
dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è
morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con
quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di
via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di
aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza
approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali.
Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano,
provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina
Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa
per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo
buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi
arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva
la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio
di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco,
disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per
paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad
uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era
stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri
dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne
fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino
alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le
parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i
giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In
effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni
caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel
crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come
sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito
ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è
colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la
figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo
in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva
suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna
all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza
e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio
della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non
mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in
cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni
giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di
entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi
giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un
poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei
mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito
con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo
dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva
detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in
appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del
'92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un
processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle
mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la
giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che
Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice,
grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele
Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo
abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice
che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato
procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in
maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che
nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di
un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io
Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente
cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non
fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una
giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle
procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si
chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le
ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si
credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di
spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200
anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede
allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e
diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del
pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di
una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si
amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a
causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo
stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma
con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia
personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per
aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi
subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per
aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa
è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che
il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un
po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a
un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica
in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da
rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere
giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed
arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione
di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile
incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta
volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una
frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per
condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi),
nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie
a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare
chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato
in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale,
per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la
formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché
quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica
opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede
non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i
numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una
accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel
sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non
solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo
solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia
per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da
allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle
istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e
nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno
entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica
saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno
muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che
non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più
giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda
preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno
risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si
proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati
che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress
infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di
venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro
all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato".
L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in
Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile
dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori
giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del
prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012
era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la
battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio
Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera
indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il
Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il
fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni
accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un
danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro
dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai
da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io
comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità
crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li
commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento
contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male
avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci
sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con
accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni
giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni
irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era
di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in
precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza
Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come
è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è
una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di
imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione?
C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le
difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per
competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa
d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne
la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data
in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza
della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la
trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di
Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la
“rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella
trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro
fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il
giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento
della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per
tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo
che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la
responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la
fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta
l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo
svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno
contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera
anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore
alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara.
Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto
che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I
verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da
quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio
collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti
progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi
costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a
suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a
inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse
economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha
reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona
fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima
di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare
dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho
sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona
onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra
morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di
suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa,
viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di
polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di
accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti
e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è
suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio
del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due
comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato
da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo”
spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano
dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna
Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire
questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però,
quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave
momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti
per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti:
hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in
possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando
tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per
i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui
giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con
favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una
realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate
nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a
differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia
degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro
la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi
sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che
possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la
successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a
credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che
facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni.
Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro
Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne
sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il
rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo
indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa
vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose,
non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di
approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del
traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non
commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa
colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo
lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa
dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto
le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati,
scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto
seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di
vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso
il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo
nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa
mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al
ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le
dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa
essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora
riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito
dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si
faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti
per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal
procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto
Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro
la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di
pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati
compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto
per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo
si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da
vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha
scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe
essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo -
per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non
delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo,
si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate
e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità
forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo:
"Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative
adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le
stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della
Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi,
a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza
alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura
anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un
quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla
Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per
le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali
insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e
attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe
conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro
dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della
magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti
all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude-
perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un
interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di
vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I
magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo:
"Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare
clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi
disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento,
'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno
interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per
scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore
mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento
di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un
cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...".
Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di
come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti
interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole
pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio
Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si
lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti
per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la
sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di
provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione
dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
TARANTO. GUERRA DI TOGHE.
Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.
Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?
«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti
gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro
“Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.
Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della
città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non
affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il
dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune
richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto
approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in
cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel
momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato
da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati
pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di
Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre
in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di
Potenza (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui
sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha
inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di
Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di
quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a
Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad
Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.
L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai
domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce
in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un
parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa
completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la
trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi
testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex
procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto
Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla
procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti
carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato
Michelangelo Giusti.
Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il
procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di
rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.
Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il
collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad
Avetrana.
Possibile che sia un bugiardo? I dubbi mi han portato a fare delle
ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho
trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso
esimermi dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero
(salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto
sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è
doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei
1500 contati redazionali.
«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha
più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al
Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa
testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino,
scrive Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non
informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo
glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi
che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità,
null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni
giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei
segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata
l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il
centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice
Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della
Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito
della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale
Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre
impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco
dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in
quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di
imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la
Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della
motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di
marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri
che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati
estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo
aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece
sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal
1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di
Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la
giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati
ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre
e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha
massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so
cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”.
Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino
sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro
il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e
su “La Notte on line” - A parte la stima che tutti riservano per la persona, il
dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato
Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata
questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza
Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla
carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale
nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura.
La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di
Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata
della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia
Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura
della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che
aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a
delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave
attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il
conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta
dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di
Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato
presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani
equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo
molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto
critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate,
non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro
coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola
parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda
dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio.
E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche
fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al
sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il
dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott.
Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio
espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del
dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato
fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?).
Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle
funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di
Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e
sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi
giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli.
Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto.
Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi
segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra
parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche
in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti
cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati
giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra
sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La
sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica
che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una
delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra
Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale
capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato
suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro,
assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente
della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra
politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i
quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai
giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione
– per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa
delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei
g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi
con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio,
Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio
stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della
Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica
Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista
finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni
ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e
caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale
di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato
dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente
con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale
anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di
Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a
Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché
corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi
politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva,
starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come
parlamentare, quando sarà.»
Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su
Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica
per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del
Mezzogiorno”.
Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto
Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito
democratico di averla in lista per il Senato...
«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto.
Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a
parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno
bene i termini della questione».
Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da
fare...
«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega
che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio
lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non
conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate
capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una
cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di
sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».
«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito
democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della
politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco
Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata
dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un
posto in lista per il Senato.
Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?
«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo
la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che
il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo
no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che
non sfocia mai in esibizionismo».
A proposito di giustizia veloce.
L’ANTIMAFIA DEI
RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari
Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a
procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti)
nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa
operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta,
finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi,
estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali,
scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997
dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo
alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone,
alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi
particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci,
all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali
baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed
altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo
l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo
fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe
battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato,
poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss),
Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo
scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele
Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131
persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono
ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti
alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base
degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora
condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati
ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e
alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era
una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa
e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre
sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e
l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa
ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le
discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29
settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e
prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma
alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il
Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di
condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però,
non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini
avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta
del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici
richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico,
uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano
i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda
barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di
Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il
troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro
maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli
appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano
delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti
con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi,
traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti,
all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico.
«Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80
ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni
coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine.
Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a
settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado
sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura
dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha
conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei
riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o
processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno
per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel
2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza
della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati
omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca
che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo
Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di
tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari:
pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo
l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti
mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
SARAH SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI
MANETTARI.
EDITORIA E CENSURA.
SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
Editoria e censura.
Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire.
Quando gli autori
scomodi sono censurati ed emarginati.
Il caso che ha
sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier
precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare
i testimoni del loro tempo. “Sarah
Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi.
Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”.
Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale.
In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in
prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli
incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per
entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce
la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende
similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si
continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca
recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e
interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un
viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia
del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è
un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire
cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate,
cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal
confronto ne esci più sapiente.
Antonio Giangrande,
noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla
rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale.
Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse,
manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori.
Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono
dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della
casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio
Giangrande usa proprio il web per raccontarsi.
«Sono orgoglioso di
essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi
diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io,
in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo
sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo
sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di
Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri
posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri
che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono
ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli
indispensabili.”
Rappresentare con
verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e
caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci
e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo
ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve
pur essere diverso!»
Continua Antonio
Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte.
I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in
narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di
cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai
rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli
stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è
adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere
saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che
per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo
senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di
Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime,
vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo
aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.
Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto
cercato non lo concederanno mai. Faccio
ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia,
è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son
tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri
compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva
censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai
pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per
far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere
già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un
e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un
territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non
si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della
domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti
sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di
raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma
nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la
colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.»
“L’Italia del
Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta
da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da
leggere anche a costo zero. Se invece
volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete
tutto quello che non si osa dire.
«Sono le manifestazioni come quelle della presentazione ad Avetrana del libro
del giornalista manduriano Nazareno Dinoi sul ritrovamento del corpo di Sarah
Scazzi, edito da un editore anch’esso manduriano, che mi fa sentire orgoglioso
si essere diverso dalla massa di Avetranesi che scalciano e sgomitano per avere
un immeritata visibilità. Ignoranti di cosa li circonda in cultura e
professionalità.»
Questa è la dichiarazione indignata del dr. Antonio Giangrande, famoso scrittore
ed avetranese doc ed editore di se stesso (su Amazon.it, su Lulu.com e su
Createspace.com ci sono più di cento suoi titoli letti in tutto il mondo).
Il 13 agosto 2013 erano presenti giornalisti e magistrati (certo figure
professionali protagonisti della ondata di infamie vomitate sulla comunità
avetranese) e quegli amministratori incapaci di difendere l’onorabilità del loro
paese. D'altronde i loro limiti culturali e professionali quelli sono. Possono
rapportarsi con i loro pochi lettori, o dall'alto dello scranno giudiziario
(giudicanti ingiudicati) o con la gente partigiana in comizi di piazza, ma non
possono competere in campo mediatico. La sala della suggestiva cornice
dell’antico torrione era vuota. Questo sta a dimostrare che la qualità delle
manifestazioni non è data dagli pseudo eccelsi oratori ma dalla qualità del
parterre che li ascolta.
«La presentazione del libro di Nazareno Dinoi,
sulla
falsariga di un’altra colpevolista di fama. Roberta Bruzzone dalla sua
esperienza sul delitto di Sarah Scazzi ha tratto un libro-dossier intitolato
“Segreti di famiglia”, con co-autori Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro,
fondatori del Gruppo Verità e Giustizia per Sarah. Le pagine dei giornali
dedicate non solo alla cultura si occupano della notizia. Le rassegne di
narrativa e saggistica si contendono la sua partecipazione, perché la notorietà
la precede. Il libro racconta, dal punto di vista degli autori, l’omicidio della
15enne di Avetrana. La criminologa, la cui notorietà rinviene è aumentata
considerevolmente proprio dalla sua partecipazione al caso di Avetrana con le
sue comparsate in tv in programmi colpevolisti, ritiene che la sentenza emessa
dalla corte d’assise di Taranto, presieduta da Cesarina Trunfio, sia il
risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Quella Roberta
Bruzzone che nel processo, dalla difesa di Sabrina Misseri, gli è stato
contestato il plurimo status. Prima è stata consulente di Michele Misseri,
chiamata proprio dall’avvocato di Michele. Assunta da Daniele Galoppa perché,
convinto della colpevolezza di Sabrina, non crede al suo cliente. Galoppa che lo
stesso Michele definisce amico di Pietro Argentino, pubblico ministero
dell’accusa con Mariano Buccoliero. Poi la Bruzzone diventa testimone
dell’accusa contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Poi ancora la criminologa
diviene presunta persona offesa nel procedimento penale contro Michele Misseri
per calunnia e diffamazione perché accusata da questo di averlo indotto ad
incolpare la figlia per la morte di Sarah. Ad Avetrana i personaggi
invitati hanno detto la loro su un tema che poco sanno, sulla vicenda della
morte di Sarah Scazzi e sull’argomento giustizia in generale. In linea generale
(ogni riferimento ad Avetrana è puramente casuale) il Titolo di giornalista,
magistrato, amministratore pubblico non può abilitare costoro a buttare fango in
ogni sede su Avetrana o a sparlare di cose di cui non si è informati. Non è il
libro in sé che sputtana Avetrana, ma la condotta di tutte queste figure
professionali indistinte perpetrata in questi anni e che mi fanno adottare una
certa presa di posizione. Durante la presentazione è stato diffuso un video
saluto di Filomena Rorro, giornalista inviata Rai nota per quello scambio di
battute con Michele Misseri. “…Tu sei una cretina…..”. Anche Goffredo Buccini,
inviato del Corriere della Sera ha inviato un messaggio all’autore ed ai
presenti. Ad Avetrana prima dell’autore ha parlato il giovane sedicente
scrittore avetranese, Salvatore Luigi Baldari e l’editore Pasquale Barbieri che
ha passato la parola al vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia portatore
dei saluti di tutta l’amministrazione. C’era anche il magistrato salentino,
Salvatore Cosentino, sostituto procuratore della Repubblica di Locri, già
pubblico ministero alla Procura di Taranto. Procura di Taranto ampiamente
criticata proprio da me nei miei libri su Taranto e su Sarah Scazzi. Purtroppo
per tutti loro io sono l’unico e solo testimone autoctono che può raccontare la
verità, così come ho fatto con il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di
Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Libro
che si può leggere anche gratuitamente. Quello che ho scritto l’ho riversato in
video per testimoniare una realtà da non sminuire. Nè garantista, nè
colpevolista, ma una verità che ridà onore prima di tutto ad Avetrana. Onore che
certi avetranesi non meritano e fanno di tutto per infangare. Fa nulla che le
manifestazioni pseudo culturali ad Avetrana non sono dedicate agli avetranesi
che danno onore e lustro alla comunità. D'altronde Anche Gesù Cristo quando
andava al suo paese era indicato come il figlio del falegname. Questi sono i
limiti culturali di chi, arrogante, non ammette i propri limiti.»
ERGASTOLO PER SABRINA E COSIMA E SUCCESSO PER CHI RACCONTA LE LODI DEI
MAGISTRATI DI TARANTO. CENSURA ASSOLUTA PER LE CONTRO VOCI.
Roberta Bruzzone dalla sua esperienza sul delitto di Sarah Scazzi ha tratto un
libro-dossier intitolato “Segreti di famiglia”, con co-autori Giuseppe Centonze
e Filomena Cavallaro, fondatori del Gruppo Verità e Giustizia per Sarah. Le
pagine dei giornali dedicate non solo alla cultura si occupano della notizia. Le
rassegne di narrativa e saggistica si contendono la sua partecipazione, perché
la notorietà la precede. Il libro racconta, dal punto di vista degli autori,
l’omicidio della 15enne di Avetrana. La criminologa, la cui notorietà rinviene o
è aumentata considerevolmente proprio dalla sua partecipazione al caso di
Avetrana con le sue comparsate in tv in programmi colpevolisti, ritiene che la
sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto, presieduta da Cesarina Trunfio,
sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Quella Roberta
Bruzzone che nel processo, dalla difesa di Sabrina Misseri, gli è stato
contestato il plurimo status. Prima è stata consulente di Michele Misseri,
chiamata proprio dall’avvocato di Michele. Assunta da Daniele Galoppa perché,
convinto della colpevolezza di Sabrina, non crede al suo cliente. Galoppa che lo
stesso Michele definisce amico di Pietro Argentino, pubblico ministero
dell’accusa con Mariano Buccoliero. Poi la Bruzzone diventa testimone
dell’accusa contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Poi ancora la criminologa
diviene presunta persona offesa nel procedimento penale contro Michele Misseri
per calunnia e diffamazione perché accusata da questo di averlo indotto ad
incolpare la figlia per la morte di Sarah. Accusa grave ed incontestabile,
quella della difesa di Sabrina, rivolta alla Bruzzone dall’avv. Nicola
Marseglia, che mina l’imparzialità di giudizio della criminologa. Nonostante la
sua partigianeria, appunto per la sua presa di posizione a favore dei magistrati
di Taranto, tutta la stampa locale e nazionale parla del libro della Bruzzone e
tutti gli incontri culturali la invitano a promuovere il suo libro.
Un libro diverso ed alternativo fondato sull’esperienza vissuta, ma non meno
importante, invece, si contrappone a quello della Bruzzone fondato sul gineceo
di via Deledda. L’indagine su Sarah Scazzi e sui misteri che ne hanno decretato
la morte ad Avetrana è stata condotta con raffinatezza e certosina sapienza da
un noto saggista: lo scrittore Antonio Giangrande. Il famoso scrittore sul web
di 50 saggi d’inchiesta ha fatto di questo incredibile caso mediatico un
libro-dossier senza faziosità, ma con alta competenza professionale giuridica e
di comunicazione. Il libro racconta, atti e testimonianze alla mano, l’omicidio
della 15enne di Avetrana in tutti i suoi dettagli, anche quelli più sconosciuti
o tralasciati artatamente dai protagonisti della cronaca.
«Il libro racconta la verità storica conosciuta che va oltre la verità mediatica
e giudiziaria, che tutti accettano senza remore, perché questa verità gli è
stata inculcata dalla stampa, ma che non corrisponde alla verità storica –
spiega Antonio Giangrande, autore del libro-dossier sul caso di Sarah Scazzi dal
titolo “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un
Avetranese. Quello che non si osa dire.”, pubblicato su Amazon in Ebook, su Lulu
in cartaceo e su Google libri.- Io racconto, sostenuto in questo da video
pubblicati sui miei canali youtube, quello che da avetranese ho visto sin dal
primo giorno, senza la mediazione della stampa. Io narro quel che ho visto e
vissuto sulla pelle, tenendo conto del contesto ambientale ed istituzionale,
locale e nazionale. Riporto il tutto senza peli sulla lingua, anzi sulla
tastiera. Non sono stato mai influenzato, nei miei giudizi, da quei giornalisti
che non hanno mai raccontato la verità: sia del processo, sia fuori dal
processo. La mia è una verità scomoda che, specialmente le tv ed i giornali
locali, non vogliono divulgare. Ma tant’è quella è: una verità incontestabile,
che nessuna censura od omertà possono seppellire. Basta seguire le puntate
registrate da “Un Giorno in Pretura” per rendersi conto di persona quale è la
differenza tra quello che veramente è successo in aula e quanto, invece, hanno
riportato i giornalisti durante le loro cronache d’udienza. E’ l’esempio di come
si può stravolgere la realtà e come si può influenzare la gente. Con lo stesso
spirito ho seguito vicende analoghe ed ho fatto un certo parallelismo. Ma io
sono un testimone scomodo dei nostri tempi e tv e giornali stanno bene attenti a
non parlare del mio libro, così come le rassegne culturali non approntano mai un
contraddittorio tra autori con queste verità contrastanti. La mia conferenza
stampa di presentazione del libro è andata deserta, quantunque avessi invitato
stampa e tv nella sede dell’associazione nazionale antimafia di cui sono
presidente. Giusto per dimostrare come la stampa locale si comporta contro
coloro che osano sollevare legittime critiche sui magistrati tarantini. C’è da
dire di più. Pur presentando con una luce diversa il paese di Avetrana, la
stessa amministrazione comunale di Avetrana e gli stessi cittadini hanno
ignorato l’evento della presentazione del libro e certo il libro non è presente
nella locale biblioteca comunale. La stessa cosa è successa per un altro mio
libro-dossier dal titolo “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”, in cui
si mette a nudo la classe dirigente e giudiziaria di Taranto con tutte le
malefatte commesse in tempi diversi. Nonostante tutto, però, il mio libro su
Sarah sta avendo un discreto successo e la Verità si divulga. Non sono contro od
a favore di alcuno, ma il mio libro stilla il dubbio che forse ci sono delle
innocenti in carcere o, se non altro, se colpevoli, non vi è uno straccio di
prova che convalidi la loro condanna.»
Intanto, a proposito dei libri scritti dalla Bruzzone ecco cosa dice di lei
Marco Strano.
Ordinanza Tribunale Milano copiatura del libro “chi è l’assassino: diario di una
criminologa di Roberta Bruzzone. Con Ordinanza n. 19040/2012 del 19/12/2012 il
Tribunale di Milano, decidendo sul ricorso proposto da Marco Strano nei
confronti di Roberta Bruzzone circa la denunziata abusiva riproduzione di
articoli scientifici, già pubblicati dal noto Criminologo della Polizia di Stato
nella sua opera “Manuale di Criminologia Clinica” del 2003, ad un anno circa
dalla pubblicazione del libro “Chi è l’assassino: diario di una criminologa”
edito da Mondadori, ha accertato che per la sua realizzazione l’Autrice ha
copiato parti di capitoli di libro e di articoli scientifici del ricorrente
Marco Strano. Il Tribunale di Milano, nella sua Ordinanza infatti afferma che
..“si evidenzia l’identità o la forte somiglianza lessicale sia sintattica dei
passi qui censurati rispetto quelli del ricorrente (Marco Strano)..”. Il
Tribunale ha inoltre ritenuta non accettabile la difesa della Bruzzone riguardo
il fatto che alcuni dei brani a me copiati contengono elementi scientifici già
espressi in precedenza da altri con altre parole affermando infatti che “non si
può negare che anche le modalità con le quali tali nozioni comunemente note sono
state assemblate, rielaborate ed arricchite sembrano comunque frutto di una
autonoma elaborazione creativa (di Marco Strano) come tale tutelabile…”, e pur
ritenendo non sussistere l’urgenza di un sequestro cautelare, ha rimesso la
questione alla causa di merito affinché il legittimo autore, Marco Strano, possa
essere eventualmente risarcito per il danno subito. Secondo il Tribunale
infatti “..manca la prova di una definitiva lesione degli interessi morali e
patrimoniali del diritto d’autore che possano trovare un ristoro solo attraverso
la tutela preventiva ed urgente e che non possano invece essere adeguatamente
riparati anche attraverso la riparazione di natura patrimoniale. Allo stato
appare dunque opportuna riservare ogni decisione alla fase di merito rigettando
allo stato la domanda cautelare…” L’analisi condotta sulle parti copiate del
libro, e segnalate alla Magistratura si è limitata fin qui all’analisi della
prima parte introduttiva, su cui il Tribunale di Milano ha si è espresso con le
parole “. Analisi che sembra in effetti suggerire un derivazione degli uni
rispetto agli altri.” Attualmente è in corso la valutazione del resto del libro.
Il criminologo Marco Strano ha stabilito che eventuali proventi ottenuti dal
risarcimento richiesto a Roberta Bruzzone e alla Mondadori saranno devoluti in
parte agli Orfani della Polizia di Stato e in parte ad Associazioni che si
occupano della tutela delle donne.
Già. Parlano tutti di Sarah Scazzi. Anzi, ne sparlano, nonostante gli anni
passano.
Sarah Scazzi. 26 Agosto 2013. Tre anni di insinuazioni, molte offese e
poca giustizia... Pensieri di Marcello De Simone Dai giorni in cui Michele
Misseri fece ritrovare il cellulare e il corpo di Sarah, quest'ultimo dopo ore
di interrogatorio e relativa confessione compresa di movente sessuale e
vilipendio di cadavere, i media hanno detto e scritto di tutto e di più, sempre
attenendosi alle idee degli uomini di legge (perché loro non sbagliano mai)
anche se la logica ci dice che ancora adesso, dopo la sentenza di primo grado,
nulla di quanto ci hanno narrato è reale e nulla è certo. In questi ultimi tre
anni, nei salotti televisivi non si è fatto altro che accontentare la procura
commentando in maniera positiva le indagini. Indagini che, in un modo o in un
altro, sono state tutte bacchettate dalla Cassazione. In questi ultimi tre anni
si è adulata la parte civile che, neanche a dirlo, a un certo punto si è
affiancata alla procura scordandosi gli iniziali dubbi ed eliminando tutte le
remore di Concetta, sempre abbracciata dai media, che dal non credere a una
sorella e una nipote assassine, è passata a chieder loro di raccontare i segreti
di famiglia, il movente che ha portato all'omicidio di sua figlia. Quindi in
questi tre anni l'opinione pubblica è stata tartassata da quanto scritto sui
giornali e trasmesso in televisione; uno stillicidio giornaliero che l'ha
convinta di avere a che fare con una famiglia assassina, i Misseri, ed una
vittima uccisa per vendetta. Perciò tutti a scagliarsi contro Sabrina Misseri e
sua madre. Posso capire chi si è scagliato contro il padre, la cui confessione
scritta lo fa unico responsabile (e non si capisce il motivo per cui non
accettarla), non chi senza pietà e senza ragionare in maniera imparziale, si
ostina a offendere e a chiedere l'ergastolo per due donne che nulla indica
veramente colpevoli. Basterebbe usare l'educazione imparata dai propri genitori
per non trascendere e non cadere nelle offese, basterebbe restare neutrali ed
accettare anche quanto portato dalla Difesa. Invece giorno dopo giorno, mese
dopo mese, anno dopo anno, si è assistito e si continua ad assistere a un
massacro senza precedenti, a un massacro di parole e offese incivili che
difficilmente si rivedrà in futuro. Inutile pensare a cosa accadrà quando si
capirà che nessuna delle due donne da anni in carcere c'entra con l'omicidio. Si
dirà che non è stata la giustizia a trionfare ma la bravura degli avvocati a far
uscire le due assassine dal carcere. Come la volpe che per non sentirsi
sconfitta, per non perdere l'onore, dice che "l'uva è acerba".
Quante chiacchiere orribili si sono sentite in televisione, nei programmi
pomeridiani, pronunciate dalla Venier, dalla D'Urso, dalla Collovati, dalla
Abate, dal Zurlo. Questi alcuni, ma sono una quantità industriale i personaggi
che con parole gonfie di pregiudizio hanno contribuito ad affossare Sabrina
Misseri e sua madre agli occhi dei telespettatori. Non doveva vergognarsi il
signor Zurlo, non doveva essere ripreso all'imparzialità dai conduttori, quando
a "Mattino 5" - nel novembre 2011 - dopo aver ascoltato il colloquio in carcere
tra Cosima e Michele (uno dei tanti intercettati) nel quale la moglie cerca di
sapere la verità dal marito, si permette di dire: "E chiaro che è tutta un
recita perché sanno di essere intercettati"? E' chiaro? Ancora non si sapeva
quando sarebbe iniziato il processo e per lui era chiaro tanto da darlo a
intendere anche a chi in quel momento lo vedeva e ascoltava? Ma come lui hanno
fatto tanti altri passati per gli schermi a schernire come se niente stesse
accadendo, come se la vita altrui non contasse nulla. Cosa dire di chi, in
collegamento da Taranto, in diretta ha affermato: "Per adesso andiamo avanti
così, poi se avranno sbagliato pazienza". Se i procuratori avranno sbagliato
pazienza, disse il giornalista... è normale?
E così si è andati avanti nel tempo. E mentre Michele Misseri non sa più come
urlare e far credere alla sua colpevolezza, dagli schermi chi dovrebbe
contribuire alla giustizia usando l'imparzialità (o almeno la par condicio), fa
ancora credere cose surreali, cose che per chi è a contatto con la famiglia
Misseri, come lo sono io, si mostrano essere una valanga di falsità. Ma ancora
non basta e il mercatino si arricchisce di nuova merce. Ora, oltre alle
chiacchiere televisive, come se non bastassero ci si mettono pure le
speculazioni: i libri stampati per l'occasione, le foto e quanto d'altro si può
pubblicare. E ancora si mente dicendo che era Sabrina a farsi pagare dai
media... ma per favore!
Nel 2010 ad Avetrana si era in presenza di un caso d'omicidio davvero tanto ma
tanto semplice da dipanare, un caso come ce ne sono stati e ancora ce ne
saranno: uno zio che ci prova con la nipote acquisita (forse a causa dei suoi
sorrisi ingenui e del suo corpo da adolescente) e perde la ragione comportandosi
per come si sarebbero comportati quei beceri parenti che aveva attorno durante
la sua infanzia. Il loro esempio aveva e quello ha seguito quando ha combinato "il
guaio", quando si è reso conto che da assassino avrebbe perso le sue terre,
quando l'istinto l'ha portato a disfarsi del corpo nel luogo a lui più
congeniale. Eppure si sono consumati fiumi di parole e queste considerazioni
sono state snobbate. Le insinuazioni sui Misseri hanno reso credibili alla gente
le affermazioni dei media togliendo verità a quanto detto da Valentina e sua
madre. Insinuazioni su insinuazioni, come quella secondo cui Michele Misseri
sarebbe stato succube della moglie. E dai che tutti avete l'esempio in casa e
che tutti sapete bene che in ogni famiglia italiana ci sono i pro e i contro.
Prima dell'omicidio di Sarah non erano forse una famiglia come la vostra? Anche
da voi capita che si litighi a causa dei figli o per altro... dopo anni e anni
non è possibile andare d'accordo su tutto. Ma per le menti dopate dai media,
dopo l'assassinio tutto è cambiato e guai a paragonare la famiglia Misseri a
qualsiasi altra... alla nostra! Eppure Sabrina Misseri, come è emerso a
processo, ha donato tanto amore alla piccola Sarah; eppure, nonostante le tante
testimonianze che vanno in questa direzione, ovviamente per cullarsi sul
ridicolo dell'impianto accusatorio si preferisce continuare nel rivoltare la
frittata.
Non si vuole giustizia ma vendetta, non si vuole il colpevole ma un colpevole,
questo è il risultato delle insinuazioni trasmesse alla gente, questo è quello
che hanno fatto a Taranto dove forse la legge non è uguale per tutti.
Fortunatamente per le Misseri la loro storia non finisce con le motivazioni del
giudice Trunfio, che seguiranno sicuramente la linea del sogno e l'illogicità
dei procuratori dagli occhi iniettati d'odio. Per fortuna ci sarà la possibilità
di arrivare a giudici più esperti e saggi che potranno aprire gli occhi
dell'opinione pubblica e sputtanare quei media che per tre anni hanno cercato di
renderla cieca.
VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA, LEGALITA' E
LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.
DALLE TOGHE DEI LEGULEI ROSSE A QUELLE
BIANCHE, DALLE TONACHE DEI PRETI ROSSE A QUELLE BIANCHE, DALLE AULE DEI "MASTRI"
O "PROF" ROSSE A QUELLE BIANCHE.
DALLE TOGHE DEI LEGULEI ROSSE A QUELLE
BIANCHE.......
Desirèe Di Geronimo vittima dei corvi o
della politica? Alta tensione, chi
tocca i fili muore; in sostanza, quando si mettono le mani su vicende che
scottano e che hanno tutta l’aria di essere poco pulite, succede che si rischia
di turbare certi equilibri tra politica e malaffare. I giornali esprimono
differenti opinioni sul comportamento del sostituto procuratore della Repubblica
che ha avuto l’ardire di osare di dubitare della buona fede di personaggi legati
al Presidente della Giunta Regionale, il comunista Nicola Vendola. La Di
Geronimo, da inquirente a inquisita e questo su sollecitazione di togati di
“area” per punire la loro collega, rea di aver espresso perplessità sul
comportamento del giudice barese Susanna De Felice che aveva assolto Vendola. Al
Tribunale di Bari comandano forse i togati di “area”? Significa che sono
politicamente schierati? Sarebbe questa la Giustizia uguale per tutti? E il CSM
non è anche espressione della politica? Il pesce come si è soliti dire, puzza
dalla testa, e se nei tribunali tra corvi e veleni si è scatenata una rivolta,
i cittadini possono ancora credere in una Giustizia giusta a due binari? Il
Parlamento deve urgentemente predisporre una commissione d’inchiesta finalizzata
a riportare serenità tra i magistrati il cui compito è quello di essere
imparziale e di non ritenersi padroni di vita e di morte. E’ urgente la riforma
della Giustizia e la separazione delle carriere. Basta con l’accanimento
giudiziario nei confronti di nemici politici da eliminare. Abbiamo compreso poco
nella vicenda Di Geronimo-Bretone contro Susanna De Felice difesa dai togati di
“area”, ed avendo come motivo della contesa l’assoluzione di Vendola da una
pesante accusa. Ricordo solo per la cronaca che in questi tempi recenti nel
tribunale di Bari non si è respirata aria salubre. In attesa che le vicende si
chiariscano esprimiamo la nostra convinta solidarietà alla Dott.ssa Desirèe Di
Geronimo autrice di tante inchieste coraggiose, scrive Lucio Marengo su Made in
Italy.
La Pm che ha indagato
sull’ex assessore alla Sanità della Regione Puglia Alberto Tedesco si sentiva
isolata dai suoi stessi colleghi,
scrivono Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del
Mezzogiorno”. E oggi che a Lecce appare come parte offesa, è interessante
leggere le dichiarazioni di Desirèe Digeronimo agli ispettori del ministero
della Giustizia: gli stessi che hanno ritenuto «non sussistente» l’ipotesi di
dissapori in Procura a Bari. E che l’accusano di non essersi astenuta, visti i
suoi rapporti con una delle amiche più strette di Lea Cosentino, ex manager
della Asl Bari indagata. Ma il procuratore di Lecce Motta e l’aggiunto De Donno
la vedono in modo diverso, tanto da contestare al Pm Giuseppe Scelsi l’abuso
d’ufficio: avrebbe intercettato Paola D’Aprile proprio per «incastrare» la
Digeronimo. Il racconto parte nell’estate 2009, quando inizia un «bombardamento
mediatico» anche nei suoi confronti: «Infuriava una campagna di stampa sulla
vicenda Tarantini che mi preoccupò non poco per il clima di sovraesposizione, e
ritenni pertanto opportuno (...) avvertire il procuratore delle intercettazioni
tra il Tedesco e il fratello di Pino Scelsi, poiché emergeva dalla mia indagine
un conflitto acceso tra i Tarantini e Tedesco, e che il dottor Michele Scelsi,
fratello del collega, si lamentava con Tedesco di alcune scelte in materia
sanitaria effettuate dalla Cosentino, all'epoca direttore generale dell'Asl
Bari, indagata dal collega e da me unitamente al Tedesco». Dicevamo
dell’isolamento. «Dall'estate del 2009 e sino a quando ho iniziato a collaborare
con i colleghi Bretone e Quercia (...) sono stata completamente isolata dagli
altri colleghi e pertanto, non ho avuto più rapporti con loro, come ad esempio
con Scelsi, la Pirrelli, la Iodice, persone con le quali maggiormente mi
confrontavo in merito a questioni lavorative, perché eravamo amici, anche per la
comunanza correntizia («Magistratura democratica). A un certo punto ho capito
che l'indagine sull'assessorato alla Sanità, che coinvolgeva il Tedesco,
esponente del centrosinistra, verosimilmente aveva inciso sui miei rapporti con
loro. Ho chiesto formalmente, anche a seguito di ciò, la cancellazione dalla mia
corrente». E come esempio del clima la Digeronimo ricorda l’episodio in cui la
collega Iodice le negò l’accesso ad alcune intercettazioni «con allegato il
parere dei due procuratori aggiunti Drago e Di Napoli». «Molto spesso apprendevo
dalla stampa dell'esistenza di elementi utili per le indagini in corso su
Tedesco». E poi le intercettazioni della D’Aprile. Dopo una cena con la Gdf,
Laudati «mi fece ascoltare la registrazione di una conversazione tra me e la
D'Aprile e mi chiese di chiarire alcune circostanze rilevabili dal colloquio». E
così in Procura cominciano i veleni: «Nella stessa circostanza in cui Laudati mi
fece ascoltare la conversazione di cui sopra, mi disse, sempre informalmente,
che Scelsi aveva diffuso in ufficio pettegolezzi sul mio conto dicendo che io e
Marzano lo avevamo pressato per archiviare il procedimento a carico della
Cosentino (...). Inoltre, gli evidenziai che la Cosentino era ancora indagata
nel mio procedimento». Poi, dice la Digeronimo, ne parlò con Scelsi: «Gli dissi
come mai gli era venuto in mente di mettere in giro voci del genere sul mio
conto, prive del tutto di fondamento. Lui ha farfugliato che “si era dovuto
difendere perché, dopo l'arrivo di Laudati, gli erano stati contestati errori
nelle indagini”».
C'è la prova: le toghe rosse hanno in mano
la politica. Fioroni rivela: l'Anm
ha premuto perché ritirassi la candidatura in commissione Giustizia della Camera
per far posto alla Ferranti. Poi le strane smentite, scrive
Anna Maria Greco su “Il
Giornale”. La legge del contrappasso colpisce l'Anm. Mentre
protesta a gran voce contro il Pdl che «delegittima» i magistrati sulle vicende
giudiziarie di Berlusconi, ecco che le scoppia in casa la bomba Fioroni. A
dimostrazione delle sue logiche di potere e delle pretese di condizionare la
politica. La nota dell'Anm critica le «espressioni violente e offensive,
estranee a ogni legittimo esercizio del diritto di critica» contro i magistrati
e richiama gli inviti di Giorgio Napolitano ad evitare conflitti. Nella stessa
giornata Beppe rivela (ma poi in serata smentisce) di telefonate avute dal
sindacato delle toghe per garantire un posto chiave in parlamento a un'esponente
di Magistratura democratica: Donatella Ferranti, ex segretario generale del Csm.
Nel caos che regna nel Pd sul dopo-Bersani, Fioroni doveva fare il presidente di
commissione ma è costretto al passo indietro. «Mi hanno detto - racconta a
Repubblica- o ci sei tu o c'è la Ferranti. Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. "Non
sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla
Giustizia. Sa, con Nitto Palma al Senato...". E io ho risposto obbedisco ai
magistrati, mica al Pd». Segue scambio di sms, sempre rivelato dall'esponente
Pd, con il premier Enrico Letta che gli chiede se è «contrariato» e l'ex-Ppi che
gli promette di contrariarlo sabato all'assemblea del partito. La storia suscita
una sfilza di domande inquietanti. Perché dall'Anm chiamano un Pd per una
questione di posti? Perché hanno bisogno della Ferranti in commissione Giustizia
della Camera? Perché, poi, Fioroni dovrebbe «obbedire» ai magistrati? In serata
arriva la smentita dell'ex ministro, ieri a colloquio, sembra, col Guardasigilli
Cancellieri: «Tutte le ricostruzioni sono fantasiose e infondate. Nessuna
associazione, tantomeno di magistrati, ha mai parlato con me, ho condiviso la
presidenza della commissione Giustizia all'onorevole Ferranti». Anche l'Anm in
serata smentisce: «Mai intervenuta per condizionare l'elezione del presidente
della commissione Giustizia della Camera». Dietrofront a parte, sembra che la
Ferranti pensasse di avere in tasca il sottosegretariato alla Giustizia e per
lei sia stato un colpo vederselo scippare da Giuseppe Berretta. Tanto più che in
quota Pdl è stato scelto Cosimo Ferri, leader della corrente d'opposizione
all'Anm, Magistratura indipendente. Una nomina andata di traverso al sindacato
delle toghe e contestata da Md. Come quella di Palma, presentata come uno
scandalo. Tutto questo dimostra quanto l'Anm pretenda di essere forza politica,
pur lanciando appelli all'indipendenza e autonomia della magistratura, e
pretenda di condizionare le scelte del Palazzo. Collateralismo, lo chiamano. «Se
fosse vero quello che dice Fioroni - commenta al Giornale Lorenzo Pontecorvo,
vicepresidente di Mi e membro del direttivo dell'Anm - sarebbe molto grave.
L'associazione dovrebbe occuparsi dello svolgimento dell'attività giudiziaria,
non intromettersi nelle questioni della politica, tantomeno se si tratta delle
commissioni Giustizia del parlamento». Il fatto è che l'Anm, guidata dal
cartello di sinistra e da Unicost, vive una crisi storica. Rappresenta forse la
metà dei 9mila magistrati, se gli iscritti sono ben sotto gli 8mila, 3mila
votano Mi, 300 Proposta B e tanti non partecipano. La base è in subbuglio,
insofferente per il correntismo e un vertice troppo orientato a sinistra che si
preoccupa di politica e non di questioni sindacali, si moltiplicano i movimenti
indipendenti e Mi, uscita vittoriosa dalle urne, si trova all'opposizione.
Altro che "toghe rosse": ecco la pattuglia
di magistrati che difende Berlusconi.
Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri
"comunisti". Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci
sia una vera e propria pattuglia di magistrati. E' uno dei
cavalli di battaglia di Silvio
Berlusconi, e non certo da oggi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del
centrodestra accusa i pubblici
ministeri 'comunisti'. Un articolo dell'Espresso
racconta come al suo fianco in realtà ci sia
una vera e propria pattuglia di magistrati di
peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il
Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Dopo l'ultima tornata
elettorale la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra
Camera e Senato sono nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica),
mentre erano diciassette nella precedente legislatura. Il partito di Berlusconi
non ha mai smesso di portare in parlamento toghe di livello come l'ex ministro
Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo,
che sono stati appena rieletti al Senato. Caliendo si è messo in luce come
teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in
associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e
per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager
fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel
reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto
notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola
Cosentino, arrestato per camorra. Ancora più preziosi per Berlusconi, scrive il
settimanale, sono quei magistrati che
entrano nei palazzi come tecnici, come il giudice Augusta
Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora
nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. "Nemica" dei pm
milanesi ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di "maschilismo" chi
la etichetta solo come moglie di Bruno Vespa e rivendica i suoi 35 anni di
lavoro come "giudice imparziale". Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del
resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993,
quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana
Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa
l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94
perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri
nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla
Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti).
Alla faccia delle toghe rosse,
scrive Paolo Biondani su
“L’Espresso”.
Berlusconi accusa i pm 'comunisti' ma al suo fianco c'è una vera e propria
pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare
il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Toghe rosse? No,
azzurre. Vent'anni di bombardamenti della propaganda berlusconiana su
fantomatici complotti dei giudici al servizio dei comunisti (o viceversa)
rischiano di far dimenticare il ruolo e l'importanza dei magistrati che sono
invece scesi in campo con il centrodestra. Con le ultime elezioni la pattuglia
dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato,
l'associazione Openpolis ne ha contati nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di
Scelta Civica), contro i diciassette della precedente legislatura. Eppure prima
e dopo la campagna elettorale si è parlato moltissimo di loro. Non di tutti,
però, solo di alcuni: da Piero Grasso, l'ex procuratore antimafia eletto
presidente del Senato con il Pd, ad Antonio Ingroia, il pm di Palermo che dopo
la bocciatura politica ora si oppone al trasferimento alla procura di Aosta. Ma
anche il partito di Berlusconi non ha mai smesso di candidare e continua
tutt'oggi a portare in parlamento toghe di grande esperienza come l'ex ministro
Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo.
Rieletti al Senato, hanno già sfornato disegni di legge assai contestati,
soprattutto dai magistrati rimasti nei tribunali. Caliendo si è messo in luce
come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno
in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri"
(e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al
manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio
per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è
fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario
Nicola Cosentino, arrestato per camorra, e poi per una raffica di progetti di
legge (al momento nove, ma di altri sette è cofirmatario) che hanno fatto
rumore: dal rilancio del condono per l'abusivismo edilizio, ai nuovi illeciti
disciplinari a geometria variabile per colpire i pm ritenuti politicizzati. Il
bello è che nessuno ha mai accusato loro, i due ex magistrati berlusconiani, di
aver fatto politica con indagini e processi, nonostante la delicatezza dei tanti
fascicoli trattati. Caliendo, napoletano d'origine, è stato per più di
trent'anni giudice e sostituto procuratore generale a Milano e poi in
Cassazione, diventando anche capocorrente al Csm: un magistrato ascoltatissimo
dal centrodestra (grazie ai buoni rapporti con ex dc come Giuseppe Gargani)
ancor prima di entrare in parlamento nel 2008. Mentre Nitto Palma è stato uno
dei pm di punta della procura di Roma, prima di diventare amico di Cesare
Previti (l'ex ministro oggi pregiudicato) e sbarcare in parlamento nel 2001,
segnalandosi subito per un tentativo di resuscitare l'immunità parlamentare
totale. Oggi è il presidente della commissione giustizia del Senato. Nel lustro
2008-2013, tra i magistrati in aspettativa perché eletti, il Pd ne schierava 9,
il Pdl 7 e i centristi uno. Oggi alla Camera, stando alle autocertificazioni dei
diretti interessati, resistono tre giudici, equamente divisi: Donatella Ferrante
del Pd, Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Ignazio Abrignani del Pdl. A ben
guardare, però, quest'ultimo non è un magistrato, ma un avvocato civilista
siciliano, fedele all'ex ministro Scajola, che faceva anche il giudice
tributario. Al Senato invece il Pd batte il Pdl per quattro a due, con l'ex pm
Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e Piero Grasso, che peraltro si è
dimesso dalla magistratura appena candidato. Le due toghe azzurre in compenso
pesano molto: Caliendo e Nitto Palma sono tra i pochissimi in grado di
influenzare la linea di Berlusconi sulla giustizia, tema tornato urgente dopo la
condanna anche in appello per le maxi-frodi fiscali sui diritti tv di Mediaset.
Preziosissimo, per il miliardario di Arcore, è anche il lavoro dei magistrati
che entrano nei palazzi come tecnici. Tra i più in vista c'è il giudice romano
in aspettativa Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della
Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. Da
sempre ostile ai pm milanesi, per replicare a una puntata di "Report" ha aperto
un sito (augustaiannini.it) dove taccia di «maschilismo» chi la etichetta come
«moglie di Bruno Vespa» e rivendica i suoi 35 anni di lavoro, portati benissimo,
come «giudice imparziale». Qualità dimostrata, per altro, già ai tempi di
Tangentopoli, quando chiese di astenersi sulla richiesta di arresto per Gianni
Letta e Adriano Galliani, spiegando: «Siamo amici di famiglia». Ora, nel
governissimo di Enrico Letta, brilla la stella di Cosimo Ferri, sottosegretario
alla Giustizia e capocorrente di Magistratura Indipendente, capace di farsi
eleggere al Csm da ben 553 magistrati benché chiacchierato (ma non indagato) per
le intercettazioni di Calciopoli, del caso Santoro-Mills e della cosiddetta P3.
Con la nuova legislatura, intanto, il centrosinistra ha detto addio a ex
magistrati del livello di Gerardo D'Ambrosio, l'ex procuratore Silvia Della
Monica o il giudice-scrittore Gianrico Carofiglio, senza contare gli ex pm che
avevano lasciato la toga più di vent'anni fa, come Antonio Di Pietro o Luciano
Violante. Ma anche il centrodestra ha rinunciato a ex magistrati di governo come
Franco Frattini e Alfredo Mantovano, avvicinatisi a Monti e non ricandidati. Per
non parlare di uomini di legge come Melchiorre Cirami, l'ex giudice di Agrigento
entrato in Parlamento nel '96 con l'Udc, passato nel '98 al centrosinistra con
l'Udeur e rieletto nel 2001 con il centrodestra dopo il patto
Cuffaro-Berlusconi: portano ancora il suo nome la versione originale del
"legittimo sospetto" (per fermare i processi, bastava chiederne il
trasferimento) e il comma "super-513" (per annientare i verbali d'accusa,
bastava far tacere il complice), subito dichiarato incostituzionale. La fede nel
Grande Sud del sottosegretario Gianfranco Miccichè (meno dell'1 per cento a
Siracusa) ha tradito anche Roberto Centaro, altra toga azzurra in missione
parlamentare dal 1996 al 2013: un presidente della commissione antimafia capace
di polemizzare con tutte le procure, oltre che relatore della legge-bavaglio
contro le intercettazioni. Incolmabile, poi, il vuoto lasciato da Alfonso Papa,
ex pm di Napoli e Roma eletto nel 2008 con il Pdl: nel 2011 è diventato il primo
parlamentare, dai tempi dell'esplosivista missino Massimo Abbatangelo, a entrare
in carcere perdendo l'immunità. Tornato libero, Papa ha chiesto di riprendere il
lavoro di magistrato, ma per ora resta imputato: in teoria dovrebbe preoccuparlo
la condanna patteggiata dal suo coindagato, il piduista per sempre Luigi
Bisignani, ma a suo favore gioca ancora il privilegio politico che gli ha
garantito la distruzione delle prove più insidiose, le famigerate
intercettazioni. Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede
addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi
riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo
mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina
al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e
Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo
Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò
il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti). Da allora Berlusconi
gioca soprattutto in difesa: oggi il Pdl schiera 17 avvocati al Senato e 21 alla
Camera. Ma su questo fronte il Pd post-giustizialista non teme i rivali-alleati:
ha 9 legali tra i senatori e 37 tra i deputati. In totale nel nuovo parlamento,
secondo i dati di Openpolis, si contano ben 105 avvocati, che a differenza dei
magistrati possono continuare a fare processi (e incassare parcelle dai clienti)
anche mentre hanno il potere di cambiare le leggi.
DALLE TONACHE DEI PRETI ROSSE A QUELLE
BIANCHE.......
Dalle toghe rosse ai preti rossi, la
litanìa è sempre la stessa: una
canzone mono-nota, scrive
E poi ti ritrovi l'estemporaneo vescovo di
provincia.
Mafiosi, niente funerali religiosi.
Niente funerali in chiesa nella Diocesi di Acireale, in provincia di Catania,
per chi è stato condannato in via definitiva per reati di mafia e non ha
mostrato pentimento prima di morire. Lo ha stabilito il vescovo di Acireale
(Catania), Mons. Antonino Raspanti, che ha promulgato un «decreto di privazione
delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia in
via definitiva». Il decreto è stato illustrato dallo stesso prelato nella chiesa
di San Rocco, ad Acireale, durante un incontro dal titolo «Conversazioni sulla
legalità», al quale hanno preso parte il ministro della Giustizia Anna Maria
Cancellieri e il Procuratore della Repubblica a Catania Giovanni Salvi. «Questo
decreto è nella tradizione di tutto quello che la Chiesa siciliana, i miei
confratelli vescovi, anche quella italiana, già da parecchi decenni hanno fatto,
lavorando e sensibilizzando di concerto con la società civile, anche con non
credenti della società civile», ha spiegato monsignor Raspanti. «Io ho voluto
solo mettere - ha aggiunto il vescovo - una conseguenza che è nella logica delle
cose, non è una vera e propria innovazione di ciò che la Chiesa ha pensato negli
ultimi decenni». «Probabilmente l'applicazione in questo territorio è un po' più
innovativa, ma io non voglio enfatizzare, pero» è un segnale netto, fermo,
certo, perché vorrei che ci fosse una netta distinzione e chiarezza tra chi
appartiene ad una organizzazione e chi appartiene alla Chiesa: le due cose sono
inconciliabili, questo e il senso''. «Vorrei che la sensibilità nostra , di
tutti, nei confronti di questi fenomeni si alzasse di molto - ha concluso Mons.
Raspanti - e desidererei anche che chi aderisce a queste organizzazioni ci
riflettesse meglio e potesse, come dicono Gesù e il Papa, convertirsi, cioè
cambiare. Questo provvedimento è fatto solo per tentare che qualcuno cambi. E
allora tutti miglioriamo».
No alla Chiesa che vieta i funerali di un
mafioso, no ai pentiti. Non sono le parole di un boss, ma di una vedova di boss.
“Mi chiamo Rosa Pace e sono la vedova di Mariano Agate, ex detenuto del carcere
di Viterbo sottoposto al regime del 41 bis, morto per un cancro dopo un’agonia a
dir poco terribile il 3 aprile di quest’anno…”. Comincia in questo modo la
lettera, il cui contenuto è stato reso noto dal sito Live Sicilia. La
vedova del boss mafioso Mariano Agate ha voluto protestare contro il vescovo di
Mazara, monsignor Domenico Mogavero, che ha vietato anche le esequie private,
dopo che il questore aveva vietato quelle pubbliche.
Era un potente Mariano Agate, “il signore del
male” come lo hanno definito in tanti, “socio” dell’”Escobar” calabrese Roberto
Pannunzi, custode della latitanza di Totò Riina, massone. Una strategia di
potere costellata poi da delitti, omicidi eccellenti, stragi come quella di
Capaci. Nel 1983 passeggiando per i corridoi del carcere di Trapani annunciò
l’imminente omicidio del giudice Ciaccio Montalto, nel 1988 – imputato in Corte
di Assise a Trapani – mandò a dire a Mauro Rostagno, che in tv a Trapani
raccontava le sue gesta mafiose, di smetterla di “dire minchiate”. Mariano
Agate, lui più di Matteo Messina Denaro, è stato “l’inventore” della mafia
sommersa e della mafia che fa impresa e che però “sa sparare e sa mettere le
bombe” quando è ora “di sparare e mettere le bombe”. La
vedova del boss a cui sono stati negati i funerali religiosi
scrive al vescovo Mogavero:
«Mi
chiamo Rosa Pace e sono la vedova di Mariano Agate,
ex detenuto del carcere di Viterbo sottoposto al regime del 41 bis, morto per un
cancro dopo un’agonia a dir poco terribile il 3 aprile di quest’anno. Mio marito
è stato destinatario, in nome della Chiesa cattolica, di un singolare
trattamento a mezzo del suo rappresentante territoriale e Vescovo di Mazara del
Vallo Monsignor Mogavero, il quale, pur conscio che Mariano Agate era spirato
dopo aver chiesto di avere contatto con il SIGNORE a mezzo di un sacerdote e di
accettare, volere e ricevere l’estrema unzione, ha ugualmente vietato che la
salma venisse portata all’interno di una Chiesa, pur non opponendosi alla
celebrazione in epoca successiva ad una Messa di suffragio.
A seguito di una facile ed univoca interpretazione dei fatti,
non posso non essere indotta a concludere che Mons. Mogavero, incurante della
manifestazione di fede da parte di mio marito ed incurante della sofferenza che
avrebbe inferto a me ad ai miei figli senza un motivo che potesse giustificare
il comportamento medesimo nel rispetto degli insegnamenti della Chiesa
Cattolica, abbia voluto adempiere ad una particolare esigenza di lancio di un
improprio messaggio mediatico e giustizialista, non potendo conseguentemente
escludersi che Monsignor Mogavero attendesse un evento del genere, per poter
aver a disposizione una tribuna politico-mediatica dalla quale fare propaganda
giustizialista, facendo di me e la mia famiglia carne da macello.
E’ indubbio che Mons. Mogavero, con il comportamento da me descritto e
facilmente riscontrabile non ha sentito la necessità di esercitare il ruolo di
Pastore di Anime, e di seguire anche
solo in parte i mirabili comportamenti manifestati da giusti Rappresentati della
Chiesa, qual deve essere considerato, tra i diversi, Padre Puglisi, che ha
veramente dedicato la propria vita alla fede ed ai fedeli. A questo punto, è
esagerato dire che Monsignor Mogavero abbia mostrato di privilegiare l’apparire
al sentire religioso! Assurdo e per niente cristiano giustificare il divieto dei
funerali per persone condannate per reati di associazione mafiosa che non
abbiano mai manifestato alcun cenno di pentimento. Mi chiedo cosa ci sia di più
intimo del pentimento dell'essere umano; (dolore, rammarico rimorso per aver
fatto delle scelte in violazioni di norme giuridiche, religiose e o morali).
Essere un collaboratore di
giustizia non è e non sarà mai condizione necessaria del pentimento morale o
religioso di qualsiasi uomo, detenuto, criminale.
La collaborazione con la giustizia è solo un mero strumento necessario ai nostri
magistrati per la lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata.»
Come la mettiamo con il
perdono? È questa la domanda ricorrente di chi lo ha letto. E ancora: come
coniugare il perdono dell’errante e la condanna dell’errore con l’iniziativa
della diocesi di Acireale di negare i funerali ad un condannato per mafia
espresso chiaramente in un documento ufficiale? Insomma, una gran bella
questione, dove ci si sente tirati da questa parte o dall’altra, in un
ondeggiare anche di sentimenti che scuote, nel profondo, l’animo umano e non
consente risposte univoche o scontate. Come non essere d’accordo sul rifiuto
della Chiesa di celebrare il funerale in Chiesa per chi si è macchiato di
efferati delitti? Ma nel contempo come non pensare alla dimensione del perdono e
della misericordia? Avvertiamo disagio di fronte a queste posizioni e non è
facile individuare un sentire comune.
E come discernere tra mafiosi palesati e
palesanti e mafiosi istituzionali che, mafiosando, in più abusano dei loro
poteri, con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione
di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri?
Il parroco anti camorra sconfessa il pm
Woodcock. Don Merola in radio
attacca la toga dell'inchiesta Cosentino: "Leggendo gli atti non ho trovato
prove per dire che è un camorrista. Immorale che sia in prigione".
Francesco Cramer
Il prete anticamorra benedice Berlusconi e Cosentino e sconsacra il pm Woodcock.
È un fiume in piena don Luigi Merola, sacerdote, scrittore, cavaliere della
Repubblica, una vita in trincea contro i clan dei vicoli campani. Microfono in
mano, a La Zanzara su Radio 24, parla di politica. E parla chiaro: «Berlusconi?
È un perseguitato, i magistrati lo perseguitano tanto». La sua è un'omelia
politicamente scorretta ma genuina, specie quando parla delle toghe: «Lo
perseguitano come hanno fatto con Mastella - dice il prete -. Alcuni magistrati
sono politicizzati e ignoranti, devono leggere e studiare di più. Ci vuole la
formazione permanente dopo il concorso». Parole sante anche se difficilmente Anm
e Csm sarebbero disposti a fare mea culpa. Poi ci si aspetta che, da prete,
arrivi la scomunica per lo stile di vita del Cavaliere. Ma don Merola è tutto
fuorché un ipocrita: «Berlusconi - ragiona - è un peccatore come tanti altri.
Sono stato a Roma tre anni per lavorare al ministero dell'Istruzione e dico che
quello che fa Berlusconi lo fanno tutti, politici di sinistra e di destra, alti
funzionari e magistrati. Tutta gente che ha la seconda, la terza e la quarta
amante da cui si fanno accompagnare con l'auto blu. Farò nomi e cognomi». E
ancora, per l'ex premier arriva il segno della croce: «Berlusconi lo assolvo per
il fatto che fa mangiare 80mila famiglie in Italia. Lo perdono con l'assoluzione
per qualsiasi cosa abbia fatto». Una vita a raccattare gli ultimi alla stazione
centrale di Napoli; una quotidiana battaglia contro l'usura e contro i clan; una
guerra aperta alla criminalità organizzata tanto che in un'intercettazione un
camorrista disse: «Lo ammazzerò sull'altare». Don Merola la malavita la conosce
bene. La tiene sotto controllo, la combatte, la studia. E studia le carte
processuali. Tutte. Senza lenti ideologiche. Ecco perché, quando gli chiedono
del conterraneo Nicola Cosentino, ex sottosegretario pidiellino diventato
simbolo degli impresentabili, don Merola anche questa volta spiazza tutti:
«Leggendo gli atti che riguardano Cosentino, mi sono fatto l'idea che non ci
sono le prove per dire che è camorrista e per stare in carcere». E quindi «è
immorale e ingiusto che sia in prigione, non può inquinare le prove perché si è
costituito e il procedimento è chiuso». Naturalmente il sacerdote non può non
parlare anche di Henry John Woodcock, uno dei pm titolari dell'inchiesta:
«Woodcock lo considero di estrema sinistra, ho saputo che è diventato magistrato
dopo due bocciature al concorso. Come prete vengo a sapere tante cose, Woodcock
potrà essere preparato sullo sport ma sul diritto deve studiare un po' di più».
Prete di strada, don Merola è solito dire pane al pane e vino al vino. Chiama le
cose con il loro nome. E per questo è stato inviso alla sinistra. Sul sindaco di
Napoli, per esempio, era stato tranchant: «De Magistris a Napoli ha fatto due
cose: ha chiuso il centro storico e fatto la pista ciclopedonale, manco fossimo
nella Pianura padana. Ma purtroppo non ascolta nessuno. Noi napoletani non
sappiamo a che santo dobbiamo votarci, ma saremo proprio noi, alla fine che
salveremo Napoli». E non aveva risparmiato neppure Grillo: «Non lo capisco: è un
fenomeno tutto italiano. Come si fa a non avere nessun rispetto delle
istituzioni, come si fa a dire arrendetevi a chi rappresenta l'Italia? Vogliamo
costruire qualcosa o soltanto opporci?». Amico di Caldoro e di Francesco Nitto
Palma, don Merola era stato in predicato di diventare parlamentare con la
casacca del Pdl. Era pure stato a palazzo Grazioli per un'ora di colloquio con
Berlusconi. «Mi ha offerto un seggio per portare avanti le mie battaglie. Ma poi
ho detto di no vedendo le liste». Al suo niet fu subito corteggiato da Luca
Cordero di Montezemolo ma anche a lui disse niet. E spiegò: «È inutile discutere
sul Cosentino sì o Cosentino no. La colpa è del porcellum. Se i cittadini
potessero scegliere direttamente questo non succederebbe, invece a scegliere
sono i segretari dei partiti».
E che dire di Don Gallo che durante le sue
funzioni religiose in chiesa cantava "Bella Ciao" con l'apoteosi rossa ai suoi
funerali.
Dopo i porno-funerali di Gallo, autopsia
di una Chiesa suicida, nella persona
di Bagnasco Angelo, scrive Don Ariel
S. Levi di Gualdo su “PapalePapale”.
Durante il funerale:
“Bandiera rossa la trionferà…”. Ormai ci
riesce solo nelle chiese cattoliche.
Preti, vestiti come fosse carnevale, vanno ai
funerali di don Gallo.
Pure i comunisti sfottono il presidente dei
vescovi italiani.
La segretaria di don Gallo interrompe
l’omelia di Bagnasco, già interrotta dai cori di Bella Ciao e Bandiera rossa in
chiesa.
Il funerale di don Gallo è diventato
possibilità di “comizio” per tutti.
La demagogia clericale di don Ciotti sale sul
pulpito.
E Luxuria parlò…
Tutti a rendere omaggio a don Gallo. Ma il
fumo di un sigaro sostituisce l’incenso.
Bagnasco e la scena che ha fatto il giro del
web: Comunione a Luxuria.
L’abominio della desolazione: le chiese
ridotte a discarica abusiva del monnezzaio ideologico del mondo.
L’abominio della desolazione.
«LA SFIDA DELL’OBBEDIENZA NELLA FEDE:
PER UN PRETE, PROTEGGERE UN VESCOVO, VUOL DIRE TUTELARE LA CONTINUITÀ STESSA
DEL MISTERO SACRAMENTALE DELLA CHIESA.
Non nascondo disagio all’idea che Angelo
Bagnasco sia il presidente di quei Vescovi d’Italia che a loro volta sono
vescovi nostri. Rendendo però grazie ai doni dello Spirito Santo che molti
sacerdoti hanno accolto veramente all’atto sacramentale della loro ordinazione,
la nostra grazia di stato ci permette di separare l’uomo dall’ufficio apostolico
che è chiamato a ricoprire, accettando e facendo nostra la sfida che spesso si
pone dinanzi a noi: obbedire in coscienza e libertà anche le diverse mezze
figure che popolano il collegio episcopale, nelle quali risiede il deposito
della pienezza del sacerdozio apostolico e per questo meritevoli di sacro
rispetto, non per ciò che umanamente sono, ma per ciò che rappresentano sul
piano metafisico per l’ineffabile ministero sacerdotale istituito dal Signore
Gesù. Ciò rende anche i vescovi più limitati e inadeguati dei legittimi
continuatori della catena apostolica e come tali oggetto di dovuta venerazione,
all’occorrenza anche di protezione; dovesse costare la nostra stessa vita,
perché per un prete, proteggere un vescovo, vuol dire tutelare la continuità
stessa del mistero sacramentale della Chiesa.
ANDREA GALLO: UNA PUBBLICA VERGOGNA
DEL SACERDOZIO CHE HA SPOSATO TUTTO CIÒ CHE ERA IN CONFLITTO CON LA MORALE LA
TEOLOGIA E LA DOTTRINA DELLA CHIESA
Il 22 maggio 2013, ricevendo notizia della
morte del presbitero genovese Andrea Gallo, scrivendo su un pubblico forum di
discussione informai amici e conoscenti che il giorno dopo avrei celebrato una
Santa Messa di suffragio per lui, senza omettere di indicarlo appresso come una
autentica vergogna del collegio sacerdotale. Andrea Gallo ha trascorso la vita a
sposare e sostenere tutto ciò che è in aperto conflitto con la teologia, la
morale e la dottrina sociale della Chiesa, ma soprattutto in aperto conflitto
col Vangelo. Che egli abbia assistito i poveri e i disagiati, non fa di lui né
un vero cristiano né un vero annunciatore del Vangelo. Se difatti così fosse,
ogni filantropo ateo potrebbe costituire un modello di cristiano ideale, o come
avrebbe detto quell’altro intoccabile seminatore di confusione di Karl Rahner:
un “cristiano anonimo”. Alla santità e alla saggezza del padre della Rerum
Novarum, il Sommo Pontefice Leone XIII che dette con essa vita alla
Dottrina Sociale della Chiesa, Andrea Gallo ha preferito Hegel e Marx. Tutto ciò
che la Chiesa dichiarava moralmente illecito lui lo dichiarava lecito, sempre e
di rigore con critiche per nulla larvate, mirate non verso certe note
aberrazioni dei clericali e del clericalismo, ma con critiche spesso accese e
distruttive verso il magistero della Chiesa e dei suoi Sommi Pontefici, la
dottrina e l’etica cattolica. E’ stato un elemento di scandalo e soprattutto di
divisione il povero Andrea Gallo, basti pensare quando al termine di una Santa
Messa cantò “Bella Ciao” sventolando un fazzoletto rosso.
PER NOI PRETI NON ESISTONO FASCISTI E
COMUNISTI MA SOLO UOMINI E FIGLI DI DIO, NOSTRO DOVERE È ACCOGLIERE TUTTI COLORO
CHE DESIDERANO ACCOGLIERE CRISTO
Come sacerdoti noi dobbiamo accogliere tutti
coloro che intendono veramente accogliere Cristo, cosa che molti nostri
confratelli hanno fatto in periodi drammatici della nostra storia patria
italiana. Molti preti hanno accolto — alcuni pagando persino con la vita —
l’accoglienza e la protezione data ai partigiani rossi mossi da ideali comunisti
e ai partigiani bianchi d’ispirazione cattolico-popolare e liberale. Abbiamo
accolto e nascosto i giovani socialisti ricercati dalla polizia fascista
direttamente dentro il palazzo di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di
Roma. Allo stesso modo abbiamo accolto i giovani fascisti e i giovani della
Repubblica di Salò, quando all’apertura dei conti rischiavano il massacro da
parte di coloro che per vent’anni avevano subìto le angherie del regime
fascista. Per i santi preti che grazie a Dio l’Italia ha conosciuto in anni
purtroppo ormai lontani, erano da proteggere dall’ira i ventenni manganellati
dai fascisti e i ventenni diventati repubblichini di Salò che alla caduta del
regime e dopo l’uccisione di Benito Mussolini rischiavano più o meno analoga
fine. Questo è il prete, questo è il sacerdozio. Non dovrei spiegarlo io al
Presidente dei Vescovi d’Italia, che noi siamo servi istituiti a servizio della
Chiesa di Cristo e dell’uomo, di ogni uomo, per la salvezza dell’uomo. Il
presbitero Andrea Gallo è stato un paradigma di prete ideologizzato a servizio
dell’ideologia, che per propria natura è escludente; che non guarda all’uomo ma
al “credo” politico al quale appartiene o dice di appartenere l’uomo. E avere
usato il pretesto del Vangelo per simili scopi, è di per sé cosa malvagia e
perversa. Nonostante che le autorità ecclesiastiche abbiano scelto di cedere
all’immagine mediatica e di soprassedere su tutto questo, camuffandosi dietro al
dito medio di una non meglio precisata misericordia e carità, basate l’una e
l’altra — cosa sempre più dimenticata — sulla giustizia e sulla verità,
all’occorrenza anche sulla giusta pena, come indica il Signore nel Vangelo.
ANDREA GALLO E LA MANCATA PERCEZIONE
DELLA DIVINA DIGNITÀ SACERDOTALE: INDOMITO E IMPUNITO HA TRASCORSO LA VITA A
DIVIDERE ANZICHÉ A UNIRE, FACENDO USO DISTORTO DEL VANGELO PER SUPPORTARE
L’IDEOLOGIA MARXISTA, IL TUTTO SOTTO GLI OCCHI DELL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA
IMPOTENTE
Della verità noi siamo servi e non padroni:
«Tu non possiedi la Verità, è la Verità che possiede te» [Cf. S.
Tommaso d’Aquino, De Veritate, 1257]. Sia chiaro: la grazia, la
misericordia e il perdono di Dio costituiscono tutti assieme un mistero che
valica di molto ogni giudizio umano, che di rigore non va dato perché non spetta
all’uomo giudicare la coscienza dell’uomo. Compito nostro non è condannare con
l’arrogante spirito di chi si sostituisce al giudizio di Dio pensando di poter
leggere dentro l’intimo delle coscienze altrui. Compito e dovere nostro è
indicare sempre con decisa amorevolezza al Popolo di Dio ciò che è giusto e ciò
che è sbagliato, ciò che è lecito e ciò che invece è disordinato o
intrinsecamente malvagio. La Chiesa mater et magistra [Cf. Giovanni
XXIII, 15 maggio 1961] ci indica e ci insegna da sempre in che modo si può
giungere alla beatitudine celeste e in qual altro si può correre il serio
rischio di compromettere l’eterna salute della nostra anima. Perché Dio è «Lento
all’ira e grande nell’amore» [Salmo 144 (145)]. Essere lenti all’ira
non vuol dire però essere privi di ira divina, come narra il racconto della
distruzione di Sodoma e Gomorra [Ge 18:16-22], così particolarmente
azzeccato nello specifico contesto in questione. Nella sua vita pubblica Andrea
Gallo ha vissuto, predicato e ubbidito la Chiesa sua sposa e i vescovi che
reggono le membra del Corpo Mistico del Cristo, in modo conforme al Vangelo? Il
tutto nella gravosa misura alla quale sono chiamati in responsabilità coloro che
partecipano non solo al sacerdozio regale di Cristo come battezzati, ma coloro
che sono chiamati col sacro ordine a partecipare per mistero di grazia al
sacerdozio ministeriale di Cristo? Era chiaro — od era stato in qualche modo
chiarito ad Andrea Gallo —, che noi sacerdoti abbiamo una dignità superiore a
quella degli Angeli [Cf. S. Tommaso d’Aquino, cf. 3 p., q. 22, art. 1]
essendo chiamati a celebrare il Sacrificio Eucaristico, memoriale vivo e santo
di Dio incarnato, morto e risorto? Oltre alle opere dei sociologi comunisti,
Andrea Gallo ha letto qualche libro di teologia o di patristica in vita sua? A
parte l’Arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco e i suoi eminenti predecessori
Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, questo prete ha avuto qualche vera e
autorevole figura episcopale e qualche buon formatore che gli spiegasse con le
parole di San Gregorio Nazianzeno che «Il sacerdozio è venerato anche dagli
Angeli»? [cf. Sermo 26 de Sanct. Petr.]. E del sacerdozio, che a lui
come a tutti noi è stato dato solo in comodato d’uso, non per nostro merito ma
per servire la Chiesa e il Popolo di Dio, nel concreto, che cosa ne ha fatto
Andrea Gallo, sotto gli occhi di tutti, pubblicamente, per anni e anni? Di
questo prete che ha trascorso la propria esistenza in modo alquanto confuso,
tutti abbiamo sempre vivo il ricordo umiliante e imbarazzante di un ideologo e
di un demagogo che ha concorso a dividere anziché unire, facendo uso distorto
del Vangelo per supportare la propria ideologia marxista, anziché usare il
Vangelo per liberare se stesso e il Popolo di Dio dalle devastazioni che da
sempre hanno prodotto le ideologie. Cosa questa che lui, nato nel 1928, quindi
protagonista del Novecento, avrebbe dovuto sapere meglio di chiunque altro,
circa i prezzi pagati dal mondo per le ideologie sia di destra che di sinistra.
LA VOLTA CHE VIDI I LIBRI DI ANDREA
GALLO ESPOSTI NELLA VETRINA DELLA LIBRERIA INTERNA DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ
LATERANENSE, SCRISSI AL CARDINALE BAGNASCO E AL CARDINALE MAURO PIACENZA
DICENDO CHE MI SPETTAVA DI DIRITTO DIVENTARE PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER
L’EDUCAZIONE CATTOLICA E CHIESI DI PORTARE AVANTI LA MIA CANDIDATURA. SONO
SEMPRE IN ATTESA DI UNA LORO RISPOSTA.
Non sono mai stato scandalizzato dalle
stravaganze di Andrea Gallo, anche perché nel nostro clero si cela di più e di
peggio. A scandalizzarmi è stato invece il suo vescovo e i suoi predecessori
che non hanno mai preso alcun provvedimento verso di lui. Mai sono state
applicate le sanzioni canoniche a carico di questo chierico che i canoni li ha
violati tutti, assieme alle regole più basilari del cristiano e sacerdotale buon
comportamento. E parlando del suo vescovo, non parliamo di un vescovo qualsiasi,
ma del presidente dei Vescovi d’Italia. Pertanto, il vero errore — invero
gravissimo — lo ha commesso l’Arcivescovo Metropolita di Genova, al quale tempo
fa inviai una lettera che qui metto a disposizione di chiunque voglia leggere e
per la quale non ho mai ricevuto risposta. Capisco che per essere degnati di
attenzione da un cardinale, di questi tempi bisogna essere un rabbino ebreo o un
imam mussulmano, perché in tal caso le risposte giungono subito, amabili,
ecumeniche e interreligiose. Il senso di quella lettera è più che comprensibile:
quando l’autorità è completamente priva di quella evangelica e cattolica
autorevolezza che di fatto la priva di ogni credibilità, non resta altro che la
pacata e rispettosa presa di giro. Quelle prese di giro alla San Filippo Neri,
per intendersi, profondamente cattoliche e rammaricate, quanto più sono ironiche
nella forma. La vera e profonda vergogna sta nel fatto che l’Arcivescovo
Metropolita di Genova si sia esposto e abbia esposto la Chiesa italiana al
ridicolo, dato il particolare ufficio da lui ricoperto nell’assemblea dei
Vescovi d’Italia. Il vergognoso e indignitoso teatrino di quei funerali ha
offeso la Chiesa, la sua dottrina cattolica e la dignità dei veri credenti. Una
sconcia passerella di gay, transessuali, anticlericali, comunisti irriducibili
ideologizzati sino al midollo e aggressivi scapestrati dei centri sociali che
hanno egemonizzato la triste scena, cosa peraltro facilmente prevedibile e che
proprio per questo andava prudentemente evitata. Una sfilata di tutto ciò che
non è, ma che soprattutto esige in modo deciso e spesso anche violento di non
essere cattolico.
IL CABARETTISTA EBREO MONI OVADIA CI
HA REGALATO DUE PERLE DI DOGMATICA TRINITARIA: «ANDREA RIUSCIVA A ESSERE UNO E
TRINO»
“Stupendo” il commiato del cabarettista ebreo
Moni Ovadia, agnostico dichiarato e orgoglioso che non crede nella religione
propria e tanto meno in quella degli altri. Un Ovadia affetto da evidenti corti
circuiti psicoanalitici dati dal fatto che da una parte si proclama agnostico e
dall’altra mangia cibo kasher, anzi glatt kosher. Grottesco
oltre ogni limite, quando riferendosi al defunto ci ha rassicurato: «Sono ebreo
e agnostico ma secondo me il Gallo risorge». Da questo guitto che gioca a fare
l’aschenazita e che per i rabbini ortodossi è come fumo agli occhi, mentre per
diversi amici miei che sono ebrei osservanti costituisce da sempre pessimo
esempio di israelita che cavalcando la moda ebraica ha trovato solo modo per
fare soldi, ci siamo dovuti sorbire anche una “lezione” di dogmatica trinitaria:
«Andrea» — ha detto l’Ovadia con demenziale serietà — «riusciva a essere uno e
trino».
L’OLIO DI VASELINA DELL’OSSERVATORE
ROMANO, L’UNTUOSITÀ DELL’AVVENIRE, LO SCIVOLOSO COMMIATO DI RADIO
VATICANA DEDICATO AD ANDREA GALLO
La vera vergogna è stato tutto ciò che di
ovattato, di untuoso e di cosparso d’olio di vaselina hanno scritto
l’Osservatore Romano diretto da Giovanni Maria Vian e l’Avvenire diretto da
Marco Tarquinio, che sul giornale dei Vescovi d’Italia lascia pontificare quel
piccolo eresiarca di Enzo Bianchi, impendendo al tempo stesso a un nostro
stimatissimo confratello, l’eminente teologo e filosofo metafisico Antonio Livi,
di contraddirlo pacatamente e d’indicare l’ovvio: quella di Enzo Bianchi non è
teologia cattolica, anzi può essere ed è — aggiungo io — autentico veleno,
specie per le giovani menti. In particolare per coloro che si stanno formando al
sacerdozio e che solo certi nostri vescovi ormai fuori dalla grazia di Dio
possono mandare a fare i ritiri spirituali nella comunità cattoprotestante di
Bose prima di impartire loro i sacri ordini. Per non parlare poi dello scivoloso
commiato di Radio Vaticana. Siamo davvero al capovolgimento …… questa somma di
vergogne si edificano su una tragica realtà: viviamo in una Chiesa ridotta ormai
alla totale inversione, dove il bene diventa male e il male bene, l’eterodossia
ortodossia e l’ortodossia eterodossia da condannare e da perseguitare. Per
questo assieme alla mia lettera del 18 aprile rimasta senza risposta, inviai in
omaggio ad Angelo Bagnasco anche una copia del mio penultimo libro E Satana
si fece Trino, dove illustro e analizzo questo processo di inversione
ecclesiale. Sono certo e fiducioso che quando Sua Eminenza avrà imparato a
leggere, quel libro forse lo leggerà. Quando avrà imparato a scrivere, mi
risponderà come si conviene a un gentiluomo detto anche “Principe della Chiesa”.
Infatti, lo spirito principesco, io non lo misuro sulla base dei titoli o di
certe dignità onorifiche, per le quali sempre più preti e vescovi in carriera si
venderebbero l’anima al diavolo. Lo misuro in base alla buona educazione e al
devoto servizio reso alla Chiesa, in nome del quale spesso bisogna avere la
forza di esibire i virili attributi per andare contro corrente e per prendersi
la dolorosa responsabilità di non piacere alle masse. Per propria natura le
masse sono quasi sempre brutte e irragionevoli, non piacque ad esse neppure il
Signore Gesù. Tanto che alla domanda rivolta da Ponzio Pilato alla folla su chi
dei due liberare, si levò deciso un terribile grido: «Libera Barabba!».
QUANDO UNA CONCELEBRAZIONE
EUCARISTICA PRESIEDUTA DA UN VESCOVO RISCHIA DI DIVENIRE UN AUTENTICO LUPANARE
SACRILEGO NEL QUALE CRISTO È RIDOTTO A MENO DI UN PRETESTO PER DARE SFOGO
ALL’EGO IDEOLOGICO DEGLI ERETICI IN PRIMA LINEA
Come sacerdote che vive la liturgia come un
sacro mistero che appartiene alla Chiesa e non certo a me che ne sono solo servo
devoto, non padrone o primo attore, ho vissuto come un vero colpo basso quella
processione filmata di preti “trasgressivi … fuori dal coro … disobbedienti …
progressivi … arcobalenisti … filocomunisti …” capitanati da quell’altro notorio
squallore sociologico-demagogico di Luigi Ciotti, il cui commiato durante la
sacra celebrazione è stato — come suo uso — una gazzarra di sociologia politica
priva di teologia, priva di dottrina, intrisa di buoni pensieri sociali ai quali
Cristo e il Vangelo fanno da sempre secondario contorto come cornice di
tutt’altro quadro, nelle parole di quest’altro arruffapopoli. Che tristezza
quelle sciarpette variopinte multicolore dei preti pacifondisti pronti sempre a
fare a pezzi i loro confratelli legati alla sana ortodossia cattolica, indossate
sopra ai camici al posto di sobrie e consone stole viola, come prevede il rito e
la liturgia delle esequie funebri. Che squallore, quell’altra indecente vergogna
del sacerdozio di Vitaliano Della Sala, prete filo-omosessualista formato no
global, che ha dichiarato: «Quella di Don Gallo è la vera Chiesa». Quanta
ignoranza cristologica e teologica, quanta pubblica eresia tollerata dal nostro
debole e pavido episcopato italiano! Poveri preti fallimentari fabbricanti di
fallimenti e di falliti ecclesiali, grotteschi residuati sessantottini da
discarica appartenenti alla “religione” di un non meglio precisato “sociale”,
alla “religione” dell’ideologia che nel primo come nel secondo caso finisce
spesso per essere una religione senza Cristo Dio, che si serve all’occorrenza di
Cristo ma, beninteso: come uomo sociale, come “grande rivoluzionario
liberatore”, non come il Verbo Incarnato proclamato e annunciato nel prologo
giovanneo [Cf. Gv. 1,1].
DINANZI AI PUBBLICI PECCATORI IO NON
CALO LE BRACHE COME IL CARDINALE BAGNASCO PER TIMORE DEL GIUDIZIO DEI MEDIA E
DELLE REAZIONI DEGLI INTEGRALISTI LAICI, LI AMO CON CRISTOLOGICO CUORE
SACERDOTALE E CERCO DI LAVORARE PER LA SALVEZZA DELLE LORO ANIME
Se a calarsi le brache e a presiedere questo
teatro funerario porcino è stato il presidente dei Vescovi d’Italia, figurarsi
gli altri nostri vescovi! Figurarsi a quale sbando totale siamo esposti noi
poveri preti che dalle loro autorità sempre più prive di autorevolezza
dipendiamo …Non aveva l’Arcivescovo Metropolita di Genova un vicario generale,
un vicario episcopale o un presidente del capitolo metropolitano al quale far
celebrare quel funerale al posto del presidente dei Vescovi d’Italia, semmai
nella chiesa di appartenenza anziché nella chiesa cattedrale? Io vivo nel mondo
del reale, al contrario del Cardinale Angelo Bagnasco che vive nel proprio
palazzo feudale circondato da devoti e compiacenti segretari e collaboratori ai
quali non passerebbe mai per la mente di dire in coscienza al proprio potente
prelato: “Ritengo che questo sia sbagliato, ma detto ciò decida come meglio
crede perché è Lei l’autorità episcopale e, a meno che non mi comandi cose
contrarie alla dottrina e alla morale della Chiesa, io che non la penso come
lei, proprio per questo sarò il primo a ubbidirle”. Diversamente dal Cardinale
Angelo Bagnasco io non mi sposto con la scorta perché qualche burlone ha scritto
nottetempo sui muri “Morte al Padre Ariel”. Io ho accolto e accolgo tutti, ma lo
faccio in modo pastorale, paterno, evangelico e soprattutto cattolico, sempre e
di rigore nel silenzio e nel nascondimento. Nel mio confessionale sono giunte
decine di omosessuali afflitti e, come di recente ho dichiarato in una
intervista a una rivista cattolica nessuno di loro ne è mai uscito senza
assoluzione. Quando celebravo il Sacrificio Eucaristico in una basilica romana,
ogni domenica sera, in fondo a quel maestoso tempio, quasi nascosti un gruppo di
transessuali sudamericani partecipava sempre alla liturgia eucaristica. Non
osavano presentarsi a ricevere il Santissimo Corpo di Cristo poiché consapevoli
della vita che vivevano e che avrebbero seguitato a vivere, ma partecipavano con
sincera devozione. Poi, dopo la celebrazione, venivano da me a chiedermi la
benedizione. Io tracciavo sempre sulla loro fronte un segno di croce col pollice
destro e poi li abbracciavo e li baciavo a uno a uno. Vorrei far notare
all’Arcivescovo Metropolita di Genova la sostanziale differenza che corre tra
queste anime sofferenti e combattute, che spesso mantengono col loro lavoro di
prostituzione intere famiglie nei propri paesi di origine, coscienti che quel
loro vivere non è bene ed è molto sbagliato; e l’arrogante trans Vladimiro
Guadagno, detto Luxuria, ex politico, ideologo rasente l’integralismo, fiero e
orgoglioso e, soprattutto, per nulla contristato dal proprio stile di vita …
VLADIMIRO GUADAGNO DETTO LUXURIA
RICEVE LA COMUNIONE DAL PRESIDENTE DEI VESCOVI ITALIANI E CI DONA APPRESSO UN
PREDICOZZO SULL’ACCOGLIENZA DAL PRESBITERIO DELLA CATTEDRALE DI GENOVA. NOI
SACERDOTI, IN OBBEDIENZA ALLE DISPOSIZIONI DELLA CHIESA ALLE QUALI NON POSSIAMO
E MAI DOBBIAMO VENIRE MENO, SI DEVE INVECE NEGARLA AI DIVORZIATI RISPOSATI
… è stata cosa imprudente e pure vergognosa
l’Eucaristia amministrata dal Presidente dei Vescovi d’Italia al transessuale
Luxuria durante la Messa funebre di Andrea Gallo. Semmai ciò non fosse stato
sufficiente, l’Arcivescovo Metropolita di Genova ha concesso a questa creatura
di prendere la parola all’interno della sua chiesa cattedrale dall’ambone da
dove si amministra la Mensa della Parola di Dio, per fare a tutti noi questo
predicozzo: «Grazie per averci aperto le porte della tua Chiesa e del tuo cuore.
