Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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PARLIAMO
DI ALDO MORO
di antonio giangrande
DI ANTONIO GIANGRANDE
Da Cinquantamila.corriere.it
Da Corriereobjects.it
Da Wikimedia.org
Da Rai.tv
Da Il SecoloXIX.it
Da Rai.tv
Da Giornalettismo.com
Da Blitzquotidiano.it
Da i.res.24o.it
L’AFFAIRE MORO.
QUELLO CHE SI DICE E QUELLO CHE SI TACE.
LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA.
QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato.
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
Di Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.
SOMMARIO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
INTRODUZIONE.
LE STORIE DEI 5 UOMINI UCCISI DALLE BRIGATE ROSSE.
IL MEMORIALE DI MORO.
1978 L’ANNO DEI TRE PAPI.
ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO DEINDUSTRIALIZZARE.
ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO SOVIETIZZARE. IL TERRORISMO COMUNISTA-ISLAMISTA.
QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.
I 55 GIORNI DI MORO CHE CAMBIARONO LA STORIA D’ITALIA.
LA LETTERA CHE UCCISE MORO.
QUELLO CHE TORNA...
TUTTO QUELLO CHE NON TORNA.
QUELLO CHE NON DICONO.
ALBERTO FRANCESCHINI E LA VERITA' ACCETTABILE.
LA VERITA’ DICIBILE.
IL SEGRETO…
ALDO MORO ED I SALTIMBANCHI DELLA DIETROLOGIA.
CONTINUIAMO A RICORDARE (CIO’ CHE SI CERCA DI SCORDARE).
DOPO ALDO MORO. IN QUESTO MONDO DI LADRI.
PRIMA DI ALDO MORO. "PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
ALDO MORO. PALADINO DELLE MASSE.
COMMISSIONE MORO: SULLA VICENDA OPACITA' ED OMISSIONI.
ALDO MORO ED IL SIGNORAGGIO BANCARIO.
16 MARZO 1978. QUEL GIORNO DA CANI.
ALDO MORO....
IL CASO MORO.
ALDO MORO, LA GENUINITA’ DELLE LETTERE E LA TRATTATIVA.
LETTERE DI MORO DALLA "PRIGIONE DEL POPOLO".
ALDO MORO E LO SPARTITISMO.
L’ITALIA DELLE TRATTATIVE.
UN COMPROMESSO NON STORICO.
ALDO MORO. LA STORIA VA RISCRITTA.
COME MORI' MORO?
CHI VOLLE LA MORTE DI MORO?
SEQUESTRO MORO TRA MONTANELLI E SCIASCIA.
SEQUESTRO MORO: I SEGRETI.
SEQUESTRO MORO: LE COMMISSIONI D’INCHIESTA.
RILETTURA CRITICA DELLA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE E DEL RAPIMENTO DI ALDO MORO.
BRIGATE ROSSE E RISCRIZIONE DELLA STORIA: LE VERITA' NEGATE.
MAI DIRE DEPISTAGGIO…
RAPIMENTO DI ALDO MORO. LA POLIZIA SAPEVA E NULLA HA FATTO.
ALDO MORO ED IL COMPLOTTISMO.
ALDO MORO TRA BUFALE E DEPISTAGGI.
IL COMPLOTTO INTERNAZIONALE.
SEQUESTRO MORO: LA PISTA DELLA ‘NDRANGHETA.
IL SEQUESTRO MORO E LA CAMORRA.
IL SEQUESTRO MORO E COSA NOSTRA.
IL SEQUESTRO MORO E LA MASSONERIA.
IL SEQUESTRO MORO ED I SERVIZI SEGRETI ITALIANI.
IL SEQUESTRO MORO E GLI STATI UNITI.
IL SEQUESTRO MORO E L’UNIONE SOVIETICA.
PARLA ELEONORA CHIAVARELLI IN MORO.
PARLA AGNESE MORO.
PARLA GIOVANNI MORO.
PARLA MARIA FIDA MORO.
ALDO MORO: FU VERA GLORIA?
LA GIUSTIZIA RIPARATIVA PER UNA MEMORIA CONDIVISA.
APUZZO E FALCETTA: STRAGE DI ALCAMO: NON FU GLADIO (NEMMENO GULOTTA).
GLI SCHELETRI DELLA DC.
FRANCESCO COSSIGA.
FILMOGRAFIA SUL CASO MORO. PIAZZA DELLE CINQUE LUNE: STORIA O FINZIONE?
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
INTRODUZIONE.
Il “caso Moro”, Sciascia, Mattarella e la Sicilia, scrive il 22 giugno 2018 su "La Repubblica" Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice. Scriveva Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera nel 1982: «Si è parlato - e molti che non ne hanno parlato ci hanno creduto - della 'geometrica' perfezione di certe operazioni delle Brigate Rosse: e si è poi visto di che pasta sono fatti i brigatisti e come la loro efficienza venisse dall'altrui inefficienza. Arriveremo alla stessa constatazione - almeno lo spero - anche con la mafia». Già altrove lo scrittore siciliano era ricorso a rappresentare le due forze - terrorismo e mafia - come motrici entrambe degli omicidi Mattarella (Piersanti, ammazzato il 6 gennaio 1980) e Reina (Michele, ammazzato il 9 marzo 1979). Scriveva in particolare il 7 gennaio del 1980 sempre sul Corriere: «Io sono stato tra i pochissimi a credere che Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, fosse stato assassinato da terroristi. Terroristi magari un pò sui generis, come qui ogni cosa; ma terroristi. [...] Oggi di fronte all'assassinio del presidente della Regione Mattarella, quella mia ipotesi, che quasi mi ero convinto ad abbandonare, mi pare che torni a essere valida.» Giovanni Falcone, infatti, titolare della prima istruttoria sull'omicidio di Piersanti Mattarella aveva sin da subito indirizzato le indagini verso una pista nera per ciò che riguardava gli assassini materiali di cui chiese l'arresto nel 1986. Quella istruttoria culminò in una requisitoria depositata nel 1991 che poi non ebbe conferme giudiziarie ma che proprio recentemente ha di nuovo fatto capolino. Mattarella ha rappresentato in terra siciliana, per ciò che riguarda il compromesso storico fra PCI e DC, quello che Aldo Moro (con un percorso iniziato nel 1969 attraverso una sua "strategia dell'attenzione" verso il partito comunista italiano) è stato a livello nazionale, con tutte le specificità e le differenze che certo li caratterizzavano e che caratterizzavano le "due terre": la Sicilia spesso per anni un mondo a parte, e il resto d'Italia. Una differenza che anche si inserisce nella questione del compromesso in sé a livello nazionale. Chi si è opposto a logiche criminali come Mattarella e Reina si era anche opposto a un sistema di potere più complesso e ampio. Nel caso di Mattarella parliamo -secondo quanto emerse allora e permane come sospetto per il momento oggi - di terrorismo nero oltre all'intervento di Cosa Nostra. Per quanto riguarda il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro - strage degli agenti annessa-, l'evento spartiacque per gli equilibri nazionali indicativi per Moro di un cambiamento nel Paese al quale dare inizio, si è trattato di terrorismo rosso. Il colore politico, è ormai giunto il momento di dichiararlo con coraggio, cambia soltanto in funzione di dinamiche ma non di resa, di risultati. Cambiare approccio per ricostruire i cinquantacinque giorni del Caso Moro nella inchiesta da me condotta e culminata nel libro, "La Criminalità servente nel Caso Moro" ha significato certo attraversare quaranta anni di storia politico-criminale e di contesti politici nazionali e internazionali, ma non da ultimo ha inoltre significato raccogliere i fatti che conducevano verso quel filone, esaminarli in controluce ed esporli tutti in fila come se posti su un tavolo immaginario (anche se in realtà fisicamente è avvenuto proprio così), certo verificandoli. Lavorare su temi così complessi non può prescindere dall'analisi dei fatti e dei contesti insieme. Concentrarsi soltanto su uno dei due fattori rende il quadro intero sbilanciato nelle sue tinte. Così, la tavolozza che mano a mano ne è emersa non lasciava scampo: i vertici della criminalità organizzata e delle consorterie che la costituivano in quegli anni (attenzione non pedine o anche soltanto boss qualunque seppure di rilievo) hanno influito e operato nel Caso Moro, moltissimo. Non soltanto per ciò che riguarda le presenze di uomini della 'ndrangheta accertate o ancora da accertare sul luogo della strage, Via Fani, dove alle 9.02 del mattino la raffica di fuoco incrociato è partita, ma anche per quanto riguarda la gestione del sequestro fino alla consegna di Moro morto in Via Caetani, riverso nell'abitacolo di una Renault 4 rossa, e per le connivenze tra frange della lotta armata allineate alle BR e la criminalità organizzata e comune. A parte, poi, va considerato l'aspetto forse più noto al grande pubblico: il ruolo di alcune organizzazioni criminali nel tentativo di liberazione dell'onorevole Moro. Aspetto questo che ricostruito da me interamente dall'inizio, compiendo tabula rasa su quanto scritto e raccolto sino a quale momento da altri, ha anche fatto emergere dettagli e aneddoti rilevanti e nuovi per la comprensione dell'Affaire tutto. L'insieme di questa distesa di elementi conducevano tutti in Calabria: la 'ndrangheta, cresciuta nel corso degli anni all'ombra dei riflettori di una Cosa Nostra più 'spettacolare', infatti, rappresenta secondo quanto da me ricostruito la costante del Caso Moro e insieme la costante di altri eventi tragici che, come le ultime inchieste della Procura di Reggio Calabria certificano, ha attraversato questo Paese. Una costante operante quasi sempre con Cosa Nostra ma non necessariamente. Durante il corso delle indagini che la Commissione Parlamentare d'inchiesta sul caso stava svolgendo, ho seguito dunque un mio percorso investigativo parallelo supportato ovviamente dalla ricerca incessante e dallo studio degli atti passati e nuovi che come già svolto per un'altra inchiesta, quella sulla morte di Pier Paolo Pasolini, mi ha poi portato a sviscerare elementi inediti e anche alla ricostruzione di un contesto mai considerato prima in modo unitario. Fino a giungere agli anni