Grazie per averci dimostrato che in una Chiesa comprensiva, inclusiva, che non
caccia via nessuno è possibile. Grazie per averci fatto sentire noi tutte
creature transgender figlie di Dio amate da Dio. Noi ci auguriamo che tanti
seguano il tuo esempio e ci auguriamo anche che qualcuno ti chieda scusa, Don
Gallo». Due parole sulla accoglienza, posto che queste persone, notoriamente
strapiene di un ego narcisista, disordinato e orgoglioso, aggressive oltre ogni
umano limite verso chiunque osi non pensarla come loro, pare non abbiano chiaro
che essa procede da Cristo e che la vera Chiesa è quella di Cristo, non certo
quella “di base … di piazza … alternativa … disobbediente … arcobalenista” di
Andrea Gallo. Il problema è che a questi ideologi del transgender non interessa
che la Chiesa apra le porte. Loro vogliono che la Chiesa apra le gambe,
possibilmente dalla parte posteriore, per poterla infiltrare da dentro e
distruggerla con seme venefico. Ovviamente in nome di una strana carità
evangelica e di una non meglio precisata accoglienza e misericordia. È
consapevole Luxuria cosa voglia dire e che cosa comporti in senso ecclesiologico
ed escatologico aprire le porte a Cristo per essere accolti da Cristo e dalla
Chiesa suo corpo mistico? Comporta anzitutto accogliere Cristo e tutte le regole
di vita contenute nel suo messaggio di salvezza, non certo pretendere di
sovvertire le regole di Dio per andare incontro ai capricci della cultura gender
e ai gravi disordini umani e morali di certi soggetti, che non reclamano affatto
accoglienza, perché nei concreti fatti vogliono solo sfondare le porte per
prendere possesso della casa cristiana alle loro condizioni, in massimo spregio
a quelle che sono le regole dettate dalla divina rivelazione. È consapevole
Luxuria che la Chiesa deve sì accogliere, ma al tempo stesso deve evitare che
lupi rapaci facciano irruzione nell’ovile dove il buon pastore dovrebbe
custodire e proteggere le pecore che il Signore ha lui affidato? O forse
dobbiamo farci distruggere l’ovile e divorare le pecore perché i lupi travestiti
da agnelli ci vengono a parlare di accoglienza, invitandoci a prendere esempio
dai Gallo, dai Ciotti e dai Dalla Sala che la Chiesa l’hanno così male servita,
con tanto di perentorio invito a chiedere scusa fatto da sotto ai nostri altari
a chi la Chiesa intende invece proteggerla, il tutto proferito da un alto
esponente di coloro che rivendicano il “sacrosanto” diritto a trasformare la
Sposa di Cristo in una prostituta, affinché possa corrispondere alla loro
desolante immagine e somiglianza da casa di tolleranza transgender? È
consapevole l’Arcivescovo Metropolita di Genova che quel Santissimo Corpo di
Cristo da lui amministrato a Vladimiro Guadagno detto Luxuria, noi preti, in
devota obbedienza a quanto la Chiesa ci comanda, dobbiamo negarlo a coppie di
divorziati risposati? Forse, a questo punto, al Cardinale Angelo Bagnasco non
resta che andare a celebrare un solenne pontificale direttamente al Gay
Village con Luxuria che fa da madrina alla manifestazione con tutte le
accoglienti transgender travestite da agnellini rosa. Per molte volte Luxuria è
stata infatti madrina delle parate del Gay Pride alle quali ha
partecipato col politico e determinato spirito ideologico di chi esige che la
Chiesa accolga e apra quelle porte che poc’anzi — senza irriverenza ma con molto
allarme — ho chiamato gambe. E semmai, tutti gli integralisti gay che di prassi
mettono in scena pantomime satirico-dissacranti marciando travestiti da suorine
vogliose in calze a rete o da vescovi con mitrie color fucsia, l’eminentissimo
cardinale potrebbe portarseli dietro come chierichetti. Siamo o non siamo una
Chiesa accogliente, includente, caritatevole, misericordiosa? Però, con debita e
caritatevole misericordia, anziché nascondere la testa sotto la sabbia come gli
struzzi, tra una accoglienza e l’altra si dia uno sguardo a certe ripetute
immagini dissacranti del gay pride, per avere idea del tasso di
rispetto verso l’altrui fede e l’altrui patrimonio di sacralità che alberga in
coloro che pretendono di farti sbattere in galera per omofobia, se solo osi
semplicemente non condividere il loro stile di vita, improntato sull’evidente
disordine umano e morale.
LA PUBBLICA PECCATRICE FU PERDONATA
DAL REDENTORE PERCHÈ ERA PENTITA E PERCHÉ CAMBIÒ VITA. NON DIVENNE CERTO
PALADINA E IDEOLOGA PRE-CRISTIANA DELL’ASSOCIAZIONE DELLE LIBERE
PROSTITUTE PER LA LIBERALIZZAZIONE E LA LEGALIZZAZIONE DEL MERETRICIO, IN NOME
DEL CRISTO RISORTO, ACCOGLIENTE E MISERICORDIOSO
Tutti quanti sappiamo bene che genere di
mestiere svolgeva la pubblica peccatrice pentita e perdonata [Lc, 7, 36-50]
che bagnò con le proprie lacrime i piedi del Signore, asciugandoli coi propri
capelli e cospargendoli col prezioso olio profumato contenuto nel suo vaso di
alabastro. Ma sappiamo anche che dopo quell’incontro e quel pianto sui piedi del
Redentore, cambiò mestiere e vita. Non divenne certo paladina e ideologa
pre-cristiana dell’associazione delle libere prostitute per la liberalizzazione
e la legalizzazione del meretricio nel nome del Cristo risorto accogliente,
caritatevole e misericordioso. Devo proprio invitare io, il Presidente dei
Vescovi d’Italia, a leggere bene e con attenzione quel Vangelo di cui egli è
supremo maestro in sua qualità di sommo sacerdote?
POSSA IL SIGNORE PERDONARE IL
CARDINALE ANGELO BAGNASCO PER L’UMILIAZIONE INFERTA ALLA CHIESA D’ITALIA E
SPERIAMO CHE QUANDO ACCADUTO CON ANDREA GALLO, NON SI RIPETA TRA ALTRI ANNI CON
UN’ALTRA VERGOGNA DEL SACERDOZIO: PAOLO FARINELLA, ANCH’ESSO PRESBITERO GENOVESE
Assicuro le mie sincere preghiere al
Cardinale Angelo Bagnasco, perché temo che assieme all’anima di Andrea Gallo
oggi si debba cominciare a pensare di salvare anche quella del suo vescovo,
nonché presidente dei Vescovi d’Italia, che tutt’oggi, nel proprio presbiterio,
può vantare un’altro celebre, impunito e ahimè intoccabile ideologo: Paolo
Farinella. A tempo e luogo, dobbiamo forse attenderci un altro tripudio di
plebaglia da osteria e da pornografico bordello transgender, con rumoroso
seguito di giovani spinellari da centro sociale che egemonizzano col pugno
chiuso alzato anche la scena dei funerali di quest’altra vergogna del
sacerdozio, con la turba ebbra di cieca ideologia che dentro la Casa di Dio
rinnova ancora il disumano grido sacrilego: «Barabba … Barabba!», ovviamente in
nome di una non meglio precisata accoglienza, carità e misericordia? Possa Dio
perdonare Angelo Bagnasco per il male che ha recato in questo delicato frangente
alla Chiesa d’Italia e per l’umiliazione inferta ai devoti sacerdoti di Cristo e
alle membra vive sempre più sofferenti del Popolo di Dio.» Ariel Stefano
Levi di Gualdo, presbitero.
DALLE AULE DEI "MASTRI" O "PROF" ROSSE A
QUELLE BIANCHE.
Don Milani, i maestri «rossi» e la
meritocrazia dimenticata, scrive
Pucci Cipriani su
“L’Occidentale”. Ma quello che dette il colpo definitivo a don Milani e
alla sua lettera fu non il professor Berardi o la professoressa Calderini
(considerati due pericolosi «liberali») ma un illuminato giornalista di
“Repubblica”, il professor Sebastiano Vassali che demolì, con una serie di
articoli sul quotidiano considerato una sorte di “Bibbia laica e progressista”,
il mito di don Milani. Papale, papale, verga il professor Giuliano Vassalli:
“Povera Italia! E povera Sinistra! Don Milani (...) volle dividere il mondo come
allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, e
si scelse un bersaglio di comodo, gli insegnanti. In questo senso (...) il suo
libro fu una mascalzonata: attribuiva tutti i mali ai professori («la vostra
scuola», «i vostri programmi») istigava al linciaggio morale di un nemico (...)
gli insegnanti sembravano messi là apposta per far da bersaglio alla rivoluzione
dell’epoca come i poliziotti di Valle Giulia (...) Povera Italia e povera
Sinistra, che dal ’68 o forse dal ’45 non ha saputo far altra politica che
quella d’applaudire tutte le primedonne che hanno calcato la platea del bel
paese» (cfr. Vassalli in “Repubblica” del 4 luglio 1992, pag 34). E sempre su
“Repubblica” il professor Vassalli, inesorabile, continua: «Don Milani ci appare
oggi come fu davvero: un maestro manesco e autoritario (quanti dei suoi
sostenitori di un tempo hanno veramente saputo che nella “Lettera” c’è
l’apologia della frusta (a pag. 82) e, che a Barbiana erano considerati
strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate” e
“qualche salutare cignata”?). Un autocrate che non credeva nella pedagogia – in
nessuna pedagogia, all’infuori della propria - e che trattava con sufficienza e
sarcasmo chi si azzardava a parlargli si sviluppo della personalità degli alunni
e di altrettante “sciocchezze borghesi”. Tutto questo in “Esperienze pastorali”
ma - scrive ancora Vassalli - «e lo stesso principio era stato da lui sviluppato
con molta chiarezza nella Lettera a una Professoressa, dove si delinea: “una
concezione collettivistica delle educazione vista come indottrinamento”: una
concezione non dissimile - per chi ha ancora memoria di quegli anni - dai
modelli educativi della così detta “rivoluzione culturale” cinese”. (cfr.
Vassalli in “Repubblica”cit). Tra i miei ricordi di gioventù (avevo allora
sedici anni, nda) la mia contestazione a quel gruppo culturale progressista “La
Ginestra” che si rifaceva alle idee del prete di Barbiana. E a loro (pretori
democratici, presidi, docenti universitari) giocai un tiro maestro e, durante
una delle loro riunioni arrivai in compagnia di un giovane, laureato di fresco,
già amante degli studi seri, un giovane distinto e preparatissimo: con lui ci
recammo al Comune di Borgo San Lorenzo e iniziammo (meglio dire che fu il
“giovane professore” a iniziare) con un fuoco concentrico: egli parlò di
meritocrazia, quella meritocrazia che, sola, avrebbe salvato gli “ultimi”, parlò
di scuola seria che richiedeva sacrifici e non chiacchiere, una scuola che non
creasse discriminazioni ma nemmeno odio nei confronti dei “Pierini” ovverosia
dei “Signorini attaccati alla scuola media di un tempo” ai quali don Milani
voleva trovare un posticino nei confortevoli Gulag dei compagni sovietici. Quel
giovanissimo e intrepido professore rispondeva e tuttavia risponde al nome di
Franco Cardini che era ed è (anche se lui sembra non crederci) un mio grande
amico oltre che uno dei più grandi, se non il più grande studioso del Medioevo a
livello mondiale. Fu lui che ebbe per Maestro Attilio Mordini, l’anima del
tradizionalismo cattolico non solo a livello fiorentino, un grande mistico di
cui, negli ultimi giorni della sua vita, avvenuta lo scorso anno, mi parlava un
altro grande mistico: don Divo Barsotti. Fu lo stesso Cardini, in un successivo
incontro, a presentarmi Attilio Giulio Schettini (che divenne un caro amico
colto prematuramente da “sorella morte”) che iniziò, con la mia collaborazione,
una serie di servizi sui “Preti rossi della Toscana” sul settimanale cattolico
“Lo Specchio” allora diretto da Giorgio Nelson Page. Anche il servizio su Don
Milani (apparso sullo stesso settimanale a firma di uno dei redattori, Pier
Francesco Pingitore) posso assicurare che fu preparato da Giulio Schettini. Oggi
lo stesso professor Franco Cardini, fa sul quotidiano “La Nazione” l’apologia di
Don Milani anche se - come al solito - ha l’onestà intellettuale (merce rara
oggigiorno) di ammettere che allora la pensava diversamente: «Si era
all’indomani del Concilio Vaticano II - scrive Cardini - che secondo me e
secondo quelli del mio gruppo al quale appartenevamo, era stato un grande
pericolo per la Chiesa e che alcuni dei suoi interpreti rischiavano di
trasformare in una tragedia e in una apostasia». Però Franco Cardini che è un
personaggio di grande rilievo e di grande richiamo dovrebbe usare un po’ più di
prudenza e astenersi da molte gravissime inesattezze (per esser buoni!) e
cercare di rifuggire una certa retorica di cui egli non ha bisogno. Lasciamo
perdere l’obbedienza di don Milani, una delle grandi favole, create “ad hoc” da
certo sinistrismo (basterebbe andare a consultare il suo carteggio con la
Curia!). Don Milani non è vero che - come invece afferma il professor Cardini -
scrisse sempre con il permesso della Curia... anzi (a parte la vergognosa
parentesi di quell’unico “imprimatur” ottenuto con l’inganno per “Esperienze
pastorali”) gli altri libri non ebbero mai l’imprimatur che allora si
richiedeva. E queste non sono cose da poco...
IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI
MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL
CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
«Giusto processo in Italia. E’ solo una
stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con
un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le
richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne
faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale
diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse
sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah
Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia
plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie
altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per
l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non
poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici
sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe
stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo
stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e
senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto
ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del
popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta
una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la
trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il
giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci
sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti
ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente
prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i
media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e
Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma
dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma
prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma,
c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni
ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà,
che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del
diritto, non figura tra i paesi civili.»
Intervista esclusiva al dr Antonio
Giangrande, avetranese doc. Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah
Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della
vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro
e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non
omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e
dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente.
Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di
quello che dice.
«Via
Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori
senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la
soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella
vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia
e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi
dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe
inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano
tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate.
Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita
consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con
il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare
della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da
una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e
Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile
2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal
GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia
Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si
dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non
risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate
televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In
una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta
le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà
trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della
figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte
d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese
assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la
Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di
Alberto Stasi per l’omicidio di
Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto
2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e
ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori
soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad
Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la
scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere
determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e
continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente
l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che,
per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito
le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo
a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto.
I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo
solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è
parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la
parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e
con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi
ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di
circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare
cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la
Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto
per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione.
Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali
della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al
Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è
lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer
mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in
primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi
dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia,
Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non
sovviene in questi casi, allora quando?»
Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da
Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i
suoi commenti.
«Rappresentare con verità storica, anche
scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e
proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa
dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo
cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale
“L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su Amazon in E-Book e su
Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che
nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web
Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota.
Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo
orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare,
tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma,
siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che
nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti
ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia
dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono
interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di
essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e
responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori,
che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei
testi, ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi
un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie
inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una
certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare
dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa:
snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione
antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati
politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».
Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il
paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!
«Ognuno di noi è nato in qualche posto che
sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove
siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri
fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente
della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno
scenderà dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti
dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto
quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.
Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove
sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni,
per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi
vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti
sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il
miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario
Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale
mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti
del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa
considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi
emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana,
conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita
assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a
lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il
Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è
considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale
affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che
seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili.
Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e
non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth:
semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia
meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di
essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il
suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla
fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa
immortali nella rimembranza altrui.»
Dr Antonio Giangrande, con le sue opere
letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in
testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli
italiani?
«Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che
fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i
loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri
ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo
il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di
comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano
sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto
che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione
(la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di
vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto
che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le
leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo
corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri
volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e
vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo
sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»
A scrivere delle malefatte dei poteri
forti a lei cosa ne consegue?
«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto,
già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere
l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non
si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata
dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e
di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La
sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don
Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si
deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate
locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso
assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e
schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica
e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di
Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il
finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A
“Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17
km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto,
perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me
è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra
segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei
concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è
uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di
denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i
praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o
pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno
partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione
separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo
se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei
voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.
Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono
gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità,
purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere
amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio.
Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza
abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono
imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la
corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E
nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e
sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono
stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita
Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa
mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non
presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima
di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né
ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così
motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente
attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle
denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce
contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi
tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un
modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede Potenza.
In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»
Perché parla di cortocircuito
Giustizia-Informazione?
«I giornalisti ci hanno inculcato la
convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della
magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il
principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non
sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati,
in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e
comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di
un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché
imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione,
sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che
con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe
valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né
amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli
manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di
loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un
rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un
rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego
smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando
che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un
concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i
Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA
differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della
Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus
all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la
vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un
magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in
croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico,
autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di
testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati
dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un
parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella
gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente
disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa
magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui,
figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico
e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è
sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è
trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di
comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da
leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e
autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un
magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio
automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con
ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio
della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo
Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le
leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e
ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo
Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato
si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli
stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei
limitati encefalici.»
Perché tra le sue opere a carattere
generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO
CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?
«Avetrana, e per questo non si ha alcuna
spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone,
sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di
attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion
con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed
avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito
sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più
importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e
pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia;
divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati
consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son
visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura,
avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca
della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in
programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro
convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di
Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti
giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti
nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si
son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto
di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della
verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la
mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana,
da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita,
dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno
alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della
famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a
testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche
consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta.
Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi
era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro
vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun
incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi
che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore.
Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è
qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama
intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”.
“Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa
parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i
nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è
diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il
pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano
e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure
tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta
per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il
lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle
fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha
freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore
attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso
l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò
che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve
passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono
ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata,
chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di
responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi
lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci
della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i
protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se
il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la
nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda
quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato
la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero
di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né
le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado
hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé,
finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il
meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio
di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del
danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione
e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno
vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio
per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante
che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza:
“ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti
apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese
omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa
Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o
della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per
la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico.
Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica
Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure
qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di
Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad
insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo
poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma
guarda e passa”. E proprio per passare
oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito
informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto
di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe
chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo
Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto
libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è
bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili
dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco,
mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete
sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la
presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1°
luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta
di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per
l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni
Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il
Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che
Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche
questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso
strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai
loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli
destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu
condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che
in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro
Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha
ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre
nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva
anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel
giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per
alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano
Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella
contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione,
è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso
Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché
stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da
sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario”
con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia
ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel
tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni
la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto
numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato
ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non
eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende
di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani
subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il
contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel
2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati
membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che
costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che
sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano
ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di
milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati
della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora
liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino
italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro
Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni
per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del
"delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di
Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel
processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli
errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico,
sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato
ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari.
L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della
Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori
dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque
persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati:
dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro
in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da
quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria
ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che
ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due
carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo,
un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato
sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La
cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche
l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che
ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto
un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e,
solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i
Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al
2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro
bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi
goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica
fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice,
quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono,
in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti,
anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una
statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono
stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla
mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e
sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso
Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10
anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono
ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni
contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi
50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che
sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e
rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in
malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a
diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente
che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le
similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e
giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco
Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del
caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella
per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora
(l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare
presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali
giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo
di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di
Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia
età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?».
Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione”
- sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio
le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure
giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter
Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si
potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver
cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti
contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e
ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a
parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella
vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di
quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un
venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci
raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni
Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso,
invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un
paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e
successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma.
Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha
mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi,
avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a
bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano
non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti
erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e
accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi,
e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità
investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato
coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma,
per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il
“Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato
«atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una
caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed
ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva
ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra
aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di
Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il
contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN
Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da
un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione
in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire
in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro
che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e
irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli,
presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da
tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che
questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i
pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di
fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha
accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà
affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico
insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il
testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di
tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente
probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano
Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte
di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con
la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche
a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal
processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto
dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''.
«Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba
sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi -
Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio
fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che
è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi
lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di
giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia
fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a
Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento
che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato
l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso
viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio
fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile,
loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e
continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio
fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far
finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in
quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare
che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente
normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora
apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi
sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio
quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato
tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso ,
vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra
frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che
entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto
proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti
e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti
del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che,
visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è
massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver
detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà
vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto.
Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La
madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla
morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa
collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela
la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto
riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre
di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito
l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di
Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da
anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano
tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la
figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e
di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi
ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy
Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è
ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo
stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza,
padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle
ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il
suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un
caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina
di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che
viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di
risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un
periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia,
sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa
fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a
colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo
(il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio:
l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima
con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di
raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera
Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come
tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con
molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati
dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”,
ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due
ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che
vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre
che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011
per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura
della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di
Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a
testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia
l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana)
Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la
quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un
procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di
rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state
assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg
e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa
l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del
fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di
loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione,
omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli
errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr
Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già
pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In
sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso:
povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un
sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si
inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano.
In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti
scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di
accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti
che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione
pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla
sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato
per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra
reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se
innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e
Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia
di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza
merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre
vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini
additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e
accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se
nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime
silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di
riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media
approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si
afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità
tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il
fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva
trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio
“ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”.
Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e
agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella
che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche
autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e
soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande
del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip,
attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in
quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al
carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno,
festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto
di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un
posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin
dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la
voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in
servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli
alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto.
Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie
dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le
inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria,
il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle,
Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti,
adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio
dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e
paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del
capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che
faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo
insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far
diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza».
Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e
della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno
fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono
quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a
Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E
quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a
Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di
notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro
immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda,
in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le
ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio
Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell
Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli
a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne
conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il
ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria
collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria
tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El
Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella
residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una
protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La
giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale
e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non
interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere
strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a
me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono
rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto
un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia
sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non
corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di
prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a
pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una
prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio
essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa
vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la
ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata
quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori
che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e
ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi
accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la
vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di
essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di
domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le
frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che
tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi
fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi.
Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi
appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa
situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire,
voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede
istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere
vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a
trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei
magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili,
piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto
raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti
inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata
dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova
che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi
cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto
sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle
persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una
volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata
dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella
pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico
al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione
incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie
inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che
avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non
interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo
solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi
domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole.
Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti
diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito
prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di
me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di
fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per
questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri
che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver
raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura,
si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la
verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la
mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto
tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di
vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della
prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta
parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di
fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor
più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso
passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote
di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela,
diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla
povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e
dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di
intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha
detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa
è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me.
Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni
telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata
«umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia
voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere
distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un
gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con
violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me».
Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in
“L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma
solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno
voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza
chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro,
Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui
nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano
solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un
inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di
Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli
stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici,
orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che,
con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle
indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno
stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele
Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito
benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e
dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge:
«Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto
a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei
tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata
costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di
notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non
dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è
chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado
Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per
loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e
il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti
prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal
Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza
urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione.
Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero
il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era
avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere
Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che
sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono
stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni
giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di
sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno
portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai
loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di
violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho
voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto
il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie
analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per
poter fare un parallelismo tra le varie vicende. Chi legge i miei libri, e
quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di
informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di
Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime
settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a
riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha
sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato
della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era
arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei
Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia
all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti
Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che
non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto
dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a
caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento
della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio
dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della
Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello
che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei
gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4
aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa
successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher;
dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a
Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana
si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio
per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per
ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta
Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida
della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica
tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in
chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però
non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla
scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo
di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo
non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A
proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese
Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i
giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora
in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi
penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al
massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un
massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia,
sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore
della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi,
quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che
avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si
inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha
annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine
infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone
condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.
Da queste sue parole si evince che lei non
ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di
Taranto.
«I magistrati di Taranto ed il loro
operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in
ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato
svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non
è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari
Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del
linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario,
che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati
d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza
denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno
commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo
2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di
Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi
dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine
degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei
magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente
per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente
dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella
magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il
centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si
stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il
sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE.
Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per
la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso
dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette
all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento
delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti
all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con
quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a
una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. Questa la
decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a
stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo
Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e
l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e
politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi
cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati
introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il
lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i
magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il
governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel
provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte
Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di
legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne
viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi
per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta
costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla
salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto
al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire
l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i
provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una
puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della
denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o
rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e
Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un
magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato
rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di
Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo
2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della
Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo
Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle
indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le
indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio,
sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché
imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche
un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro
la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione
irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di
Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della
Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze
per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina
in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui
risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale
Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano
politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare
del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il
Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6
aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a
Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato
che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto -
pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato
condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva
contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo
affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per
ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa
gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il
processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010
per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso
nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità.
Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la
presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un
autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e
l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di
delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che
ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e
viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così
all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato
e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia
contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno
comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio
all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12
novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica
però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il
collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno
interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può
sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore
della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli
avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma
anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal
consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della
Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le
pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata
della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai
della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le
intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di
partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno
criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi
storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che
di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina
Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere
magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra
questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto
Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la
corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in
pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle
minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la
morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori
moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni
dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì
sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato
di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di
Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di
atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un
altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una
scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò –
provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D.
Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si
troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso
la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura
della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della
Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia
Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D.
Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia
Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il
pentolone puteolento della malasanità pugliese. Anche i magistrati del
Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso
l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di
Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato
su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di
Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è
stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio
continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal
servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio
sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP
ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di
Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di
oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle
oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto,
pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo,
ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di
chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si
evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del
delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e
della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro,
c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la
procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie
cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri
confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah,
strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver
abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in
un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah)
ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una
lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la
notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche
Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso
esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no;
l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore
14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la
madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati
hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine
depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato
assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in
aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e
presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio
giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser
influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al
cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in
altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno.
E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da
Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al
Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così
come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio
perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di
Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo.
Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere,
disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi
magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato
erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina
Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di
Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per
entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere
della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6
anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e
nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito
Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a
Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti
testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La
Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e
Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla
famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una
provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e
Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata
letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il
silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura
della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi,
Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei
testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo
stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente
anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso
profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in
Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano,
aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio,
oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è
quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima
peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli
specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la
sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come
cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo
segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente
quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la
rivolta verso le istituzioni.»
Per quanto
preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti
diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è
possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah
Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice,
sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già
sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega
dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex
colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo
processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi
decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata
influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano
già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro
alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella
frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria
popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola
Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo
l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua
astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de
“La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che
dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro
che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo
vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si
sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice
latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere,
no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in
radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah
Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice
Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia
Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima,
che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione
- optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad
accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle
telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento. In particolare la frase
che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il
giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince
che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una
valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato
Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non
poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio
difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta
di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da
adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli
avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine
dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli
inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore
giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile
cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta
causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono
giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché
questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché
questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad
acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove
acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo
sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il
professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi
a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi
termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il
cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata
tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue
perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma
anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo,
imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni
dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al
processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il
senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un
chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete
assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi».
Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui
«si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi».
La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le
spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di
essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in
questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di
astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega
del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula.
Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un
componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi
avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali,
tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di
Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono
frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si
scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non
possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle
dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo
qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti»,
anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non
posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine,
la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del
professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di
Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto
modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella
fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega
Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti
ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi
dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di
sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la
mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa.
Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei
magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento
ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un
avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la
professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari
fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi
protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle
commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in
riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e
qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che
per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del
diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti
bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere
di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don
Abbondio “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e
proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari
“Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di
assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha
saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia,
esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento
è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina
Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi
continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne
le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte
spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro. Chi lo dice questo?
Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene
di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo
momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la
forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato
comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia,
l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì
a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad
accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un
processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di
studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di
Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili
per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il
ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha
scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni,
testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo
questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il
terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il
delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di
lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv,
emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei
Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di
posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput
all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che
le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito
di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo
sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale
dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere.
«Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi,
abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo
nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la
valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di
ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al
quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava
non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese
pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice
che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo
perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa
sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che
bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le
iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia
coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa
del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di
ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe
anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del
Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto
l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente
presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli
imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano
astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo
la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano
sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al
processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si
evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di
opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono
le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il
processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei
giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con
frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E
adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in
piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per
sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro
richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato
l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare
nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha
detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui
indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della
giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a
Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo
appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli
avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente
alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una
risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo
messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo
tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che
viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci
saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente
legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio
insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il
popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque
ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi.
Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di
ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata
diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non
importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui
l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole
dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una
condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una
ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni
razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti,
il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia
al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi
di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti
seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E
dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile
l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a
carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la
massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza.
Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui
chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente
d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il
sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di
Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo
d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni
aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che
intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma
iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa
dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione
pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le
sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia
anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che
ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il
professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che
vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno
pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo
visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi
dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare.
Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di
essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori
degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare
questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di
cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto
indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande
impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale
sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio
avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta:
solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di
giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la
mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia
persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una
barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se
questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia
anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a
lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno
dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa.
Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi
siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella
remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere
investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele
Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica
a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre
un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha
espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con
cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai
tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del
giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone
della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per
falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di
Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una
consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a
cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il
difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa
consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico
responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando
il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo
comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche
attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una
sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la
fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che
vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della
difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono
alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto
dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune
il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie
di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza
cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa.
Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima
categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la
forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la
pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa
testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah,
e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah
in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono
avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della
ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve
tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci
il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua
confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La
confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la
Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati
dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come
persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina,
l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità
pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del
30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura
coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche
contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire
la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un
incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione
spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non
viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si
erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la
figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità
e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche
persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che
non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’
singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una
sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti
su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche
Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i
magistrati tarantini afferma che «Questo è un processo particolare,
abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E'
stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante
del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle
indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice
l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio.
La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato
l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi
di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti
di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che
non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a
Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei
confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da
presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A
Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono
creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare
proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da
lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero
convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato
giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente
dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e
nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché
l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del
confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è
considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati
hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle
variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni
caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un
resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più
attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel
racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per
commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di
mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso.
Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E
se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva
pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per
quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E'
morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il
detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial
killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del
carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha
anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente
suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha
annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il
tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi
in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale
subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere
tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque
ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di
essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il
1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal
settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma
soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era
rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive
Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via
da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze
sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la
malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di
tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno
pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed
imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di
essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti
sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni
avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato
con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più
clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha
deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4
milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi
e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso
di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione
insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha
capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che
oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello
Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello
di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone
prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito:
non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni
analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella
più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto.
Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno
c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un
colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su
di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono
anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai
contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96
alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati
eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non
c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora
arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi
ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono
soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite,
tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la
Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma
alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo:
beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per
calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i
verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln
di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello,
condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in
libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico
di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di
intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato
all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già
parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto
l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le
indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere
il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora
Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa
testimonianza.»
Come si è comportata la stampa e la
televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri,
ma anche tutta la comunità avetranese?
«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel
processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere
delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua
assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati”
e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata
difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo
picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di
Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una
condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è
impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”.
L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di
mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri,
dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato
alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche
montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma
e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia
Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano
ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina
Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di
Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno
schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che
c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”:
alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è
morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto
il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di
cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni,
sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam
Lanza, poco più che ventenne. Dopo la
sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa
dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della
BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o
cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i
media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme,
uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione. Il villaggio
della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di
persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana.
Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle
politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla
casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o
di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini
del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus
operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da
molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti
accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un
modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della
trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete
puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito
informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non
dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono
spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane
quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino
dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che,
appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono
ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i
loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa
Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la
richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa
di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli
organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione
delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».
Dal punto di vista sociologico cosa ha
dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla
gente che li segue?
«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad
un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un
reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più
le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la
linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai
telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la
trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti,
adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga
e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo
ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»
Da esperto giuridico: a punta di Diritto
cosa ha da contestare?
«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è
un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e
concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni.
Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO
INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e
contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni
ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state
confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima
e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di
accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la
dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo
approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A
ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia
più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal
sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla
difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da
quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che
le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti, o siano talmente brave,
le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova;
nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato,
lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente
riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che
Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro
fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il
fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di
moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi
nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e servili, poi, sono state le
parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi
diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di
Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per
andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad
Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della
contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua
arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di
Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la
tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè
gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di
Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare
e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che
per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma
non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una
battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in
specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del
notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione
fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato
sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in
nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli
versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi,
facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto,
mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”.
Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai
miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo
già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere
l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non
si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia
in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte
sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è
l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso
assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e
schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica
e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di
Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il
finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A
“Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10
km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto,
perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a
me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione
del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di
tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha
detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso,
mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super
testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato,
perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima
Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima
Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti
coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i
pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti
riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo
conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle
due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri,
imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio
Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso
l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e
infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta,
schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno
allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono
anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21
novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato
di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri,
ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla
giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del
foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta
invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono
stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno
di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per
Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli.
Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana
che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah
di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina),
salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua
cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal
Gup, c’è il suo amico Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo
Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro,
citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10
dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza
preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui
in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo
l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di
essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già
rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni
dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»
Da esperto dell’informazione cosa ha da
contestare?
«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da
bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e
Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti
con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah
Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più
volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3)
sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di
Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il
Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta
«spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi»,
come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni
sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su
Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività
e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei
telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini,
interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe
delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e
diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e
non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo
l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla
difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo,
giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a
raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico.
Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si
è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo
libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute
nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé
l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo
sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto
notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa
Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e
alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello
avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni
giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto
scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti
ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio
Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di
Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa
sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il
procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella
vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si
procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage»
dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto
delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il
fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata
invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque,
riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza
delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha
avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il
13 febbraio 2011 dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella
casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la
deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele
Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato
l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la
Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi
ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di
detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio
2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di
violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma
di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei
paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e
spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in
televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere
rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che
Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello
di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica
vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm
Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di
Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri
3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano,
la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile
2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello
Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda
venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato
denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una
nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di
Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali.
Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro
persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana
per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla
madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento
dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di
Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta
Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista
di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana.
Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto,
e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto
che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il
cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto
l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente
rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una
vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo
punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè
fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non
avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda
dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un
giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come
dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e
condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può
legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello
che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno
il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con
la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con
lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina
Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare
Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo
è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad
Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400
programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana.
L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in
televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei
giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del
caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo
Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai:
“Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui
giornali”.»
A questo punto cosa vorrebbe che si
sapesse?
«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la
verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il
processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro
Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti
moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è
stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata
offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua
ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti
ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico.
Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per
loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara
che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione
del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in
testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si
parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a
rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte
inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i
carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte
si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori:
“…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo
paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a
sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei
cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette
ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti
che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a
Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità
sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese.
Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange
due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio
certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale.
Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come
aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo
perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti
finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti
guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto
usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state
attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono
oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime».
Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche
con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un
villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono
i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni
contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione
nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito
che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale
omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il
virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono
inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a
Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è
a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La
prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah,
Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe
conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo
di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in
televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si
poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la
trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un
investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e
in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi,
come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri,
decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante.
Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro
giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima
Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in
omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto
alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte
durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah,
Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie
di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro
della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah
Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri,
moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e
sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della
prima. Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con
Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato
perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi
verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere
stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La
possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che
avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo
centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come
Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una
ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i
problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di
magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano
essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO dott. Mariano
Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella.
Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti.
Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo
Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha
scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il
“contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e
di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il
movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali.
Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica
tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca
nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo
benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In
riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto,
“Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche
pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto
come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra
sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere
(si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha
scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della
famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha
raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori.
Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed
ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su
“Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il
vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni
Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina
costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua
versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di
averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento
personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui
dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di
chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per
preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai
perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte
quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive,
però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate
ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni,
testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo
questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il
terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi,
direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto,
criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di
Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal
processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Va bene, ma gli amministratori locali e
con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa
mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località,
Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché
prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli,
forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le
insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e
culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è
guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo
sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei
cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono
avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le
abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero
che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato
rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri
pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è
certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel
cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a
prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento,
sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la
conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,
rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa
situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata,
privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio
e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni
aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di
informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione
di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere
valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori
che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente
associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che
dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata -
ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica».
Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma
inopinatamente «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio
per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se
ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della
contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE
DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!!
L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana,
ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei
pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della
comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno
all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista
leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è
fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente,
prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non
sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando
a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della
banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del
depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che
entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle
telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è
questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo
non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo».
Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito
con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore
per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416
bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile,
l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva
esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte
dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a
cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto
registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il
conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti
giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione
all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese
di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina
di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi
riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla
ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco
professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi
abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?,
cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento
mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana
sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi
sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto
il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di
rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo
al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto
il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana
si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare
intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di
parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro
lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un
paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato
che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»
Va bene. Allora presenti lei Avetrana.
«Sorge su quella che era chiamata la “Via
Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e
successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e
Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in
particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che
raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono
numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da
“habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di
paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una
distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana
custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma
prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha
lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i
Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il
torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni
palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture
più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della
nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle
quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più
recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di
una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni
Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una
centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla
zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini
extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può
spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa
da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene
festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e
37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre
notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le
indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande,
noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e
con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino,
Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della
Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi,
professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice
presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi,
soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte
Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora
Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora.
Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»
La stampa. L’informazione cartacea e video
come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?
«Con la loro verità mediatica. Come volevasi
dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore
della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite
anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco
Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non
abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo
l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla
difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli
imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche
righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele
Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori
dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono,
fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che
s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta
concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad
Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi.
Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei
giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi
troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo
mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando
l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo
alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti
scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati.
Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo
mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai
suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti
od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o
telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla
difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi
veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta
come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano,
leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si
sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri
magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli
mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come
siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava
comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella
Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il
povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva
possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare
un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un
trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma
anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua
comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da
anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso
capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con
il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro
quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere
concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile
rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la
disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto
che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto
che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati
simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda
Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un
verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni
senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata
arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di
Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera
precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di
indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o
di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad
eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar
prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha
subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha
sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un
sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò
altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e
senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti
risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli
privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un
incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è
quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non
deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai
suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro
l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti
ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha
accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche
se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento
che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal
dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il
dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito
che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli
cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta
il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò
altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una
storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e
di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo
servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i
nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra
giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza
che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A
un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri
torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica
Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la
moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte
Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo
pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la
moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse
perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato
Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del
cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse
Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe
per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi
(la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria
Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto
alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono
certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta,
Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della
figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i
giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è
stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un
uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana
si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle
persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e
Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo
come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno
niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina
Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di
Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua battaglia”.
Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed
incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello
e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di
certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero,
mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si
dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come
se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita
per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha
fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il
delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare
le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che
Michele menta per coprire Sabrina.»
La mamma di Sarah, Concetta Serrano
Spagnolo Scazzi, come si è comportata?
«Comunque, per colpevoli che possano essere
agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e
nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una
colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener
ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e
poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il
sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista
Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi
articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le
cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini.
Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta
da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati,
specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano,
tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi
registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di
“Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno
testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa
testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta
pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato
delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che
si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e
sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei
processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo
i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali.
Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati
italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con
cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha
accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non
fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una
bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah,
Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che
hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno
avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il
movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e
quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di
Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a
sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come
fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente
anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse
una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di
rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che
«è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto,
secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra
generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come
hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro
ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante
l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre
di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha
capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la
presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri
Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e
puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia
degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di
legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della
pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così,
tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno
serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante
mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in
carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele,
che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in
paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per
questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati,
che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti
gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un
colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili
umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia
l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui
magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non
traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime
come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità.
«Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i
sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve
intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai
trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la
madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004
– e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute
a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto
dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che
purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di
riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano
per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave
nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007
abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso
di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è
stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le
competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere
la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise -
possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole
psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili
arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi
che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti
non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da
parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano
a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente
atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si
impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece
bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio,
Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della
lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte
lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda
venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella
lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie
critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che
si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio
illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna
manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto
perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.
Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un
Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana
editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere
trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore:
ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e
riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed
oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio,
Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose
che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana,
influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le
sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non
indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le
proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di
mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la
fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri
libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui
sono presidente nazionale
in cui vi sono pure i filmati di riferimento,
ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il
cartaceo.»
E sui magistrati in generale cosa ha da
dire?
«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I
giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?
Il problema forse non è tanto nel colore
delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle
vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla
massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto
che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma
loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono
diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son
diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché
certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque
gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei
Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene
giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati
detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia
minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip,
i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche
per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le
cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro
detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che
conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga
quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano.
I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un
emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali
luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una
ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di
fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto
i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai
chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei
misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici
che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della
mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed
post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio.
Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler
continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma
della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di
Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza
vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato
la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del
cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il
rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché
questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano
al contrario.»
Che rapporto ha lei con i magistrati
locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del
processo sul delitto di Sarah Scazzi?
«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO
AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o
l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un
magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità.
Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare
fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per
normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai
cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una
mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa
grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e
propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo
2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per
raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la
verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del giudice che
ha deciso sulle cause. Per raccontare come può cambiare il senso della
vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una persona,
il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un
giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata
di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21
febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà.
Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno
dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere
pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti
chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito
Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la
cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici
i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato
per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta,
tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo
dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo,
Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche
lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per
aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal
amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un
procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo
Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale.
Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il
giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo
accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone
Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica,
assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel
giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era
già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio
dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di
Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce
reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che,
in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del
tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che
accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di
Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver
commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di
Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv.
Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto
persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che
insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati
atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato
Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa
giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua
incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di
Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione
del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato
ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco
punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E
dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai
maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un
portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava
fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una
serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra
questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa
procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come
commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua
compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia
conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle
vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato
e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo
anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna,
nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e
sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv.
Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da
me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello
Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la
mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia
stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata
da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata
l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di
una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario
e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare
è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli
organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si
è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per
mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed
attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»
Quindi ritiene che, nonostante la sua
opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?
«Non dimentico il 18 aprile 2013. Due
processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi
scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano:
Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari:
Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza
che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima
giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata
contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia
difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco
Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i
giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso
con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in
cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso
un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e
sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto
penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di
malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa
per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi,
Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo,
mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra
persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha
mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per
quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri,
nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era
accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo
processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un
avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed
ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in
suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica
Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro.
Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a
carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati,
pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me
denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi
trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto
aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur
indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro,
così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente
illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino
era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che
ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di
Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel
sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti
soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia
Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre
che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la
condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è
strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella,
quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza
preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede
mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per
trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza
preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare
se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io,
come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era
attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi,
io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita
nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per
la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello
di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica
Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi
portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene
chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero
proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo
del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la
sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io
che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo,
non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi
fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la
seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su
cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né
l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi
miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne
rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM
di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi
fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle
pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la
pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di
Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice
l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria
Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora.
Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie
false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle
parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi
addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi
fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a
Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi
salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me
denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per
me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale
denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei
successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio
destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di
essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio
interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha
rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da
sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era
investita dei miei procedimenti, si asteneva, tacendo della mia denuncia
contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze
affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei
denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui
io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone,
sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua
requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande
(poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in
Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni
procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha
dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi
riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro
procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis,
difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in
udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente
questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati
dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno
se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali
dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono
verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si
trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli
avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me.
L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una
cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome
Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il
reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si
può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il
presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il
quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato.
E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei
titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che
ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha
denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce
regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei
detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo
il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia
l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo
il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di
affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato
le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i
magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro
carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna
collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di
pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici
giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»
Lei ha altri esempi di contrastanti
giudizi riferibili all’attività dell’informazione?
«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto.
Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale
di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e
12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è
stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria
Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al
Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo
Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta
protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio
queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della
procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel
quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di
irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono
l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in
edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e
Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione
coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti
nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia
scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith
Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva,
fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine
che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha
invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in
secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm
di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la
diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla
polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di
Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel
quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito
dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della
reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed
alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’
scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di
Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di
Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo
e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due
giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo
nudo della vittima. Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo
Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha
respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in
relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della
privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità
dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito
della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano
obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il
comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia
Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia
ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari,
Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento
per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele
Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel
legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di
elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la
richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito,
condividendo le conclusioni della procura.»
Per le mie battaglie di civiltà e
giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei
mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e
conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di
emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho
potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per
quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e
moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è
indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al
diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i
grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben
due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola.
La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione,
prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012
raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha
investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento.
Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di
preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale
della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad
Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia
ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese
l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta»
lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho
discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro
confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile
nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia
città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per
la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in
maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge
elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli
stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a
Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma
conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un
voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...
LETTERA AL DEPUTATO MAI
ELETTO
Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,
avrei bisogno per un attimo della sua
attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle
vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né
tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.
Sono il dr Antonio Giangrande, presidente
nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero
dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore
dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti
in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco,
l’Italia che siamo” pubblicata su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre
che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare.
Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne
culturali ad ignorare.
Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i
parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto
riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia
attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano
persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza
potere, potessi dare.
Per prima cosa le sto a segnalare il fatto,
già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere
l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non
si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia
in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte
sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è
l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso
assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e
schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica
e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di
Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il
finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A
“Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17
km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto,
perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me
è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.
Altra segnalazione di una mia battaglia
ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo
quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della
magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva
degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare
pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti
avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi
previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale
anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti
i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi
impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati
all’esame forense. Elaborati mai corretti.
Il sistema di abilitazione
truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati,
professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre
è: dov’è il trucco?
COMMISSIONI D’ESAME:
con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con
la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne
sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli
Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori
universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le
commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli
elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma,
di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni e
le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna
affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola.
Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro
lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura
che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state
interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n.
4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n.
478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006
nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le
commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato
un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta
di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da
quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di
avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza
stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con
percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).
LE TRACCE:
sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo
Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro
della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).
INIZIO DELLE PROVE:
la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte
d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a
Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre
città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i
pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.
IL MATERIALE CONSULTABILE:
nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura
succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi,
stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed
avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della
Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si
svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie,
bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul
concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i
codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava
l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e
protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia
l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra
questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una
rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole
dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato
dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.
IL MATERIALE CONSEGNATO:
per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una
busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati
si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo
2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di
“Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di
notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa –
hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente
che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che
“aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i
commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.
CORREZIONE DEGLI ELABORATI:
la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle
quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla
rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori
universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e
sui principi di diritto del parere dato.
Cosa fondamentale, la legge
regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità,
imparzialità ed efficienza.
Di fatto, le commissioni da
sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso
a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.
Di fatto, le commissioni sono
illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.
Di fatto, i tre compiti non
sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché
non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per
aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di
4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per
l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).
Di fatto, i voti dei tre
elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti
questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia
Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che
quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008,
seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7
luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui
sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di
impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior
parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però,
se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso
al beneficio del gratuito patrocinio.
Di fatto, il Ministero non
risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le
denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai
magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse
rimangono lettera morta.
Di fatto, gli ispettori in loco
del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla
riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.
Di fatto, alcuni candidati
superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali
circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni.
Sulla home page di controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti
giudiziari di riferimento.
Di scandali per i compiti non
corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in
prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse
condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi,
tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non
si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità
menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a
dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito
dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati
in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio
per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La
riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli
ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima
di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti)
hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta
a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo
Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della
professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934
n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi
di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun
modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni
inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano
accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare
l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione
e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed
anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i
giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di
Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per
contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato:
COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO,
COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI
UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON
CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011
presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico
insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della
sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda
di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun
giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza
cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza
dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui
risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti
puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più
punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di
prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata
e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito
dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno
avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che
non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e
dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad
un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio
2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio
della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben
prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver
tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati
avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine
per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a
supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro
insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me,
ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011,
deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione
non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si
tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile
perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto
di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del
presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione
della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per
dire: chi la fa, l'aspetti?
Questa è la denuncia penale, così come
richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte
di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano)
denuncia per calunnia.
DENUNCIA ALLA S.V.
Rita Romano, giudice monocratico del
Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,
domiciliata in viale Piceno a Manduria,
per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476,
479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed
esclusione di tutte le attenuanti,
IN QUANTO
Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato
continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli
interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da
pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.
Nei procedimenti che riguardavano
direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la
professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo
l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla
colpevolezza.
PREMESSO CHE:
Giangrande Antonio, da difensore, è stato
vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un
procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del
giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio
2006, la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo
istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur
indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio
Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su
indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero
testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i
fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili
il Giangrande e la Petarra.
Giangrande Antonio era accusato di esercizio
abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di
incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo
stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense
infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale,
chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione
di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe
forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale
abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la
violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per
impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello.
Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti
solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato.
Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano
la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le
vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.
Giangrande Antonio era difensore di Natale
Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario
dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa
testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in
data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata
assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella
contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di
quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a
difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto
Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio
legale condiviso.
Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano
accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro
truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE
ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di
risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere.
Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e
difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata
per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo
penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava
Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per
falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima
del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto
sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale
responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è
stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta
vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato
via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.
Giangrande Antonio era difensore di Erroi
Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui
difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a
testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara
falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che
con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il
Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc.
24/6681/04 R.G./mod 21. Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In
data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della
colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.
"La pubblicazione della notizia
relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel
registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a
configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di
pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di
cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21
Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se
in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai
parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità
oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato.
(Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent.,
22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).
“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e
Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.”
Libertà di stampa
violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di
raccontare la verità.
Antonio Giangrande,
il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12
luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il
fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione.
E’ stato assolto
dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti,
su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato
disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente
oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina.
Nulla di che, se
non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della
magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore,
così come si fa se, invece, fosse stata una condanna.
«Questa è una
esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande,
autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006
quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale
web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio
nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web
effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal
Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo
stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del
processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al
competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente
l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la
richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non
diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della
privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano
altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era
solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e
d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra
cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a
Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un
Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui
lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del
concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato,
dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e
scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a
quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e
successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni
i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i
più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i
miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo
del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante
abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora
dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna,
anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata
ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me
denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione,
ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce
dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense
tarantino e contrastante con la verità mediatica locale.
A tutti coloro, che
in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti,
codardi, collusi e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori
dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno
pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che
avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e
ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i
condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse,
allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal
Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».
TARANTO FORO
DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON
CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.
Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente,
senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni
in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che
non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo
di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni
d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto
ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il
magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in
un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza
mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi
sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la
credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di
procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a
cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la
gelosia. Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi
sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo
interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto
che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché
mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era
venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio,
poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho
incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una
giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si
dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la
domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori,
parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue
dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole
televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda
le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara
d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al
processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è
intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò,
coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un
programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete.
E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi,
ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una
bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah
non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso,
con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che
conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele
per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le
colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati
ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte
le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non
capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di
interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta
di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una
risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo
modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando
l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di
falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere
accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto
dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il
suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un
evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è
chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza.
Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a
riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza
riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei
fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo,
ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza
diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in
particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di
giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si
può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un
evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto,
dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire
nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità
corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed
esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento,
è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei
suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle
caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una
testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza,
ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità,
ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a
dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è
in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno
messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le
persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al
grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza.
Sembra, infatti,
che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia
responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del
testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la
sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate
positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze
dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali,
sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di
riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle
confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il
“killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo
appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i
magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale
non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel
reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben
Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette',
trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il
legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi
sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato.
Secondo il legale,
dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una
condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti
nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in
grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo.
Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un
centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti
omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14
omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta
che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la
Bibbia.
Nonostante Sebai
sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da
cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg,
Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, -
decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo
aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli
omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per
altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore
di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato
Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto
riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito
alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi
lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale
dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di
caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra
settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il
primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono
voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato
arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti
dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del
Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte
d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal
settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di
vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane
negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le
voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto
l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon
– per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base
della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale
ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre
visto delle abnormità». «Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La
magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura
giudicante gli va a ruota.
Non è la prima
volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la
rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande,
presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore
dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei
libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che
siamo” pubblicata su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti
questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro
la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Basta ricordare i
precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?»
ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia
Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti,
anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto
ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di
lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta.
Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha
detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in
aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il
contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia
e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la
responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli
innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega
Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai
tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta
trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho
detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il
corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre
violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è
stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non
vorrei rispondere a questa domanda». Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa
sorte, stesso muro di gomma.
Il 13 febbraio del
2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di
assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata
il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne
di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv.
Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte
civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per
l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e
un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire
sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato
all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a
Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina
Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni
(Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla
condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi
parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo
Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per
l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe
assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il
cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il
nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata,
rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della
sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus,
Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e
sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato
l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre
secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato
sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese
crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con
la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava
chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che
lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione
del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di
carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata
Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il
primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del
killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in
casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli,
rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra
trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese
dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri
in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato
l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana
lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne
notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra
trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in
casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo
di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio
Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di
verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in
casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed
anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si
riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di
confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi
foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era
lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle
rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris
d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle
due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del
tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due
anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri
imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4
ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la
confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli
ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con
cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian
Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già
sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione
(quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il
quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità
mentale del serial killer.
La Vergogna di
essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono
innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed
Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si
macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il
legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non
essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a
Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati
condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno
delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto
la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità
nel giudizio.
I media tacciono la
vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00
alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela
Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute
ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel
carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti,
uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto
1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era
dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di
particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la
giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che
ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore,
Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è
saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda
rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto
la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte
d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il
delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni
'90.
Faiuolo è una delle
otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli
anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine
Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è
l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni
di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta
anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i
minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli,
all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di
un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice
che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano
riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il
signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri
di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore
del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e
successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore
del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti
omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:
gennaio 1994,
presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata
a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia
(avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la
quale è l'unica vittima sopravvissuta;
8 luglio 1995,
Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;
13 agosto 1995,
Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono
stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del
fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di
Teramo;
24 aprile 1996,
Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai
condannato a 18 anni;
30 maggio 1996,
Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio
irrisolto fino alla confessione di Sebai;
10 agosto 1996,
Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;
15 gennaio 1997,
Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;
5 aprile 1997,
Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato
condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;
1o
maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio
irrisolto fino alla confessione di Sebai;
9 maggio 1997,
Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;
14 maggio 1997,
Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati
condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;
28 luglio 1997,
Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto,
oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la
di lui madre e sorella;
21 agosto 1997,
Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;
27 agosto 1997,
Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;
15 settembre 1997,
Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;
per il delitto del
gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime,
quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le
impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni
dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le
foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto
impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin
dal 1991;
per il delitto del
13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato
con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le
sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza
investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la
strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;
per il delitto del
1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle
indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta,
rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna
a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le
impronte digitali.
Solo nel 2008, cioè
11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto
procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che
Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento
sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso
del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata
sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed
Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa
di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato
a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei
delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da
lunghi anni “pur essendo innocenti”.
Altra vergogna,
altro precedente.
15 aprile 2007.
Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito
violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle
istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina
di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è
deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver
subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le
incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con
l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia
figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con
l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva
denunciato di essere stata violentata; e
nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o
l’avevano presa sul serio.
Ma le istituzioni
avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela
«soggetto disturbato con capacità compromesse»
e, quindi, poco credibile.
Altro precedente. È
il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero
dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente
per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte
di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai
commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con
una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero
dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso
vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite
dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero
e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto».
In pratica, Morrone
prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere.
E i soldi
arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già
viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele
Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno
sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il
30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze
dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una
delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono.
Le persone che lo
scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti
svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché
avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono
voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo
per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui
- adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito
le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un
procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di
condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da
una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato
e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i
magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Altro precedente:
Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro.
Giovanni Pedone,
Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la
cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7
anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone,
meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima
di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato
all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già
parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto
l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le
indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere
il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora
Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi.
Per
la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre
Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la
soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna
dal cielo, un supporto alle proprie tesi.
Da tenere presente
una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese
nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o
considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a
rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a
liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non
incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da
pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle
vite umane dal carcere?
Una scelta di
carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della
coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una
diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica,
anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche
legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita
contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione
complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave
responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di
sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una
intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il
segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a
Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la
effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per
mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia»,
tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre
all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non
ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È
un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri?
Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai
magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo,
si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la
nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e
della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente».
L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e
delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della
nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della
salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il
gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile
violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41).
Come è possibile,
sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle
attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a
continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli
interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli
impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia
da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che
proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui
giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per
un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei
bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio
magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge
di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto
all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no?
Ma se la legge è
nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto,
oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti
tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia.
Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati
compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni
Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale
della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182
pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia
cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli
arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in
poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce
di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della
Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di
concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe
spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro
dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è
un potere.
Se l’articolo 1
della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita
nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello
Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in
modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura
costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene
che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere,
ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine
costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più
delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però
aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo
il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente
avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per
questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è
chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La
giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto
alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla
rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una
missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special
modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar
loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge
ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto
di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”,
specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i
suoi detrattori.» Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi
parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la
malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un
commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a
Potenza per diffamazione a mezzo stampa.
Processo che dura
da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per
Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in
quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini
professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che
racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.
SOLO A TARANTO.
ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI. Nel
resto d’Italia c’è una sana contrapposizione tra la funzione accusatoria e
quella difensiva. Interessi diversi che portano PER FORZA a posizioni diverse.
QUESTI SIGNORI GIURANO DI RISPETTARE E FAR RISPETTARE LA LEGGE. I MAGISTRATI
HANNO L'OBBLIGO DI APPLICARE LA LEGGE NON DI EMANARLA. GLI AVVOCATI HANNO
L’OBBLIGO DI DIFENDERE I CITTADINI INNOCENTI ACCUSATI INGIUSTAMENTE DAI
MAGISTRATI, NON ESSERE LORO SCHIAVI. INVECE A TARANTO TUTTI FANNO TUTT’ALTRO.
Il decreto legge
207 sull'Ilva ha operato un «grave vulnus ai principi di obbligatorietà
dell'azione e di indipendenza del pm» (articoli 112 e 107 della Costituzione) e
questo «non appare tollerabile». Così scrive la Procura della Repubblica di
Taranto nel ricorso inviato alla Corte Costituzionale per conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato sul decreto legge salva-Ilva, convertito in
legge il 20 dicembre 2012. Per i pubblici ministeri, il decreto ha fatto di
peggio, ha cioè «legittimato la sicura commissione di ulteriori fatti integranti
i medesimi reati» contestati, a partire ovviamente da quello di disastro
ambientale. Per questi motivi la Procura chiede alla Consulta di dichiarare che
«non spetta, nel caso di specie, al Governo della Repubblica autorizzare la
prosecuzione dell'attività produttiva per periodo di tempo predeterminato», e
che questa autorizzazione non può scavalcare gli eventuali provvedimenti di
sequestro di beni dell'impresa adottati dalla magistratura. La vicenda Ilva, al
di là degli aspetti processuali e penali, è di «enorme importanza da un punto di
vista sociale ed etico» ha voluto chiarire il procuratore, Franco Sebastio, e
per questo motivo è stato chiesto alla Corte costituzionale «un contributo di
chiarezza», ma «non c'è nessuno scontro». Dubbi di costituzionalità della legge
vengono affacciati anche dal presidente dell'Ordine degli avvocati di Taranto,
Angelo Esposito, che parla di «problema serio di sospensione dei provvedimenti
giudiziari». Per Esposito, se il provvedimento «fosse stato intrapreso da un
governo di qualunque matrice politica, sarebbe scoppiata una rivoluzione», ma «è
la prima volta che un governo sospende un reato a tempo» e che «assistiamo ad
una intromissione così invasiva ed efficace del governo e del legislatore
rispetto alla magistratura». Non solo, ma «non è serio dire che chi difende
l'operato della magistratura è contro il lavoro», sottolinea Esposito, perchè
«se la procura è intervenuta, è perchè aveva il dovere di farlo». Che ci sia o
meno scontro istituzionale, sulla legge salva-Ilva si vanno definendo posizioni
nette: da una parte magistrati e avvocati, dall'altra governo e, ovviamente,
azienda.
Come presidente
nazionale di un’associazione che si batte da sempre a tutela dei diritti civili
e sociali contro i poteri forti ho interesse a rapportarmi con chi dice di
portare avanti le stesse battaglie e magari a gemellarmi con inserimento
reciproco dei nostri link nell’altrui sito web, per un’azione sinergica. La mia
associazione è stimata e seguita da centinaia di migliaia di sostenitori (basta
inserire sul motore di ricerca il nome del presidente o dell’associazione per
avere riscontro di quanti siti web li citano. Sarei molto lieto di collaborare
con voi, sempre che i nostri fini siano identici: formattare il sapere comune
viziato da interessi privati ed ideologie vetuste e rinnovare il sistema
democraticamente dalle fondamenta, iniziando dall’informare correttamente i
cittadini affinchè essi possano discernere il bene dal male e poter meglio
scegliere i rappresentanti dei loro diritti e delle loro aspettative.
Rappresentanti che ad oggi non ci sono, in virtù di un’informazione di stampo
fascista genuflessa ai poteri politici, economici e giudiziari e di un sistema
elettorale di nominati e non eletti. Per questo diffido di chi, senza arte nè
parte, si propone senza merito a occupare una poltrona.
In 20 anni di
attività prestata alla difesa dei diritti altrui come presidente nazionale di
una associazione antimafia che non è di sinistra e non santifica i magistrati,
anche a difesa di chi non se lo meritava, mi sono rapportato con moltissime
persone ed ho constatato una miopia intellettuale e culturale, oltre che un
immenso egoismo. Ognuno guarda i “cazzi” suoi e se ne “fotte” degli altri.
Alcuni erano dei veri e propri "coglioni" a tutti gli effetti. Sa, per dire,
quelli che guardano il dito, che indica la luna. Quelli che, comunistoidi o
fascistoidi, hanno ancora il loro piccolo cervello manipolato ed ancorato al
millennio passato. (L’uso dell’intercalare è adottato per rendere meglio l’idea
del concetto). Quelli che, come dicono alcuni, sono come i topolini della famosa
fiaba, si fanno incantare dal pifferaio magico di turno, che li porta alla
morte. Quelli che non hanno discernimento tra il bene ed il male.
Mi dispiace non
poter risolvere alcun problema, comune a tantissimi cittadini. E non mi si deve
dire, come molti “coglioni” fanno, “ma che sto a fare?”. Primo, perché non
usufruisco di nessun finanziamento (né pubblico, né privato), quindi sono
l’unico a non vivere a spese degli altri, e poi perché nessuna associazione
seria può fare niente contro una cultura socio-mafiosa che erge dei muri di
gomma. Per dire: in Italia non c’è giustizia e non c’è nulla da fare. Il potere
ti impone: subisci e taci. Chi dice il contrario è uno speculatore delle
disgrazie della gente. Nessuno può pretendere dalle associazioni il sostegno o
la soluzione di disservizi o disfunzioni del sistema. Solo le istituzioni hanno
il potere d’intervento e non lo fanno, pur da noi pagate con le nostre tasse. Io
posso solo denunciare e divulgare quanto è omertosamente censurato dai media. E
prendo per esempio la mia storia, per dire che quando racconto i fatti non sono
de relato, ma provati sulla propria pelle. E’ un piccolo ristoro delle
sofferenze delle vittime. Ed è già molto per chi è perseguitato e non sostenuto
economicamente e mediaticamente. Lo faccio in tutto il mondo e con un seguito di
centinaia di migliaia di contatti. Prendo spunto da storie esemplari e
rappresentative del sistema, senza soffermarmi sui singoli, che spesso per
minarne la ragione, sono tacciati di mitomania o pazzia. La mia è solo ricerca
di fonti attendibili e didattica (conoscere per giudicare) che mira ad
affiancare per territorio o per tematica le situazioni soggettive taciute o
ignorate ed elevarli fino a formare l’oggettivo incontestabile. Ogni
problematica è legata ad altra problematica e bisogna avere il quadro completo
per poter giudicare. Per questo come movimento politico miriamo anche alla
istituzione del Difensore Civico Giudiziario locale e nazionale con i poteri dei
magistrati, ma senza essere uno di loro, per poter meglio tutelare i diritti dei
cittadini che rappresenta contro gli abusi e le omissioni delle toghe. Inoltre
altro cavallo di battaglia è l’abolizione dell’esame di Stato per l’abilitazione
delle professioni e l’abolizione degli Ordini ed Albi professionali. Inoltre
miriamo all’abolizione dei concorsi pubblici: la chiamata diretta per ricoprire
incarichi e funzioni pubbliche basate sulla competenza e sui risultati ottenuti
e vale anche per i magistrati, a cui deve essere fatta, come per tutti gli altri
dipendenti pubblici, l’esame psico-attitudinale.
Pur se osteggiati,
siamo sempre molto apprezzati perché siamo i soli ad avere il coraggio di dire
la verità. La nostra informazione vale in quantità ed in qualità più di quella
mediaticamente conosciuta. Per questo abbiamo bisogno di sostegno. Più siamo
meglio è. Tra le nostre fila non mancano magistrati, o professori universitari,
giornalisti, avvocati. Professionisti di livello, che spesso devono tacere i
disservizi istituzionali.
Non possiamo
cambiare il mondo, ma possiamo far conoscere i suoi aspetti peggiori per poterli
correggere.
Sarei lieto di
poter intervenire presso incontri organizzati di cittadini o studenti per poter
meglio spiegare fisicamente quanto io pubblico mediaticamente, con il solo
contributo di copertura delle spese sostenute per la trasferta.
Per quanto riguarda
l’argomento in oggetto, c’è da chiarire alcuni aspetti. Sul sito indicato vi
sono i temi e gli argomenti trattati in modo generale e territoriale da cui
trarre elementi di conoscenza da applicare al caso concreto.
Non è importante il
mio giudizio sui singoli casi. Le vittime, in base alle ritorsioni subite da me
per la difesa dei più deboli, devono dare per scontato la mia solidarietà. Le
vittime sono causa del loro male o della loro fortuna. Le denunce e le battaglie
sono croci da portare personalmente. Io sarò lì a dare l’aiuto che manca, ma le
vittime devono mettere faccia e firma sugli atti di tutela. Possono attivarsi
personalmente, quando la legge lo consente, senza l’ausilio di avvocati,
attraverso le indicazioni contenute sul vademecum del sito
controtuttelemafie.it. L’assistenza
diretta agli associati è riconosciuta solo quando è indispensabile e se vi sono
avvocati in loco. Un’altra cosa. Se si vuole che si dia risalto alla vicenda, mi
si indichi le fonti giornalistiche che se ne sono occupate. Se non ve ne sono si
faccia il giro delle redazioni dei maggiori quotidiani. Si coinvolgano i media
riguardo alla faccenda. Se vi è il faro mediatico tutto si muove. Poi penserò io
a far diventare la cronaca in storia e a darle rilevanza internazionale. Io sono
solo uno scrittore che racconta ai posteri ed ai forestieri la quotidianità
italiana. E comunque, non vi sia disperazione, la vita continua e, mal che vada,
si inizia daccapo, consci però di aver lottato, non dimenticando mai coloro i
quali in questa Italia ingiusta hanno maggiori sofferenze. E comunque, per chi
ha voglia di lottare, da noi c’è sempre posto per le persone di buona volontà.
PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??
1 web tv nazionale fatta da centinaia di web tv locali con servizio gratuito di
pubblicazione dei filmati per gli aderenti, in cui ogni paese o città si
presenta al mondo per incentivare sviluppo economico e sociale per battere
l’illegalità: eventi rappresentativi, attività di enti pubblici ed associazioni,
aziende, video denunce;
5 siti web associativi, con centinaia di contatti al giorno, in cui si
riportano, in modo analitico ed imparziale, per argomento e per territorio, le
illegalità impunite e sottaciute, affinché non si ignori o non si dimentichi;
5 siti blog di agenzie stampa a cui accedono centinaia di giornalisti per i loro
articoli;
2 social network, in cui è inibita la partecipazione a chiunque usi lo strumento
a fini di propaganda politica o diffamatoria;
1 libro denuncia di inchiesta sociologica, sunto dei siti web, richiesto da
tante biblioteche comunali e scolastiche.
Tutto ciò non basta per avere visibilità, notorietà e sostegno.
Oscurati dai media, pur essendo un sodalizio nazionale, perché non faziosi e non
asserviti alla magistratura ed a questa politica di destra, di centro, di
sinistra. Per i giornalisti è meglio il gossip o la faziosità, ovvero leggere le
veline giudiziarie e dare la parola ai soliti “parrucconi”.
Ridotti alla fame e all’emarginazione. Decine di processi pretestuosi e
ritorsivi a carico per reati di diffamazione a mezzo stampa, sol perché si
riporta quanto pubblicato da altre fonti note e credibili. Per il potere devi
subire e devi tacere.
Penso di fare la mia parte per cambiare la nostra Italia, ma l’Italia, si
lamenta, ma non vuol essere cambiata.
Per questo ci ritroviamo da soli a portare avanti una battaglia di civiltà.
Oggi, impotenti, elemosinando visibilità e solidarietà dalle vittime del
sistema, possiamo solo riportare ai posteri una realtà ed una verità che non
devono essere dimenticate.
Comunque, noi siamo orgogliosi di essere diversi in una omologazione imperante,
dove ognuno è clone di un modello istituzionale destinato all’estinzione.
L’Italia è un caos organizzato, dove la giustizia, si prevede, sia amministrata
solo in nome del popolo, ma si omette di legiferare, affinché essa sia
amministrata anche per conto ed interesse dei cittadini.
L'Italia dove mai nulla cambia e, semmai succedesse, cambia solo in peggio.
Gli anormali non siamo noi, ma lo è chi accetta tutto ciò, con codardia tacendo.
L’INTERVISTA MAI FATTA AD ANTONIO GIANGRANDE.
D. - Perché l’Associazione (storia, motivazioni)?
R. - "In Italia urge il bisogno di ribellarsi alle ingiustizie. Si ha l'esigenza
di trovare qualcuno che ti ascolta e che sia dalla parte del più debole. Oggi
non esiste Istituzione o Associazione, che, di fatto, tuteli, contro tutti i
poteri forti, i diritti dei disabili, dei disoccupati, dei carcerati, delle
vittime dei reati. In questa Italia, dove nulla è come appare, dietro alla falsa
realtà propinata dai Media foraggiati dalla politica e dalla economia, ci sono
milioni di storie di cittadini che devono subire e devono tacere. Vero è che
anche le stesse vittime sono colluse o codarde. Pronti a pretendere aiuto per sé
stesse e non disposti ad aiutare gli altri. In Italia c’è una maggioranza
parlamentare, che non ci rappresenta, ma parla di libertà. In Italia c’è
un’opposizione parlamentare, che non ci rappresenta, ma parla di libertà. In
Italia tutti rappresentano i poteri forti, non i cittadini deboli. Quindi in
Italia non c’è Libertà, Uguaglianza e Solidarietà. Il primo a parlare di questi
ideali fu Gesù Cristo. Furono ripresi dalla rivoluzione francese. Oggi ci
ritroviamo una Costituzione comunista e clericale, scritta da una sola parte di
Italiani, invece, che fonda l’Italia sul Lavoro, non sugli ideali di cui sopra.
Oltretutto con parlamentari senza vincolo di mandato e con magistrati che,
unici, non pagano per i loro errori ed abusi. Art. 1 della Costituzione
“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (non sulla libertà e
la giustizia). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione.” (I limiti al potere popolare stabiliti da
principi catto-comunisti, indicano una sudditanza al sistema di potere. Il
potere popolare è delegato ai Parlamentari e agli organi da questi nominati:
Presidente della Repubblica, Governo, organi di Garanzia e Controllo. La
Magistratura è solo un Ordine Costituzionale: non ha un potere delegato, ma una
funzione attribuita per pubblico concorso. In realtà la Magistratura si comporta
come Dio in terra: giudica, ingiudicata.) Pur vigendo l'art. 3 della
Costituzione, che rende i cittadini tutti uguali davanti alla legge, sia nei
diritti che nei doveri, i magistrati hanno sviluppato un potere, incontrastato e
squilibrato fin anche nei confronti degli altri poteri istituzionali. Sono gli
unici a giudicare se stessi e per gli effetti ad essere impuniti. E allora, i
papaveri in televisione di cosa parlano? Come vede, nulla è come appare.
L'associazione è nata con un centinaio di iscritti nel 2004 per questo:
denunciare penalmente i responsabili delle sopraffazioni e denunciare
pubblicamente le omissioni e le omertà. Tutto questo senza favoritismi ed
impunità. Sempre e comunque a favore delle vittime. Oggi siamo tantissimi in
tutta Italia. Molti sono rappresentanti di associazioni o comitati tematici
territoriali. L’Associazione, per le sue degne finalità, ha valenza
istituzionale, perchè ai sensi dell’art. 21 e 118, comma 4, della Costituzione,
svolge attività di interesse generale e di pubblica utilità, essendo iscritta
presso la Prefettura di Taranto come associazione antimafia. Il suo simbolo è la
stretta di mani. Il suo sito internet è controtuttelemafie.it dove vi sono tutte
le inchieste sugli scandali italiani, spesso sottaciuti ed impuniti. Il sunto di
queste inchieste è riportato sul libro che ho scritto: “L’Italia del trucco,
l’Italia che siamo”, un saggio di denuncia civile senza peli sulla lingua, che
nessun editore ha voluto pubblicare. Gli altri scrivono di singoli scandali. Il
mio libro li contiene tutti. Ne viene fuori un’Italia da schifo, che nessuno
vuol cambiare. Il libro è richiesto da molti istituti scolastici o
amministrazioni civiche per farlo leggere nelle loro biblioteche".
D. - Da chi è composta l’associazione?
R. - "Dell'associazione fanno parte Magistrati, Professori Universitari,
Avvocati, Giornalisti e cittadini di ogni censo. Si sono associati per divenire
una unica forte voce di ribellione. Nel denunciare da soli i soprusi subiti
sarebbero stati considerati, a torto, pazzi o mitomani. Se nessuno ci
rappresenta, saremo noi stessi a rappresentarci e, conoscendo i problemi, a
trovare le soluzioni. Non ci sono formalità per l'adesione, anche perchè nulla
si guadagna. Basta sposare la causa e divulgare il messaggio di libertà e
verità".
D. - Quali sono i riconoscimenti ricevuti?
R. - "Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del
Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e
all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a
Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura.
Ciò significa considerarci degni interlocutori, mentre le Autorità locali ci
ignorano, ci emarginano, ci perseguitano."
D. - Il suo scopo: ottenuto e da ottenere?
R. - "In seguito alla mia attività ho ricevuto solo ritorsioni: impedimento al
lavoro e persecuzioni per reati inesistenti e con violazione del diritto di
difesa. Il mio scopo è l'adozione delle nostre proposte di legge, tra cui spicca
la modifica dell’art. 1 della Costituzione, in cui si prevede l’Italia come una
Repubblica federale fondata sulla Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, con
rappresentanza parlamentare con vincolo di mandato e responsabilità per i poteri
legislativi, esecutivi e giudiziari. Altra proposta di legge è la previsione
obbligatoria del difensore civico amministrativo e del difensore civico
giudiziario. Figure, queste, che servirebbero a difendere i cittadini da lobby e
caste."
D. - Quali sono le ritorsioni?
R. - "Sono scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica,
giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione
Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che
siamo”. Il sistema mi impedisce: di pubblicare i miei libri; di insegnare nelle
università ciò che ho scoperto in 20 anni di studi sulla società italiana; di
pubblicare i miei articoli; di esercitare la professione di Avvocato per potermi
sostenere economicamente e per poter difendere nelle aule dei tribunali chi non
può; di operare come associazione antimafia, perchè non di sinistra; di far
conoscere la mia opera letteraria. A causa della mia attività, per anni, con due
cifre, sono stato vittima di bocciature ritorsive al concorso forense, che tutti
ritengono truccato. Da ciò è scaturita la mia disoccupazione ed indigenza.
Addirittura, ho ritenuto maturo ed opportuno tutelare i miei diritti. In
presenza di innumerevoli irregolarità commesse a mio danno dalla Commissione di
Reggio Calabria, competente a correggere i compiti della sessione 2008 del
concorso forense dei candidati di Brindisi, Lecce e Taranto, (elaborati non
corretti, commissione illegittima, ecc.) e in virtù della consapevolezza delle
mie ragioni sostenute dalla folta giurisprudenza, ho presentato, senza l’ausilio
dei baroni del Foro, l’istanza per poter accedere al gratuito patrocinio per
presentare il ricorso al Tar. Pur essendoci i requisiti di reddito e nonostante
le eccezioni presentate fossero già state accolte da molti Tar, la Commissione
presso il Tar di Lecce mi nega un diritto palesemente fondato e lo comunica,
malgrado l’urgenza, un mese dopo, a pochi giorni dalla decadenza del ricorso
principale. Hanno rilevato una mancanza di fumus, con un sommario ed improprio
giudizio di merito senza contraddittorio e su elementi chiarissimi ed
incontestabili. E’ stato fatto da chi, direttamente o per colleganza, avrebbe
deciso, comunque, il proseguo, nel caso in cui il ricorso al Tar sarebbe stato
presentato in forma ordinaria, inibendone l’intenzione. Per dire: subisci e
taci. Lo hanno comunicato dopo un mese, nel pieno delle ferie e a 15 giorni
dalla decadenza del ricorso principale al TAR, impedendo, di fatto, anche la
proposizione del ricorso in forma ordinaria. Mi sono rivolto al Governo per
l’insofferenza delle istituzioni rispetto alle segnalazioni dei concorsi
pubblici truccati, impuniti e sottaciuti, specialmente accademici, giudiziari,
forensi e notarili, e ho segnalato la collusione della giustizia amministrativa
per l’impedimento al ripristino della legalità. Fenomeno seguito
dall’indifferenza, spesso indisponenza dei media. Il Governo mi ha risposto: hai
pienamente ragione, provvederemo, stiamo già lavorando. Provvedimento mai
arrivato. Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono
qui. Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa
perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud
Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi
sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in
conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi,
in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze
dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in
procedimento penale. Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia
presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa
quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata
e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio,
Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli
innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette,
caso della barberia, caso Morrone, ecc. La denuncia a Potenza è stata presentata
da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un
procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria
non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il
comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato
e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del
personale. La stessa procura di Taranto ha già cercato, non riuscendoci, di
farmi condannare per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di
essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farmi condannare per
calunnia per la sol colpa di aver presentato per il mio assistito opposizione
provata avverso ad una richiesta di archiviazione infondata, tant’è che il vero
responsabile è stato accertato nel dibattimento che ne è seguito; ovvero di
farmi condannare per lesione per essermi difeso da un’aggressione subita nella
propria casa al fine di impedirmi di presenziare all’udienza contro
l’aggressore; ovvero farmi condannare per violazione della privacy e per
diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della
stessa procura e di un avvocato che vinceva le cause, in cui a giudicare era un
suo ex praticante. Procedimenti a mio carico sempre con impedimento alla difesa.
Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più
volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a
Taranto, rimaste lettera morta. Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui
concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce,
Brindisi e Taranto. Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia
contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto
sequestro per violazione della privacy un intero sito dell’Associazione Contro
Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con
incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva,
alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto
complotto della medesima procura di Brindisi contro l’ex Giudice di Milano,
Clementina Forleo. Da questa acclamata incompetenza territoriale il fascicolo è
passato a Taranto. La procura di quel foro, reitera il sequestro dell’intero
sito, in cui, alla pagina di Taranto vi era un corposo dossier sull’operato
degli stessi uffici giudiziari. Da un conflitto d’interessi ad un altro.
Potenza, foro in cui non si è proceduto contro un giudice del tribunale di
Manduria, sezione distaccata di Taranto, che pensava bene di dare un esito
negativo a tutte le cause in cui compariva Giangrande Antonio, come imputato o
come difensore di parte, nonostante le ampie prove dimostrassero il contrario.
Ma le ritorsioni non si fermano qui. A Santi Cosma e Damiano (LT) un Consigliere
Comunale, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità
degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati
dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti
alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati. Da questa
meritoria attività è conseguita una duplice Interrogazione Parlamentare e un
intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio
della Regione Lazio. Dalle risposte istituzionali è scaturita una vasta
infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio
locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in
provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei Consigli Comunali
di Santi Cosma e Damiano e di Minturno. Pur palesandosi la fondatezza delle
accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto
riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici sui siti associativi, la
reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a
danno del Consigliere Comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte
le Mafie, dr Antonio Giangrande. Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma
per la quale la Procura di Roma si è dichiarata competente e pronta a procedere.
Roma e non Latina o Taranto (foro del reato o dei presunti responsabili). Da
tutti questi tentativi, atti ad intimorire ed ad indurre alla tacitazione,
nessuna condanna è scaturita. Anzi, molti procedimenti penali sono rimasti nel
limbo, spesso fermi per anni per pretestuosi errori formali: insomma nel
dibattimento non si voleva che uscisse la verità o che si presentasse istanza di
ricusazione. La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha
aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di
15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi,
alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di
scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui
nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e
volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla
denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva
naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di
coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore
insabbiamento. L’Associazione Contro Tutte le Mafie, ai sensi degli artt. 21 e
118, comma 4, Cost., svolge attività di interesse generale e di utilità pubblica
di informazione, di denuncia e di proposta, sulla base del principio di
sussidiarietà. Nonostante ciò non percepisce alcun finanziamento, né affidamento
dei beni confiscati alla mafia, né alcuno spazio mediatico: solo perché non è di
sinistra. Tutte le Tv locali non offrono spazi nei loro programmi di
approfondimento, nonostante l’apporto di competenza e di audience. Tutte le tv
nazionali non si avvalgono degli spunti esclusivi sulle tematiche nazionali.
Ballarò di Rai tre, invia una troupe da Roma, per un servizio sui concorsi
truccati: servizio mai andato in onda. RAI 1 stravolge il palinsesto per
censurare lo spazio dedicato ad una associazione riconosciuta dal Ministero
dell’Interno e che combatte in prima linea tutte le mafie. 10 minuti, il
programma dell’accesso, previsto il 23 novembre 2007 alle 10.40, non è andato in
onda. Nessun avviso, o comunicato, o motivazione è pervenuto alla sede
dell'associazione, nè da parte della RAI, nè dalla Commissione di Vigilanza. Da
qui l'interrogazione parlamentare del senatore Giovanni Russo Spena, per
chiedere perché è stato censurato il servizio, ovvero perché si è inviata la
troupe da Roma per un servizio mai trasmesso, con aggravio di costi per
l’azienda RAI. Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme
all’ambiente colluso o codardo, non accetta di subire e di tacere".
D. - Il finanziamento dell’Associazione?
R. - "L'associazione è ONLUS. A differenza di tutte le altre associazioni, non
riceviamo finanziamenti da nessuno, né gli aderenti pagano alcunché. Le spese e
le attività sono tutte a carico del Presidente, pur nella sua indigenza, aiutato
dai suoi familiari. A suo carico sono anche le responsabilità per le cose
sacrosante che denuncia e che, per molti, devono essere sottaciute."
D. - Cosa chiede?
R. - "Ai media chiedo di aiutarmi a denunciare una realtà che ai più è
sconosciuta, alla politica chiedo l'adozione delle mie proposte di legge,
affinché si lasci una società migliore ai nostri figli, ai magistrati chiedo di
essere giusti ed equi, rispettosi dei cittadini e della legge, senza impunità
per nessuno."
D. - Quanto costa, a livello personale, non tacere su tutti i torti e le
ingiustizie? E da dove nasce questa sua determinazione, nonostante il prezzo che
si presume stia pagando per questa scelta?
R. - “Vivere in un ambiente dove tutti non vedono, non sentono, non parlano
delle ingiustizie, che ci sono, ma che non vengono conosciute, significa essere
emarginato ed essere accusato di devianza dalla conformità imperante. A livello
personale costa l’essere indicato come mitomane o calunniatore pazzo, da parte
di chi combatto e da parte di chi non conosce me e la mia attività. Costa
l’essere impedito alla professione forense che si merito di svolgere, o costa
l’essere perseguito per reati inesistenti, con impedimento alla difesa, sol
perché si combattono i poteri forti. Costa l’essere ignorato dalla maggior parte
dei media salentini, quando molti direttori di testate giornalistiche in tutta
Italia hanno aderito alla mia associazione e la sostengono dandole la visibilità
che si merita. Molti mi dicono perché lo faccio e perché non mi disinteresso
delle vittime delle ingiustizie, che spesso sono irriconoscenti. In questo modo,
guadagnandoci. Tra le mie inchieste, ho provato, tra le altre cose, che tutti i
concorsi pubblici sono truccati o truccabili, che in carcere ci stanno i
presunti innocenti e che in Italia vi sono stati 4,5 milioni di errori
giudiziari. Io rispondo che lo faccio per i miei figli. Mio figlio con 2 lauree
a 22 anni non deve chiedere la raccomandazione per vincere un concorso pubblico
e chi è innocente deve esserlo fino a sentenza definitiva, previo giusto
processo, che oggi, attraverso gli intrecci perversi tra avvocatura e
magistratura non è assicurato. Per questo ho fondato l’Associazione Contro Tutte
le Mafie, iscritta presso la Prefettura di Taranto: per informare i cittadini,
con fatti provati ed incontestabili, che questa Italia è alla rovescia. Ognuno
fa ciò che vuole, con l’aggravante dell’impunità.”
D. – Perché lo fa?
R.- A chi mi chiede perché lo faccio, io rispondo: « Ognuno pensa che le
disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche
noi. Sono il virus della verità che infetta le coscienze. Verità nascoste o
dimenticate che rappresentano un'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di
potere composto da caste, lobby, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e
deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione
nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio,
mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il
rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla
forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte
e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In
questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità
o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e
dei cittadini per codardia o emulazione. Chi si ribella come me ad uno stato di
cose, in cui il vincente è destinato ad esserlo ancora di più ed il perdente è
condannato ad esserlo ancora di più, è emarginato, condannato, affamato o
ucciso. Non è sbagliato quello che dico, ma è sbagliato il posto in cui lo dico.
Purtroppo qualcuno lo deve fare, perché il male vince dove il bene rinuncia a
combattere. Solo i combattenti le battaglie giuste in una esistenza utile
prestata ad aiutare gli altri, diventano eroi. Se soccombono sono Martiri. In
una moltitudine di esistenze omologate, colluse o codarde, fotocopia di un
modello comune imposto dal potere mediatico genuflesso a quello politico ed
economico, il martirio rende immortali e indimenticati ».
D. - Ma chi è realmente la mafia? Solo chi è prepotente? O anche chi è potente?
Oppure ancora per mafia deve intendersi anche chi, col silenzio o a causa del
timore, potrebbe finire per essere in un certo senso colluso?
R. - "La mafia non è una entità astratta da usare a fini politici. Cominciamo a
combattere il mafioso della porta accanto, quello con il colletto bianco, e non
solo il bombarolo, esecutore dei suoi ordini. L’art. 416 bis c.p. rileva che
mafiosi sono coloro che associandosi al fine di trarre vantaggio economico o
politico, con strumenti illegali attuano la sopraffazione e l’omertà. I Riina, i
Provenzano, ecc, sono personaggi che qualcuno ha ingrassato e protetto. Non
posso credere che in Italia, personaggi che non sanno scrivere e leggere,
possano agire indisturbati nel paese tra i più progrediti al mondo. L’estorsione
attuata dai soggetti privati o l’omissione o l’abuso di potere dei soggetti
pubblici attua la sopraffazione. I media codardi per paura delle ritorsioni,
spesso collusi con questo sistema, attuano l’omertà. Il Presidente Forgione
della commissione antimafia e l’alto Commissario Antimafia accusano le banche di
essere il collettore delle attività di mafia ed usura. A Catanzaro sono stati
promossi il 99% dei candidati agli esami forensi con il Commissario d’esame che
dettava la prova scritta. Tutto è rimasto impunito perché i commissari d’esame
erano magistrati, avvocati e professori universitari. Da sempre si diventa
avvocati con i concorsi truccati, poi si scandalizzano dei test truccati a Bari.
Di questo nessuno ne parla, perché tutti i giornali sono sovvenzionati da
contributi pubblici elargiti dai politici, che rappresentano le lobby in
Parlamento, compresa la lobby bancaria. giudiziaria e forense. A Taranto nessuno
parla delle interrogazioni parlamentari presentate circa l’operato della
magistratura in quella città, o come sia potuto succedere che si faccia fallire
una città, avendo dato il tempo per farlo.”
D. - Ma lo Stato combatte veramente la mafia?
R. - “No, altrimenti dovrebbe rivolgere l'attenzione sui propri apparati.
Pensate veramente che lo Stato non sappia acciuffare uno o più criminali, la
maggior parte di loro semi analfabeti ? E' troppo facile fare la lotta alla
mafia come lotta di parte o di facciata. Basta accusare l'avversario politico di
essere mafioso, per prendere il potere. Ma questo cosa centra con usura ed
estorsione? La cultura socio-mafiosa è insita nelle organizzazioni criminali,
come lo è in certi apparati istituzionali o politici, come lo è nella società
civile. Le istituzioni inefficienti e i media, loro servi, accusano i cittadini
di essere omertosi. Nessuno si chiede qual'è il grado di legalità che vige nel
paese o il grado di fiducia che i cittadini hanno nei confronti dello Stato. Non
basta pretendere rispetto, bisogna meritarlo".
D. - Nei nostri piccoli comuni, crea più fastidi la mafia o chi combatte la
mafia?
R. - “Nei piccoli comuni, come nei grandi centri vi è un agglomerato di
interessi politici ed economici, che non vanno assolutamente toccati. Chi ne fa
parte usa ogni mezzo per tutelare il sistema, spesso con l’illegalità e la
violenza. Chi rimane fuori cerca di denunciarlo al mondo, ma rimane inascoltato
ed emarginato. Ignorato da tutte le istituzioni e da tutte le forze politiche.
Si combatte contro un muro di gomma.
D. - In questi anni in cui ha fondato l'associazione, quali sono state le
soddisfazioni più grandi che ha avuto?
R. - “Nel mio paese e nel suo circondario sono rimasto il personaggio anonimo ed
insignificante di sempre, invece: alla mia associazione hanno aderito
magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc, molti di questi
con fama e notorietà; alla sede dell’associazione vengono da tutte le parti
d’Italia per chiedere assistenza e consulenza, che nella loro città non hanno
potuto trovare; in moltissimi portali nazionali ed internazionali di
informazione on line o cartacea parlano della mia associazione e pubblicano i
miei articoli; molte radio e televisioni da tutta Italia mi chiedono di
pubblicare gli spot dell'associazione o mi chiedono interviste telefoniche o
interventi in studio. Addirittura il Comitato Parlamentare di Vigilanza sulla
Rai ha autorizzato uno spazio speciale per l’ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE
MAFIE”; molti Istituti scolastici mi invitano per incontrare gli studenti per
parlare di legalità; l’Alto Commissario del Governo per la lotta alla Mafia mi
invita alla conferenza interregionale dei Prefetti del sud Italia. In definitiva
posso dire, meglio vivere un giorno da leoni che cento da pecora, specie se per
una giusta causa. Possono sopprimermi fisicamente o moralmente, ma la mia
esistenza lascerà comunque traccia, avendo inculcato il principio che,
ribellarsi alle ingiustizie, si può, stante le ritorsioni che provocano pari
onore.”
CAMPAGNA PER LA LEGALITA' E LA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO
TELE WEB ITALIA, la web tv dell'Associazione Contro Tutte le Mafie è vista in
tutto il mondo e i suoi filmati sono visibili a tutte le ore.
TW ITALIA promuove il territorio e la sua comunità per la legalità e lo sviluppo
economico. Ogni città o paese ha la sua pagina, in cui vi sono i video di enti
pubblici, associazioni, aziende e cittadini attivi.
L'impresa che non paga il "pizzo" presenta la propria azienda.
I sindaci, gli enti pubblici e le associazioni che si dissociano dalla cultura
socio mafiosa, presentano la loro attività, il loro territorio e gli eventi più
importanti.
Gli istituti scolastici presentano i loro indirizzi e i loro programmi di studio
e i loro sbocchi professionali.
Le società sportive presentano le loro squadre.
I cittadini attivi denunciano disservizi e sprechi.
Il servizio è gratuito, basta aderire all'associazione; filmare o fotografare i
luoghi o gli eventi e montarli in un video; pubblicare il filmato su you tube o
similare, comunicare il codice di riproduzione.
A norma di legge della Privacy, del diritto d'autore e del codice penale, il
filmato deve contenere contatti e dati identificativi dell'ente o azienda;
contenere come sottofondo midi scaricabili; non deve proferire frasi
diffamatorie; le immagini delle persone devono essere autorizzate al trattamento
e sono vietate le immagini dei minori.
Il video sarà riportato sulla pagina territoriale della web tv, nell'apposita
sezione, sino al termine dell'adesione, valida fino al 31 dicembre.
Le emittenti tv possono convenzionarsi ed usare gli spot delle aziende
reclamizzate, che aderiscono al progetto, per farle conoscere al di là del loro
raggio di trasmissione.
L'adesione comporta la compilazione del modello e il versamento della quota
associativa.
Per info visionare www.telewebitalia.eu
Un sito web di promozione turistica dell’Italia.
Serve un sito internet all’altezza dell’Italia, scrive Gian Antonio Stella su
“Il Corriere della Sera”. Antonio Giangrande: il sito web c’è
www.telewebitalia.eu , oltretutto senza oneri per lo Stato, ma tutti lo
ignorano.
Secondo il giornalista del Corriere cinque mesi abbondanti non sono bastati alla
squadra del ministro del Turismo, Piero Gnudi, per rimuovere certe macerie del
sito «italia.it», il portale da tempo immemorabile messo in cantiere prima dal
governo Berlusconi, poi dal governo Prodi (memorabile lo spot in
english-romanesco di Francesco Rutelli di invito agli stranieri: «Pliz, vizit
Italy»), poi ancora dal nuovo governo Berlusconi e da Michela Vittoria
Brambilla. La quale, dopo avere cambiato il logo scelto dal predecessore perché
le pareva un errore la forma della «t» di Italia (titolo del Giornale : «La
Brambilla cancella il "cetriolo" di Rutelli») aveva portato a compimento il
faticosissimo cammino del sito web, costato ai vari governi nel complesso
l'enormità di 35.451.355 euro, con alcune scelte contestate. Basti ricordare la
home page della versione cinese dove spiccavano le foto prese col copia-incolla
dal sito cinese dell'Emilia Romagna con il risultato che pareva che non solo la
capitale fosse Bologna (con tanto di mappa con le freccette e di panoramica
della città) ma che l'intero nostro Paese fosse riassumibile così: parmigiano,
prosciutto, Ferrari e Ducati. Una «svista» che, dopo le pubbliche denunce, è
stata rimossa. «Per favore - dice Stella - vista l'importanza di Internet per il
turismo (il solo sito TripAdvisor ha 35 milioni di recensioni e 29 milioni di
visitatori al mese ) potremmo una buona volta metterci una pezza?»
«Basterebbe – risponde Antonio Giangrande, autore della collana editoriale
“L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” con 40 libri all’attivo, e presidente
di Tele Web Italia – non essere altamente autoreferenziali e prestare maggiore
attenzione a ciò che vi è sul web e che non sia a se stessi o al sistema di
potere riconducibile. Essere slegati dal sistema editoriale od istituzionale,
con oneri per lo Stato, non vuol dire non produrre prodotti di alta qualità. Il
nostro portale turistico ha ampi consensi e visite da tutto il mondo. In Italia
per essere credibile e pubblicizzato devi per forza allattare dalle mammelle
statali».
LA IRRESPONSABILITA' DEI MAGISTRATI.
Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore
commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e
quando la responsabilità è acclamata.
Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o
colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non
vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti
vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato
sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato,
ossia noi cittadini.
Scherzi della politica e dell’informazione. Fanno apparire un cataclisma, quello
che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si
cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente:
nonostante lodi e progetti di legge, non si muove foglia. Ogni tentativo va a
sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che
hanno il comune obiettivo di abbattere il nemico politico. Toccare i giudici è
considerato un attentato alla Costituzione. Insomma nulla è cambiato confronto a
prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che,
con la statuizione vivente, mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori.
Basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423
milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi
illegittimi, oltre che per errori giudiziari.
Responsabilità dei magistrati: solo 4 condanne - «Dal 1988 ad oggi, su 400 cause
avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici - ha spiegato Enrico
Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre
i casi di dolo e colpa grave - Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state
dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono
l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma
di queste 16 sono pendenti e 14 respinte».
Qualcuno dice, va bè, ma lo Stato poi si rifà sul responsabile fino ad un terzo
del suo stipendio.
Bene. Bisogna sapere che oggi per un magistrato la vita e la reputazione di una
persona vale la stipula di una polizza assicurativa. E basta poco a tacitare le
coscienze.
Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di
Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere
le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10
di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel
periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data
del versamento.
I magistrati, specie di sinistra, si ribellano alla norma votata alla Camera:
“attentato alla Costituzione!!!”
E c’è qualcuno di loro, noti rappresentanti della categoria che, intervistati,
hanno il coraggio di dire: “è in contrasto con la normativa europea e la
Costituzione Italiana” (Giuseppe Cascini, segretario ANM); ovvero “è difficile
rispondere a chi non sa nemmeno di cosa si sta parlando” (Luca Palamara,
presidente ANM).
A questi risponde il dr Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana
editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: «La sentenza 13 giugno 2006 della
grande sezione della Corte di Giustizia del Lussemburgo afferma che la Legge
117/88 viola i principi dell’Ordinamento Comunitario nella parte in cui la norma
limita arbitrariamente l’ambito della responsabilità civile dei Magistrati. Il
diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza
di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del
giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della
responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi (semplice colpa) in
cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto.»
I Magistrati dovrebbero solo applicare la legge, e dai risultati che appaiono
sotto gli occhi di tutti spesso non ci riescono, ma questi vorrebbero anche
emanarla.
E questo sì che è un attentato alla Costituzione!!!
ITALIA, GIURISPRUDENZA ILLOGICA E DANNOSA.
In Italia la giurisprudenza domestica legittima l’ingiustizia e la corruzione.
E' stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea
dei Diritti Umani per la violazione alle norme della Convenzione per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ed è stata
inoltrata la denuncia presso la Commissione dell’Unione Europea e la petizione
presso il Parlamento Europeo per infrazione al Trattato e attivazione presso la
Corte di giustizia dell’Unione Europea di condanna dell’Italia per
inadempimento.
In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni
istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la
motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana –
rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo
sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave
inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica
mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla
sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i
suoi giudizi.
Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997,
n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della
rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare
applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo
una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale -
inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio
della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con
il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione
del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice
-, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede
giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione
dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni
giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo
complesso".
Per quanto riguarda la Ricusazione: « Evidenziato che non può costituire motivo
di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del
ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei
confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile
solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla
iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V
10/01/2007, n. 8429).
In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa
della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la
denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire
calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione. Per la Cassazione
per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della
denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la
Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi
per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da
tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si
parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica
nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.
Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi
pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui
dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità e buon andamento
(efficienza).
La Corte Costituzionale: sentenza 8 giugno 2011, n. 175 in riferimento al
concorso pubblico di avvocato: “Il voto numerico è una motivazione sintetica e
costituisce legittima tecnica di motivazione delle motivazioni amministrative”.
Con la sua sentenza essa legittima ogni arbitrario comportamento delle
commissioni d’esame di avvocato, violando il diritto del candidato che vuol
conoscere il motivo per cui è stato bocciato. Commissioni già sfiduciate dalla
legge 180/2003, che ha cacciato i consiglieri dell’ordine dalle commissioni e
manda in giro gli elaborati per non farli correggere dai magistrati locali.
La Corte Costituzionale impedisce al candidato di conoscere l’errore per non
reiterarlo, o se il giudizio è infondato nega al candidato il diritto di
rivolgersi alla giustizia amministrativa. Allo stato dei fatti su dei testi non
corretti, ma dichiarati tali in pochi secondi, si legittima un voto non
sostenuto da segni o glosse a supporto del voto medesimo.
La sentenza della Corte Costituzionale autorizza ogni forma di ritorsione o di
favoritismo: insomma di corruttela. Non vi è più controllo sulle commissioni
d’esame. L’arbitrio sarà il principio che guiderà un comportamento non più
soggetto a sindacato.
Questa di cui si tratta non è questione da poco, tanto da restarne indifferenti.
Ogni cittadino è sguarnito di tutela di fronte ad un magistrato astioso e
vendicativo o in presenza di una commissione dedita a truccare un concorso
pubblico. Non è questione da poco se proprio le magistrature giudiziarie ed
amministrative devono dare conto del loro operato, tenuto conto che sono
investite da scandali per la cooptazione irregolare dei loro componenti.
LA SITUAZIONE ITALIANA. L’ITALIA DEL TRUCCO: L’ITALIA CHE SIAMO.
L’Associazione Contro Tutte le Mafie, nell’ambito della sua attività statutaria,
intenta a dimostrare che in Italia nulla funziona, ha portato avanti inchieste
ed approfondimenti, basandosi solo su un reportage di articoli di stampa
pubblicati nel tempo e nello spazio, riconducibili ad autori citati, preparati e
coraggiosi, a cui va il nostro riconoscimento di verità. Da questo studio
d’insieme si delinea e si rileva un quadro desolante per tutta l’Italia e tutti
gli Italiani, ancorché le istituzioni e i media cerchino di tacitare una verità
scottante, dove finanche la magistratura è arrivata a sequestrare il sito
dell’associazione, al fine di oscurarne la realtà.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro che non c’è, e non
sulla libertà, che tutti declamano, ma nessuno ha il coraggio di
costituzionalizzare nei principi.
L’Italia è sfiduciata nelle Istituzioni, sfilacciata, mal governata; una
mucillaggine sociale e una poltiglia di massa rassegnata all’inezia e che
inclina verso il peggio, che si uccide e si ferisce nei festeggiamenti di
capodanno.
Insomma: un caos organizzato.
L’Italia dove non c’è libertà di stampa e di parola. I media appartengono ad una
casta foraggiata dallo Stato e dai partiti politici; con emolumenti
stratosferici, sottoposti a dipendenza e servilismo, nepotismo e clientelismo. I
giornalisti sono precari, censurati ed intimiditi dal potere politico e
giudiziario. I media, oltre a fare processi mediatici, non raccontano fatti, ma
li creano, imponendo opinioni, spesso faziose.
L’Italia dove i servizi pubblici sono indecenti: emergenza idrica; posta ferma
nei depositi; rifiuti ammassati e bruciati per le strade; telefonia in monopolio
mal funzionante ed intercettata; ferrovie nel caos, con passeggeri abbandonati o
congelati, con treni affollati, sporchi, con legionella, pulci, cimici e zecche.
L’Italia dove non c’è giustizia: con abusi nelle carceri pieni di gente
indigente e presunta innocente; con meno carceri per i reati più gravi; con 4
milioni di vittime di errori giudiziari.
L’Italia dove in un solo anno il 31% dei reati non è denunciato. Alle denunce,
quando presentate, consegue l'85 % di archiviazione, il 10,73 % di
proscioglimenti e solo il 4,27 % di condanne. Dove sono confermate solo il 54,67
% di richieste misure cautelari personali.
L’Italia dove c’è illegalità e malagiustizia; con 10.000 richieste annue di equa
riparazione per violazione del termine ragionevole del processo; dove si spara
nei tribunali o dove gli avvocati sono stressati.
L’Italia dove il fallimento di aziende sane è una fabbrica del reddito per gli
operatori della giustizia.
L’Italia dove è impedita la difesa e l’accesso al gratuito patrocinio.
L'Italia dove le denunce penali non sono iscritte nel registro generale, o dove
gli atti sono notificati a paperino o a topolino.
L'Italia dove si è costretti a ricorrere alla Corte Europea dei Diritti Umani
per l'insabbiamento di 16.000 denunce e ricorsi amministrativi, presentate da
una singola associazione contro lobby, caste e poteri forti.
L’Italia dove tutti sono responsabili per le loro azioni, meno che i magistrati:
casta impunita, ai quali il peggio che li può capitare è il trasferimento di
ufficio per incompatibilità ambientale.
L’Italia dove è norma insabbiare i procedimenti penali contro gli stessi
colleghi magistrati e i poteri forti e, nonostante tutto ciò, vi sia una marea
di magistrati inquisiti.
L’Italia dove la magistratura è una casta con privilegi e segreti; definita come
una lobby mafiosa, sovversiva ed eversiva, che influisce sul potere esecutivo e
legislativo.
L’Italia dove vige l’impunità per i parlamentari, i magistrati, i commissari
d’esame dei concorsi truccati; i funzionari pubblici non sono licenziati, pur
condannati per gravi delitti.
L’Italia dove gli avvocati e i notai non sono stinchi di santo, abusando del
loro status.
L’Italia dove la stessa magistratura, per la pseudo lotta alla mafia: usa
l’incompatibilità ambientale per i magistrati scomodi o le lotte di potere per
le carriere; o lincia Giovanni Falcone e Agostino Cordoba; o processa Sergio De
Caprio, il Capitano Ultimo che arrestò Riina; o non confisca i beni sequestrati
alla mafia.
L’Italia dove le indagini sulla massoneria e sulle stragi sono bloccate.
L’Italia dove risulta essere governata da politici drogati, ignoranti,
pregiudicati, falsi, voltagabbana, puttanieri e mafiosi, assenteisti e costosi
per la comunità.
L’Italia dove ci sono sprechi: aeroporti inutili, compagnie aeree e marittime
inutili e dannose; opere pubbliche incompiute; voli di Stato; auto blu; pensioni
faraoniche; privilegi faraonici ai parlamentari, ai magistrati, ai consiglieri
regionali, ai funzionari pubblici, ai professori universitari, ai giornali.
L’Italia dove si “regalano” le case pubbliche ai politici.
L’Italia dove tutti e sempre sono in conflitto di interessi.
L’Italia dove le elezioni sono truccate.
L’Italia dove amministrare la cosa pubblica significa cadere in tentazione e
delinquere.
L’Italia dove ci sono appalti pubblici truccati.
L’Italia dove gli impiegati pubblici sono malati, assenteisti e improduttivi.
L’Italia dove i militari sono condannati per tangenti, o segretano le morti per
l’uranio impoverito o il vaccino.
L’Italia dove la polizia, l’arma dei carabinieri, la guardia di finanza sono
accusati di violenza o altri reati, facendo fare i lavori sporchi ai vigilantes,
considerati polizia di serie B.
L’Italia dove si elevano sanzioni amministrative truffa.
L’Italia dove ci sono collaudi falsi dei veicoli.
L’Italia dove ci sono abusi edilizi ed inquinamento atmosferico, inquinamento
delle acque, inquinamento ambientale, inquinamento acustico.
L’Italia dove ci sono gli incendi boschivi redditizi.
L'Italia dove gli allievi sono più bravi degli insegnanti.
L’Italia dove per trovare lavoro ti devi asservire e far raccomandare, dove è
inconsistente il collocamento pubblico o privato, se non per creare precariato.
L’Italia dove i sindacati sono un’altra casta, con poteri e privilegi.
L’Italia dove c’è sfruttamento dei lavoratori, addirittura sfruttamento a danno
dei giudici onorari, dei giudici di pace, degli assistenti parlamentari, dei
medici specializzandi, dei praticanti avvocato, dei giornalisti.
L’Italia dove c’è il mobbing nelle istituzioni.
L’Italia dove non c’è tutela della salute dei lavoratori e prevenzione degli
infortuni.
L’Italia dove sono truccati gli esami scolastici e delle patenti, oltre che i
test di ammissione alle università.
L’Italia dove tutti occupano un posto di responsabilità che non merita, in
quanto sono truccati tutti i concorsi pubblici, compresi quelli forensi,
giudiziari, accademici, notarili, giornalistici, sanitari, televisivi, inps,
postali, scolastici, sportivi, canterini; negli enti locali i concorsi sono
truccati, o sono concorsi senza concorso, o sono concorsi a sorteggio, o sono
concorsi parentali.
L’Italia dove ci sono compagnie assicurative riunite in cartello, rincari RCA
ingiustificati e inadempienze risarcitorie, sinistri truffa e avvocati con
magistrati collusi tra di loro, che assicurano il risarcimento.
L’Italia dove ci sono truffe bancarie, le mani della giustizia sui banchieri e
la piovra delle banche sulla giustizia, le banche come la più grande rete di
connivenza con la mafia, l’usura bancaria.
L’Italia dove tutti evadono le tasse, o ci sono le cartelle pazze per tributi
non dovuti.
L’Italia dove c’è il caro prezzi ingiustificato.
L’Italia dove c’è lo sciopero selvaggio, senza rispetto e tutela dei diritti
altrui.
L’Italia dove ci sono i falsi invalidi e le barriere architettoniche.
L’Italia dove gli stranieri clandestini emulano gli italiani.
L’Italia dove i padri separati rivogliono i loro figli.
L’Italia dove di pedofilia non si parla o si sparla.
L’Italia dove la politica crea clientelismo nella sanità e, per gli effetti,
crea malasanità.
L’Italia dove, addirittura, lo sport e insito di dubbi sulla sua correttezza e
lealtà.
Questa è l’Italia che siamo. Possiamo anche nascondercelo, ma non si può negare
l’evidenza.
FISCO E TASSE. ITALIA: RACKET DI STATO.
Concussione, Corruzione, Usura Bancaria, Finanziamento illecito ai partiti,
Nepotismo e clientelismo, Tassazione eccezionale……Il tutto per mantenere lor
signori: il “potere” infedele ed inefficiente. Non paghi le tasse? Loro ti
tolgono la vita!
Il bilancio lo danno le imprese che falliscono e gli imprenditori che si tolgono
la vita (già 26 da gennaio a marzo dell’anno 2012 secondo la Cgia di Mestre).
Italia: una Repubblica fondata sulle tasse.
«Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti. Con i servizi» e «Chi vive a
spese degli altri, danneggia tutti» (spot tv del fisco: tasse e servizi pubblici
ed il parassita)». Questa è la campagna organizzata dalla Agenzia delle Entrate
e dal Ministero dell’Economia contro l’evasione fiscale.
Il primo spot è “Stop a chi vive a spese d’altri”. Il primo spot dal titolo
«Se», è un’animazione in motion graphic e spiega (a qualche cittadino distratto)
l’utilizzo del denaro ricavato dalle tasse: a produrre servizi pubblici, dagli
ospedali alle scuole, dalle strade ai parchi, ai trasporti. Ma tutto ciò può
avvenire se a pagare le tasse sono tutti. La headline è: «Se tutti pagano le
tasse, le tasse ripagano tutti. Con i servizi».
Il secondo spot è “Chi evade le tasse è un parassita sociale”. Il secondo spot,
ancora più asciutto e didascalico del primo, mostra una serie di slide con
immagini di parassiti in natura, mostrando alla fine un volto di un uomo:
l’evasore fiscale come parassita della società, che succhia energie, soldi,
risorse e accesso ai servizi pubblici a tutta la collettività, senza contribuire
al suo sostentamento.
Alla luce degli ultimi eventi, accaduti in questi ultimi mesi, il dr. Antonio
Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie si
chiede se sia proprio il caso di presentare anche questi spot da parte
dell’Agenzia delle Entrate. Sembra una presa in giro. Se qualcuno non paga le
imposte sui redditi, comunque dall’iva, dalle accise, dalle tasse specifiche,
dai contributi previdenziali non si scappa. E comunque gli accertamenti, di cui
più della metà all’esame dei ricorsi alle commissioni tributarie risultano
infondati, non bastano? Gli italiani oltre al luogo comune di essere mafiosi,
devono subire l’onta ed il sospetto di essere anche evasori fiscali? Gli
“scienziati” al parlamento perché non prevedono l’assoluta deduzione delle spese
dai redditi da parte dei cittadini. In questo modo la fattura è un interesse
personale chiederla e si incentivano i consumi e quindi la produzione.
Già. Però c'è tanto da ridire. Da “Fai Notizia” di Radio Radicale una scottante
verità. Più di 800 dei dirigenti dell’ente pubblico che vigila contro l’evasione
fiscale di cittadini, imprese, partiti ed enti in tutta Italia, è stata scelta
in maniera discrezionale, senza criteri di trasparenza. Inoltre la sanguisuga
Statale, che con il suo vampirismo ha prosciugato il sangue degli italiani,
nulla fa per giustificare l’eccezionale prelievo. Perché l’Italia oltre ad
essere una repubblica fondata sulle tasse è anche fondata sui disservizi, oltre
che sull’ingiustizia.
La domanda è: che fine fa l’oceano di soldi che gli italiani versano in quel
pozzo che sembra essere senza fondo?
La giustizia allo sfascio, ma questo è risaputo. La sanità allo sfascio, ma
questo è risaputo. Ecc., ecc., ecc.. Insomma non funziona niente, ma tutti sono
sovvenzionati. Qualche esempio.
La Provincia di Taranto, Adiconsum e Federconsumatori hanno deciso di avviare
una 'class action' contro Trenitalia per l'eliminazione di numerosi collegamenti
a lunga percorrenza e notturni da e per Taranto.
Ancora in provincia di Taranto, a Manduria. L’associazione “Pro Specchiarica”
promuove una “Class Action” contro il Comune di Manduria per l’abbandono della
sua marina orientale. Un’azione civile di risarcimento per danno di immagine e
svalutazione della proprietà, oltre che per danno esistenziale dovuto al degrado
ed all’abbandono cinquantennale, in aggiunta alle privazioni subite per omesso
investimento di opere primarie e secondarie in zona densamente edificata.
Abbandono, degrado e disservizi nonostante milioni di euro incassati da Manduria
in un territorio dove ci sono pochi manduriani. Milioni di euro incassati tra
oneri concessori, ici, addizionale irpef, tarsu, quota enel, ecc. Il tutto con
destinazione vincolata, ma impiegati altrove e per altri scopi.
Ed ancora. Uffici postali in tilt, code e rabbia in tutta Italia. Lunedì 16
aprile 2012 ancora una volta negli uffici postali di tutta Italia si sono create
lunghe code, tra rabbia e sconforto dei cittadini arrivati per pagare bollette e
fare operazioni sul conto. Il blocco informatico deriva da un problema di
connessione al server centrale. "I computer sono in tilt, non riusciamo a fare
operazioni", spiegano i dipendenti dietro allo sportello. Qualche sede locale ha
messo cartelli per informare i clienti del problema, ma qualcuno prova comunque
ad aspettare, e magari si fa pure il giro di più uffici. Da Roma hanno spiegato
agli addetti che il blocco potrebbe essere risolto nel giro di poco tempo. E lì
gli utenti speranzosi sin dal mattino ad aspettare, con i dipendenti che
consigliavano ai clienti di tornare più tardi Alle 13.30 negli uffici postali
italiani era ancora tutto bloccato. Connessioni ripristinate pian piano dalle
15. «Per l'ennesima volta tutti gli uffici postali d'Italia sono in tilt per il
blocco del sistema operativo informatico.- Lo afferma in una nota alla
stampa Mario Petitto, Segretario Generale Cisl-Poste. -Oggi - continua Petitto-
gli uffici postali sono pieni di pensionati Inpdap che non riescono a riscuotere
la pensione e di cittadini che non riescono ad effettuare alcuna operazione
finanziaria agli sportelli. Come sempre in queste occasioni la tensione negli
uffici postali è alta ed a farne le spese sono gli incolpevoli lavoratori che
non riescono a far fronte alle proteste dei cittadini -, osserva il
sindacalista, che aggiunge - ormai le nostre denunce si sprecano ed il silenzio
perdurante del management di Poste diventa sospetto. Ci appelliamo pubblicamente
al ministro vigilante se non ritiene di fare luce sui perenni disservizi di una
Azienda pubblica che eroga servizi pubblici, e ci chiediamo come mai la
magistratura non sia ancora intervenuta a cercare di capire dove siano le
eventuali responsabilità della continua interruzione di pubblico servizio.
Chiediamo inoltre ai rappresentanti dei consumatori - conclude - di tutelare i
diritti degli utenti postali così come noi ci sforziamo di tutelare i diritti
dei lavoratori che in queste circostanze sono il parafulmine di responsabilità
altrui.» Naturalmente il disservizio riguarda anche l’invio della posta e dei
pacchi. Non è la prima volta e, è facile immaginarlo, non sarà l'ultima. Per
l'ennesima volta, come denuncia la Cisl, tutti gli uffici postali d'Italia sono
in tilt per il blocco del sistema operativo informatico, e per l'ennesima volta,
quindi, questi disservizi finiscono per creare disagi che si allargano a macchia
d'olio su tutto il territorio italiano. Il management di Poste italiane, come
sempre in questi casi, rimane in silenzio, al contrario degli utenti, costretti
a lunghe (e spesso inutili) code e ai pensionati che non riescono a ritirare la
propria pensione o ai cittadini che devono inviare lettere e pacchi o fare
operazioni finanziarie. Utenti che si ritrovano a protestare contro i lavoratori
degli uffici postali. Utenti che hanno perso un’intera giornata per nulla.
Rimane, di questa grottesca storia dal sapore troppo antico, il succo, che
purtroppo è un succo serissimo, invece, e terribilmente amaro, la triste vicenda
di un'azienda pubblica che troppo spesso non sa o non riesce ad erogare un
servizio pubblico. Essa come tante altre. “Ed io pago….” è la celebre frase di
Totò, spesso ripresa da Striscia la Notizia.
5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI
Il trucco del 5x1000: beneficio, ma non per tutti.
Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 aprile 2010 si è
previsto per il 2010 la possibilità per i contribuenti di destinare una quota
pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale. Associazioni ed
enti pronti a rimpinguare le loro misere casse con l'adesione di cittadini
seguaci delle loro attività. Sarebbe bello se non fosse tutto un trucco, così
come ha constatato l'Associazione Contro Tutte le Mafie, che avrebbe investito
quei contributi nei suoi siti web: d'inchiesta. L’Agenzia delle Entrate ha
imposto la presentazione delle richieste di ammissione al beneficio entro il 7
maggio 2010 e solo in forma telematica, nei modi e nelle forme previste
dall’ufficio. Per farlo vi è l’obbligo dell’abilitazione ai servizi telematici.
Dal 23 aprile al 7 maggio ci sono 14 giorni, di cui solo 10 lavorativi.
In questi 10 giorni, molti richiedenti hanno provato ad inoltrare la richiesta,
ma il sistema non ha riconosciuto la password e il pincode dell’anno precedente.
I contatti telefonici con l’agenzia (a pagamento) sono stati impediti dalla
lunga lista d’attesa, (fino a 70 contribuenti).
La richiesta del nuovo pincode e password è rimasta disattesa nei termini, se
non riceverla dopo 12 giorni dall’istanza. Le comunicazioni dell’Agenzia delle
Entrate non hanno alcuna data, per cui inutile contestare il ritardo, non avendo
prova, né te la fornisce il servizio postale, che interpellato sull’apposizione
della data di ricezione, ti dice: “noi non mettiamo alcuna data, altrimenti i
ritardi dell’Agenzia delle Entrate ricadono su di noi”. In questo modo gli enti
pubblici fanno ricadere le colpe sui contribuenti, che non possono provare il
disservizio.
Comunque, se pur in palese ritardo, la richiesta del beneficio non si può
inoltrare, in quanto avere il pincode e la password non basta. Dopo tutto il
casino, nel momento in cui attivi i servizi telematici, ti comunicano sul
portale web dell’Agenzia che bisogna rivolgersi ad un incaricato terzo abilitato
(a pagamento). Cosa che a saperla, si sarebbe potuta fare dall’inizio, senza
aver percorso tutta la trafila burocratica inutile.
Risultato: in tempi ristretti e per i disservizi dell’Agenzia delle Entrate non
tutti hanno potuto accedere al beneficio. Ed è solo una semplice istanza.
Il problema è che la prassi si ripete ogni anno e nessuno vi pone rimedio,
mentre i contribuenti ignari pensano di aver donato una quota di tasse alla loro
associazione, mentre i contributi, in realtà, vanno ad altri sodalizi.
Nonostante un'interrogazione Parlamentare nessun ristoro vi è stato per il
diritto leso.
Ma non è tutto. Il dr Antonio Giangrande, Presidente dell’Associazione Contro
Tutte le Mafie, fino a quando gli è stato permesso di esercitare la professione
forense, ha presentato presso il Giudice di Pace di Manduria una richiesta di
risarcimento danni a favore dei cittadini contro il Comune di Avetrana, in
quanto l’Ente li aveva diffamati ed arrecato danno economico per la tutela,
contestando loro l’evasione fiscale in cartelle di pagamento. Credito attestato
essere inesistente. Il giudice rigettò con sarcasmo la particolarità della
richiesta. Peccato che in altri fori molte associazioni dei consumatori hanno
ottenuto numerose condanne al risarcimento del danno esistenziale e personale
provocato ad alcuni cittadini vittime di cartelle pazze.
Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto.
L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv.
Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento
danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun
avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati
inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia
di euro liquidati in via equitativa.
La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii
di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il
sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo
amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la
effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano
l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie.
Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna,
recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto
subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato
comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e
i fondi insequestrabili.
Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a
firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i
cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti
lesi.
DISGUSTO SANITA’. IL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE: FONTE DI TUTTE LE MAFIE.
Ennesimo atto di denuncia contro il malaffare da parte del dr Antonio
Giangrande, ignorato e perseguitato presidente dell’Associazione Contro Tutte le
Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”.
“Non ci posso credere !!!!”, direbbe ognuno di noi, se avesse un minimo di
coscienza, parafrasando la celebre frase di Aldo, del celebre Trio comico Aldo
Giovanni e Giacomo, leggendo il dossier e vedendo i video pubblicati sul sito
controtuttelemafie.it.
“Non vorrei che la lotta alla mafia diventasse l’alibi per non denunciare il più
grave problema della Calabria, che non è la “ndrangheta, ma il malaffare che
governa la Regione”, dice Alberto Cisterna, sostituto procuratore nazionale
antimafia. Si dice Calabria, ma si intenda Italia.
Baronie e nepotismo sanitario sono le ultime nostre preoccupazioni.
Le competenze sono un refrain della cronaca sanitaria. Il più delle volte le
spiegazioni sono ineccepibili, i regolamenti inflessibili, non ci sono
comportamenti contrari alle gabbie dei protocolli. E’ uno stillicidio. Ci sono
mancati o ritardati interventi per incompetenza funzionale. Ci sono le opere
pubbliche incomplete per competenze frantumate.
L'elenco delle negligenze è impressionante. I laboratori restano più volte
incustoditi con i frigo e gli armadi aperti nonostante la presenza di sostanze
radioattive. I depositi di colture batteriche e virali di malattie infettive e
tropicali non hanno serratura: senza sorveglianza, il congelatore con le
provette a rischio contagio è sempre accessibile a chiunque. Per giorni nessuno
pulisce. Infermieri e portantini spesso fumano anche quando spingono gli infermi
su lettighe e carrozzelle. Ogni volta che salgono o scendono dalla rianimazione
o dal pronto soccorso o dalle sale operatorie, i ricoverati, anche quelli più
gravi, nudi sotto le lenzuola, intubati o con l'ossigeno, seguono lo stesso
percorso dell'immondizia. Finiscono così in mezzo ai sacchi neri e agli
scatoloni gialli ammassati nei sotterranei, o in coda ai carrelli della
rimozione. E quando gli addetti lavano con getti d'acqua i depositi dei rifiuti,
le ruote dei lettini si inzuppano di liquami e trascinano tutto lo sporco in
reparto. Verrebbe da sorridere se si pensa che, per legge, perfino le mozzarelle
di una pizzeria vanno tenute sempre lontane dalla spazzatura.
La competenza di professori e direttori si ferma al proprio reparto. La maggior
parte di loro non ha nemmeno il tempo di guardar fuori. Impegnati come sono a
dividere le giornate tra ospedale pubblico e cliniche private. Perché mai
dovrebbero battersi per il datore di lavoro che dà loro sì prestigio, ma con il
quale guadagnano meno? Dopo tutto, proprio queste condizioni favoriscono l'esodo
dei pazienti verso la sanità privata, o no? Fino a concepire l’obiezione di
coscienza all’aborto nelle sedi pubbliche, ma ad accettarlo di farlo in quelle
private.
Ogni anno in Italia la mancanza di igiene in corsia provoca un'ecatombe: tra i
4.500 e i 7 mila morti per infezioni prese durante il ricovero. Per altri 21
mila decessi le infezioni ospedaliere sono una concausa. I pazienti italiani che
si ammalano in ospedale oscillano tra i 450 mila e i 700 mila all'anno. E nel 30
per cento dei casi si tratta di contagi sicuramente evitabili. Sono stime molto
variabili di anno in anno, raccolte dall'Istituto superiore di sanità.
Ma a svelare la «malasanità» Regione per Regione è il dossier dei carabinieri
del Nas al termine dell’indagine ispettiva. Si scopre così che su 854 nosocomi
visitati ben 417 sono stati sanzionati. Disastrosa è la situazione del Sud con
la Calabria (36 irregolari su 39) e la Sicilia (67 su 81). Più che di ospedali,
in queste zone si potrebbe parlare di vere e proprie fogne a cielo aperto dove i
rifiuti si accatastano nei corridoi, dove c’è muffa e ruggine nelle stanze e nei
corridoi, dove gli impianti non sono a norma, le apparecchiature non funzionano,
i medici troppo spesso non vanno al lavoro.
A tutto questo si aggiunge una doppia denuncia su due fronti diversi, che rivela
ancora una volta lo stato preoccupante delle nostre strutture sanitarie:
malnutrizione e cartelle pazze.
Sei pazienti italiani su dieci vengono dimessi dall'ospedale in uno stato di
malnutrizione. Di questi, tre erano già così al momento dell'accettazione e gli
altri erano a rischio. Eppure basterebbero 15 minuti di attenzione in più entro
24 ore dal ricovero: il tempo necessario per uno screening nutrizionale.
Ma non basta. Perché gli ospedali sono diventati anche una miniera di troppi
errori nelle cartelle cliniche dei pazienti italiani. Sbagli di trascrizione e
scrittura illeggibile, anche solo semplici sviste possono portare a gravi
conseguenze.
Provocano più vittime degli incidenti stradali, dell'infarto e di molti tumori.
In Italia le cifre degli errori commessi dai medici o causati dalla cattiva
organizzazione dei servizi sanitari sono da bollettino di guerra: tra 14 mila
(secondo l'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri) e i 50 mila decessi
all'anno, secondo Assinform. Il che significa circa 80-90 morti al giorno (il
50% dei quali evitabile), 320 mila le persone danneggiate. E con costi pari
all'1% del pil: 10 miliardi di euro l'anno.
La sanità italiana spende ogni anno più di 500 milioni di euro solo per
assicurarsi contro il rischio di ferire o uccidere i pazienti. È una spesa fuori
controllo che ha l'effetto di una tassa occulta sulla salute dei cittadini:
almeno mille miliardi di vecchie lire che, a ogni scadenza di bilancio, si
trasformano in costi ospedalieri finanziati dallo Stato, finendo così per
gravare su tutti i contribuenti. A differenza dell'Irpef o dell'Ici, questa
imposta segreta sulla malasanità continua a salire a ritmi vertiginosi -
nell'ultimo decennio l'aumento medio è di oltre il 20 per cento ogni 12 mesi -
seguendo dinamiche inarrestabili: l'esborso finale è sempre variabile e
imprevedibile, perché corrisponde all'insieme dei risarcimenti liquidati in
migliaia di vertenze individuali. Oggi si contano circa 30 mila denunce all'anno
per vere o presunte colpe professionali di medici e infermieri o per disservizi
delle strutture sanitarie.
Roberto T. era un bambino di sei anni, sano e molto intelligente, quando è
diventato vittima di un orrore ospedaliero che ha convinto i giudici di Milano a
infliggere il più elevato risarcimento individuale documentabile negli ultimi
vent'anni. Ricoverato all'ospedale Buzzi per una semplice operazione alle
tonsille, il bimbo entra in coma e dopo tre giorni ne esce cieco, paralizzato e
con un deficit mentale del 90 per cento. La causa civile intentata dai suoi
disperati genitori ha fatto scuola, perché ha segnato uno spartiacque nella
valutazione delle prove scientifiche in un caso che sembra riassumere tutto
quello che non dovrebbe succedere in un paese civile. Per cominciare, i tempi.
L'intervento chirurgico (tonsillectomia) risale al 16 marzo 1989, la sentenza di
primo grado è del 21 febbraio 1997, quella d'appello del 6 novembre 2001, per
cui le condanne diventano definitive nel 2002: giustizia è fatta, ma dopo 13
anni. Secondo problema. Come in tutti i processi sanitari, di fatto a decidere
sono le perizie. Firmate da altri medici, cioè da colleghi degli imputati. Nelle
motivazioni si legge che il primo collegio di periti aveva escluso qualsiasi
responsabilità dei medici del Buzzi. Se nonché il giudice istruttore scopre
gravi lacune nel referto, s'infuria e nomina un secondo collegio, che invece
accerta "colpe evidenti" del primario e di altri tre dottori. In appello,
l'inevitabile terza perizia riconferma l'accusa ai quattro medici di non essersi
accorti neppure che il bambino sotto i ferri aveva "una vistosa emorragia
interna con perdita di mezzo litro di sangue", che gli ha bloccato la
respirazione. Tutti i periti sono d'accordo solo nel condannare il Buzzi,
l'ospedale dei neonati di Milano, che all'epoca "non aveva nemmeno una
rianimazione". Nel frattempo ai baroni innocentisti, benché smentiti dalle altre
due squadre di periti, non succede nulla: continuano a lavorare anche per i
tribunali, perché la medicina non è una scienza matematica.
Al di là delle deviazioni illegali, la malasanità è sicuramente diventata un
business per gli avvocati, fino a prova contraria lecito. Questo vale sia per i
risarcimenti del danno, sia per le ingiunzioni di pagamento alle ASL per le
fatture non pagate ai fornitori.
A tutto questo si aggiunge l'impedimento all'accesso alle cure: lunghe liste
d'attesa e insufficienti reparti di terapia intensiva. Le liste di attesa sono
da anni in preoccupante aumento e sono diventate ormai un muro fra i cittadini e
l'accesso alle cure per la salute. A fronte di questa situazione si rende
necessario (se non obbligatorio) dover ricorrere al privato e all'intramoenia,
dove i tempi si fanno notevolmente più brevi per l'erogazione della prestazione
rispetto al canale istituzionale. Questo fenomeno, che sa tanto di estorsione,
viene alimentato dalle prestazioni degli stessi medici, che da privati le
erogano, ma che da dipendenti pubblici, le impediscono.
Per sopravvivere nell'Italia che sta sotto Roma bisogna sempre sperare che
qualcun altro muoia. E prendere rapidamente il suo posto, prima che sia troppo
tardi. Altrimenti in ospedale non vi fanno entrare più: c'è il "tutto esaurito"
nei reparti di terapia intensiva sparsi per il nostro Sud.
È la Sanità pubblica corrotta ed inefficiente che ha "chiuso" anche per le
emergenze, pazienti trasportati come pacchi da città in città o posteggiati da
qualche parte in attesa di migliore sistemazione, ore e giorni di calvario
inseguendo la sorte tra riforme e tagli e quelli che gli esperti della materia
chiamano misteriosamente "riordini". Sempre molto incerta è la linea tra la vita
e la morte nella casba ospedaliera che è oggi l'altra Italia, specie nel
Meridione.
Liste di attesa dolorosissime, risse e denunce per accaparrarsi un respiratore
artificiale, i soliti carabinieri che accompagnano i malati più gravi per
piazzarli "in nome della legge" in qualche ospedale. Ma non c'è più possibilità
di finire "normalmente" in rianimazione.
A tutto ciò si aggiunge una ricerca truccata. La ricerca non la si fa, spesso la
si impedisce.
E’ opinione diffusa che dal cancro, qualunque terapia si adotti, difficilmente
si guarisce; gli scarsi risultati ottenuti dalla terapia ufficiale sulle
neoplasie, specialmente quelle diagnosticate già in fase avanzata, confortano
questa opinione e, purtroppo, la maggior parte delle diagnosi risulta tardiva.
Molti pazienti non se la sentono di affrontare gli effetti
devastanti sulla “qualità della vita” indotti dei trattamenti chemio e
radioterapici più praticati, i cui risultati finali spesso non sono
entusiasmanti ed anche questa è una realtà difficile da negare. Come pure
sono innegabili i traumi psicologici e le scomodità che derivano
dall’essere costretti a praticare gli ambulatori e gli ospedali. Oggetto di
contestazioni violentissime da parte della lobby dei medici, “La Cura Di Bella”
fu sperimentata sotto il ministro Rosi Bindi in modo approssimativo e scorretto,
fino a decretarne ingiustamente l'inefficacia. "Ingiustamente" perchè laddove la
terapia fu praticata con particolare attenzione alle prescrizioni del suo
proponente - il fisiologo Antonio Di Bella - spesso portò a risultati positivi,
che vennero volutamente e sistematicamente sottovalutati o peggio taciuti. In
moltissimi casi, invece, la cura Di Bella venne sperimentata scorrettamente,
senza alcuna attenzione al protocollo e alle più elementari garanzie
farmacologiche. Certo è che la terapia è stata osteggiata dalla lobby medica e
farmaceutica per motivi facilmente individuabili, mentre sarebbe opportuno che
venisse sperimentata e analizzata con rigore e senza pregiudizi.
Se ciò non bastasse ci si mette il racket dei decessi e delle ambulanze, oltre
alle solite truffe.
Truffe al Sistema sanitario nazionale sono state scoperte da nord a sud
dell’Italia. Si sono accertati migliaia di casi di pazienti morti che erano
ancora iscritti al Servizio Sanitario che quindi continuava a erogare compensi
mensili ai medici. Si trattava di persone morte da circa vent'anni in giù.
Cinque euro al mese. Questa la tariffa mensile che i medici di base ricevono per
ogni iscritto al Servizio sanitario nazionale.
I carabinieri del Nas di Cosenza hanno arrestato 70 falsi infermieri, impiegati
presso strutture pubbliche e private della Regione Calabria. Secondo quanto
accertato dagli investigatori, avrebbero acquistato da un'organizzazione
criminale falsi diplomi di "infermiere professionale" riuscendo così ad
inserirsi nel mondo del lavoro ospedaliero nonostante fossero del tutto privi di
conoscenze mediche. I finti infermieri erano spesso coinvolti anche in sala
operatoria e in altre delicate mansioni. Altri ancora avevano anche fatto
carriera diventando caposala.
Quarantanove infermieri in servizio nelle strutture ospedaliere della Asl 5
della Spezia sono stati denunciati dai carabinieri del Nas di Genova per
mancanza di iscrizione all’albo.
Non da meno sono gravi i casi scoperti in cui si i cittadini, fruitori di visite
ed esami clinici specialistici, hanno dichiarato il falso sulle
autocertificazioni, per essere esonerati al pagamento del ticket.
Anche quando non era Natale c'erano dei bei regali, viaggi, libri, computer,
impianti stereo, per quei medici che prescrivevano ai loro pazienti i farmaci di
quella nota casa farmaceutica invece di quelli delle aziende concorrenti. Troppi
regali, troppe ricette con quel marchio, hanno insospettito gli inquirenti, che
hanno incominciato ad indagare per "corruzione e comparaggio" quasi tremila
persone in molte regioni: oltre a medici ed informatori, farmacisti, operatori
sanitari, dirigenti di aziende, istituti ed enti ospedalieri.
La domanda che il cittadino si fa è questa: quanto ci costa tutta questa
inefficienza?
Cento miliardi l'anno. È il costo della salute in Italia. Una torta da spartire
per la politica. Tra nomine, appalti e rimborsi a privati. Un business che
sempre più spesso finisce nel mirino della magistratura.
La cronaca ci parla di Puglia, Abruzzo, Lombardia, Piemonte, Lazio, Calabria,
Campania, ecc.: da almeno 15 anni, decine di indagini giudiziarie documentano
migliaia di truffe, sprechi, clientelismi, favoritismi, disservizi, frodi
criminali, corruzioni e infiltrazioni mafiose. La salute degli italiani muove un
giro d'affari di oltre 100 miliardi di euro. Che molti vedono come una torta da
spartire. E i pm di Milano che indagano sulla Santa Rita e le altre "cliniche
degli orrori", in un'audizione segreta al Senato, finiscono col descrivere la
sanità come «un sistema che fa diventare i reati una prassi». In un vortice di
mazzette e appalti, quello che sembra importare meno a molti dirigenti è il
fatto che stanno amministrando la salute pubblica. E che ogni euro in mazzette e
servizi scadenti è un euro tolto ai malati. Ma la questione morale in sanità non
esiste, se i presunti corrotti finiscono in Parlamento e nessuno sembra pagare
mai il conto.
E che dire della donazione di organi e sangue ?!?!
Dopo ben 41 anni di trapianti effettuati attraverso organi prelevati da ammalati
a cuore battente, la comunità scientifica internazionale scopre oggi che la
dichiarazione di “morte cerebrale” non era poi così infallibile e occorre un
profondo ripensamento dei criteri. L'annuncio arriva da uno dei padri della
trapiantistica, Ignazio Marino.
Contrordine: dopo decenni di espianti a cuore battente, spacciati per “prelievo
da cadavere” fin dalle ingannevoli parole della legge, la comunità scientifica
italiana, costretta ad allinearsi a buona parte di quella internazionale, oggi
fa marcia indietro: la morte cerebrale è una finzione, una convenzione buona per
far prosperare carriere e primariati, holding statali dei trapianti ma,
soprattutto, le multinazionali del farmaco, che proprio sui trattamenti
antirigetto accumulano ogni anno fatturati da milioni e milioni di euro.
Vaglielo a raccontare alle centinaia di migliaia di pazienti espiantati negli
ultimi 41 anni in mezzo mondo perchè certificati in stato di “morte cerebrale”.
E per finire la ciliegina sulla torta. Fa notizia la nascita a Udine della prima
ed unica associazione italiana di camici bianchi che si sono finalmente decisi a
donare almeno il sangue. «Molti donatori - spiegano alcuni studenti di medicina,
promotori dell'iniziativa - si chiedono se i medici, che conoscono l'utilità del
sangue, siano anche donatori a loro volta... Ora ci auguriamo che la realtà di
Udine possa essere presa d'esempio da altri Ordini». Pare insomma che il motto,
per i camici bianchi, sia sempre stato: “fate che a donare siano gli altri”. Ed
effettivamente, scorrendo statistiche e cronache, i casi di medici diventati
donatori di organi sono gocce in un oceano.
Da ultimo non dimentichiamoci delle associazioni di volontariato para sanitarie.
Fanno il bene, ma non sempre fanno bene. Bussano alle nostre tasche, proponendo
mille cause nobili: la lotta senza quartiere ad una malattia inguaribile,
l’aiuto ai bambini malati, una crociata contro le infinite piaghe della nostra
società. Non sempre, però, i soldi che finiscono nelle mani di enti e
organizzazioni vengono spesi con i migliori criteri. Sprechi, inefficienze, il
peso soffocante della burocrazia che uccide anche i migliori sentimenti, quando
non ammanchi, ruberie, truffe delle più odiose. Il mondo della carità, o della
solidarietà, è una foresta dove si trova di tutto. Straordinari esempi di
altruismo e storie di furbizia e di cinismo che fanno a pugni con la nostra
coscienza.
FALLIMENTOPOLI IN ITALIA. FALLIMENTI DI AZIENDE SANE: FABBRICA DEL REDDITO PER
GLI OPERATORI GIUDIZIARI.
"Basta fallimenti truccati promossi dal sistema di potere, che distruggono
aziende sane. Basta caste professionali, che gestiscono con arbitrio la svendita
dei beni per arricchirsi alle spalle dell’indifeso cittadino imprenditore".
Questo dice il dr Antonio Giangrande, Presidente della Associazione Contro Tutte
le Mafie, che ha svolto una inchiesta sui fallimenti in Italia.
"Da anni denuncio al mondo l’anomalia dei fallimenti, su segnalazione dei miei
associati locali, spesso vittime di racket ed usura e rappresentanti di comitati
territoriali. Lo denuncio pubblicamente da Presidente nazionale di una
associazione antimafia riconosciuta dal Ministero degli Interni. Il fenomeno
copre tutta la penisola, ma le note stampa vengono ignorate e le mie denunce
penali vengono insabbiate. Per il sistema devi subire e tacere”.
Il dr Antonio Giangrande nella sua inchiesta elenca una serie di casi eclatanti.
Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la
liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre
quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi.
L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno
aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita
dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi,
favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.
E che dire del caso Cirio. Ci furono accertamenti su presunte irregolarità
avvenute nella sezione fallimentare del Tribunale di Roma, che hanno visto
coinvolti giudici accusati di aver “pilotato” alcuni fallimenti e che vede una
procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità, avviata nei confronti
di un giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari.
E che dire delle aste truccate in Lombardia. Al Tribunale di Milano i magistrati
hanno denunciato una loro collega: tentata concussione e abuso d'ufficio nelle
nomine dei consulenti, al fine di suddividerne i compensi. A Brescia si è
archiviato un procedimento penale per usura, pur essendo stato accertato dal
perito della Procura un tasso applicato del 446% annuo.
E che dire dell’intrigo che lega il Piemonte e la Toscana. Un Giudice condannato
per tangenti per il fallimento Aiazzone e legato con un esponente della P2 in
altri processi in Toscana. All’indomani di una udienza a Prato contro di questo,
il suo difensore, noto avvocato e professore milanese, fu trovato morto a causa
di uno strano suicidio. Nell’ambito di quei processi si denunciano casi di
violazione del diritto di difesa. Sempre in Toscana, si chiede il processo ad un
giudice: al magistrato vengono contestati corruzione, concussione,
peculato, falso, abuso di ufficio e concorso in bancarotta.
Anche in Emilia Romagna si denunciano casi di lesione del diritto di difesa e
del contraddittorio a danno dei falliti.
Nelle Marche l'inchiesta sul crack delle aziende dell'imprenditore
sambenedettese coinvolge ormai ben 18 personaggi. Fra essi numerosi magistrati,
avvocati, curatori fallimentari e dirigenti di banca.
In Abruzzo, L’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di
Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono
stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da
un esposto presentato da un cancelliere.
A Lecce, per la prima volta in Europa, è stato dichiarato il fallimento del
creditore su richiesta del debitore. L’imprenditore è stato sbattuto fuori di
casa, nonostante sia stato assolto dai reati di truffa e falso denunciati dal
direttore generale di un noto istituto di credito spacciatosi per suo creditore,
mentre era, in realtà debitore dell’imprenditore di cui ha provocato il
fallimento. Una vittima spara al suo aguzzino: solo allora danno il via alle
indagini, rimaste da tempo insabbiate.
Ciliegina sulla torta è il caso Palermo e Catania.
A Palermo per il fallimento con il trucco, tre giudici rischiano il processo. A
denunciare le illegalità un comitato antiracket ed antiusura. La competenza è
passata alla Procura di Reggio Calabria. Nei suoi uffici è scoppiato lo scandalo
“cimici”.
A Catania, con atto ispettivo al Ministro della Giustizia n. 4-29179,
l'interrogante On. Angela Napoli, ha denunziato la triplice reciprocità
d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e
vicendevoli condizionamenti su una denuncia di un imprenditore dichiarato,
ingiustamente, fallito.
INQUINAMENTO. QUELLO CHE NON SI FA.
Il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, Dr Antonio Giangrande,
segnalando il fatto che nel mondo da anni vi sono sentenze di risarcimento danni
da inquinamento, sia esso atmosferico, delle acque, ambientale o acustico.
Addirittura sono stati riconosciuti indennizzi stratosferici a favore di
fumatori consenzienti, come vi sono divieti di fumare all’aperto per difendersi
dal fumo passivo.
Non capisce come si possa continuare a rimanere succubi di una politica ed
amministrazione pubblica inconcludente e subire da anni un incremento di
sofferenza e disagio riconducibile all’inquinamento.
Purtroppo, l’incremento delle malattie riconducibili a questa tematica, riguarda
tutti, anche perché gli effetti, con il vento o con le correnti, raggiungono
distanze inimmaginabili.
Naturalmente ogni iniziativa deve tendere a salvaguardare gli interessi delle
aziende, dei lavoratori, dei cittadini.
INSOMMA: LE AZIENDE NON CHIUDONO, MA PAGANO.
L’azione giudiziaria civile di risarcimento danni all’ambiente (in forma
specifica o per equivalente), ovvero alla persona (biologici, morali e per “il
patema d’animo”), e l’obbligo per le amministrazioni locali ad emettere
ordinanze attinenti oneri per le grandi aziende a titolo di indennità di ristoro
civico e di servitù industriale, dovuto al loro esercizio, quantunque
l’inquinamento sia o fosse al di sotto del limite legale, porterà un senso di
legalità in un territorio martoriato. Resta fermo l’obbligo per le aziende di
adeguarsi ai limiti di emissioni inquinanti, pena il risarcimento del maggior
danno.
Il DANNO AMBIENTALE
Il concetto di danno ambientale ha trovato un suo chiaro riconoscimento nel
nostro ordinamento giuridico con la L.349/86 ("Istituzione del Ministero
dell’ambiente e norme in materia di danno ambientale"). In particolare, l’art.
18 della suddetta legge dispone che:
"Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di
provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso
arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in
parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato"
(comma 1).
"Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne
determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità
della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto
conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo di beni
ambientali" (comma 6).
"Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino
dello stato dei luoghi a spese del responsabile" (comma 8).
La portata delle disposizioni di cui alla L.349/86 non può essere compresa
appieno se non attraverso un puntuale riferimento alle decisioni
giurisprudenziali e alla dottrina, che, non di rado, hanno interpretato tali
disposizioni in maniera difforme dalla lettera della legge.
Danni ambientali reversibili
Danni patrimoniali.
Danno emergente: in conformità alla giurisprudenza e alla dottrina
maggioritaria, può essere calcolato come costo per la messa in sicurezza,
bonifica ed ripristino dei siti danneggiati (ex D.M. 471/99);
Lucro cessante: non vi è altro modo di calcolarlo se non quello di valutare i
danni che deriveranno ai richiedenti dalla mancata realizzazione di profitti in
conseguenza dell’evento dannoso. Bisognerà tener conto anche dei danni ulteriori
connessi ai tempi di realizzazione degli interventi di ripristino dei siti
danneggiati, nonché dei c.d. danni indiretti (danni derivanti dall’alterazione
degli ecosistemi).
Danni non patrimoniali.
Danno estetico: può essere calcolato come percentuale del danno patrimoniale
complessivo (danno emergente e lucro cessante) e va in ogni caso rapportato ai
tempi necessari per il ripristino dei luoghi danneggiati.
A tal fin si può utilizzare un coefficiente (B) che chiameremo "coefficiente di
bellezza e significatività del sito danneggiato", il cui valore sarà compreso
tra 0 e 1.
Danno all’immagine: nelle ipotesi di valutazione del danno ambientale, abbiamo
preferito non creare una voce di danno autonoma per questo tipo di lesione.
Anzitutto perché non crediamo opportuno "appesantire" la quantificazione del
danno ambientale e la conseguente richiesta risarcitoria con voci di danno che
non hanno ancora trovato unanime riconoscimento in dottrina e in giurisprudenza
(ne risentirebbe la credibilità dell’intero sistema di valutazione del danno
ambientale).
E poi perché il danno all’immagine è comunque riconducibile a quello da lucro
cessante, per le sue componenti patrimoniali, e al danno estetico per quasi
tutto il resto. E’ indubbio che il danno all’immagine sia altra cosa rispetto al
danno estetico, ma il risarcimento del secondo farebbe senz’altro giustizia
anche del primo, soprattutto se nella determinazione del valore del citato
coefficiente B si tiene conto delle possibili ripercussioni della lesione
ambientale sull’immagine dell’ente richiedente.
Danni ambientali irreversibili
Danni patrimoniali.
Danno emergente: trattandosi di danno ambientale irreversibile e non potendo
ipotizzarsi un ripristino dello status quo ante, può essere calcolato come costo
per la creazione di un habitat simile a quello preesistente o come costo per la
creazione dell’habitat danneggiato in altro sito.
Lucro cessante: v. danni reversibili. Ovviamente, qui i danni ulteriori andranno
proporzionati ai tempi di realizzazione degli interventi precedenti.
Danni non patrimoniali.
Danno estetico; vedi danno reversibili;
Danno all’immagine: vedi danni reversibili.
IL DANNO PERSONALE: LEGITTIMAZIONE ALL’AZIONE DEL SINGOLO
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III PENALE
Sentenza 2 maggio 2007, n. 16575
Il danno ambientale presenta una triplice dimensione:
- personale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente di ogni uomo);
- sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell'ambiente nelle formazioni
sociali in cui si sviluppa la personalità umana, ex art. 2 Cost.);
- pubblica (quale lesione dei diritto-dovere pubblico delle istituzioni
centrali).
In questo contesto persone, gruppi, associazioni ed anche gli enti territoriali
non fanno valere un generico interesse diffuso, ma dei diritti, ed agiscono in
forza di una autonoma legittimazione.
Integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore,
dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d.
"perdite provvisorie", perché qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per
quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo dì danno
conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla
condotta illecita, danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene
tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.
La Cassazione, con un sentenza che vi consiglio vivamente di leggere d’un fiato
(potere liberamente scaricare la sentenza della Corte di Cassazione Civile n.
11059/09 ha statuito, invece, e per fortuna giuridico-ambientale, che è
giuridicamente corretto inferire l’esistenza di un danno non patrimoniale,
ravvisato nel patema d’animo indotto dalla preoccupazione per il proprio stato
di salute e per quello dei propri cari, ove tale turbamento psichico sia provato
in via documentale.
Il danno non patrimoniale può essere provato anche per presunzioni e la prova
per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia
l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante
probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza dell’altro, secondo criteri
di regolarità causale.
Si tratta, del resto di principi affermati già in passato (Cass. Sez. Un. civ.
n. 2515/2002, in caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro
colposo - art. 449 c.p.) nel caso del verificarsi di un delitto di pericolo
presunto a carattere plurioffensivo: qui la Cassazione sottolineava che alla
lesione dell’interesse adespota all’ambiente ed alla pubblica incolumità, si
affianca il pregiudizio causato alla sfera individuale dei singoli soggetti che
si trovano in concreta relazione con i luoghi interessati dall’evento dannoso,
in ragione della loro residenza o frequentazione abituale. Ove sia dimostrato
che tale relazione è stata causa di uno stato di preoccupazione è configurato il
danno non patrimoniale in capo a detti soggetti, danno risarcibile in quanto
derivato da reato.
In armonia con un’altra decisione della Cassazione (Cass. Sez. Un. civ. n.
26972/2008) il giudice di legittimità delle leggi ha, inoltre, stabilito che va
esclusa l’autonomia del c.d. danno esistenziale, il quale non rappresenta altro
che una delle voci del danno non patrimoniale.
Nel caso in cui il fatto illecito, da cui è derivato il danno, si configuri come
reato, il danno non patrimoniale è risarcibile nella sua più ampia accezione di
danno determinato da lesioni di interessi inerenti alla persona non connotati da
rilevanza economica.
INDENNIZZO PER SERVITU’ INDUSTRIALE
In diritto si definisce servitù (o servitù prediale) un diritto reale minore di
godimento su cosa altrui, consistente in "un peso imposto sopra un fondo per
l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario" (art. 1027 del
codice civile).
L'utilità del fondo dominante, presente o futura, è estremo essenziale della
servitù: può consistere nella maggiore comodità del fondo, può anche essere
inerente alla sua destinazione industriale. Per questo si parla di Servitù
Industriale. Tuttavia, deve sempre essere utilità di un fondo, non quello
personale del proprietario. In quest’ultima ipotesi si ha un un diritto
personale di godimento, la cosiddetta servitù aziendale.
INDENNITA’ DI RISTORO CIVICO
Tributo locale a carattere amministrativo per speciali prestazioni (servitù
atipica).
L'AGRICOLTURA. LA VOGLIONO SMANTELLARE.
Gli agricoltori gravati da sanzioni per illecito smaltimento di rifiuti per la
bruciatura in loco degli scarti di potatura.
L’Associazione Contro Tutte le Mafie, controtuttelemafie.it, denuncia l’ennesima
disparità di trattamento.
Il Ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli (Lega Nord) il 24 marzo
2010 ha dato fuoco a 375.000 leggi inutili o dannose. Il gesto simbolico per far
arrivare ai cittadini l'immagine di un lavoro di oltre un anno e mezzo. Un muro
di scatoloni lungo 16 metri, da abbattere a picconate e poi da bruciare. Il
tutto fatto da un Ministro ed in presenza di Pubblici Ufficiali.
Peccato che tra quelle bruciate non ci fosse il Decreto legislativo 152/2006,
riguardo lo smaltimento, commercio e intermediazione dei rifiuti, che prevede
notevoli pene pecuniarie e risvolti di carattere penale se lo smaltimento
avviene in modo illecito.
In questo caso la violazione di legge a lui non è stata applicata.
Però, a tal proposito, in questo periodo, gli olivicoltori sono oggetto di
controlli presso i loro fondi agricoli sui quali si sta procedendo, così come
accade da secoli, alla bruciatura dei residui di potatura di olivo. I controlli
si stanno concludendo con l’apertura di procedimenti penali a carico degli
olivicoltori per la violazione delle norme sui rifiuti. Agli agricoltori viene
contestata, appunto, la violazione del Decreto legislativo 152/2006 (Testo Unico
di norme in materia ambientale), riguardo lo smaltimento, commercio e
intermediazione dei rifiuti, che prevede notevoli pene pecuniarie e risvolti di
carattere penale.
L’olivicoltura nazionale viene fuori dall’annata più disastrosa della sua storia
recente; gli olivicoltori potrebbero anche non potare i propri ulivi ed
abbandonare l’attività, ma sono costretti a farlo in virtù delle leggi sugli
ulivi monumentali che li costringe alla manutenzione (in Puglia la Legge
regionale 14/2007).
Pertanto, se a tutto questo si aggiungono i suddetti controlli attuati dai corpi
dello Stato preposti, come potrebbe essere il Corpo Forestale, rischiamo di
rendere le nostre campagne invivibili e di creare un clima di allarme sociale.
Laddove vi fosse la possibilità di smaltire diversamente detti residui di
potatura, senza aumentare i costi, gli agricoltori lo farebbero, ma ad oggi
mancano le strutture pubbliche o i mezzi finanziari per poterlo fare.
Gli olivicoltori da sempre hanno utilizzato il metodo della bruciatura per
eliminare i residui della potatura, senza dimenticare che residuo della potatura
di ulivo è anche la legna da ardere che si utilizza nei caminetti domestici.
Da ricordare che il problema tocca tutti gli agricoltori, compresi i viticoltori
e che i fascini di legna usate per costruire e bruciare le “focare” e le pire in
sagre paesane sono anch’esse illegali agli occhi della legge.
LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.
LA MAFIA è una presenza discreta e silenziosa, che cerca di evitare i clamori
della cronaca con lo spargimento di sangue. Ma la mafia c’è ed incombe
pericolosamente sulla vita sociale e democratica dell’Italia, anche se di essa,
per omertà dei media, non vi è adeguata consapevolezza nei cittadini e nelle
istituzioni. C’è “la mafia bianca”, sodalizio massonico delle lobby e delle
caste, insinuata nelle istituzioni e nei poteri dello Stato, che si attiva
direttamente per influenzare le scelte e la gestione della cosa pubblica. Poi
c’è “la mafia nera”, la criminalità organizzata comune che non ha cessato di
mettere in discussione l’autorità dello Stato e continua la cura dei suoi
tradizionali interessi: dal traffico di stupefacenti e di clandestini all’usura
e al racket delle estorsioni, fino allo sfruttamento della prostituzione e del
gioco d'azzardo. Entrambe le mafie, cosa ancora più grave, tentano di mettere le
mani sulla gestione degli appalti pubblici finanziati da fondi nazionali od
europei, insinuandosi nelle pieghe della vita politica e amministrativa, come
dimostrano alcune indagini della magistratura su ipotesi di rapporti illeciti di
taluni rappresentanti della pubblica amministrazione e del mondo
dell’imprenditoria e della stessa magistratura con esponenti della criminalità
organizzata, in vicende dal rilevante profilo economico e finanziate con i soldi
dei cittadini.
Arrestare boss, assassini, estorsori, usurai è importante, ma per sconfiggere la
mafia bisogna prevenirla, combattere il suo sistema di potere, incidere sulle
sue complicità, estirpare le coperture che creano cultura, prassi e contesti
mafiosi. L’uomo non è libero, la società è malata se le minacce e le
intimidazioni creano nei cittadini paura, angoscia e terrore, alimentano un
cancro morale che intorbida le coscienze, condiziona la democrazia e la
convivenza civile. Ma l’insicurezza nei cittadini onesti viene talvolta
alimentata anche dalla soggezione che impone la burocrazia, dall’arroganza che
promana dal potere politico e amministrativo, dall’umiliazione che spesso gli
eletti nelle istituzioni pubbliche impongono ai cittadini solo per ascoltare le
loro esigenze, richieste o proposte. Consiglieri comunali, provinciali,
regionali, assessori e parlamentari, sindaci e presidenti di ogni ordine e grado
diventano spesso “irraggiungibili” una volta eletti, anche dai loro stessi più
prossimi elettori. Segretari, addetti stampa, attendenti e portaborse creano
filtri e contro-filtri, una cortina fumogena impenetrabile, tanto che per
poterla squarciare bisogna farsi raccomandare. E la pratica della
raccomandazione è il primo viatico alla cultura della mafiosità.
Prassi agevolata dall’inerzia e dall’indifferenza, se non addirittura dalla
collusione della magistratura, spesso sorda alle richieste di intervento dei
cittadini onesti e coraggiosi.
“La mafia nera”, che in Puglia prende le sembianze mediatiche della Sacra corona
unita, come Cosa nostra in Sicilia, la ‘ndrangeta in Calabria e la Camorra in
Campania, è innominata nelle regioni del nord Italia, dove è ben radicata e in
commistione con quella dell’est Europa. Essa è ancora viva ed opera
efficacemente anche quando non uccide. In realtà essa si articola in una miriade
di consorterie malavitose in continuo rimescolamento conflittuale e alla ricerca
della supremazia territoriale. Una presenza flessibile e tendenzialmente
discreta, che evita il clamore degli episodi delittuosi estremi proprio per
potersi mimetizzare e infiltrare nelle istituzioni. Esercita soprusi e
prepotenze nei confronti di comuni cittadini, imprenditori, commercianti, ma
anche giudici, politici, pubblici amministratori, giornalisti. Uno stillicidio
quotidiano di notizie ne segnala continuamente la presenza preoccupante, ma
troppo spesso vengono evitate, ignorate, dimenticate in fretta, forse per
esorcizzare la paura di scoprire di vivere in una regione che rischia di essere
dominata dalla mafia.
Ma vivere con gli occhi bendati, le orecchie tappate e le mani sulla bocca, come
le tre famose scimmiette, non serve a nulla. La realtà è un’altra: è quella
della paura e delle intimidazioni quotidiane subite da chi non vuole sottostare
alle regole della mafia. Una sequenza impressionante di piccoli e grandi episodi
che fanno correre il contachilometri della criminalità. Gli amministratori
pubblici non ne sono esenti.
Nel campionario c’è di tutto: la testa di cavallo mozzata lasciata davanti
all’abitazione, l’auto incendiata, la bomba esplosa all’esterno del Municipio, i
colpi di pistola contro le finestre, la lettera minatoria con le cartucce di un
fucile.
L'Italia sta scoprendo un nuovo modo di fare politica. Non attraverso le
elezioni, ma con le intimidazioni. Difficile dare una lettura omogenea delle
vicende, perché ogni Comune ha una storia a sé. Insomma, non è detto che tutti
gli amministratori colpiti finiscano per pagare così l’impegno contro
l’illegalità o la crociata per un’amministrazione trasparente.
Secondo gli investigatori, si può finire nel mirino anche per non aver
rispettato - ad esempio - patti precedentemente stabiliti. Oppure perché singoli
cittadini decidono di vendicarsi ricorrendo ai metodi tipici della criminalità
organizzata, adottandone le modalità, pur essendo esterni ai clan. Tre chiavi di
lettura diverse, che rendono ancora più difficile l’attività di chi cerca di
dare nomi e cognomi ai mandanti. Ma gli esperti non tralasciano le piste
investigative più inquietanti. Bombe, proiettili e minacce porterebbero o
all’infiltrazione diretta nelle amministrazioni comunali o alla ricerca delle
dimissioni di un amministratore per sostituirlo con un altro di fiducia della
Piovra spa. D’altra parte, la criminalità di casa nostra ha sempre mostrato una
spiccata flessibilità operativa. E l’atto intimidatorio non è altro che una
prova di forza, una esibizione di muscoli da parte di chi è convinto di
controllare il territorio. Un particolare non sfuggito, di recente, alla
Direzione nazionale antimafia. In una relazione si sottolineavano, tra l’altro,
alcune peculiarità. Come l’intervento di boss e picciotti nell’intercettare i
flussi finanziari destinati alla realizzazione di grandi opere (contratti
d’area, distretti tecnologici, energie alternative, smaltimento rifiuti), o
attraverso la strategia del «doppio binario», adottata per infiltrarsi nei
subappalti (movimento terra) e facendo pressioni (estorsioni) nei confronti di
imprese affidatarie di lavori ad alto profilo tecnologico. Vanno di moda, anche,
l’affidamento di servizi ai clan, la costituzione di società per la gestione di
piccoli affari, le ingerenze e il controllo di attività come l’affissione dei
manifesti elettorali, gli accordi di natura elettorale (richieste di voti in
cambio di assunzioni).