della trattativa Stato-mafia così come la conosciamo, quella il cui processo di Palermo è da poco culminato a un primo grado di condanne e ad alcune assoluzioni (parziali o totali). Il cuore di questo libro-inchiesta è costituito da due punti principali: da un lato la spiegazione del "mistero" del falso comunicato del lago della Duchessa, legato alla scoperta del covo di Via Gradoli il 18 aprile del 1978 nel bel mezzo del sequestro, e l'emersione di una nuova prigione in cui Aldo Moro è stato di passaggio durante la sua prigionia: un covo non lontano dal lago stesso nella Sabina fra il Lazio e l'Umbria, luogo legato a sua volta sia a elementi della lotta armata sia alla criminalità; dall'altro, lo sviluppo delle inchieste del generale Dalla Chiesa e il giudice Vittorio Occorsio sulle morti dei quali pesa l'ombra sia della mafia sia del terrorismo: entrambi, infatti, stavano indagando su una struttura riservata composta da parti della massoneria, della criminalità organizzata, consorterie politiche e della magistratura, e di elementi del terrorismo di destra e di sinistra. Nel libro, tra le altre cose inedite, viene per la prima volta pubblicato l'estratto di un verbale sconosciuto alle cronache e alle ricostruzioni sin qui svolte, un verbale che porta proprio la firma del Generale. Intorno a questi due punti cardinali della inchiesta vengono da me sviluppati ulteriori fatti e risvolti a essi collegati. La "geometrica potenza" invocata da Sciascia, espressione usata in un articolo sequestrato a Franco Piperno leader di Potere Operaio, e operativo presso l'Università della Calabria, si dispiega tutta qui. Attraverso un metodo giornalistico che definisco "della piramide rovesciata" arrivo dunque al cuore del Caso Moro cercando di consegnare un pezzo di verità mancante di questo segreto usurato della Repubblica. Con le "prove" che un giornalista umilmente può portare. Il libro: “La criminalità servente nel Caso Moro”, La Nave di Teseo
Il Pantheon dei capri espiatori. La storia politica dell’Italia repubblicana raccontata attraverso l’odio per il singolo, scrive Francesco Damato il 17 Aprile 2018 su "Il Dubbio". L’articolo di Angela Azzaro in difesa del Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica. Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983 l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.
Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò addirittura al protagonista della ricostruzione post- bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica. Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. «Una fantasia», soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.
Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga – Il Borghese – fondato da Leo Longanesi.
Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centrosinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat. Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. «Non lasciatemi morire con Moro», si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo. Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi. In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della Repubblica conciliare, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico – mi disse l’ex presidente del Consiglio – che anche un imputato va assolto a parità di voti. Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc- Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli ‘ regalò’ – mi disse – il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora. Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.
Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.
Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.
Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con «una durezza senza uguali», certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.
Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci. Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia avendo «illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione – per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario», si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.
Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.
Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.
Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come ‘ il parolaio rosso’ per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.
Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea. Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.
Con una fuga di notizie infilzarono Craxi. 25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita. Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga. Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue. I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.
È Stato contro la mafia. Chi era per la linea dura. Il caso di Scotti e Martelli, scrive Francesco Bechis su Formiche.net il 22 aprile 2018. Dalle rogatorie dei pm del processo "Stato-Mafia" emerge un volto (buono) della politica che nessuno vuole raccontare: il caso degli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli. La politica esce malconcia, ma non distrutta, dalla sentenza della Corte d’Assise di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, in cui vertici dello istituzioni e delle forze armate si sarebbero ritrovati a scendere a patti con Cosa Nostra per porre fine alla stagione stragista del 1992-1993. Una sentenza di primo grado, che dunque lascia intatta la presunzione di innocenza degli imputati: è bene ricordarlo a chi, preso dall’euforia, ha dato per chiusa la fase processuale apertasi nel 2013. Se è giusto sottolineare l’impatto dirompente che la sentenza letta venerdì pomeriggio dal presidente della corte Alfredo Montalto avrà sullo scenario politico italiano, è altrettanto doveroso ricordare che non tutta la politica di quegli anni è finita sul banco degli imputati. Oltre all’ex ministro Nicola Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non sussiste”, la chiusura della prima fase del processo lascia integra, fra le altre, la figura di due uomini di Stato protagonisti di quella stagione politica che a più riprese sono stati sentiti dai magistrati in questi anni: l’ex ministro dell’Interno democristiano Vincenzo Scotti e l’ex ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli. E in particolare gli atti, le dichiarazioni e le vicende politiche dell’attuale presidente della Link Campus sono state usate come supporto delle tesi accusatorie, confermando la totale estraneità di Scotti e Martelli ai fatti al vaglio dei pubblici ministeri. La lunga requisitoria dei pm ha fatto ampio ricorso alla vicenda pubblica di Scotti, che fu a capo del Viminale dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992. Significativi a riguardo alcuni stralci tratti dall’esposizione degli elementi accusatori da parte del pm Roberto Tartaglia il 14 dicembre del 2017 e del pm Nino Di Matteo il 15 dicembre e l’11 gennaio 2018. Secondo l’accusa tre sono i passaggi che provano la ferrea volontà dell' “asse Scotti-Martelli” nella lotta senza compromessi contro la mafia. Il primo consiste nel “cambio di passo” impresso da Scotti alla politica di contrasto alla criminalità organizzata una volta ottenuto l’incarico agli Interni. Spiega Tartaglia il 14/12: “Cosa Nostra vede in questi tre soggetti e in questi tre poli (Scotti, Martelli, Falcone), l’emblema, l’immagine del cambiamento dell’azione politica […]”. Un cambio di passo che prese forma in una serie di iniziative concrete. Decisivo, ha spiegato Tartaglia, fu il decreto legge n. 60 del 1 marzo 1991 che delegava all’ “interpretazione autentica” del governo il calcolo della decorrenza dei termini di custodia cautelare. Un intervento che rimise in carcere 43 imputati mafiosi del maxi-processo che meno di un mese prima erano stati liberati dopo una condanna di primo grado e che il pm nella requisitoria definisce “un segnale devastante per le aspettative di Cosa Nostra”. Rilevanti nella lotta alla mafia furono due riforme giudiziarie introdotte dall’allora guardasigilli: la regola della turnazione nei ricorsi di mafia in deroga del principio di competenza per materia, e infine l’introduzione, il 15 gennaio del 1993, del 41-bis, il regime carcerario duro per i mafiosi la cui paternità ancora oggi Martelli rivendica con orgoglio. Poi il secondo passaggio della requisitoria che sottolinea la linea di fermezza del ministro Scotti con il crimine organizzato: si tratta delle sue prese di posizione pubbliche durante il mandato, dove non mancò mai di mettere al corrente l’opinione pubblica e gli organi dello Stato di un piano “sovversivo” di Cosa Nostra. Riecheggiano ancora oggi le dure parole del titolare del Viminale, a pochi giorni dall’omicidio di Salvo Lima, in un’audizione parlamentare del 17 marzo 1992: “Oggi, dopo questo omicidio, siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni ma a piegarne gli apparati ai propri