Esemplare è il caso di Santi Cosma e Damiano (LT). Un consigliere comunale di
quel comune, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità
degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati
dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti
alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati.
Da questa meritoria attività è conseguita una duplice interrogazione
parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento
del Territorio della Regione Lazio.
Di questo si è dato conto sul portale di informazione dell’Associazione Contro
Tutte Le Mafie, per rendere coscienti i cittadini di una realtà sottaciuta.
Dalle risposte istituzionali scaturisce una vasta infiltrazione mafiosa e
ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi
abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina,
da qui la richiesta di scioglimento dei consigli comunali di Santi Cosma e
Damiano e di Minturno.
Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di
informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti
pubblici, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e
diffamazione a danno del consigliere comunale e del Presidente dell’Associazione
Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande.
Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma ha
proceduto, in palese incompetenza territoriale, riconducibile a Latina
(domicilio consigliere) o a Taranto (luogo di pubblicazione). Nessuna
informazione di garanzia e nessuna informazione sul diritto di difesa. Insomma,
non si conosce il chi, il come, il quando e il perché della denuncia, oltre che
ogni informazione utile al diritto di difesa.
Dato che la mafia ti uccide, o ti affama, o ti condanna, ci si chiede: ma in
questa Italia alla rovescia, è conveniente uscire dalla conformità omologata per
lottare a favore di ideali di giustizia?? Agli occhi dei giustizialisti a senso
unico e di facciata, che vogliono al Parlamento Deputati incensurati, pur se
incapaci ed inetti, quelli che lottano per la giustizia, l’uguaglianza e la
libertà, se condannati in base alle denunce di cui sopra, sarebbero meritevoli
di essere eletti in Parlamento ??
Il Presidente dr Antonio Giangrande denuncia: “la lotta alle mafie ed alle
illegalità non deve essere, né apparire, solo lotta politica di “sinistra”, né
deve essere fondata sulla santificazione dei magistrati. Una domanda da
scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra,
avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E per finire una
domanda da presidente antimafia a presidente antimafia: se Don Ciotti non fosse
appoggiato dall’apparato politico, mediatico e giudiziario di sinistra, avrebbe
avuto tanta visibilità e sostegno ?
La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale
contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini
dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di
Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è
apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra
cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve
alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei
beni confiscati. I suoi siti web sono oscurati dalla magistratura e il suo
presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui
portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa
sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in
quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto,
che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori
pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto
morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la
mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo
stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed
invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud
Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non
gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa
personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo
regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto
l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente,
tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per
chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato
all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria
ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco,
l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali e i misteri
italiani, senza peli sulla lingua.
La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e
comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di
sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le
scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come
se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione
Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non
essendo iscritta all'Albo regionale.
In un'intervista a Magazine del Corriere della Sera, si rivela che non c'erano
motivi perchè a Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, venisse assegnata la
scorta. Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli, è un poliziotto
con gli “attributi” che ha ottenuto l'importante incarico all'età di 40 anni;
rischia la pelle tutti i giorni e, persona seria in questo mondo di quaquaraquà
e opportunisti. Intervistato da Vittorio Zincone ha detto le cose come stanno:
“Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi
poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni”.
All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia
d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo,
schierando persino cani anti-bomba; eppure, rivela Pisani, “a noi della Mobile
fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito
delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo
sull’assegnazione della scorta”. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della
popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è
diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda
e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica,
negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in
Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna
con il Times.
Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia
di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E
perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del
trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose,
toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare
il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il
porto d’armi ?
E per finire una domanda da presidente antimafia a presidente antimafia: se Don
Ciotti non fosse appoggiato dall’apparato politico, mediatico e giudiziario di
sinistra, avrebbe avuto tanta visibilità e sostegno ?
Detto questo, la risposta è arrivata con l’articolo 2 della finanziaria 2010, il
quale sancisce che i beni “di cui non sia possibile effettuare la destinazione o
il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate entro i
termini previsti – vale a dire 90 giorni – sono destinati alla vendita i cui
proventi saranno destinati a finalità istituzionali e sociali”.
Don Ciotti, presidente di “Libera”: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati
sono cosa nostra".
Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le
Mafie: “I beni confiscati sono cosa di tutti, non degli apparati appoggiati
dalla sinistra. Basta favoritismi ed ipocrisie. Ben venga la riforma. I proventi
della vendita dei beni non assegnati vadano a finanziare i bisogni della
Giustizia e non essere un peso al bilancio dello Stato”.
“Libera”, è un coordinamento di oltre 1500 associazioni o comitati locali, che
spesso si appoggiano presso le sedi ARCI, ACLI, CGIL. Esse sono assegnatari dei
beni confiscati e beneficiari dei finanziamenti per la fruizione e la
funzionalità di immobili ed aziende. Loro santificano i magistrati e sono
appoggiati dall’apparato dei media, dei docenti, degli intellettuali, dei
politici e dei magistrati di sinistra. Con un apparato del genere e con molte
Giunte che la sovvenzionano, “Libera” non ha bisogno di elemosinare sostegno,
finanziamenti e visibilità.
“Noi non siamo di sinistra – dice il presidente dr Antonio Giangrande - ma
vogliamo portare all’attenzione della collettività una verità alternativa a
quella della sinistra militante dove vige il motto: La mafia sono gli altri e
nessuno tocchi i “Dei” magistrati. Noi non abbiamo visibilità, nè sostegno,
perché palesiamo una verità eclatante: la mafia è l’istituzione che collude, i
media che tacciono e i cittadini che emulano. Mafie, lobbies, caste e massonerie
gestiscono la nostra vita. E ne riportiamo gli esempi sui nostri siti e per
sunto nel libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”. Noi non siamo tanto
forti da rompere questo muro di gomma erto dalla “inteligentia” e dagli apparati
di sinistra, ma siamo forti della nostra ragione. Per questo diciamo che i beni
dei mafiosi, devono essere “cosa di tutti” e non “cosa di sinistra”.
LA SICUREZZA NELLE SCUOLE. QUELLA CHE NON C’E’.
“Quella che non c’è” – denuncia il Dr Antonio Giangrande, presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Sicurezza strutturale, bullismo, uso di droghe e fumo, baby prostituzione,
precariato e assenteismo dei docenti.
Sicurezza strutturale. Un terzo delle scuole pugliesi è stato costruito in zone
inquinate. Ben 937 sedi scolastiche, su un totale di 2.627, sono nate
all’interno o nelle vicinanze delle aree industriali (131), sotto le antenne di
radio e televisioni (632), a confine con le discariche (42) o gli aeroporti
(29), sopra gli elettrodotti (103). L’inquinamento elettromagnetico mette ogni
giorno in pericolo la salute di migliaia di studenti e insegnanti. I mali della
scuola non vanno perciò ricercati esclusivamente negli edifici che cadono a
pezzi, nelle richieste di manutenzione ordinaria e straordinaria indispensabili
a garantire la funzionalità degli edifici, nei banchi e nelle sedie rotte, nelle
palestre spesso chiuse perché inagibili. Sicurezza è anche vivere in un ambiente
sano, al riparo da smog, radiazioni prodotte da cavi elettrici e reti per i
telefoni cellulari, inquinamento acustico. Il crollo al liceo Darwin di Rivoli
ha messo in evidenza la mancanza di controlli sulla sicurezza delle scuole. La
legge (D. Lgs. 626/94 e succ. modifiche), in questo settore, è carente: i
controlli obbligatori sono pochi, solo per le nuove costruzioni si parla di
valutazione dei progetti, e troppo di rado di controlli "a sorpresa" sulle
strutture una volta completate e in funzione. Più grave la situazione delle
scuole più vecchie, dove la manutenzione è spesso carente e i lavori non sempre
eseguiti a regola d'arte. È il caso di Rivoli, dove il controsoffitto era stato
fatto in traversino e non in cartongesso. E quando viene fatta qualunque
modifica a strutture esistenti, bisognerebbe prevedere controlli ad hoc, perché
gli interventi potrebbero avere ripercussioni negative sulla sicurezza. I
controlli agli istituti scolastici dovrebbero poi servire per verificare che non
ci siano altre situazioni di pericolo. Così come in tutte le strutture e gli
edifici aperti al pubblico: troppe volte nelle nostre inchieste abbiamo visto
porte di sicurezza con maniglioni antipanico bloccate o lucchettate, ostacoli
che impedivano la fuga, tende o pannelli che nascondevano le vie per uscire.
Anche l'area che circonda la scuola deve essere organizzata in modo tale da
garantire la massima sicurezza, perché chi scappa non deve rischiare di farsi
male o essere investito non appena esce dal portone. Così come l'arrivo dei
soccorsi deve essere il più possibile agevolato. Invece le statistiche fornite
dall’INAIL ci dicono che in un anno 90.000 ragazzi e 13.000 adulti (insegnanti e
bidelli) si sono feriti nelle scuole. Dati impressionanti. Il Presidente della
Repubblica solleva inquietanti interrogativi sulle garanzie a presidio della
sicurezza negli istituti scolastici. Per il ministro dell’Istruzione, “il
problema della sicurezza nelle scuole italiane è una emergenza nazionale”.
Secondo un rapporto di Legambiente, il 42% degli edifici scolastici non sarebbe
agibile o, per lo meno, mancherebbe del certificato di agibilità. In realtà, in
Italia 9 mila scuole non sono costruite con criteri antisismici delle 22 mila
che si trovano in zone sismiche. Le scuole italiane sono tutte molto vecchie e,
quindi, ad alto rischio. Nel nostro paese i terremoti non sono infrequenti e
anche gli edifici a norma di legge, spesso, non assicurano l’incolumità a chi vi
abita. Figuriamoci un vecchio edificio scolastico già fatiscente. E’ stato
presentato il Rapporto di Cittadinanzattiva sulla situazione delle scuole, da
cui emerge una condizione diffusa di insicurezza: crolli di intonaco,
certificazioni mancanti o non disponibili, scarsa manutenzione. Mancano
controlli adeguati sul rispetto delle norme edilizie, sui lavori effettuati e
sul rispetto dei tempi. Il certificato di agibilità statica è presente solo nel
34% delle scuole, quello di agibilità igienico-sanitaria è disponibile nel 39%
dei casi, quello di prevenzione incendi nel 37%. Anche la segnaletica è spesso
carente: una scuola su quattro non ha la piantina con i percorsi di evacuazione
e le uscite di emergenza non sono segnalate nel 17% dei casi. Negli istituti che
hanno laboratori scientifici, solo il 63% ha cartelli informativi sulle
precauzioni da seguire e l'84% possiede armadi chiusi per riporre sostanze e
attrezzature pericolose. Assai scarsa è la formazione del personale: nel
dettaglio, una scuola su quattro non attua corsi sulla sicurezza del lavoro, il
17% non fa le prove di evacuazione, ben il 42% non fa corsi di primo soccorso né
di prevenzione incendi e addirittura l'83% non ha svolto alcun corso sulla
sicurezza elettrica. Inoltre gran parte degli edifici scolastici italiani sono
stati costruiti prima degli anni ’70 quindi, oltre ad essere vecchi risentono
dell’uso di materiali e criteri edili inadeguati che provocano la preoccupante
diffusione dello sfondellamento dei solai e del crollo di parti di esso; 14.700
edifici scolastici (quasi uno su tre) insistono in zone a rischio sismico; la
manutenzione ordinaria da parte di Comuni e Province degli istituti scolastici
risulta essere sempre più inadeguata e approssimativa sia per la scarsità dei
fondi a disposizione, sia per la grave sottopercezione che si ha circa
l’importanza di investire sulle strutture scolastiche.
Mense scolastiche. Cibo scadente, norme igieniche non rispettate, locali e
apparecchiature non a norma. Circa un terzo delle mense scolastiche ispezionate
in tutta Italia dai carabinieri del Nas è risultato irregolare.
Bullismo. "Il bullismo e la violenza dei ragazzi sono diventati un problema di
sicurezza e di ordine pubblico. Non possiamo preoccuparci della violenza che
viene dall’immigrazione e fare finta di non vedere la violenza che nasce nei
nostri giovani italiani; sono due facce dello stesso problema e la risposta
dello Stato deve essere unica, forte e severa". A dirlo è il Presidente del
Senato intervenendo al convegno di Palazzo Giustiniani 'Dal bullismo al crimine
commesso: quando occorre tutelare i minori dai loro pari. Riflessioni e proposte
sulla punibilità del minore'. La seconda carica dello Stato ha ricordato che i
nostri giovani "sono stati capaci di azioni inimmaginabili: dare fuoco ad un
indiano che ancora, dopo un mese, lotta tra la vita e la morte, e farlo per
gioco, è una azione che turba le nostre coscienze perchè quei ragazzi, fino a
quando non avevano commesso quella terribile azione, erano considerati normali".
Nel corso del convegno, inoltre, sono stati diffusi alcuni dati sul bullismo in
Italia: sono 40mila i minori denunciati ogni anno in Italia. Uno studente su due
dichiara di essere stato, almeno una volta, vittima di bullismo. Questo il
risultato dell’inchiesta sul fenomeno lanciata dal mensile Studenti Magazine,
attraverso ‘Studenti.it’, alla luce dei più recenti fatti di cronaca, alla quale
hanno partecipato 3.200 alunni delle scuole superiori. Oltre al 50%, che ha
detto di aver subito atti di bullismo, c’è anche un 16 per cento che afferma di
non averne subiti, ma di esserne stato spettatore. Aggregando i due dati si
scopre che il 66%, circa due terzi, degli intervistati sono stati, anche solo
una volta, testimoni attivi e passivi di atti di bullismo. Sms offensivi,
minacce via cellulare, video e foto molesti che finiscono su internet: uno
studente su tre subisce atti di bullismo online, nel 70% dei casi a scuola e
soprattutto durante l’anno dell’esame di maturità. A lanciare l’allarme una
ricerca condotta su 700 studenti delle scuole medie superiori di Chieti dalla
cattedra di Psichiatria dell’Università di Chieti, in collaborazione con la
Cooperativa Lilium di accoglienza e recupero di minori provenienti da tutta
Italia.
Droga. Uso e abuso di droga: un fenomeno pericolosamente radicato fra i più
giovani, che hanno creato un vero e proprio mercato interno agli istituti
scolastici superiori. Le sostanze più richieste sono anfetamine, hashish,
eroina; poca cocaina, troppo costosa. Lo spaccio si consuma durante l'intervallo
e le richieste vengono effettuate direttamente dagli studenti tramite frasi in
codice su Messanger e via sms. Prova: una video-inchiesta realizzata da
Repubblica TV, nelle scuole italiane e tra i ragazzi di alcuni istituti romani.
Di questa inchiesta si parla sul Quotidiano Repubblica e attraverso di essa
vengono fuori elementi sconvolgenti. Non solo infatti la percentuale di ragazzi
che farebbero uso di stupefacenti è in continuo e graduale aumento, ma ormai il
fenomeno dello spaccio avverrebbe tranquillamente all'interno della scuola e
addirittura nelle aule durante le lezioni. In uno di questi video viene
addirittura filmato un gruppo i ragazzini che si fumano tranquillamente alcuni
spinelli, a pochi metri da una volante della polizia, probabilmente di fronte
alla scuola per i controlli antidroga.
Prostituzione. Attraverso un sms si danno appuntamento nelle zone più nascoste
della scuola per avere un rapporto sessuale e se non ricevono il permesso di
uscire dall'aula si fanno cacciare fuori. Il sistema è uguale in tutti gli
Istituti di Milano. Il cliente, al massimo un diciassettenne e la baby
prostituta, a volte anche di tredici anni, entrambi studenti, abbassano la
suoneria del telefonino e si mandano un sms per confermare gli accordi presi il
giorno prima. Non sempre a incontrarsi sono soltanto un lui e una lei. Il sesso,
rapido, può essere anche di gruppo. Dipende dai desideri e da cosa offre il
momento. È quanto emerge da una inchiesta del Comune di Milano pubblicata dal
quotidiano "La Stampa". «Non è neppure indispensabile conoscersi: i ragazzini
possono contare su una “lista elettronica”, fatta circolare sui telefonini e sui
blog via internet - si legge - che descrive la disponibilità della studentessa.
Oltre al nome, cognome e numero di telefono, anche il prezzo e il tipo di
prestazioni fornite: rapporti orali, sessuali completi, anali, con singoli o
coppie, durante le lezioni, soltanto nell'intervallo, in cambio di vestiti
firmati, ricariche per i cellulari e compiti.
Il precariato della scuola. Attualmente, in Italia, sono 304 mila i supplenti
iscritti nelle graduatorie provinciali permanenti. Una consistente fetta (il 42
per cento circa) ogni anno riesce a conquistare una delle 130 mila supplenze per
l'intero anno scolastico. Coloro che si trovano in fondo alle graduatorie
vivacchiano con le supplenze brevi e temporanee saltellando da una scuola
all'altra cercando di mettere assieme più punti possibili per scalare le
fatidiche graduatorie. Il precariato è un problema, anzi è un dramma, una
tragedia, dunque occorre evitare che si formi il precariato. Se l’insegnante di
ruolo non facesse finta di ammalarsi specie negli ultimi anni della propria
carriera (e non solo), eviterebbe di contribuire alla nascita del precariato e
dei precari, i quali si devono ammalare di meno. Se non si ammalasse
costantemente e puntualmente il 15 giugno di ogni anno in occasione degli esami
di Stato (lo si fa da decenni impunemente), il “ruolino” non contribuirebbe
all’arrivo nelle aule di supplenti chiamati a salvare il sedere a una scuola
lasciata in braghe di tela dai “ruolini” tanto pregni di ideali e di
“attaccamento alla funzione docente”. Ci sarebbero meno precari e meno
precariato se i docenti di ruolo non perpetrassero i famigerati passaggi di
cattedra; se non affollassero, pur essendo di ruolo, quelle graduatorie
permanenti tanto disprezzate; se non prendessero in ostaggio per anni e per
decenni cattedre lasciate alle supplenze perché si preferisce, per anni e per
decenni, fare il sindacalista, il sindaco, l’assessore, il parlamentare, il
ministro, il viceministro o il sottosegretario; se non si rendessero complici di
quello straordinario strumento devastante per la qualità degli apprendimenti
rappresentato dai corsi di riconversione in materie di cui si è incompetenti;
se non si abbandonasse la cattedra di sostegno di ruolo per passare su quella di
disciplina. Ci sono insegnanti precari che sono andati in pensione senza essere
riusciti a passare di ruolo.
GIUSTIZIA E LEGALITA’: CHIMERE IRRAGGIUNGIBILI. ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E
LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.
Dai pochi dati ufficiali pubblicati, elaborati dall’Associazione Contro Tutte Le
Mafie risulta che solo 3 reati su 100 vengono perseguiti. 8 su 100 quelli
denunciati dalle Forze dell'Ordine. Dai dati risulta, anche, che secondo i
magistrati gli italiani sono mitomani, ma, anche, onesti, salvo qualche
colpevole, guarda caso, povero.
Diamo i numeri: non si denuncia il 31% dei reati perché sfiduciati da questa
giustizia, in quanto al restante 69 % dei reati denunciati consegue l’85,8 % di
archiviazione, il 9,93 % di proscioglimenti e solo il 4,27 di condanne. Restano
escluse dal conteggio le denunce presentate, ma mai registrate.
Le richieste cautelari personali accolte sono il 54,67 %. Nonostante ciò vi è
una popolazione detenuta pari al 61,2 % presunta innocente e pari all’ 81,7 %
in stato di indigenza.
Sebbene solo 3 reati su 100 sono perseguiti (8 su 100 denunciati delle Forze
dell'Ordine), si rilevano 5 milioni di errori giudiziari negli ultimi 50 anni.
La magistratura, oltre a rilevare la mitomania degli italiani e, al contempo, la
loro onestà, perseguendoli per calunnia salvo qualche fesso, sta attenta a
perseguire le toghe che delinquono. Di più non può fare, data l’impunità della
casta, oltre a causare dal 2003 ad oggi 40.031 procedimenti per indennizzo di
"equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo l.89/01",
senza contare gli indennizzi per “ingiusta detenzione” e per “errore
giudiziario”.
Ci si aspetta di più dalla magistratura italiana, pronta a pretendere rispetto,
se si pensa che il costo per la collettività degli stipendi dei circa 9 mila
magistrati italiani è di più di 1 miliardo di euro. Circa il 30% superiore
a quello che la Francia spende per i loro omologhi di Oltralpe e con altri
risultati.
(IN)GIUSTIZIA A TARANTO: REPORTAGE COMPLETO ED AGGIORNATO.
TARANTO: IL FORO DELL’INGIUSTIZIA.
ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.
Un fallimento? In Italia può durare anche mezzo secolo !!!
Quarantasei anni: a tanto ammonta la durata della procedura fallimentare di
un’azienda di Taranto. Lo racconta Sergio Rizzo nella “Cricca”, un saggio
Rizzoli dedicato alle lentezze e ai mille conflitti d’interesse del nostro
Paese. Leggiamone un estratto.
A Berlino la costruzione del Muro procedeva a ritmi serrati. Papa Giovanni XXIII
aveva scomunicato il comunista Fidel Castro e la Francia riconosceva
l’indipendenza dell’Algeria. In Italia Aldo Moro apriva la stagione del
centrosinistra, Enrico Mattei regnava sull’Eni, Antonio Segni entrava al
Quirinale. E mentre per la prima volta, dopo 400 anni, le orbite di Nettuno e
Plutone si allineavano e gli Stati Uniti mandavano il loro primo uomo in orbita
intorno alla Terra, in quel 1962 falliva a Taranto la ditta del signor Otello
Semeraro. Non meritò nemmeno due righe in cronaca la notizia che al tribunale
del capoluogo pugliese stava per cominciare una delle procedure fallimentari più
lunghe della storia della Repubblica. Quarantasei anni.
Nel 2008 il tribunale di Taranto ha approvato il rendiconto finale del
fallimento Semeraro, con un verbale condito da particolari burocraticamente
esilaranti. «Avanti l’Illustrissimo Signor Giudice Delegato Pietro Genoviva
assistito dal cancelliere è personalmente comparso il curatore Michele Grippa il
quale fa presente che tutti i creditori ed il fallito sono stati avvisati
mediante raccomandata con avviso di ricevimento dell’avvenuto deposito del conto
di cancelleria.» Nonostante ciò il giudice «dà atto che all’udienza né il
fallito né alcun creditore è comparso». Sulle ragioni dell’assenza dei creditori
non ci sono informazioni certe. Invece il signor Semeraro, pur volendo,
difficilmente si sarebbe potuto presentare. Fitto è il mistero dell’indirizzo al
quale gli sarebbe stata recapitata la raccomandata, con tanto di ricevuta di
ritorno: perché egli, purtroppo, non è più tra i vivi.
Come il tribunale di Taranto non poteva non sapere, avendo accertato, nel
rendiconto del fallimento, un versamento di 10.263 euro «a favore della vedova
di O. Semeraro». Quarantasei anni.
Per gli errori giudiziari non ci sono avvocati locali che hanno il coraggio di
mettersi contro i magistrati di Taranto. I Pubblici Ministeri che,
presumibilmente, hanno sbagliato, intervengono in processi in cui si dovrebbe
acclamare il loro errore e perseguono chi si oppone a questo stato di cose.
"Basta errori giudiziari che distruggono la vita dei cittadini. Basta impunità
per i responsabili". Questo dice il dr Antonio Giangrande, Presidente della
Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha svolto una inchiesta sulla Giustizia
in Italia, in generale, e a Taranto, in particolare. Una società civile che
permette di tenere in carcere degli innocenti, per essere genuflessa ai poteri
forti, è una società collusa e codarda. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è
un’omissione o un abuso d’atti di ufficio da parte del magistrato che non ha
saputo o voluto cercare prove a discarico, così come la legge lo obbliga a fare.
Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un infedele patrocinio da parte del
difensore che non ha saputo o voluto difendere il proprio cliente, spesso dovuto
allo stato d’indigenza dell’indagato/imputato".
Il presidente continua: “Secondo l’Eurispes sono 5 milioni gli italiani vittime
di errori giudiziari negli ultimi 50 anni, ma a noi interessano i casi concreti.
E’ di questi giorni l’ennesima denuncia, riportata da alcuni giornali, contro la
violazione della libertà personale presso il Tribunale di Taranto. Succede a
Taranto, ma tutta Italia ne parla. E’ una cosa normale? E, soprattutto, è
possibile che simili situazioni siano tollerate?
I fatti. Leggendo i giornali si viene a sapere che alcune persone sono detenute
(altre, invece, hanno già scontato la pena detentiva inflitta) per una serie di
reati per i quali, invece, si ha il reo confesso con tanto di ritrovamento delle
prove. Ma per la giustizia italica tutto ciò non è sufficiente ed in carcere si
ritrovano un po’ tutti: innocenti (presunti colpevoli) e colpevole (per sua
stessa ammissione).
Il 10 febbraio del 2006, Sebai Ezzedine – un 33enne immigrato tunisino -
rilascia una confessione al dott. Nobile della Procura di Milano,
successivamente confermata dinanzi al P.M. di Taranto Dott.ssa Montanaro,
nell'ambito della quale ammette la propria responsabilità in merito all'omicidio
di 15 anziane signore. Si tratta di donne sole, sgozzate nelle loro abitazioni,
che ricordavano al reo confesso le donne che da bambino lo picchiavano e
seviziavano. Sulla decisione del Sebai di confessare la verità e di scagionare
persone che egli sapeva con sicurezza essere innocenti ha, senza alcun dubbio,
influito il suicidio di Vincenzo Donvito il quale, dopo aver proclamato per anni
la sua innocenza, non ha retto al regime carcerario ed al tormento di essere
recluso ingiustamente e si è tolto la vita impiccandosi in carcere.
13 agosto del 1995, omicidio di Celestina Commessatti avvenuto in Palagiano
(Taranto)– Condannati: Giuseppe Tinelli, Davide Nardelli, Vincenzo Donvito. La
confessione del Sebai è supportata da una perquisizione locale effettuata presso
un pregiudicato della zona nell'ambito della quale venivano rinvenuti gioielli
di sicura appartenenza della Commessatti e che il ricettatore afferma essergli
stati venduti da un tunisino rispondente al nome di Fathi Said, pseudonimo di
Sebai Ezzedine. Giuseppe Tinelli è recluso presso il carcere di Ivrea da 11
anni, Davide Nardelli ha scontato 7 anni di carcere e Vincenzo Donvito in data
21 luglio 2005, si è tolto la vita all'interno del carcere di Castogno, nei
pressi di Teramo, dopo aver scontato 7 anni di carcere. Donvito aveva sempre
proclamato, inutilmente, la propria innocenza e si è determinato a togliersi la
vita non potendo più reggere il peso di una ingiusta detenzione, nè si era
tenuto conto delle testimonianze a discarico.
17 maggio del 1997, omicidio di Pasqua Rosa Ludovico avvenuto a Castellaneta –
Condannati: Vincenzo Faiuolo, Francesco Orlandi. Il Sebai nella dichiarazione
rilasciata all'autorità giudiziaria afferma la completa estraneità di Faiuolo ed
Orlandi ai fatti di sangue per cui sono stati condannati. Uno dei punti
fondamentali di questa confessione, e dalla quale si desume l'innocenza degli
stessi, è l'individuazione dell'ora esatta della morte della vittima che è
avvenuta in un'ora in cui i due fratellastri si recavano nei campi a lavorare e
vi rimanevano per tutto il pomeriggio. Alla luce delle dichiarazioni del Sebai
veniva emesso decreto di perquisizione locale dell'appartamento di cui il
tunisino aveva la disponibilità fino al momento del suo arresto. In data
15.05.2006 il reparto operativo dei Carabinieri di Taranto procedeva ad
ispezionare la cantina dove, all'interno di una buca, rinvenivano oggetti che le
nipoti della vittima riconoscevano essere appartenuti alla loro zia. In tutti
questi casi, il Sebai afferma la completa estraneità dei condannati ai delitti
da lui commessi. E, soprattutto, riferisce circostanze precise e pienamente
concordanti, relative sia alle modalità che ad i tempi di esecuzione degli
omicidi. Le modalità di uccisione delle vittime sono state definite dai periti
incaricati del “caso Totaro” come una sorta di “firma dell'autore”. Il Sebai,
inoltre, descrive la scena dei crimini con dovizia di particolari dimostrando di
essere a conoscenza dello stato dei luoghi in cui i delitti sono stati commessi.
Vincenzo Faiuolo (che da 12 anni sconta la propria pena ed attualmente è
ristretto presso il carcere di Volterra) e Francesco Orlandi (attualmente in
regime di libertà vigilata, dopo aver scontato 11 anni di carcere).
29 luglio del 1997, omicidio di Maria Valente – Condannati: Giuseppe e Arcangela
Tinelli, Carmina Palmisano. Il Sebai, già condannato per questo omicidio,
confessa di non aver mai conosciuto i coimputati e di aver sempre agito da solo.
Anche in questo caso a carico dei condannati non c'è nessuna prova. Infatti in
casa della Valente venne rinvenuta solo un'impronta digitale appartenente al
Sebai. La procura di Taranto ha rinviato il Sebai a giudizio per l'omicidio
della signora Celeste Commesatti e della signora Pasqua Ludovico, ma non per la
signora Maria Valente, per il quale il Sebai era già stato condannato unitamente
a Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano, ritenendo impossibile
processare nuovamente il Sebai per lo stesso omicidio, secondo il principio del
ne bis in idem. Non ha però preso in considerazione il fatto che, in relazione a
detto omicidio, sono stati condannati anche Giuseppe Tinelli (ad oggi ancora
ristretto presso il carcere di Ivrea), Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano. A
questo proposito preme sottolineare come la Procura generale di Taranto avrebbe
potuto e, secondo lo scrivente, avrebbe dovuto chiedere la revisione penale
della sentenza che vedeva condannati ingiustamente, per l'omicidio della
Valente, il Sebai unitamente agli altri tre summenzionati imputati, in quanto
questi sono stati scagionati dalle dichiarazioni confessorie di Sebai Ezzadine
Ben Mohamed, ed alcuni di loro stanno ancora scontando un'ingiusta pena.
L'innocenza dei condannati è ulteriormente suffragata dalla sentenza emessa dal
Gup di Lucera in data 15.02.2008 il quale ha rilevato che nessun dubbio è
scaturito dalle emergenze processuali “in ordine alla ricostruzione del fatto ed
alla sua ascrivibilità ad un'azione cosciente e volontaria del Sebai”. La
confessione del serial killer delle vecchiette, Ben Mohamed Ezzedine Sebai,
tunisino di 44 anni, è “pienamente attendibile”: lo scrive il gup del tribunale
di Lucera (Foggia) Carlo Chiriaco motivando la sentenza con la quale, il 15
febbraio, ha condannato Sebai a 18 anni di reclusione (con rito abbreviato) per
l’omicidio di Celeste Madonna, di 81 anni, uccisa a Lucera il 25 aprile 1996.
A seguito delle dichiarazioni confessorie formulate da Sebai Ezzadine Ben
Mohamed, in riferimento alla posizione di Giuseppe Tinelli l'avvocato Claudio
Defilippi, difensore di quest'ultimo ha proposto istanza di revisione presso la
Corte d'Appello di Potenza, presentata in data 2 settembre 2008, avverso la
sentenza n. 05.1998 che lo riteneva colpevole, in concorso con Davide Nardelli e
Vincenzo Donvito, dell'omicidio della signora Celestina Commesatti (omicidio
avvenuto in Palagiano il 13 agosto 1995) ed una successiva istanza di revisione
volta ad ottenere la revoca della sentenza n. 06 del 2002 che lo riteneva
colpevole, in concorso col Sebai Ezzedine, in qualità di esecutori materiali
dell'omicidio di Maria Valente (omicidio avvenuto in Palagiano il 29 luglio
1997). La prima istanza di revisione è stata rigettata dalla Corte d'Appello di
Potenza che ha ritenuto inesistente un contrasto di giudicati, non essendo
ancora pervenuti ad una sentenza di condanna definitiva in ordine ai fatti dei
quali si è autoaccusato il Sebai. Sulla seconda istanza di revisione l'esito
negativo è scontato. Anche in riferimento alle posizioni di Vincenzo Faiuolo e
Francesco Orlandi l'avvocato Claudio Defilippi ha presentato due istanze di
revisione davanti alla Corte d'Appello di Potenza, volte ad ottenere la revoca
della sentenza che li ha ritenuti responsabili, in concorso tra loro,
dell'omicidio di Pasqua Ludovico. Anche queste istanze di revisione sono state
rigettate. Le dichiarazioni confessorie del Sebai Ezzadine Ben Mohamed, a
seguito delle quali lo stesso è stato mandato a giudizio per gli stessi fatti,
evidenziano la possibilità dell'esistenza di gravi errori giudiziari. Si tenga
presente, a questo proposito, che sono già stati comminati a persone
presumibilmente innocenti complessivi 100 anni di carcere, con il conseguente
pericolo per lo Stato italiano di dover pagare ingenti somme a titolo di
risarcimento per detti errori giudiziari, pari a 100 milioni di euro, più spese
processuali. Tutto a carico della collettività e non dei responsabili.
A questo punto la “logica” e i precedenti giurisprudenziali vorrebbero che – di
fronte all’ammissione di colpa da parte di Sebai Ezzedine ed in base ai
riscontri oggettivi – i condannati innocenti venissero scarcerati, almeno coloro
che non sono già fuori dopo aver scontato una pena ingiustificata. E invece
nulla, perché la giustizia (e la “g” è minuscola non a caso) prima di tirarli
fuori dalle patrie galere attende che il tunisino venga condannato in via
definitiva di fronte alla Cassazione per i quindici delitti commessi in terra
pugliese. Si noti bene, l’attesa secondo i tempi biblici italici. Potenza,
competente per il processo di revisione risponde di no. "Sebai è credibile, ma
questo non basta”.
Invece a Taranto, dove il 19 dicembre 2008 e l’8 gennaio 2009 si è tenuta
l’udienza contro Sebai, questo non è credibile, perché si è autoaccusato dei
delitti solo per scagionare i veri responsabili, che ha conosciuto in carcere.
La richiesta di assoluzione per il Sebai è giunta da parte del Pm Pina Montanaro
al termine del processo con rito abbreviato per l’uccisione di Grazia
Montemurro, di 75 anni (Massafra, 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di
86, (Castellaneta 14 maggio 1997). La stessa richiesta ha fatto il Pm Vincenzo
Petrocelli per l’omicidio di Celeste Commessatti, di 73, (Palagiano, 13 agosto
1995). A sorpresa, però, vi è stata una richiesta di condanna, formulata
nel corso dello stesso processo con rito abbreviato, riguardante l’omicidio di
Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza (Taranto) il 21 agosto del
1997. La richiesta di condanna è stata presentata dal Pm Maurizio Carbone.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino
è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole
scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia,
per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza
alcun condannato a scontare la pena.
Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di
sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art.
52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non
obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata
dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e
Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro
omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni
di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave
conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone,
ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano
invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore
giudiziario". Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era
anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano
responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto
delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i
magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
L’ingiustizia si evidenzia nel fatto che a decidere sulle eventuali
responsabilità dei magistrati requirenti sia un collega dello stesso foro. Si
palesa, altresì, dal fatto che la procura di Taranto è spaccata
sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed
Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa
di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato
a 30 anni di reclusione. Strano che proprio in quel caso la credibilità non dia
seguito ad alcuna conseguenza per i magistrati che hanno sbagliato, non
essendoci innocenti in carcere da risarcire. Da tener conto che il pm Vincenzo
Petrocelli è stato coinvolto in un altro caso di grave errore giudiziario, in
quanto già accusatore di Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente,
risarcito con 4,5 milioni di euro, senza contare che era, anche, il Pubblico
Ministero procedente al caso di Carmela, la ragazza che si tolse la vita
gettandosi dal 7° piano, vittima di abusi sessuali e mai creduta dal Petrocelli.
Per questi motivi l'avv. Luciano Faraon di Venezia, difensore di Sebai, si è
rivolto al Premier, al Guardasigilli, al Procuratore generale presso la
Cassazione, al CSM e al Procuratore generale di Lecce.
Mentre il difensore di alcuni dei condannati «per orrore», Claudio Defilippi,
avvocato di Modena, legale di 6 delle otto persone (una si è suicidata in
carcere dopo la condanna), ha chiesto al Guardasigilli di inviare gli ispettori
per verificare l’operato della procura di Taranto. Tutto lettera morta. ''La
procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle
vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è
credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm
è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia
l’avv.Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in
carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.
Dei delitti per i quali gli otto sono stati condannati si è successivamente
accusato Sebai. Defilippi chiede che il gup di Taranto Valeria Ingenito, dinanzi
alla quale è a giudizio Sebai, disponga un confronto all’americana tra i suoi
assistiti e il tunisino. E rilancia: “il fatto che i tre pm di Taranto non la
pensino allo stesso modo sull'attendibilità di Sebai dovrebbe spingere il
ministro della Giustizia a disporre un’ispezione in procura”. Per Defilippi, vi
è nel processo una “situazione di incompatibilità dei pm Montanari e
Petrocelli”.
“Questi – sottolinea – prima hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio e la
condanna definitiva di alcune persone che si proclamano da sempre innocenti
(Vincenzo Donvito, poi suicidatosi, Francesco Orlandi e Vincenzo Faiuolo) e
successivamente chiedono l’assoluzione per gli stessi omicidi per il serial
killer”.
27 aprile 2010. Al contrario della Procura Generale di Potenza, la Procura
Generale presso la Corte d’appello di Bari ha espresso parere favorevole al
giudizio di ammissione alla revisione del processo per il detenuto Vincenzo
Faiuolo, condannato alla pena definitiva di 25 anni di reclusione (13 anni e 6
mesi già scontati) per l’omicidio di un’anziana della quale si è poi accusato il
serial killer di anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai.
Faiuolo, in carcere a Volterra per il delitto di Pasqua Ludovico, di 86 anni,
compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Egli è stato ritenuto
esecutore materiale del delitto, per il quale fu processato anche il suo
fratellastro, Francesco Orlandi. Questi si ritenne avesse avuto un ruolo
secondario, motivo per il quale fu condannato per omicidio a 11 anni di
reclusione, pena che ha interamente scontato.
Entrambi hanno confessato il delitto ma tempo dopo hanno spiegato che la
confessione era stata estorta con minacce e violenza degli investigatori, tesi
questa che ha portato la magistratura barese ad affermare che il caso deve
essere riaperto, sia alla luce delle «prove sopravvenute», che sono ritenute
«serie», sia in virtù degli elementi di riscontro forniti da Sebai negli ultimi
anni: il serial killer si è infatti accusato di aver ucciso 14 anziane tra il
1995 e il 1997, compresa Ludovico.
Sebai ha così scagionato otto persone che erano state condannate negli anni per
aver compiuto i diversi omicidi. I magistrati che finora hanno giudicato il
serial killer non lo hanno ritenuto credibile perchè – è il ragionamento – egli
si è autoaccusato degli omicidi solo per scagionare gli otto veri responsabili,
che ha conosciuto in carcere. Uno di questi, Vincenzo Donvito, si è suicidato in
cella a Teramo il 21 luglio 2005 dopo aver proclamato per sette anni la propria
innocenza.
La richiesta di revisione è stata presentata da Defilippi sulla base di una
serie di elementi. Tra l’altro Faiuolo aveva confessato di aver ucciso la donna
con un coltello (recuperato) che si è poi rivelato diverso da quello usato
dall’assassino; ha poi spiegato di aver colpito la vittima con fendenti sferrati
personalmente con la mano sinistra (perchè è mancino), invece la donna è stata
assassinata da un killer destrimano. Ancora: gli anelli che la donna possedeva
sono stati trovati nella disponibilità di Sebai, così come un articolo di
giornale che parlava del delitto.
"La decisione dei giudici baresi è un successo importante perchè riapre il caso
Sebai. L'attenzione ora va agli otto innocenti, di cui uno si è suicidato in
carcere, che sono stati condannati a complessivi 100 anni di carcere per delitti
che non hanno compiuto. Il silenzio di questi otto innocenti oggi è finalmente
finito”. Così l’avv. Claudio Defilippi commenta la decisione della Corte
d’appello di Bari di ammettere la revisione del processo per il proprio
assistito, Vincenzo Faiuolo, condannato a 25 anni di reclusione per aver ucciso
un’anziana.
Del delitto si è poi accusato il serial killer delle anziane donne pugliesi, Ben
Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 46 anni. “Abbiamo trovato a Bari dei
magistrati che hanno voluto vedere dentro le cose. Mi auguro – afferma Defilippi
– che si possa al più presto verificare la responsabilità di un altro innocente,
Giuseppe Tinelli, condannato all’ergastolo per gli omicidi di Celeste Commesatti
(Palagiano, Taranto, 13 agosto 1995) e di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio
1997), ma che da sempre si dice innocente”.
“Tinelli – prosegue il legale – ha tentato di suicidarsi per due volte in
carcere ingerendo candeggina. Spero che, dopo 15 anni di detenzione, possa
ottenere la sospensione della pena per questi due delitti che non ha commesso”.
Il legale sostiene inoltre che il giudizio di revisione per Faiuolo, per
attrazione, riaprirà anche la posizione processuale dell’altro concorrente nel
delitto, Francesco Orlandi, condannato a 11 anni, pena che ha interamente
scontato a Trani (Bari) ed è ora libero. Delle otto persone “innocenti”, sei
delle quali sono difese da Defilippi, le sole detenute sono Tinelli e Faiuolo.
Dunque cosa è successo dal giorno in cui venne comunicato che la richiesta di
revisione era stata accettata?
“E’ successa una cosa molto grave - dice l’avvocato De Filippi a "Il
Democratico". - Prima la Corte di Appello di Bari ha accettato la richiesta di
revisione, ma poi mi è arrivato un provvedimento dalla Corte di Assise di
Appello di Bari che non c’entra niente e che ha revocato tutto. Ora: cosa
c’entra la Corte di Assise di Appello di Bari?! Questo si chiama provvedimento
abnorme: cioè quando non c’entra niente!
Praticamente un giudice che non c’entra niente ha fatto un provvedimento che
revoca quello emesso dal giudice competente. La Corte di Assise di Appello di
Bari non ha nessuna competenza in merito a questo processo”.
Cioè lei sta dicendo che la Corte di Appello di Bari e la Corte di Assise di
Appello di Bari sono due cose diverse e sganciate in merito a questo caso
giudiziario?
“Assolutamente si. È la Corte di Appello di Bari che ha la competenza del caso,
non quella di Assise”.
Ma allora come spiega questo provvedimento? Perché è stato fatto?
“Io non lo so. Non so le ragioni per le quali sia avvenuto tutto questo. Io non
so più cosa pensare perché sinceramente ogni mia mossa viene cancellata. Ogni
mia mossa viene bloccata: non so cosa pensare”.
Ma lei non ha nemmeno una vaga idea del perché si sia verificato questo
ennesimo, improvviso intoppo al normale svolgimento del processo di Faiuolo?
“Questo è il più grosso caso di errore giudiziario della storia d’Italia. Si
immagini un po’ se c’è gente che non lo vuole bloccare…Io non so chi sia e cosa
faccia, so solo che tutte le cose che faccio mi vengono bloccate
sistematicamente. Questo provvedimento qua è assolutamente abnorme, dato da un
giudice non competente e che non doveva essere di competenza. Non si capisce
perché questo giudice lo abbia fatto. Non si capisce niente!”
Ma quindi ora che ne sarà del processo? E’ stato tutto ‘chiuso’?
“Non è chiuso niente: io ho fatto ricorso in Cassazione contro questo
provvedimento, perché è assolutamente abnorme. I provvedimenti abnormi sono tali
per cui ci potrebbe essere una responsabilità disciplinare per il giudice che lo
ha emesso. Non doveva venire fuori questo giudice, perché è assolutamente
incompetente con il caso”.
Come si può commentare tutto questo?
“Dicendo che è una situazione paradossale, assolutamente strana. E il tutto
nell’assoluta assenza di media, giornali e tv”.
Quello di Vincenzo Faiuolo potrebbe essere, a tutti gli effetti, un grave caso
di malagiustizia. La riapertura delle indagini e la revisione del processo,
infatti, potrebbero testimoniare l’esistenza di plurimi errori giudiziari fatti
dal foro competente (quello di Taranto) che all’epoca condannò Vincenzo Faiuolo
ed altri con l’accusa di omicidio. Qualora tali ipotetici errori giudiziari
venissero dimostrati, infatti, un gran numero di giudici e magistrati verrebbe a
trovarsi in seria difficoltà poiché dovrebbe rispondere e giustificare il perché
di tali errori. In più c’è da considerare che questo è un caso,
complessivamente, da 100 anni di carcere: risarcire 100 anni di carcere
costerebbe moltissimo allo Stato.
Nonostante ciò, i Magistrati di Taranto hanno denunciato presso la Procura di
Potenza il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr. Antonio
Giangrande, il collegio difensivo del Sebai ed altri testimoni perché questi
hanno espresso dubbi di legalità riguardo il Processo Sebai, ossia il “killer
delle vecchiette”. Il reato contestato: calunnia nei confronti della difesa, per
essersi permessi di contestare con atti di rito le sentenze avverse; false
dichiarazioni rese a difensore nei confronti dei testimoni. In quest'ultimo caso
la denuncia non è stata fatta dal difensore, ma dai magistrati. Bah!!
Continua la battaglia dei Magistrati di Taranto contro l’Associazione Contro
Tutte le Mafie ed il suo presidente. “Non contenti di aver archiviato tutte le
mie denunce e dei miei clienti, fino a che mi hanno permesso di fare l'avvocato,
compresa quella ricevuta da altra procura e nella quale gli stessi magistrati di
Taranto erano denunciati, ed accolte tutte quelle contro di me, pur pretestuose,
come quella di calunnia per aver proposto come avvocato di terzi opposizione ad
una archiviazione - dice il dr Antonio Giangrande - alcuni Magistrati di
Taranto, prima mi hanno denunciato a Potenza perché ho pubblicato sui miei siti
le interrogazioni parlamentari e gli articoli di stampa, che parlavano degli
insabbiamenti delle inchieste presso il foro di Taranto, poi mi hanno denunciato
a Potenza, assieme al collegio difensivo del Sebai, per aver rilevato abnormi
anomalie riguardo il processo al killer delle vecchiette. Le anomalie sollevate
erano che il foro di Taranto, magistrati giudicanti ed inquirenti, non doveva
occuparsi, per conflitto di interesse, dei delitti di cui il Sebai si dichiarava
autore e per i quali i giudici di Taranto avevano già condannato altri imputati.
In quel processo il Sebai si accusava di 14 delitti, dando dovuti riscontri. A
Taranto è stato creduto solo per un delitto, guarda caso, per quello dove non si
è mai trovato un colpevole. Gli esiti di quel processo potevano far emergere
responsabilità dei magistrati che si erano prodigati a far condannare dei
presunti innocenti e per questo si urla che era poco opportuno che gli stessi
dovessero intervenire, più che sulle sorti dei detenuti, sulle conseguenze della
loro presunta negligenza od imperizia.”
Su questi fatti, silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Le denunce
penali presentate dal presidente dell'Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr
Antonio Giangrande, contro la Procura di Taranto, inviate a Potenza, sono
rimaste lettere morta. A seguito dell'indifferenza della Procura di Potenza le
denunce penali contro la Procura di Taranto sono state inviate presso altre
Procure. Queste hanno reinviato a Taranto le denunce ricevute. Risultato: la
Procura di Taranto da denunciata ha archiviato con abuso, in conflitto di
interessi, le denunce contro se stessa.
Silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Così come è per tutte le
interrogazioni parlamentari che hanno sollevato problemi di etica giudiziaria e
forense di quel foro. Interrogazioni che sono state presentate non da
Parlamentari tarantini. Nemmeno l'On. Franzoso ha avuto il coraggio di
ribellarsi, se non per altri, almeno per se stesso. Come molti ricorderanno,
l'on. Pietro Franzoso, tarantino, all'epoca non ancora deputato ma assessore
regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato come
un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio
che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una
cosca mafiosa. Il Tribunale di Taranto lo ha assolto dalla infamante accusa ma
la stampa ha riservato alla notizia poco spazio e pochissimo risalto.
Nella problematica è da segnalare l’astensione alla lotta della classe forense
tarantina contro i magistrati di quel foro per procedimenti di declaratoria di
errori giudiziari.
Il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ricorda altri casi.
Gronda ingiustizia la storia della strage della barberia, così come è stata
rivisitata dalla Corte di Appello di Potenza. Quella Corte ha scagionato quattro
innocenti, condannati come feroci killer per la mattanza dell’1 ottobre del
1991. Il punto di non ritorno della guerra di mala. Quel maledetto giorno i
sicari della mala irruppero nella barberia di Giuseppe Ierone, all’imbocco di
via Duomo. Spararono all’impazzata con mitra e pistole. Poi fuggirono
lasciandosi alle spalle quattro morti e due feriti. Cercavano i boss rivali,
invece, inchiodarono al suolo innocenti che con quella guerra tra bande non
avevano nulla a che fare. Il primo di una lunga serie di tragici errori. Nelle
ore successive alla mattanza, le indagini imboccarono la strada sbagliata. In
carcere finirono cinque persone.
A distanza di sedici anni la Corte di Appello di Potenza ha definitivamente
scritto che quattro erano innocenti. Giovanni Pedone, Massimo Caforio,
condannati a trent’anni come esecutori materiali, e Francesco Aiello e Cosimo
Bello, condannati ad undici anni come fiancheggiatori. Con quel tremendo delitto
non c’entravano. Ma la Corte di Potenza, nel motivare la revisione va oltre il
verdetto, svelando definitivamente particolari che inducono a riflettere. Un
aspetto su cui oggi si è soffermato l’avvocato Carlo Petrone che in questa
brutta vicenda ha assistito Giovanni Pedone, noto con il soprannome di
“fafetta”. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto
anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che
hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano
già parzialmente emersi nel corso del processo madre. Collaboratori di giustizia
del calibro di Francesco Di Bari avevano parlato, adombrando il sospetto di un
depistaggio messo in atto da un boss che a suo dire era vicino ai servizi
segreti. Ma quando quelle dichiarazioni furono portate in Appello, la Corte le
bollò come un tentativo di inquinamento probatorio. E fa specie leggere che quel
secondo grado del procedimento cominciò e si concluse in un giorno a dispetto
della complessità del caso. Come dire che se la giustizia è lenta l’ingiustizia
in quel caso fu rapidissima. Così come rapidi giunsero gli arresti per il
quadruplice omicidio. A spianare la strada sbagliata agli uomini della Squadra
Mobile un confidente. “Quel confidente - scrivono i giudici di Potenza - fu
messo in camera di sicurezza con Aiello e Bello i quali si decisero poi a
parlare”.
«E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto
durante le indagini».
Continua il dr Antonio Giangrande, parlando del caso Morrone.
“Domenico Morrone un terzo della sua vita l'ha spesa dietro le sbarre. 16 anni.
Ingiustamente. Lo avevano arrestato nel 1991 e condannato a 21 anni, perché,
secondo l'accusa, aveva ucciso a colpi di pistola due ragazzini davanti a una
scuola media di Taranto. Non era vero. E la verità è saltata fuori. Grazie alle
confessioni di due pentiti e ad una revisione del processo, la Corte d'Appello
di Lecce l'ha assolto. La stessa Corte gli ha riconosciuto 4,5 milioni di euro:
soldi che pagheranno i cittadini italiani e non i responsabili dell'errore.
In base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri, coordinati dal pm del
tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli, Morrone, poche ore dopo i fatti, fu
sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da
fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Ad incastrarlo - secondo l'accusa -
c'erano le testimonianze di alcune persone. Sia al momento del fermo sia durante
i processi a suo carico, l'imputato ha sempre detto di essere estraneo ai fatti,
ma nessuno gli ha creduto.
«Questo processo è stato caratterizzato da lacune immense - denuncia l'avv.
Defilippi - e i giudici di merito non hanno mai tenuto conto dell'alibi che
Morrone aveva, che era stato confermato sin dal primo annullamento con rinvio
della sentenza da parte della Cassazione. L'imputato ha sempre detto che al
momento del delitto si trovava nell'appartamento dei coniugi Masone, che
vivevano sullo stesso pianerottolo dell'abitazione della sua famiglia. I Masone
hanno confermato l'alibi del giovane durante il processo ma sono stati
condannati per falsa testimonianza, così come è stata condannata la mamma del
giovane che aveva riferito la stessa circostanza: «Queste persone - conclude il
legale - sono cadute nella fossa dell' inferno solo per aver detto la verità».
A Taranto si deve subire e si deve tacere. Potenza agevola. Processato per
diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le
Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta
del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia,
vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.
Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente
della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.
L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della
Repubblica di Taranto.
La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul
Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e
gli articoli di stampa nazionale.
I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne
conseguite 364.
Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza,
Curto e Cito.
Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della
fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente
irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente,
responsabile del procedimento concorsuale.
La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura
richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta
falsamente a carico di ignoti.
Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi
colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50
minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura;
giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di
polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno;
corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del
ricorso al Tar.
Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso
killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.
La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha
già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per
abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente
autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol
colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad
una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per
essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli
di presenziare ad una sua udienza; ovvero di farlo condannare per diffamazione
per aver pubblicato le inchieste sulle consulenze o perizie false; ovvero farlo
condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato
atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con
impedimento alla difesa.
Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte
di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce
degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.
Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi
forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e
Taranto.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia
contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto
sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito
dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine,
effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo
stesso foro. La procura di Taranto, investita per competenza, ha reiterato il
sequestro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa
nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi
contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo, e alla pagina di Taranto, le
prove sugli insabbiamenti della Procura locale.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia
contro il giudice di Manduria, che condanna sempre quando il Giangrande o un suo
assistito è imputato, ovvero assolve sempre quando il Giangrande o un suo
assistito è persona offesa. Questo sempre in contrasto alle prove acquisite.
Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di
ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle
ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia
attività professionale. Situazione che non assicura una adeguata difesa.
Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non
accetta di subire e di tacere, per sè e per gli altri.
L'USURA. BANCARIA E DI STATO?
L' "USURA" è quel fatto, dalla legge qualificato come reato, art. 644 c.p., in
cui una parte, usuraio, presta dei soldi o altra utilità ad un'altra parte,
usurato, a tassi di interesse o vantaggi superiori a quelli stabiliti dalle
norme. Spesso il reato di usura si accompagna al reato di violenza, minacce,
estorsione, abusivo esercizio di attività finanziaria.
L'usuraio diventa tale solo a condanna penale definitiva. Quindi ogni rapporto
di prestito di denaro, ( giuridicamente si definisce contratto di mutuo,
art.1813 c.c. ), non sfocia automaticamente in un procedimento penale.
Il genitore, il parente, l'amico, che ti vede in difficoltà finanziarie
temporanee e che ti presta una somma di denaro, non è automaticamente un
usuraio.
La persona in difficoltà economica transitoria, dovute alle più svariate
ragioni, spesso giustificate: malattie, disgrazie, ecc., ma quasi spesso
ingiustificate: gioco d'azzardo, vizi, mal governo delle proprie aziende, ecc.,
si rivolge alle banche per avere il mutuo.
Il nostro sistema bancario non è attento allo sviluppo socio economico del
territorio, ma mira solo al mero profitto.
In questo caso è forte con i deboli e debole con i forti. Ossia: per un mutuo o
uno scoperto sul conto corrente chiede delle garanzie spropositate rispetto al
denaro da prestare.
Il cittadino spesso non può far fronte a questi ostacoli. Ecco che si rivolge
alle persone a lui più vicine: genitori, parenti, amici.
In questo modo, colui il quale ha dato l'aiuto insperato diventa un benefattore.
Molte volte è la stessa banca ad elargire indirettamente il denaro, che
direttamente ha rifiutato di dare. Come spesso succede è la stessa banca a dare
il denaro con interessi maggiorati, anche attraverso le finanziarie.
Al momento della restituzione del denaro si compie il reato di usura, ovvero di
truffa.
Bisogna distinguere. L'usurato in buona fede è la vittima dell'usuraio, il quale
pretende la restituzione delle somme prestate, maggiorate del doppio o del
triplo. L'usurato in mala fede, che ha ricevuto il denaro e non lo vuole
restituire, accusa il parente o l'amico di usura.
La magistratura è restia a perseguire le banche per usura o per concorso in
usura e, tenuto conto che il reato è difficilmente dimostrabile, le denunce che
si presentano sono poche. Insomma, il cittadino vittima dell'usura non ha
fiducia nelle istituzioni. Senza fiducia non ci sono denunce. Senza denunce non
si attiva il procedimento per attingere dal fondo di garanzia. Il fondo di
garanzia garantisce, quando la pratica è approvata, solo ulteriori mutui al fine
dell'estinzione dei debiti pregressi.
Oltretutto, secondo la legge 108/96, al "Fondo di solidarietà per le vittime
dell'usura" istituito presso l'ufficio del Commissario straordinario del Governo
per il coordinamento iniziative anti-racket possono accedervi solo soggetti
economici e non i semplici cittadini.
In conclusione "USURA" è solo un fenomeno mediatico. Il reato di usura esiste,
ma non si vuole debellare, in quanto, spesso, le accuse partono da falsi
usurati.
Le archiviazioni dei procedimenti penali, inibiscono ogni forma di ribellione e
di lotta contro il reato di usura e di estorsione. Ogni proclama a tutela delle
vittime è solo specchio per le allodole, perché senza condanna non c’è
indennizzo statale. La sig.ra Lorena Sacchi di Brescia combatte da anni contro
il sistema dell’usura e dell’estorsione, in nome proprio, come aderente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e come rappresentante locale delle
vittime dell’usura. Per quanto le riguarda, a fronte del tasso usurario del 446
% a suo danno riscontrato dal perito della Procura di Brescia, inspiegabilmente
lo stesso Ufficio requirente ha richiesto l’archiviazione del procedimento
9097/02 RG. L’opposizione presentata ha avuto esito negativo. Con i tempi
della giustizia il reato di estorsione è prescritto, ben 6 anni di fase di
indagini preliminari. Non si deve pensare che questi tipi di reati siano di
pertinenza esclusivamente meridionale, per il sol fatto che la magistratura
archivia e i media tacciono. Sotto la cenere del perbenismo cova una coltre di
illegalità impunita e sottaciuta e a farne le spese sono tantissimi cittadini
come la sig.ra Sacchi. Dai dati ufficiali si evidenzia che solo 4 reati su
100 sono puniti, e solo il 69 % dei reati è denunciato.
Le dichiarazioni del presidente della Commissione Parlamentare antimafia
Forgione accusano le banche di essere le prime azioniste della mafia. Il
Commissario Straordinario del Governo per il Coordinamento delle Iniziative
Antiracket ed Antiusura ha presentato un esposto presso: l'Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato; l'Autorità Garante per la Protezione dei Dati
Personali; l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni; la Banca d'Italia; la
Procura Nazionale Antimafia; il Comando Generale della Guardia di Finanza.
L'esposto è presentato contro gli intermediari finanziari per presunta
pubblicità ingannevole.
Per il Commissario, la propaganda sulla velocità e sulla economicità
dell'erogazione del credito al consumo, a fronte di soggetti particolarmente
deboli, porta spesso all'omissione di informazioni, non solo sul T.A.N. ( Tasso
Annuo Nominale), ma soprattutto sul T.A.E.G. ( Tasso Annuo Effettivo Globale),
che nasconde onerosissimi costi di finanziamento, di cui le persone non sono
assolutamente consapevoli.
Quasi sempre l'interessato in questione ignora totalmente la misura del T.A.E.G.
e scopre solo successivamente l'onerosità dell'obbligazione assunta, a volte
ammontante a migliaia di euro.
Come si vede, anche le dichiarazioni delle alte Istituzioni sono sottaciute.
L’usura esiste ma è impunita ed invisibile. E’ un fenomeno avvinto nel sistema
bancario e finanziario. L’usura è come la Mafia. Tutti ne parlano dal punto di
vista sociologico ed astratto. Nessuno ha il coraggio di indicare il mafioso
accanto a lui.
L’Associazione Contro Tutte Le Mafie ha presentato ai Parlamentari Italiani una
proposta di legge, indicata sui siti.
Abolire il fondo di garanzia nazionale, burocratizzato, e prevedere una sorta di
fidejussione comunale per i meritevoli, garantita da un fondo per le insolvenze.
L’ente locale conosce il cittadino e i suoi bisogni, se meritevole, garantisce
per lui presso le banche locali. Se il cittadino diventa insolvente, la banca
erogatrice si attiva a ripetere l’insoluto dal fondo delle insolvenze. Il
sistema garantisce velocità e trasparenza e può essere adottato, anche, per
finanziare progetti di sviluppo.
Però si sa, in questa Italia alla rovescia, le cose utili al cittadino non sono
mai approvate.
LE CARCERI. OMICIDI E TORTURA DI STATO. COLPEVOLE INDIFFERENZA. QUANDO GLI ALTRI
SIAMO NOI.
Stefano Cucchi, arrestato perché deteneva venti grammi di droga. Dopo una
settimana in carcere è finito in ospedale, dove è spirato.
I familiari, quando gli è stato permesso, hanno trovato il corpo in condizioni
spaventose. Il padre alla stampa parla di «una frattura alla mandibola, di un
occhio rientrato in un’orbita, di costole rotte» e di «un volto nero come se
fosse bruciato».
Purtroppo Stefano non è da solo a morire di carcere. Dai dati del Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria, elaborati dall’Associazione Contro Tutte le
Mafie, risulta che negli ultimi 9 mesi ci sono stati 138 morti nelle carceri
italiane, di cui 56 per suicidio.
Le condizioni inumane della vita carceraria, ovvero la consapevolezza di essere
innocente, spinge chi, spesso è un povero cristo senza sponsor e senza difesa, a
scegliere la via più breve verso la libertà. Tutto questo nell’indifferenza di
chi addita in altri le proprie colpe o collusioni.
Sui network nazionali spesso si fanno battaglie per i canili lager, per
difendere i diritti degli animali. Ma un’informazione foraggiata e politicizzata
si dimentica di illuminare le nefandezze perpetrate dal sistema sugli umani.
Così come non si capisce il silenzio o la diplomazia delle associazioni
tematiche.
Gli ultimi dati ministeriali disponibili ci parlano di 64.595 detenuti, a fronte
di una capienza sui 205 istituti di 43.186 unità. Ben 21.409 detenuti in più
stipati uno sull’altro, come cavie.
Il dato allarmante, che mette all’indice il sistema giudiziario, è che solo il
48,5 % di questi ha subìto condanna (31.363). Il resto, si badi bene, è formato
da persone presunte innocenti (33.232)!!
Ma un dato salta agli occhi. Se da un lato gli italiani in carcere presunti
innocenti sono il 47 %, per gli stranieri il dato balza al 58 %.
Indigenza è sinonimo di difesa inadeguata, quindi il parallelismo: povero =
colpevole.
Dal 1945 al 1995 in cella vi sono stati 4 milioni di innocenti. Dal 1980 al 1994
vi è stata assoluzione per metà dei reclusi vittime di detenzioni ingiuste. La
percentuale di persone prosciolte è risultata pari al 43,94 per cento di quelle
sottoposte a giudizio. In cifre assolute, più di un milione e mezzo di cittadini
è stato giudicato non colpevole, degli oltre 3,5 milioni finiti di fronte ad un
giudice. E ancora: di questo milione e mezzo sono più di 313.000 quelli
prosciolti con formula piena. Tradotti in cifre, i mali della giustizia fanno
rabbrividire. Si chiamano errori giudiziari e in 50 anni di storia repubblicana
hanno travolto 4 milioni di italiani. Per omonimia, perizie errate, calcoli
approssimativi sulla permanenza in carcere. Errori o distrazioni che hanno avuto
costi altissimi per le casse dello Stato. Non per niente il rapporto che
l'Eurispes ha preparato e che è stato presentato a gennaio del 2006, si
intitola: "Un popolo a rischio. Gli italiani e la macchina della giustizia".
Ad oggi non vi sono a riguardo dati statistici ufficiali da parte del Ministero
della Giustizia, per ovvie ragioni, ma ormai siamo vicini ai 5 milioni di
vittime del sistema. Adesso quasi ogni giorno, sostiene il rapporto
dell'Eurispes, "lo Stato si vede costretto a riconoscere i propri errori e a
rifondere cittadini innocenti".
Ai ben pensanti, giustizialisti e garantisti a senso unico, è bene rammentare un
fatto: uno stato di diritto ad elevata civiltà giuridica deve pretendere “pena
certa e riabilitativa in giusto processo”.
Solo così si può dare rispetto a quelle istituzioni che lo pretendono senza
meritarlo.
CENSURA ED INFORMAZIONE.
Editoriale stampa. Censura o Giornalismo fascista ???
Art. 21 Cost., “libertà di manifestare il pensiero”, sì, ma solo per i
giornalisti (fascistizzati). Questo afferma il dr. Antonio Giangrande,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia
del Trucco, l’Italia che siamo”.
In tema di intercettazioni da più parti si solleva il problema della libertà di
espressione del proprio pensiero, costituzionalmente garantito.
I Magistrati vorrebbero il libero arbitrio sul loro uso a fini investigativi.
Nel mucchio si cerca la prova per manifestare un reato, spesso ad uso di lotta
politica, invertendo l’ordine della giustizia, ossia: prima la denuncia di
reato, poi la prova della sua fondatezza.
I Politici vorrebbero l’assoluto impedimento sul loro uso, per garantirsi
l’impunità.
I giornalisti vorrebbero il totale uso, sia a fini investigativi che
informativi, affinché siano liberi di allestire gogne mediatiche e di sbattere i
mostri in prima pagina.
Nessuno che chieda al cittadino, intercettato e sputtanato, spesso senza che ci
sia reato, cosa pensa. Tutti parlano e sparlano, nessuno ascolta la voce del
popolo.
Quindi ecco il vero problema: c’è libertà di parola??
L'art. 21 della Costituzione stabilisce che: “Tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione”.
La Corte di Cassazione italiana ha recentemente stabilito una serie di requisiti
affinché una manifestazione del pensiero possa essere considerata rientrante nel
diritto di critica e di cronaca: veridicità (non è possibile accusare una
persona sulla base di notizie false), continenza ed interesse pubblico. Se si
tratta di fatti personali, anche se veri e continenti, non dovrebbero essere
pubblicati. Al riguardo operano i limiti previsti dai reati di diffamazione ed
ingiuria. In generale costituiscono un evidente limite al diritto di cronaca
anche l'onorabilità e la dignità della persona. Tutto ciò è diventato sempre più
vero dopo la legge sulla privacy del 1996. Chi è coinvolto in procedimenti
giudiziari non potrebbe essere fotografato in un momento in cui è sottoposto a
carcerazione. Allo stesso modo il nome e le immagini di minori sono oscurati dal
1996. Quindi, il diritto di manifestare il proprio pensiero si concretizza nella
libertà di critica, di informare ed essere informati. La libertà di informare e
la libertà di essere informati danno luogo al c.d. diritto all’informazione.
Circa le modalità di esternazione del pensiero, anche critico, la Cassazione ha
affermato che esso può manifestarsi anche in maniera estemporanea, non essendo
necessario che si esprima nelle sedi, ritenute più appropriate, istituzionali o
mediatiche, ove si svolgano dibattiti fra i rappresentanti della politica ed i
commentatori. Diversamente, verrebbe indebitamente limitato, se non conculcato,
il diritto di manifestazione del pensiero che spetta al comune cittadino.
Inoltre, sempre la Cassazione, ha affermato che la critica può esplicarsi in
forma tanto più incisiva e penetrante, utilizzando anche espressioni suggestive,
quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria.
Questo è quanto scritto nelle norme superiori, ma di fatto, poi, il sistema ti
dà e il sistema ti toglie.
Carlo Ruta è uno storico siciliano che l'8 maggio 2008 è stato condannato per
"stampa clandestina" perché proprietario di un sito internet, che faceva
informazione civile senza che fosse stata eseguita la registrazione presso la
cancelleria del Tribunale di Modica. La violazione è quella dell'art. 16 della
legge 47 del 1948 che riguarda principalmente i giornali cartacei, ma che è
stata in questo caso applicata al web e ai blog. Negli Stati Uniti d'America, il
primo emendamento della Costituzione, che protegge la libertà di stampa, tutela
anche blog e altri website "amatoriali". In Italia i blogger, come ultimo
baluardo di verità, rischiano ogni giorno di essere querelati o addirittura
incriminati per diffamazione a mezzo stampa, processo che può essere chiesto
anche, pretestuosamente, da personaggi dichiarati colpevoli in sede penale e
condannati a lunghe pene detentive anche per fatti gravissimi.
Questo cosa vuol dire?
Vuol dire che nell’Italia repubblicana “Tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione” solo se si manifesta sulla stampa periodica.
La stampa periodica e gli altri strumenti di informazione vengono imbrigliati
dalla legge sulla stampa (L. n. 47 dell'8 febbraio 1948), nella quale i due
cardini sono la creazione del direttore responsabile e l'istituzione dell'Ordine
dei giornalisti ( L. n. 69 del 1963). I criteri ispiratori della legge sono quel
«senso altissimo di responsabilità» di cui ha parlato Mussolini alla prima
riunione dei giornalisti fascisti, e la «prevalenza della libertà dello Stato su
quella del cittadino» sbandierata da Amicucci, segretario del sindacato
nazionale fascista dei giornalisti, che prende il posto della disciolta
Federazione della stampa.
Altro problema si è posto con la nascita dell'emittenza privata e con le radio e
telegiornali diffusi dai privati e per questo la legge 14 aprile 1975 "Nuove
norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva" ha sancito con
l'articolo 7: “Ai telegiornali ed ai giornali radio si applicano le norme sulla
registrazione dei giornali e periodici contenute negli articoli 5 e 6 della
legge 8 febbraio 1948 n. 47, i direttori dei telegiornali e dei giornali radio
sono, a questo fine, considerati direttori responsabili”. Con il programma
radiotelevisivo di approfondimento informativo si analizza una notizia che ha
già formato oggetto di cronaca, quindi acquisita dal telespettatore, allo scopo
di garantirgli un’adeguata informazione su un fatto di indubbio interesse
pubblico. Un contenitore molto gradito al grande pubblico è il talk show, dove
il conduttore, generalmente in piedi, è idealmente circondato dai partecipanti.
Introdotto il tema della trasmissione, il conduttore dà via al dibattito,
ponendo domande alle quali i partecipanti rispondono esponendo le loro tesi.
Nel programma di approfondimento informativo l’obiettivo primario del
giornalista conduttore è dissipare ogni dubbio facendo emergere la verità. Di
conseguenza, presenterà il fatto così come accertato attraverso inchieste,
testimonianze, provvedimenti giudiziari, documenti, fonti ufficiali, etc.
Ricorrerà all’ausilio di soggetti dotati di una particolare competenza sul tema
da trattare. Insomma, dovrà favorire la relazione del telespettatore al fatto.
Qui il giornalista conduttore produce informazione. Ha un ruolo attivo nel
programma e ne è il protagonista, parte essenziale del contraddittorio. Può,
anzi, deve interrompere, contraddire l’ospite, che fa affermazioni non
rispondenti al vero, avendo unicamente la funzione di relazionare il
telespettatore alla realtà. Quando il suo atteggiamento è a ciò finalizzato, il
giornalista conduttore non può mai essere tacciato di “faziosità”, perché
garantisce l’obiettività dell’informazione. Ma negli ultimi anni è andata
manifestandosi la tendenza a far prevalere sull’accertamento della verità il
punto di vista, la valutazione, la posizione soggettiva di chi partecipa al
programma. Tendenza marcata nei programmi informativi a contenuto politico. Qui
l’aspetto dell’inchiesta giornalistica è marginale, a volte assente. I
protagonisti del programma sono i soggetti politici, rappresentati nel rispetto
del principio del pluralismo, ma che nella maggior parte dei casi sono, per ovvi
motivi, portatori di un interesse incompatibile con l’interesse della
collettività ad acquisire il fatto nella sua completezza ed obiettività. Da più
parti si attribuisce il fenomeno ad una precisa scelta delle testate e degli
stessi giornalisti conduttori, che volutamente rinunciano ad approfondire il
fatto per dare spazio alle voci dei politici. E’ anche vero, però, che una
simile conduzione è sostanzialmente imposta dalle norme che negli ultimi periodi
si sono incaricate di disciplinare il sistema radiotelevisivo, in gran parte
emanate dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza, organo di natura
indiscutibilmente politica, visto come sono nominati i suoi 40 membri
(pariteticamente dai presidenti di Camera e Senato, ma scelti tra tutti i gruppi
parlamentari).
Quindi, per manifestare il proprio pensiero bisogna essere giornalisti. Inoltre,
la maggior parte delle agenzie di stampa, dei giornali e delle televisioni sono
di proprietà editoriale privata. Molto spesso questo proprietario è un partito,
oppure sono gestiti da grandi gruppi economici e finanziari che esercitano ogni
tipo di influenza. Quando la proprietà è pubblica, essa è in mano agli
schieramenti politici. Da qui l’espressione di lottizzazione del sistema
informativo pubblico: fazioso e disinformativo.
Quale libera informazione può essere fornita da soggetti prezzolati
dall’economia (proprietà o pubblicità) o genuflessi alla politica, alla
magistratura, o all’Ordine che ne detiene l’Albo.
“All'albo siam fascisti” è un contributo sul tema di Rinaldo Boggiani.
Furono i Gesuiti, nell'Ottocento, a proporre che i giornalisti fossero obbligati
ad iscriversi ad un Albo professionale. Da allora... L'istituzione di un sistema
che selezioni coloro che possono scrivere sulla stampa periodica, è nei
programmi politici dei gesuiti. "Il giornalismo non ha nessuna garanzia" scrive
Civiltà Cattolica il 4 dicembre 1883. E ancora nel 1913: "Il peggio è che la
professione di giornalista è libera nel suo esercizio da qualunque impaccio, non
richiedendosi né prova d'idoneità, né abilitazione, né garanzie di moralità,
Insomma di tanti esami e patenti, la stampa n'è affatto immune. In nome del
popolo sovrano ogni educatore deve possedere il suo certificato in carta
bollata, dal dotto universitario al sottomaestro di villaggio. N'è fornita
perfino la suora che vigila sui marmocchi nei giardini d'infanzia; solo il
grande pulpito della pubblicità è libero; qualunque mestatore o farabutto può
salirvi in veste da profeta per esprimere la sua opinione".
"Con l'istituzione dell'Albo professionale" scriverà Ermanno Amicucci, il
proponente della legge che istituisce Ordine e Scuola di giornalismo, futuro
Segretario Generale del Sindacato Nazionale Giornalisti, ultimo direttore del
Corriere della Sera dell'era fascista, "il Fascismo ha risolto questo problema:
che usurpatori non autorizzati s'impadroniscano d'un potere. Non sarà più
possibile d'ora innanzi fare del giornalismo, l'agognato refugium peccatorum, il
comodo asilo di tutti i profughi, il ricorrevo di molti spostati; per esercitare
la professione di giornalista, a norma delle disposizioni contenute nel
regolamento per l'Albo, occorrerà possedere ben determinati titoli culturali e
morali". Art. 7 legge 31 dicembre 1925, n. 2307: "È istituito un ordine dei
giornalisti che avrà le sue sedi nelle città ove esiste corte d'appello". L'albo
risponde a un'ideologia di vertice, di controllo, di comando, di pianificazione
quindi, che i fascisti accolgano l'idea dei gesuiti, non fa certo meraviglia,
anzi è la conferma che un'organizzazione dall'alto non può rinunciare a un tale
controllo.
Con la caduta del fascismo, la neonata democrazia avrebbe dovuto abolire l'albo,
metterlo fra i tristi ricordi della follia totalitaria: quelli da far studiare
ai ragazzi per alimentare la memoria storica. Ma gli obiettivi politici della
nuova classe dirigente, erano altri. Come cancellare un tale strumento di
potere? Un veloce maquillage e voilà, il gioco è fatto. I giuristi, quelli che
vivono all'ombra della sedia del principe, si misero al lavoro cambiando alcune
parole. Così l'art. 4 del regio decreto del 26 febbraio 1928, n. 384: "L'albo
dei giornalisti è composto di tre elenchi, uno dei professionisti, l'altro di
praticanti, il terzo di pubblicisti", diventò l'art. 1 della legge repubblicana
del 3 febbraio 1963, n. 69: "È istituito l'ordine dei giornalisti. A esso
appartengono i giornalisti professionisti e i pubblicisti, iscritti nei
rispettivi elenchi dell'albo". E ancora: Regio decreto 26 febbraio 1928, a. 1:
"Presso ogni sindacato regionale fascista dei giornalisti esistente nel regno è
istituito l'albo professionale per i giornalisti. I giornalisti che siano
residenti nelle colonie, sono iscritti nell'albo professionale di Roma". Legge
repubblicana del 3 febbraio 1963, n. 69, a. 26: "Presso ogni Consiglio
dell'Ordine regionale o interregionale è istituito l'albo dei giornalisti. I
giornalisti che abbiano la loro abituale residenza fuori del territorio della
Repubblica sono iscritti nell'albo di Roma".
Ecco fatto: tutto come prima. Oggi ci ritroviamo a rimpiangere le libertà del
‘800.
"Albi di giornalisti!" ha detto Luigi Einaudi, "Idea da pedanti, da falsi
professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire agli altri di
pensare con la propria testa. L'albo è un comico non senso, è immorale perché
tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera
espressione del pensiero".
Ritorniamo sul problema: non si sa mai che ci sfugga qualcosa. Si può
giustificare l'Ordine dei giornalisti in un sistema democratico, e può
continuare in democrazia un istituto voluto da un regime totalitario?
In merito all'Ordine dei giornalisti, cosa ne pensa la Corte Costituzionale?
"La legge istitutiva dell'Ordine", ha detto il giudice che doveva ripulire
l'ordinamento dalle invenzioni fasciste, "disciplina l'esercizio professionale
giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo di manifestazione del
pensiero, sicché, esso non tocca il diritto di manifestare liberamente il
pensiero che l'articolo 21 della Costituzione riconosce a tutti" (sentenza n. 11
del 1968). Concetto scombinato: da una parte l'esercizio professionale
dall'altra l'uso del giornale.
Se l'Ordine dei giornalisti non ha alcuna legittimazione democratica; se la sua
istituzione è storicamente e logicamente fascista, quale giustificazione danno,
a quali argomentazioni affidano la propria difesa i vertici dell'Ordine stesso?
Le argomentazioni sono di questo tenore: "L'Ordine significa il riconoscimento
giuridico della professione di giornalista. L'esame di Stato è prescritto
dall'articolo 33 della Costituzione. Senza esami e senza titolo chi lavora nelle
redazioni si riduce a essere un impiegato o un mestierante. Senza la legge
istitutiva dell'Ordine verrebbe meno, inoltre, l'obbligatorietà giuridica di
osservare regole etiche".
Primo: sono argomentazioni già sentite. "Il Sindacato Nazionale Fascista dei
Giornalisti si propone di tutelare gli interessi morali e materiali dei
professionisti della categoria".
Secondo: l'art. 33 della Costituzione al comma 5 dice: "È prescritto un esame di
Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di
essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale". Non dice altro. Dal
testo della dichiarazione, detta e scritta in più occasioni, sembra che la
Costituzione legittimi l'Ordine.
Terzo: "l'obbligatorietà giuridica di osservare regole etiche", risponde solo a
un'ideologia totalizzante; è un ossimoro, cioè un serpente logico che si mangia
la coda, del tipo libertà obbligatoria. "La libertà di stampa" dichiarò infatti
il Duce, al primo Congresso del Sindacato Nazionale Fascista dei giornalisti in
Campidoglio nel gennaio 1924, "non è soltanto un diritto, è un dovere".
L'Ordine, insomma, è a tutela della moralità e professionalità del giornalista.
"L'Ordine dei giornalisti" dicono i vertici istituzionali dell'Ordine "è a
garanzia dell'indipendenza".
Secondo il rapporto del maggio 1994 della organizzazione privata americana
Freedom House sulla libertà di stampa nel mondo, l'Italia figura all'ultimo
posto tra i paesi industrializzati a causa dell'intreccio fra media, potere
economico e potere politico.
Mettere i giornalisti davanti al fenomeno Tangentopoli è come sparare a un
morto: dove erano i giornalisti mentre il sistema imputridiva? Cosa scrivevano
quando tutti sapevano tutto? In un sistema democratico il giornalista controlla
tutti. In Italia tutti controllano i giornalisti.
E veniamo, per chiudere il cerchio, ai circoli della stampa. "Ciascun Sindacato
regionale fascista" scrive l'on. Amicucci "ha istituito uno o più Circoli della
Stampa, luoghi di riunione in cui i giornalisti raccolgono intorno a sé la parte
più eletta del mondo intellettuale della città". E così ancora oggi. "L'episodio
più vergognoso dell'intera vicenda Tortora è forse rappresentato dall'accorrere
della Napoli bene al Circolo della Stampa per la presentazione del libro “Gianni
il bello”, autobiografia di Giovanni Melluso (uno dei pentiti autoaccusatosi di
traffico di droga per poter accusare Tortora) dettata da questo personaggio a
una signora, congiunta di un alto magistrato. Attorno alla depositaria della
preziosa narrazione fecero ressa magistrati, consorti dei medesimi, direttori di
giornali, uomini di mondo e di affari, cortigiani vari". "I Circoli della
Stampa" scrisse l'on. Ermanno Amicucci, "hanno una funzione ricreativa e
culturale".
Presidente Dr Antonio Giangrande ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE
Editoriale stampa. “Mostri in prima pagina” e “Bufale giornalistiche", ecco la
casta dei giornalisti.
“Quando la notizia non si dà, ma si fa”, dice il dr Antonio Giangrande,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Sbatti il mostro in prima pagina……e se il mostro fosse totalmente estraneo al
reato imputatogli e assolutamente innocente, come successe a Enzo Tortora e ad
altri 5 milioni di cittadini innocenti, vittime di errori giudiziari negli
ultimi decenni ?
Sbatti il mostro in prima pagina è un film del 1972 diretto da Marco Bellocchio
ed interpretato da Gian Maria Volontà. La trama definisce la Milano degli anni
’70. Nel clima teso della contrapposizione politica, nella redazione del
quotidiano fittizio “Il Giornale” (l'omonimo verrà fondato 2 anni dopo, nel
1974) il redattore capo, su invito della proprietà, segue gli sviluppi di un
omicidio a sfondo sessuale per incastrare un militante della sinistra
extraparlamentare e strumentalizzare il fatto politicamente. La campagna
mediatica sortisce l'effetto sperato, ed il mostro viene condannato innanzitutto
sulle prime pagine del giornale e la condanna, in primis morale, aiuta l'area
reazionaria a screditare gli ambienti della sinistra nella fase elettorale.
Il cinema ha posto attenzione su un fenomeno diffuso in Italia. Il tempo passa,
le parti si invertono, ma il vizio non si perde.
Si usa denominare quarto potere la capacità dei mass media di influenzare le
opinioni e le scelte dell'elettorato. È questo un uso metaforico del termine
potere, distinguendolo da quello legislativo, esecutivo e giudiziario.