fini, a condizionarli”. Preoccupazioni ribadite il 20 marzo successivo davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato: “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità: io me ne assumo tutta la responsabilità”. L’allora premier Giulio Andreotti definì “una patacca” l’allarmismo del suo ministro, scatenando involontariamente un polverone mediatico che non fu privo di strumentalizzazioni. A dare ulteriore conferma della rettitudine dell’operato di Scotti e Martelli, secondo i pm del processo sulla “trattativa”, ci sarebbe infine la tesi del “golpe bianco”. Nella requisitoria dello scorso 11 gennaio il pm Nino Di Matteo sostiene che la “prima condizione essenziale nel 1992 per portare avanti la linea del dialogo con la mafia era quella di cacciare Scotti dalla titolarità del Viminale”. L’avvicendamento del ministro dell’Interno con Nicola Mancino nel giugno 1992, che portò Scotti alla guida della Farnesina (su indicazione del presidente della Dc Ciriaco De Mita) mentre Giuliano Amato entrava a Palazzo Chigi, fu letto da molti come un promoveatur ut amoveatur. Anche l’uscita di Martelli dal Ministero della Giustizia nel febbraio del 1993 attirò gli stessi sospetti. Di Matteo è sicuro che non si è trattato di due semplici avvicendamenti: il pm palermitano l’11 gennaio ha affermato che è stata messa in atto piuttosto una strategia per “liberarsi di chi della contrapposta linea del rigore e delle intransigenza aveva fatto la sua bandiera e lo aveva dimostrato con i fatti”. Chiamato a parlare davanti alla Corte d’Assise di Palermo, Martelli in questi anni ha confermato la tesi della “rimozione forzata” del 1993, dovuta soprattutto, a suo parere, all’introduzione del 41-bis. Scotti invece ha preferito una linea di maggior riserbo, pur avendo manifestato davanti ai giudici le sue perplessità su quel cambio di vertice al Viminale.
«Il teorema è stato smontato, chiedo scusa per il silenzio. A 86 anni posso dare consigli ma avrei bisogno di orecchie pronte ad ascoltare»: Nicola Mancino riabbraccia Avellino, scrive Luigi Salvati il 24 aprile 2018 su "Orticalab.it". «Il teorema è stato smontato, chiedo scusa per il silenzio. A 86 anni posso dare consigli ma avrei bisogno di orecchie pronte ad ascoltare»: Nicola Mancino riabbraccia Avellino. L’ex Ministro degli Interni parla dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia che lo ha visto scagionato dall’accusa di falsa testimonianza: «Diventare all’improvviso protagonista delle cronache giudiziarie è stato un colpo duro inferto nei confronti ma io ho sempre rispettato lo Stato e ho sempre ritenuto che lo Stato non può scendere a trattative con la mafia, la camorra o la malavita organizzata. Mi sono piegato nel silenzio provando sempre ad onorare le mie origini. Se vi ho fatto nascere il sospetto che io potessi non essere un uomo della legge, vi chiedo scusa». Su una possibile candidatura per la Città: «Avellino ha bisogno di una classe dirigente nuova che si innamori del ruolo». «Questa sentenza recita che il fatto non sussiste. Il “fatto” ha un’origine che è l’inchiesta e un “non sussiste” che è la sentenza. Ma se non sussiste vuol dire che non sussiste nelle radici. Per quel che mi riguarda ho sempre rispettato lo Stato e ho sempre ritenuto che lo Stato non può scendere a trattative con la mafia, la camorra o la malavita organizzata. Mi sono difeso a fronte di un pregiudizio e ho giurato di aver onorato l’Italia. Finalmente il teorema è venuto meno»: emozionato ma non commosso, l’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino parla dopo la sentenza sulla trattativa Stato-mafia che lo ha visto scagionato dall’accusa di falsa testimonianza. Ad attendere, al Circolo della stampa, ci sono tanti amici di vecchia data, tante persone che hanno condiviso con lui un lungo percorso politico e tanti esponenti della società civile. Tutti presenti e in religioso silenzio ad ascoltare il monologo dell’ex Vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura che si arriva a piedi, sereno in volto, sorridente come non lo si vedeva da troppo tempo. «Non è facile parlare sia pure dopo una sentenza favorevole che ha mobilitato dirigenti, amici, responsabili della politica, persone appartenenti al mondo della cultura e dell’università - ha esordito Mancino - ma dovevo e devo delle spiegazioni oltre a dover ricordare alcuni passaggi di una storia che mi ha messo in un angolo. Dal 2008 si è sviluppato un teorema nei miei confronti forse perché avevo accettato di diventare Ministro dell’Interno, carica importante ma che io non avevo richiesto. Sono stato al centro di una spiacevole vicenda e la ragione di questa conferenza è anche quella di chiedere scusa alla comunità. Diventare all’improvviso protagonista delle cronache giudiziarie è stato un colpo duro inferto nei confronti di una persona che ha risposto ad indirizzi di carattere politico e all’assunzione di responsabilità». In piena tangentopoli, Mancino spiega che non si sarebbe mai sognato di fare pressioni per ottenere la carica occupata in precedenza da Vincenzo Scotti poi diventato Ministro degli esteri e di aver accettato per «determinazione e senso dello Stato, quello per cui mi sono adoperato per combattere una presenza malavitosa tanto in Sicilia quanto in tutto il territorio italiano. Mi insediai pochi mesi dopo la strage di Capaci che vide la morte del giudice Falcone e pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio che vide la morte del giudice Borsellino che io, come ho detto in tribunale, non conoscevo personalmente, ma non ho mai escluso di avergli potuto stringere la mano. Sono stato protagonista involontario di tanti libri che parlavano di una mia reticenza nel voler ammettere di essere amico del giudice Borsellino nonostante a conferma della mia tesi ci sia anche una sentenza che avrebbe potuto tranquillamente chiudere il caso». E invece no, il teorema nato per contestare la legittimità della sua nomina a ministro dell’Interno è andato avanti. «Doveva avere il suo percorso - ha continuato Mancino - ma io ho sempre protestato contro il teorema, rimasto tale anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio. Difendere il mio onore tuttavia era un diritto-dovere nei confronti della gente che mi aveva votato perché credeva che la potessi rappresentare. Non ho mai saputo nulla della trattativa e l’ho affermato sotto giuramento anche di fronte alla corte che mi ha giudicato. Tra un po’ ricorre il 40esimo anniversario della morte di Aldo Moro di cui ero molto amico e ricordo che fui uno di quelli a dire che con le brigate rosse non ci poteva essere alcuna forma di trattativa, figuriamoci se io potevo accettare che si trattasse con la criminalità organizzata». Sono tanti i bocconi amari che l’ex Ministro ha dovuto digerire: «i cinque anni di dibattimento, oltre a tutto quello che c’è stato prima, l’essere mischiato a personaggi malavitosi come Totò Riina o Bernardo Provenzano. Tra le altre cose Riina ebbe anche a dire che io ero un “nemico della mafia” ma non fu creduto. Io so solo di aver fatto sempre il mio dovere, di aver onorato il ruolo e di aver sempre considerato la norma un obbligo di accettazione da parte dei cittadini». L’unico passaggio in cui Mancino ha avuto un momento di titubanza è quando ha ammesso di avere paura di lasciare la vita terrena prima che venisse emessa la sentenza: «E’ morto Scalfaro, è morto Ciampi, sono morti altri. Pensavo che non avessero il coraggio di andare a sentenza. E invece c’è stata. Per mio carattere mi sono messo in un angolo con una preoccupazione: in caso di sentenza non favorevole cosa avrebbero pensato di me le persone che mi conoscono. Mi sono piegato nel silenzio provando sempre ad onorare le mie origini. Se vi ho fatto nascere il sospetto che io potessi non essere un uomo della legge, vi chiedo scusa. Ma io ho rispettato lo Stato perché lo Stato non può scendere a trattative. Deve essere limpido perbene. La sentenza è stata letta con grande senso di equilibrio. Non mi sono rallegrato ma mi sono compiaciuto. C’è un giudice anche a Palermo e vorrei che questo giudice fosse presente in tutta Italia. Abbiamo bisogno di giustizia». Prima degli abbracci e delle strette di mano, c’è stato il tempo per rivolgere una domanda all’ex ministro sul futuro della città. «Ottantasei anni sono ottantasei anni - ha concluso - posso dare suggerimenti ma Avellino ha bisogno di una classe dirigente nuova che si innamori del ruolo. Ci sono troppi improvvisatori. Dai consiglieri comunali, ai regionali, ai parlamentari sono troppi quelli che ritengono di essere leader. Mi chiedo, che fine hanno fatto i circoli? La classe dirigente deve avere il coraggio di ascoltare, di dialogare. A mancare non è il politico in sé ma la politica e il politico preparato. Non mi avventuro in esperienze che non posso affrontare. Ringrazio la fortuna e Dio per essere ancora qui e guardo avanti».