In Italia ogni notizia diffusa dalla stampa sembra la lettura pedissequa della
velina passata dalle autorità giudiziarie o di pubblica sicurezza. Il gergo è
quello dell’accusa.
Nessuno spazio è dato alla difesa. Nessuna remora a pubblicare l’immagine e i
dati delle persone.
Naturalmente le fughe di notizie, per fatti sottoposti a segreto istruttorio,
dovrebbero essere perseguite, incriminando i magistrati che ne sono i custodi.
Invece la punizione è parziale.
Carlo Vulpio, già inviato del Corriere della Sera, è uno tra quelli che ha
seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal
Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato
assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata
alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale. Capi
d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Non solo è stato
incriminato, ma è stato anche rimosso dal giornale. Ma torniamo all’oggetto
dell’inchiesta.
Il fenomeno dei falsi scoop è la dèbacle del giornalismo italiano.
18 luglio 2009: a partire dalle 15,30 tutte le Agenzie battono la notizia di tre
suore fermate in autostrada tra Torino e Aosta perchè correvano a 180 all'ora
per correre dal Papa in ospedale. Il troppo stroppia: un'altra notizia che mette
in cattiva luce delle religiose? Nella redazione di “Avvenire” qualcuno ricorda
che pochi giorni prima si parlava di una neo-suora, di cui erano state
pubblicate foto piccanti su Facebook; di un sacerdote beccato a guidare ubriaco
perchè aveva fatto 4 messe di seguito... E allora parte il primo controllo, in
parallelo -va aggiunto- a quello dei cronisti de “Il Giornale”. In un minuto e
mezzo “Avvenire” scopre che dietro queste storie ci sono sempre gli stessi
avvocati. E scopre che alla Polizia non risulta niente.
“Falsi giornalistici. Finti scoop e bufale quotidiane” (Guida editore). Il
saggio presenta un tema scottante, quello dei falsi giornalistici. Esso mette in
luce come, negli ultimi anni, molti dei quotidiani italiani, che hanno
calamitato l'attenzione dei lettori, risultino invece falsi del tutto. Tra
l'altro i redattori hanno sempre meno la possibilità di verificare la
credibilità delle notizie, che vengono diffuse alcune volte con lo scopo di
diminuire la credibilità dei giornali, oppure per utilizzare gli stessi come
strumento per calunniare o mettere in difficoltà qualcuno. Il volume è stato
adottato nell'Università di Salerno, Facoltà di Sociologia e Corso di laurea in
Scienze della comunicazione.
Ma allora, viene da chiedersi, come la mettiamo con i media, che spesso
propongono ai loro lettori, oltretutto con ambizioni di ufficialità, burle
fantasiose ed inverosimili almeno quanto quelle pubblicate, con chiaro intento
provocatorio e clownesco, dai siti internet sparsi per il pianeta?
Un esempio lampante è stato offerto dal celebre quotidiano francese "Le Monde",
che anni fa diede in prima pagina la notizia della morte di Monica Vitti,
provocando lo sconcerto dell'attrice.
I giornalisti, senza che vi sia intervento disciplinare da un ordine elevato a
casta, continuano ad attentare alla reputazione dei cittadini indifesi,
coprendosi dietro il diritto di critica o di cronaca. D’altro canto, invece,
tacciono le malefatte dei poteri forti, per collusione o per codardia.
Per fare sensazione e nocumento si redigono i pezzi, improntandoli in modo tale
da anticipare giudizi di condanna: giudizi che sono propri di un procedimento
giudiziario in contraddittorio e, come ben si sa, già di per sé inattendibili
con un “sistema giustizia” allo sfascio.
Neanche, poi, che i giornalisti venissero dalla luna, senza macchia e senza
peccato. Invece si scopre che le modalità di accesso alla professione sono
identiche a quelle degli avvocati, magistrati, professori universitari,
ecc..(con inchieste che ne hanno inficiato la credibilità), o che i media sono
foraggiati dalla politica e dall’economia. Fatti, questi, che ne minano la
credibilità.
Poi, spesso, si scopre, anche, che chi vorrebbe imporre a noi la morale, invece
è peggio del mostro sbattuto in prima pagina. Notorio è quanto è successo al
direttore di “Avvenire”, il cui curriculum morale è stato pubblicato da Vittorio
Feltri su “Il Giornale.”
Editoriale stampa. La Casta degli editori: la censura occulta.
“L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i
manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di
manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce l’esercizio” Questo
dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le
Mafie.
La libertà di manifestazione del pensiero è una delle principali libertà e
diritto fondamentale dell’era moderna. Tanto più se è mirata allo sviluppo
socio-economico-culturale della comunità. Questa libertà è riconosciuta da tutte
le moderne costituzioni. Ad essa è dedicato l’art. 19 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo del 1948, come l'art. 10 della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,
ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848. L'art. 21 della
Costituzione italiana stabilisce che: Tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione.
Tale libertà è, tra le altre, considerata come corollario dell'articolo 13 della
stessa Costituzione della Repubblica italiana, che prevede l'inviolabilità della
libertà personale, tanto fisica quanto psichica.
L'interpretazione dell'art. 21 dà vita a dei principi: Il diritto di critica e
di cronaca, oltre alla libertà di informare e la libertà di essere informati.
Il pensiero per essere manifestato ha bisogno di formarsi come merce accessibile
a tutti, quindi essere pubblicato e distribuito.
Ciò avviene in proprio o con l’editore.
La produzione in proprio con distribuzione porta a porta, è un’ipotesi
fallimentare. L’opera non essendo sostenuta dalle istituzioni e non
pubblicizzata dai media, non è acquistata da una moltitudine di utenti finali.
La produzione tramite un editore può avvenire, in modo improprio con la
compartecipazione alle spese, ovvero senza oneri per l’autore. Naturalmente
l’editore vaglia, corregge e censura le bozze dell’opera, oltre che valutarne la
commerciabilità. Spesso non è importante l’opera, ma che l’autore sia un
personaggio noto alle cronache, o che sia seguito dal pubblico, per usufruire
dei benefici di visibilità. Spesso si privilegiano argomenti fatui e non di
approfondimento e di denuncia, perché la società contemporanea sente l’esigenza
di estraniarsi dalla realtà quotidiana.
L’editore, acquisendo i diritti dell’opera, la distribuisce e la vende,
riconoscendo una minima parte dei proventi all’autore, per di più dopo molto
tempo.
Paradosso: l’impedimento alla libertà di manifestare il pensiero è posto proprio
dal sistema che ne prevede l’esistenza.
L’autore autoprodotto non ha benefici, né sovvenzionamenti, né visibilità.
L’editoria, quindi un’attività economica privata, ha finanziamenti pubblici e
pubblicitari, benefici postali, regime speciale IVA, sostegno dei media e delle
istituzioni.
A questo punto, per manifestare liberamente il proprio pensiero, si è costretti
a rivolgersi ad apparati: che conformano l’opera alle proprie aspettative; che
sono omologati, in quanto foraggiati dalla politica e dall’economia ed
intimoriti dalla magistratura; che hanno distribuzione esclusiva e rapporti
promozionali poco trasparenti. A riguardo è impossibile essere invitati o
premiati a manifestazioni culturali, se non si è tutorati da qualche editore,
pur avendo scritto un capolavoro. Spesso gli editori sono proprietari di testate
d’informazione o di emittenti radiotelevisive, quindi si parla dell’opera o
dell’autore solo se si fa parte dell’enturage.
Inoltre per poter pubblicare un articolo d’informazione si è costretti a far
parte di un’altra casta: quella dei giornalisti.
C’è da dire che non tutti gli editori sono parigrado. C’è prevaricazione dei più
forti a danno dei più deboli. Alcuni di loro, operanti nel campo
radiotelevisivo, sono vittime di tentativi di acquisizione illegale delle
frequenze assegnatele, con mancanza di tutela reale.
Quale è il trucco ?!
Ogni emittente ha una frequenza su cui è autorizzata a trasmettere con
un'antenna di una certa potenza, per non disturbare le trasmissioni delle
emittenti viciniori. Alcune di loro, tra cui alcuni grandi network nazionali,
pensano bene di centuplicare illegalmente la loro potenza, irradiando il loro
segnale di molto oltre a quello per cui sono autorizzati. In questo modo
disturbano o oscurano le trasmissioni altrui, impedendo a questi l'acquisizione
del mercato pubblicitario, fonte di sostentamento, che leso, porta al fallimento
dell'impresa.
Il Ministero, informato dalla parte interessata, comunica la data dell'ispezione
alla controparte, che ha il tempo di ripristinare la legalità, per poi ripetere
l'abuso ad ispezione finita. Tempi e costi dell'operazione tecnica sono
ammortizzabili da chi si avvantaggia illegalmente dell'acquisizione
pubblicitaria indebita. Mal che vada, comunque, la parte colta in fragrante,
deve sorbire solo una piccola multa.
Esemplare è il caso di Radio Padania. Il ministero dello Sviluppo economico
zittisce la voce di Radio Padania Libera nel Salento. In una nota del 24 gennaio
2011 fatta pervenire in copia al Comune di Alessano, i competenti organi
ministeriali scrivono che l’impianto dell’emittente leghista «non si intende
autorizzato». Radio Padania dal 17 dicembre 2010 ha trasmesso nel Capo di Leuca
da una postazione situata proprio ad Alessano e dotata di un sistema radiante
collegato a un impianto da due kilowatt di potenza. Il segnale viaggia sui
105.600 MHZ in modulazione di frequenza e disturba quello dell’emittente
salentina Radio Nice del gruppo leccese Mixer Media dell’editore Paolo Pagliaro,
che trasmette su identico canale da Parabita. La radio lumbard ha i contenuti
dei palinsesti carichi di risentimenti contro i meridionali espressi a chiara
voce dai radioascoltatori padani, cui si lascia microfono libero. Ma la nota del
ministero dello Sviluppo economico che sospende le trasmissioni di Radio Padania
non risolve l’anomalia di mercato delle frequenze. Infatti il vero problema
consiste nel fatto che Radio Padania gode del triplice privilegio di acquisire
le frequenze in deroga, di avere un contributo annuale da parte del governo, di
diventare proprietaria della frequenza trascorsi novanta giorni. La vera
anomalia è proprio questa: in un momento in cui il mercato delle frequenze è
bloccato, Radio Padania può, trascorsi novanta giorni, permutare le proprie
frequenze ottenute in deroga con altre frequenze di radio commerciali. Occorre
modificare questo privilegio concesso dalla finanziaria Bossi-Berlusconi del
2001. L’emittente della Lega Nord, in quanto comunitaria dovrebbe rendere un
servizio, ma l’unica cosa che fa è quella di riempire di insulti i meridionali,
senza che mai nessuno abbia denunciato il suo direttore per diffamazione a mezzo
stampa.
Qualcuno spera che le opportunità tecnologiche, social network o blog,
superino la censura mediatica. Poveri illusi. Non basta una piattaforma d’elite,
chiusa ed autoreferenziale, con tecnologie non accessibili alla massa,
oltretutto soggetta a sequestro ed ad oscuramento giudiziario.
Nulla, oggi, per arrivare a tutti, può soppiantare un buon articolo, un buon
libro, una buona canzone, un buon film, o una buona trasmissione
radiotelevisiva.
In conclusione. Con questo sistema si può ben dire che il libero pensiero, pur
lecito e meritevole di attenzione, è tale solo quando è chiuso in una mente
destinata all’oblio, altrimenti deve essere per forza conformato al sistema:
quindi non più libero.
Caso Sarah Scazzi. Resoconto di un avetranese: Etica e Deontologia professionale
fai da te.
«Con il caso di Avetrana bisogna, ove ve ne fosse bisogno, rivalutare il ruolo e
l’utilità sociale dell’informazione in Italia. Va bene l’intento investigativo e
il pungolare la magistratura a tener desta l’attenzione sul caso, ma sforare lo
sciacallaggio ed istigare alla violenza, no!! Non è ammissibile ricevere email
ingiuriose e minacciose da parte di chi è manipolato dal circo mediatico, sol
perché si è cittadini avetranesi. La notizia si dà, non si fa. L’accusa di
omertà rivolta a chi si batte contro tutte le mafie è offensiva e
controproducente, specie se rivolta a chi ben conosce la professione e le
origini di chi inveisce con queste accuse e dovrebbe invece tacere. Una comunità
sana non parla se non ha conoscenza oggettiva dei fatti e non può sapere cosa
succede in uno scantinato». Questo dice il dr. Antonio Giangrande, presidente
della “Associazione Contro Tutte le Mafie, avetranese doc.
Tv e giornali con i loro inviati cercano di carpire le verità sul caso Sarah
Scazzi, senza l’ausilio dei professionisti e delle associazioni locali. Un’orda
di giornalisti appostati in un vicoletto (prima la casa di Sarah e poi di
Sabrina) a porre domande tendenziose ai curiosi che spesso di Avetrana non sono,
o rivolte a chi è poco scolarizzato. Chi porta giacca e cravatta viene escluso.
Naturalmente, ogni riferimento alle più svariate prese di posizione, a dire dei
giornalisti, della totalità dei cittadini di Avetrana per qualsiasi argomento è
falso. Perché Avetrana sono anch’io, e nessuno ha mai chiesto il mio parere a
qualunque riguardo.
Se permettete faccio io un resoconto della faccenda, avendo io seguito il caso
da vicino e avendo io visionato anche l’operato dei media, per verificare se la
verità soggettiva del giornalista, esposta con gli occhi di chi pensa di
scendere da Marte su Avetrana a dettare etica, morale, cultura ed emancipazione,
corrisponda alla realtà. Si è aspettato il "giornalista" non omologato alla
menzogna o al clamore, anticonformista e fuori dagli schemi. Ad Avetrana non è
mai arrivato. Avetrana, Italia. Questa è l'informazione. Intanto Avetrana non
sarà più la stessa.
Sarah Scazzi è stata ammazzata 1 giorno e violentata per 42 giorni. E stata
scarnificata. I suoi più reconditi segreti sono stati palesati con l’intento di
dimostrare che la ragazza voleva fuggire da un paese rozzo, arretrato e bigotto.
All’epilogo solo “Studio Aperto” ha chiesto scusa a Sarah e a mamma Concetta.
Avetrana è un paese di circa 8.000 anime. Non ha teatro, cinema, discoteca,
perché in un paesino siffatto non è economico gestirli. Ma ha tutto quanto, e
forse di più, di quello che potrebbe avere un paese analogo, posto in qualsiasi
territorio nazionale. Ha due oratori, centri sani di ritrovo per i ragazzi. Ha
delle moderne strutture sportive, compreso un palazzetto dello sport.
Avetrana ha a 6 Km una realtà (la costa) che tutti ci invidiano, con tutti gli
strumenti di svago che si possa desiderare. E’ posta a 45 km da Taranto, Lecce e
Brindisi, con le loro “movide” e i loro svaghi.
Avetrana ha i suoi professionisti e le associazioni, ma che nessuno pensa bene
di intervistare o far conoscere. Avetrana non è solo Scazzi o Misseri.
Avetrana ha l’avvocato più giovane d’Italia; ha l’autore del libro “L’Italia del
trucco, l’Italia che siamo”, letto in tutta Italia; ha la sede legale della
“Associazione Contro Tutte le Mafie, in Italia seguitissima; ha la sede
nazionale di Tele Web Italia; ha il vice presidente della Camera di Commercio di
Taranto. Ma questo non interessa. Le cose positive non interessano.
Nella Savana quando c’è un animale malato e debole, viene sopraffatto da branchi
di iene o sciacalli. Questo succede ad Avetrana. I media si buttano sulle
vittime di turno, scarnificandole.
A me non piace generalizzare, ma mai nessuno che si tiri fuori dallo
sciacallaggio mediatico, dal gioco al massacro, vergognandosi per i colleghi.
Gli indagati sono indagati. Nessun codice, oltremodo deontologico giornalistico,
permette di condannare con giudizi sommari, o istigare a farlo con termini come
“orco” “mostro”, coloro i quali non lo sono in virtù di sentenza giudiziaria
definitiva. Tale atteggiamento legittima il popolino ad usare termini come
“forca” o “pena di morte”.
Gli atti giudiziari sono secretati fino al termine delle indagini preliminari.
Nessun codice, oltremodo deontologico giudiziario, prevede che essi si diano in
pasto alla stampa, finanche prima che alle parti forensi coinvolte.
La difesa è garanzia per la tutela dei diritti degli indagati. Nessun codice,
oltremodo deontologico forense, permette di offrirsi gratis, giusto per un
tornaconto mediatico, o “fare le scarpe” al collega. L’azione disciplinare del
Consiglio dell’Ordine degli avvocati ha permesso allo stesso Consiglio di
consolidarsi uno spazio mediatico, di cui era stato estraniato, tacendo per anni
l’abilitazione truccata dei suoi iscritti.
Anzi. E’ stata fatta cadere apposta nel vuoto dai media l’intervista al tg di
TeleNorba dell’ex portavoce della famiglia Scazzi, Valentino Castriota,
contenente il fatto che Sabrina è stata pagata dai media nazionali per le sue
continue comparsate e al fine di porre in essere i presunti depistaggi.
Sciacallaggio per sciacallaggio, perché non si verifica se e quanto sono pagati
i presenzialisti delle tv nazionali (familiari, loro avvocati e consulenti,
pseudo esperti salottieri) per arricchirsi sui poveri resti di Sarah e chi ha
dato il diario di Sarah per essere pubblicato.
Sarei curioso di sapere se e quanto sono genuine le dichiarazioni rese in tv dai
protagonisti prezzolati della tragedia, che si sta rivelando una farsa.
I media sono gli informatori e gli educatori di una civiltà.
Per questo non mi meraviglio del fatto che l’opera mediatica abbia partorito il
fenomeno del pellegrinaggio dell’orrore. Nasce il tour del macabro alimentato
dal tourbillon mediatico. Diritto di cronaca non è assalire mamma Concetta dal
ritorno dall'obitorio dove vi era Sarah, o attaccare Valentina, che porta il
ricambio in carcere a sua sorella Sabrina Misseri, o intervistare miratamente
tutti i meno colti nelle vie per dimostrare che Sarah voleva scappare da un
paesino retrogrado ed omertoso, o sentire gli pseudo esperti pagati a gettone
nei salotti televisivi, che smentiscono sè stessi a secondo l'evolversi delle
circostanze. Il turismo dell'orrore visita i luoghi dello scempio: la fossa dove
Sarah è stata per 42 giorni; la casa della vittima; la casa dell'orco; il
cimitero.
Per questo non mi meraviglio del fatto che non solo a casa di Sabrina vengono
recapitate lettere e si ricevano telefonate minatorie, minacciose ed ingiuriose.
Siamo al punto che e-mail di quel tono sono recapitate anche a noi sol perché
siamo avetranesi e che nulla centriamo con l’omicidio.
La vicenda si chiude con alcune certezze:
che mai un dramma ha avuto tanta attenzione mediatica sin dal primo giorno;
che l’informazione, spesso, è sciacallaggio, superficialità, dilettantismo;
che, nonostante le risorse impiegate e le forze messe in campo, mai si sarebbe
scoperto il responsabile di un siffatto delitto e ritrovato il corpo, se non
fosse stato lo stesso autore a consegnarsi. Lo stesso procuratore capo di
Taranto, Franco Sebastio, in conferenza stampa ha ammesso che non era a
conoscenza del fatto che vi fossero 26 mila scomparsi e che i carabinieri
avessero il Rac, il Reparto analisi criminologiche;
che i protagonisti della vicenda hanno scelto di affidarsi all’assistenza e
consulenza di avvocati ed associazioni che non fossero di Avetrana, pronti a
sfruttare la ribalta, nonostante i loro compaesani si siano prestati in modo
disinteressato e non richiesto;
che, da parte dei protagonisti della vicenda, vi è stata troppa propensione ad
apparire in tutte le occasioni, anche quando sarebbe stato meno opportuno a
tutela dell'immagine di Sarah, ovvero per tempi e modi di trattazione degli
eventi;
che gli scomparsi appartengono quasi sempre ad un ceto sociale umile e poco
scolarizzato, ma che a torto i media uniformano con tutta la loro comunità, e
che solo una mobilitazione mediatica può costringere gli inquirenti a dedicare
maggiore attenzione alla vicenda, nella speranza che questi trovino il colpevole
e non "un colpevole";
che spesso la massa si erge a giudice degli altri, secondo le circostanze,
influenzata dai media, non pensando che gli altri sono anche loro e, comunque,
con le sentenze sommarie minacciate si mettono al pari dei carnefici.
La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo
qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di
Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a
denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della
vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai
magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute
addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che
non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però,
propria della magistratura).
Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di
fughe di notizie.
Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia.
Dopo l'arresto di Michele Misseri, sua figlia Sabrina, il fratello Carmine, il
nipote Cosimo, l'avvicendamento continuo degli avvocati e dei consulenti, la
vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di sua
moglie, Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura
dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive
di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta
Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali,
meritano il dovuto rispetto.
Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende
giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.
A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della
giustizia e del giornalismo italiano.
Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana?
Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è
ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo
stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza,
padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle
ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il
suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un
caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina
di Manfredonia, in provincia di Foggia.
Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi
dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un
caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che
si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di
chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per
la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un
pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato
dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della
ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro
c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se
l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la
comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono
vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima
da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con
il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini.
Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e
Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di
favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento
della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto
liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente
della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto
di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della
prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina
Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno
favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina
ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva
una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse
lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il
fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la
conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione.
Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i
giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel
momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione,
omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli
errori dei magistrati.
Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande,
scrittore (autore anche del libro in elaborazione su Sarah Scazzi, già
pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In
sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso:
povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un
sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si
inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano.
In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti
scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di
accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti
che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione
pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla
sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato
per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra
reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se
innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e
Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia
di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti.
Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga
compassione le altre vittime di questa vicenda?
Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come
“puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state
responsabili indirettamente della sua morte.
Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle
vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di
riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media
approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si
afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità
tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.
LE AFFISSIONI ELETTORALI ABUSIVE. VISIBILITA’ ABUSIVA E SELVAGGIA.
“Ad ogni tornata elettorale le città e i comuni sono imbrattati dai manifesti
elettorali abusivi. Si tratta di uno scempio, di una prepotenza e di una
illegalità di fronte alla quale le istituzioni sono colluse. I cittadini
denuncino ogni affissione posta fuori gli spazi a loro destinati. A scanso di
insabbiamenti, le segnalazioni con racc. a.r. devono essere indirizzate ai
vigili urbani, e contestualmente ai carabinieri e/o alla polizia.”
Questa è la presa di posizione del dr Antonio Giangrande, presidente
dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie.
“Ad ogni elezione tutti i partiti, che d’altronde già da tempo non rappresentano
gli interesse dei cittadini, invadono le città d'Italia deturpandole con una
vera e propria guerriglia urbana fatta di illegalità, spreco, lavoro nero e
prepotenza. Decine di migliaia di manifesti abusivi, il cui tempo di vita medio
è di poche ore, vengono attaccati su ogni muro e ogni luogo disponibile da
squadre di lavoratori in nero, assoldati da agenzie specializzate che godono
dell'impunità più assoluta. La legge prevede che il Comune predisponga apposite
plance, dove ad ogni partito è assegnato il suo spazio. Una legge mai
rispettata. Secondo Radio Radicale per ogni elezione i Comuni spendono circa 100
milioni di euro per rimuovere i manifesti affissi abusivamente. In alcuni casi
fanno anche le multe. A Roma nel 2008 ne sono state fatte 5.472, che al costo di
400 euro l'una, in totale arrivavano a 2 milioni e 188 mila euro. Ma il
Parlamento, con il decreto Milleproroghe del marzo 2009, grazie a un emendamento
proposto insieme dal Pdl e dal Pd, ha approvato un condono per le multe inflitte
a partiti e candidati dal 2005 al 2009. Nel servizio delle “Iene” trasmesso da
“Italia 1” del 17 aprile 2009 sull'affissione abusiva dei manifesti, si sente
dalla viva voce del rappresentante della maggiore agenzia di affissioni di
Milano come vengono gestite le campagne elettorali sulle strade. «Il mio
consiglio spassionato da tecnico è andare in abusiva, solo in abusiva! Il Comune
non riesce a starci dietro. Chiude un occhio. Poi magari te li coprono, però
dopo 4-5 giorni. Il Comune lo sa che siamo noi a devastare la città. Come saprai
per legge i manifesti elettorali andrebbero affissi negli spazi che ogni comune
mette a disposizione in occasione della campagna. Ad ogni partito sono assegnate
un pari numero di plance appositamente contrassegnate. Ogni manifesto attaccato
fuori dagli spazi preposti dovrebbe essere multato per ogni giorno che rimane
affisso. Noi prendiamo multe per 58mila euro - prosegue l’intervista delle Iene
- ma paghiamo 1.000 euro ed è finito. Nessuno ha mai pagato una multa da quel
punto di vista lì. Aspettano tutti i condoni. «Giro tutta la notte per
controllare che non ci siano sovrapposizioni delle squadre e per risolvere,
eventualmente, controversie sul territorio. Come vedi ho una pistola a portata
di mano». Sono le parole letterali del boss dell’organizzazione di
attacchinaggio elettorale a Roma riportate dal “Corriere della sera” in un
articolo dell’11 aprile 2008. Questa è l’Italia del trucco, l’Italia che
siamo!!”
NOMINA TRUCCATA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.
I cittadini sono chiamati ai seggi per votare. Diversi nostri concittadini
svolgono funzioni di "responsabilità" ai seggi elettorali in qualità di
presidenti, segretari e scrutatori di seggio. Ciascun seggio è presieduto da un
Presidente, coadiuvato da un segretario e da 4 scrutatori, fra i quali lo stesso
presidente ha nominato il suo vice. Ma come funziona il meccanismo elettorale.
La nomina dei Presidenti di seggio è effettuata dal Presidente della Corte
d'Appello competente per territorio tra le persone iscritte all'Albo delle
persone idonee all'ufficio di Presidente di seggio elettorale, istituito dalla
legge 21 marzo 1990, n. 53.
Ai sensi dell’art. 1, comma 7, gli elettori che desiderano iscriversi nell'Albo
delle persone idonee all'Ufficio di Presidente di seggio elettorale devono
presentare domanda alla Corte di Appello competente per territorio, per tramite
del Sindaco del proprio Comune di residenza entro il 31 ottobre di ogni anno.
L'iscrizione dovrebbe essere gratuita e durare a vita e la nomina dovrebbe
essere effettuata con imparzialità (sorteggio).
Dov’è il trucco ??
In fase di aggiornamento periodico annuale dell’albo si cancellano i nominativi
che per vari motivi non sono degni di farne parte (immotivati rifiuti, gravi
inadempienze, ecc.). Cancellazione, spesso, non notificata agli interessati.
In tale fase, e non tutti lo sanno, il comma 9 prevede che si dà preferenza di
nomina a chi, più furbo, direttamente in Corte d'Appello ha manifestato nuovo
gradimento o formulato ulteriore domanda per l’incarico.
A ciò si aggiunge l’illegale impedimento da parte delle cancellerie ad accludere
nuove iscrizioni, perché, secondo loro, l’albo è già pieno.
Non solo. Il Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e
territoriali, Direzione centrale dei servizi elettorali, con Circolare N.
11/2009. Prot. 0000674 Roma, del 20.03.2009, dava le seguenti indicazioni, alla
faccia dell’imparzialità.
“Tanto premesso, si reputa opportuno rappresentare all’attenzione delle SS.LL.
l’imprescindibile esigenza che la scelta dei presidenti di seggio riguardi, in
via prioritaria, quegli elettori che, per i loro requisiti di cultura giuridica
e professionalità, ovvero di comprovata capacità e di competenza per aver già
svolto in maniera efficace ed efficiente analoghi incarichi, anche solo nella
veste di scrutatori o di segretari di seggio, senza però essere mai incorsi in
precedenti cancellazioni dal relativo albo o in segnalazioni di disfunzioni
varie, garantiscano la massima idoneità all’espletamento dell’incarico.
Pertanto, si rappresenta l’opportunità che, da parte delle Cancellerie delle
Corti d’appello, vengano tempestivamente individuati, nell’ambito dell’albo,
ulteriori adeguati nominativi di possibili sostituti onde fronteggiare, con
immediatezza ed efficacia, prevedibili rinunce da parte dei presidenti
designati.”
Quindi non ci dobbiamo meravigliare se sono sempre gli stessi a ricoprire
l'incarico di Presidente di seggio.
In passato la nomina di scrutatore dell’ufficio elettorale di sezione avveniva
tramite sorteggio casuale (legge n. 95 del 1989), mentre attualmente la chiamata
è diretta e nominativa (ovvero non casuale) (legge n. 270 del 2005). In questo
ambito, prima della legge 270/2005, la scelta avveniva tramite sorteggio (spesso
truccato) delle persone elencate in un apposito albo istituito presso i comuni.
Con questa legge è stato invece disposto che la nomina degli stessi scrutatori
avvenga tramite un Comitato elettorale costituito dai partiti politici. In
questo modo, anche al di là delle intenzioni dei legislatori, si è finito col
fornire un ulteriore elemento di corruzione della nostra vita politica.
I giovani nominati scrutatori da un certo partito non possono sottrarsi al
dovere di manifestare gratitudine al partito che li ha scelti; e lo faranno
votandolo. Ma lo scambio di “favori” non avviene solo tramite il partito e
l’elettore; avviene anche tra l’elettore e il candidato che è riuscito a farlo
nominare scrutatore. Il candidato che ha maggior potere dentro un partito può
infatti facilmente disporre di 20/30 nomine di scrutatori.
Considerando che ogni scrutatore può normalmente orientare dai 3 ai 6 voti
(familiari e amicali), è facile prevedere come venga falsato il risultato
elettorale (specialmente tra i candidati di uno stesso partito). La possibilità
offerta ai partiti di nominare gli scrutatori realizza quasi un “voto di
scambio”; legalizzato, ma non per questo meno odioso.
E’ come se l’ufficio di collocamento fosse gestito dai partiti politici, e ogni
partito potesse far assumere un certo numero di lavoratori, in base alla
percentuale di voti ottenuti. Sarebbe naturalmente uno scandalo; ma è proprio
questo che si verifica con l’attuale modalità di nomina degli scrutatori. La
differenza risiede solo nella durata dell’occupazione, ma la sostanza
dell’ingiustizia è la stessa.
Questa è una considerazione oggettiva se si tiene conto che vi è stata già nella
Legislatura 13º il Disegno di legge N. 1858 presentato al Senato su iniziativa
dei senatori BRUNO GANERI, VELTRI e LOMBARDI SATRIANI, comunicato alla
Presidenza il 12 dicembre 1996, denominato “Disposizioni per la nomina di
disoccupati a componenti di seggio elettorale”.
“Puntualmente, in ogni consultazione elettorale, vengono consumati atti di
ingiustizia nei confronti di coloro che da anni sono in attesa di un posto di
lavoro. É trascurabile l'apporto economico per chi svolge le funzioni di
componente di seggio elettorale, quando é titolare spesso di un stipendio; é
mortificante invece per il disoccupato che si vede privato anche di siffatte
piccole soddisfazioni che, a volte, gli consentono almeno di vivere per qualche
giorno con una manciata di denaro in tasca. E non a torto nei vari giornali,
quotidiani e non, viene dato rilievo a siffatta ingiustizia.
Per la cronaca riportiamo passi di alcune lettere al direttore della Gazzetta
del Mezzogiorno del 6 aprile 1994: "In un momento di particolare disagio
economico e lavorativo, in cui migliaia di giovani disoccupati sono alla ricerca
di un minimo sostentamento, si é rilevato ancora una volta con le ultime
elezioni che agli stessi disoccupati vengono privilegiati cittadini regolarmente
occupati. Questi cittadini, oltre ad arrecare, con la loro assenza, disagio alla
propria azienda per i giorni contemplati per le votazioni, beneficiano di un
compenso oltre che economico anche di due ulteriori giorni di riposo, così come
sancito dalla normativa vigente. Tutto questo stride violentemente contro ogni
morale, in quanto il problema della disoccupazione viene regolarmente ignorato
anche in queste pur minime circostanze. É auspicabile che questo mio
risentimento, condiviso da innumerevoli cittadini, prescindendo da valutazioni
di ordine politico, venga ascoltato da chi si appresta a governarci ed
attentamente valutato".
Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 15 aprile 1994: "... ai suddetti presidenti
sono aggregati i soliti segretari (molte volte loro parenti) e, perché no, i
soliti scrutatori, che di riffe o di raffa si sono insediati. Orbene, se le
suddette, persone si fossero insediate per sorteggio, farebbero bene a giocare
settimanalmente un terno al lotto, vista la fortuna che si ritrovano. Se invece
il loro insediamento non fosse questione di fortuna, allora sarebbe tutto
un'altro discorso".
Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 23 aprile 1994: "... anche la nomina dei
presidenti di seggio presuppone amicizie, conoscenze e segnalazioni. Desta
amarezza che siffatto comportamento venga tenuto presso le corti d'appello i cui
presidenti, é bene ricordarlo, firmano i decreti di nomina dei presidenti di
seggio e che invece farebbero bene a sorvegliare quanto avviene nelle
cancellerie e negli uffici elettorali presso queste dislocati per evitare che la
discrezionalità di cui godono in tale materia non sfoci in arbitri, e per
impedire abusi, prevaricazioni e favoritismi. Basti pensare che il personale
degli uffici giudiziari, dagli assistenti ai cancellieri, indipendentemente dal
titolo di studio e dalla qualifica rivestita, sono privilegiati e
sistematicamente nominati (si vedano a tale scopo gli elenchi dei presidenti,
nei quali é dato rinvenire che tutti gli impiegati che ne hanno fatto domanda
hanno poi ricevuto la nomina) e pertanto sono considerati, solo perché
appartengono a detti uffici, in possesso di quei requisiti oggi richiesti e che
a me, procuratore legale, evidentemente difettano".
E chi più ne ha più ne metta!
Spinti da una profonda esigenza, che sgorga da considerazioni umanitarie e da un
senso di giustizia, formuliamo il presente disegno di legge, perché venga posto
fine alla nomina di componenti dei seggi elettorali per persone già vincolate da
un normale rapporto di lavoro. Siamo consapevoli che la misura proposta é una
goccia nell'oceano, ma il solo pensiero di considerare lo stato di necessità e
di disagio in cui versano tali persone é già atto di solidarietà.
Pertanto, a nostro parere, la scelta dovrebbe essere rigorosamente orientata
verso persone residenti nel luogo di votazione: così si eviterebbe che molti
presidenti, provenienti da comuni distanti oltre dieci chilometri, percepiscano
considerevoli compensi per missioni, ovviamente anche (ciò accade molto spesso)
per familiari ed amici che portano con loro.”
I CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.
Una novità editoriale per i candidati dei concorsi pubblici.
“L’Italia delle raccomandazioni e dei concorsi pubblici truccati” di Antonio
Giangrande
E’ successo al concorso dei Magistrati; ma pure e reiteratamente al concorso
degli avvocati; come anche al concorso per notai, senza dimenticare i concorsi
accademici e dei giornalisti e tralasciando i concorsi pubblici minori o locali.
Da ultimo, e non per ultimo, è successo al concorso per dirigenti dell’Agenzia
delle Entrate e, se non bastasse, anche al concorso dell’Avvocatura dello Stato.
Stesse aule, stessi concorsi, stesso sistema concorsuale dell’altro millennio,
medesimi risultati: disordini e proteste contro le irregolarità a vantaggio di
alcuni e giù l’intervento delle Forze dell’Ordine contro i candidati che si
lamentavano. Le commissioni d’esame preposte ed i Ministeri di riferimento hanno
liquidato sbrigativamente le questioni affermando: “sono i soliti pochi
facinorosi”. E lì tutti a nascondere o ad incriminare il malessere di chi,
obbligato a trovare una via d’uscita da questa crisi, è costretto a partecipare
a concorsi pubblici di cui non pone assoluta fiducia della loro regolarità. E
poi, ci sono loro: gli ultimi “mohicani” asserragliati in Parlamento a difendere
i loro privilegi e prerogative, che sono poi quelli di caste e lobby,
continuando a perpetrare un sistema ormai logoro e difettato. Insensibili e
sordi alle richieste di milioni di vittime che sono condannati a farsene una
ragione.
Ma il risentimento dei candidati esclusi su cosa si fonda? Sulla percezione che
tutti i concorsi pubblici siano truccati e non accettano di essere vittime
sacrificali a vantaggio dei soliti raccomandati “figli di”? Sulla constatazione
che la magistratura non voglia debellare un sistema di cooptazione di cui loro
stessi ne hanno usufruito? Ma i concorsi pubblici, dietro quella parvenza di
circostanza e di legalità, sono veramente truccati ed impuniti?
A quanto pare sì. A dispetto dei benpensanti è uscito il libro di inchiesta e di
denuncia di Antonio Giangrande: “L’Italia delle raccomandazioni e dei concorsi
pubblici truccati”. Eventi, date, circostanze: è tutto provato. Dall’indizione
del concorso pubblico alla pubblicazione dei risultati fino alla tutela
giudiziaria ed amministrativa. Da quanto scritto dal maggior esperto in Italia
della materia non c’è nulla da salvare, eccetto che fare finta di nulla ed
andare avanti a promuovere chi non merita. D’altronde, come i politici, abbiamo
la classe dirigente che ci meritiamo.
Lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS.
«Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei
ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce alla gogna.
Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone,
viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso
"uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è
laureato a 36 anni, sì, ma come?
A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere
nella famiglia giusta.
A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica,
5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da
deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.
A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due
bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno
dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori
dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di
lavorare.
Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia
(non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché
aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione
al primo anno di esame forense.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori
dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di
lavorare.
Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei
predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché
basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»
L’Associazione Contro Tutte le Mafie consiglia ai candidati bocciati ad un
concorso pubblico di chiedere copia dei propri elaborati e il verbale di
correzione. Probabilmente troveranno i compiti immacolati e risulterà che il
tempo, intercorso tra l’apertura e la chiusura della sessione diviso i compiti
corretti, essere di pochi minuti: insufficiente per effettuare l’apertura della
busta, lettura, correzione, commento e consultazione dei commissari, giudizio e
verbalizzazione. Ciò prova che si è dichiarato il falso nell'attestare che il
compito è stato corretto e si è commesso un abuso nel dichiararlo non idoneo. A
questo punto si consiglia di presentare una denuncia penale contro i nominativi
della commissione correttrice e, contro l’insabbiamento, con la postilla di
essere informati della richiesta di archiviazione per presentare
opposizione. Contestualmente va presentato ricorso al Tar. Tutto ciò dovrebbe
portare all’abilitazione e al risarcimento del danno.
Il dr Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia
Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del
trucco, l’Italia che siamo”, presenta il “Dossier sui concorsi pubblici
truccati”.
Esso è il frutto di anni di ricerche ed approfondimenti su un sistema che sforna
la nostra classe dirigente, e per questo, dai risultati che ottiene, la medesima
dimostra la propria inadeguatezza.
Antonio Giangrande lo fa in occasione della prova scritta del concorso forense,
che si tiene presso la Corte d’Appello, come ogni anno a metà dicembre, e in
relazione alla riforma che imprime maggiori tutele alla lobby, stilata in
Parlamento da chi si è abilitato con un sistema truccato.
Lo fa in seguito alla missiva del Governo del 5 ottobre 2009, in risposta alla
sua richiesta di intervento per la tutela dei diritti soggettivi su un caso
concreto: “esistono concorsi irregolari e violazione della tutela giudiziaria.
Provvederemo”. Intervento mai arrivato.
«Nessuno come me conosce il fenomeno ed ha il coraggio di parlarne. Ho
partecipato ad un concorso in polizia da incensurato e da parà. - testimonia
Giangrande - Ho superato brillantemente i test scritti e le prove
psico-fisiche-attitudinali: ero tra i primi, ma altri mi hanno preceduto,
estromettendomi dal numero chiuso. Lo stesso dicasi per il concorso di autista
dei mezzi speciali del Ministero della Giustizia. Ho partecipato ad un concorso
per comandante dei vigili urbani. Lo ha vinto, precedendomi, chi l’aveva indetto
e regolato, da comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale,
trattenendo rapporti professionali con i commissari d’esame. Per aver pubblicato
le sue motivazioni sulla stampa di tutto il mondo, sono stato denunciato per
diffamazione dal Pubblico Ministero che aveva archiviato il mio esposto penale.
Per anni (a due cifre) ho partecipato al concorso forense. Ho visto abilitarsi
tanta gente inetta. Ho visto tante illegalità e le ho sempre denunciate. Ho
pagato per questo. Il mio nome è conosciuto da tutte le commissioni d'esame ed
inserito nella loro lista nera».
Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è
stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010
dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente
della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo
politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha
palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un
altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è
la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema
occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato
tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo
dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo,
nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come
spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di
alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il
meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure
compensato dal merito."
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini
si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La
Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo
agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi
dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi?
«La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di
avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame.
Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri
30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a
fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto,
erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo
calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il
triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo
che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di
Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte
e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino,
Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione
era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e
abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di
ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a
Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali:
magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che
ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?
COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n.
112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli
scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i
Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i
Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del
loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto,
mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa
riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni
e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine
bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola.
Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro
lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura
che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state
interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n.
4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n.
478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006
nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le
commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato
un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta
di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da
quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di
avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza
stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con
percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).
LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore
Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al
Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n.
274).
INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del
Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la
lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché
alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi
dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura
ufficiale.
IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al
concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora
peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso
per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato
dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso
di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto:
fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari.
Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i
banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne
autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della
Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il
presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi
candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in
possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima».
Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era
stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e
espulsioni.
IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una
busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è
così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati.
A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia
penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del
padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione.
“Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo
annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per
farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver
chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.
CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia
dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i
giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati,
magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi,
grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.
Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione
garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.
Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità,
che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.
Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una
componente necessaria.
Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché
sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5
minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con
l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori,
consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto,
verbalizzazione, voto e motivazione).
Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti
o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata
dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta
n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì
24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di
Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche
il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli
elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar,
in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia
amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le
commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.
Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai
ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi,
sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per
cui le stesse rimangono lettera morta.
Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti
del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte
delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il
loro comportamento.
Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le
denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle
ritorsioni.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio
di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono
state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano
analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e
quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in
60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza
Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo
parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse
per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno
dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al
concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e
la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità"
serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre
l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di
loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato
dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra
rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o
meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
Badate, questi signori sono poi quelli che, quale organo supremo amministrativo,
devono dirimere le controversie attinenti i concorsi truccati in tutta
l’amministrazione pubblica.
Intanto il concorso notarile ha i suoi i precedenti che parlano chiaro. Il
concorso per diventare notai, 3300 candidati per 200 posti, è stato sospeso il
pomeriggio del 29 ottobre 2010 per questioni di ordine pubblico. Una cosa mai
successa nella storia del Notariato che fino a ieri vantava una delle selezioni
ritenute più oggettive, severe e serie d’Italia. Gli agenti della polizia
penitenziaria si sono trovati a dover fronteggiare una vera e propria rivolta.
Centinaia di candidati inferociti hanno impedito la lettura della terza e ultima
prova scritta a suon di slogan, fischi e boati all’indirizzo della commissione.
Scene da corteo in piazza, più che da concorso pubblico. Una rivolta che ha
covato una notte intera. Colpa della seconda prova di giovedì, quella sulla
traccia «mortis causa». Dopo la lettura, alcuni candidati erano partiti a spron
battuto consegnando il compito nel giro di poche ore. Un’anomalia presto
spiegata: la traccia era pressoché identica (persino i nomi sono gli stessi) a
un’esercitazione fatta eseguire ai suoi allievi da una scuola notarile di Roma,
la Anselmo Anselmi. Una coincidenza fatale. Già prima dell’inizio del concorso
c’erano state polemiche sulla composizione della commissione: sei magistrati
romani, tre docenti romani (di cui uno sostituito all’ultimo) e sei notai, tutti
del Sud. Poche ore dopo la seconda prova, sui forum dei praticanti notai si è
scatenato il finimondo. Commenti durissimi all’indirizzo dei commissari, rabbia,
rassegnazione, richieste di annullamento del concorso: tutto il campionario di
emozioni di chi, per anni, ha studiato in vista del concorso e si sente derubato
del suo futuro. Ma anche aspre critiche e indignazione da parte di notai già
affermati. Il giorno dopo la protesta si è trasferita dalla rete alla vita
reale. Massima ironia della sorte: il concorso per chi dovrebbe certificare la
validità degli atti sospettato di irregolarità. Ma i candidati, ieri, erano
tutto fuorché ironici. «La commissione è scesa alle 13 per dettare le tracce
dell’ultima prova - racconta Denis Martucci, uno dei candidati -. Io ero
nell’altro padiglione, ma i fischi si sentivano fin da noi. I commissari non
riuscivano a parlare. Si sapeva che ci sarebbe stata tensione: ciò che è
successo giovedì è gravissimo, alcuni candidati erano chiaramente
avvantaggiati». Racconti più crudi da chi si trovava nel padiglione della
protesta. «Quando è arrivata la commissione duecento persone si sono piazzate
davanti al bancone chiedendo spiegazioni per quel che era successo il giorno
prima - racconta un altro candidato - Questa situazione è andata avanti per due
ore. Poi il presidente ha chiesto l’intervento della forza pubblica. Gli agenti
hanno circondato il gruppone davanti al banco e hanno cominciato a spingerlo per
disperderlo. Non avevo mai visto una cosa del genere». C’è il caos. Gli agenti
chiedono rinforzi, i candidati vengono fatti sedere a forza o espulsi, ci sono
banchi rovesciati e persone che cadono e vengono calpestate. Quando l’ordine
sembra ripristinato, i commissari tentano di nuovo di leggere la terza traccia.
Ma da seduti, i candidati, replicano con fischi, applausi, slogan. La situazione
diventa irreversibile quando la commissione dichiara la traccia letta e la prova
buona: nessuno è riuscito a sentirla, ma non si può procedere oltre perché la
prova dev’essere sostenuta in otto ore. Avendo ormai sforato le 16 si finirebbe
oltre la mezzanotte e la prova non sarebbe valida. Si scatena di nuovo il
putiferio e la commissione dichiara sospesa la prova e fa allontanare i
candidati. Una bufera: il Notariato dichiara nulle le prove, il ministero
attende il verbale dei commissari. A complicare le cose la presenza di candidati
parenti di personaggi noti come il figlio del ministro Ignazio La Russa e di
Bruno Vespa. Senza contare il caso di omonimia di una candidata che porta lo
stesso nome della moglie del ministro Angelino Alfano. Il suo dicastero è quello
che organizza il concorso e nomina la commissione. Ieri in serata, Alfano ha
dichiarato: ««Sarà mia cura accertare con puntualità i fatti, al fine di
prendere la decisione che mi compete». La moglie? «È con lui negli Stati Uniti -
dicono dal ministero - Almeno questo...». Ma già nel 2005 candidati notai
ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati
con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di
professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi
agli orali.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame
di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di
ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008,
che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR
per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964,
per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel
maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di
metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura
della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai
esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il
Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria
mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per
gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri,
proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente
del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti
identici e tutti abilitati.
O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991,
audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di
un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato
acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio
di un' agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei
temi di tutti quelli da promuovere.
E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su
“La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese
l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori
figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto,
inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove
comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più
strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma
di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati
nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso,
figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria,
figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però,
ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al
concorso.
TUTELA AMMINISTRATIVA: i ricorsi al Tar, stante l’immane giurisprudenza a
sostegno, sono automaticamente vincenti. Unica condizione presentarsi con il
principe del foro locale. Per ovviare all’ovvia ritrosia degli ordini di
abilitare chi ha vinto un ricorso, la legge 17 agosto 2005 n. 168 di conversione
(con modificazioni) del decreto legge 30 giugno 2005 n. 115, contiene un
norma destinata a sconvolgere gli esami di Stato di tutte le professioni
intellettuali (in particolare di quelle di avvocato, notaio, commercialista
ed architetto, le più bersagliate di ricorsi ai Tar e al Consiglio di Stato).
Insomma, il candidato che supera le prove orali, anche se l’ammissione è stata
decisa da ordinanze dei Tar, “consegue a ogni effetto” l’abilitazione
professionale. Se si è indigenti, però, l’ammissione al patrocinio pagato dallo
Stato è impedito dalle relative commissioni presso i Tribunali Amministrativi
formate ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar
e da un avvocato. Le commissioni, stante i requisiti di accoglimento per il
fumus e per l’indigenza, rigettano la domanda, con giudizi anticipati senza
contraddittorio: “Manca il Fumus”, inibendo così anche l’inoltro ordinario a
pagamento del ricorso avverso all’esito concorsuale.
L'ACCESSO ALL'IMPIEGO PUBBLICO. LO SCANDALO DELLE STABILIZZAZIONI.
Assumi, assumi: qualcosa resterà. Più che la parafrasi del motto di Oscar Wilde
(diffama, diffama: qualcosa resterà), a Palazzo Chigi sembra in voga la tattica,
tipica della prima Repubblica, di assunzioni nel pubblico impiego. Tattica che
veniva rafforzata in vista di un ciclo elettorale. All’epoca, però, non c’erano
vincoli di bilancio da rispettare, e il debito volava rapido fino alle vette
attuali. Con la legge finanziaria 2007 il governo Prodi sembra aver provato
nostalgia per quelle pratiche. Tant’è che per il triennio successivo ha previsto
di spendere un miliardo e 161 milioni di euro per ampliare gli organici della
pubblica amministrazione (Forze di sicurezza, ma non solo). Risultato: potranno
essere assunte più di 41mila persone. Esattamente gli abitanti di Macerata. Al
tempo stesso, però, con un blitz lessicale, introduce in uno dei
maxi-emendamenti approvati con la fiducia alla Camera, una profonda modifica al
regime di sanatoria per i precari. Cambiando qualche avverbio, rende possibile
l’assunzione di circa 50mila precari; soprattutto quelli con contratti a termine
presenti nelle amministrazioni regionali. Una popolazione pari a quella di
Pordenone. I costi di queste nuove assunzioni, che arrivano a un totale virtuale
di 91mila (ma potrebbero essere anche di più, fino a sfiorare le 100mila unità),
sono garantite dal maggior gettito fiscale. Dai dati sulle entrate tributarie, è
evidente come l’andamento del gettito sia estremamente legato alla dinamica del
prodotto interno lordo. Ma se la congiuntura dovesse peggiorare (come prevede lo
stesso governo), le assunzioni restano assunzioni: contabilizzate come spese
certe; mentre le entrate che le garantiscono, inevitabilmente, sono destinate a
scendere. E per finanziare gli aumenti di organico, dovranno essere sostituite
da nuove tasse. Lamberto Dini non ha votato per la stabilizzazione dei precari
della Pubblica amministrazione, da lui definiti “amici degli amici”. Dini parla
chiaro. Secondo lui la sanatoria “vuol dire che si assumono gli amici degli
amici nei comuni e altrove. E poi si fa la sanatoria per passarli di ruolo. Vi
sembra questa – conclude - una cosa seria?”. Insomma, i cittadini pagheranno i
raccomandati assunti a tempo determinato nella Pubblica Amministrazione, che,
con falsa contrapposizione delle parti politiche, hanno visto sanare la loro
posizione in tempo indeterminato senza concorso. Con una grande presa per i
fondelli la sinistra e i sindacati hanno paragonato i lor signori, amici e
parenti, ai veri precari del lavoro, loro sì sfruttati e malpagati.
Niki Vendola, Presidente della Regione Puglia ha fatto di meglio prevedendo le
internalizzazioni. Assunzione senza concorso pubblico per stabilizzare i precari
nella sanità, già afflitta dallo scandalo “Tedesco”, e nell’università. In
questo modo migliaia di amici di sinistra vengono stabilizzati senza concorso
pubblico, producendo illegalità, consenso politico con voto di scambio e
parzialità di trattamento avverso gli avversari politici.
Il 30 aprile 2010 su proposta del ministro per la Pubblica Amministrazione e
l’Innovazione Renato Brunetta, il Consiglio dei Ministri ha deciso di impugnare
presso la Corte Costituzionale due leggi della Regione Puglia in materia di
organizzazione del lavoro pubblico.
«In violazione del riparto di competenza tra norme statali e disciplina
regionale, la legge regionale n. 4 del 2010 consente infatti la stabilizzazione
di oltre 8000 precari tra dirigenti medici e personale ex LSU e proroga gli
effetti delle procedure di stabilizzazione previste dalla precedente normativa
regionale, ampliando così i destinatari delle stesse – spiega il ministero in
una nota -. Inoltre, consente l’illegittimo inquadramento di personale
proveniente da imprese o società cooperative all’interno di società, aziende o
organismi della Regione Puglia in violazione della richiamata disciplina statale
in materia di stabilizzazioni. Questa norma si pone altresì in contrasto sia con
i principi costituzionali che riservano alla competenza esclusiva dello Stato la
materia dell’ordinamento civile (contratti collettivi), sia con la
giurisprudenza costituzionale che ha più volte ribadito come il pubblico
concorso costituisca l'unica forma di reclutamento del personale idonea a
garantire l'efficienza, il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica
Amministrazione».
La seconda legge della Regione Puglia impugnata dal Governo, la n. 5 del 2010,
autorizza invece il transito nei ruoli dell’Agenzia per il Diritto allo studio
universitario (ADISU) del personale finora in servizio a tempo determinato, con
conseguente inquadramento riservato, «in violazione della vigente disciplina
statale e dei già citati principi costituzionali di cui agli articoli 3, 97 e
117, secondo comma, lett. l), della Costituzione», sottolinea il ministero.
BARRIERE ARCHITETTONICHE.
Molte persone con ridotte capacità motorie, visive o uditive, si trovano,
purtroppo, ad essere ancora in parte discriminati, poichè uno scalino o la
larghezza di una porta o il bagno inadeguato sono loro di impedimento nelle
varie occasioni di vita sociale.
L'eliminazione delle barriere architettoniche è un diritto del cittadino sancito
dalla Costituzione.
Con la legge n. 13 del 1989, sono state introdotte tre condizioni, che
dovrebbero essere rispettate per qualsiasi edificio residenziale pubblico e
privato:
l’accessibilità; l’adattabilità, la visitabilità.
Invece, nelle nostre città italiane, per mancanza di leggi che estendano
l'applicazione della suddetta norma a tutti gli edifici aperti al pubblico e
alle aree pubbliche stanziali e di pubblico transito, sono ancora presenti tante
barriere architettoniche.
E’ scandaloso, però, che a violare le leggi e i diritti dei disabili sono
proprio gli impedimenti esistenti presso i Tribunali e gli Uffici dei Giudici di
Pace.
Alcuni Tribunali, per esempio, andrebbero chiusi immediatamente e i responsabili
rimossi dall’incarico.
Essi, uguali a tanti altri Uffici Giudiziari Italiani:
impediscono l’accesso ai disabili, sia quando sono parti nel processo, sia
quando sono testimoni;
sono inadatti all’attesa dei disabili durante le tante ore delle udienze;
sono mancanti di qualsivoglia servizio igienico, sia per i disabili sia per i
non disabili.
Identica cosa è per gli Uffici Comunali di tanti paesi e città d’Italia.
Naturalmente, i disabili, come altre categorie deboli, non hanno rappresentanti
politici e sindacali che li tutelano, quindi, anche loro, devono subire e
tacere.
Per questi motivi abbiamo promosso una campagna contro le barriere
architettoniche presso tutte le strutture pubbliche e private, siano essi di
stanziamento o di transito.
PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE.
Che la lobby delle compagnie di assicurazione autorizzate alla RCA fossero ben
presenti in Parlamento, si sa.
Che questa lobby parlamentare gestisca i finanziamenti a giornali e tv, o
sovvenzioni stampa e televisione con campagne pubblicitarie per comprare il loro
silenzio, o sostenga campagne di “guida sicura” contro l’alcool nell’interesse
di associazioni interessate, è risaputo.
Che ci siano associazioni che si dicono a difesa del consumatore e che si
contano su adesioni fittizie, tanto da renderli meritevoli di percepire il
finanziamento dello Stato, per questo da renderli muti in riferimento alla
truffa della RCA, è un dato di fatto.
Sicuro è che a guadagnarci dall’aumento dei premi assicurativi RCA sono il Fisco
e le Compagnie.
Che si debba scrivere un resoconto di pubblico interesse per dimostrare che non
c’è alcuna relazione tra l’aumento delle tariffe e la sinistrosità ed
elemosinarne la pubblicazione è scandaloso, se si pensa che solo piccole
redazioni ne danno il dovuto spazio.
Non capisco l’accanimento di certe “penne e tastiere saccenti”, che si ostinano
ad ignorare il dr Antonio Giangrande. Questi giornalisti, le poche volte che lo
fanno, parlano di un fenomeno, quale può essere la RCA, di cui nulla sanno, se
non il sentito dire o il luogo comune.
Il Dr Antonio Giangrande, autore senza “peli sulla penna e sulla tastiera” della
Collana editoriale “L’Italia del Trucco”, spiega il perché dell’aumento dei
premi assicurativi. Ossia, essi sono solo frutto di orrida speculazione
sostenuta dalla lobby in Parlamento.
Gli assicuratori dicono che l’aumento dei premi è colpa del numero dei sinistri
ed il loro aumentato valore di dannosità.
Come dire che il carburante aumenta per colpa delle guerre e non dei petrolieri
o del Fisco.
Come dire che l’accesso all’avvocatura è limitato perché vi sono molti avvocati
e non per colpa degli avvocati che hanno abilitato parenti, amici ed amanti e
vogliono limitarne l’esercizio esclusivamente a loro.
L’OLIGOPOLIO
L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso, rimasto lettera
morta, al Ministro dello Sviluppo Economico contro l’ISVAP, per la violazione
della Concorrenza, del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa
in campo assicurativo.
La novella sulla carta prevede il plurimandato. Nel principio della legge ciò
comporta che il plurimandatario offra al cliente la tariffa più conveniente. Ma
di fatto non è così.
Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, che ha fatto propri i
dubbi sollevati.
Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato
assicurativo e, di fatto, la ricerca della tariffa più conveniente.
Il Regolamento prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dell’agente in una sola
delle sezioni tenute dall’ISVAP. In questo modo l’agente di una compagnia non
può essere sub agente di altra compagnia.
Il Regolamento inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività
professionale assicurativa come secondo lavoro.
Il Regolamento impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o
promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e
l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti.
Il Regolamento impone l’iscrizione dei subagenti solo se indicati dagli agenti
presso cui operano, imponendo di fatto il mono mandato.
Lo stesso agente, però, è anch’esso mono mandatario, così obbligato dalla
compagnia.
Il Regolamento è a favore di tutte le compagnie di assicurazione, le quali
obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti sotto minaccia di mancata
iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto,
la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.
Le agenzie di assicurazione fidelizzano i clienti in sottoclassi non
riconosciute da altre compagnie, per poi, quando il premio non è più redditizio
per mancanza di sinistri, esercitano il loro diritto di recesso, obbligando il
cliente a contrarre con nuove tariffe maggiorate. Maggiorate, sì, ma sempre più
convenienti per il gioco delle sottoclassi di merito, non riconosciute altrove.
Le agenzie di assicurazione nell’assicurare la seconda auto, pur intestata ad un
familiare, attingono sì alla stessa classe della prima auto, ma con tariffe
maggiorate.
Molte agenzie non rilasciano l’attestato di rischio, impedendo al cliente di
cambiare compagnia.
Molte compagnie non esercitano al sud perché non vi è interesse economico a
farlo, tanto da limitare l’esercizio ad alcune di esse e limitare la stessa
concorrenza con lievitazione delle tariffe.
Le compagnie di assicurazione dichiarano che i premi aumentano, in quanto vi
sono più sinistri e maggiori danni. FALSO!!!
In premessa bisogna denunciare che un soggetto morto o lesionato al Sud Italia è
risarcito in modo minore rispetto ad un soggetto del Nord Italia. Inoltre la
normativa ha estromesso l’avvocato nella fase degli accertamenti peritali da
effettuarsi in determinati termini temporali, investendo le carrozzerie per
questo compito, con l’intento di limitare le spese legali.
Nonostante ciò le compagnie non definiscono le richieste di risarcimento nei
tempi stabiliti dalla legge, che prevede delle sanzioni alla violazione dei
termini indicati. Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili,
difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in
giudizio con mala fede o colpa grave. I liquidatori introvabili, poi, sono
capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche.
Questi signori hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un giudice di
pace di Sestri Ponente a toccare il tempo alle assicurazioni. Si chiama Roberto
Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e
l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a
diventare un esempio per decine e decine di automobilisti. «Le cause pendenti
sono circa 1.500», rivela l’avvocato Massimo Bianchi, nella doppia veste di
difensore nella causa pilota di Sestri e presidente dell’Associazione genovese
dei legali specializzati in incidenti stradali.
Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in
base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto
controllo presso le agenzie.
Le compagnie assicurative ritengono che vi sia un rapporto tra aumento dei
sinistri ed aumento dei premi. Responsabilità dei sinistri da addossare
interamente agli utenti automobilisti.
Con tale inchiesta si dimostra il contrario.
RCA: LA TRUFFA DI STATO
Prima di rendicontare sulla questione si premette che il dr Antonio Giangrande,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è sotto processo a Taranto
per calunnia, senza che vi sia un solo atto che lo dimostri, per il sol fatto di
aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel
sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere
testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a
far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli
assicuratori.
La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti
stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa
la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che
paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente
virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice
principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi
tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla
spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura
vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a
questo comportamento apparentemente senza senso?
Lo spiega il Dr Antonio Giangrande
Nuove regole.
«Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale.
Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che
mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le
nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono
"disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15
giorni.»
Ma perché?
«Rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la
convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società
assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da
possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno
affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima
macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è
finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la
polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma
l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo
affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato. Quaranta
milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le
tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni
finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché
operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro
tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far
fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica
molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi
dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie,
molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie
"espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più
alti.»
Ma la stessa rilevazione del numero dei sinistri e truffaldina.
Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-04166 presentata da FELICE
BELISARIO
Martedì 26 giugno 2007 nella seduta n. 177 BELISARIO e RAITI. - Al Ministro
dello sviluppo economico - Per sapere - premesso che:
nel numero del 2 febbraio 2007 del settimanale a diffusione nazionale «DIARIO» è
apparsa un'inchiesta a firma del giornalista, Mario Portanova con la quale
venivano segnalate una serie di possibili alterazioni dei dati relativi ai
sinistri all'interno dei centri di liquidazione danni delle maggiori compagnie
assicurative italiane che, come è noto, negli ultimi anni si sono consorziate
per la gestione in comune dei servizi di liquidazione (fra questi Fondiaria -
Sai - Milano, Generali - Assitalia-Fata, Ras-Allianz-Bernese,
Unipolaurora-Navale, eccetera), mantenendo sostanzialmente scorporate le singole
imprese per la raccolta dei premi e la fornitura dei prodotti e servizi
assicurativi;
in particolare, un'intervista ad un ex ispettore sinistri, che aveva già
denunciato tali prassi alla Procura di Lecce, evidenziava come attraverso
«semplici trucchetti» venivano alterati alcuni dati «grazie ai quali i premi
delle polizze continuano ad aumentare, i bilanci delle compagnie vengono
alterati...»: fra questi l'apertura fittizia di sinistri allo scopo di
aumentarne la frequenza;
esige il dato più inquietante che emergeva è che se «queste stesse manipolazioni
fossero state eseguite a livello di tutti gli ispettorati dei maggiori gruppi
assicurativi... il risultato sarebbe stato un aumento vertiginoso dei sinistri.
Vale a dire un danno agli assicurati, poiché il solo scopo del trucco era il
mantenimento di elevati livelli tariffari. Tanto nessuno può controllare queste
procedure, se non le stesse compagnie...»;
queste circostanze sarebbero confermate anche da altri addetti agli ispettorati
sinistri di altre compagnie del territorio nazionale;
in virtù dei sistemi informatici utilizzati all'interno degli ispettorati di
gruppo avverrebbe uno scambio dei dati sensibili di assicurati e danneggiati
delle compagnie consorziate, senza alcun riguardo per il diritto alla privacy;
tale scambio di dati relativi al numero dei sinistri, e ai pagamenti, se gli
stessi fossero conosciuti da tutte le compagnie all'interno dello stesso gruppo,
potrebbe comportare una violazione della normativa antitrust o un aggiramento
della normativa stessa;
l'eventuale alterazione dei dati statistici all'interno degli ispettorati
sinistri e le eventuali anomalie indicate nella citata inchiesta possono
comportare un'alterazione del leale svolgimento dei mercati assicurativi e
quindi possono essere in grado di aumentare le tariffe relative ai premi di
assicurazione;
allo stato, ai sensi del decreto legislativo n. 209 del 2005 (Codice delle
Assicurazioni), il nostro ordinamento affiderebbe il controllo e la vigilanza
sulle compagnie e sui gruppi di assicurazioni, all'organismo di vigilanza ISVAP
-:
se non intenda chiarire, anche attraverso eventuali iniziative legislative, se
la normativa sui poteri di vigilanza dell'ISVAP, permetta il controllo diretto e
la vigilanza sui dati relativi alla gestione interna e tecnica dei servizi di
liquidazione sinistri delle Compagnie assicurative e di quelli di gruppo, e
quindi l'esercizio dei poteri prescrittivi e repressivi conseguenti, o relega
l'ISVAP ad un ruolo di mero organo accertatore dei dati e delle statistiche
fornite dalle compagnie e dai gruppi assicurativi, specie in tema di numero di
sinistri, pagamenti e costi;
quali siano i dati di cui il ministero dispone, anche ai sensi dell'articolo 136
del citato codice delle assicurazioni, in merito alle vicende esposte.
INSICUREZZA STRADALE: QUELLO CHE NON SI DICE
Sul portale della “Associazione contro tutte le mafie”, controtuttelemafie.it ,
è stato pubblicato uno studio approfondito sulla sicurezza della circolazione
stradale.
«Il tema dell’insicurezza stradale è sentito da tutti. Ognuno di noi, o un
proprio caro, conosce l’esito di un sinistro: lesione o decesso - dice il suo
presidente dr Antonio Giangrande - Nessuno conosce per certo i numeri e le cause
del fenomeno, per porvi rimedio, salvo assistere alle strumentalizzazioni per
interesse privato di enti ed associazioni tematiche.»
Quante sono le vittime?
«Secondo i dati ISTAT-ACI, ogni giorno in Italia si verificano in media 633
incidenti stradali, che provocano la morte di 14 persone e il ferimento di altre
893. Nel complesso, nell’anno 2007 (ultimi dati disponibili) sono stati rilevati
230.871 incidenti stradali, che hanno causato il decesso di 5.131 persone,
mentre altre 325.850 hanno subito lesioni di diversa gravità. Si sono persi per
strada ogni anno almeno 90 mila sinistri stradali con lesioni rilevati dalla
polizia municipale. Manca infatti un sistema centrale informatico per la
raccolta dell'attività della polizia locale che da sola rileva in Italia 3
incidenti su 4. Lo ha evidenziato l'Anvu con la pubblicazione del secondo
stralcio della ricerca statistica sui dati dei sinistri stradali relativi al
2008, effettuata con il portale poliziamunicipale.it. Secondo l'osservatorio
della polizia municipale i dati elaborati, analizzando un campione di comuni
pari quasi al 30% della popolazione residente, evidenziano che i dati ufficiali
diffusi ogni anno dall'Istat a fine anno sono gravemente carenti di
informazioni. Nel 2007, secondo i dati ufficiali dell'Istat, infatti, il numero
complessivo di incidenti con feriti o decessi ammontava a 230.871. Secondo la
stima elaborata dall'osservatorio Anvu – poliziamunicipale.it - nel 2008, quelli
effettivamente occorsi erano 320.000, quindi 90.000 in più rispetto ai dati
ufficiali del 2007.»
Quale è la tipologia delle vittime secondo i dati Istat?
«Conducenti e passeggeri di autovetture, autocarri, autobus e Tir: 7 morti al
giorno. Pedoni: 2 morti ogni giorno. Passeggiare tranquilli tra le vie della
propria città, lasciando per una volta a casa la macchina, può purtroppo
trasformarsi in un vero incubo. La conferma viene dagli ultimi dati statistici
in tema di incidenti stradali: in Italia, ogni giorno, circa 60 persone vengono
investite sulla strada. Di queste, oltre 2 al giorno perdono la vita, mentre
circa 58 devono farsi medicare per lesioni più o meno gravi. Ci sono state 758
vittime. I feriti fra i pedoni si sono attestati a quota 21.062. Le cause di
questa "strage" restano quelle di sempre: alta velocità, guida in stato di
ebbrezza, distrazione, segnaletica verticale ed orizzontale insufficiente.
Comportamento generalmente imprudente unito ad una sorta di vera e propria
intolleranza degli automobilisti verso il pedone. A questi fattori bisogna
aggiungere strisce pedonali che in diversi casi hanno perso il colore e sono
praticamente invisibili; auto e scooter parcheggiati sui marciapiedi che
costringono il pedone a slalom o passaggi obbligati sulla strada, magari con
passeggini o sacchi della spesa al seguito; autobus che effettuano le fermate in
mezzo alla strada. Sul versante delle responsabilità dell'incidente, le
statistiche indicano che nel 51% dei casi di investimento nessuna responsabilità
è da attribuirsi al pedone; nel rimanente 49% troviamo invece delle forme di
corresponsabilità: non è vero, quindi, che, come si sente dire, "il pedone ha
sempre ragione". Il pedone, infatti, oltre a diritti ha anche dei precisi doveri
da rispettare elencati nell'art. 190 del CdS. I ciclisti: 1 morto ogni giorno.
Ultimo dato Istat disponibile: morti 317 ciclisti. E non è tutto: in appena 3
anni, secondo un'inchiesta pubblicata sulla rivista il Centauro sono quasi 1.000
i ciclisti che hanno perso la vita sull'asfalto, con 12.476 feriti, (35.491 in
tre anni). E sempre secondo le statistiche si sono contate 15 vittime fra i
bambini che andavano in bici dagli 0 ai 14 anni. 13 maschi e 2 femmine. Sono
state invece ben 161 le vittime fra i ciclisti over 65, pari al 50,8%. Fra gli
anziani 122 erano maschi 75,8% e 39 le femmine 24,2%. I motociclisti: 4 morti
ogni giorno. Il 90 per cento dei decessi avviene in ambito urbano, per colpa di
un traffico caotico, di strade in pessimo stato, di trasporti pubblici
inefficienti che spingono all'utilizzo delle due ruote come obbligo e non come
scelta, dei mancati controlli sui comportamenti indisciplinati e pericolosi dei
guidatori delle due e delle quattro ruote”. I dati emergono dall'indagine della
Consulta nazionale per la sicurezza stradale del Cnel sull'analisi di rischio
delle due ruote a motore.»
Quali sono le cause?
«Sono marginali i sinistri causati dagli autisti dei Tir, che secondo le
inchieste svolte sono costretti dalle aziende a guidare per giorni senza
dormire. Guidatori che si tengono su con la cocaina. E nessun rispetto delle
leggi. Come non sono quantificabili le cause dovute al fenomeno dei collaudi
falsi. Il fenomeno dei collaudi falsi è esteso, ma sottaciuto, se non con
qualche servizio di Striscia la Notizia. Causa di incidenti stradali possono
essere molteplici fattori. Si va dalle semplici disattenzioni a incidenti
causati dalla cattiva condizione della carreggiata o condizioni meteorologiche.
Ma stranamente si parla solo di ubriachi al volante. Incidenti dovuti alla
condizione della strada: Fondo ghiacciato o innevato o presenza di fanghiglia o
di pietrisco, fogliame o altro materiale scivoloso sulla carreggiata; macchie
d'olio sull'asfalto; allagamento da forte pioggia. Incidenti dovuti alla
struttura della strada: La ristrettezza della strada, presenza di strettoie non
segnalate; la mancata segnalazione degli incroci; la mancanza di segnaletica
orizzontale o verticale; la presenza di ostacoli occulti ed imprevedibili;
presenza di animali; fondo stradale disconnesso, scarsa illuminazione. Incidenti
dovuti alla condizione ambientale: Pioggia, neve o grandine; nebbia fitta; forte
vento laterale. Incidenti dovuti alla condizione del mezzo: Manutenzione scarsa
o assente; gomme lisce; rottura improvvisa di componenti meccaniche. Incidenti
dovuti alla condizione soggettiva: Abbagliamento; curiosità quando sull'altra
corsia dell'autostrada è successo un incidente o si è intervenuti in aiuto senza
segnalare la propria persona né i veicoli coinvolti nel sinistro; guidare con il
cellulare, magari fumando una sigaretta o armeggiare con l’autoradio;
distrazione o disattenzione per fattori interni all’abitacolo o esterni; colpo
di sonno; violazione delle norme del codice della strada quali il limite di
velocità, sorpassi azzardati, non rispetto della segnaletica; stato psicologico
alterato da alcool e droga.»
Dai dati ufficiali risulta che la distrazione è la causa principale per gli
incidenti stradali.
«La ricerca sui fattori soggettivi degli incidenti stradali, condotta
dall’Istituto Piepoli con il patrocinio del Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti e su incarico dell’Anas Spa, della Fipe e del Silb, ha stabilito che
la causa principale degli incidenti stradali è costituita dall’alterazione
cognitiva dei processi di attenzione del guidatore, che può essere determinata
da fattori psicologi, da stili di vita “irregolari” ovvero da stress o da
stanchezza.»
Per gli aderenti al CNOSS 1/3 dei decessi è colpa delle condizioni delle strade.
«Gran parte delle associazioni aderenti al CNOSS si sono costituite proprio a
causa di incidenti determinati dalla pericolosità delle strutture viarie
italiane, ma le coscienze profumano più di pulito se queste responsabilità
vengono viste con ingiustificata "benevolenza". Ecco il loro comunicato stampa:
“Lo stiamo dicendo da anni, attirandoci le antipatie di molti enti gestori delle
strade. In Italia un incidente mortale su tre è imputabile alle condizioni delle
strade. Oggi giornali e televisioni hanno dato la notizia "scoop" con grande
enfasi ed apparente sorpresa. Dopo il polverone iniziale, temiamo che alle
migliaia di morti ammazzati, che ogni anno perdono la vita a causa delle
vergognose condizioni delle strade italiane (gli altri) si aggiungeranno altre
migliaia di ignari utenti della strada che oggi hanno appreso la notizia con
fatalismo e senso di impotenza (da sorteggiare tra noi tutti). Alcune domande
sorgono spontanee: Se un incidente mortale su tre è dovuto alle condizioni delle
strade, perchè le responsabilità di questi omicidi non vengono quasi mai
imputate agli Enti gestori? Perchè le forze dell'ordine o gli altri organismi
istituiti per garantire la sicurezza sulle strade non denunciano queste
situazioni di pericolo senza attendere che ci scappi il morto?»
E le istituzioni cosa fanno?
«I sinistri stradali colpiscono anche coloro che dovrebbero vigilare sulla
sicurezza della circolazione. Il 70% delle vittime in divisa sono deceduti su
strada e non per conflitti a fuoco (10%) o altro, per mancanza dell'uso delle
cinture e macchine in stato pietoso. L'incredibile dato arriva dall'inchiesta
pubblicata sul Centauro di giugno 2009, la rivista dell'Asaps, “Associazione
amici polizia stradale”. Ma quanti di questi agenti si sarebbero potuti salvare
se solo avessero indossato le cinture di sicurezza? “Probabilmente molti -
spiega Giordano Biserni, presidente dell'Asaps - perché spesso le "divise" non
le indossano ritenendole d'impaccio per una possibile fase operativa. Inoltre
l'elevata velocità, in emergenze per servizio, sarebbe meglio gestita in termini
sicurezza dopo un'apposita formazione con corsi di guida sicura, che una volta
si facevano, ma che nel tempo si sono persi. A noi preme - continua Biserni - la
sicurezza di tutti, quindi anche degli agenti e la perdita di una vita non in un
conflitto a fuoco, ma in un drammatico incidente stradale non ci consola di più.
Anzi, ci fa ancora più rabbia”. In ogni caso una cosa è certa: il 70% dei casi
un poliziotto perde la vita in un incidente stradale. E stupisce come nessuno si
ponga il problema se una piccola associazione di volontari sia l'unica che
solleva un problema tanto grave: anche queste sono morti bianche e non si può
negare che un uomo o una donna in divisa siano lavoratrici e lavoratori come
tutti gli altri. “Ma quando un difensore dello Stato ci lascia la vita -
spiegano all'Aspas - non è sempre detto che l'evento che ha cagionato un esito
letale non debba essere studiato a fondo per evitarne una dolorosa ripetizione.
Prendiamo il caso di uno spericolato inseguimento: è sempre necessario correre a
rotta di collo per fermare un sospetto?”»
«Certo è che nessuno parla delle morti evitabili – continua il Dr Antonio
Giangrande - secondo gli studi effettuati, il 30 % delle morti è riconducibile
al soccorso inadeguato. Fatto che ha precise responsabilità. La tempestività di
un intervento qualificato sul luogo dell’incidente consente di ridurre al
massimo l’intervallo privo di terapia, considerato maggiormente a rischio ai
fini della sopravvivenza, e di esaltare, invece, le possibilità di recupero
delle funzioni vitali (la “golden hour” nel trattamento immediato del
politraumatizzato) determinando una riduzione degli esiti infausti nel secondo
picco di mortalità. Un’analisi retrospettiva di oltre 700 decessi ha evidenziato
che il 52 per cento delle morti avviene sul luogo dell’incidente o comunque
prima dell’arrivo in ospedale, mentre del restante 48 per cento delle vittime,
il 23 per cento muore entro un’ora dal trauma ed un’ulteriore 35 per cento entro
le prime 24 ore. La percentuale di “morti evitabili”, intendendo con questo
termine quelle dovute ad insufficienza o ritardo nel soccorso immediato
pre-ospedaliero, è stata valutata retrospettivamente in misura del 70 per cento
qualora non coesistano gravi lesioni del SNC ed in misura del 30 per cento nel
caso in cui queste siano presenti. È da considerare, inoltre, l’esistenza di una
elevata quota di decessi e di sequele funzionali post-traumatiche gravi dovute
non già al trauma di per se stesso, bensì al verificarsi di eventi successivi,
connessi con un primo soccorso non qualificato o con l’invio in strutture non
idonee: ad esempio, lesioni neurologiche irreversibili causate da uno stato di
shock emorragico non adeguatamente corretto, lesioni ischemiche di arti
fratturati non sufficientemente immobilizzati durante il trasporto, danni
midollari spinali da incauta estrazione del traumatizzato dal veicolo, ecc. In
Italia, un’analisi autoptica retrospettiva di 110 soggetti deceduti per trauma
ha evidenziato che la causa principale di morte era rappresentata da shock
emorragico per lesioni che sarebbe stato possibile trattare chirurgicamente.»
Collaborare alla divulgazione di tali inchieste è un modo alternativo per
battere censura ed omertà.
LAVORO E SINDACATI.
Art. 18 dello Statuto dei lavoratori e licenziamento libero. Quello che nessuno
dirà mai.
Che i sindacati fossero una casta come i boiardi di Stato o come i partiti
politici, di cui sono spesso spalla, si sa.
Che i sindacati, come i partiti, siano considerati parassiti foraggiati dai
contribuenti ed esentati fiscalmente, per questo interessati alle entrate
fiscali per non perdere il loro sostentamento, tanto da far divenire l’Italia
uno Stato di polizia fiscale, è poco pubblicizzato, ma tant’è nessuno fa niente.
Che i sindacati difendano a spada tratta l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori,
è, anche, ampiamente risaputo.
Il Dr Antonio Giangrande, autore della Collana editoriale “L’Italia del Trucco”,
ne spiega il perché.
«Il fatto di discriminare i lavoratori soggetti a due regimi differenti è uno
scandalo. E’ che ciò sia avallato dai sindacati e dai partiti di sinistra è
vergognoso. L'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori afferma che il
licenziamento è valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo.
In assenza di questi presupposti, il giudice dichiara l'illegittimità dell'atto
e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In alternativa,
il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo
stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio.
Il lavoratore può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del
provvedimento del datore fino alla conclusione del procedimento, della durata
media di 3 anni.
Nelle aziende che hanno fino a 15 dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo
il licenziamento, il datore può scegliere se riassumere il dipendente o pagargli
un risarcimento. Può quindi rifiutare l'ordine di riassunzione conseguente alla
nullità del licenziamento. La differenza fra riassunzione e reintegrazione è
che, nel primo caso, il dipendente perde l'anzianità di servizio ed i diritti
acquisiti col precedente contratto (tutela obbligatoria).
In sostanza, i lavoratori delle aziende con meno 15 dipendenti che hanno subito
un licenziamento illegittimo non hanno la possibilità di essere reintegrati.
Guarda caso, proprio queste aziende non sono sindacalizzate ed i lavoratori sono
più fidelizzati e produttivi, con l’interesse economico dell’imprenditore a non
licenziarli.
Al contrario le aziende con più di 15 dipendenti sono quelle con strutture
sindacali ben radicate, spesso riconducibili a più sigle, i cui molteplici
rappresentanti sono quelli che, per un motivo o per l’altro, apportano meno
utilità all’impresa o non le sono utili affatto. Per logica economica,
l’imprenditore, se fosse abolito l’art. 18, prima di tutto metterebbe alla porta
questi sindacalisti, che, nuocciono all’azienda e, oltretutto, allo stato dei
fatti, non tutelano i lavoratori.
L’imprenditore, a costo di pagare le 15 mensilità, si toglierebbe ben volentieri
di mezzo i sindacalisti dannosi all’impresa ed ai lavoratori. Ed i sindacati
questo lo sanno.
Ecco perché si difende tanto l’art. 18: per difendere gli interessi economici e
politici dei sindacati e non certo dei lavoratori, o per dirla meglio, si
difende l’art. 18 per danneggiare coloro i quali il lavoro non lo hanno o non lo
hanno mai avuto.»
PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.
Senza le tasse la benzina costerebbe poco più dell'acqua minerale. Conti alla
mano. Ma guai a dirlo a chi, negli ultimi giorni, ha dovuto macinare chilometri
in autostrada e ha pagato quasi 2 euro al litro. Peggio che dal gioielliere,
insomma. Eppure su cinquanta euro di benzina meno di 1,50 vanno a finire nelle
tasche dei benzinai. Da sempre il carburante è il bancomat dello Stato: quando
non sanno dove prendere i soldi, applicano nuove tasse alla benzina. Dalla
guerra in Etiopia al fondo per lo spettacolo, sono una miriade le accise sui
carburanti che servono a finanziare ricostruzioni e missioni di pace: la guerra
in Etiopia (iniziata nel 1935 e finita nel 1947 con la perdita di tutte le
colonie da parte dell’Italia); la crisi di Suez, il disastro del Vajont,
l’alluvione di Firenze, il terremoto del Belice, terremoto in Friuli, terremoto
in Irpinia, missione in Libano, la missione in Bosnia. E poi, ancora 0,020 cent
vanno al rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri, 0,05 cent per
l’acquisto di autobus ecologici e nel 2011 sono stati introdotti contributi per
foraggiare il fondo unico dello spettacolo, l’emergenza immigrati dovuta alla
crisi libica e per le alluvioni di Liguria e Toscana. Con tutte questi balzelli,
nonostante il prezzo del barile scenda alla pompa, esso rimane sempre uguale.