Piperno: «Si poteva salvare Moro. Gotor? Scrive balle», scrive Paolo Persichetti il 26 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Intervista a Franco Piperno, professore di fisica e fondatore di Potere Operaio. Il sequestro Moro poteva concludersi senza la morte dell’ostaggio? Franco Piperno ribadisce che era possibile. Tutto ruota attorno ai giorni concitati d’inizio maggio ‘ 78, dopo la telefonata di Mario Moretti (leader delle Br) del 30 aprile alla famiglia dello statista democristiano e il comunicato Br nel quale figurava quel gerundio – «eseguendo la sentenza» – che di fatto rimandava l’esecuzione. L’iniziativa socialista aveva aperto un canale di comunicazione ed ai brigatisti era stato detto che il 7 maggio Fanfani avrebbe fatto un’importante dichiarazione di apertura. Perché tacque? Il suo silenzio fu la conseguenza di una interferenza del Pci, che, forte dei suoi voti indispensabili per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, aveva validi argomenti per condizionare le decisioni del Presidente del Senato, uno dei pretendenti più quotati? Durante le trattative per la formazione del nuovo governo, Fanfani aveva cercato di scavalcare a sinistra Moro proponendo un governo d’emergenza con la partecipazione diretta dei comunisti. Ne scrive sui suoi Diari un infastidito Andreotti e lo testimonia l’ambasciatore Usa Gardner, allarmatissimo ma poi rassicurato dall’opzione ben più moderata di Moro che tenne fuori dal governo i tre ministri tecnici indicati dal Pci, rompendo gli accordi presi da Zaccagnini, pronto a dimettersi, e dallo stesso Andreotti. Franco Piperno giocò un ruolo chiave attorno a quell’abbozzo di trattativa che però non riuscì a conseguire il suo scopo. Una lacerazione della «linea della fermezza» che ancora oggi disturba la storiografia ispirata a quelle posizioni e che a distanza di quarant’anni non rinuncia a lanciare i propri strali dietrologici, calunniando i protagonisti di quella complicata vicenda. Sul Fatto Quotidiano del 6 e del 20 aprile Miguel Gotor ha tirato in ballo nella intricata vicenda di via Gradoli la responsabilità di Franco Piperno, figura di spicco del ’ 68, tra i fondatori di Potere operaio, coinvolto nei processi 7 aprile e Metropoli. Secondo l’ex parlamentare, già membro della Commissione Moro, dietro la messa in scena della seduta spiritica che si tenne il 2 aprile 1978 a Zappolino, piccola frazione distante una trentina di chilometri da Bologna, nella casa di campagna del professor Clò, presenti Romano Prodi ed altri docenti universitari, che negli anni successivi saranno destinati ad incarichi di governo, ci sarebbe stata la “soffiata” di «un esponente di prestigio dell’area dell’eversione». Piperno avrebbe fornito il suggerimento al futuro ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, secondo alcune voci mai confermate presente anch’egli alla seduta spiritica, approfittando del fatto che fosse fondatore e rettore dell’Unical, l’università della Calabria, dove Piperno stesso era docente di fisica. In via Gradoli, situata nella zona Nord di Roma, il 18 aprile 1978 i Vigili del fuoco, chiamati per una perdita d’acqua, scoprirono una importante base delle Brigate rosse, affittata nel dicembre 1975 all’ingegner Borghi, alias Mario Moretti. La preziosa informazione – lascia intendere Gotor – sarebbe pervenuta all’ex esponente di Potop dalla proprietaria dell’appartamento di via Gradoli: i due si sarebbero conosciuti alla fine degli anni ‘ 60 per via della comune frequentazione del Cnen, il centro di ricerca nucleare di Frascati. Gotor, sostenitore della tesi che il danno d’acqua non fosse casuale, solleva ulteriori sospetti, ipotizzando che «un brigatista dissidente, un esponente dell’area dell’autonomia collaborativo con lo Stato o un agente dell’antiterrorismo» possa essere entrato nell’appartamento la mattina del 18 aprile, dopo l’uscita di Balzerani e Moretti che quella sera non sarebbe dovuto rientrare, con l’obiettivo di provare a recuperare gli scritti di Moro, sperando fossero nell’appartamento e poi provocare il danno d’acqua che fece cadere la base. Tuttavia nel corso della fantomatica seduta spiritica emerse un’indicazione molto diversa dalla strada dove qualche settimana dopo venne rinvenuta la base brigatista. Nell’appunto manoscritto, subito girato al capo della polizia Parlato, redatto da Luigi Zanda, collaboratore del ministro dell’Interno Cossiga, che il 5 aprile ricevette la segnalazione da Umberto Cavina, addetto stampa di Benigno Zaccagnini, a suo volta informato il giorno precedente da Romano Prodi di passaggio a Roma, è annotato: « Caro dottore, ecco le indicazioni di cui s’è detto: Via Monreale 28, scala D, int. 1, piano terreno, Milano; lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina». Per giustificare questa incongruenza, Gotor inventa la categoria del “depistaggio a fini informativi”, attribuendo a Piperno una sofisticata strategia che mescolando vero e falso avrebbe mirato a « provocare il fallimento dell’azione Moro senza far arrestare Moretti, che era un avversario politico con una diversa prospettiva rivoluzionaria, non un nemico da tradire », per facilitare la riuscita della soluzione negoziata del sequestro nei giorni in cui il vertice socialista si era attivato in questa direzione.
Abbiamo chiesto a Franco Piperno come ci si sente ad essere raffigurato nei panni di una sorta di Cagliostro, burattinaio che tira le fila di un gioco spregiudicato.
«Penso che sia la personalità irrisolta di Gotor ad assegnarmi un ruolo del genere; non a caso dagli scrittori di libri polizieschi il Nostro viene ritenuto uno storico mentre secondo gli storici siamo in presenza di un romanziere. In ogni caso, ad essere sincero, non posso certo dire che sia il prof. Gotor ad avermi calunniato di più. Ben prima dei suoi articoli sul Fatto Quotidiano, sul finire degli anni ‘ 70 mi hanno fatto decisamente di peggio, sono stato accusato, dalla Procura di Padova e poi da quella di Roma, oltre che del delitto Moro, di ben 20 omicidi e 15 rapine; e, per non farmi mancare niente, ci si mise anche la giornalista americana Clara Sterling: in un suo libro sull’Italia di quegli anni scrisse che la Cia aveva accertato come io fossi un agente segreto comunista, educato alla guerriglia a Praga, frequentando i corsi tenuti nella capitale cecoslovacca direttamente dal Kgb».
Una spia dell’Est? Proprio tu che conoscevi i dirigenti del Kor, il Comitato di difesa degli operai polacchi?
«Già, li incontrai tutti insieme nel dicembre del 1978: Jacek Kuron, Adam Michnik e gli altri. Non a caso ci fu poi chi per compensare provò a dire che lavoravo per la Cia perché ero riparato in Canada».
Ma non ti era stato rifiutato l’ingresso quando su invito del Mit di Cambridge ti eri recato negli Usa?
«Fu quella la ragione per cui poi mi ritrovai nel Quebec, in Canada, tra i pellerossa».
Quindi smentisci di aver mai parlato con Andreatta?
«Faccio molta fatica a prendere sul serio ricostruzioni del genere. Sono arrivato all’università di Cosenza solo all’inizio del 1975, In precedenza ero docente al Politecnico di Milano. All’epoca il rettore dell’Unical era Cesare Roda, Andreatta aveva l’asciato l’università calabrese l’anno precedente; e nel 1976 venne eletto per la prima volta in Parlamento. Non ho mai avuto occasione di conoscerlo. Mi par di capire che Gotor non si sia per nulla informato prima di scrivere».
E via Gradoli? Una vecchia nota di Ansoino Andreassi, funzionario dell’Ucigos, del 6 luglio 1979 riferiva, non sulla base di documenti amministrativi accertati ma di voci provenienti da fonti riservate, originate dal Sismi e dalla questura di Genova, che avresti conosciuto fin dal 1969, al Cnen della Casaccia, Luciana Bozzi, proprietaria dell’appartamento di via Gradoli. Per tenere in piedi le sue congetture, in barba all’Ucigos, Gotor sposta addirittura la Bozzi a Frascati mentre l’informativa della polizia la colloca alla Casaccia, oltretutto il contratto fu stipulato da Moretti col marito della Bozzi, anch’egli coproprietario.
«Infatti, ho fatto la mia tesi e poi la specializzazione in fisica della fusione nucleare al Cnen di Frascati, non ho mai frequentato la Casaccia e il nome di Luciana Bozzi non mi dice assolutamente nulla».
La seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, allude ad un tuo ruolo di supervisore del sequestro. Un suo consulente, il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, afferma che la mattina del 16 marzo dalle finestre dell’abitazione della signora Birgit Kraatz, descritta come un’esponente del gruppo sovversivo tedesco «2 giugno», in via dei Massimi 91, avresti osservato i movimenti del commando brigatista verificando che tutto procedesse come previsto: il parcheggio delle vetture nel garage della palazzina dello Ior e il trasbordo di Moro nell’attico. Siamo al delirio?
«Anche oltre! Birgit Kraatz era una giornalista assolutamente ben introdotta nei circoli della stampa e del mondo politico romano. L’ho conosciuta nei primi anni ‘ 70 in occasione di una intervista sul movimento studentesco romano rilasciata per Der Spiegel, il giornale di cui in quegli anni era corrispondente. Niente più lontano dalla intelligenza e dalla sensibilità della signora Kraatz il ruolo di sorvegliante delle prestazioni dei brigatisti. In effetti aver tirato in ballo il nome della signora Kraatz appare l’ennesimo incredibile infortunio di questa commissione. Non solo è iscritta alla Spd dal ‘ 74, e di fatto ha curato i rapporti della socialdemocrazia tedesca con la sinistra italiana, in modo particolare col Pci, intervistando nel 1976 lo stesso Berlinguer (è citata persino nella biografia scritta da Chiara Valentini), ma è stata corrispondente per più di trent’anni oltre che di Der Spiegel, dello Stern e ZDF, ha scritto un libro intervista con Willy Brandt, pubblicato da Editori riuniti».
C’è un episodio molto importante che smentisce alla radice quanto afferma Gotor: poche settimane dopo la morte di Moro hai incontrato Mario Moretti. Perché?
«La richiesta era venuta dalle Br; l’incontro, come ho riferito alla Commissione presieduta dall’on. Pellegrino, si svolse in un appartamento del quartiere Prati».
In commissione Stragi ad una precisa domanda dicesti che ad aprire la porta era stato un maggiordomo. L’episodio suggestionò molto la fantasia dei commissari: il Presidente Pellegrino vi intravide la presenza di «inquietanti zone di contiguità» che negli anni successivi hanno alimentato la pubblicistica cospirazionista.
«Il maggiordomo con i guanti era un modo metaforico per sottolineare la qualità alto- borghese dell’appartamento».
Insomma li hai presi in giro e loro ci hanno creduto. Cosa volevano sapere le Br?
«Moretti ed i suoi avevano chiesto d’incontrarmi con urgenza per ricostruire l’insuccesso della trattativa ma anche per chiarire se ci fosse stata una nostra influenza esterna sui loro militanti provenienti da Potop. Volevano capire se la vicenda della trattativa fosse stata una nostra costruzione per orientare il sequestro. Nonostante queste premesse la discussione si concentrò subito sul silenzio di Fanfani. Volevano capire perché il presidente del Senato non parlò il 7 maggio smentendo l’impegno preso. Lì mi resi conto di quanto le Brigate rosse avessero preso sul serio quei segnali di apertura e capii che il sequestro avrebbe potuto avere un esito diverso se solo ci fosse stata quella dichiarazione annunciata».
Come sei finito in questa storia?
«In realtà all’inizio furono Scialoia e Mieli a contattarmi per conto di Livio Zanetti, che conoscevo perché l’Espresso da lui diretto aveva seguito tutto il ‘ 68. Zanetti mi fece capire che c’era una forte insistenza dei socialisti per aprire una trattativa. Fu lui a mettermi in contatto con Signorile, vice segretario del Psi che si muoveva per conto di Craxi. Il segretario non voleva esporsi direttamente, lo incontrai personalmente solo alcune settimane dopo la morte di Moro. Inizialmente ero restio a farmi coinvolgere malgrado fossi assolutamente consapevole che l’eventuale uccisione di Moro avrebbe provocato una repressione tragicamente liberticida per tutti i movimenti antagonisti di quegli anni. Per altro, il mio trasferimento in Calabria mi aveva allontanato dalla militanza politica; oltre ad insegnare, dirigevo un dipartimento universitario sicché mi restava poco o nessun tempo per l’attività politica extra- accademica. Poi, a metà aprile accadde qualcosa destinata a mutare non solo il mio umore ma la mia vita stessa: Fiora Pirri Ardizzone, allora mia moglie, venne arrestata ed accusata di aver partecipato al rapimento di Moro in via Fani ed all’uccisione degli uomini della scorta. Un testimone aveva scambiato il suo volto con quello di una donna del commando, quando in realtà quella mattina Fiora partecipava ad una assemblea universitaria a Cosenza. Di conseguenza riorganizzai da cima a fondo la mia agenda, rimandai l’impegno di “visiting professor” assunto con il Mit di Boston e mi lasciai afferrare dal dramma che, per altro, l’intero nostro Paese stava vivendo. Cosi, una settimana dopo quell’arresto, mi recai a Roma per incontrare Zanetti e poi Signorile. A maggio il direttore dell’Espresso mi chiese un articolo sulla trattativa che ebbe un destino singolare: apparso il giorno del ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani, dopo 5 ore fu ritirato dalle edicole e inviato al macero. Nel dicembre del 1978 ripresi e sviluppai quel testo che uscì su Pre-print col titolo «Dal terrorismo alla guerriglia»».
Quello che riprendeva il verso di Yeats, «coniugare insieme la terribile bellezza del 12 marzo del ‘ 77 per le strade di Roma con la geometrica potenza dispiegata in via Fani»?