Balzelli pagati per non ricevere niente in cambio se non disservizi e
corruzione.
SCANDALOSO, PERO’, E’ QUELLO CHE NON SI DICE: LE COMPAGNIE PETROLIFERE EVADONO
ACCISE ED IVA.
I petrolieri calcolano e pagano allo Stato l’accise e l’iva in riferimento al
peso in kg ed alla densità del carburante misurati alla temperatura di 15 gradi.
Questi petrolieri, poi, vendono lo stesso prodotto in litri e con volume
maggiore, così come risulta con le alte temperature. Di fatto, le raffinerie
evadono le tasse per il prodotto in più venduto ed intascano quanto di tasse gli
automobilisti hanno pagato alla pompa.
Mancate entrate per lo Stato di circa 50 milioni di euro all’anno. Si tratta di
soldi che le compagnie petrolifere non versano al fisco grazie ad un metodo di
calcolo “discutibile” del numero di litri di carburanti, destinati alla vendita,
caricati su una singola autobotte”. Lo denuncia la senatrice Adriana Poli
Bortone, presidente di Io Sud, in una dettagliata interrogazione rivolta al
ministro dell’Economia e a quello delle Attività produttive. Ai ministri si
chiede “se intendano intervenire per recuperare le somme evase o eluse”. “Per
quantificare il numero di litri caricati su una singola autobotte destinata alla
vendita, - si legge nell’interrogazione - le dogane (di stanza all'interno dei
punti di carico) pesano l'autobotte al netto e quindi dividono il peso netto per
il valore di densità rilevato alla temperatura convenzionale di 15 gradi. In
questo modo il numero di litri sui quali si pagano le tasse risulta inferiore a
quello reale”. Per questo la senatrice chiede ai ministri se non sarebbe
opportuno “procedere con la densità ambiente, rilevata dalla Guardia di Finanza
ad inizio di giornata, assicurando così al bilancio dello Stato introiti che
fino ad ora sembrerebbero illecitamente sottratti. Questo problema e quello
delle differenze di gradazioni di densità, pare essere presente in tutta Italia
e sarebbe utile quindi indagare in tal senso a Taranto, ma anche a Porto
Marghera e nelle raffinerie e/o depositi dei porti di Genova e Livorno e
comunque in tutti gli altri porti italiani.”
IL DIRITTO D'AUTORE. UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
Il Balzello dei Balzelli, specie se doppio, anzi triplo o addirittura quadruplo.
Oppressi, pur non guardando “le purghe di Stato”. Si dice TV di Stato, quindi TV
pubblica al servizio del cittadino, invece è un baraccone mangia soldi in mano
ai partiti politici ed alla loro claque. Foriera di censura ed omertà non offre
qualità, ma straguadagni a giornalisti e dirigenti politicizzati ed immeritata
visibilità a personaggi senza arte ne parte. Come tutte le cose italiane
l’abbonamento RAI è regolato ancora dalla normativa del tanto bistrattato
periodo fascista. Alla sinistra in Tv questo non gli fa schifo.
Gli Abbonamenti Ordinari riguardano la detenzione nell’ambito familiare
(abitazione privata) di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione
delle trasmissioni radio televisive. (art. 1 e 2 R.D.L. 21-2-1938 n. 246 e
modificazioni successive).
Gli Abbonamenti Speciali riguardano la detenzione di uno o più apparecchi atti o
adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive fuori dall'ambito
familiare nell'esercizio di un'attività commerciale e a scopo di lucro diretto o
indiretto: per esempio Alberghi, Bar, Ristoranti, Uffici etc..
In effetti la normativa, che si rifà a un Regio decreto del 1938 prevede che
‘apparati atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive’
debbano pagare il canone che, per le aziende, è appunto speciale.
L'obbligo è stato istituito di fatto con l'articolo 1 del regio decreto-legge 21
febbraio 1938, n. 246, con la seguente disposizione: "Chiunque detenga uno o più
apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al
pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto.
La presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde
elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l'impianto aereo, ovvero di
linee interne per il funzionamento di apparecchi radiotelegrafici, fa presumere
la detenzione o l'utenza di un apparecchio radio-ricevente"; il canone
"speciale" di abbonamento alle radiodiffusioni è stato di fatto introdotto
dall'articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 21 dicembre 1944, n.
458, sostituendo il secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto legge 23
ottobre 1925, n. 1917 con questa disposizione: "Qualora le radioaudizioni siano
effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di
fuori dell'ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a
scopo di lucro diretto o indiretto, l'utente dovrà stipulare uno speciale
contratto di abbonamento con la società concessionaria". Tale norma introduce in
modo più chiaro ed esteso il criterio di distinzione per l'applicazione del
canone speciale e del canone ordinario. Corrisponde al vero che esiste l'obbligo
di pagamento se si detiene in ufficio, studio o negozio un apparecchio
televisivo (adatto alla ricezione delle trasmissioni). Tuttavia è importante
evidenziare che il tutto non si applica nel caso di monitor non dotati di
sintetizzatore di frequenza. Anche se in apparenza le pagine della Rai paiono
dare la sensazione che si tratti di una disposizione riferita solo agli
alberghi, bar, ed esercizi simili. Sottolineamo che l'obbligo c'è ANCHE PER
UFFICI, NEGOZI, STUDI, indipendentemente dall'uso che ne viene fatto. Bisogna
evidenziare che l'obbligo vale esclusivamente nel caso si tratti di un
televisore dotato di sintonizzatore (o con un videoregistratore dotato di
sintetizzatore), perché si tratta di apparecchi atti alla ricezione. Non esiste
obbligo per i monitor "puri" che non sono in grado di decodificare il segnale
trasmesso via etere, e per i lettori di cassette o CD (non videoregistratori)
che si limitano a leggere il segnale del nastro. Del pari è giusto sottolineare
il fatto che se non c'è apparecchio televisivo (ricordiamo che la RAI
semplicemente "ci prova"), ovviamente non si deve pagare, e non si può essere
obbligati a compiere alcuna azione in merito. Vale a dire non opererebbe il
principio della presuntività; tuttavia potrebbe esserci una verifica di
ispettori della Rai, che comunque per legge non possono procedere ad ispezioni
personali, né reali né sulle persone, nè sui luoghi di lavoro in quanto la legge
non prevede in capo ai medesimi un siffatto potere di agire che andrebbe, se
posto in essere, denunciato immediatamente all'autorità giudiziaria perché
integranti fattispecie di reati ben precisi. La Rai ha inviato un’ingiunzione di
pagamento a 5 milioni di imprese chiedendo il pagamento del canone su qualsiasi
apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo: personal computer,
videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza.
Finora, la giurisprudenza non sembra lasciare molte vie d’uscita. Nel 2007, con
sentenza del 20 novembre, la Corte di Cassazione ha stabilito che «il canone di
abbonamento radiotelevisivo non trova la sua ragione nell’esistenza di uno
specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’ente
Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall’altro, ma
costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata
alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo». Ancora più
stringente la posizione della Corte costituzionale del 1988: «Se in un primo
tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come tassa, collegata alla
fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta,
facendo leva sulla previsione legislativa dell’articolo. 15, secondo comma,
della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la
detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti
dall’estero (sentenza n. 535 del 1988)».
Per l’ADUC il computer è soggetto al pagamento del canone Rai? L’annosa
questione è stata oggetto di suoi quesiti alla Rai, interpelli all’Agenzia delle
Entrate e di interrogazioni parlamentari al ministero delle Comunicazioni (ora
Sviluppo economico), ma mai è stata fornita una risposta in tal senso. La Rai ha
infatti risposto di non sapere se il pc era soggetto al canone e che si avrebbe
dovuto chiederlo all’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima, deputata alla
riscossione di questa tassa, ha risposto di non saper rispondere e di aver
girato il quesito al Ministero delle Comunicazioni. Ad oggi non risulta che il
Ministero abbia preso decisioni in merito. Nonostante ciò, la Rai sta comunque
sollecitando le aziende e i professionisti a pagare il canone anche per i
“computer collegati in rete (digital signage e similari)”.
E poi pagare per cosa?
Nel caos della prima serata del "Festival di Sanremo 2012" qualcuno della Rai,
tra l'incredibile blocco del sistema di voto e il sermone di Adriano Celentano
si è dimenticato di far trasmettere pubblicità per 650 mila euro. Chi è questo
qualcuno? Forse riuscirà a scoprirlo, dopo "accurate e prolungate indagini", il
"commissario" Marano "inviato prontamente sul posto" per "riportare l'ordine" al
"Teatro Ariston". Nell'attesa, comunque, una cortese richiesta: poiché la Rai
continua a buttare via in mille modi i suoi soldi, smetta almeno di assillare
gli "abbonati per forza", cento volte al giorno, con la sua richiesta di versare
il rinnovo del canone. I boiardi di Stato stanno bene attenti a costringere gli
utenti a mantenerli con balzelli odiosi nella non curanza dei pseudo
rappresentanti dei cittadini sganasciati in Parlamento.
Non dimentichiamoci una cosa e per chi non lo sapesse la diciamo ora. Di non
solo Rai è vittima “rapinata” il povero imprenditore che ha una tv o una radio.
Già. Per questo c’è un altro balzello: la SIAE. Società italiana Autori ed
Editori. Be’, sì un tributo a chi crea arte e la pubblica e la distribuisce
bisogna riconoscerlo. Si ma non è finita. A questi si aggiunge un altro
mungitore alla vacca collettiva. Ecco a voi UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed
autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, denuncia l’ennesima
anomalia italiana. “Non tutti sanno – dice il presidente – che, in tema di
intrattenimento musicale, le direttive dell’Unione Europea e la legge sul
diritto d’autore (vedi gli articoli 72, 73 e 73 bis, Legge n. 633/1941)
riconoscono e tutelano sia i diritti degli autori, che compongono i brani
(gestiti dalla Società Italiana Autori ed Editori), sia i diritti dei
discografici, che realizzano le registrazioni musicali (gestiti in maggior parte
dalla Società Consortile Fonografici). Il consorzio SCF è oggi composto da case
discografiche major e indipendenti ed attualmente tutela i diritti
discografici di oltre 280 imprese, rappresentative di larga parte del repertorio
discografico nazionale e internazionale pubblicato in Italia. Ciò significa, che
per sentire un brano musicale registrato, in qualunque modo e forma, è
necessario riconoscere anche un compenso al SCF, diritto autonomo rispetto a
quanto dovuto alla SIAE.
Ciò, per entrambi, avviene comunemente nei seguenti contesti:
trasmissioni radiofoniche e televisive;
trasmissioni via satellite;
attività che utilizzano musica a scopo di lucro (es. discoteche, sfilate di
moda, corsi di fitness);
attività per le quali la musica in diffusione di sottofondo costituisce un
elemento di valore aggiunto al business (es. bar, ristoranti, alberghi, esercizi
commerciali, studi od esercizi professionali, oratori parrocchiali, circoli
privati, feste patronali, ecc).
Il compenso è dovuto anche nel caso in cui la diffusione dell’opera avvenga
senza fine di lucro (in auto o in casa). Ai sensi della legge sul diritto
d’autore, non pagare i diritti alla SIAE o alla SCF comporta l’applicazione
della sanzione penale, oltre che amministrativa. Per la Corte di Cassazione, con
la sentenza n. 00626/2007 resa l'8 giugno 2007 dalla terza sezione penale, la
diffusione di musica registrata senza aver versato i diritti connessi alle
imprese discografiche per la riproduzione dei brani musicali, in questo caso
rappresentate da SCF, Società Consortile Fonografici, viola la legge sul diritto
d’autore e assume rilevanza penale. Solo che il Conna, ente rappresentativo
degli interessi di molte emittenti radiotelevisive, disconosce tale sentenza
rilevando che l'articolo 180 della legge 633 del 22 aprile del 1941 dice che
l'attività di intermediario è riservata in via esclusiva alla Siae e al punto 3
aggiunge che essa curerà la "ripartizione dei proventi medesimi fra gli aventi
diritto". Un brutto colpo per i cittadini italiani, che dell’intrattenimento
musicale fanno il loro stile di vita, salvo far finta di niente, fino a quando
non si presenta qualcuno alla porta, che ce lo ricordi.”
LA BIGENITORIALITA' ED L’AFFIDO CONDIVISO.
Quando le donne fanno lobby e la vittima è l’uomo:
ossia stalking e mobbing sottaciuto ed impunito.
Il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie,
stila un dossier, sull’onda delle segnalazioni e delle notizie di stampa, che
riportano i casi di suicidi di padri separati. La prevedibile ed infondata
accusa di maschilismo non può tacitare una tematica importante e delicata.
Nel mondo occidentale il riequilibrio dei ruoli (famiglia e lavoro) tra uomo e
donna ha portato, non poche volte, ad eccessi di segno opposto rispetto al
passato. Il caso forse più eclatante in Italia è quello dei padri separati.
Soltanto nel 2006 infatti è stata approvata la Legge 54 denominata "Affido
Condiviso", che ha cominciato a cambiare le cose. Fino a quel momento in oltre
il 90% dei casi i figli venivano affidati esclusivamente alla madre. Altre
difficoltà, oltre quelle degli affetti, per un padre che si separa sono la casa
(assegnata per oltre due volte su tre alla donna), e la questione assegni (nel
95% dei casi erogati dagli uomini).
Il disagio psicologico, morale e materiale a cui è sottoposto l'uomo nelle
separazioni lo porta a lasciarsi andare molto più spesso di quanto si crede. Il
93% dei suicidi post-separazione sono di padri (fonte FENBI circa 100 l'anno) e
la Caritas in un recente comunicato ha informato che decine di migliaia di padri
separati si stanno rivolgendo a loro per un posto letto. I dati riferiti ai
suicidi dei padri separati sono contraddittori. Secondo i dati diffusi
dall'Armata dei padri, solo nel 2006, sono 2 mila i padri che si sono suicidati
perché lontani dai figli.
Ma la maggior parte degli uomini abbandonati (il 74% delle separazioni sono
chieste da donne), privati di figli, casa, lavoro, non riesce a reagire, il
"sommerso" come si dice in questi casi è molto più vasto di chi invece riesce a
reagire, magari entrando in una delle tante associazioni tematiche.
I dati, raccolti sui giornali dall'associazione "Ex", rivelano che negli ultimi
10 anni sono stati uccisi 158 minori (più di 15 ogni anno) per conflitto tra
genitori in fase di separazione. Nello stesso periodo i fatti di sangue legati
alla fine di una convivenza sono stati 691 con 976 morti. In oltre il 98% dei
casi il delitto riguarda una coppia con figli, mentre solo nell'1,7% la coppia
non ha figli. Il 34,5% dei fatti si è consumato al Nord, nel 37,7% al Centro e
nel 27,8% al Sud e Isole. Nel 76,6% dei casi è un uomo che ha in media tra i 30
e i 40 anni a commettere il delitto, il 50% delle vittime è donna e il 16,1% è
minore. Questi dati sono stati allegati a una mozione presentata alla Camera, in
cui si è chiesto al Governo maggiore impegno a favore della bigenitorialità.
L'episodio dell'ennesimo padre separato che si è ucciso perchè non poteva vedere
il figlio suscita «dolore e amarezza», ha affermato Maurizio Quilici, presidente
dell'Isp, l'Istituto di studi sulla paternità, che rileva come esso sia «la
punta di un drammatico iceberg che da molti anni galleggia nell'indifferenza di
molti». «Non sono bastate - osserva Quilici in una nota - le battaglie dei
movimenti dei padri, la trasformazione della figura paterna così vicina, oggi,
ai figli e capaci di accudimento ed empatia; non è bastata una legge - la 54 del
2006 - che impone il condiviso come forma prioritaria di affidamento. I giudici
continuano imperterriti a privilegiare le madri, le madri continuano a
ostacolare il rapporto dell'ex compagno con i figli, i figli continuano ad
essere strumento di battaglia per campioni di egoismo. I padri che si separano
continuano a vivere con tremendo dolore la frequente perdita dei figli. E di
dolore si può anche morire».
Quando le agenzie di stampa (nel dare la notizia del suicidio di un padre
«disperato perché la madre non gli fa incontrare il figlio più di due giorni
alla settimana») specificano «appena separato», altre scrivono «in sede di
divorzio», altre ancora dicono «cui la moglie aveva chiesto la separazione»,
deve apparire chiaro a tutti che quei giornalisti non ci hanno informato bene
sui fatti.
Infatti, se la madre aveva chiesto la separazione, ma ancora non vi era stata
l'udienza presidenziale, e dunque nessuna decisione, seppur provvisoria, di un
magistrato, si deve concludere che la madre, nell’abbastanza consueto delirio di
onnipotenza materno, abbia deciso con intollerabile arbitrio «il figlio è mio e
lo gestisco io»; impedendo così, disumanamente, a padre e figlio lo svolgersi
della reciproca affettività. Se, diversamente, un giudice aveva deciso, nella
prima udienza di separazione, che il provvisorio regolamento di visite dovesse
essere così ristretto, forse la madre, strumentalmente o per tutelare davvero il
figlio, aveva esposto tali negatività del padre, anche psichiche, da richiedere
cautela nel calendario di visite. In entrambi i casi, però, il giudice avrebbe
omesso di essere accurato nella protezione di una famiglia in crisi, non
disponendo che almeno i servizi sociali si occupassero della gestione degli
incontri. In questo esempio, il suicidio rivendicherebbe la mancanza di una
giustizia minimamente dignitosa.
Se, ancora, invece, questa storia triste si inquadra in un giudizio di divorzio
o di modifica delle condizioni in essere, c’è da pensare o a un diritto di
visita del padre cambiato all’improvviso dal giudice per gravi fatti
sopravvenuti, o a una regolamentazione che dura così da anni, cioè da prima
dell’entrata in vigore (2006) della legge sull’affido condiviso. Nel primo caso
dovremmo tornare all’esempio della madre tutelante o strumentalizzante. Nel
secondo, dovremmo pensare a una madre sorda alle esigenze sia del padre sia del
figlio e miope di fronte ai cambiamenti sociali e giuridici. Se così fosse, il
suicidio sarebbe da interpretarsi come la convinzione del padre di voler attuare
egli stesso ciò che la madre stava già facendo: togliere per sempre il padre a
un figlio.
In tutti i casi però sarebbero i dettagli a dover fornire la giusta chiave di
lettura. Senza poter dimenticare che le difficili storie giudiziarie che
coinvolgono le famiglie, non possono essere trattate con pomposa burocrazia o
frettolosa acriticità. Che l’espropriazione dei figli non deve essere consentita
a nessun genitore a danno dell’altro. Quindi magistrati ed avvocati hanno la
serissima responsabilità di non potersi occupare dei protagonisti solamente nei
minuti o nelle ore che il ruolo impone di dedicare loro.
Il Cepic, Centro europeo di psicologia investigazione e criminologia,
(associazione impegnata nella formazione, ricerca, sostegno e consulenza in
ambito criminologico, investigativo e psicologico) ha organizzato un convegno
nazionale sulla violenza di genere sul tema "Quando la vittima è lui. La
violenza domestica verso l'uomo. Aspetti sociologici, criminologici e legali".
Un evento innovativo nel suo genere, nel quale si sono affrontate tematiche
spesso ignorate e sottaciute. Questo secondo convegno nazionale sulla violenza
di genere, segue il primo, in cui è stata trattata la violenza domestica verso
la donna.
«Ho scelto di organizzare un secondo convegno incentrato sull'uomo - dichiara
Chiara Camerani, Psicologa, criminologa, Direttora Cepic - perché ritengo che il
concetto di violenza di genere sia spesso inteso come indissolubilmente legato
alla figura femminile, ma non può e non deve essere così. I cambiamenti sociali,
i traguardi sul versante della parità hanno creato nuove categorie deboli e
nuove forme di violenza. A fronte della violenza cieca, diretta dell'uomo,
abbiamo una violenza subdola, vendicativa, tipica della donna, che spinge a
distruggere non solo il coniuge, ma il suo ruolo genitoriale, la sua posizione
sociale, il suo equilibrio psicologico. Pur coscienti che la donna detiene il
triste primato di vittima nell'ambito della violenza coniugale, non possiamo
dimenticare gli uomini che subiscono forme di violenza, diverse forse, ma
altrettanto gravi. Ne sono dimostrazione i numeri allarmanti dei suicidi attuati
in Italia da padri separati. Il numero si suicidi commesso da padri separati è
aumentato negli ultimi anni, in particolare nel centro e nel nord d'Italia.
Secondo i dati della federazione nazionale bigenitorialità, L'uomo commette più
frequentemente suicidio a causa di un disagio generato dalle separazioni e dai
figli contesi, più di quanto non accada alle donne; con 102 casi su un totale di
110 (93%). Alla luce di questo, riteniamo utile una rivalutazione del concetto
di soggetto debole, usualmente applicato al genere femminile, in un'ottica che
valuti la persona e non il genere o lo status. A tal proposito ed alla luce dei
dati emersi, l'uomo risulta essere il soggetto maggiormente sconfitto, nella
coppia che si separa. Il decremento di reddito, l'allontanamento dai figli, che
spesso diventa affido esclusivo, arma di ricatto e soppressione della figura
paterna, mina gravemente la persona spingendo a comportamenti autodistruttivi,
dipendenze, atti disperati. Per questo abbiamo scelto di parlare di violenza di
genere, nella convinzione che sia necessario ridefinire o quantomeno rendere
maggiormente flessibile il concetto di soggetto debole. Perché se è vero che la
donna è più frequentemente vittima tra le mura domestiche, in contesti di coppia
normale in crisi e in fase di separazione, è l'uomo a detenere il primato di
vittima. Lo stesso accade in considerazione dei diversi standard di valutazione
della violenza; quando l'aggressore è uomo ci si preoccupa della vittima
femminile, quando è la donna ad essere violenta se ne cercano le cause, o si
attribuisce a patologia. Questo è un dato che osserviamo frequentemente, in
qualità di centro che si occupa di consulenza psicologica e criminologica. Per
quanto sorprendente, esistono uomini maltrattati fisicamente dalle mogli, il
numero oscuro a questo riguardo è molto alto, a causa del forte imbarazzo a
denunciare. Interessante anche notare che la violenza verso il partner avviene
anche tra coppie lesbiche. Il pregiudizio sociale porta ad ignorare la figura
maschile nel ruolo di vittima, porta ad identificare l'uomo con il cattivo, con
l'aggressore. Le Conseguenze sull'uomo comportano depressione, abbuffate
compulsive, dipendenze, uso di alcol, violenza, suicidio, suicidio allargato
(omicidio/suicidio)».
«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le
storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di
Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la
rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex
coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri 'tigri'
tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Sì, sono convinto che per la
disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si
presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai
tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa
che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti
scontano l’odio e il rancore di figli 'plagiati' dalle madri?»
«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro
Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e
per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che
per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia
delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto
condominiale...».
“LA
COSTITUZIONE CHE VORREMMO”
1.
L'Italia è una repubblica democratica e federale fondata sulla libertà. I
cittadini sono tutti uguali e solidali.
2.
I rapporti tra cittadini e tra cittadini e Stato sono regolati da un numero
ragionevole di leggi, chiare e coercitive.
3.
Le pene sono mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la
confisca dei beni e con lavori socialmente utili.
4.
E' libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e
religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicura l'adeguata competenza.
Le scuole o le università sono rappresentate da un preside o un rettore eletti
dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomina i suoi
collaboratori, rispondendo delle loro azioni presso la Commissione di garanzia.
5.
Lo Stato assicura ai cittadini ogni mezzo per una vita dignitosa.
6.
Il lavoro subordinato pubblico e privato è remunerato secondo efficienza e
competenza. Le commissioni disciplinari sono composte da 2 rappresentanti dei
lavoratori e presiedute da un dirigente pubblico o aziendale.
7.
Lo Stato chiede ai cittadini il pagamento di un unico tributo, secondo il suo
fabbisogno, sulla base della contabilità centralizzata desunta dai dati
incrociati forniti telematicamente dai contribuenti, con deduzioni proporzionali
e detrazioni totali. Agli evasori sono confiscati tutti i beni. 8. Lo
Stato assicura a Regioni e Comuni il sostentamento e lo sviluppo.
9.
E' libera la parola, con diritto di critica, di cronaca, d'informare e di essere
informarti.
10.
L'Italia è divisa in 30 regioni, comprendenti i comuni che ivi si identificano.
11.
Il potere è dei cittadini. Il cittadino ha il potere di autotutelare i suoi
diritti.
12.
I senatori e i deputati, il capo del governo, i magistrati, i difensori civici
sono eletti dai cittadini con vincolo di mandato. Essi rappresentano,
amministrano, giudicano e difendono secondo imparzialità, legalità ed efficienza
in nome, per conto e nell'interesse dei cittadini. Essi sono responsabili delle
loro azioni e giudicati da una Commissione di garanzia centrale e regionale.
13.
Gli amministratori pubblici nominano i loro collaboratori, rispondendone del
loro operato.
14.
La commissione di garanzia, eletta dai cittadini, è composta da un senatore, un
deputato, un magistrato, un rettore, un difensore civico con incarico di
presidente. La Commissione centrale giudica in secondo grado e in modo esclusivo
i membri del governo. Essa giudica, anche, sui contrasti tra leggi e tra
funzioni.
15.
Il difensore civico difende i cittadini da abusi od omissioni amministrative,
giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico. Il difensore
civico è eletto in occasione delle elezioni del parlamento, del consiglio
regionale e del consiglio comunale.
16.
I 150 senatori sono eletti proporzionalmente, con liste regionali, tra i
magistrati, gli avvocati, i professori universitari, i medici, i giornalisti.
17.
I 300 deputati sono eletti, con liste regionali, tra i restanti rappresentanti
la società civile. Il Parlamento vota e promulga le leggi propositive e
abrogative proposte dal Governo, da uno o più parlamentari, da una Regione, da
un comitato di cittadini. Il Governo, entro 30 giorni dalla legge, emana i
regolamenti attuativi di carattere federale. Le regioni, entro 30 giorni dalla
legge, emanano i regolamenti attuativi di carattere regionale.
18.
La presente Costituzione si modifica con i 2/3 del voto dell’assemblea plenaria,
composta dai membri del Parlamento, del Governo e dai presidenti delle Giunte e
dei Consigli regionali. Essa è convocata e presieduta dal Presidente del Senato.
DOSSIER INGIUSTIZIA E RITORSIONI.
OSSIA: LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA
TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI.
VITTIMA DI UN CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO
Da anni (dico anni, una vita) partecipo al concorso di avvocato indetto dal
Ministero della Giustizia, che ogni anno si svolge presso ogni Corte di Appello,
le cui commissioni sono composte da magistrati, avvocati e professori
universitari.
Da anni i miei elaborati sono giudicati sempre con identico voto negativo e
senza alcuna motivazione. Il fatto certo è che i miei pareri legali non sono
corretti (mancanza di correzioni, glosse, ecc.) e sono dichiarati tali in un
tempo che il Tar ha dichiarato estremamente insufficiente.
Da 15 anni il presidente, prima locale e poi nazionale, ed i componenti della
commissione d’esame sono quelli che ho denunciato in questi anni per favoritismi
durante e dopo le prove selettive.
Da 15 anni sono disoccupato pur capace di esercitare la professione. Ciò ha
influito negativamente sulla vita di tutta la mia famiglia, condannata
all’indigenza.
Potevo rassegnarmi ad essere un incapace, ma sono diventato, mio malgrado, un
esperto in concorsi truccati. Da anni sono destinatario come presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie della disperazione di tanti altri come
me. Per dimostrare la verità, raccolgo le testimonianze da tutta Italia di
centinaia di migliaia di candidati vittime dei concorsi truccati tra i più
disparati. Testimoni anche autorevoli come possono essere i magistrati o i
professori universitari che ambiscono a ruoli superiori. Testimonianze che si
sono estese oltre che ai concorsi come la magistratura, notariato ed avvocatura.
Le testimonianze denunciano i concorsi truccati in Italia come regime generale
di cooptazione nel sistema della classe dirigente o di livello professionale
superiore. Chi detiene una pubblica funzione, anche senza merito in virtù di un
concorso truccato, è componente di quelle commissioni d’esame, che reiterano il
sistema di cooptazione all’interno del regime.
La Corte Costituzionale mi dice: "siamo in Italia, il voto non va motivato e
le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili".
La Corte di Cassazione mi dice: "siamo in Italia, devi essere giudicato (sui
concorsi, ma anche sui procedimenti penali a tuo carico per reati d’opinione)
dai magistrati che hai denunciato alle procure e criticato sui giornali. E dato
che ti sei ribellato, chiedendo la rimessione dei processi, ti condanno alla
pena di 2000 euro".
Il Governo mi dice: "hai ragione facciamo le riforme". Dal 2003 fa girare
i compiti in tutta Italia. Il criterio di correzione diventa razzista. Il
presidente locale della commissione 1998/2000/2001 estromesso dalla riforma,
diventa addirittura presidente nazionale nel 2010.
Il Tar mi dice: "siamo in Italia, ma se la Corte Costituzionale afferma che
le commissioni sono insindacabili, la Cassazione mi dice che non vi può essere
ricusazione, se il Ministero della Giustizia mi mette come presidente di
commissione chi aveva cacciato, io rigetto il tuo ricorso". Ricorso
presentato con 1000 euro tra contributo unificato, bolli e spese di notifica.
Una tangente a favore di uno Stato che non ti tutela.
Le procure informate con prove e circostanze mi dicono: "è impossibile che le
commissioni d’esame abusino dei loro poteri contro di te". Resta il fatto
che nessun commissario denunciato e criticato mi ha mai denunciato per calunnia
o diffamazione.
La mia unica speranza è la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, se non ci sono
italiani di mezzo. Con Essa sono investiti il Parlamento Europeo e la
Commissione Europea. Chiedo Loro se sia possibile che le autorità pubbliche da
me biasimate, ad oggettiva ragione con rispondenza giuridica e con fondamento di
prove accluse al ricorso, siano le stesse, impunemente e con parzialità, a
valutare i miei esami ed a giudicare penalmente le mie critiche nei loro
confronti in tema di malagiustizia. Mi rispondono: il tuo ricorso è
irricevibile.
Fa niente se sei perseguitato dalla mafia, se essa non è ritenuta tale dai suoi
commensali. Proprio vero: la Giustizia non è di questo mondo.
Strano che da anni nessun organo di stampa nazionale ha sostenuto la mia lotta.
“Ballarò” di Rai3 ha fatto un servizio mai mandato in onda. “I programmi
dell’accesso” della Rai hanno fatto un servizio mai mandato in onda. Soldi dei
contribuenti bruciati nel nome della censura.
Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della
pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione
dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p. Oltre al danno vi è
la beffa: rigettato e condannato anche alle spese. Si intimidisce il cittadino
per disincentivarlo alla presentazione delle istanze di rimessione.
Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni
istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la
motivazione.
Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi
pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui
dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
QUESTO E’ IL CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA MAFIOSA SI
DOVREBBE VERGOGNARE.
COSI' SI DIVENTA AVVOCATO O SI IMPEDISCE DI ESSERLO!!!
IN UN CONCORSO PUBBLICO, (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E
PROFESSORI UNIVERSITARI), I TEMI SCRITTI NON SONO CORRETTI, MA DA 14 ANNI SONO
DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO
GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.
CONCORSI DI AVVOCATO PRESIEDUTI DA CHI E' STATO DENUNCIATO COME PRESIDENTE DI
COMMISSIONE LOCALE. LA DENUNCIA E' STATA PRESENTATA ANCHE AL PARLAMENTO. SI E'
CHIESTA UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE. NONOSTANTE LE INTERROGAZIONI
PARLAMENTARI PRESENTATE: TUTTO LETTERA MORTA. COSTUI NON HA POTUTO PIU'
PRESIEDERE LA COMMISSIONE LOCALE, PERCHE' E' STATO ESTROMESSO DALLA RIFORMA DEL
2003, E NONOSTANTE CIO' POI E' STATO NOMINATO PRESIDENTE DI COMMISSIONE
CENTRALE.
Queste sono le conclusioni del ricorso amministrativo presentato dall’avv. Mirko
Giangrande per conto del padre dr. Antonio Giangrande. Ricorso con cui si
contestano in fatto e in diritto i giudizi negativi delle prove scritte resi
dalle sottocommissioni per gli esami di abilitazione alla professione di
avvocato. Ricorso presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale della
Puglia, sezione distaccata di Lecce. Ricorso n. 1240/2011 che per 13 anni nessun
avvocato per codardia ha mai voluto presentare. La commissione competente nel
2010 per tali conclusioni ha negato l’accesso al gratuito patrocinio. Il TAR ha
rigettato l'istanza di sospensiva nonostante i vizi, mentre per altri candidati
l'ha accolta, valutando l'elaborato direttamente nel merito.
CONCLUSIONI
Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di
legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione
negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di
una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica
ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in
tutti e tre i compiti resi.
1.
Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa,
rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra
i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte
d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al
doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte
necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord
Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%,
nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le
sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte
dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.
2.
Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli
di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di
discipline didattiche non inseriti in commissione.
3.
Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse,
ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta
nella materia di riferimento.
4.
Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del
giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni
grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o
comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e
giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò
denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica
al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.
5.
Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero
il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.
6.
Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della
Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del
presidente della Iª sottocommissione di Palermo.
7.
Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti,
tali da rendere un giudizio composito.
8.
Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente
della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del
Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.
Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso
che ha inficiato per 13 anni la vana partecipazione del ricorrente al medesimo
concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi
illegittimi.
QUESTO E’ UN ULTERIORE CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA
MAFIOSA SI DOVREBBE VERGOGNARE.
Questo è il ricorso di rimessione dei processi per legittimo sospetto presentato
dal dr. Antonio Giangrande presso la Corte di Cassazione. Ricorso in 3 parti n.
15395/2011, 15411/2011, 15418/2011. Processi ritorsivi per reati di opinione
promossi dai magistrati criticati per intimorire e tacitare chi cerca di
ribellarsi.
Un caso da giurisprudenza.
Questo è il caso esemplare per il quale la Magistratura dovrebbe vergognarsi:
ricorso di rimessione per legittimo sospetto rilevato inammissibile dalla Corte
di Cassazione su motivi ritenuti manifestamente infondati.
Uno tra la totalità. Mai un ricorso è stato accolto per non sputtanare l'operato
dei colleghi.
Rimessione per legittimo sospetto, se non per palese persecuzione, quando?
Difesa della Libertà di Stampa. Magistrati criticati che processano per
diffamazione a mezzo stampa: ricusazione dei giudici e richiesta di rimessione
dei processi per legittimo sospetto.
Richiesta di Rimessione per legittimo sospetto che il Foro di Taranto possa
essere persecutorio nelle sentenze da emettere su cause viziate da anomalie
procedurali ed attinenti critiche sull’operato della stessa magistratura
tarantina, requirente e giudicante.
Si riporta la richiesta di Rimessione dei processi tenuti a Taranto per
legittimo sospetto: Legittimo sospetto che nel luogo in cui devono svolgersi gli
attuali processi, più che altro per reati d’opinione, vi sono gravi situazioni
locali, altrimenti non eliminabili, tali da turbarne il libero svolgimento,
dovute a pesante pregiudizio e grave inimicizia per fatto personale o per
solidarietà di colleganza. Gravi situazioni locali fondati su commistione ed
intrecci di interessi ed amicizie. Richiesta regolarmente notificata alle parti
e presentata alla Corte di Cassazione.
Atto pubblico inserito in pubblici processi giudiziari.
Atto esemplare data la sua peculiarità di interesse pubblico per la sua rarità
attinente alla dottrina, didattica e giurisprudenza e pertinente alla libertà di
stampa.
Atto pubblico di grande interesse per la stampa nazionale, anche a tutela della
categoria. Tra le testate si citano Nuovo Giornale OnLine Newgol.com di Perugia;
Caserta 24 Ore di Caserta; Cancello ed Arnone News di Caserta; Brindisi Libera
di Brindisi; My Box Tv di Lecce; Idea Radio di Brindisi Nuovo Soldo di Messina.
Dalla loro pubblicazione si riporta qui il presente atto.
Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di
informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. I dati riportati sono
pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”);
b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale,
ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della
Suprema Corte.
Strumento adottato per ritorsione e provocazione nello stato psicologico
determinato da un fatto ingiusto altrui. In ossequio al codice penale.
Censurato
dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della
magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di
Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera
l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo
sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto
da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata,
nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.
Rigetto ad oltranza: sempre e comunque.
Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del
legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo
giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima
suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:
Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969,
ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la
sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni
di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di
Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati
furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati
milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato".
Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto
dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto
procuratore.
Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini
contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29
novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per
corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in
dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai
commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di
Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.
Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da
Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine
pubblico.
Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di
Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la
Cassazione spostò il processo a Viterbo.
Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande,
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata
rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati
a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte
di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per
diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia
e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per
inibire qualsiasi pretesa di tutela.
ALLA CORTE DI CASSAZIONE.
RICHIESTA DI REMISSIONE DEL PROCESSO PER MOTIVI DI LEGITTIMO SOSPETTO
Art. 45 c.p.p. ss.
Proc. n. 36/3015/09 RGNR, n. 10244/10 RGDT
Imputato Giangrande Antonio
Parti offese Dimitri Giuseppe – Corigliano Renato
Tribunale di Taranto, sezione distaccata penale di Manduria, giudice Frida
Mazzuti
*****
Proc. 5089/05 RGNR, n. 2612/06 GIP, n. 10306/06 RGDT, n. 10346/10 RGDT
Imputato Giangrande Antonio
Parti offese Cavallo Nadia – Famà Placido
Tribunale di Taranto, sezione distaccata penale di Manduria, giudice Vilma Gilli
*****
Proc. Brindisi 9429/06 RGNR, 1004/07 RGDT;
Taranto 8483/08 RGNR, n. 10329/09 RGDT, n.10018/11 RGDT
Imputato Giangrande Antonio
Parte offesa Santo De Prezzo
Tribunale di Taranto, sezione distaccata penale di Manduria, giudice designando
*****
Ecc.ma Corte di Cassazione,
il sottoscritto dr. Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed
ivi residente alla via Manzoni, 51, C.F. GNGNTN63H02A514Q, è presidente
nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie riconosciuta dal Ministero
dell’Interno come sodalizio antimafia, iscritta presso la Prefettura di Taranto
al n. 3/06. L’Associazione Contro Tutte le Mafie, ONLUS, con il suo sito di
inchieste tematiche e territoriali e la sua Tele Web Italia, Web TV di
promozione del territorio, rompe l’omertà e la disinformazione per la cultura
della legalità. L’Associazione è definita “WikiLeaks italiana” parafrasando il
celebre portale di controinformazione. Al contrario di questo noi pubblichiamo
solo atti pubblici pubblicabili o resi pubblici dai media. Il sottoscritto è
autore di un film e di un libro affinchè la cronaca diventi storia. Il libro, in
allegato, è stato richiesto in tutta Italia, anche da molte scuole. Esso tratta
in sunto le tematiche in generale ed in calce il dossier malagiustizia
territoriale di Taranto.
Tematiche generali e territoriali sviluppate da inchieste e studi ed inserite
sui siti web associativi con un seguito di lettori pari a centinaia di migliaia
in tutto il mondo.
A Taranto il sottoscritto non è omologato ad un sistema granitico affaristico –
istituzionale fondato su commistione ed intrecci di interessi ed amicizie.
L’apparato informativo (stampa e tv) ne è complice. A Taranto si combatte contro
una piovra i cui tentacoli non hanno limiti. Ed il sottoscritto è la vittima
predestinata per essere tacitata.
Sono stato costretto a promuovere una raccolta di firme inviate al Prefetto di
Taranto, per ingiungere agli amministratori la costruzione di un depuratore ad
Avetrana e Manduria, per impedire l’inquinamento delle falde acquifere e del
mare, come sono stato costretto, da esercente l’attività forense, a raccogliere
le firme dei colleghi avvocati per obbligare il Presidente del Tribunale di
Taranto a disporre un ufficio vendite operante e nominare un ufficiale
giudiziario mancante presso la sezione staccata di Manduria. L’ ufficio
esecuzione e notifiche era al collasso. Disservizi inibenti ogni attività
giudiziaria.
Situazione allarmante da noi denunciata a Taranto è anche il fatto che Equitalia
Spa, ha attivato un procedimento riscossivo ed esecutivo nei confronti di una
moltitudine di utenti, recando grave nocumento. Nella seguente causa vinta da
mio fratello, avv. Patrizio Giangrande, in cui si dimostrava l’infondatezza
della pretesa, la stessa Equitalia era vittima di pignoramento per l’indebito
percepito ed il risarcimento del danno causato. Solo che, nel silenzio
mediatico, l’Equitalia ha impedito l’esecuzione per mancanza di beni
pignorabili. Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di
condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia
il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è
stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i
beni e i fondi insequestrabili.
Da una attenta analisi delle pubblicazioni inserite sui nostri siti web basate
su atti pubblici e di interesse generale si denota che l’attenzione da me tenuta
è identica per tutti i distretti giudiziari italiani, ma solo sul distretto di
Lecce ed in particolare nel circondario del Tribunale di Taranto si ha una
reazione ritorsiva, che in altre parti non esiste, né è immaginabile. Solo la
Procura di Roma ha aperto un fascicolo, senza seguito, per la pubblicazione di
atti pubblici della Giunta regionale attinenti infiltrazioni camorristiche,
concretizzati in abusi edilizi, e relativo scioglimento delle amministrazioni
del basso Lazio, in provincia di Latina, in zone confinanti con la provincia di
Caserta. A Taranto l’origine del mio calvario nasce proprio perché Loppo
Antonio, che io difendevo e padre di due marescialli carabinieri in servizio nel
nord Italia, presentava una serie di denunce per abusi edilizi che minavano la
stabilità statica del suo immobile. Le denunce, poi archiviate, parlavano di
abusi edilizi commessi ad Avetrana (TA) da Antonio Scarciglia, fratello del
sindaco pro tempore Francesco Scarciglia, alla guida dell’amministrazione
comunale per molti anni. Abusi edilizi, questo ed altri, provati dalle numerose
pratiche di condono giacenti all’ufficio tecnico comunale di Avetrana. Con
questa denuncia ed altre consequenziali si era scoperchiato il vaso di pandora,
a cui tutti volevano porre rimedio. Il rimedio si è posto anche dai sindaci a
seguire, compreso Luigi Conte del centrosinistra e Mario De Marco del
centrodestra, con i loro rispettivi assessori competenti, Cosimo Nigro e Daniele
Petarra, che hanno seguito tutta la vicenda senza intervenire. Il cliente è
morto di crepacuore, avendo perso tutto per ritorsione. Il sottoscritto è stato
esautorato dalla politica locale avendosi inimicato le componenti di tutti gli
schieramenti. Ho presentato querela contro Antonio Minò, assessore di
centrodestra dell’amministrazione Mario De Marco: querela transatta. Ho
presentato denuncia, non archiviata, contro Vito Risi, assessore del
centrosinistra dell’amministrazione Luigi Conte. Le denuncie sono state
presentate in seguito ai torti subiti. La mia colpa era sol perché da presidente
di partito denunciavo le illegalità e come presidente di sezione di seggio
chiedevo i documenti di identificazione dei votanti e vietavo la propaganda
elettorale nel seggio e controllavo le schede consegnate che non fossero
alterate. Vito Risi era assessore allo sport che destinava le strutture sportive
a terzi e al contempo era beneficiario delle stesse strutture, in qualità di
dirigente di una società sportiva. La società sportiva anziché pagare l’uso dei
beni comunali veniva, altresì, finanziata dallo stesso Comune.
A Taranto, ogni atto giudiziario adottato nei miei confronti, estrapolato dal
contesto generale, ha una parvenza di legalità, anche se fondata solo sul libero
arbitrio del decidente e per questo dato per buono. Ciò con l’intento di far
passare il sottoscritto per mitomane, o pazzo, o calunniatore. Lo stesso atto
giudiziario, in sè per sè legale, inserito in un puzzle completo, consequenziale
e propedeutico ad altri, invece, dà l’idea delle illegalità a cui mi sono
ribellato e della persecuzione attuata nei miei confronti, abusando di poteri
pubblici e dell’impunità che ne consegue. Illegalità rilevate, oltretutto, da
innumerevoli interrogazioni parlamentari. Le denunce presentate da me, ovvero le
denunce o gli esposti presentati da terzi e poi, se insabbiati, ripresentati da
me come presidente nazionale di associazione antimafia, o come esercente la
professione forense, o come presidente provinciale di partito, o di associazione
di avvocati e praticanti, contro molti avvocati del circondario di Manduria e
contro molti magistrati del Tribunale di Taranto sono rimaste tutte lettera
morta. Compresa la denuncia contro il giudice Rita Romano. Tutto ciò mi ha
imposto di ricusare il giudice Rita Romano (magistrato molto apprezzato dai
colleghi) e poi di presentare la presente istanza di rimessione. Ricusazione e
Rimessione sono atti da me dovuti, adottati in base al principio che “se non
sono capace di difendere me stesso, come posso difendere altri?!?”.
Nel Foro di Taranto vige un principio: “conformati o subisci e taci!!”.
A questo dogma io mi ribello e per questo sono perseguitato con atti illegali
impuniti.
Ed è ciò che con il presente atto voglio dimostrare.
Qui si produce elenco di 170 denunce fondate, presentate per fini di giustizia e
di ricerca della verità, a tutela personale, dei clienti e degli associati.
Denunce incardinate e consequenziali tra di loro, ma tutte stranamente
archiviate. Archiviazioni spesso fuorvianti o per coprire colpe di archiviazioni
precedenti. Tanto strano da indurre il sottoscritto a rivolgermi 83 volte alla
procura di Potenza contro i magistrati che insabbiavano, così come elenco in
allegato. Perseveranza fondata sulla speranza di trovare un magistrato non
omologato. Gli elenchi sono lunghi, ma per costrizione, sebbene bisogna
rimarcare la giustezza delle doglianze per l’assenza di condanne, tantomeno per
calunnia. Certo la mia ribellione ha suscitato reazione ritorsiva. Prova ne è
una valanga di processi a mio carico, spesso con lesione del diritto di difesa
dovuta all’indigenza, senza mai conseguire condanna definitiva. Prova ne è 14
anni d’impedimento alla professione forense, proprio per indurmi all’indigenza,
come dimostrato con l’ammissione al gratuito patrocinio in allegato. I miei
compiti al concorso forense non vengono corretti, ma sono dichiarati tali. Il
ricorso al Tar mi è impedito e i magistrati non intervengono. Un dato di fatto è
che mi ritrovo l’avv. Antonio De Giorgi, presidente di commissione d’esame
nazionale del concorso forense e più volte ispettore ministeriale, in un
concorso per cui egli è stato da me denunciato quando era presidente di
commissione di Lecce, competente su Taranto, e poi estromesso dalla riforma,
perché presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Le denunce
sono rimaste lettera morta. E pensare che il sottoscritto ha il proprio figlio,
l’avv. Mirko Giangrande, vanto del padre e del Foro di Taranto, essendo egli,
così come tutti i media hanno riportato, l’avvocato più giovane d’Italia, con i
suoi 25 anni e due lauree.
Non vi è stata ancora soccombenza da parte mia, pur in una situazione ambientale
totalmente avversa ed omertosa, proprio perché vi sono solide basi di competenza
giuridica che danno modo al sottoscritto di affrontare le questioni contro il
sistema territoriale, in solitudine e senza sostegno istituzionale, ma forte
delle proprie ragione conformi alle norme.
Per me vale ancora la “Forza della legge” e non “La legge del più forte”.
E’ una vergogna per i responsabili della vessazione se proprio in loco, dove vi
è la sede legale, una risorsa (sia fisica che giuridica) viene vilipesa ed
umiliata, mentre la stessa è molto apprezzata altrove.
Motivo della presente richiesta di rimessione è che il sottoscritto è imputato
presso il Tribunale di Manduria in 3 procedimenti per reati d’opinione,
attinenti il legittimo diritto di critica e di cronaca in portali
d’informazione. Processi nati senza il corpo del reato e viziati da palese
“Fumus Persecutionis” e per questo ne si richiede la loro rimessione:
1. 1. Proc. n. 36/3015/09
RGNR, n. 10244/10 RGDT, giudice onorario avv. Frida Mazzuti, sostituta del
giudice togato d.ssa Rita Romano da me ricusata ed astenuta. Processo per
diffamazione a mezzo stampa a danno di Dimitri Giuseppe, “poiché offendeva la
reputazione di Corigliano Renato, mediante pubblicazione sul suo sito … della
querela sporta da Dimitri Giuseppe nei confronti del citato Corigliano Renato
per il reato di falsa perizia…. Querela in cui si affermava che il Corigliano
Renato, quale CTU nella perizia che espletava quale perito di ufficio del
Giudice di Pace di Manduria, dava risposte non richieste ed ometteva di
rispondere ai quesiti del giudice, produceva una relazione di consulenza tecnica
scarna, incompleta, reticente, infedele ai quesiti posti e artificiosa, tale da
generare conclusioni e deduzioni false. Con l’aggravante dell’attribuzione di un
fatto determinato…sino al 12/12/2007”. La querela del Dimitri è stata archiviata
nonostante si fosse prodotta prova che la CTU contestata era difforme anche
dalla consulenza della parte avversa al Dimitri. A dispetto dell’archiviazione
penale, però, lo stesso Tribunale civile di Taranto ha scelto di non nominare
più il Corigliano. Il Corigliano ha chiesto i danni al Dimitri. Il Dimitri ha
denunciato il sottoscritto, suo difensore. Il sottoscritto è processato per aver
pubblicato atti pubblici sugli insabbiamenti delle denunce sulle consulenze
giudiziarie false a Taranto, (quantunque in periodi in cui tale pubblicazione
non vi è stata) e per querela del Corigliano mai presentata contro il
sottoscritto. Qui denunciato, addirittura, dal Dimitri Giuseppe mio cliente,
vittima e per il quale mi ero adoperato su suo mandato. L’accusa è infondata in
quanto il corpo del reato è la medesima denuncia fatta dallo stesso Dimitri
contro il Corigliano con l’accusa di consulenza falsa, da cui era già in corso
altro processo per calunnia a danno dello stesso Dimitri. Sono stato sentito nel
procedimento connesso a carico del Dimitri attinente i medesimi fatti, promosso
dal Corigliano Renato. Chiamato dal difensore del Dimitri, Maria Calò, avvocato
di Manduria, nella causa tenuta dal giudice Rita Romano, poi da me ricusata ed
astenuta nel processo de quo. Interrogato, senza l’assistenza del difensore,
come persona informata dei fatti, anziché essere avvisato di essere indagato in
procedimento connesso. Interrogato senza che fossi informato in udienza della
denuncia a mio carico presentata dalla stessa parte che mi ha citato a
testimoniare. Cosa da me ignorata. Interrogato senza essere informato della
presenza obbligatoria del mio avvocato. Nel rendere testimonianza senza tutela
legale si era nella convinzione di fare l’interesse del Dimitri, senza sapere
che proprio la difesa dello stesso l’avrebbe usata contro di me, per liberare il
suo cliente. Si fa presente che per il procedimento de quo già vi è stata
astensione del giudice naturale, Rita Romano, a seguito di istanza di
ricusazione presentata da me personalmente per reticenza del difensore, perché
più volte da me denunciata per abusi in atti processuali, come in allegato,
rilevando lo stesso giudice cause di opportunità. La denuncia è stata
archiviata. Ricusazione presentata l’1 ottobre 2010 al Tribunale di Manduria e
il 4 ottobre 2010 alla Corte d’Appello di Taranto con allegata denuncia del 18
aprile 2008 contro Rita Romano per abuso d’ufficio, inoltrata alla procura di
Potenza ed altre autorità, dalle cui risultanze investigative non emergevano
elementi di calunnia perseguibile d’ufficio, ed astensione avvenuta in udienza
il 5 ottobre 2010. La ricusazione presentata, però, è stata ritenuta non
concordata da parte del mio difensore, Dionisio Gigli, avvocato di Manduria, che
ha rinunciato alla difesa, nonostante sapesse dell’inimicizia ed avesse omesso
di presentare la ricusazione egli stesso. Tutto ciò ha comportato difficoltà a
reperire un avvocato del posto tant’è che sono stato costretto a rivolgermi ad
un avvocato extra foro. Ciò è dovuto al fatto che l’avvocato Maria Calò,
difensore del Dimitri, è un noto politico di centro sinistra di Manduria stimato
dai suoi colleghi avvocati e politici. Ciò è dovuto anche al fatto che il
sottoscritto ha presentato denunce, rimaste lettera morta, contro quella parte
politica quando era al potere, sia ad Avetrana con sindaco Luigi Conte, sia a
Manduria con sindaco Gregorio Pecoraro, e contro gli avvocati che beneficiavano
degli incarichi e contro le forze dell’ordine e i magistrati che ne hanno
coperto gli abusi. Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio
del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da
dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e
vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di
Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari
erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo
Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di
Brindisi. Oggi l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di
Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso
rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli
atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della
consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi.
Il sindaco Gregorio Pecoraro è stato denunciato anch’esso per inquinamento della
costa e, in qualità di commercialista, per rilascio di consulenza tecnica
d’ufficio (ritenuta falsa in denuncia) su incarico giudiziario al Tribunale di
Manduria. Le denunce sono rimaste lettera morta. Il Pecoraro riconobbe la
ragione dell’Enel, che a cessazione del contratto di una fornitura chiese il
pagamento del conguaglio con una somma esorbitante, risultato molto maggiore del
dovuto. L’Enel riconosciuto l’errore restituì una somma minore, trattenendo
l’importo pari all’iva, che il cliente privato non poteva detrarre. La procura
archivia, come tutte le denunce delle C.T.U ritenute e provate essere false e
tutte le denunce sugli abusi edilizi nel territorio di Manduria ed Avetrana.
Indagini delegate ad agenti di polizia e carabinieri di Avetrana e Manduria, che
proprio loro dovevano vigilare e non l’hanno fatto. A proposito di nefandezze
amministrative al Comune di Manduria la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un
articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore di Taranto, Alessio
Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione della mia denuncia sul
concorso truccato di comandante dei VV.UU di Manduria e sul mancato rilascio di
ricevuta dall’ufficio protocollo di Manduria che poteva inficiare la regolarità
degli iter amministrativi: “la prassi dell’ufficio protocollo è un modus
operandi che non danneggia il Giangrande e le lamentele circa il concorso sono
propalazioni frutto di convinzioni personali senza alcun riscontro obbiettivo”.
In seguito alla pubblicazione Alessio Coccioli cosa fa per ritorsione?? Egli
denuncia il sottoscritto a Potenza, così come in allegato, per l’articolo
scritto da altri a Città del Capo in Sud Africa. Tornando al processo de quo, si
fa presente che il giudice sostituto della Rita Romano, cioè Frida Mazzuti,
all’udienza successiva del 13 gennaio 2011 ha rigettato le eccezioni preliminari
sulla validità del rinvio a giudizio. Prima eccezione: la persona offesa
indicata in atto, Dimitri Giuseppe, non aveva interesse ad agire. Seconda
eccezione: il Corigliano Renato, non era indicata come persona offesa. Il
Giudice, invece, ha introdotto nel processo in modo autonomo il Corigliano,
riconoscendolo come persona offesa dal medesimo reato, in aggiunta al Dimitri,
senza rinviare gli atti al PM per l’integrazione delle indagini e la
precisazione delle conclusioni. Restituzione al fine della verifica della
sussistenza di fatti e circostanze perduranti a sostegno delle accuse, compresa
prescrizione e decadenza, e il rispetto delle norme di rito. Nel fascicolo vi
sono gli atti delle indagini preliminari. Sono stato sentito dalla polizia
postale di Taranto, nella persona dell’ispettore Capo Andreina Rucci,
formalmente invitato per motivi di giustizia. Anche qui, come nel processo prima
citato a carico del Dimitri, ho reso dichiarazioni nella convinzione di fare
l’interesse di Giuseppe Dimitri, e solo dopo mi è stato riferito di essere
indagato, omettendo di riferire il nome della persona offesa, che era proprio il
Dimitri. La pubblicazione contestata nel processo de quo è stata effettuata
(comunque non nei tempi indicati nel rinvio a giudizio) nell’esercizio del
diritto di cronaca e di critica e nell’adempimento di un dovere, in portali
d’inchiesta ed informazione e da parte del sottoscritto quale presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, riconosciuta dal Ministero
dell’Interno, perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei
sodalizi antimafia. Pubblicazione effettuata nella pagina di Taranto ed inserita
in un contesto generale e nazionale riguardante i dati ISTAT, con rapporto
denunce-condanne pari all’11%, e gli articoli di stampa e le interrogazioni
parlamentari attinenti insabbiamenti e gli errori giudiziari a Taranto e i
procedimenti penali a carico dei magistrati tarantini: Sost. Proc. Matteo Di
Giorgio per abusi; il caso “Toghe sporche” in cui era coinvolto il Procuratore
Capo Aldo Petrucci, per un’inchiesta in cui c’era sua figlia avvocato esercente
presso lo stesso foro di Taranto, e il capo dei GIP tarantini, Giuseppe
Tommasino, fratello del sindaco di Manduria; il giudice Vito Vozza, che scriveva
le sentenze con l’aiuto degli avvocati; il giudice Pietro Vella, con ritardi
pluriennali delle sentenze; la vicissitudine giudiziaria capitata a Franco
Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato e condannato in pochi
giorni per aver sollevato accuse contro Eugenio Introcaso, Questore di Taranto e
poi candidato sindaco di Taranto. Comunque il giudice, in data 1 dicembre 2011,
è stata costretta a dichiarare nullo il decreto del rinvio a giudizio,
disponendo la consegna del fascicolo al Pubblico Ministero.
2. 2. Proc. 5089/05 RGNR, n.
2612/06 GIP, n. 10306/06 RGDT, n. 10346/10 RGDT, giudice togato d.ssa Vilma
Gilli, sostituta del giudice togato d.ssa Rita Romano da me ricusata ed
astenuta. Processo per diffamazione a mezzo stampa e concorso in calunnia con
mia sorella Monica Giangrande a danno di Cavallo Nadia, avvocato del circondario
di Manduria, e Famà Placido, suo cliente, “..per aver, con più azioni esecutive
di un medesimo disegno criminoso incolpato Cavallo Nadia e Famà Placido del
reato di truffa e subornazione,..sino al 18/10/2004 ….. per aver offeso la
reputazione di Cavallo Nadia, pubblicando uno scritto, in cui si sosteneva che
la Cavallo Nadia aveva inviato atto di citazione per un sinistro inesistente con
prove false... sino al 10/06/2005”. L’avv. Nadia Cavallo è molto stimata dai
magistrati di Taranto, compreso Salvatore Cosentino, magistrato di Taranto, il
quale ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione di una mia denuncia ricevuta dalla
Procura di Busto Arsizio. Denuncia contro la stessa Procura di Taranto. La
conseguente denuncia per l’autoarchiviazione è rimasta lettera morta. Qui il
sottoscritto rinviato a giudizio, addirittura, per calunnia per una denuncia mai
presentata e per un articolo mai scritto. Rinviato a giudizio in concorso con
mia sorella Giangrande Monica per calunnia, perché la stessa affermava a sua
firma in ben due sue denunce contro la Nadia Cavallo e il Placido Famà, che
Giangrande Monica non era responsabile esclusiva del sinistro (in cui vi erano
lesioni personali colpose querelabili). Infatti la Cavallo Nadia in atti di
citazione la indicava come “responsabile esclusiva”. La Cavallo se intendeva
riferirsi a lei come proprietaria dell’auto o titolare della polizza RCA
eventualmente l’avrebbe definita “responsabile solidale”. Citazione in cui
chiedeva i danni di importo differente in separate cause civili e con testimone
sua sorella Cavallo Lucrezia Cinzia e l’assessore del sindaco Mario De Marco
(con il quale divideva lo studio legale), tal Antonio Minò, in grave inimicizia
perché già denunciato dal sottoscritto per diffamazione. L’iniziale richiesta
del risarcimento danni di Famà Placido era stata istruita dallo studio legale
dell’avv. Giancarlo De Santis. In quello studio lavorava la figlia di Famà
Placido, tal avv. Tecla Famà, parente acquisita del sindaco di Avetrana Mario De
Marco. La richiesta iniziale indicava Nigro Giuseppa come responsabile del
sinistro e comunque la compagnia assicurativa di Giangrande Monica non ha
ritenuto di pagare contestando “an” e “quantum”. In sede civile: il primo
processo, attivato dalla Cavallo Nadia e da Famà Placido presso il Giudice di
Pace con differente importo, è stato abbandonato; la sentenza a favore della
Cavallo del secondo processo presso il Tribunale civile è stata appellata. Le
denunce presentate da Giangrande Monica sono state archiviate. La denuncia per
calunnia e l’esposto presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto
da parte della Cavallo ha avuto seguito. Da precisare che è stata presentata
opposizione alla richiesta di archiviazione delle denunce contro l’avvocato
Cavallo. L’unica volta che mi sono permesso rispetto alle innumerevoli
archiviazioni, indicate in allegato. Dalle archiviazioni alla calunnia il tratto
è stato breve, comprendendo me, che non avevo presentato alcuna denuncia. Nel
dibattimento per la calunnia in concorso tra mia sorella Giangrande Monica e il
sottoscritto Antonio Giangrande (suo legale), la mia posizione è stata
stralciata rispetto alla coimputata Monica Giangrande, perché in sede di udienza
preliminare del 2 ottobre 2006 tenuta dal GUP Ciro Fiore mi è stata omessa la
notifica della richiesta di rinvio a giudizio. Da allora il procedimento
sembrava essere estinto. Nella presunzione della sua archiviazione per
infondatezza delle accuse, mi sono attivato a costituire in mora l’avv. Nadia
Cavallo ed interrompere i termini prescrizionali per il risarcimento dei danni.
Non l’avessi mai fatto. Il procedimento, come la fenice, risorge dalle sue
ceneri dopo quasi 4 anni. In sede di udienza preliminare rinnovata e successiva
a mio carico del 28 aprile 2010, anziché emettere il non luogo a procedere per
mancanza del corpo del reato e quindi di prove a sostegno delle accuse, il GUP
Pompeo Carriere rinvia ad altra udienza e ordina al p.m. di produrre le prove a
carico, in quella sede mancanti. Successivamente, alla seconda udienza
preliminare del 8 novembre 2010 il Pubblico Ministero non produce alcuna prova,
perché inesistente, ma con ciò il GUP Pompeo Carriere rinvia comunque a
giudizio. Si fa presente che per il procedimento de quo già vi è stata
astensione del giudice naturale, Rita Romano, a seguito di istanza di
ricusazione presentata da me personalmente per reticenza del difensore, perché
più volte da me denunciata per abusi in atti processuali, come in allegato,
compresi quelli attinenti ai fatti di causa, rilevando lo stesso giudice cause
di opportunità. Le denunce contro Rita Romano sono rimaste lettera morta anche
per fatti di altra causa in cui compariva ancora la Nadia Cavallo. Nel
dibattimento a mio carico si presenta ricusazione contro il giudice Rita Romano.
Ricusazione presentata il 27 gennaio 2011 al Tribunale di Manduria e il 31
gennaio 2011 alla Corte d’Appello di Taranto con allegata denuncia del 18 aprile
2008 contro Rita Romano per abuso d’ufficio inoltrata alla procura di Potenza ed
altre autorità, dalle cui risultanze investigative non emergevano elementi di
calunnia perseguibile d’ufficio, ed astensione avvenuta in udienza l’1 febbraio
2011. La ricusazione da me presentata, però, è stata ritenuta non concordata da
parte del mio difensore, Gianluigi De Donno, avvocato di Manduria, che ha
rinunciato alla difesa, nonostante sapesse dell’inimicizia ed avesse omesso di
presentare la ricusazione egli stesso. Tutto ciò ha comportato difficoltà a
reperire un avvocato del posto per solidarietà tra colleghi manduriani, tant’è
che sono stato costretto a rivolgermi ad un avvocato extra foro. Questo dovuto
al fatto anche che su Manduria altri avvocati sono stati denunciati, come Franco
De Laurentiis per infedele patrocinio per una causa di lavoro fatta durare più
di dieci anni senza essersi mai presentato in udienza. L’avvocato De Laurentiis
ha tre figli avvocati esercitanti nel tribunale di Manduria. Altro avvocato
denunciato è Lucio Cavallone, per truffa e calunnia con il suo cliente,
inadempiente ad obbligazione cambiaria. Denunce rimaste lettera morta. Inoltre
il Capo dei Gip-Gup di Taranto, Giuseppe Tommasino, fratello del sindaco di
Manduria, Paolo Tommasino, è stato oggetto di attenzione mediatica sui portali
associativi di cui sono presidente, per quanto riguarda l’inchiesta “Toghe
sporche” in provincia di Taranto, in cui era coinvolto con l’ex procuratore capo
di Taranto, Aldo Petrucci. Giuseppe Tommasino è molto stimato in ambito forense
manduriano. Oltre alla calunnia sono accusato di aver pubblicato atti che
ledevano la reputazione della Cavallo Nadia. La pubblicazione contestata negli
atti d’accusa riguarda il ricorso amministrativo inviato a varie autorità in cui
si chiedeva un intervento contro la malagiustizia a Taranto e da cui è scaturita
un’interrogazione parlamentare del Senatore Euprepio Curto. Atto pubblico
reperito da terzi non per mia mano e da questi pubblicato. Pubblicazione,
comunque, se effettuata da me sui miei portali, sarebbe stata effettuata
nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica e nell’adempimento di un
dovere, in portali d’inchiesta ed informazione e da parte del sottoscritto quale
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, riconosciuta dal Ministero
dell’Interno, perché iscritta presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei
sodalizi antimafia. Pubblicazione effettuata nella pagina di Taranto ed inserita
in un contesto generale e nazionale riguardante i dati ISTAT, con rapporto
denunce-condanne pari all’11%, e gli articoli di stampa e le interrogazioni
parlamentari attinenti gli insabbiamenti e gli errori giudiziari a Taranto e i
procedimenti penali a carico dei magistrati tarantini: Sost. Proc. Matteo Di
Giorgio per abusi; il caso “Toghe sporche” in cui era coinvolto il Procuratore
Capo Aldo Petrucci, per un’inchiesta in cui c’era sua figlia avvocato esercente
presso lo stesso foro di Taranto, e il capo dei GIP tarantini, Giuseppe
Tommasino, di Manduria e fratello del sindaco di Manduria; il giudice Vito
Vozza, che scriveva le sentenze con l’aiuto degli avvocati; il giudice Pietro
Vella, con ritardi pluriennali delle sentenze; la vicissitudine giudiziaria
capitata a Franco Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato e
condannato in pochi giorni per aver sollevato accuse contro Eugenio Introcaso,
Questore di Taranto e candidato sindaco a Taranto. Nel proseguo del
processo de quo, nell’udienza del 10 marzo 2011, presso il Tribunale di
Manduria, ci si ritrovano due procedimenti penali. Il primo procedimento per
calunnia e diffamazione a carico di Giangrande Antonio per una denuncia mai
presentata ed un articolo mai scritto. Processo stralciato da altro processo per
concorso in calunnia con Giangrande Monica, la quale era già stata condannata da
Rita Romano perché la stessa Giangrande Monica si era dichiarata non
responsabile esclusivo del sinistro oggetto di una richiesta di risarcimento
danni da parte dell’avv. Cavallo Nadia. Il secondo procedimento, n. 5661/08 NGRN
10057/10 RGD, per falsa testimonianza contro Nigro Giuseppa che per quel
sinistro era stata riconosciuta dalla stessa Rita Romano di essere la
responsabile esclusiva del medesimo sinistro. La Rita Romano ha presentato
denuncia contro la Nigro Giuseppa, testimone della Monica Giangrande, mentre si
è astenuta nel presentarla contro i testimoni della Nadia Cavallo e Famà
Placido. In questo modo la condanna della Nigro esclude la responsabilità della
Giangrande, ma intanto sono entrambi ritenuti responsabili a danno del
sottoscritto. Nelle motivazioni allegate alla condanna di Monica Giangrande, la
Rita Romano insisteva sulla falsità delle dichiarazioni dell’imputata e, pur
rimarcando che nessun testimone avesse assistito al sinistro, né avesse
riconosciuto la targa del veicolo fermo, la stessa Romano ometteva ogni
riferimento al fatto che Giangrande Monica veniva espressamente riconosciuta
come responsabile esclusiva del sinistro, mentre la Nigro Giuseppa nell’atto di
citazione non veniva mai citata. Nella causa connessa a questa di cui si parla,
quindi, la Rita Romano condannava la coimputata Giangrande Monica per calunnia,
per essersi giustamente dichiarata estranea al sinistro e aver accusato,
sapendola colpevole l’avv. Nadia Cavallo di truffa e subornazione di testimoni.
La condanna è stata emessa, nonostante in udienza si fosse individuata la vera
responsabile del sinistro, Nigro Giuseppa. Pier Giovanni Lupo, avvocato del
circondario di Manduria, difensore di Giangrande Monica, pur in presenza di
fondati motivi, non presenta il ricorso in appello, facendone scadere i termini.
Lo stesso avv. Pier Giovanni Lupo concordava e faceva pagare a Monica Giangrande
ben 5 mila euro a titolo di ristoro alla stessa Nadia Cavallo. Condanna
infondata e definitiva per mancato appello: tutto buono per essere usato contro
il sottoscritto nel procedimento connesso. Non solo la Nadia Cavallo ha
percepito 5 mila euro, ma non bastandole, ha attivato un processo civile contro
Giangrande Monica per una maggior somma pari a 50 mila euro per i danni morali.
Tutto questo oltre a quanto essa ha percepito dal risarcimento del danno da
parte dell’assicurazione per il danno al Famà Placido. In aggiunta a tutto
questo sin da subito la Cavallo si è costituita parte civile nel processo de quo
a mio carico. Nei processi civili e penali attinenti il processo, i testimoni
della Cavallo hanno reso dichiarazioni contraddittorie altamente contestabili.
Il sottoscritto Giangrande Antonio era anche difensore di Erroi Salvatore,
marito di Giangrande Monica, in causa civile, in cui difensore della contro
parte era sempre Cavallo Nadia, che aveva preso il posto di Lucio Cavallone. In
quel processo tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi,
oggetto di causa. Il Gioia palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa,
diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede
civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a
giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21. Difeso da Cavallo Nadia in proc.
10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le
prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo. Nelle motivazioni della
sentenza la Rita Romano metteva in discussione, addirittura, la fondatezza
probatoria della rappresentazione fotografica. L’avv. Pier Giovanni Lupo,
difensore di Erroi Salvatore, parte civile, pur evidenti le discrasie
nella sentenza non presenta appello diretto, né presenta a tal fine motivata
istanza al Pubblico Ministero. Non ci si spiega perché non è stato presentato
fondato appello né per Erroi Salvatore (mio cognato), parte civile nel processo
Gioia, né per sua moglie (mia sorella), Giangrande Monica, imputata nel processo
Cavallo, nonostante la fondatezza dell’impugnazione e sebbene presso l’avv. Pier
Giovanni avesse fatto la pratica forense mio figlio, avv. Mirko Giangrande, e
mio fratello, avv. Patrizio Giangrande. La Nadia Cavallo, pur usufruendo nel
processo civile della testimonianza del Gioia Vincenzo, a dire del Gioia
chiedeva a questi la somma di 8 mila euro a titolo di onorario per la sua difesa
nel processo penale. Somma scesa a 6.440,00 euro in virtù di notula consiliare.
Il Gioia in questo modo era costretto a richiedere la stessa somma all’Erroi
Salvatore, vittima soccombente. Giangrande Antonio era difensore anche di Natale
Cosimo in una causa civile di sinistro stradale, in cui responsabile era proprio
lo stesso Gioia Vincenzo, (responsabilità acclarata con sentenza nonostante la
testimonianza di Fasiello), e poi esecutato per inadempienza. Il Gioia era
difeso dall’avv. Lucio Cavallone di Manduria. Il testimone Fasiello Mario
dichiara nell’udienza civile di non sapere nulla del sinistro avvenuto di fronte
casa sua. Per questo esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo
penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007,
(sempre) la Rita Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta,
nonostante lo stesso rendeva testimonianza in udienza penale contrastante a
quella contestata resa in udienza civile. Lo assolveva nonostante in udienza
affermava il vero e quindi il contrario di quanto dichiarato in separata causa.
Lo assolveva nella causa in cui a difenderlo vi era l’avv. Mario De Marco,
avvocato difensore e al contempo Sindaco di Avetrana. Tutti questi fatti sono a
fondamento della denuncia contro la Rita Romano, in allegato, causa della sua
ricusazione. Denuncia rimasta lettera morta. Tra il sindaco Mario De Marco e la
Nadia Cavallo vi è stretta amicizia e colleganza per aver avuto lo studio legale
in comune. Nell’Amministrazione di Mario De Marco vi è l’assessore Antonio Minò,
testimone della Cavallo, già querelato per diffamazione dal sottoscritto e ne ha
risarcito i danni. Vi è anche Cosimo De Rinaldis, che ha ignorato la richiesta
d’iscrizione della mia associazione nell’elenco comunale. Vi è Angelo Milizia
Carmelo, il funzionario di banca denunciato per falso da Cosima Serrano nel caso
Sarah Scazzi. La stessa Cavallo Nadia, pur difendendo in cause giudiziarie
interessi contrari al Comune di Avetrana, ella stessa riceve incarichi
giudiziari dallo stesso Comune di Avetrana. Inoltre tra la Cavallo e i
carabinieri di Avetrana vi è forte stima. Quei carabinieri, i cui uffici sono
tenuti dal maresciallo Fabrizio Viva e Arnaldo Cocciolo, che hanno definito il
sottoscritto: “Giangrande Antonio….., il quale, per la verità, è un personaggio
ben conosciuto dalle forze dell’ordine del paese di residenza…per via della sua
propensione alla denuncia calunniosa”. Citazione indicata tra le altre in
denuncia del De Prezzo, contenuta nel fascicolo di causa del punto 3. Inoltre
tra l’avv. Nadia Cavallo e l’avv. Lucio Cavallone vi era altra colleganza per le
cause intrattenute, in cui difendevano Vincenzo Gioia. Lo stesso Lucio Cavallone
difendeva Biagio Mero, già condannato per aver diffamato in udienza civile mio
fratello, l’avv. Giangrande Patrizio, che difendeva il padre Oronzo Giangrande
in causa civile in cui il Mero è esecutato. La frase “in famiglia siete tutti
usurai” detta in presenza di giudice civile ed avvocati, motivo della condanna,
è stata negata in udienza penale contro il Mero, dall’avv. Lucio Cavallone, suo
legale in sede civile. Cavallone, chiamato a testimoniare nella causa penale, ha
reso testimonianza in contrasto con le altre testimonianze. L’avv. Cavallone non
è stato perseguito per falsa testimonianza. Per contrastare l’esecuzione per
crediti cambiari non soluti dal Biagio Mero a favore di mio padre in rapporti
professionali avvenuti 20 anni prima, il Mero presentava pretestuosamente
denuncia per usura. Giangrande Oronzo presenta denuncia per calunnia contro
l’avv. Lucio Cavallone e il suo cliente Biagio Mero, pluriesecutato, anche da
terzi, sempre per inadempienze ad obbligazione in rapporti professionali. Per
creare grave nocumento al sottoscritto, presidente di associazione antiusura, le
denunce presentate dal padre Oronzo Giangrande sono ovviamente archiviate. Il
procedimento nato a carico di mio padre, Oronzo Giangrande, anziché essere
archiviato o almeno avere vita autonoma, è stato inserito in un calderone di
decine di nominativi, ove non vi era nessuna connessione oggettiva, né
soggettiva per i reati indicati. Questo con il chiaro intento di avere clamore
mediatico e lederne l’immagine e di violarne la privacy in luogo delle
plurinotifiche adottate. Il processo è tenuto da un collegio in cui la stessa
Rita Romano (da me ricusata nei processi de quo) è relatore. Comunque nessuno,
né Giangrande Oronzo, né i suoi figli, né i figli dei figli hanno condanne per
usura. Anzi, tutti fanno parte proprio di una associazione antiusura. C’è da
dire che un nipote, Giangrande Leonardo, è presidente della Conf. Commercio e
vice presidente della Camera di Commercio di Taranto e del relativo ufficio
confidi antiusura. Tornando al procedimento de quo, nell’udienza del 10 marzo
2011, successiva alla mia ricusazione e contestuale astensione della Romano, il
giudice togato Vilma Gilli, spesso in collegio con la stessa Rita Romano in
cause di interesse mediatico, rigettava le eccezioni preliminari della mia
difesa, in cui si contestava l’assenza del corpo del reato e l’infondatezza
delle accuse. In quella sede il giudice Gilli, anziché emettere sentenza di non
doversi procedere, ha insistito, ancora (come il GUP), sul PM per la
presentazione delle prove del reato.
3. 3. Proc. Brindisi 9429/06
RGNR, 1004/07 RGDT; Taranto 8483/08 RGNR, n. 10329/09 RGDT, n.10018/11 RGDT,
giudice onorario avv. Frida Mazzuti, sostituto del giudice togato d.ssa Rita
Romano da me ricusata e poi costretta all’astensione. Processo per violazione
della Privacy a danno Santo De Prezzo, avvocato del circondario di Manduria,
“..per aver trattato dei dati personali senza il consenso espresso..sino al
06/11/2006”. Processato con l’accusa di aver pubblicato il nominativo
dell’avvocato e l’indirizzo del suo studio legale attinto dall’elenco
telefonico, in atti pubblici in cui lo stesso avvocato era denunciato con altri.
C’è da dire che il procedimento de quo è il rinnovo di altro procedimento, n.
10329/09 RGDT, per il quale gli atti sono stati restituiti al mittente, PM Remo
Epifani, perchè il decreto di citazione a giudizio era viziato da irregolarità.
Lo stesso avvocato Santo De Prezzo ha rinunziato a costituirsi parte civile al
processo tenuto a Manduria in accordo con il sottoscritto imputato, che ha
eliminato dai suoi siti informativi ogni riferimento al nome del suddetto
avvocato. Giusto per dimostrare che l’intento è di informare i cittadini su dati
oggettivi e non dare immeritata visibilità o danno mediatico a singoli soggetti.
Dati pubblici oltretutto estrapolati dall’elenco telefonico. A Taranto si è
proceduto a sequestrare il sito web dell’associazione. Un intero sito web con
centinaia di pagine, che nulla centravano con la pagina contenente l’atto
pubblicato, interrompendo un servizio pubblico e di interesse pubblico. Il
sequestro effettuato a Taranto con decreto autonomo del GIP Martino Rosati è la
reiterazione di un sequestro preventivo d’urgenza disposto dal PM, Adele
Ferraro, del Tribunale di Brindisi, dove inizialmente la denuncia del De Prezzo
era stata depositata. Atto di sequestro rinnovato in più fasi per palese
irregolarità. Un atto di sequestro effettuato da parte di chi, foro di Brindisi,
era oltretutto incompetente, attinto con procedimento n. 9429/06 RGNR, 1004/07
RGDT.. Procura di Brindisi che aveva tutto l’interesse ad oscurare la pagina di
Brindisi, in cui vi era pubblicato la questione afferente il Giudice Clementina
Forleo e il complotto a suo danno. Per abusi sugli atti di causa è stata
presentata denuncia, qui allegata, contro i magistrati, Adele Ferraro P.M di
Brindisi, Katia Pinto giudice di Brindisi e Martino Rosati, il famoso gip di
Taranto del caso di Sarah Scazzi, che ha convalidato la custodia cautelare in
carcere per Sabrina Misseri, anche per motivazioni attinenti i rapporti tra
questa e i media, tali (a suo dire) da influenzare le indagini. La pubblicazione
contestata nel processo de quo è stata effettuata nell’esercizio del diritto di
cronaca e di critica e nell’adempimento di un dovere, in portali d’inchiesta ed
informazione e da parte del sottoscritto quale presidente dell’Associazione
Contro Tutte le Mafie, riconosciuta dal Ministero dell’Interno, perché iscritta
presso la Prefettura di Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia. Guarda caso
il sequestro generale del sito web, e non il sequestro in particolare della sola
pagina del corpo del reato, è stato reiterato direttamente dal GIP Martino
Rosati e non su richiesta del Sost. Procuratore competente Remo Epifani. Questo
perché il sito web trattava anche le pagina su Taranto le cui pubblicazioni,
inserite in un contesto generale e nazionale, riguardavano i dati ISTAT, con
rapporto denunce-condanne pari all’11%, e gli articoli di stampa e le
interrogazioni parlamentari attinenti gli insabbiamenti e gli errori giudiziari
a Taranto e i procedimenti penali a carico dei magistrati tarantini: Sost. Proc.
Matteo Di Giorgio per abusi; il caso “Toghe sporche” in cui era coinvolto il
Procuratore Capo Aldo Petrucci, per un’inchiesta in cui c’era sua figlia
avvocato esercente presso lo stesso foro di Taranto, e il capo dei GIP
tarantini, Giuseppe Tommasino, fratello del sindaco di Manduria; il giudice Vito
Vozza, che scriveva le sentenze con l’aiuto degli avvocati; il giudice Pietro
Vella, con ritardi pluriennali delle sentenze; la vicissitudine giudiziaria
capitata a Franco Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato e
condannato in pochi giorni per aver sollevato accuse contro Eugenio Introcaso,
Questore di Taranto e candidato sindaco di Taranto. Mentre il sost. Proc. Adele
Ferraro e il giudice Katia Pinto, in quel di Brindisi hanno sequestrato l’intero
sito web affinchè non si conoscesse la pagina di Brindisi, inserita in un
contesto generale. Pagina, riguardante i dati ISTAT, con rapporto
denunce-condanne pari all’11%, e gli articoli di stampa e le interrogazioni
parlamentari attinenti gli insabbiamenti a Brindisi. Altresì la pagina
pubblicava le notizie di stampa riguardo il caso di Clementina Forleo e il
complotto ai suoi danni e per il quale erano indagati da Potenza due sost. Proc.
Di Brindisi, Alberto Santacatterina e Antonio Negro, e il tenente dei
carabinieri di Brindisi, Pasquale Ferrari. Tornando al processo de quo, si fa
presente che non vi è stata astensione del giudice naturale, Rita Romano, a
seguito di istanza di ricusazione da me presentata personalmente per reticenza
del difensore perché più volte da me denunciata per abusi in atti processuali,
compresi quelli attinenti ai fatti di causa in riferimento alla causa Mancini di
cui l’atto pubblicato trattava. In quel caso aveva assolto l’imputato in cause
in cui il Mancini era accusato di aver aggredito in casa il sottoscritto,
avvocato della moglie. Moglie che il Mancini aveva indotto al suicidio. Per
quest’ultimo reato era stato coinvolto il praticante del De Prezzo, il dr.