«Sì, nel testo ragionavo cercando di spiegare perché era meglio liberare Moro. Al tempo stesso tentavo di aprire un discorso sulla lotta armata legandola al carattere insurrezionale della manifestazione del 12 marzo. Quel giorno ero di passaggio in città perché dovevo raggiungere la fiera di Lipsia, allora nella Ddr, dove avevo un appuntamento con degli armeni per acquistare un computer necessario al Dipartimento di Fisica che allora dirigevo. Per inciso la “macchina socialistica” costava all’epoca un decimo della sua analoga “capitalistica”, ma occupava uno spazio venti volte maggiore – insomma fu un viaggio inutile, salvo il fatto che per caso mi offrì l’occasione, nel pomeriggio di quel fatale giorno di marzo, di partecipare ad un vero e proprio tentativo insurrezionale. Nel centro storico di Roma, tutti i negozi e perfino i bar erano chiusi: per le strade ed i vicoli si svolgevano durissimi scontri tra manifestanti e gendarmi, scontri nei quali gli abitanti, per esempio quelli di Campo de Fiori, fraternizzavamo attivamente con i dimostranti. Ricordo un fruttivendolo che aveva riaperto il suo negozio per dare rifugio ai feriti; così come un’armeria su Lungotevere presa d’assalto e saccheggiata dalla folla in tumulto. Prima di quel pomeriggio di marzo, nei miei non brevi anni di militanza, non avevo mai partecipato o anche solo assistito ad una esperienza di ribellione sociale, per dir così, allo stato nascente. Da qui l’immagine sulla «terribile bellezza» che riprendeva gli scontri della Pasqua irlandese del 1916».
Secondo te perché Fanfani non parlò?
«Ritengo che ci fu un intervento molto forte del Pci, una pressione che fece venir meno l’impegno preso. Io penso che Fanfani avesse informato il Pci del suo intento. Non poteva fare diversamente anche per il ruolo istituzionale che rivestiva. Signorile non aveva parlato solo con Craxi ma anche con altri politici. Di sicuro ne era al corrente il Presidente della Repubblica Leone, il suo addetto militare, ovviamente i vertici socialisti e del partito democristiano. Lo sapevano in troppi perché la cosa non fosse circolata e pervenuta al Pci».
In effetti il 2 di maggio Berlinguer aveva visto Craxi e Balzamo. Durante l’incontro i socialisti spiegarono che un modo possibile per salvare la vita di Moro sarebbe stato, per esempio, la scarcerazione anche di un solo detenuto politico con problemi di salute ed in regime di carcerazione preventiva. Berlinguer era radicalmente contrario a qualsiasi concessione favorevole ai brigatisti; piuttosto si mostrava, come un commissario della polizia politica, interessato ad avere informazioni sui canali di cui si avvalevano i socialisti e che li rendevano sicuri di una possibile liberazione dell’ostaggio. In ogni caso, bisogna pur dire che il tentativo dei socialisti, nel quale fosti coinvolto e travolto, non riuscì e vinse il partito della «fermezza repubblicana», quello che aveva rimosso ogni autocritica e si mostrava disposto a sacrificare la vita di Moro. In un primo momento Fanfani si era mostrato disponibile ad intervenire pubblicamente: Signorile lo aveva incontrato per la sua posizione critica rispetto alla linea della fermezza ed aveva ricevuto rassicurazioni. Alle Br giunse questa informazione: «Fanfani ha una disponibilità ad ascoltare le richieste delle Br purché queste non comportino inaccettabili violazioni della legalità». Ad esempio: alleggerire le condizioni carcerarie, al limite della tortura, alle quali erano sottoposti migliaia di detenuti politici. La domenica invece parlò Bartolomei, credo ad Arezzo, dove pronunciò un bla bla incomprensibile e inaccettabile a livello di senso comune. Noi che eravamo della partita riuscimmo a percepire nelle sfumature di una frase, un esile messaggio. Ma non era questo il segnale atteso. Per i brigatisti che si aspettavano una dichiarazione chiara e netta quel discorso suonò come un rifiuto. Signorile ha raccontato che davanti a lui Fanfani aveva dato istruzioni telefoniche a Bartolomei su cosa dire mentre si era riservato di prendere la parola nella riunione di Direzione prevista il 9 maggio. Ma alla fine non disse nulla neanche in quella sede, basta leggere i suoi diari. La notizia del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani arrivò dopo il suo intervento.
«Risulta anche a me. Credo che questo repentino cambio di atteggiamento riassuma il nodo politico della vicenda: Fanfani fece un passo indietro su pressione del Pci».
LE STORIE DEI 5 UOMINI UCCISI DALLE BRIGATE ROSSE.
La Peugeot 403 «famigliare» di Aldo Moro ritrovata a Roma. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Giosuè Boetto Cohen su Corriere.it. Improvvisamente l’annuncio: un medico pugliese, Attilio Cesarano, ha scoperto in un capannone a Roma una vecchia Peugeot giardinetta. E’ di un bel blu mare, ha le targhe e i documenti originali. E’ intestata ad Aldo Moro e alla moglie Eleonora. Dall’archivio della Associated Press sbuca anche una «telefoto» che li ritrae a bordo: è il 20 aprile 1970, giorno delle nozze d’argento. Al volante c’è la signora. Così inizia la seconda vita della Peugeot 403 «familiale» acquistata il 23 gennaio 1960 - come recita il libretto di circolazione - dall’ «Onorevole Moro, residente a Bari in corso Vittorio Emanuele 20 barra A». Non è la Fiat 130 blu tallonata da una Alfetta, crivellate di colpi e trasformate in una icona del Ventesimo secolo. E nemmeno quella Renault 4 rossa, con il bagagliaio tragicamente aperto. Questa è un’auto privatissima, a otto posti, per portare a spasso una famiglia di sei persone e – magari – una governante. Quando andò in concessionaria per prenotarla Moro era deputato, segretario della DC, da poco ex ministro della Pubblica Istruzione e quasi pronto per diventare presidente del Consiglio. Decise per una delle rare 403 importate in Italia, così semplice e fuori moda da non dare proprio nell’occhio. Per questo era stata scelta. Marito e moglie d’accordo, ci si potrebbe scommettere. La memoria corre alla amata «Noretta» delle lettere dalla prigione. La donna minuta, austera, che sembrava sola contro tutti. Quella che riusciva a dire «mi scusi» se, al telefono, parlava sopra la voce al brigatista. La stessa che chiuse, senza appello, i funerali agli uomini dello Stato. E forse anche al Papa. E’ proprio lei, Eleonora, la vera padrona dell’auto. Moro praticamente non guidava. Lo ricordano in tanti e lo dice quella foto, bellissima, che racchiude lo spirito della 403. Alla guida una donna tranquilla, sorridente. E il trasportato che ammicca dall’altro sedile, con l’aria mite, un po’ altrove, con cui l’uomo della strada lo ricordava. La 403 blu visse molte primavere, con le sue tre file di sedili piene di giovani Moro e di amici, cugini, chissà. Viaggiò tra Roma e le Puglie nelle vacanze. Ma era anche la macchina per andare a fare la spesa al quartiere Prati. Poi venne la notte immane. Chissà se Noretta aveva ancora la forza di guidare, dopo quel 1978? Forse il volante passò alle figlie minori, che ancora vivevano in casa. O all’unico maschio, Giovanni, patentato da poco, ma che facilmente ambiva a qualcosa di diverso. Così la 403 cominciò a dormire sonni sempre più lunghi, posteggiata in un capannone a Monteverde, non troppo lontano da casa. Settimane di oblio che divennero mesi, quando da casa si allontanò lei, perché nessuno dei Moro abitava più là. Nel capannone si caricavano sacchi di calce e cemento, e la polvere cadde sull’azzurro mare delle fiancate, rese ciechi i vetri, spense le cromature. I nidi di rondine sulle capriate non aiutarono, mamma topo fece il nido dietro il cruscotto, i suoi piccoli impararono a rosicchiare sui pomelli del cruscotto. Il capomastro ogni tanto le dava una pulita, gonfiava le gomme, provava a far girare il motore. Quasi come se la signora Moro dovesse tornare l’indomani a riprendersela. Ma nessuno venne. I Moro si erano dimenticati della loro 403. Così un giorno, dopo l’ennesimo colpo di straccio su un sporco che sembrava indomabile, il custode decise che era ora di smetterla. Che andassero tutti alla malora. Chiuse bofonchiando il portone abbandonò l’auto al suo destino. Dopo una decina d’anni il deposito fu venduto e il nuovo proprietario vi trovò dentro quel mucchio di polvere con le ruote. Nessuno, mai, era venuto a cercarla, perché da qualche parte, lontano, in silenzio, la forte Noretta si era spenta anche lei. All’inizio del 2018 il magazzino cambiò di nuovo proprietario. E prima di traslocare, il vecchio parlò col suo medico di fiducia, Attilio Cesarano, procidano d’origine, pugliese di adozione, conterraneo di Moro. «Perché non la prende lei, dotto’? Mandarla alla monnezza, sarebbe un peccato».
Dai delitti delle Br alle trame della P2: la storia italiana negli archivi del tribunale di Milano. Nell'ufficio corpi di reato sono custoditi i volantini delle Br, i nastri con le telefonate minatorie a Giorgio Ambrosoli, la bici del terrorista Alunni e tantissimi documenti legati alle inchieste sugli anni di Piombo. Massimo Pisa il 07 luglio 2019 su La Repubblica. Il pacco 51186 è alto e largo come una risma di carta. E quella contiene, grosso modo. Volantini, appena più di un migliaio: "nr. 320 rinvenuti in data 25.4.78 alle ore 7,00 in piazza S.Babila; nr. 188 in Piazza Beccaria...". Così usava allora, con le rivendicazioni degli omicidi delle Brigate Rosse lasciate a mazzi in vari punti della città. Per dimostrare, anche in questo modo, che loro - i brigatisti - la città la controllavano e si muovevano come volevano. In quel mattino di martedì, con Milano e l'Italia appese da quaranta giorni alle sorti di Aldo Moro, l'omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo della Penitenziaria di San Vittore era già vecchio di cinque giorni, già dimenticato. Quei deliri con la stella a cinque punte lo additavano come "torturatore" della colonna Walter Alasia. Non era vero, lo sapevano soprattutto i detenuti. Digos, carabinieri e vigili raccolsero quei 1.025 fogli. Divennero un unico corpo di reato da conservare fino al processo. Divennero questo pacco ancora annodato con lo spago e sigillato a piombo, con l'elenco del contenuto battuto a macchina in puro "poliziottese", che dorme da quarantun'anni con migliaia di altri reperti nella stanza quattro di uno dei corridoi dell'Ufficio corpi di reato del tribunale. Due scaffali enormi, sono quelli su cui sono appoggiati i reperti degli Anni di piombo. I pezzi superstiti. Quelli non ancora reclamati da nessuno, non restituiti agli aventi diritto, non ancora consegnati a un museo, a una fondazione, alla storia. Giacciono, affidati alle metodiche cure del magistrato Alfredo Nosenzo, del funzionario Giannino Talarico e della mezza dozzina di impiegati chiamati a gestire enormi spazi e volumi di oggetti per contro del presidente del tribunale, Roberto Bichi. Questo pezzettino di archivio è quello storicamente più prezioso. Di qui si dice che sia transitato per anni l'originale della scheda di affiliazione di Silvio Berlusconi alla Loggia P2. Qui, di certo, di quell'intreccio infernale di massoneria, poteri deviati e criminalità che marchiò la storia d'Italia, sono custodite le voci. Reperto 56979: "una cassetta con nastro registrato della prima e della seconda telefonata minatoria a Enrico Cuccia il 28/ 3/ 1980; una cassetta con nastro registrato della telefonata minatoria a Giorgio Ambrosoli il 9/1/1979". L'ombra di Michele Sindona e di quel milieu atlantico e cattolico, che travolgerà la vita dell'eroe borghese e sfiorerà quella del gran capo di Mediobanca. Busta 55129: altre due telefonate di avvertimento a Cuccia e Ambrosoli, e una piantina di Milano sequestrata a William J. Aricò, il killer mafioso dell'avvocato milanese assoldato da Sindona. Plico 54746: agenda, rubrica e corrispondenza sequestrate alla Giole di Castiglion Fibocchi, la fabbrica di camicie di Licio Gelli che di quelle trame era il sommo tessitore. Pacchi numero 57055 e 57061, con le firme in calce dei giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo: foto e negativi portati via da Villa Wanda, sempre in quel fatidico 17 marzo 1981, il giorno in cui i vertici dello Stato compromessi con grembiuli e compassi cominciarono a tremare. E ancora, dagli armadi e dai registri originali del tribunale, catalogati a penna e con quelle antiche etichette battute a piombo, riaffiorano documenti bancari, schede, biglietti: fonti di prova che entrarono in quei processi e da allora sono in attesa di destinazione. Ma almeno, adesso, hanno un loro posto. "Per decenni - spiegano all'Ufficio - in questi corridoi e nelle stanze ogni scaffale era stracolmo di materiale lasciato lì senza nessun criterio. In alcuni ambienti non si poteva nemmeno entrare". L'idea, spiega Nosenzo, è "di ragionare tra qualche mese con Archivi e fondazioni pubbliche per capire cosa fare di questo materiale". Ritroverebbero una casa le videocassette di Mistero Buffo e delle altre rappresentazioni teatrali di Dario Fo trasmesse in tv, che qualche zelante ufficiale periodicamente registrava in caso di futura denuncia. Ritroverebbe un suo spazio la Legnano nera col cestello e "col freno posteriore rotto" (ricorda il cartellino) portata via il 13 settembre 1978 dal covo di via Negroli di " Massimo Turicchia", nome di Corrado Alunni, ex fondatore delle Br e ideatore delle Formazioni Comuniste Combattenti. Sarebbero visibili ai feticisti del genere le macchine da scrivere e i ciclostile portati via dalle varie basi del terrorismo rosso. Le valigie con gli striscioni originali che venivano appese nelle fabbriche dai fiancheggiatori: alla Breda, alla Pirelli, alla Magneti Marelli. Il 759 volantini con la rivendicazione del sequestro del generale statunitense Lee Dozier, ritrovate nel 1982 in un appartamento di via Verga. I nastri dei sequestratori di Renzo Sandrucci, le telefonate dei killer di Prima Linea. Passato remoto, vicinissimo, ancora inciso nella carne della città.
Sequestro Moro: le storie dei cinque uomini uccisi dalle Brigate Rosse. Poliziotti e carabinieri con storie simili. Cinque ritratti nell’Italia ai tempi bui del terrorismo, scrive Giovanni Belfiori il 16 marzo 2019 su Democratica. Ci sono vittime di serie A, di serie B e anche di serie C. Quel 16 marzo 1978 i cinque uomini della scorta di Aldo Moro furono massacrati in via Fani senza pietà dai terroristi delle Brigate Rosse, ma nelle commemorazioni, nei ricordi del rapimento dello statista democristiano, rischiano di passare inosservati, quasi fossero una nota a margine. Gli stessi terroristi, oggi liberi di parlare, di rilasciare interviste dalle loro case, non fanno menzione di quei cinque uomini trucidati, come se si fosse trattato non di esseri umani, ma di oggetti da eliminare sul percorso della ‘rivoluzione’. Claudio Magris, in un editoriale sul 40esimo anniversario agguato di via Fani intitolato significativamente “Le vittime di terza categoria”, scriveva: «I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po` più noti. Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe».
Agguato di via Fani: gli uomini della scorta di Aldo Moro. La scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata (Dal comunicato n. 1 delle Brigate Rosse, 18 marzo 1978)
Chi sono, dunque, i cinque “famigerati”, uccisi dal commando delle Brigate Rosseche in via Fani a Roma, aveva rapito Aldo Moro? Chi ricorda il Pasolini della poesia sui fatti di Valle Giulia, rammenta, con una interpretazione assai parziale, soltanto i versi in cui il poeta dichiara di ‘simpatizzare’ coi poliziotti. Ma poco più avanti, nella stessa lirica, c’è una descrizione forte, quasi icastica e sensoriale di quegli uomini in divisa: “E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo”.