Franceschini a giudicare in qualità di giudice onorario. Il sottoscritto
Giangrande Antonio, da difensore, sono stato vittima dell’aggressione da parte
di Salvatore Mancini, al fine di impedirmi la presenza all’udienza del giorno
successivo. Il sottoscritto presenta immediata querela/denuncia per lesioni ed
altro, mentre il Mancini presenta querela strumentale per lesioni. Nel
procedimento penale 760/01 RGNR 3313/01 GIP e 3980 D.P. Matteo Di Giorgio (il
gip da noi attenzionato ed arrestato per abusi) condannava Antonio Giangrande
con decreto penale di condanna: ossia condanna senza contraddittorio. Condanna
vanificata dalla seguente opposizione, che ha dato vita ad un processo da cui
sono uscito pulito. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio
2006, la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo
istruito da un PM che non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur
indicanti in denuncia (Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio
Avv. Giangrande Mirko), il giudice Rita Romano sente solo i coniugi ai sensi
del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla
testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione
è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze dei
vicini di casa. Nelle motivazioni allegate alla sentenza la Rita Romano definiva
testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra. La Rita Romano, a torto, ha
sempre considerato mendaci ed inattendibili le dichiarazioni del sottoscritto e
dei suoi familiari. Anche contro la realtà dei fatti questo è successo nella
causa del Mancini e (come al punto precedente) nella causa della Cavallo e nella
causa del Gioia. La ricusazione contro la Rita Romano è stata presentata il 27
gennaio 2011 al Tribunale di Manduria e il 31 gennaio 2011 alla Corte d’Appello
di Taranto con allegata denuncia del 18 aprile 2008 contro Rita Romano per abuso
d’ufficio inoltrata alla procura di Potenza ed altre autorità, dalle cui
risultanze investigative non emergevano elementi di calunnia perseguibile
d’ufficio. La mancata astensione è avvenuta in udienza l’1 febbraio 2011. Per
questa causa in cui l’avv. De Prezzo è persona offesa, il giudice Rita Romano, a
differenza dei precedenti, non ha rilevato cause di opportunità di astensione,
pur essendo a conoscenza della denuncia a suo carico anche per i fatti della
causa de quo. La ricusazione da me presentata, però, è stata ritenuta non
concordata da parte del mio difensore, Gianluigi De Donno, avvocato di Manduria,
che ha rinunciato alla difesa, nonostante sapesse dell’inimicizia ed avesse
omesso di presentarla egli stesso. Tutto ciò ha comportato difficoltà a reperire
un avvocato del posto tant’è che sono stato costretto a rivolgermi ad un
avvocato extra foro. Nel proseguo, dal 31 gennaio 2011 fino all’udienza del 8
marzo 2011, la Corte d’Appello ha ritenuto di non esprimersi sulla ricusazione,
pur obbligata a farlo. Sicuramente, però, qualcuno è intervenuto sulla volontà
della Rita Romano, senza darne risalto nel procedimento pubblico. Intervento
coatto e silenzioso sul giudice che a tutti i costi voleva decidere su una causa
in cui pendeva una denuncia contro Martino Rosati per interruzione di Pubblico
Servizio. Ciò ha dato modo, nell’udienza del 8 marzo 2011, al giudice Rita
Romano di astenersi, laddove non lo aveva fatto prima per grave inimicizia,
anziché sospendere il dibattimento in attesa della decisione della Corte
d’Appello. Astensione però adottata non per le denunce dal sottoscritto
presentate, ma per la denuncia per calunnia contro il sottoscritto da ella
presentata il 10 febbraio 2011. Denuncia contro di me per calunnia presentata
con strumentale grave ritardo rispetto alla data della mia denuncia contro di
lei del 18 aprile 2008, ovvero rispetto alla prima ricusazione del 5 ottobre
2010, di cui al punto 1, della quale denuncia ne era venuta a conoscenza, ove
non lo fosse già. Questo, altresì, in contrasto con il pensiero della procura di
Potenza che sulla denuncia del 18 aprile 2008 ha ritenuto di non procedere sia
nei confronti della Romano, né di procedere d’ufficio per calunnia nei confronti
del sottoscritto. Astensione strumentale presentata per ovviare all’inevitabile
ricusazione, che la Corte d’Appello ha intenzionalmente omesso, ma sicuramente
indotto. Il giudice Romano si era già astenuta in due processi su tre. Il
processo de quo, su cui Rita Romano, appunto, voleva decidere, ma è stata
costretta a rinunciare, verte sul procedimento in cui il G.I.P. Martino Rosati
(quello del caso Sarah Scazzi, su cui tanto ho scritto sui nostri ed altrui
portali informativi, criticando i metodi d’indagine) che con proprio ed autonomo
decreto ha disposto il sequestro preventivo dell’intero sito web
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Portale d’inchiesta che contiene
centinaia di pagine, tra cui la pagina di Taranto. Pagina che parla della
situazione a Taranto e che nulla centra con i fatti di causa. Per il sequestro
immotivato il G.I.P. e stato denunciato a Potenza per interruzione di pubblico
servizio e non vi è stata archiviazione. La Rita Romano nell’udienza dell’8
marzo 2011, in sede di astensione previa mia ricusazione, rinvia la causa al 25
marzo 2011. A Manduria, l’udienza ad personam con un solo imputato è tenuta dal
giudice onorario Giovanni Pomarico, indicato dalla Romano, che, non essendo il
giudice designato, rinvia all’udienza del 12 maggio 2011, in attesa di
disposizioni del Presidente del Tribunale di Taranto.
Il sottoscritto fa presente che è incensurato, in quanto, pur con tanti
pretestuosi tentativi, mai ha subito una condanna definitiva, tantomeno per
calunnia. I processi de quo sono stati interessati da molte denunce penali
presentate personalmente per legittima difesa per abusi procedurali. Come
esercente l’attività forense, o come presidente di associazione di cittadini o
di avvocati e praticanti, ho assistito, altresì, alla presentazione di denunce
dei clienti contro avvocati, consulenti tecnici d’ufficio, magistrati, polizia
giudiziaria, funzionari politici ed amministrativi, per abusi od omissioni da
questi commessi. Tutto in allegato. Tutto lettera morta. Ero l’unico ad
assistere i cittadini, che tutti gli altri avvocati si rifiutavano di assistere.
Le indagini erano affidate, spesso, alla polizia o ai carabinieri di Manduria o
di Avetrana, loro stessi denunciati, collaboratori dei magistrati ed amici degli
avvocati e degli amministratori pubblici, denunciati anch’essi. L’attività
investigativa della polizia giudiziaria incaricata è stata spesso contestata in
denunce. Va da sè che chi doveva indagare premetteva in informativa allegata:
“Giangrande Antonio….., il quale, per la verità, è un personaggio ben conosciuto
dalle forze dell’ordine del paese di residenza…per via della sua propensione
alla denuncia calunniosa”. Citazione indicata tra le altre in denuncia del De
Prezzo, contenuta nel fascicolo di causa del punto 3.
Stessa polizia giudiziaria che, non solo omette la tutela personale del
presidente nazionale di un’associazione antimafia, ma in sede amministrativa
induceva il Prefetto di Taranto a negare al sottoscritto il porto d’armi per
difesa personale. Prefetto che, per mantenere l’iscrizione all’elenco dei
sodalizi antiusura ed antiracket, ha provveduto a far svolgere alla Guardia di
Finanza indagini solo sull’attività della nostra associazione: attività
risultata trasparente e visibile sul web da tutto il mondo.
Si fa presente che i reati su cui si procede nei processi de quo attengono alla
pubblicazione telematica di vicende riferite sì a singoli soggetti, ma in realtà
la pubblicazione riferiva sulle inchieste attinenti il modus operandi
giudiziario e gli insabbiamenti delle 170 denunce presentate presso gli uffici
giudiziari di Taranto. Molte di queste contro consulenti giudiziari, avvocati,
funzionari di polizia giudiziaria alle dipendenze dei magistrati ed
amministratori pubblici, così come elenco allegato, per reati contro la Pubblica
amministrazione e l’amministrazione della Giustizia. In seguito alle denunce non
è scaturita alcuna denuncia per calunnia, salvo quella precedentemente indicata
e presentata dall’avv. Nadia Cavallo, per una denuncia mai presentata.
Pubblicazione effettuata nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica e
nell’adempimento di un dovere, in portali d’inchiesta ed informazione e da parte
del sottoscritto quale presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie,
riconosciuta dal Ministero dell’Interno, perché iscritta presso la Prefettura di
Taranto nell’elenco dei sodalizi antimafia. Il sottoscritto, noto e stimato in
tutta Italia, ha altresì una web tv di promozione del territorio, ha scritto un
saggio d’inchiesta e ha prodotto un film inchiesta.
Inoltre, si fa presente, che contro l’opera di insabbiamento delle denunce, o
per altri abusi od omissioni, e per fatti attinenti i reati che si procede nei
processi de quo, si sono presentate 83 denunce penali presso la procura di
Potenza contro i magistrati del distretto della Corte d’Appello di Lecce
(Taranto, Lecce e Brindisi). Così come elenco allegato. In seguito a ciò nessuna
denuncia per calunnia è stata presentata dai magistrati denunciati, salvo quella
precedentemente indicata e presentata dal Giudice Romano, per dare un senso alla
sua astensione e per evitare la ricusazione dalla Corte d’Appello. Certamente,
però, tutto ciò ha creato grave inimicizia con tutti i magistrati in generale,
sia per motivi di solidarietà per colleganza, sia per la cattiva immagine che si
è data in campo nazionale ed internazionale degli uffici indicati. Fenomeno di
grave inimicizia che ha coinvolto anche gli avvocati, che si sono, anche loro,
sentiti danneggiati, se non sottoposti addirittura a soggezione nelle cause che
mi riguardano rispetto ai Magistrati. Per questo è impossibile reperire avvocati
locali che vadano contro gli interessi corporativi o che difendano contro abusi
di avvocati e magistrati. Gli uffici che processano sono gli uffici giudiziari
la cui attività è criticata e che, minata la loro credibilità, dovrebbero
giudicare, poi, il sottoscritto.
Si fa presente che i magistrati di Taranto, oltre che essere accusati di
insabbiare (non iscrivere le denunce nel registro generale, ovvero di archiviare
senza fare indagini o tener conto delle prove o di avvisare della richiesta di
archiviazione, come richiesto, per presentare opposizione), si sono addirittura
archiviati una mia denuncia contro loro stessi, anziché inviare a Potenza. (PM
Salvatore Cosentino, proc. 2772/04). Il far passare il sottoscritto per mitomane
o pazzo non è il solo mezzo di ritorsione. Da 14 anni impediscono al
sottoscritto di abilitarsi all’avvocatura, in quanto i suoi elaborati al
concorso forense non sono letti, e il Tar di Lecce proibisce la presentazione
del ricorso contro i falsi giudizi. Per tutti questi fatti è stata coinvolta la
Corte Europea dei Diritti Umani. Avvocati e magistrati del distretto della Corte
d’Appello di Lecce (Taranto, Lecce e Brindisi) si sono coalizzati contro di me,
avendo, unicamente io, in modo isolato, da presidente provinciale di una
associazione di praticanti ed avvocati denunciato gli abusi e l’evasione fiscale
e contributiva a danno dei praticanti e avendo mosso critiche mediatiche al
sistema concorsuale di abilitazione forense, che tutti sanno essere truccato e
che ha permesso ai commissari d’esame di diventare avvocati. La contestazione si
è concretizzata in denunce penali contro i commissari d’esame, tra i quali tutti
i magistrati, (tra cui Rita Romano, Salvatore Cosentino, Adele Ferraro, ecc.,
citati nelle denunce allegate) e gli avvocati più noti del distretto. Un dato di
fatto è che l’avv. Antonio De Giorgi, già presidente del Consiglio dell’Ordine
degli avvocati di Lecce e presidente di Commissione d’esame di Lecce, da me
denunciato, è diventato ispettore ministeriale e nell’ultimo anno Presidente
della Commissione centrale ministeriale del concorso forense, pur essendoci
eccezioni d’incompatibilità ai sensi della riforma, che inibisce la presenza in
commissione d’esame dei consiglieri dell’Ordine. I magistrati di Taranto,
inoltre per inibire ogni reazione a chi non è conforme al sistema giudiziario,
mi hanno denunciato per diffamazione a mezzo stampa presso la procura di
Potenza, come atto in allegato, perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato
un articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore di Taranto,
Alessio Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione di una mia
denuncia. Richiesta poi accolta e denuncia archiviata. Le motivazioni rilevavano
che per il PM era normale che l’ufficio protocollo del comune di Manduria non
rilasciasse ricevuta, come era normale che a vincere il concorso a comandante
dei vigili urbani di Manduria, fosse un avvocato di Manduria che, con nomina dei
politici locali di turno, aveva indetto e regolato la procedura concorsuale come
responsabile pro tempore dell’ufficio del personale. Da tener conto che in
graduatoria il vincitore precedeva il sottoscritto. In più l’articolo della
Gazzetta del Sud Africa era attinente agli insabbiamenti a Taranto, riprendendo
l’inchiesta contenuta sui miei siti basata sulle interrogazioni parlamentari ed
articoli di giornali nazionali. Sempre per diffamazione i Magistrati di Taranto
mi hanno denunciato, assieme al collegio difensivo del Sebai ed altri presso la
Procura di Potenza, come atto in allegato, per aver criticato il fatto che
presso il Foro di Taranto si sia potuto svolgere il processo a carico di Ben
Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette). Il Sebai ha confessato 14
omicidi di donne anziane commessi tra il 1995 e 1997 in Puglia e Basilicata ed
ha dichiarato di voler scagionare i condannati ingiustamente per quei delitti.
E’ stato condannato con 4 ergastoli per altrettanti omicidi all’epoca non
confessati. A Lucera è stato ritenuto credibile e “pienamente attendibile” per
la confessione di un omicidio. 4 delitti sono stati commessi nel circondario di
Taranto. Per 3 di quei delitti a Taranto sono stati accusati, giudicati e
condannati altri 8 soggetti, che dagli atti di causa risulta essere stati
costretti con la violenza a confessare colpe non loro. Questi signori da anni
sono in galera, uno si è suicidato. Per il quarto delitto non si è trovato il
colpevole. Bene. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere
serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è
permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di
cui altri già erano stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare,
dagli stessi PM. La conclusione logica è che, nonostante la confessione del
Sebai per tutti e 4 i delitti fosse suffragata da gravi riscontri e i delitti
fossero commessi con lo stesso modus operandi, esso è stato ritenuto colpevole
solo per il delitto per il quale in precedenza non si era trovato colpevole. Per
i 3 delitti in cui vi erano già stati dei condannati, il Sebai non è stato
ritenuto credibile. Quindi sono stato denunciato, con i familiari dei detenuti e
con il collegio difensivo del Sebai, per aver sollevato il fatto che vi erano i
fondati motivi per presentare istanza di ricusazione per i PM, ed ove non
previsto dalla norma, un istanza di declaratoria di anticostituzionalità della
norma che non lo prevede, e comunque la presentazione di una istanza di
rimessione per legittimo sospetto che i magistrati, in palese conflitto
d’interesse, non avrebbero potuto adottare atti che conclamavano un loro errore
giudiziario foriero di responsabilità. Critica contro i magistrati e gli
avvocati ripresa in campo nazionale dai media e inserita in una interrogazione
parlamentare di Rita Bernardini.
Il Dr. Antonio Giangrande è presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte
le Mafie, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come sodalizio antimafia, con
il n. 6/2006 nell’elenco tenuto dalla Prefettura di Taranto. Associazione
nazionale con un seguito di centinaia di migliaia di cittadini, le cui
segnalazioni danno vita alle inchieste contenute sui siti web d’informazione e
sulla web tv nazionale di cultura, informazione e promozione della legalità e
del territorio. Da ciò il dr. Antonio Giangrande ha prodotto un film
documentario ed un libro. Il titolo delle opere è “L’Italia del trucco, l’Italia
che siamo”. Opere da leggere e vedere gratuitamente sui siti. In virtù di tale
attività, scomoda per il malaffare, è perseguitato, censurato e indotto
all’indigenza.
A supporto ci sono state 5 interrogazioni parlamentari:
1….del Deputato Augusto Di Stanislao, IDV, XVI legislatura, in riferimento
all’esame forense truccato, che impedisce l’abilitazione all’avvocatura da 14
anni del dr. Antonio Giangrande;
2….del Deputato Giampaolo Fogliardi, PD, XVI legislatura, in riferimento
all’esame forense truccato, che impedisce l’abilitazione all’avvocatura da 14
anni del dr. Antonio Giangrande e per l’impedimento all’accesso al 5x1000 a
danno dell’Associazione Contro Tutte le Mafie;
1….del Senatore Giovanni Russo Spena, RC, XV legislatura, in riferimento alla
censura Rai per servizi effettuati in virtù di programmi per l’accesso e mai
mandati in onda e per la censura sulle notizie stampa e i servizi su e
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie;
1….del Senatore Euprepio Curto, AN, XIV legislatura, sullo stato della giustizia
a Taranto e sugli atti ritorsivi a danno del Dr. Antonio Giangrande.
Inoltre il Dr. Antonio Giangrande, in campo politico, si batte per l’istituzione
normativa del “Difensore Civico Giudiziario” a tutela del cittadino contro
insabbiamenti e ritorsioni, con poteri d’indagine propria dei magistrati.
Tenuto conto che da sempre si è proceduto ad insabbiare le denunce presentate
contro i magistrati, senza mai conseguire calunnia, non si vorrebbe che ciò
potesse avvenire anche per il procedimento attivato dalla DIA di Catanzaro
relativamente al procedimento 3016/2010 R.G. mod. 45, su istanza del
sottoscritto contro i magistrati di Potenza e Lecce e sul quale sono stato
sentito, come atto in allegato, e per il quale ho prodotto prova di mancata
correzione dei miei compiti nel concorso forense in vari anni; per il quale ho
prodotto l’impedimento al ricorso in autotutela da parte del TAR; per il quale
ho prodotto atti di archiviazione senza indagini dei procedimenti da parte di
magistrati della Procura di Lecce (3614/10) e Potenza (2945/10). Procedimento
attivato dalla DIA di Catanzaro non in base alla denuncia presentata alla
Procura di Catanzaro il 17 e il 26 luglio 2010, ma da identica denuncia
presentata a Venezia e girata a Catanzaro e della quale non si conosce l’esito,
nonostante vi era richiesta di essere avvisato per eventuale archiviazione o
proroga indagini. Da anni si denunciano le anomalie delle commissioni di esame
forense, specie del distretto di Lecce. La stessa giudice Rita Romano, innanzi
spesso nominata, è stata commissario di esame a Lecce, con tutti i suoi colleghi
magistrati tarantini, come lo sono moltissimi avvocati di Taranto e come lo è
stato Antonio De Giorgi. Questi è stato, addirittura, presidente di Commissione,
in qualità di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. De
Giorgi, denunciato dal sottoscritto ed estromesso dalla riforma come
commissario, in seguito ha fatto parte delle commissioni come Ispettore
ministeriale nazionale e nel 2010, addirittura, come presidente nazionale di
commissione di esame.
Si cerca in tutti i modi di far passare il sottoscritto come mitomane o pazzo,
non riuscendoci in virtù della fondatezza delle ragioni da me sollevate e grazie
alla competenza giuridica che mi dà modo di affrontare le avversità ambientali.
Tale ulteriore legittimo sospetto si concretizza nel fatto che il sottoscritto
Giangrande Antonio è stato accusato di esercizio abusivo della professione
forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace per l’onorario ricevuto.
Nel procedimento civile connesso, il giudice del Tribunale di Taranto, Sergio
Cassano, mi sbatté fuori fisicamente a spintoni dall’udienza, in cui io ero
inerte e in silenzio, mettendomi le mani addosso. Nel procedimento penale al
sottoscritto gli viene impedito di nominare un difensore, in quanto gli si
impedisce l’accesso al gratuito patrocinio, perché gli viene comunicato il
limite di reddito di lire 11.260.000, anziché lire 18 milioni. Inoltre per 3
rituali richieste di accesso al gratuito patrocinio non viene dato riscontro,
nemmeno per il diniego. Il sostituto procuratore di Taranto Vincenzo Petrocelli
è lo stesso P.M. dei casi di cui io mi sono occupato dando rilievo mediatico:
Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente; Carmela Cirella, morta
suicida a 13 anni perché non creduta essere stata vittima di stupro; i presunti
innocenti in carcere per delitti di cui Sebai, il killer di 14 vecchiette, si è
autoaccusato con riscontri, ma rimasti colpevoli perché lo stesso foro ha
ritenuto attendibile la confessione solo per quei delitti senza condannati. Il
PM Vincenzo Petrocelli, ricevendo la prima richiesta di ammissione al gratuito
patrocinio, invia al GIP parere negativo, che diniega, ma non comunica. Vincenzo
Petrocelli, ricevendo la seconda richiesta, inviata al GIP tramite carabinieri,
la ignora. Il giudice del Tribunale di Manduria, Fulvia Misserini, nell’udienza
del 4 novembre 2003, rigetta la terza richiesta di ammissione al gratuito
patrocinio, imponendo la nomina preventiva dell’avvocato iscritto in elenco,
quantunque non fosse quello di fiducia. La Misserini seduta stante ha nominato
Gianluigi De Donno, lo stesso che ha rinunciato al mandato a causa della
ricusazione contro la Rita Romano. La Misserini ha condizionato l’ammissione al
gratuito patrocinio, nominando lei l’avvocato, in violazione della legge, che
stabilisce la scelta dell’avvocato da parte dell’imputato in base all’ammissione
già avvenuta. Nelle more mi è stata impedita la difesa e al fine mi è stato
imposto un difensore d’ufficio. Il giudice Rita Romano, suo successore,
nonostante le illegalità e gli abusi commessi dai colleghi, rigetta l’istanza di
annullamento e del rinvio al GIP degli atti processuali. Insomma, dopo anni è
stata impedita la difesa, per una condanna scontata. In quello stesso processo
penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso nuovo PM
togato, sostituto di Petrocelli, riteneva il reato di esercizio abusivo della
professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al
patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Rita Romano condannava il
Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata
assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà
dell’onorario richiesto per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata
assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di
difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso
al gratuito patrocinio. Decisione assunta, nonostante la persona offesa non si
fosse costituita parte civile, né mai essa abbia richiesto la ripetizione di
quanto pagato. La condanna in primo grado non è stata convalidata in appello,
anche perché non si poteva fare altrimenti. Ne sono uscito pulito, ma la notizia
non si è data. Da notare che il giorno della sentenza di condanna presso il
Tribunale di Manduria era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il
giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici
giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali a grandi rilievi
portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio
era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Notizia che ha
provocato grave nocumento d’immagine e cessazione di collaborazione con i media
locali.
L’istante per fini di giustizia, in via incidentale, ritenuto che nella
narrazione dei fatti si possano configurare una o più azioni di reità, fa
presente che tale atto può essere considerato a tutti gli effetti anche
denuncia/querela da presentare d’ufficio al Procuratore Generale della Corte di
Cassazione, con potere ed obbligo di azione penale e di azione disciplinare
presso il CSM. Denuncia e denuncia-querela penale ed esposto amministrativo
contro i soggetti identificati, da soli, o in correità con persone non
conosciute, per gli atti e i fatti e per i reati applicabili, scaturenti da una
doverosa indagine, con istanza di punizione, con riserva di costituzione di
parte civile nell’instaurando procedimento penale. Inoltre si chiede, come
persona offesa dal reato, che gli venga comunicato ogni atto di cui ha diritto
di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt. 406 comma 3
c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma 2 c.p.p.
(richiesta di archiviazione). Si oppone formale opposizione, ex art.459 c.p.p.,
alla richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.
Tenuto conto di quanto esplicitato il sottoscritto
CHIEDE
pertanto ai sensi dell’art. 45 c.p.p. ss. che i processi in epigrafe vengano
rimessi ad altro giudice ai sensi dell’art. 11 c.p.p., per palese legittimo
sospetto.
Legittimo sospetto che le sentenze a carico del sottoscritto emesse nel foro di
Taranto possano essere influenzate, o addirittura viziate da forte inimicizia,
da grave pregiudizio, da pesante ritorsione, o da grande pressione psicologica
dei magistrati colleghi dei giudicanti. Come vi è legittimo sospetto che le
sentenze emesse in questo stato di “fumus persecutionis” possano essere usate
artatamente per screditare il sottoscritto agli occhi dell’opinione pubblica,
tanto da far dissuadere i media dall’approcciarsi a noi ed allontanare la loro
attenzione nei confronti della nostra attività associativa, che si palesa in
tutto il mondo per quella che è: improntata sulla difesa della legalità.
Legittimo sospetto che nel luogo in cui devono svolgersi gli attuali processi,
più che altro per reati d’opinione, vi sono gravi situazioni locali, altrimenti
non eliminabili, tali da turbarne il libero svolgimento, dovute a pesante
pregiudizio e grave inimicizia per fatto personale o per solidarietà di
colleganza. Gravi situazioni locali fondati su commistione ed intrecci di
interessi ed amicizie. Tali gravi situazioni locali, ineliminabili se non
attraverso il trasferimento del processo ad altra sede, in particolare,
determinano motivi di legittimo sospetto sulla imparzialità del giudice. Ciò
ampiamente dimostrato dall’esame della documentazione che si allega al presente
atto in relazione ai motivi di legittimo sospetto. Integrati in modo esaustivo e
fondamentale dagli atti contenuti nei fascicoli di ciascuna causa, di cui si
chiede l’integrale acquisizione.
Legittimo sospetto che vi è fondato motivo di ritenere che l'Ufficio Giudiziario
di Taranto, per quanto riguarda le posizioni processuali del sottoscritto,
connesse o accessorie ad altre, non sia in grado di determinarsi autonomamente
sia nei componenti che esercitano funzioni inquirenti, sia in quelli che
esercitano la funzione giurisdizionale e/o che sussistano comunque fondati
motivi di legittimo sospetto che ci sia un effettivo condizionamento ambientale
subito dagli organi requirenti e giudicanti, in particolare nella persona del
giudice Frida Mazzuti, Vilma Gilli, altro giudice designando, titolari
dei presenti processi, sostituti del giudice Rita Romano, la cui ricusazione ha
avuto come conseguenza quello di farla determinare ad abbandonare il processo
attraverso l’astensione, ritenuta fondata dal Presidente del Tribunale. A tale
stregua risulta di palmare evidenza che la grave situazione giudiziaria
esistente a Taranto, per tutti i motivi anzidetti ed i precedenti illustrati,
abbia condizionato ed ancora condizioni la libera determinazione e la serenità
dei Giudici di Taranto. Per il sottoscritto istante c'è la sussistenza di più
che ragionevoli motivi di legittimo sospetto, da intendersi come il ragionevole
dubbio che la gravità della situazione locale possa portare il Giudice a non
essere, comunque, imparziale o sereno, dovendosi intendere per imparzialità la
neutralità, l'indifferenza del Giudice rispetto al risultato e rispetto
all'esito del processo e quindi, in un'accezione più ampia ed elastica, rispetto
al pregiudizio della libertà di determinazione.
Si chiede la rimessione dei processi. Lo si chiede alla S.V. affinchè dall’alto
del suo prestigio intraprenda un percorso di giustizia fin qui, come illustrato,
inibito da omertà, complicità ed insabbiamenti. Atteggiamento non consono ai
doveri e al prestigio della Magistratura e dell’Avvocatura, che, se legittimato,
getta ombre sull’amministrazione della giustizia in Italia.
Si chiede la rimessione, altresì, per stabilire un principio: i magistrati
requirenti e giudicanti non possono decidere su cause in cui, in modo indiretto,
trattasi di rilievi critici sull’operato in generale dei loro uffici. Critiche
tutelate dall’art. 21 della Costituzione e mirate allo sviluppo sociale del
territorio.
Per quanto spiegato si chiede, altresì, alla S.V., che, nelle more della
decisione della Suprema Corte gli stessi processi vengano sospesi in attesa di
esito positivo di codesta istanza.
Per ogni processo, indicato ciascuno nei punti, 1, 2 , 3, si presenta distinta
istanza al rispettivo giudice che procede, notificata alle parti, quantunque non
costituite come parte civile.
Si comunica che vi è ammissione al gratuito patrocinio a spese dello Stato come
decreto allegato.
Manduria lì 28 marzo 2011
Con osservanza
F.to Antonio Giangrande
Presidente Dr Antonio Giangrande – ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE
099.9708396 – 328.9163996
Si allega:
1 libro intitolato “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”;
5 pag. elenco denunce di competenza della Procura di Taranto;
3 pag. elenco denunce di competenza della Procura di Potenza;
7 pag. denuncia presentata contro il giudice ricusato, Rita Romano e attestati
di ricevuta;
4 pag. denuncia presentata contro i magistrati per abuso di sequestro del sito
web;
3 pag. di proroga delle indagini della procura di Potenza per la critica al
processo Sebai;
1 pag. di rinvio a giudizio per critica ad una archiviazione fatta da un
giornale del Sudafrica;
1 pag. di audizione DIA Catanzaro;
1 pag. di decreto di ammissione al gratuito patrocinio
*****
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
1. Azione: ritorsione per aver rilevato l’evasione fiscale e contributiva
dell’avvocatura in Italia.
In Italia, per chi termina gli studi universitari e intenda intraprendere una
professione (in particolare quella forense) è difficile trovare uno Studio, che
lo accolga per l’effettuazione del praticantato dei due anni. Praticantato che
serve per poter poi partecipare all’esame di abilitazione. E’ quasi impossibile,
se non si ha un parente od un amico, che ti accolga. Tutto ciò per garantire
l’omertà sugli abusi del sistema. Quel sistema ( per esempio forense) che
permette la falsa annotazione sul libretto delle presenze obbligatorie alle
udienze. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua
e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula
non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro
tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche,
che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano
remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi.
Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero
“Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi
vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la
veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante
il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico
venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento,
contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori
in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato.
2. Azione: ritorsione per aver rilevato l’irregolarità degli esami di
avvocato in Italia.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune
anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati,
me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto
scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo
facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano
valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000.
Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce.
Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce
il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli
avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà
socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv.
Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e
qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che
per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è
confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997
afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della
professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo
Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di
rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La
percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001,
36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame,
perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello,
si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei;
Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello
nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli
abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con
ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni
d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai
verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta
che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce,
eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR,
con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la
sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di
glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede
di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che
obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le
attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato,
garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo
sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del
1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame
di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e
sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella
situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la
Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza.
Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari
archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza
non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano.
L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di
legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per
diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati
non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla
limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in
Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame.
A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la
Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri
candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono.
Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003.
Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce.
Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie
aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di
Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il
Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica
degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense
che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati
dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data
03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i
rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle
associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i
Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere
rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro
incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in
Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la
decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche,
di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di
Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito
fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il
compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in
sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli
atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale
marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella
Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei
Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però,
acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per
abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad
essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma
è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in
carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura,
il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla
prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai
candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione
edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i
Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo
che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione
riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza
dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in
cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01,
Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono
entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente
dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie.
Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava
per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con
il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla
Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15
(il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati
che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la
trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente
dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando,
l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il
fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con
la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per
vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla
valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza
n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della
motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR.
Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di
sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle
spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004.
Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di
Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati
continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati
dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei
Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati
leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto
ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza
estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale,
ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e
onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se
non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del
Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia
formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori
Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica
presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del
Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione
Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in
data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati
contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera
morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe
del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli
stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta
avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni.
Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni
attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo
che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della
concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di
Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e
presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e
Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti
da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso
colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe
del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli
elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai
palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state
omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi.
Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006,
conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato.
I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo
sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni
ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti
copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e
a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe
del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a
sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione
non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca
collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione
delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45,
11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame.
Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari,
in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione
di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte
contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con
omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di
bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno
15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il
minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese,
in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai
brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso
collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità
del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro
complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti
professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero
della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al
quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al
fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello
reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione;
giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta
esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia,
presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari,
Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente,
iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente
indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce
disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in
altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare,
comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le
illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del
Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte:
le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura
in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e
sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal
sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il
Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato
denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia,
chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari,
per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato:
insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del
Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri
legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai
genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su
internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il
tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6
pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi
fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del
giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da
commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi
nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da
commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione
con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale
forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e
quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno
informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro
dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio
Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le
denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno,
per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame
forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo
scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho
provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia
meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice
di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria.
Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore
universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica,
risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di
apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione
del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi,
senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la
comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la
nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti
giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe
del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato
risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza
di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane,
viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo
per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di
ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”:
la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2
magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza
preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la
decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del
Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della
metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’
la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko.
Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e
comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato
impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza,
Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta.
Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il
provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina
ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni
precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di
Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di
presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta
una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire
l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene
nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva
considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane
d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25
anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente
con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore
salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei
tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la
laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento
dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio
degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria:
non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni
previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto
antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma
nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede
di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi
suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di
Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione
Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko
Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo
giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in
alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di
Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante
l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio
non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra
versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a
cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti.
Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai
lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di
studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul
caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per
sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita
di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro
chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che,
venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista
professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed
oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense
impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa
per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto
proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui
il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato).
Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense
tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel
che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari
noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato
perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del
Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per
fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv.
Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense,
in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del
distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di
riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del
Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla
disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in
legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio
2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la
commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i
componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle
sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati
componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal
Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di
ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione
annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non
possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”.
Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente
criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri
dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti
Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di
sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio
De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come
presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di
commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri
dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato
dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e,
quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque
ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso
sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o
sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia
non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei
Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale
Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia
l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un
sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla
porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire
dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila
domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il
quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da
Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben
13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De
Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi,
addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare
Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche
delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti
istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a
correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male,
spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui
si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il
TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della
Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee
ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e
il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura
cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo,
(procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza
cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio
di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON
VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI.
Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della
pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione
dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si
rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di
rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre
qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi
pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui
dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima.
Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo,
Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito
web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno
2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine
744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti
1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304;
non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata
denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie
di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di
Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del
Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non
corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il
ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi
compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso
Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta
valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro
i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il
conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a
benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un
giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto
conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso,
indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si
ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un
concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio
nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su
regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte
Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il
giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon
andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non
lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar
può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto
sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata
il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una
professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere
complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che,
come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare
informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe
raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si
perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il
fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video,
in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per
questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei
suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15
anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una
volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia
solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono
vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i
codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già
svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti
grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così
raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso
dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il
compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici
commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata
anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che
denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci
quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si
appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che
giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per
qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause
delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad
intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di
commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei
200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o
giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma
continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto
sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare
avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato,
autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio
Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue
deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia
pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di
pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non
travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come
già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono
accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la
mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli
altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità
patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra
Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale
verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle
mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le
menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel
compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca
ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la
legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si
devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in
buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra
i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino,
che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci
sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo
prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e
liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi
merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della
paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed
abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare
il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad
aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare
politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco
coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già
sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale.
Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in
tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci
rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di
adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far
sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere
una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima.
Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di
Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per
fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha
evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate
o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché
scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per
loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro
esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo
di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova
Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I
candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin
dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi
il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno
nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani
come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania.
Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un
bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il
25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della
sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda
di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto
da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben
altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti:
compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione
nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare
istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre
2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri
ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito
positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo,
in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non
dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che
magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata
da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e
corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al
mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita.
A Lecce sarebbero
solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione
di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione
degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni
denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua
calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per
magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli
esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel
2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci
fosse il mio nome.
A
parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare
l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per
mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio
anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità
storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e
giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il
partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni
non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo
punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro
con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le
malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno
sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247,
tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal
Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento
(compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro,
una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato
vita al primo
Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della
professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934
n.36) questa contro riforma reazionaria
gli
fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente,
che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i
giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e
magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a
denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e
attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con
assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia
amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi
te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere
qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito
negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE
D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI
(COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI)
DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15
ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce
il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle
prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente
innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di
trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti,
salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto
da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del
ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati
identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza
motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per
l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il
09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta
del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza,
nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed
immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere
accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo
Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato
striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si
depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della
stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima
delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto
anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero
letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema),
valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del
ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile
giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in
loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7
novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non
indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene
conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè
è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di
inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del
presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione
della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per
dire: chi la fa, l'aspetti?
RICORSO AL TAR. UNA SENTENZA GIA’ SCRITTA.
ISTANZA DI PRELIEVO
(art. 71, D.Lgs. 104/2010)
ILL.MO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA PUGLIA
SEDE DI LECCE
Sezione Prima
Nella causa R.G. n. 1240/2011
promossa da
Antonio Giangrande,
ricorrente con l’avv. Mirko Giangrande,
nato a Manduria (TA) il 26/01/1985 e residente in Avetrana (TA) alla via Manzoni
51 c.f GNGMRK85A26E882V, nel ricorso proposto
contro
Ministro della Giustizia,
Commissione Esami avvocato presso il Ministero della Giustizia,
Commissione Esami avvocato presso la Corte d’Appello di Lecce,
Commissione Esami avvocato presso la Corte d’Appello di Palermo,
resistenti con l’Avvocatura della Stato.
Premesso:
- che il ricorso, depositato il 25.07.2011 è stato iscritto al n. di r.g
1240/2011 ed ha ad oggetto l’annullamento
della valutazione negativa data alle prove scritte
degli esami per avvocato 2010 e dell’efficacia e degli effetti degli atti
propedeutici impugnati;
- che, il ricorrente ha estrema urgenza che il ricorso sia deciso in quanto
anche per le prove della sessione d’esame 2011 l’esito è stato segnato da
identiche discrasie, così per tutti gli anni precedenti, e una nuova sessione si
avvicina. L’urgenza si basa sullo stato di disoccupazione e conseguente
indigenza in attesa di un’abilitazione, che ai fatti risulta impedita da giudizi
che non rispecchiano il merito delle prove presentate;
- che è trascorso un anno dal deposito del ricorso e della istanza di
fissazione.
Il sottoscritto avv. Mirko Giangrande, del Foro di Taranto, nella sua qualità di
procuratore del ricorrente così come identificato nella procura alle liti in
calce al ricorso promosso per l’annullamento della valutazione negativa data
alle prove scritte degli esami per avvocato 2010 e dell’efficacia e degli
effetti degli atti propedeutici impugnati, fa istanza di prelievo allo
scopo di annullare il giudizio reso dalla Commissione di Esame di Palermo in
sede di correzione degli elaborati dello stesso ricorrente. Da quanto
analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge,
eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa
adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una
capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed
ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in
tutti e tre i compiti resi. Quanto affermato lo dimostra
la mancanza di correzioni, note, glosse, ecc..apposte sugli elaborati. Qui si
evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio
negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni
grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o
comunque si contesta la fondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e
giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò
denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se
la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere
un giudizio composito.
Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso
che ha inficiato per 15 anni la vana partecipazione del ricorrente al medesimo
concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi
illegittimi. La richiesta di annullamento del giudizio contenuta nel ricorso è
sostenuta da contestazione attinenti molteplici punti, avallati da pronunce
giurisprudenziali indicati in atti.
Tanto premesso l’istante, fa
ISTANZA DI PRELIEVO
del fascicolo suddetto, affinché possa essere fissata il prima possibile
l’udienza per il merito.
Tale richiesta è motivata dal fatto che oggetto della presente causa è di
acclarare le doglianze di legittimità e di merito su indicate che viziano ed
invalidano gli atti adottati dalla Iª
Sottocommissione di esame di Palermo. Se da una parte, alcune contestazioni di
legittimità riguardante la succinta motivazione numerica e la composizione della
sottocommissione e l’incompatibilità del presidente della commissione centrale
sono state superate con motivata ordinanza che respingeva l’istanza di
sospensiva, (il solo voto numerico come legittima tecnica di valutazione, forte
della recente sentenza della Corte cost. 8 giugno 2011 n. 175), dall’altra parte
proprio in virtù dei tanti dubbi sollevati e confermati dall’antitetico giudizio
reso, che contrasta con la forma e la sostanza dell’elaborato, si è chiesto il
sindacato del TAR di Lecce.
Considerato:
- che le prove d’esame del ricorrente evidenziano un contesto caratterizzato
dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del
lessico giuridico; anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico;
-che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove
d’esame evidenzia un corretto approccio a problematiche complesse;
-che, quindi, la motivazione apposta alla valutazione negativa (peraltro
caratterizzata dal carattere chiaramente stereotipato e ripetitivo e frutto di
attenzione temporale limitata e non approfondita dovuta all’insufficiente tempo
prestato) e la complessiva valutazione degli elaborati d’esame da parte della
Commissione appaiono essere caratterizzate da evidente irrazionalità e
illogicità, rilevabili anche in sede giurisdizionale. Il sindacato
giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni
tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici è
legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è
affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai
presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato
sottoposto a valutazione. Ad affermare l’importante principio di
diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata
il 28 maggio 2012. La Cassazione ammette che ci possano essere commissioni che
sbagliano. Il sindacato nel merito è già adottato dal presente TAR Lecce con
pronunce su ricorsi analoghi, anche della medesima sessione d’esame, con analisi
del merito degli elaborati in presenza di chiare discrasie tra contenuto
dell’elaborato e giudizio reso. Interventi nel merito adottati persino in fase
cautelare e non in fase di giudizio. Come ad esempio:
sul ricorso numero di registro generale 1601 del 2010, proposto da: Mariangela
Gigante, rappresentata e difesa dall'avv. Antonio Ciaurro;
sul ricorso numero di registro generale 1312 del 2011, proposto da: Marco
Castelluzzo, rappresentato e difeso dall'avv. Gianluigi Pellegrino;
sul ricorso numero di registro generale 1489 del 2011, proposto da: Francesca
Cotrino, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio P. Nichil
Con ossequio.
Lecce, 09.07.2012
Avv. Mirko Giangrande
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA PUGLIA
SEZIONE DISTACCATA DI LECCE
RICORSO PER L’ANNULLAMENTO
della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato 2010
E CONTESTUALE ISTANZA DI SOSPENSIONE
dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati
del dr. Antonio Giangrande,
RICORRENTE
INDICE DEL FASCICOLO
A.
Ricorso con contestuale istanza di sospensione.
Allegati:
1. Verbale di correzione della Iª sottocommissione di
esame di Palermo per la sessione 2010;
2. Elaborati consegnati dal sottoscritto in tema: a)
penale; b) civile; c) atto giudiziario;
3. La graduatoria per la
lettera G con data di affissione pubblicata dalla Corte d'Appello di Lecce;
4. Verbali e compiti delle sessioni di avvocato: a)
2009, b) 2008, c) 2007.
B.
Istanza di fissazione dell’Udienza.
Ai sensi dell’art. 136 del codice amministrativo (D.lgs. 104/2010) si attesta
che la copia informatica in formato DVD qui in allegato è conforme al fascicolo
cartaceo depositato.
Avv. Mirko Giangrande
Da notificarsi con urgenza
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA PUGLIA
SEZIONE DISTACCATA DI LECCE
RICORSO PER L’ANNULLAMENTO
della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato
E CONTESTUALE ISTANZA DI SOSPENSIONE
dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati
L. 6 dicembre 1971 n. 1034
del dr. Antonio Giangrande,
RICORRENTE,
nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via A. Manzoni, 51, C.
F. GNGNTN63H02A514Q, rappresentato e difeso dall'Avv. Mirko Giangrande, presso
lo Studio Legale del medesimo difensore in Avetrana, via A. Manzoni, 51, C. F.
GNGMRK85A26E882V, tel/fax 099/9708396 elettivamente domiciliati, come da
mandato speciale in calce del presente atto,
contro
Ministero della Giustizia,
RESISTENTE,
in persona del Ministro pro tempore On. avv. Angelino Alfano;
Commissione centrale Esami di Avvocato c/o Ministero della Giustizia,
RESISTENTE,
in persona del presidente pro tempore avv. Antonio De Giorgi;
Iª Sottocommissione Esami Avvocato c/o Corte di Appello di Palermo,
RESISTENTE,
in persona del presidente pro tempore avv. Giuseppe Cavasino;
Iª Sottocommissione Esami Avvocato c/o Corte di Appello di Palermo,
RESISTENTE,
in persona del presidente supplente pro tempore avv. Mario Grillo;
Iª Sottocommissione Esame di Avvocato c/o Corte di Appello di Lecce,
RESISTENTE,
in persona del presidente pro tempore avv. Maurizio Villani;
tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato in Lecce e
domiciliati per legge presso gli uffici della stessa Avvocatura in Lecce, via F.
Rubichi 23,
per l'annullamento della valutazione negativa data alle prove scritte dell’esame
di avvocato,
previa sospensione urgente e necessaria dell'efficacia e degli effetti degli
atti propedeutici
impugnati per periculum in mora e per fumus boni iuris,
del verbale n. 20 redatto nella seduta del 19.04.2011 dalla Iª Sottocommissione
esame di avvocato presso la Corte di Appello di Palermo, nella parte in cui
attribuisce alle tre prove scritte riferite alla busta n. 198 del ricorrente un
punteggio insufficiente, rispettivamente 25 per il penale, 25 per il civile e 25
per l’atto giudiziario, pari complessivamente a 75 punti;
del provvedimento recante la valutazione 25 data al parere legale, reso al
quesito della traccia n. 2 del compito scritto di diritto civile del 14 dicembre
2010, indicato con il n.198/1;
del provvedimento recante la valutazione 25 data al parere legale, reso al
quesito della traccia n. 1 del compito scritto di diritto penale del 15 dicembre
2010, indicato con il n. 198/2;
del provvedimento recante la valutazione 25 data al parere legale, reso al
quesito della traccia n. 1 del compito scritto di atto giudiziario redatto in
materia di diritto privato del 16 dicembre 2010, indicato con il n. 198/3;
Provvedimenti con i quali la Iª sottocommissione esaminatrice per gli esami di
avvocato presso la Corte di Appello di Palermo – sessione 2010 – non ha ammesso
il ricorrente alle successive prove orali;
del consequenziale elenco degli ammessi alle prove orali, sessione 2010, degli
esami di abilitazione alla professione di avvocato, relativamente alla Corte di
Appello di Lecce, pubblicato il 28 giugno 2011, nella parte in cui esclude il
ricorrente, in base all’ordine alfabetico, contenuto in pagina 3 e 4 rispetto
alla lettera G;
di ogni altro atto o provvedimento preordinato, collegato o consequenziale ed in
particolare, dei criteri fissati dalla predetta Sottocommissione con verbale n.
20 del 19.04.2011 per la valutazione degli elaborati.
Con conseguente disposizione,
con ordinanza cautelare di ammissione diretta del ricorrente all’esame orale per
la ravvisata esistenza di un pericolo di danni gravi ed irreparabili per il
ricorrente derivanti dall'esecuzione dell'atto impugnato, sulla base della
rilevazione di gravi vizi di legittimità della costituzione e composizione della
Iª sottocommissione di Palermo e della correzione, tenuto conto della rilevanza
e palesità dei vizi e dall’obiettiva natura degli elaborati d’esame, che
permette di concludere favorevolmente un giudizio prognostico in ordine alla
sufficienza complessiva della prova scritta;
nel merito con rito ordinario, dichiarare i gravi vizi di legittimità
riscontrati attinenti la costituzione, la composizione e l’attività sindacale
della Iª sottocommissione di Palermo, annullando i provvedimenti adottati e
procedendo per la nuova correzione degli elaborati del ricorrente, che dovrà
eseguirsi d’ufficio, ovvero rivolgersi ad altra sottocommissione d’esame di
Palermo, al cui interno non vi facciano parte i Commissari che hanno partecipato
al giudizio della prova impugnata.
*******
FATTO
Il ricorrente partecipava alla sessione 2010 degli esami di abilitazione
all’esercizio della professione di Avvocato, presso la Corte di Appello di
Lecce, effettuando le relative prove scritte.
1. Nella sessione 2010 del concorso di avvocato, a cui
l’istante ha partecipato come candidato, poi escluso, la Iª sottocommissione di
esame presso la Corte di Appello di Palermo, competente a correggere i compiti
itineranti svolti presso le sottocommissioni di esame della Corte di Appello di
Lecce, con atteggiamento proprio delle sottocommissioni del nord Italia, ha
promosso un candidato su tre, differenziandosi quanto fatto l’anno prima, sempre
sui compiti di Lecce, dalle benevoli sottocommissioni di Salerno, che hanno
promosso un candidato su due. Per esempio, sottocommissioni di esame benevole
sono state, altresì, nella sessione del 2010 quelle presso la Corte di Appello
di Napoli, che hanno corretto i compiti svolti presso le sottocommissioni di
esame della Corte di Appello di Bari, promuovendo un candidato su due. Sempre a
Bari l’anno prima le sottocommissioni di esame della Corte di Appello di Torino,
invece, meno benevoli, promossero un candidato su tre. Questo sistema, poggiato
su principi non previsti dalle norme concorsuali, ingiustificati, altalenanti,
parziali e discriminatori, è notorio ed è comune in tutta Italia e per tutti gli
anni. In questo modo i candidati, in base alle percentuali di ammissione
adottate negli anni precedenti dalle sottocommissioni sorteggiate, conoscono
percentualmente il loro destino in anticipo, ben prima di sapere i voti resi ai
loro pareri scritti.
2. In data 28.6.2011, per pubblicazione effettuata da
parte della Corte di Appello di Lecce, l’istante aveva conoscenza della mancata
ammissione alle prove orali, per effetto dell’attribuzione agli elaborati
d’esame, da parte della Iª Sottocommissione presso la Corte di Appello di
Palermo, del giudizio complessivo di 75 (25 per la prova di diritto civile, 25
per la prova di diritto penale e 25 per l’atto giudiziario in diritto civile);
3. a seguito dell’esercizio del diritto di accesso,
constatava che la valutazione degli elaborati d’esame fosse stata effettuata in
termini puramente numerici e in tempi insufficienti; che il giudizio negativo
non era confutato da corrispettivi raffronti di errori indicati negli elaborati
con glosse, correzioni, sottolineature con note o spiegazioni a margine, ecc. I
compiti immacolati, perfetti dal punto di vista ortografico, con maggior
aggravio di tempo, sono stati redatti addirittura in stampatello e non in
corsivo per agevolarne la comprensione. Come perfetti sono dal punto di vista
sintattico e grammaticale, stante l’assenza di correzioni, glosse, note a
margine. Come altresì perfetti sono dal punto di vista tecnico conformandosi il
parere reso all’orientamento totalitario.
4. Nel visionare i giudizi degli elaborati si
notava la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a
ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove, così come la
commissione si richiama nell’atto di verbale.
5. Dalla visione degli elaborati e del verbale di
correzione redatto dalla Iª sottocommissione di Palermo in data 19 aprile 2011
si rileva che in sottocommissione non vi era il Presidente di commissione
centrale; non vi era il Presidente titolare della Iª sottocommissione di
Palermo; non vi era il voto di ciascun commissario sulle prove, né vi era il
voto riferito a ciascun criterio di correzione. Criteri fissati dalla
Commissione Centrale e fatti propri dalla Iª sottocommissione esaminatrice.
Nella sottocommissione, altresì, mancava la componente professionale adatta a
correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,
persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie
letterarie, filosofiche e comunicative. Invece la Iª Sottocommissione di Palermo
è composta solo da pratici del diritto e da un’unica figura di professore
universitario, Laura Lorello, che ha, però, la qualifica di docente di diritto
Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo.
6. I voti resi agli elaborati nella sessione 2010 sono
identici ai voti resi nelle rispettive sessioni 2009, 2008, 2007, e con le
stesse modalità di correzione (compiti immacolati), come se fosse un modus
operandi.
7. A presiedere la Commissione centrale d’esame è
l’Avvocato Antonio De Giorgi, componente del Consiglio Nazionale Forense
indicato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Egli ha già
presieduto le sottocommissioni di esame di avvocato presso la Corte di Appello
di Lecce come presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce nel
periodo ante riforma del 2003. Riforma che di fatto ha criticato l’operato di
tutte le sottocommissioni d’Italia, estromettendone, per mala gestio degli
esami, proprio tutti i consiglieri dell’ordine degli avvocati.
I provvedimenti meglio specificati in epigrafe sono impugnati dal ricorrente
per: violazione art. 3 L. 241 del 1990, difetto assoluto di motivazione;
violazione delle norme in materia di valutazione degli elaborati nelle prove
concorsuali; violazione dei criteri generali stabiliti dall'articolo
1-bis, comma 9, della legge 18 luglio del 2003 e fissati nella seduta del
09.12.2010 dalla Commissione centrale presso il Ministero della Giustizia,
di recepimento della circolare ministeriale del 8 novembre 2010; eccesso
di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità,
contraddittorietà, parzialità dei giudizi.
Tutto ciò lede il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento
della Pubblica Amministrazione.
Il ricorrente da 13 anni subisce le conseguenze negative di questo sistema
illegittimo di correzione degli elaborati. All’uopo si portano in visione gli
atti concorsuali degli ultimi 3 anni, da cui si evincono, oltre le invalidità
meglio di seguito specificate, anche le “stranezze” nel rendere il giudizio: per
tutti i compiti resi nei vari anni si appalesa quel 24/25 uguale per tutti gli
elaborati; i giudizi illogici, tenuto conto che i compiti sono immacolati e i
giudizi numerici identici tra loro, senza soluzione di continuità; i compiti
immacolati e giudizi mancanti di ogni indicazione logica che possa far
inquadrare al ricorrente le manchevolezze, a cui porre rimedio nelle sessioni
successive.
Il ricorrente ha diritto di conoscere le lacune che, in tutti questi anni,
sono stati causa di inidoneità e se tali lacune siano fondate. I giudizi resi,
non sopportati da elementi concreti (correzioni, glosse, note e spiegazioni,
ecc.), fanno sì che la commissione correttrice, venendo meno ai suoi doveri di
trasparenza, correttezza ed equità, impedisce, di fatto, la conoscenza
dell’errore, non indicato palesemente, il quale può essere senza colpa reiterato
dal ricorrente.
DIRITTO
I provvedimenti de quo impugnati devono considerarsi illegittimi per i seguenti
motivi di diritto, indicati per economia processuale in modo sintetico e con
riferimento alla giurisprudenza domestica più recente.
In premessa alle contestazioni soggettive rilevate e sollevate, si presenta
all’attenzione della S.V. una questione che, di per sé in modo oggettivo,
invaliderebbe tutte le prove scritte svolte presso ogni Corte di Appello, sede
d’esame di concorso di avvocato. Ma che, per forza di cose, ne si chiede
applicazione unicamente all’interesse dell’istante, qui rappresentato.
Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa,
rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra
i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte di
Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità (spesso fino al doppio),
per tempo e luogo di esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte
necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord
Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%,
nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le
sottocommissioni del Nord Italia.
I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione.
La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.
E’ illegittimo, agli occhi dell’art. 3 e dell’art. 97 della Costituzione, il
fatto che ogni candidato di debba affidare ogni anno alla benevolenza della
commissione di esame estratta per la correzione dei compiti itineranti. In
particolare i candidati di Lecce si sottopongono al giudizio di commissioni che
adottano percentuali di idoneità che vanno dal 30% di Palermo e Torino, al 60%
di Salerno e Reggio Calabria. L’idoneità non può essere riconducibile a fattori
estemporanei temporali o territoriali, come anno e luogo di nascita. Tra i
requisiti richiesti per il superamento dell’esame non vi è, né vi potrebbe mai
essere indicata “la Fortuna”. Tali percentuali, adottati al di là di ogni
ragionevole logica, inficiano in modo grave il
buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione pubblica, oltre
che a ledere il diritto di uguaglianza dei candidati partecipanti ai medesimi
esami, ma giudicati da commissioni diverse. Non solo. Adottando improvvidi
atteggiamenti la Commissione giudicatrice, impedendo l’accesso all’abilitazione
ai candidati “sfortunati” , lede l’art. 4 della Costituzione: “La
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le
condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una
funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”
Tutto questo sotto l’aspetto oggettivo, rilevabile d’ufficio, in quanto il
giudizio reso agli elaborati della odierna sessione 2010 del ricorrente è stato
viziato dalla “Sfortuna” di trovare una sottocommissione, quella di Palermo,
poco incline alla benevolenza, la quale ha reso idonei pochi candidati di Lecce,
rispetto a quella di Salerno dell’anno precedente, che ne ha resi idonei il
doppio.
Uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sugli Ordini professionali,
pubblicato sul Corriere della Sera del 4 luglio 2011 parla di risultati
riconducibili in prevalenza al familismo, ovvero all’impedimento della libera
concorrenza da parte di chi, avvocati in commissioni d’esame, ha tutto
l’interesse a limitare l’accesso a nuovi professionisti.
Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di
conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di
discipline didattiche non inseriti in commissione.
Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc.,
tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella
materia di riferimento.
La commissione di esame di avvocato presso il Ministero della Giustizia,
sessione 2010, ha definito i seguenti criteri per la valutazione degli
elaborati, stabiliti dall'articolo 1-bis, comma 9,
della legge 18 luglio del 2003 e fissati nella seduta del 09.12.2010
dalla Commissione centrale presso il Ministero della Giustizia,
di recepimento della circolare ministeriale del 8 novembre 2010:
1. Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione,
con corretto uso di grammatica e sintassi;
2. Capacità di soluzione di specifici problemi;
3. Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici
degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili
interdisciplinari;
4. Padronanza delle tecniche di persuasione.
L’esame scritto di avvocato presenta insidie particolari. Infatti è ben diverso
dagli esami universitari ed allo stesso tempo è molto lontano da ciò cui abitua
la pratica: si trova in un limbo in cui si chiede al candidato di riesumare le
nozioni istituzionali dei manuali universitari ed allo stesso tempo di superare
l’astrattezza della teoria con applicazione a tracce d’esame che, pur se tratte
dalla giurisprudenza, non possono che essere stilizzate. Di conseguenza
generalmente manca nel candidato una preparazione specifica ad un simile genere
di prova.
Così come tale preparazione specifica manca al singolo commissario d’esame.
Sul punto si può osservare che il parere non è un atto, in cui si perorano le
ragioni dell’assistito, prendendo in considerazione le argomentazioni della
controparte solo per contestarle. Tale differenza emerge chiaramente dalla
lettura della lettera e) del prima riportato art. 1 comma 9, allegato della
legge 180/2003, per cui le tecniche di persuasione sono elementi rilevanti solo
ai fini della valutazione dell’ultima prova d’esame.
Il parere però non è nemmeno una mera rassegna degli orientamenti
giurisprudenziali esistenti, di cui riportare acriticamente la massima. Infatti
il semplice collage dei dicta pretori non dimostra capacità alcuna,
soprattutto se si tiene conto che il candidato si avvale di un codice
commentato.
Il candidato, quindi, ha diritto ad essere giudicato, da una commissione che
garantisca l’effettiva competenza a poter svolgere il suo compito. Questa
certezza la può dare solo una commissione in cui vi facciano parte esperti di
discipline che possano verificare e giudicare l’elaborato del candidato, al di
là di ogni ragionevole contestazione. Tenuto conto altresì che si chiede al
singolo candidato di avere una sorta di competenza tale da soddisfare le
verifiche di più commissari esperti nelle varie materie.
Ma proprio questo è il punto: i commissari d’esame non hanno la preparazione
professionale per poter svolgere il ruolo di cui sono incaricati. Anche perché
c’è una lacuna di fondo.
Si insiste nel dire sulla necessità di
≪formare
i formatori≫.
Alcuni Consigli dell’Ordine degli Avvocati hanno previsto espressamente nello
Statuto delle erigende scuole la presenza obbligatoria di un
≪modulo≫
di metodologia giuridica accanto alle materie istituzionali. Modulo il cui
insegnamento è stato affidato a studiosi e docenti di filosofia del diritto. La
metodologia, infatti, comprende (secondo la prospettiva classica) lo studio
delle discipline finalizzate a produrre
≪chiarezza,
logicità e rigore metodologico dell’esposizione […] capacita di soluzione di
specifici problemi […] padronanza delle tecniche di persuasione≫
(si cita dall’art. 1 bis, 9° comma, della L.180/2003 sui criteri di valutazione
della prova scritta all’esame di Stato per la professione d’avvocato). In questo
senso, dunque, l’inserimento a Statuto di un modulo didattico di metodologia
risponde ai precisi requisiti del legislatore circa le abilità richieste al
principiante avvocato.
Molto più di questo, però, vale l’osservazione per cui la metodologia giuridica
non può limitarsi a rappresentare una fra le materie impartite nella
scuola, poiché, se quest’ultima vuole davvero ispirarsi al modello non
occasionale del
≪ginnasio
forense≫,
dovrà assumere la metodologia come struttura e non soltanto come contenuto
inserito in un contesto ancora ‘tradizionale’ (sostanzialmente mutuato dalle
Facoltà giuridiche). Il che significa che il “frame” delle diverse unità
didattiche (di civile, di penale, di amministrativo ecc.) dovrà avere natura
metodologica (questione della
≪formazione
dei formatori≫
e della meta-didattica).
Per quanto riguarda la corretta applicazione di sintassi e grammatica,
oltretutto, si abbisogna di un docente delle discipline umanistiche, nel campo
delle lettere, competente specificatamente su vari ambiti: analisi logica; conoscenza
e comprensione delle varie funzioni logiche; comprensione e
riconoscimento delle diverse funzioni logiche nella frase semplice e nel
discorso; ortografia e punteggiatura; conoscenza morfologica delle regole
ortografiche e di punteggiatura, padronanza dell’ortografia e della
punteggiatura nella scrittura; viaggio tra forma e significato delle
parole; conoscenza delle forme di derivazione e alterazione delle parole;
conoscenza e comprensione del vocabolario; conoscenza delle varie
relazioni di significato tra le parole; abilità di base della scrittura di un
testo e tecniche narrative essenziali; abilità di preparazione,
organizzazione coerente di idee su un determinato tema, abilità di espressione
chiara e pertinente, abilità tecniche narrative essenziali, abilità essenziali
di generi narrativi diversi, abilità essenziali di descrizione e riflessione.
La commissione di esame, così come è composta, fatta esclusivamente da soggetti
pratici, più che teorici, oltretutto elementi formatisi con discipline
giuridiche, non garantisce la totale efficienza ed attendibilità nella verifica
degli elaborati.
I Commissari che hanno corretto i compiti dell’istante sono 2 magistrati e 2
avvocati ed un professore di diritto costituzionale.
I Commissari nominati soddisfano solo le aspettative dei principi indicati al
punto 3, (attinenza agli istituti giuridici), restando sguarniti i restanti
punti, propri dei professori di lettere, filosofia e in discipline della
comunicazione.
Nel caso di specie i commissari nominati, alla mancanza di tali soggetti
professionali, figure indispensabili, hanno ovviato, intervenendo con giudizi
impropri e spesso errati.
Con la metodologia adottata ogni errore evidenziato deve essere motivato, per
poter essere verificato da personale esperto. Qui non vi è alcun errore né vi è
alcuna motivazione per poter vagliare il grado di incisività e fondatezza
dell’emendamento.
Il recente intervento della Corte Costituzionale, che abilita il solo voto
numerico in virtù del “Diritto Vivente”, non intacca un approccio diverso al
problema. Il giudizio sintetico, abilitato dalla Corte, impedisce l’indagine nel
merito della decisione definitiva presa, che diventa sunto delle risultanze rese
per i vari criteri di valutazione, ma non può mancare la motivazione agli
emendamenti ed i rilievi che toccano la stessa prova scritta. Si deve valutare
la competente Commissione, nei casi di valutazione negativa, ove non sussista
l’obbligo della motivazione finale, la quale è costretta ad un più attento esame
degli elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il
proprio operato, suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità
giurisdizionale, il che sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon
andamento di cui all’art. 97 Costituzione.
Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del
giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni
grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o
comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e
giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò
denota l’assoluta mancanza di motivazione al
giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori,
per impedirne la reiterazione.
Per la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011,“buon andamento,
economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una
dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni
sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le
operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per
il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha
sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto
vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli
esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte osserva come non
sia sostenibile – come spesso affermato – che il punteggio indichi soltanto il
risultato della valutazione: “esso, in realtà, si traduce in un giudizio
complessivo dell’elaborato, alla luce dei parametri dettati dall’art. 22, nono
comma, del citato r.d.l. n. 1578 del 1933, suscettibile di sindacato in sede
giurisdizionale, nei limiti individuati dalla giurisprudenza amministrativa”.
Il che vale a dire che “il sindacato giurisdizionale sul provvedimento di
non ammissione, in presenza dell’ampio potere tecnico-discrezionale spettante
agli organi preposti alla valutazione, può avvenire soltanto in caso di
espressione di giudizi discordanti tra i commissari o di contraddizione tra
specifici elementi di fatto, i criteri di massima prestabiliti e la conseguente
attribuzione del voto”.“…il punteggio espresso deve trovare specifici parametri
di riferimento nei criteri di valutazione ….ed è soggetto a controllo da parte
del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a
quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui
sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o
profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del
procedimento”.
La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero)
afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie
inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una
sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi,
salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi,
devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo
orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato,
che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di
giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità
tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire.
Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione
sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che
supportino quel voto.
Elementi di fatto che qui mancano o sono insussistenti.
Ai fini della ricorrezione degli elaborati, il provvedimento di mancato
superamento delle prove scritte privo di motivazione e di segni grafici sugli
elaborati, va sospeso. E’ questo il principio con cui il TAR Genova con
ordinanza n. 380/2010 ha accolto l’istanza di sospensiva connessa al ricorso
principale finalizzato all’annullamento del provvedimento di non ammissione alle
prove orali per l’abilitazione forense privo di alcuna motivazione. In
particolare, per il Tar Ligure va ordinata la ricorrezione degli elaborati
“Rilevato che la mancanza di correzioni o glosse e, soprattutto, l’assoluta
identità del voto - finanche nelle valutazioni espresse su ogni singolo
elaborato da ciascun commissario - conseguito in tre distinte e differenti
prove, costituiscono spie dell’eccesso di potere, sotto il profilo della carenza
di istruttoria”.
Conforme è T.A.R. Puglia, Bari, Sezione II,
Sentenza 28 ottobre 2008, n. 2401: Rileva
il Collegio che, dall'esame dell'art. 23 comma 3 R.D. 37/1934 e successive
modificazioni, emerge con chiarezza che la Commissione esaminatrice è tenuta
nella valutazione degli elementi a svolgere un doppio procedimento: a) di
lettura e correzione; b) di giudizio, entrambi a tradursi nei relativi verbali.
Deve evidenziarsi che le fasi anzidette, imposte per legge, sono autonome,
distinte e non sovrapponibili, investendo la prima un'operazione di stretta
rilevazione di errori, difetti, inesattezze, quale risultante della correzione
(v. dizionario della lingua italiana); riguardando, invece, la seconda fase,
un'operazione di vera e propria attribuzione del punteggio, quale risultante del
giudizio. Più in particolare, mentre l'operazione di correzione rappresenta uno
strumento tipico ed essenziale di emersione dei profili di
criticità/carenza/positività delle tesi esposte, l'operazione di giudizio
costituisce più propriamente l'attribuzione del punteggio. Osserva il Collegio
che, dall'esame degli atti depositati in giudizio, si evince, invece, che il
verbale di correzione riporta semplicemente i punteggi attribuiti al candidato
nelle tre prove scritte, punteggi che compaiono, poi, in ripetizione nel verbale
di giudizio, sicchè l'operazione di correzione risulta pretermessa e/o comunque
assorbita in quella di giudizio. Operando in tal modo la Commissione
esaminatrice ha posto in essere un'attività difforme dal paradigma legale,
omettendo di svolgere l'operazione preliminare di correzione degli elaborati
che, costituisce la fase più importante dell'attività valutativa a motivo della
trasparenza ad essa connaturata essendo volta a rendere intelligibile la misura
della professionalità espressa. Occorre, per ragioni di estrema chiarezza,
quindi rilevare che, nella specie, si fa questione di profili di violazione di
legge (art. 23 comma 3 R.D. 37/1934 e successive modificazioni) che investono,
come s'è detto, la fase della correzione degli elaborati, e non, invece, la fase
del giudizio che, ancorché sintetico (per attribuzione di punteggio numerico),
si attesta come eloquente e, quindi, idoneo ad esprimere la professionalità di
ogni singolo candidato (in tal senso questa Sezione è allineata alla
giurisprudenza costante e ferma del Consiglio di Stato). Rileva, altresì, il
collegio che ricorre nella specie il dedotto vizio di eccesso di potere per
contraddittorietà e illogicità. Ed invero, occorre premettere che la Commissione
per l'esame di avvocato ha approvato all'unanimità i criteri direttivi per la
correzione degli elaborati scritti ai sensi della legge 180/2003. La stessa
Commissione, tra l'altro, "… invita ad indicare sull'elaborato il punto o il
punto che eventualmente si ritengano non conformi alla direttive sopraindicate"
…"sollecita le sottocommissioni ad attenersi ai predetti criteri"; prevedendo
espressamente che ciascuna Sottocommissione trasmetta alla Commissione centrale
"… “copia del verbale della riunione nella quale saranno esaminati e recepiti i
criteri valutativi sopra riportati ed assunti come riferimento per
l'assegnazione del punteggio”. Gli atti di cui sopra, espressione dei
poteri autorganizzativi della Commissione e della sua autonomia
nell'espletamento del compito demandatole, integrano evidente autolimitazione e
vincolano la Commissione medesima, nonché le sottocommissioni, che ne
costituiscono articolazioni interne, all'osservanza dei criteri medesimi. Rileva
pertanto il Collegio che ricorre nelle specie non già vizio di motivazione,
bensì eccesso di potere per contraddittorietà rispetto a precedenti atti e
provvedimenti della stessa Commissione, di carattere vincolante, atteso che gli
elaborati scritti in atti evidenziano la pressoché totale assenza di segni e
indicazioni grafiche.
L'esecuzione della sentenza comporterà l'obbligo della Commissione di procedere
senza indugio alla correzione degli elaborati , con conseguente formulazione di
un nuovo giudizio in coerenza con il dettato di legge in uno con i criteri
fissati dalla Commissione medesima, con l'effetto che, in sede di rinnovazione
delle operazioni di correzione (e quindi di giudizio), la Commissione debba
riesaminare gli elaborati secondo una tecnica di rilevazione degli errori e
delle inesattezze giuridiche di cui resti traccia evidente nel verbale di
correzione.
Il precedente del TAR Puglia Lecce sez. I 23 aprile 2009, n. 746
- (3519) definitivamente pronunciando sul ricorso, attinente i motivi de
quo, lo accoglie, come da motivazione e, per l'effetto, dispone l’annullamento
degli atti impugnati.
“Ormai
da lungo tempo (ed in particolare, da T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 14 giugno
1996, n. 510), la giurisprudenza della Sezione segue un percorso argomentativo
che ritiene la valutazione degli elaborati d’esame o di concorso in forma
meramente numerica assolutamente insufficiente ad integrare l’obbligo di
motivazione previsto dall’art. 3 della l. 7 agosto 1990 n. 241, nelle ipotesi in
cui i criteri generali di valutazione degli elaborati siano stati predeterminati
in maniera tale da attribuire alla Commissione un rilevante spazio di
apprezzamento (spazio di apprezzamento che manca, ovviamente, nelle ipotesi di
criteri di valutazione formulati con riferimento a questionari a risposta
predeterminata o ad altri sistemi “vincolati” di valutazione) che deve poter
essere “controllato” dai partecipanti alla procedura selettiva ed in definitiva,
dall’intera collettività.
Dopo l’intervento di una importante decisione della Corte costituzionale (Corte
cost. ord. 14 novembre 2005 n. 419), l’orientamento è stato riaffermato da
sentenze più recenti della Sezione (T.A.R. Puglia Lecce sez. I 20 novembre 2008
n. 3375; 21 dicembre 2006 n. 6055 e 6056), sulla base di una struttura
argomentativa estremamente aggiornata che può essere richiamata anche in questa
sede, in funzione motivazionale della presente decisione: all’udienza del 21
gennaio 2004 il T.A.R. sospendeva il giudizio e rimetteva gli atti alla Corte
costituzionale, così motivando:
1. – L’illegittimità dell’impugnato giudizio negativo viene denunciata nel
ricorso sotto molteplici profili; ritiene il Collegio che tra questi debba
essere prioritariamente definito quello concernente il difetto di motivazione.
Ciò in quanto il fine perseguito dalla ricorrente è, insieme alla caducazione
degli atti impugnati, la rinnovazione del giudizio sulle sue prove scritte;
rispetto a tale obiettivo, la decisione sulla censura relativa al profilo
motivazionale risulta centrale, non solo ai fini dell’invocato annullamento del
giudizio negativo già formulato (stante il carattere tipicamente assorbente,
rispetto alle altre censure, del vizio di carenza di motivazione), ma anche e
soprattutto ai fini conformativi dell’attività che la Pubblica Amministrazione
sarebbe chiamata a svolgere nell’eventualità di un accoglimento del gravame,
essendo evidente che, in tale ipotesi, la Commissione dovrebbe, in diversa
composizione, procedere ad un nuovo esame delle prove scritte della ricorrente,
fornendo congrua motivazione del nuovo giudizio, esplicitata da significative
formule verbali; e ciò a prescindere da eventuali lacune degli elaborati, poiché
l’enunciazione, ancorché sintetica, delle ragioni di un giudizio non positivo
corrisponde al generalissimo precetto di clare loqui, (costituente di per
sé un preminente valore fornito di garanzia costituzionale ex artt. 97 e 2 della
Carta Fondamentale), consentendo al candidato un adeguato riscontro tra il
contenuto della prova svolta e la sua negativa valutazione: il che può
alternativamente condurre ad una consapevole reazione in sede giurisdizionale
ovvero all’accettazione dell’esito negativo, visto anche in funzione di aiuto e
di indirizzo per le scelte future.
2. – Sostiene, in proposito, il ricorrente che il detto giudizio negativo,
espresso esclusivamente in forma numerica, attraverso voti, contrasta con il
principio generale enunciato dall’art. 3, comma 1, della Legge 7 agosto 1990, n.
241, a tenore del quale: “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli
concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici
concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste
dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria. La questione dell’integrale applicabilità
della norma citata agli esami di abilitazione all’esercizio della professione
forense è stata oggetto di ripetuto esame da parte del Consiglio di Stato il
quale ha elaborato in proposito un orientamento secondo cui, anche dopo
l’entrata in vigore della l. n. 241 del 1990, l’onere di motivazione dei giudizi
concernenti prove scritte ed orali di un concorso pubblico o di un esame di
abilitazione è sufficientemente adempiuto con l’attribuzione di un punteggio
alfanumerico, configurandosi quest’ultimo come formula sintetica, ma eloquente,
che esterna adeguatamente la valutazione tecnica della commissione e contiene in
sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e
chiarimenti. Si è inoltre precisato che l’art. 3, comma 1, della l. n. 241 del
1990 si riferisce all’attività amministrativa provvedimentale e non all’attività
di giudizio conseguente a valutazione, quale è, appunto, quella relativa
all’attribuzione di un punteggio alla preparazione culturale o tecnica del
candidato. Detti principi possono dirsi assolutamente pacifici nella
giurisprudenza del Giudice di Appello, essendo stati ribaditi, da ultimo, tra le
tante, dalle seguenti decisioni: C.d.S., IV Sez., 1 febbraio 2001, n. 367; id.
12 marzo 2001, n. 1366; id. 29 ottobre 2001, n. 5635; id. 27 maggio 2002, n.
2926; id. 1 marzo 2003, n. 1162; id. 8 luglio 2003, n. 4084; id. 17 dicembre
2003, n. 8320; id. 4 maggio 2004, n. 2748; id. 4 maggio 2004, n. 2745; id. 7
maggio 2004, n. 2881; id. 7 maggio 2004, n. 2863; id. 7 maggio 2004, n. 2846;
id. 19 luglio 2004, n. 5175. A scalfire tale consolidato orientamento non vale
la diversa tesi sostenuta dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, secondo
cui le commissioni esaminatrici, in mancanza di criteri generali di valutazione
sufficientemente puntuali ed analitici, sono tenute a rendere percepibile l’iter
logico seguito nell’attribuzione del punteggio, se non attraverso diffuse
esternazioni relative al contenuto delle prove, quanto meno mediante taluni
elementi che concorrano ad integrare e chiarire la valenza del punteggio,
esternando le ragioni dell’apprezzamento sinteticamente espresso con
l’indicazione numerica (cfr. Sez. IV, 30 aprile 2003, n. 2331; id. 13 febbraio
2004, n. 558; id. 22 giugno 2004, n. 4409; si veda anche, Cons. Stato, Sez. V,
28 giugno 2004, n. 4782). Ed invero, a parte il rilievo che nessuna delle
pronunce da ultimo citate riguarda l’esame di abilitazione all’esercizio della
professione di avvocato, osserva il Collegio che trattasi di precedenti isolati
e comunque non univoci, essendo stati smentiti da coeve decisioni della medesima
Sezione Sesta (cfr., Sez. VI, 17 febbraio 2004, n. 659); onde, allo stato, non è
possibile sostenere un “revirement” in materia del Consiglio di Stato, come
dimostrato anche dalla circostanza che la questione circa la sufficienza del
punteggio numerico per gli elaborati relativi alle prove scritte dell’esame di
avvocato non è stata deferita all’Adunanza Plenaria ex art. 45, comma 2, R.D. 26
giugno 1924, n. 1054; di talché deve escludersi che sul punto che qui interessa
siano sorti apprezzabili contrasti giurisprudenziali, tali da incrinare il
pacifico orientamento di cui si è detto. Si deve, dunque, riconoscere che, in
seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, si è affermato il principio per
cui l’art. 3, comma 1, della l. n. 241 del 1990 (alla luce del quale vanno
interpretate le disposizioni sull’esame di avvocato contenute nel R.D. 22
gennaio 1934, n. 37 e, in particolare, quelle di cui agli artt. 17 bis e 23 che
utilizzano il termine “punteggio”) esclude dall’obbligo di puntuale motivazione
i giudizi espressi in sede di valutazione delle prove dell’esame di abilitazione
all’esercizio della professione forense; e che tale principio giurisprudenziale
si è così stabilmente consolidato da acquisire i connotati del “diritto
vivente”, nel senso che le norme suddette vigono nel nostro ordinamento nella
versione e con il contenuto precettivo ad esse assegnato dalla su riferita
giurisprudenza del Consiglio di Stato, al punto che non ne è ipotizzabile una
modifica senza l’intervento del Legislatore o della Corte Costituzionale. A tale
proposito, osserva il Collegio che in data 3 luglio 2001 è stata presentata alla
Camera dei Deputati una proposta di legge (contraddistinta dal n. 1160, ed oggi
assorbita dall’approvazione del più organico disegno di modifica ed integrazione
della L. n. 241 del 1990 di cui al progetto di legge n. 3890 – B) che intendeva
modificare il testo del comma 1 dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 (secondo
l’interpretazione offertane dal Consiglio di Stato) in modo da estendere anche
alle commissioni di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione
forense “l’obbligo di motivare per iscritto le valutazioni degli elaborati”; ciò
che, evidentemente, conferma la natura di “diritto vivente” acquisita dal su
riferito orientamento del Giudice di Appello.
3. - L’interpretazione del citato art. 3 seguita dal Consiglio di Stato appare
sospettabile di illegittimità costituzionale, per cui non resta al Collegio che
prospettare ex officio tali dubbi alla Corte Costituzionale, conformemente a
quel consolidato indirizzo della giurisprudenza del Giudice delle Leggi, secondo
cui, in presenza di un diritto vivente non condiviso dal Giudice a quo perché
ritenuto costituzionalmente illegittimo, questi ha la facoltà di optare tra
l’adozione, sempre consentita, di una diversa interpretazione, oppure
–adeguandosi al diritto vivente- la proposizione della questione davanti alla
Corte Costituzionale (cfr., ex plurimis, Corte Cost., sentt. n. 350/1997;
307/1996; 345/1995). Nel caso in esame il Collegio dubita della conformità a
determinate norme costituzionali dell’indirizzo interpretativo dell’art. 3 della
legge n. 241/1990 uniformemente seguito dal Consiglio di Stato in rapporto alla
formulazione ed alla motivazione dei giudizi relativi ad esami di abilitazione
professionale (con specifico riguardo agli esami per accedere alla professione
di avvocato). In particolare tali dubbi si prospettano:
3.1 – in relazione all’art. 3 della Costituzione perché non appare ragionevole,
nel contesto della legge generale sul procedimento amministrativo, una
disposizione normativa che, mentre consacra il generale principio dell’obbligo
di motivazione, tra l’altro facendo specifico riferimento a “lo svolgimento dei
pubblici concorsi”, ne esclude, al contempo, l’applicazione a categorie di atti
(nella specie i giudizi nell’esame di abilitazione all’esercizio della
professione forense) rispetto ai quali l’esigenza dei destinatari di conoscere,
attraverso un’idonea motivazione, le concrete ragioni poste a fondamento della
loro adozione non è diversa, né minore di quella dei soggetti interessati agli
altri atti e provvedimenti amministrativi; se del caso egualmente esprimenti
valutazioni di natura tecnica, sicuramente vincolati all’osservanza della norma,
atteso che il diritto alla trasparenza dell’agire amministrativo e la garanzia
di effettività del sindacato giurisdizionale non variano certo in funzione della
tipologia di atto adottato dalla pubblica amministrazione;
3.2 – in relazione agli art. 24 e 113 della Costituzione; ed invero le
valutazioni affidate dalla legge alle commissioni esaminatrici in subiecta
materia, si risolvono in una attività che, pur comportando scelte discrezionali
su base tecnica, si atteggia non diversamente da qualunque attività valutativa
che debba fondarsi su parametri prestabiliti (nel caso di specie di natura
giuridica) ed è suscettibile, quindi, di essere sindacata, in sede di
legittimità, da parte del Giudice Amministrativo, sia per vizi logici sia per
errore di fatto, sia per travisamento dei presupposti, sia per difetto di
istruttoria sia, infine, per cattiva applicazione delle regole tecniche di
riferimento.
Orbene il controllo della ragionevolezza, della coerenza e della logicità delle
valutazioni della commissione d’esame risulta precluso (o quanto meno reso
sommamente difficoltoso) di fronte al mero dato numerico del voto ed in assenza,
quindi, di una sia pur sintetica esternazione delle ragioni che hanno indotto la
Commissione alla formulazione di un giudizio di segno negativo, tenuto anche
conto dell’estrema genericità che, di prassi, connota i criteri di valutazione
che vengono stabiliti dalle commissioni esaminatrici; ne consegue che la tutela
così consentita dall’ordinamento all’aspirante avvocato si riduce al solo
riscontro di profili estrinseci e formali, quali quelli inerenti al rispetto
delle garanzie connesse alla collegialità dell’organo giudicante ed alla sua
composizione, con una cospicua riduzione del tasso di effettività della tutela
giurisdizionale in sede di giudizio di legittimità davanti al Giudice
Amministrativo;
3.3 – in relazione all’art. 97 della Costituzione poiché la sottrazione di una
categoria di atti all’obbligo di motivazione appare confliggente sia con il
principio di imparzialità (evidentemente meno garantito da un giudizio espresso
in forma soltanto numerica), sia con il principio di buon andamento
dell’amministrazione, che in un ordinamento modernamente democratico postula
anche la piena trasparenza dell’azione amministrativa; né le esigenze di
snellezza e di speditezza del procedimento di correzione degli elaborati, pur
riconducibili al principio di buon andamento ex art. 97 della Costituzione,
possono essere ritenute prevalenti rispetto all’inderogabile necessità di
assicurare il più corretto rapporto tra il cittadino e l’amministrazione
pubblica, essendo esse diversamente tutelabili attraverso un’applicazione del
principio dell’obbligo di motivazione ragionevole e proporzionata alla tipologia
delle prove di esame per l’accesso alla professione forense: ed invero, la mera
sottolineatura dei brani censurati o l’indicazione succinta delle parti della
prova contenenti lacune, inesattezze o errori non paiono rappresentare, anche
nell’esame d’avvocato, solitamente caratterizzato da un elevatissimo numero di
candidati, un comportamento inesigibile da parte dei componenti delle (sotto)
commissioni giudicatrici.
4. – In subordine, ove si ritenga conforme al dato normativo l’interpretazione
dell’art. 3 della Legge n. 241/1990, quale risulta dal “diritto vivente”
formatosi attraverso le decisioni del Consiglio di Stato rese sulla questione
che riguarda il presente giudizio, il Collegio prospetta l’illegittimità del
medesimo art. 3, in rapporto ai parametri costituzionali più sopra richiamati e
per le ragioni già illustrate.
5. – Le questioni che precedono appaiono al Collegio non manifestamente
infondate e sicuramente rilevanti nel presente giudizio, perché dalla loro
risoluzione dipende l’accoglimento o meno del ricorso sotto il denunziato
profilo del difetto di motivazione (ord. n. 1051/04.
4.- La Corte, tuttavia, con ordinanza n. 419/05, dichiarava la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità dell’art. 3 della legge 7 agosto
1990, n. 241, sollevata in relazione agli artt. 3, 24, 97 e 113 della
Costituzione, con la seguente motivazione: “Considerato che il Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 113 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, alla
luce dell’interpretazione di detta disposizione fornita dalla giurisprudenza
amministrativa in pronunce, che il rimettente reputa “diritto vivente”, che
hanno escluso l’obbligo di esplicita motivazione per i giudizi espressi in sede
di valutazione degli esami di abilitazione professionale;
che il Tribunale amministrativo regionale chiede sostanzialmente una pronuncia
sulla conformità a Costituzione di tale indirizzo interpretativo, con riguardo
ai principi costituzionali di cui alle disposizioni sopra indicate;
che i giudizi, aventi ad oggetto identica norma, vanno riuniti e decisi con
unica pronuncia;
che identica questione è già stata ritenuta manifestamente inammissibile da
questa Corte, con l’ordinanza n. 466 del 2000, “perché essa non è in realtà
diretta a risolvere un dubbio di legittimità costituzionale, ma si traduce
piuttosto in un improprio tentativo di ottenere l’avallo di questa Corte a
favore di una determinata interpretazione della norma, attività, questa, rimessa
al giudice di merito”;
che, successivamente, questa Corte, con ordinanza n. 233 del 2001, ha nuovamente
dichiarato manifestamente inammissibile la stessa questione, in considerazione
del fatto che il rimettente avrebbe voluto “estendere l’obbligo di motivazione
ai giudizi espressi in sede di valutazione delle prove d’esame per l’iscrizione
all’albo degli avvocati”, ma non avrebbe tratto “le conseguenze applicative
dell’interpretazione che egli considera conforme ai parametri costituzionali,
deducendo l’esistenza della giurisprudenza del Consiglio di Stato, che segue
l’interpretazione da lui non condivisa”, osservando come “nulla impedisce al
rimettente di adottare l’interpretazione da lui ritenuta corretta alla luce dei
parametri costituzionali”;
che non sussistono ragioni per discostarsi dal richiamato orientamento, tenuto
conto che nel frattempo la giurisprudenza amministrativa ha mostrato di fornire
un panorama ulteriormente articolato di possibili soluzioni interpretative,
spaziando dalla tesi che esclude l’applicabilità del censurato art. 3 alle
operazioni di mero giudizio conseguenti a valutazioni tecniche, in quanto
attività in tesi non provvedimentali, a quella che invece ritiene applicabile
l’obbligo di motivazione previsto dalla disposizione censurata anche ai giudizi
valutativi;
che all’interno di tale ultimo indirizzo possono poi individuarsi tre diverse
posizioni, a seconda che si ritenga l’attribuzione di un punteggio numerico una
valida ed idonea espressione motivatoria del giudizio valutativo, ovvero che si
escluda tale idoneità, o ancora che si rifiuti una prospettiva aprioristica, per
risolvere la questione in relazione alle peculiarità della singola fattispecie,
e segnatamente alla relazione intercorrente fra l’estensione dei criteri
valutativi prestabiliti dalla commissione esaminatrice ed il carattere più o
meno analitico del giudizio sulle prove di esame.
A sostegno della tesi dell’obbligatorietà della motivazione del giudizio
numerico si prospetta un esplicativo resoconto da parte della sentenza del
14/10/2010 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione
staccata di Catania (Sezione Quarta) N. 04204/2010 REG.SEN. ,N. 02177/2010
REG.RIC.
“Visti l’art. 23, comma 7, l’art. 24, comma 1, e l’art. 17 bis, comma 2, del
R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, come novellati dal D.L. 21 maggio 2003 n. 112, nel
testo integrato dalla legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180, in base ai
quali, nel valutare le prove scritte dell’esame di abilitazione alla professione
di avvocato, la Commissione giudicatrice assegna dei voti numerici ai singoli
elaborati;
Visto l’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni, in
base al quale “Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti
... lo svolgimento dei pubblici concorsi ... deve essere motivato ... La
motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che
hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle
risultanze dell’istruttoria”.
Viste le ordinanze 14 novembre 2005, n. 419 e 27 gennaio 2006 n. 28, con le
quali la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale rispettivamente dell’art. 3 della L. n. 241/1990 e
degli artt. 23, comma 5, 24, comma 1 e 17 bis, comma 2, del R.D. 22 gennaio
1934, n. 37 e successive modificazioni (in quanto volte ad ottenere l’avallo
della Corte ad una certa interpretazione delle disposizioni impugnate, piuttosto
che a sottoporre alla stessa un dubbio di legittimità costituzionale), ha
tuttavia esplicitamente escluso che “la tesi dell’inesistenza di un obbligo di
motivazione per gli esami di abilitazione e in generale per i concorsi
costituisca <<diritto vivente>>, suggerendo di fatto ai giudici remittenti di
optare per una soluzione ermeneutica conforme ai principi costituzionali di cui
artt. 3, 24, 97, 98 e 113 Cost., dei quali era stata denunciata la lesione.
Visto l’art. 11, comma 5, del Decreto Leg.vo 24 aprile 2006 n. 166 che, nel
disciplinare le modalità di correzione delle prove scritte del concorso
notarile, prescrive testualmente: “Il giudizio di non idoneità è motivato. Nel
giudizio di idoneità il punteggio vale motivazione”.
Visto altresì l’art. 12, comma 5, dello stesso Decreto Leg.vo che, nel
disciplinare le modalità di svolgimento delle prove orali del concorso notarile,
così dispone: “La mancata approvazione è motivata. Nel caso di valutazione
positiva il punteggio vale motivazione”.
Rilevato che le due norme da ultimo riportate, ancorché riferite al concorso di
notaio, debbono essere considerate come espressione del principio di trasparenza
dell’attività della pubblica amministrazione, sancito, a livello normativo,
dall’art. 3 della Legge n. 241/1990 e, ancora prima, dall’art. 97, comma 1,
Costituzione, la cui valenza dev’essere estesa a qualsiasi procedimento
concorsuale.
Ritenuto, alla luce di tale recentissimo intervento del Legislatore e delle
puntualizzazioni della Corte Costituzionale prima richiamate, di poter superare
l’orientamento della giurisprudenza prevalente (Cfr. ex multis, Cons. Stato, IV,
1 febbraio 2001 n. 367; Cons. Stato, VI, 29 marzo 2002 n. 1786; Cons. Stato, VI,
10 gennaio 2003 n. 67; Cons. Stato, V, 21 novembre 2003 n. 7564; Cons. Stato,
IV, 5 agosto 2005 n. 4165; Cons. Stato, V, 15 dicembre 2005 n. 7136) la quale,
mossa dalla preoccupazione di garantire la speditezza e l’economicità
dell’azione amministrativa, ha sempre affermato che, anche dopo l’entrata in
vigore della L. n. 241/1990, nelle procedure concorsuali l’attribuzione del
punteggio numerico soddisfa l’obbligo della motivazione.
Rilevato che la giurisprudenza citata, alla quale questa Sezione nel passato ha
aderito (Cfr. Tar Catania, Sezione IV, 15 settembre 2005 n.1379), ha tuttavia
omesso di considerare che la valutazione di una prova ha natura composita, in
quanto essa:
- costituisce l’espressione di un giudizio tecnico – discrezionale, che si
esaurisce nell’ambito del procedimento concorsuale, allorché tale giudizio è
positivo, di modo che essa può essere resa con un semplice voto numerico;
- rappresenta al tempo stesso, oltre che un giudizio, un provvedimento
amministrativo che conclude il procedimento concorsuale, tutte le volte in cui
alle prove di un candidato venga attribuito un punteggio insufficiente, donde la
necessità, in tale ipotesi, che all’assegnazione del voto faccia seguito
l’espressione di un giudizio di non idoneità, con il quale vengano esplicitate
le ragioni della valutazione negativa, conformemente al disposto di cui all’art.
3 della L. n. 241/1990, ove questo venga interpretato – conformemente
all’orientamento prevalente - nel senso che la motivazione è necessaria solo per
gli atti aventi contenuto provvedimentale.
Rilevato che la soluzione prospettata è coerente con le ripetute affermazioni
giurisprudenziali secondo cui (Cfr. Tar Toscana, Sezione II, 4 novembre 2005 n.
5557), “in tema di prove scritte concorsuali, al candidato deve essere
assicurato il diritto di conoscere gli errori, le inesattezze o le lacune in cui
ritiene che la commissione sia incorsa, sì da potere valutare la possibilità di
un ricorso giurisdizionale e che, conseguentemente, il rispetto dei principi
anzidetti impone che alla valutazione sintetica di semplice <<non inidoneità>>
si accompagnino quanto meno ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia
consentito ricostruire ab externo la motivazione del giudizio valutativo; tra
questi, in specie, in uno alla formulazione dettagliata e puntuale dei criteri
di valutazione fissati preliminarmente dalla commissione, elementi e dati che
consentano di individuare gli aspetti della prova non valutati positivamente
dalla commissione (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2004 n. 974)”.
Rilevato altresì che, nei casi di valutazione negativa, ove sussista l’obbligo
della motivazione, la competente Commissione è costretta ad un più attento esame
degli elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il
proprio operato, suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità
giurisdizionale, il che sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon
andamento di cui all’art. 97 Costituzione.”
Detto ciò, pertanto, va confermato il richiamato orientamento di questa Corte,
tanto più in presenza delle riportate evoluzioni del panorama giurisprudenziale,
che consentono al giudice di adottare una delle (plurime) interpretazioni che
ritenga conforme agli invocati parametri costituzionali.
Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il
voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.
Dal combinato disposto degli articoli 17 bis e 30, r.d. 22 gennaio 1934 n. 37,
si desume che l'obbligo di verbalizzazione di tutte le operazioni
concorsuali deve essere ritenuto comprensivo anche dell'attribuzione del voto
(e, quindi, dei voti attribuiti a ciascun commissario), a differenza della
previsione dell'articolo 24, r.d. n. 37 cit., che si riferisce al solo "voto -
risultato". Nessun argomento in contrario può, infatti, essere tratto dalla
natura collegiale dell'organo deputato alle valutazioni non essendo possibile,
nel sistema di cui alla L. 7 agosto 1990 n. 241,
postulare zone di segreto amministrativo, peraltro non espressamente riferibili
alle ipotesi previste dal menzionato articolo 24 (Tar Puglia, sez. I Lecce,
27 marzo 1996, n. 120; Parti in causa Messuti c. Min. giust.; Riviste Foro Amm.,
1996, 3464, n. Colzi; Rif. Legislativi RD 22 gennaio 1934 n. 37, art. 17, RD 22
gennaio 1934 n. 37, art. 24; RD 22 gennaio 1934 n. 37, art. 30; L 7 agosto 1990
n. 241).
Poiché funzione del verbale è documentare le operazioni fondamentali del
procedimento, esso deve raccogliere - trattandosi di una componente essenziale,
ai fini della formazione del giudizio complessivo – anche la dichiarazione di
voto del singolo commissario; al riguardo, non osta alcuna particolare esigenza
di riservatezza rinvenendosi, anzi, nell'ordinamento, l'opposta esigenza di
pubblicità e trasparenza (Tar. Molise, 26 novembre 1998, n. 386; Parti in
causa: Mozzetti c. Commissione esami avv. anno 1997 A. Campobasso e altro;
Riviste: Foro Amm., 1999, 1325).
Il giudizio finale di una prova concorsuale (nella specie, esame di
avvocato), non perde la sua riferibilità all'organo collegiale se le espressioni
di voto dei singoli membri sono rese pubbliche; appartengono, infatti, al
novero degli atti collegiali tanto i provvedimenti per i quali il diritto
positivo prevede la segretezza delle singole espressioni di voto, quanto le
deliberazioni per cui vige la regola opposta della pubblica esternazione
del voto dei singoli componenti (Tar Molise, 26 novembre 1998, n. 386; Parti
in causa Mozzetti c. Commissione esami avv. anno 1997 A. Campobasso e altro;
Riviste Foro Amm., 1999, 1325).
Con una recente pronuncia del 2008 il Tar della regione Lombardia, ponendosi nel
solco del Tar Sicilia - Catania, Sez IV, 14 settembre 2006, n 1446 e
discostandosi dalla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cds , sez
IV, 7 aprile 2008, n 1455 e Cds, Sez IV, 10 aprile 2008 n 1553) ha affermato,
con riferimento al voto numerico assegnato per la prova scritta dell'esame di
abilitazione forense, l'insufficienza dello stesso ad assolvere all'obbligo di
motivazione di cui all'art. 3 della L. n. 241 del 1990 ritenuta norma
applicabile attesa la natura provvedimentale della valutazione degli elaborati
comportanti l'esito negativo dell'esame. A parere del Tar, posto l'obbligo di
stabilire una griglia di criteri per la valutazione delle prove d'esame nella
prima riunione utile della Commissione ai sensi dell'art. 1 del d.p.r. n 487 del
1994, sarebbe necessario che le valutazioni non si estrinsecassero in un voto
sintetico ma in una pluralità di voti con riferimento a ciascun criterio
individuato. Ciò nel solco dei principi generali esposti dalla giurisprudenza
amministrativa con riferimento al voto numerico, ritenuto motivazione
sufficiente della valutazione di prove concorsuali soltanto in presenza di una
precisa griglia di criteri cui riferire il voto assegnato. In presenza di una
molteplicità di criteri, il voto sintetico non dovrà essere altro che una media
ponderata dei voti assegnati con riferimento a ciascun parametro essendo
altrimenti preclusa ogni valutazione sulla rispondenza del voto ai criteri
prestabiliti.
T.A.R. Milano Lombardia sez. IV del 29 maggio 2008 n. 1893
Il giudizio di non idoneità del candidato partecipante all'esame per
l'abilitazione alla professione di avvocato deve esprimersi attraverso una
griglia di punteggi dove i singoli parametri, predeterminati dalla commissione
esaminatrice come criteri di valutazione in sede di prima riunione ai sensi
dell'art. 12 d.P.R. n. 487 del 1994, abbiano avuto il loro peso specifico nella
correzione dell'elaborato. Tale ulteriore onere motivazionale non costituirà un
gravoso aggravio dei lavori delle commissione con il rischio di un abnorme
allungamento dei tempi di correzione, poiché sarà sufficiente esprimere una
pluralità di voti che altro non sono che la scomposizione del voto complessivo
finora sinteticamente espresso e la cui media stabilirà il voto finale
attribuito dalla commissione stessa. Solo osservando tale accorgimento il
candidato avrà modo di conoscere su quale particolare profilo valutativo
l'elaborato è stato ritenuto non sufficiente.
Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della
Commissione d’esame centrale e contestualmente l’assenza del presidente della Iª
sottocommissione di Palermo.
La Iª sottocommissione di Palermo non era presieduta dal legittimo Presidente
con nomina ministeriale: non vi era presente l’avv. Antonio De Giorgi,
Presidente di commissione centrale, né vi era l’avv.
Giuseppe Cavasino, Presidente titolare della Iª sottocommissione di Palermo.
Tale sottocommissione nella seduta del 19 aprile 2011, sessione in cui si sono
corrette le prove del ricorrente, è stata presieduta dl supplente vice
presidente avv. Mario Grillo.
L'assenza ingiustificata del Presidente della
commissione di esame centrale inficia i lavori della
sottocommissione da lui non presieduti (T.A.R. Calabria,
Catanzaro, 22 maggio 1997, n. 312; Parti in causa Tartaro c. Min. giust.;
Riviste Foro Amm., 1998, 55).
In base al comma 6 art. 22, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (aggiunto dall'art.
2 l. 20 aprile 1989 n. 142) le sottocommissioni per gli esami
di procuratore legale sono costituite - e possono disporre con efficacia
provvedimentale - soltanto con la presenza del presidente della
commissione centrale, il quale riveste la
qualifica di presidente effettivo di tutte le
sottocommissioni; l'unicità del presidente è funzionalmente preordinata
non già ad una mera titolarità formale dei lavori delle diverse
sottocommissioni, ma ad imprimere a tutte ed a ciascuna di esse la
medesima regolazione procedurale che disciplina i lavori
della commissione originaria (T.A.R. Calabria, Catanzaro, 22 maggio 1997, n.
312; Parti in causa Tartaro c. Min. giust.; Riviste Foro Amm., 1998, 559; Rif.
legislativi RDL 27 novembre 1933 n. 1578, art. 22; L 20 aprile 1989 n. 142, art.
2).
Possono essere esaminate congiuntamente le questioni attinenti alle effettive
modalità di funzionamento delle sottocommissioni, con particolare riguardo alla
sostituzione dei componenti effettivi con quelli supplenti, alla qualificazione
dei membri delle sottocommissioni e all’unicità della funzione del presidente
della commissione stessa.
Occorre al riguardo osservare che ai sensi del terzo comma dell’art. 22 del
R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 le commissioni sono nominate dal Ministro di
grazia e giustizia e sono composte da cinque membri, di cui due titolati e due
supplenti sono avvocati (iscritti da almeno otto anni ad un ordine del distretto
di corte d’appello sede dell’esame); due titolari e due supplenti sono
magistrati dello stesso distretto (con qualifica non inferiore a consigliere di
corte d’appello) e un titolare ed un supplente sono professori ordinari o
associati di materie giuridiche presso un’università della Repubblica ovvero
presso un Istituto superiore.
Il successivo quinto comma stabilisce che i supplenti intervengono nella
commissione in sostituzione di qualsiasi membro effettivo.
Il successivo comma 5, con lo stabilire che i supplenti intervengono nella
commissione in sostituzione di qualsiasi membro, ha codificato il principio
della fungibilità di ogni membro effettivo della commissione con qualsiasi
membro supplente (Cons. giust. Amm. Sicilia, 11 ottobre 1999 n. 473) ma, appare
chiaro che, peraltro, è in contrasto col precedente comma 3.
Inoltre il comma 6 enuncia che “Qualora il numero dei candidati che abbiano
presentato la domanda di ammissione superi le duecentocinquanta unità, le
commissioni esaminatrici possono essere integrate, con decreto del Ministro di
grazia e giustizia, da emanarsi prima dell'espletamento delle prove scritte, da
un numero di membri supplenti aventi i medesimi requisiti stabiliti per i membri
effettivi tale da permettere, unico restando il presidente, la suddivisione in
sottocommissioni, costituite ciascuna di un numero di componenti pari a quello
delle commissioni originarie e di un segretario aggiunto. A ciascuno delle
sottocommissioni non può essere assegnato un numero di candidati superiore a
duecentocinquanta”.
L’unicità della figura del presidente della Commissione “si sostanza nella più
rilevante funzione di coordinamento dei lavori delle varie sottocommissioni”
(sentenza 6160 della IV sezione del CdS) al fine di “salvaguardare la par
condicio degli esaminandi attraverso la permanenza di un soggetto
particolarmente qualificato nel contesto di tutte le sottocommissioni”
(sentenza 1855/2000 della IV sezione del CdS). Un filo lega le due sentenze nel
senso che, comunque, il presidente, anche se non presente alle adunanze delle
sottocommissioni, svolge un ruolo che punta a garantire la par condicio
tra i candidati.
Considerato che, ai sensi dell'art. 22 comma 5, r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578,
da ultimo modificato con l'art. 1, l. 27 giugno 1988 n. 242, la commissione
esaminatrice negli esami da avvocato non ha natura di collegio perfetto, e che,
tuttavia, la partecipazione ai lavori della commissione costituisce preciso
obbligo d'ufficio, ai sensi dell'art. 84, r.d. 31 agosto 1933 n. 1592, e
dell'art. 1, l. 18 marzo 1958 n. 311, l'esaminando ha una mera chance di essere
valutato da un collegio composto secondo i criteri ordinariamente contemplati
dalla norma; la fungibilità dei membri dimissionari deve però avere carattere
occasionale e contingente, e non strutturale: pertanto, la circostanza che
nessuno dei professori universitari nominati membri della commissione, ovvero
nessuno dei magistrati, ovvero nessuno degli avvocati, ha partecipato alla
preventiva formulazione dei criteri di valutazione di massima e, solo in minima
parte, alle operazioni di correzione degli elaborati, rende illegittimo il
singolo provvedimento di non ammissione agli orali e gli atti presupposti, nei
limiti in cui questi ultimi hanno compromesso detta chance di ciascun
interessato, di talché l'annullamento non coinvolge posizioni antitetiche di
terzi (Tar Veneto, sez. I, 17 ottobre 1998, n. 1695; Parti in causa Rosato e
altro c. Comm. esami avv. App. Venezia e altro; Riviste Foro Amm., 1999, 1555;
Rif. Legislativi RD 31 agosto 1933 n. 1592, art. 84; RDL 27 novembre 1933 n.
1578, art. 22; L 18 marzo 1958 n. 311, art. 1; L 27 giugno 1988 n. 242, art. 1).
La commissione d’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di
avvocato, che ha natura di collegio perfetto con funzione decisoria e, quindi,
con un proprio quorum essenziale ai fini del funzionamento, è illegittimamente
composta non solo nel caso in cui alle sedute non vi sia il plenum dei
componenti, ma anche se, pur essendo presenti tutti e cinque i suoi membri,
manchi in blocco, a tutte o quasi tutte le sedute, il rappresentante di una
delle tre categorie individuate (avvocati, magistrati, docenti universitari,
ndr) dall’articolo 22 del Rd 1578/1933. È pertanto illegittimo l’operato della
commissione ove risulti che essa si sia riunita senza che fosse mai presente la
componente rappresentata dai professori universitari (Tar Basilicata,
sentenza 83/2000, in www.giust.it-rivista internet di diritto pubblico).
Sentenza 1855/2000 della IV sezione del Consiglio di Stato: il presidente
della Commissione principale è presidente effettivo “di tutte le
sottocommissioni in ossequio al principio della par condicio degli
esaminandi”. Si riporta un passaggio centrale di questa sentenza:
Con ricorso notificato il 9 settembre 1997 la dott.ssa Daniela Daniele ha
chiesto al Tar Calabria (sede di Catanzaro) l’annullamento del
provvedimento di mancata ammissione alle prove orali dell’esame di
procuratore legale per l’anno 1996, deducendo tra i motivi anche la violazione
dell’articolo 22 (comma 6) del Rdl n. 1578/1933 nella parte in cui afferma la
unicità del presidente sia rispetto alla commissione principale sia rispetto
alle sottocommissioni. Il Tar Calabria (con la sentenza n. 178/1998) ha accolto
il ricorso, che è stato impugnato dal Ministero della Giustizia (il quale
ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dello stesso articolo 22).
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (IV sezione) ha respinto il
ricorso del Ministero della Giustizia.
Si legge nella sentenza del Consiglio di Stato:
<…L’appello è infondato. Il thema decidendum riguarda l’interpretazione
dell’articolo 22 (comma 6), Rdl 27 novembre 1933 n. 1578, come modificato dalla
legge 20 aprile 1989 n. 142, concernente gli esami di abilitazione all’esercizio
della professione di procuratore legale, che così dispone: "Qualora il numero
dei candidati che abbiano presentato la domanda di ammissione superi le
duecentocinquanta unità, le commissioni esaminatrici possono essere integrate,
con decreto del Ministro di grazia e giustizia, da emanarsi prima
dell'espletamento delle prove scritte, da un numero di membri supplenti aventi i
medesimi requisiti stabiliti per i membri effettivi tale da permettere, unico
restando il presidente, la suddivisione in sottocommissioni, costituite ciascuna
da un numero di componenti pari a quello delle commissioni originarie e di un
segretario aggiunto. A ciascuna delle sottocommissioni non può essere assegnato
un numero di candidati superiore a duecentocinquanta".
Il Tribunale amministrativo calabrese ha ritenuto che la disposizione non
consenta, se non per giustificato motivo, di cui sia data congrua e puntuale
motivazione nei verbali, la sostituzione del presidente della commissione
esaminatrice dell'esame di stato per l'abilitazione alla professione di
procuratore legale, fondando le proprie conclusioni su un duplice ordine di
rilievi: a) la lettera della legge sopra trascritta, che specifica “unico
restando il presidente", anche quando siano costituite sottocommissioni; b)
l'esigenza di salvaguardare la par condicio degli esaminandi
attraverso la permanenza di un soggetto particolarmente qualificato nel contesto
di tutte le sottocommissioni.
Nel caso di specie è, per contro, avvenuto che il presidente ha delegato in modo
ampio e permanente ai vicepresidenti delle varie sottocommissioni la
partecipazione alle relative sedute, di fatto alterando l'unico elemento
di sicura conformità dei giudizi, senza che fosse evidenziata una specifica
esigenza di sostituzione.
L'appello dell'Amministrazione tende a una esegesi finalistica della norma in
esame, sostenendo che la ratio sottostante la disposizione preordina
l'articolazione in sottocommissioni per consentire una maggiore rapidità delle
operazioni d'esame, che risulterebbero necessariamente appesantite se a
presiedere i lavori fosse unico soggetto.
Osserva la Sezione che, pur rispondendo la norma suindicata a un'istanza di
accelerazione delle operazioni d'esame, la stessa non può comunque essere
interpretata al di fuori del chiaro significato letterale e logico delle
espressioni in essa contenute. Ora è non dubbio che la norma si è preoccupata di
mantenere l'unicità della figura del presidente, pur in presenza di
sottocommissioni. La formulazione letterale della norma è sostanzialmente
univoca e non lascia spazio a interpretazioni finalizzate a superarne il dato
formale.
Infatti, se è pur vero che la finalità di accelerare le operazioni d'esame
risponde a un'esigenza di speditezza e economicità dell'azione amministrativa, è
altresì incontestabile che, in presenza di una attività di giudizio di
particolare rilievo e, per definizione, soggetta al principio della par
condicio, le modalità di svolgimento di dette operazioni
vanno comunque articolate in relazione al precetto normativo così da impedire
che la predetta finalità, per quanto genericamente preordinata all'interesse
pubblico di celerità dell'attività amministrativa, finisca per fare premio
sull’interesse pubblico primario e specifico così come presidiato dal precetto
stesso. In sintesi, l'interpretazione finalistica proposta dall'Amministrazione
non trova adeguato riscontro nella fonte normativa invocata”. In
ossequio al principio della par condicio dei concorrenti, allorquando la
commissione esaminatrice per gli esami di abilitazione alla professione di
avvocato è articolata, in ragione del numero dei candidati, in sottocommissioni,
solo al presidente della commissione medesima, spetta l’effettiva presidenza di
tutte le sottocommissioni (Cons. Stato, sentenza n. 1855/2000; riviste:
Guida al Diritto n. 17/2000).
Le sottocommissioni nelle quali
si suddivide la originaria commissione giudicatrice
designata per l'esame di abilitazione alla professione di avvocato
devono necessariamente essere presiedute dall'unico
presidente (nella specie, il collegio ha
ritenuto illegittima la delega generalizzata conferita
dal presidente ai vicepresidenti delle varie sottocommissioni) in ossequio
al principio della par condicio degli esaminandi (Cons. Stato, Sez.
IV, 31 marzo 2000, n. 1855; Parti in causa Min. giust. c. Daniele; Riviste Foro
It., 2000, III, 243).
Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti,
tali da rendere un giudizio composito.
Una volta verificati, sulla base delle attestazioni contenute nei verbali dei
lavori della commissione giudicatrice di un pubblico concorso, i tempi
medi utilizzati per la correzione e valutazione dei singoli elaborati,
qualora il tempo impiegato risulti talmente esiguo da far dubitare che sia stato
materialmente impossibile l’adeguato assolvimento dei prescritti adempimenti e
dell’espressione ponderata dei giudizi sulla valenza delle prove,
l’operato dell’organo di esame va ritenuto illegittimo (Cons. Stato, sez. IV,
decisione 7 marzo – 22 maggio 2000, n. 2915, in Guida dir., 1 luglio 2000 n. 24,
con nota dì G. Manzi. E' superato così un precedente orientamento contrario,
ancora affermato da Cons. Stato, sez. IV, 09.12.1997, n. 1348).
A sostegno di tale affermazione interviene il Consiglio di Stato, Sezione IV ,
sentenza del 22 maggio 2000 n. 2915 sulle modalità di correzione degli elaborati
relativi al concorso per uditore giudiziario. Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale (Sezione IV), respinge l'appello proposto dal Ministero di
Grazia e Giustizia avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale
del Lazio, sez. 1", n. 2112 del 4 novembre 1996, confermandola, salvi gli
ulteriori provvedimenti dell'amministrazione.
La correzione delle prove scritte di un concorso pubblico si fonda su di un
apprezzamento squisitamente tecnico-discrezionale. L'apprezzamento del contenuto
dell'elaborato implica la sua attenta lettura da condursi sulla base di due
parametri l'uno oggettivo, dato dalla traccia della prova da svolgere, l'altro
soggettivo, dato dalle conoscenze tecniche e professionali che si presume debba
possedere il candidato. Sulla base di tali presupposti ogni singolo commissario
in ragione della sua peculiare professionalità deve valutare criticamente la
prova esprimendo il giudizio. Evidentemente, quanto più approfondite sono le
conoscenze tecnico-professionali che si presume debba possedere il candidato e
quanto più specifiche e complesse sono le tracce predisposte per lo svolgimento
delle prove scritte, tanto più attenta approfondita e rigorosa deve essere la
lettura dell'elaborato alfine della correzione, trattandosi – com’è facilmente
intuibile - non di una mera operazione meccanicistica di lettura di un testo ma
di una operazione complessa di `comprensione' e di valutazione del testo
elaborato dal candidato. La delicatezza di una simile operazione, raggiunge il
suo culmine proprio quando si tratta della correzione delle prove scritte di
particolari concorsi pubblici quali quelli per l'accesso alle magistrature, alla
professione forense, al notariato, in cui si devono valutare elaborati di
candidati che si presume già in possesso di approfondite conoscenze, tecniche e
professionali, in rapporto a tracce di lavoro specifiche ed altamente selettive,
implicanti soluzioni di problematiche giuridiche non necessariamente certe ed
univoche. Sulla base di tali considerazioni, se effettivamente non può essere
sindacato il merito della valutazione di idoneità o non idoneità espressa dalla
commissione, altrettanto evidentemente l'esiguità del tempo medio impiegato per
la correzione degli elaborati, in mancanza di altri elementi di valutazione,
appare ragionevole sintomo di una lettura non particolarmente approfondita degli
elaborati di esame (Cons. Stato, sez. IV, decisione 7 marzo – 22 maggio 2000,
n. 2915, in Guida dir., 1 luglio 2000 n. 24, con nota dì G. Manzi. E' superato
così un precedente orientamento contrario, ancora affermato da Cons. Stato, sez.
IV, 09.12.1997, n. 1348).
Dagli atti in esame si desume infatti (v. l'allegato verbale delle relative
operazioni concorsuali) che la sottocommissione ha atteso alla correzione di
ciascun elaborato in poco più di 5 minuti. (15.30 – 19.25 = 235 minuti : 14
candidati : 3 compiti). Al computo temporale non sono contemplate le pause, in
quanto non indicate. Ritiene il Collegio che tale tempistica, avuto riguardo
alle singole operazioni propedeutiche ed assolutamente necessarie ai fini della
valutazione degli elaborati (apertura delle buste, lettura collegiale ed
interpretazione calligrafica delle tracce, correzioni, espressione del giudizio
critico da parte di ciascun commissario etc.), sia da ritenere assolutamente
incongrua ed incompatibile con la formulazione di un giudizio corretto
particolarmente complesso, quale è quello cui deve attendere la Commissione
d'esame nel valutare le capacità teorico-pratiche del candidato. In tal senso
d'altronde è il recente orientamento del Consiglio di Stato (sez. IV sent. 7
marzo-22 maggio 2000, n. 2915) che in una fattispecie consimile ha ritenuto
illegittimo l'operato dell'organo d'esame che ha proceduto alla correzione degli
elaborati in un tempo medio di pochi minuti per ciascuno. Per vero, la dedotta
inconciliabilità di ordine temporale relativa alle operazioni di correzione si
traduce in un indice esterno di irragionevolezza, sindacabile ab extra e di per
sé viziante il giudizio conclusivo espresso dalla Commissione sugli elaborati
del ricorrente (Tar Catanzaro, sezione I, 14 luglio 2000).
La “verificazione” dei tempi di correzione degli elaborati. La terza
sezione del Tar Lombardia, con la sentenza 617/2000, ha annullato il giudizio di
non ammissione alle prove orali (dell’esame di avvocato 1998-1999) di una
candidata milanese i cui tre elaborati erano stati corretti ciascuno in pochi
minuti. Sulla commissione esaminatrice “discende l’obbligo di ripetere le
operazioni di valutazione, rinnovando ora per allora il già espresso giudizio”.
La decisione del tribunale è sorretta da una "verificazione" dei tempi di
correzione ordinata dal presidente del Tar. Sono stati acquisiti, per la
perizia, 60 compiti, che hanno richiesto, per la correzione, sei ore e 39
minuti, contro due ore e 25 minuti impiegati dalla commissione. Ponendo a
raffronto i suddetti dati temporali emerge che la sola lettura di essi ha
richiesto, invece, mediamente 6 minuti e 33 secondi per ciascun elaborato. La
perizia è stata eseguita dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano,
Paolo Giuggioli, che si è avvalso della collaborazione di altri professionisti
(Il Sole 24 Ore, 11 marzo 2000).
Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della
Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi.
Inopportuna è anche la nomina del Presidente della Commissione Centrale Avv.
Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense,
in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del
distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di
riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del
Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla
disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in
legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio
2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la
commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i
componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle
sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati
componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal
Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di
ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione
annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non
possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine…”.
Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di
sottocommissioni di esame di quel Distretto. Antonio De Giorgi non è più
Presidente di sottocommissione, ma addirittura presidente della Commissione
centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la
nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica
di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se
non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla
nomina di Commissario d’esame? E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per
la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente
di Commissione centrale e/o di sottocommissione periferica d’esame, sia nominato
dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale
Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello
stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia
nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza. Come è inopportuno
nominare chi sia stato estromesso dalla riforma, per gli incarichi già svolti da
presidente di sottocommissione locale.
Per quanto detto il dr. Antonio Giangrande, ricorrente, così come rappresentato
e difeso, adotta le seguenti
Conclusioni
Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di
legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione
negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di
una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica
ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in
tutti e tre i compiti resi.
1.
Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa,
rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra
i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte
d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al
doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte
necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord
Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%,
nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le
sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte
dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.
2.
Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli
di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di
discipline didattiche non inseriti in commissione.
3.
Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc.,
tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella
materia di riferimento.
4.
Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del
giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni
grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o
comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e
giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò
denota l’assoluta mancanza di motivazione al
giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori,
per impedirne la reiterazione.
5.
Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero
il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.
6.
Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della
Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del
presidente della Iª sottocommissione di Palermo.
7.
Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti,
tali da rendere un giudizio composito.
8.
Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della
Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del
Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.
Inoltre, il metodo, contestato con i motivi indicati in precedenza, è lo stesso
che ha inficiato per 13 anni la vana partecipazione del ricorrente al medesimo
concorso concluso con giudizi d’inidoneità fondata sugli stessi motivi
illegittimi.
******
P.Q.M
Si chiede e conclude: voglia Codesto Ecc.mo Tribunale Amministrativo Regionale,
contrariis reiectis, previo accoglimento dell’istanza di sospensione con
ordine alla Sottocommissione di Lecce di far svolgere nella sessione corrente
gli orali al ricorrente, annullare i provvedimenti impugnati, come in epigrafe
indicati, con vittoria di spese competenze ed onorari di lite.
Si chiede di acclarare le doglianze di legittimità e di merito su indicate che
viziano ed invalidano gli atti adottati dalla Iª
Sottocommissione di esame di Palermo.
Si chiede di ordinare alla Sottocommissione di esame di Palermo di procedere, se
non si ritenga di procedere d’ufficio, al riesame delle prove scritte in tempi
congrui, corredando il giudizio con congrua motivazione, con l’osservanza di
ogni modalità utile a garantire l’anonimato degli elaborati, e, in ogni caso,
con una composizione diversa rispetto a quella della Sottocommissione che ha
effettuato la prima valutazione e con il rispetto delle regole di composizione
della stessa commissione.
Circa l’istanza di sospensione cautelare: per quanto attiene il “periculum in
mora” è
per la ravvisata esistenza di un pericolo di danni gravi ed irreparabili per il
ricorrente derivanti dall'esecuzione dell'atto impugnato data
l’evidente ed immediato procrastinarsi della nuova
sessione d’esame, che in quanto tale fa perdere un altro anno da aggiungersi ai
13 precedenti. Per quanto attiene il “fumus boni iuris”, i provvedimenti
impugnati, come in epigrafe indicati, appaiono illegittimi sotto differenti
profili, ampiamente illustrati nei punti precedenti.
******
Si depositano i seguenti atti e documenti:
5. Verbale di correzione della Iª sottocommissione di
esame di Palermo per la sessione 2010;
6. Elaborati consegnati dal sottoscritto in tema: a)
penale; b) civile; c) atto giudiziario;
7. La graduatoria per la
lettera G con data di affissione pubblicata dalla Corte d'Appello di Lecce;
8. Verbali e compiti delle sessioni di avvocato: a)
2009, b) 2008, c) 2007;
Con espressa riserva di proporre motivi aggiunti.
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima.
Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un
evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di
avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di
migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle
commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da
uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore,
saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED
ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla
collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle
tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce
della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film
Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a
intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e
dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La
commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due
magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti
professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i
documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per
come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori.
Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno
strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono
altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una
citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco
la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame
e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato
bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un
capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora
Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato
all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che
confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che
possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva
in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa
sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per
esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile
che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come
sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa
insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al
Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai
laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della
sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle
future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in
eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il
responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale,
addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul
tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari,
scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a
non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per
esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5
minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi
fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti
corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di
più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense,
parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È
illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per
essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno
di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia –
Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar
Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città
Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA
ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione
dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da
altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della
prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile
dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza
cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione
del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il
Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata
ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente
conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in
altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito,
che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice
preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”.
Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato
contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione
durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato
parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di
Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno
accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di
trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti
avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha
ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il
Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando
al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una
nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha
deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013,
fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche
caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del
32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno
precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco
meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei
partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento
degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti
i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di
svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal
Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del
punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali
fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di
recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione,
quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel
ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più
fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il
sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema
di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di
istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi
di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente
nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver,
questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di
2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente,
però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono
non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i
mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare
carriera!
PARLIAMO DI LAVORO.
L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.
“Chi sa, fa. Chi
non sa, insegna”. Così dice un vecchio detto. Ed eccoci oggi a commentare
proprio una frase di chi insegna. Suvvia perdoniamo loro che non sanno quello
dicono. Generalmente ci si divide in teorici e pratici (tecnici). I primi a
teorizzare, i secondi ad attuare. Ma se al Governo ci hanno messo i teorici
(quelli che insegnano e non conoscono la realtà), perché li han definiti tecnici
(capaci di fare)? Già, perché, chi sapendo ben fare (rubare e sprecare), non
aveva più niente da fare e voleva precostituirsi un alibi. Giusto
per dimostrare una mia tesi: da sempre siamo solo presi in giro e pure ne
godiamo, anzichè ribellarci e buttar giù tutti dal carrozzone. L'apatia e
l'accidia generale dei cittadini ti smonta, la collusione e la codardia delle
vittime ti scoraggia. E la politica. I borghesi conservatori posso capirli, ma i
cosiddetti comunisti, che si definiscono progressisti, ma che in realtà sono
solo restauratori?
“Giovani siete sfigati”! Giovani siete “bamboccioni”!
“Giovani non siate
schizzinosi”! Poverini non è colpa loro, (di chi dice ste cazzate), anche perché
i loro figli schizzinosi non lo sono affatto, non avendone ragione. In
un paese dove il 78% dei lavori si trova per «segnalazione» (dato Eurostat), i
figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda,
prefetti, manager pubblici, magistrati, principi del foro, tutti futuri
(attuali) ministri, non hanno tempo per essere choosy, «schizzinosi». Già
a me quando ero giovane i vecchi mi dicevano: “aspetta, sei giovane, non hai
esperienza. Devi farti le ossa”. Bene. Oggi che ho 50 anni i giovani mi dicono:
“fai largo, sei vecchio, da rottamare”. Ergo, la mia è una generazione a
perdere. In attesa di un turno che non arriverà mai. Questo mio pensiero è dedicato
a chi, ignavo, non si ribella a cambiar le cose, se non per sé, almeno per i
suoi figli. Per non destinare lor il destino di esuli per fame o per onor.
«Tu
proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»
Il
canto diciassettesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo
di Marte, ove risiedono gli spiriti di coloro che combatterono e morirono per la
fede; siamo alla sera del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30
marzo 1300.
Giustissimo prendersela con gli scandali della politica. Ma il problema è che
l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni
familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. «Io faccio
il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi
è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa
la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Dice Ignazio Marino. Ha
ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì,
ma come?
A 31
anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere
nella famiglia giusta.
A 32
anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5
anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da
deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.
A
Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due
bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno
dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.
Un
genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori
dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di
lavorare. Pago caro il denunciare il malaffare ed i concorsi truccati di quelle
istituzioni che pretendono rispetto, senza meritarlo.
Mio
figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non
gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché
aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione
al primo anno di esame forense.
Un
genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori
dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di
lavorare.
Alla
fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei
predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché
basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.
Schizzinosi no!! C’è da far umili lavori. Si và. Padre e figlio accomunati da
identico destino. Fa niente che a parità di laurea il popolino appella il titolo
di dottore solo a chi va in cravatta (immeritata) e non a chi va con le braghe
sporche.
Certo
è che nessuno va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze
dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore
universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla
magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta
il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze
antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto: dipende dall’avvocato
che le presenta. Basta leggere il libro del dr Antonio Giangrande, presidente
della “Associazione Contro Tutte le Mafie”,
e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato
“CONCORSOPOLI". Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del
Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book
e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e
pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono
a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
«Ciao Melitta, hai
saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte
d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello,
rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao».
Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di
Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e
dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di
Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di
euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola
intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come
quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio
figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte
d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi
dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco
Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a
Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside
della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato
ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri
candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono
minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio
della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta
sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da
fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri
figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei
giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto
proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà
processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e
funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso,
falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi
truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove
di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del
rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in
cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi
due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che
adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è
tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli.
Agli atti dell' inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non
accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della
moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione
della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto»)
di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del
Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella
Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei
e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina».
UNA GENERAZIONE A
PERDERE.
«Possiamo anche
passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la
nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro
millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in
base al livello di uguaglianza che viene riconosciuto ai suoi cittadini. Ed in
Italia quel livello è infimo. Eppure la Costituzione lo prevede all’art. 3. Ma
tra liste bloccate per amici e parenti e boutade elettorali, ogni nuova tornata
elettorale, come sempre, non promette niente di nuovo: ergo, niente di buono. I
vecchi tromboni, nelle idee più che nell’età, minacciano il nostro futuro - dice
il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente dell'Associazione
Contro Tutte le Mafie. - Noi siamo figli di una generazione a perdere: senza
passato, senza presente e, cosa più grave, senza futuro. Questa non è una
notizia di cronaca, ma cronaca lo è. Chi scrive è definito intellettuale. Si
scrive, per quanto mi riguarda, forse, perché non si ha di meglio da fare dopo
una vita in cerca di lavoro e di partecipazione a concorsi pubblici truccati.
Però una cosa la devo scrivere. Credo che sia tempo di dire basta con questi
politicanti. Questi i problemi li creano, non li risolvono. Non si dia a loro
visibilità e si parli, piuttosto, dei veri problemi della gente da lor signori
causati. Gente in carcere o morta di fame. Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate,
sennò non sarete nessuno nella vita”. Studiammo con i sacrifici nostri e dei
nostri genitori. Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la
laurea non serve più a niente? Avreste fatto meglio ad imparare un mestiere od a
fare i commercianti!”. Imparammo il mestiere o diventammo commercianti. Dopo
ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un
mestiere o ad aprire una bottega?”. Ci convinsero e lasciammo perdere, anche
perché le tasse erano troppe ed alte e la burocrazia inefficiente ed oppressiva.
Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza soldi, a campare con le pensioni dei
genitori. Poi diventammo disperati, senza futuro e con genitori senza pensione.
Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo
già troppo vecchi, con troppa esperienza e troppi titoli, con pochi posti di
lavoro occupati da gente incapace, figli di una cultura corrotta. Non facemmo
figli - per senso di responsabilità - e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto
dei loro concorsi truccati vinti o lavori trovati facilmente negli anni ’60, con
uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete
dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto
pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre. Ci
sposammo e facemmo dei figli per dare una discendenza ad una nazione fiera dei
suoi trascorsi e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con
un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto
non potevamo mica ucciderli. Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un
angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente
realizzati, ma a piangere la terra natia ed a maledire chi la governava ed anche
chi li votava. Diventammo vecchi senza conoscere la felicità. Ma un giorno,
quando meno ce lo aspettavamo, per il magna magna dei pochi il “Sistema
Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero:
“Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non
potemmo che rispondere: “Andatevene tutti affanculo, voi, la vostra claque in
Parlamento ed i giornalisti foraggiati che vi danno spazio sui loro giornali e
vi invitano in tv a dir cazzate!”.»
LA MAFIA DELLE
RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.
Parliamo di lavoro.
A proposito del viceministro al Lavoro Martone e di Sfigati. Su “L’Espresso”,
così come su tantissimi giornali nazionali o locali, vi è stata pubblicata una
lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana
editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Da 20 anni partecipa al concorso
forense: i suoi compiti non sono corretti, ma dichiarati tali da commissioni
composte e presiedute da chi è stato da lui denunciato perché trucca l’esame. Il
Tar di Lecce respinge i suoi ricorsi, nonostante vi siano decine di motivi di
nullità. «Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a
quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce
alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia.
Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora
laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande,
uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?
A 31 anni avevo
ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia
giusta.
A 32 anni mi
diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in
uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso
privatista alla maturità assieme ai giovincelli.
A Milano presso
l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto
tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno
dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.
Un genio, no, uno
sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti
scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Mio figlio Mirko a
25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a
nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni;
maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le
materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di
esame forense.
Un genio, no, uno
sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti
scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Alla fine si è
sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con
intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani
nati in famiglie sbagliate.»
Tale lettera è
inserita in una inchiesta più larga su un malcostume ed illegalità noto ed utile
a tutti. E si viene a sapere da Gianluca Di Feo
su “L’Espresso” che
l'amico del padre del viceministro (quello degli 'sfigati') andò dal potente
senatore del Pdl, Dell'Utri, per far sistemare il giovane. Lo ha detto, a
verbale, Arcangelo Martino, imprenditore al centro dell'inchiesta sulla P3. «Mi
sono ricordato che Martone sosteneva che attraverso il partito voleva dare una
risposta lavorativa al figlio». Arcangelo Martino ha uno stile spiccio, spesso
approssimativo. Del figlio di Martone dice che «fa il commercialista, una cosa
del genere». L'imprenditore è considerato uno dei pilastri della P3, la
cricca che interveniva per pilotare le cause in Cassazione e in molti tribunali.
Ma durante l'interrogatorio in carcere davanti ai pm romani ricostruisce in modo
netto il principale interesse di Antonio Martone, all'epoca potente avvocato
generale della Cassazione: sistemare il figlio, ossia Michel il giovane enfant
prodige del governo Monti, pronto ad attaccare gli studenti fuori corso e le
lauree tardive. Il suo curriculum di professore ordinario a soli 29 anni era
anche - stando ai verbali - nelle mani degli uomini della P3. Martino dichiara
che assieme a Pasqualino Lombardi, l'altro protagonista dell'inchiesta P3, si
sarebbero presentati a Marcello Dell'Utri chiedendo di intervenire in favore del
ragazzo. Sarebbe stato Lombardi a sollecitare la raccomandazione, accompagnata
dalla lista dei meriti accademici del giovane al senatore del Pdl. Ottenendo una
risposta vaga: «Va be' vediamo». Tanta premura per il rampollo non nasceva da
una solidarietà amicale. L'interesse della P3 era chiaro: volevano che il padre
intervenisse per sistemare la causa sul Lodo Mondadori, ossia il processo contro
l'azienda di Silvio Berlusconi a cui era contestata un'evasione fiscale da circa
300 milioni, e sollecitasse un voto positivo della Consulta sul Lodo Alfano che
garantiva l'immunità al premier. Due questioni strategiche per il Cavaliere che
Pasqualino Lombardi e i suoi sodali volevano mettere a posto grazie all'aiuto di
Martone, come spiegano ai magistrati. Antonio Martone ha dichiarato di non avere
mai chiesto raccomandazioni per il figlio. L'uomo ha lasciato la suprema corte
dopo la diffusione delle intercettazioni su suoi contatti con gli emissari della
P3. Nunzia De Girolamo, parlamentare pdl, ha descritto la presenza dell'avvocato
generale ai pranzi da Tullio dove ogni settimana Lombardi riuniva i suoi
compagni di merende. «Ricordo che erano presenti il sottosegretario Caliendo e
diversi magistrati. Tra loro Martone, Angelo Gargani e un magistrato del
Tribunale dei ministri». Il geometra irpino Lombardi si mostra capace di grandi
persuasioni, come ricostruisce la De Girolamo: «Ricordo anche che Martone diceva
di volere andare via dalla Cassazione e che Lombardi non era d'accordo e cercava
di convincerlo a restare. Diceva che stava bene lì, che era un punto di
riferimento lì. Martone insisteva dicendo che voleva fare altre esperienze e che
preferiva andare da Brunetta». Proprio da Brunetta era poi venuto il primo
incarico di consulente da 40 mila euro l'anno per Michel Martone, mentre al
padre andavano ruoli direttivi. Ma Lombardi e Martino si impegnavano per trovare
«attraverso il partito una risposta lavorativa» migliore per il professore in
erba. Che due anni esatti dopo l'incontro tra Lombardi e Dell'Utri per trovargli
un posto «attraverso il partito» è arrivato al governo Monti.
LE DONNE IMMIGRATE
PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
Processo alla
stampa. Un nuovo capitolo riempie il saggio “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE. CENSURA
ED OMERTA’”. Il libro di Antonio Giangrande.
La cronaca è fatta
di paradossi. Noi avulsi dalla realtà, manipolati dalla tv e dai giornali, non
ce ne accorgiamo. I paradossi sono la mia fonte di ispirazione e di questo
voglio rendere conto.
In Italia dove
tutto è meretricio, qualche ipocrita fa finta di scandalizzarsi sull’esercizio
della professione più antica del mondo. L’unica dove non si ha bisogno di
abilitazione con esame di Stato per render tutti uniformi. In quell’ambito la
differenza paga.
Si parla di
sfruttamento della prostituzione per chi, spesso, anziché favorire, aiuta le
prostitute a dare quel che dagli albori del tempo le donne danno: amore. Si tace
invece della riduzione in schiavitù delle badanti immigrate rinchiuse in molte
case italiane. Case che, più che focolare domestico, sono un vero e proprio
inferno ad uso e consumo di familiari indegni che abbandonano all’ingrato
destino degli immigrati i loro cari incapaci di intendere, volere od agire.
Di questo come di
tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio
“Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il
sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini
ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia
del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi
l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla
politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.
Un esempio. Una
domenica mattina di luglio, dopo una gara podistica a Galatone in provincia di
Lecce, nel ritorno in auto lungo la strada Avetrana-Nardò insieme a mio figlio
ed un altro amico intravediamo sedute sotto il solleone su quelle sedie in
plastica sul ciglio della strada due figure familiari: le nostre vicine di casa.
Non ci abbiamo mai parlato, se non quando alla consuetudinaria passeggiata
serale di uno dei miei cani una di loro disse: che bello è un chow chow! Ciò me
li rese simpatiche, perché chi ama gli animali sono miei amici.
Poi poverette sono
diventate oggetto di cronaca. I loro nomi non c’erano. Ma sapevo trattarsi di
loro.
“I carabinieri di
Avetrana hanno denunciato un 31enne incensurato poiché sorpreso mentre prelevava
due giovani rumene dal loro domicilio di Avetrana per condurle a bordo della sua
autovettura, nella vicina località balneare di Torre Lapillo del comune di Porto
Cesareo (Le), dove le donne esercitavano la prostituzione - scrivevano il 22
agosto 2014 “La Voce di Manduria” e “Manduria Oggi” - I militari, che da diversi
giorni monitoravano gli spostamenti dell’uomo, ieri mattina, dopo aver pedinato
a bordo di auto civetta, lungo tutto l’itinerario che dal comune di Avetrana
conduce alla località balneare salentina, decidevano di intervenire bloccando
l’autovettura con a bordo le due giovani ragazze ed il loro presunto protettore,
proprio nel punto in cui le donne quotidianamente esercitavano il meretricio.
Accompagnati in caserma, le rumene di 22 anni sono state solo identificare
mentre l’uomo è stato denunciato in stato di libertà alla Procura della
Repubblica di Taranto, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Lo
stesso è stato inoltre destinatario del foglio di via obbligatorio dal comune di
Avetrana per la durata di tre anni.”
Tutto a caratteri
cubitali, come se fosse scoppiato il mondo. E’ normale che succeda questo in una
Italia bigotta e ipocrita, se addirittura i tassisti sono condannati per aver
accompagnato le lucciole sul loro posto di lavoro e ciò diventa notizia da
pubblicare. Le stesse ragazze erano state oggetto di cronaca anche
precedentemente con un altro accompagnatore.
“Ai domiciliari un
50enne di Gallipoli per favoreggiamento della prostituzione. Le prostitute, che
vivono ad Avetrana, venivano accompagnati lungo la strada per Nardò,” scriveva
ancora il 18 luglio 2014 “Manduria Oggi”.
“Accompagnava le
prostitute sulla Nardò-Avetrana in cambio di denaro. Ai domiciliari 50enne
gallipolino”, scriveva il 17 luglio 2014 il “Paese Nuovo”.
“I militari della
Stazione di Nardò hanno oggi tratto in arresto, in flagranza di reato, MEGA
Giuseppe, 50enne di Gallipoli, per il reato di favoreggiamento della
prostituzione. Nell’ambito dei controlli alle ragazze che prestano attività di
meretricio lungo la provinciale che collega Nardò ad Avetrana, i Carabinieri di
Nardò, alcune settimane orsono, avevano notato degli strani movimenti di una
Opel Corsa di colore grigio. Pensando potesse trattarsi non di un cliente ma di
uno sfruttatore o comunque di un soggetto che favorisse la prostituzione, i
militari hanno iniziato una serie di servizi di osservazione che hanno permesso
di appurare che il MEGA, con la propria autovettura, accompagnava sul luogo del
meretricio diverse ragazze, perlopiù di etnia bulgara e rumena. I servizi svolti
dai militari di Nardò hanno permesso di appurare che quotidianamente il MEGA,
partendo da Gallipoli, si recava in Avetrana, dove le prostitute vivevano e ne
accompagnava alcune presso la provinciale Nardò – Avetrana, lasciandole lì a
svolgere il loro “lavoro” non prima però di aver offerto loro la colazione in un
bar situato lungo la strada. Per cui, avendo cristallizzato questa situazione di
palese favoreggiamento dell’attività di prostituzione, nella mattinata odierna i
militari di Nardò, dopo aver seguito il MEGA dalla sua abitazione e averlo visto
prendere le due prostitute, lo hanno fermato nell’atto di lasciarle lungo la
strada e lo hanno portato in caserma assieme alle due ragazze risultate essere
di nazionalità rumena. Queste ultime hanno confermato di svolgere l’attività di
prostituzione e di pagare il MEGA per i “passaggi” che offre loro. Viste le
risultanze investigative, il MEGA è stato tratto in arresto per favoreggiamento
della prostituzione e, su disposizione del P.M. di turno, dott. Massimiliano
CARDUCCI, è stato posto ai domiciliari presso la sua abitazione”.
Come si evince dal
tono e dalla esposizione dei fatti, trattasi palesemente di una velina dei
carabinieri, riportata pari pari e ristampata dai giornali. Non ci meravigliamo
del fatto che in Italia i giornalisti scodinzolino ai magistrati ed alle forze
dell’ordine. E’ un do ut des, sennò come fanno i cronisti ad avere le veline o
le notizie riservate e segrete.
Fatto sta che le
povere ragazze appiedate, (senza auto e/o patente) proprio affianco al dr
Antonio Giangrande dovevano abitare? Parafrasi prestata da “Zio Michele” in
relazione al ritrovamento del telefonino: (proprio lo zio lo doveva trovare….).
Antonio Giangrande personaggio noto ai naviganti web perché non si fa mai “i
cazzi suoi”. E proprio a me medesimo chiedo con domanda retorica: perché in
Italia i solerti informatori delegati non fanno menzione dei proprietari delle
abitazioni affittate alle meretrici? Anche lì si trae vantaggio. I soldi
dell’affitto non sono frutto delle marchette? Silenzio anche sui vegliardi,
beati fruitori delle grazie delle fanciulle, così come il coinvolgimento degli
autisti degli autobus di linea usati dalle ragazze quando i gentili
accompagnatori non sono disponibili.
Un fatto è certo:
le ragazze all’istante sono state sbattute fuori di casa dal padrone intimorito.
Che fossero
prostitute non si poteva intuire, tenuto conto che il disinibito abbigliamento
era identico a quello portato dalle loro italiche coetanee. Lo stesso disinibito
uso del sesso è identico a quello delle loro italiche coetanee. Forse anche più
riservato rispetto all’uso che molte italiane ne fanno. Le cronache spesso
parlano di spudorate kermesse sessuali in spiaggia o nelle piazze o vie di paesi
o città. Ma questo non fa scandalo. Come non fa scandalo il meretricio
esercitato dalle nostre casalinghe in tempo di crisi. Si sa, lo fanno in casa
loro e nessuno li può cacciare, nè si fanno accompagnare. Oltre tutto il loro
mestiere era usato dalle ragazze rumene per mangiare, a differenza di altre
angeliche creature che quel mestiere lo usano per far carriere nelle più
disparate professioni. In modo innocente è la giustifica per gli ipocriti.
Giusto per saltar la fila dei meritevoli, come si fa alla posta. E magari le
furbe arrampicatrici sociali sono poi quelle che decidono chi è puttana e chi
no!
Questa mia
dissertazione non è l’apologia del reato della prostituzione, ma è l’intento di
dimostrare sociologicamente come la stampa tratta alcuni atteggiamenti illegali
in modo diseguale, ignorandoli, e di fatto facendoli passare per regolari.
Quando il diavolo
ci mette la coda. Fatto sta che dirimpettai a casa non ne ho. C’è la scuola
elementare. Ma dall’altro lato della mia abitazione c’è un vecchio che non ci
sta più con la testa. Lo dimostrano le aggressioni gratuite a me ed alla mia
famiglia ogni volta che metto fuori il naso dalla mia porta e le querele senza
esito che ne sono conseguite. Però ad Avetrana il TSO è riservato solo per “Zio
Michele Misseri”, sia mai che venga creduto sulla innocenza di Cosima e Sabrina.
Dicevo. Queste aggressioni sono situazione che hanno generato una forte
situazione di stalking che limita i nostri movimenti. Bene. Il signore in
questione (dico quello, ma intendo la maggior parte dei nostri genitori ormai
inutili alla bisogna tanto da non meritare più la nostra amorevole assistenza)
ha da sempre delle badanti rumene, che bontà loro cercano quanto prima di
scappare. Delle badanti immigrate nessuno mai ne parla, né tanto meno le forze
dell’ordine hanno operato le opportune verifiche, nonostante siano intervenuti
per le mie chiamate ed abbiano verificato che quel vecchietto le poverette le
menava, così come spesso tentava degli approcci sessuali.
Rumene anche loro,
come le meretrici. Ma poverette non sono puttane e di loro nessuno ne parla. In
tutta Italia queste schiave del terzo millennio sono pagate 500 o 600 euro al
mese a nero e per 24 ore continuative, tenuto conto del fatto che sono badanti
di gente incapace di intendere, volere od agire. Sono 17 euro al giorno. 70
centesimi di euro all’ora. Altro che caporalato. A queste condizioni non
mi meraviglio nel vedere loro rovistare nei bidoni dell’immondizia. A dormire,
poi, non se ne parla, in quanto il signore, di giorno dorme e di notte si
lamenta ad alta voce, per mantenere sveglia la badante e tutto il vicinato. Il
paradosso è che il signore e la sua famiglia sono comunisti sfegatati da sempre,
pronti, a loro dire, nel difendere i diritti del proletariato ed ad espropriare
la proprietà altrui. Inoltre non amano gli animali. Ed è tutto dire.
Le badanti,
purtroppo non sono puttane, ma semplici schiave del terzo millennio, e quindi
non meritevoli di attenzione mediatica.
Delle schiave nelle
italiche case nessuno ne parla. Perché gli ipocriti italiani son fatti così.
Invece dalle alle meretrici. Zoccole sì, ma persone libere e dispensatrici di
benessere. Se poi puttane non lo sono affatto, le donne lo diventano con
l’attacco mediatico e gossipparo.
I
VICINI DI CASA
DENUNCIA/QUERELA PENALE - INFORMATIVA DI REATO
RICHIESTA DI ASO-TSO
(artt.
330, 333,336 c.p.p., art. 33, 34, 35 legge 180/78)
ALLA
PROCURA DELLA REPUBBLICA
AL
COMANDO DEI VIGILI URBANI
AL
SINDACO DI AVETRANA
Da
parte di
Antonio Giangrande
denunciante,
nato
ad Avetrana il 02/06/1963 e residente in Avetrana alla via Manzoni n.51, Tel.
0999708396, Cell.3289163996;
Contro
Loppo
Salvatore,
denunciato,
residente in Avetrana alla via Manzoni n.53.
tale
atto è il naturale seguito alla telefonata al 112 di domenica 23 marzo 2014 ore
10.32, rimasta lettera morta, ed è un atto preventivo e probatorio per eventuali
incresciosi sviluppi a cui non si è posto rimedio,
perché
il
sig. Loppo Salvatore, persona malferma fisicamente e instabile mentalmente,
soggetto a repentini scatti d’ira, evolventi in veri e propri raptus, ha usato
violenza verbale e fisica nei confronti del dr Antonio Giangrande e dell’avv.
Mirko Giangrande. Le condizioni di salute del Loppo, che impedisce la legittima
difesa, porta a considerare questa persona pericolosa per sé e per altri. Nella
circostanza de quo si rimarca come abbia aggredito l’avv. Mirko Giangrande e il
dr. Antonio Giangrande ed, addirittura, a quest’ultimo, tirando contro alla sua
persona un martello ed uno scalpello di 40 cm, rischiando di provocargli gravi
lesioni. Presenti anche Cosima Petarra, moglie e madre dei Giangrande, Stella,
la badante del Loppo, e Marianna, la vicina di casa del Loppo. Secondo il Loppo
la loro colpa era ed è quella di effettuare lavori sulla propria abitazione,
confinante con quella del Loppo. Il Loppo crede, erroneamente, che i lavori
siano effettuati sulla sua abitazione e per questo cerca di distruggere il
lavoro fatto e cerca di aggredire Antonio e Mirko Giangrande, che i lavori li
svolgono, per impedirne il proseguo. Aggrediti che in tutti i modi evitano il
contatto fisico con una persona malferma ed instabile mentalmente. In tanti
hanno cercato di riportare il Loppo alla ragione: la vicina Marianna, la figlia
Maria, che è stata pure strattonata, il cognato ed addirittura l’avv. Tarantini,
assessore comunale di Avetrana. Ma la situazione inevitabilmente si reitera,
impedendo altresì il proseguo dei lavori. E’ una situazione incresciosa ed
imbarazzante, in quanto il Loppo crea schiamazzi che fa intervenire i passanti,
che non sanno come stanno i fatti ed ignoranti giudicano secondo convenienza,
creando grave nocumento d’immagine ai professionisti. Da sempre si è evitato di
presentare querela contro il Loppo, in quanto la domenica precedente, 16 marzo
2014, si è ripetuta la stessa cosa, per non dire di tutte le provocazioni in
anni di vicinato, assumendo ragioni assurde e non solo con i Giangrande, ma
anche con i Pezzarossa, gli altri vicini.
Per
questi motivi
CHIEDE ALLA S.V.
La
certa condanna per violazione degli
articoli di legge che si riterrà di applicare, per reati consumati, continuati,
tentati, da soli o in concorso con terzi, o di altre norme penali, con le
aggravanti di rito, e attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la
violazione di norme amministrative.
Inoltre si chiede al Sindaco di Avetrana, ai sensi dell’art. 33 e seguenti della
Legge 180/78 gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori ti rito, con
necessità ed urgenza, la cui omissione comporterebbe futura ed eventuale
responsabilità. L’A.S.O. ed il
T.S.O. è disposto: con provvedimento motivato del sindaco del comune dove
risiede la persona nei cui confronti si vuole disporre il trattamento o del
comune dove la persona momentaneamente si trova, nella sua qualità di autorità
sanitaria.
DETTO
QUESTO,
il
denunciante con tale atto presenta denuncia e denuncia-querela penale ed esposto
amministrativo contro i soggetti identificati, da soli, o in correità con
persone non conosciute, per gli atti e i fatti e per i reati applicabili,
scaturenti da una doverosa indagine, con istanza di punizione, con riserva di
costituzione di parte civile nell’instaurando procedimento penale. Inoltre si
chiede, come persona offesa dal reato, che gli venga comunicato ogni atto di cui
ha diritto di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt.
406 comma 3 c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma
2 c.p.p. (richiesta di archiviazione). Si oppone formale opposizione, ex art.459
c.p.p., alla richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.
Avetrana lì 24 marzo 2014
Antonio Giangrande
Con procedimento
43/3530/2014 il 19 novembre 2014 si emetteva decreto di citazione a Giudizio per
il 5 marzo 2015 Giudice monocratico Dr A. De Tomasi, che disponeva perizia
psichiatrica e seguente cessazione del processo per improcedibilità.
DENUNCIA/QUERELA PENALE - INFORMATIVA DI REATO
(artt. 330, 333,336 c.p.p.)
ALLA
PROCURA DELLA REPUBBLICA DI TARANTO
Da
parte di
Antonio Giangrande
denunciante,
Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS,
nato ad Avetrana il 02/06/1963 e residente in Avetrana alla via Manzoni n.51,
Tel. 0999708396, Cell.3289163996;
Contro
Fabio
Puglisi
denunciato,
dati
identificativi da generalizzare e presumibilmente conosciuti dalla caserma dei
carabinieri di Avetrana
Luca
Puglisi
denunciato,
dati
identificativi da generalizzare e presumibilmente conosciuti dalla caserma dei
carabinieri di Avetrana
premesso che
Il
sig. Vittorio Puglisi, padre dei denunciati, nato a Catania il 04.11.38, è
domiciliato in locazione ad Avetrana Ta alla via Manzoni, 45.
Egli
ottantenne pensionato, nullatenente, vive da solo e non ha famigliari in loco
che lo assistano o gli fanno visita o compagnia. Egli ha solo una cagnolina.
Vittorio è stato sposato una prima volta. La prima moglie odiata è viva. Egli ha
due figli di primo letto, Fabio e Luca, che ne subiscono l’influenza,
beneficiari di donazione modale di tutti i beni del padre Vittorio, con obbligo
morale e giuridico di assistenza.
La
seconda moglie di Vittorio amata è morta, ma la sua parte di eredità è in
contestazione con le 2 figliastre di secondo letto.
Egli
ha il muro del bagno in comune con la cucina di Antonio Giangrande.
In
data 22.04.2018 nel silenzio di una domenica mattina, nella cucina del
Giangrande verso le 11.00 si sentì un grande frastuono provenire dal bagno del
vicino, accompagnato da lamenti di dolore.
Cosima Petarra, moglie di Antonio Giangrande, avvertiva il marito ed il figlio,
avv. Mirko Giangrande.
Questi prontamente intervenivano per verificare l’accaduto, essendo i soli che
potevano riuscire a sentire i rumori: Antonio, suonando alla porta d’ingresso
chiusa a chiave; Mirko, chiamando a gran voce il nome di Vittorio per sentire se
stava bene. Nella mancata risposta di Vittorio, la scelta era chiamare i
carabinieri ed i vigili del fuoco ed attendere minuti preziosi, o scendere
dall’orto ed entrare dall’entrata posteriore per fare gli adempimenti di primo
soccorso, per i quali Mirko aveva seguito un corso per utilità dell’Oratorio
Sant’Antonio di cui è vice Presidente.
Si è
accertato che la persona era cosciente, ma vi era un grave infortunio.
Intervenuta l’ambulanza vi è stato ricovero all’ospedale “Giannuzzi” di Manduria
alle 13.45 dello stesso giorno 22.04.2018 con diagnosi di frattura chiusa della
colonna dorsale (toracica) senza menzione di lesione del midollo spinale, oltre
che a Ipertensione essenziale non specificata, Spondilolistesi, cardiopatia
ipertensiva non specificata senza insufficienza cardiaca.
In
data 04.05.2018 si interveniva chirurgicamente sulle parti lesionate per
riduzione cruenta di frattura di altro osso specificato con fissazione.
La
sintesi del piano terapeutico eseguito: Instabilità post traumatica con listesi
D9-D10 e frattura somatica di D9 e disco legamentoso D9-D10 e lesione del
legamento longitudinale anteriore D9-D10. Riduzione e stabilizzazione con barre
D8-D11.
Note
relative al periodo di degenza: Durante il ricovero ha eseguito FKT con
deambulazione assistita ad appoggi sottoascellari e busto di sostegno.
Note
relative al periodo di convalescenza: Continua FKT di passaggi posturali con
busto, che dovrà indossare per posizioni posturali maggiori di 30° di flessione
del tronco.
Durante la convalescenza: continua terapia domiciliare personale.
Durante il decorso della fase ante e post operatoria, i figli Fabio e Luca, pur
avvisati, non venivano da Catania a Manduria a verificare lo stato di salute del
papà, né assistevano il padre, ed a ciò sopperiva Antonio Giangrande che nessun
obbligo aveva di assistenza verso Vittorio Puglisi, in ospedale, e della sua
cagnetta, a casa. Né vi era nessun interesse economico, non avendo nulla il
Vittorio, avendo dato tutti i beni ai figli, né la pensione poteva far gola,
bastando a stento solo per le spese di assistenza. Con Vittorio in ospedale
Antonio Giangrande interveniva a comprare tutte le cose necessarie per la
degenza in ospedale di Vittorio, quali: biancheria intima, ricariche telefoniche
e vettovagliamento extraospedaliero. Antonio Giangrande e consorte, in possesso
delle chiavi, si prodigavano per 10 ore a pulire la casa di Vittorio per il suo
ritorno. Casa mai pulita con le mani di una donna. Inoltre si compravano gli
strumenti sanitari per la convalescenza, quali: Deambulatore con appoggi
sottoascellari e busto di sostegno.
In
data 14.05.2018, vi erano le dimissioni di Vittorio Puglisi e questi arrivava a
casa verso le 14.30 in ambulanza a pagamento. Il paziente veniva allettato
(messo a letto con impossibilità a rialzarsi autonomamente senza busto, se non
con l’aiuto di qualcuno ad indossarlo, per deambulare ed andare al bagno). Il
paziente allettato aveva bisogno per il momento e per il futuro di:
un
fisioterapista per far indossare il busto di sostegno;
un
Operatore Socio Sanitario per la pulizia della persona e la medicazione delle
ferite;
una
badante operativa 24 ore per l’assistenza personale.
In
quel frangente si decideva di trovare urgentemente le figure professionali
necessarie per il paziente allettato.
Tenuto conto che Vittorio Puglisi dopo l’arrivo a casa aveva necessità di
alzarsi urgentemente per andare al bagno per i suoi bisogni fisiologici, Antonio
Giangrande è stato costretto a montare il busto, con esiti positivi. A quel
punto si è deciso che Antonio Giangrande era l’incaricato a far indossare il
busto e a far risparmiare al convalescente le spese del fisioterapista che solo
quello doveva fare. Poi si è contattato l’OSS e la prima badante disponibile,
disposta a prendere l’incarico immediatamente, previo colloquio con Vittorio
Puglisi. Badante ed OSS dovevano incontrarsi con Vittorio il giorno dopo.
Alle
17.30 del 14.05.2018 improvvisamente arrivano a casa di Vittorio Puglisi i suoi
figli: Fabio e Luca. A quel punto Antonio Giangrande si sentiva libero di
qualsivoglia vincolo morale, ma l’atteggiamento dei figli nei confronti del
padre e di chi lo aveva aiutato è sembrato subito ostile. I figli non hanno
chiesto al padre come stava e di cosa avesse bisogno. Hanno detto solo se li
riconosceva, essendo anni che non lo andavano a trovare. Non gli chiedevano come
stava e se avesse fame. Nel congedarsi Antonio Giangrande chiedeva, sì lui, cosa
avesse bisogno a Vittorio e questi gli rispose che il giorno, essendo in
dimissioni dall’ospedale, non aveva mangiato. Tant’è che non intervenendo i
figli, Antonio Giangrande e la moglie gli cucinavano un brodino e gli
sbucciavano una mela. Alla fine di ciò Antonio Giangrande, congedandosi
definitivamente dall’onere non voluto, consegnava le chiavi di casa ai figli di
Vittorio, con la raccomandazione di trovare un fisioterapista, un operatore
socio sanitario ed una badante di loro scelta, raccomandandogli, inoltre di
trovare un compromesso con il padre, per non farlo soffrire il restante della
vita, in quanto mai avrebbe lasciato Avetrana, perchè a Catania non aveva più
alcun legame e perchè ad Erchie, il paese vicino, vi era la tomba dell’amata
moglie, cui spesso andava a trovare.
Fabio
e Luca Puglisi, anziché ringraziare il Giangrande per aver aiutato il padre,
forse salvandogli la vita, che altrimenti avrebbero trovato morto ed in
decomposizione, e per l’assistenza prestata, questi hanno espresso questa
affermazione: «Mio padre lo riportiamo a Catania con le buone o lo facciamo
rinchiudere (internare con il Trattamento Sanitario Obbligatorio), perché noi
dobbiamo lavorare, e poi non ci è chiara la sua posizione e quale interesse ha
nel prestarsi nei confronti di nostro padre».
Un’accusa ingiuriosa di circonvenzione di una persona ritenuta, da loro,
incapace, nei confronti di chi, “Buon Samaritano” disinteressato, non ha nulla a
cui aspirare, perché loro Fabio e Luca si son “fottuti tutto” (l’intercalare
forte rende l’idea) e nulla fanno pur obbligati per contratto di donazione, e
perché la pensione basta a malapena a coprire le spese di affitto ed il costo
delle medicine per la cura e della badante per l’assistenza.
L’ingiuria è stata ignorata, e si è tirato avanti, con l’intenzione di mai
mettere più piede in quella casa. Antonio Giangrande, vista la presenza dei
figli, disdettava l’impegno con l’OSS, mentre la badante non si è riusciti a
contattarla per la disdetta dell’appuntamento.
Il
15.05.2018, alle ore 10 i figli di Vittorio si sono allontanati, lasciando da
solo il padre in casa, per far ritorno verso le 14.30, giusto il tempo per avere
il colloquio con la badante e con l’assistente sociale. Figli ed assistente
sociale decidevano di provarla provvisoriamente, così come l’assistente sociale
interpellava di sua volontà lo stesso OSS chiamato per coincidenza da Antonio
Giangrande.
Dopo
qualche ora, 16.00 – 16.30, finito il colloquio con badante ed assistete
sociale, si sono allontanati.
Antonio Giangrande, verso le 18 del 15.05.2018, al ritorno a casa, finito di
fare il suo allenamento di running, viene avvisato dal figlio che i figli di
Vittorio non si erano allontanati, ma se ne erano proprio tornati a Catania,
lasciando incustodito il padre Vittorio allettato ed impossibilitato a muoversi
per andare in bagno e senza qualcuno incaricato ad assisterlo.
Ancora una volta, pur non volendo, Antonio Giangrande è stato costretto ad
intervenire ad assistere il disgraziato convalescente allettato, montandogli il
busto ed accompagnarlo al bagno. Se non lo si avesse fatto, Vittorio avrebbe
fatto i suoi bisogni addosso e nel letto. Si è chiesto se avesse mangiato,
turbato, non ha risposto. Si è dedotto di no, perchè, pur con la presenza dei
figli, non mangiava dall’ultima cena preparata dal Giangrande il giorno prima.
Deduzione confermato dal fatto che la sera prima aveva provveduto il Giangrande,
mentre per il giorno dopo i figli non erano stati presenti per poter preparare
il pranzo, tantomeno si sono trovate stoviglie sporche. C’era solo la presenza
di due cartoni di pizze, fugace spuntino per i soli due figli.
In
data 16.05.2018 oltre all’assistente sociale, a cui Antonio Giangrande
rendicontava sull’acquisto del materasso, la rete ed un armadio di tela, per
ospitare la badante, a casa di Vittorio Puglisi si presentava un maresciallo dei
carabinieri della locale Caserma, il quale domandava a Vittorio se la sua
volontà libera ed autonoma era di rimanere in quella casa. Vittorio, piangendo,
confermava il suo sì.
In
quel momento Antonio Giangrande si rendeva conto che quell’accusa sostanziale
ingiuriosa di circonvenzione di incapace, espressa verbalmente da Luca e Fabio
Puglisi nei suoi confronti, si era trasformata in un’accusa formale, calunniosa
e diffamatoria. Antonio Giangrande constatava che l’allontanamento dei figli la
mattina del 15.05.2018, fino al primo pomeriggio era stata incentrata e
dedicata, anziché ad assistere il padre o programmarne l’assistenza, a mettere
in pratica formalmente le loro accuse ed i loro dubbi, informando l’assistente
sociale di Avetrana ed i carabinieri di Avetrana, affinchè verificassero che
qualcuno nell’orbita del padre potesse influenzare la sua volontà,
approfittandone per un interesse personale. Antonio Giangrande sa bene che
l’Assistente sociale ed i Carabinieri non si muovono per assistere un malato
nella sua convalescenza, non avendone i compiti istituzionali, ma si muovono
solo, su segnalazione, per verificare se la persona è incapace, se sia
abbandonata nella sua incapacità e se essa sia circuita nella sua incapacità.
Insomma Antonio Giangrande sa che la richiesta formale fatta dai figli di
Vittorio Puglisi per constatare effettivamente se lo Stato psico-fisico del
convalescente fosse libero ed efficiente e se l’operato di chi orbitava intorno
a Vittorio Puglisi fosse scevro da abusi, era stata inoltrata chiaramente contro
la sua persona.
Detto questo si
presenta denuncia
perché
Luca
e Fabio Puglisi, il 15.05.2018 abbandonavano a letto il padre incapace a
provvedere ai suoi bisogni, tornandosene a Catania, sapendo che la badante da
loro incaricata, comunque, prendeva servizio solo la sera del 17.05.2018. Lo
abbandonavano senza aver provveduto a nominare un assistente e constatarlo
presente, almeno per quei due giorni;
perché
Luca
e Fabio Puglisi sostanzialmente e formalmente, oltre che infondatamente, hanno
sollevato dubbi diffamatori e calunniosi sulla correttezza dell’operato di
Antonio Giangrande, l’unico che si è adoperato in modo disinteressato ad
accudire al loro padre, nell’assoluto disinteresse dei figli, pur avendone
l’obbligo giuridico, Fabio e Luca Puglisi, che scaturisce dal contratto di
donazione modale per tutti i beni ricevuti dal padre.
Per
questi motivi
CHIEDE ALLA S.V.
La
certa condanna per violazione degli
articoli di legge che si riterrà di applicare, quali per esempio art. 591 c.p.
(persona incapace per malattia di corpo), art. 595 c.p. (diffamazione), art. 368
c.p. (calunnia), e per reati consumati, continuati, tentati, da soli o in
concorso con terzi, o di altre norme penali, con le aggravanti di rito, e
attivazione d’ufficio presso gli organi competenti per la violazione di norme
amministrative.
DETTO
QUESTO,
il
denunciante con tale atto presenta denuncia e denuncia-querela penale ed esposto
amministrativo contro i soggetti identificati, da soli, o in correità con
persone non conosciute, per gli atti e i fatti e per i reati applicabili,
scaturenti da una doverosa indagine, con istanza di punizione, con riserva di
costituzione di parte civile nell’instaurando procedimento penale. Inoltre si
chiede, come persona offesa dal reato, che gli venga comunicato ogni atto di cui
ha diritto di essere avvisato e in particolare modo quanto previsto dagli artt.
406 comma 3 c.p.p. (proroga del termine delle indagini preliminari) e 408 comma
2 c.p.p. (richiesta di archiviazione). Si oppone formale opposizione, ex art.459
c.p.p., alla richiesta dell’emissione del decreto penale di condanna.
Allegato: Lettera di Dimissioni.
Avetrana lì 17 maggio 2018
Antonio Giangrande
In
data 4 dicembre 2018 il dr Maurizio Carbone, sostituto procuratore della Procura
della Repubblica di Taranto, chiedeva l’archiviazione del procedimento.