Rancio, fureria e popolo: sono loro. Il più ‘vecchio’ degli uomini di scorta ha 52 anni, il più giovane 24: nessuno torna a casa, quel mattino di quarant’anni fa. Uno viene da una famiglia contadina della Campania: il fratello lavorava nei campi quando apprende dalla radiolina la notizia dell’attentato, un altro vive in caserma (lo stipendio di un agente non consentiva molto di più) e aspetta di essere promosso prima di sposarsi, un altro ancora era migrato dalle campagne molisane. Non sono solo “divise”, sono uomini che hanno famiglia, figli, genitori, fratelli. Fanno un lavoro difficile e hanno una paga da fame. Sono loro i figli del popolo, uccisi ‘in nome del popolo’ da assassini che di popolare non hanno nulla.
La scorta di Aldo Moro. Poliziotti e carabinieri della scorta di Moro: uomini con storie simili, un magro reddito familiare e spesso la miseria, la volontà di trovare un lavoro, la necessità di emigrare, la divisa indossata con l’orgoglio di chi serve lo Stato. E poi i figli, la vita quotidiana fra turni massacrati di lavoro e la voglia di stare in famiglia. Cinque storie dell’Italia ai tempi bui del terrorismo, cinque storie di uomini normali ammazzati in nome della ‘rivoluzione’. E oggi i ricordi di chi è rimasto: le moglie, i figli, i genitori. Uno di loro, Giovanni Ricci, ha avuto la determinazione di incontrare «chi mi aveva fatto del male». Nel 2012 guarda negli occhi Morucci, Bonisoli, Faranda. Lo ha raccontato al giornalista di Repubblica Tv Concetto Vecchio. Ha detto: non odio più da quanto li ho visti. Che cosa ha visto Giovanni Ricci? Ha visto persone normali, davanti a lui, altri esseri umani. Persone normali: il male non ha un cartellino di riconoscimento, la “banalità del male” del resto è la cosa che, come essere umani, più ci spaventa e ci sconcerta. Perché avete voluto fare questo? ha chiesto Giovanni Ricci agli assassini del padre.
Oreste Leonardi, 52 anni: il “nemico del popolo” che difese Moro col suo corpo. Il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi era nato nel 1926 a Torino. Mentre frequenta il ginnasio, rimane orfano del padre che muore in guerra. Dopo aver terminato gli studi, si arruola nell’Arma. Lavora in diverse sedi, poi è inviato a Viterbo come istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo. A una festa di carnevale conosce una ragazza, Ileana Lattanzi che sposa dopo neanche un anno di fidanzamento. Nel 1963 è chiamato a far parte della scorta di Aldo Moro. Leonardi, detto Judo, era il caposcorta e come tale quasi un’ombra di Moro, la sua guardia del corpo più fedele. Quel 16 marzo 1978 si trova nel sedile anteriore della macchina del presidente, vicino a Domenico Ricci. È Leonardi a compiere il tentativo estremo di proteggere Moro con il proprio corpo. Lo ammazzano a 52 anni. Con la la moglie, lascia anche due figli Sandro e Cinzia di 17 e 18 anni. Ha raccontato Ileana una decina di anni fa: «La nostra disperazione è derivata anche dal fatto che durante tutti questi anni ci siamo trovati soli. Lo Stato non ci ha messo a disposizione psicologi, come si usa fare adesso».
Domenico Ricci, 44 anni: il “nemico del popolo” che salutò il suo bambino. A 44 anni è assassinato Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri. Era marchigiano, nato a San Paolo di Jesi, in provincia di Ancona, nel 1934. Ottimo motociclista, entra a far parte della scorta di Moro alla fine degli anni Cinquanta. Diviene il suo autista di fiducia e quel 16 marzo 1978 si trova al posto di guida della Fiat 130 su cui viaggiava il presidente della DC. Gli contano sette proiettili sparati alla testa. A casa lascia la moglie Maria e due bambini. Uno di loro si chiama Giovanni ed ha 11 anni quando assassinano suo padre. Anni fa dichiarò al Corriere della Sera: «Non vorrei che fossero solo i brigatisti a scrivere la storia. Perché mio padre era un carabiniere, ma dentro la divisa c’era un uomo che la sera prima di essere ammazzato ha salutato il suo bambino, cioè io, con una carezza e un complimento per la prima partita di calcio giocata coi compagni di scuola». In una recente intervista a Repubblica Tv ha detto: «Non dico mai che si è sacrificato né che è un eroe. Non si è sacrificato, perché l’adorava quel lavoro, era tutta la sua vita. Mio papà è un eroe del quotidiano, così come tanti suoi colleghi, ma così come tante di quelle persone che si alzano la mattina alle 4 per andare a lavorare in un panificio o nelle fabbriche».
Francesco Zizzi, 30 anni: il “nemico del popolo” che progettava le nozze. Quel 16 marzo Francesco Zizzi è al suo primo giorno di scorta al servizio dell’onorevole Moro. Lui, nato a Fasano, in provincia di Brindisi, nel 1948, era entrato in Polizia nel 1972. Quattro anni dopo aveva vinto il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno. All’epoca Francesco vive, come molti altri poliziotti giovani, nella caserma Cimarra, di via Panisperna. Dopo aver ottenuto i gradi di vice brigadiere, inizia a progettare le nozze con la fidanzata Valeria.
Si trova nell’Alfetta bianca che precede la macchina di Moro, seduto al posto del passeggero. I brigatisti gli sparano, ma non muore subito. Il cuore si fermerà all’ospedale Gemelli di Roma. Aveva trent’anni e una grande passione: amava cantare e si esibiva con la chitarra. La sorella Adriana, al sito di informazione locale Osservatoriooggi.it racconta che quel 16 marzo era «un giorno qualunque per me. Ero un’insegnante ma quel giorno non ero andata a scuola. Stavo svolgendo normali mansioni domestiche quando venne a trovarmi mio suocero che mi spinse ad accendere la tv in quanto raccontava di un grave evento accaduto a Roma. Appresi la notizia così, dalla tv, in modo brusco e con un’aspirapolvere in mano. E poi la nostra vita è cambiata». Anni fa aveva detto: ««Non piango mai per la morte di mio fratello in presenza di altri e a maggior ragione con mia figlia. Lei voleva sapere, e capire. Le ho raccontato ma in maniera pacifica senza disturbare la sua coscienza. La mia è stata già abbastanza disturbata».
Raffaele Iozzino, 25 anni: il “nemico del popolo” emigrato per lavoro. L’unico che riesce ad uscire dall’auto, tentando la difesa, è la guardia Raffaele Iozzino. I terroristi lo finiscono a terra sparandogli in fronte. Non aveva ancora compiuto i 25 anni. Raffaele era nato in provincia di Napoli, a Casola, nel 1953, in una modesta famiglia contadina. Raffaele per lavorare deve emigrare. Nel 1971 si arruola nella Pubblica Sicurezza, frequenta la scuola della Polizia di Alessandria e viene poi aggregato al Viminale e comandato alla scorta di Aldo Moro. «Lui per non metterci preoccupazione, non ci diceva nulla dei pericoli – ha raccontato il fratello Ciro al Corriere Tv – io ero tra i campi ad aiutare mio padre avevo la radiolina accesa quando, purtroppo, interruppero le trasmissioni per dare la notizia del sequestro».
Giulio Rivera, 23 anni: il “nemico del popolo” figlio di contadini. Il più giovane è il poliziotto Giulio Rivera. Giulio guida la macchina che precede quella di Moro. I brigatisti lo crivellano con otto colpi di pistola. Era nato nel 1954 a Guglionesi, in Molise, in provincia di Campobasso. I genitori e i fratelli lavorano la terra. La sorella Carmela: «Se solo chiudo gli occhi e lo rivedo in quella bara…non è piacevole. A casa non ho una sua foto in divisa: non riesco a sopportarlo».
IL MEMORIALE DI MORO.
Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 25 novembre 2019. "Uno scandalo veramente senza fine". È il caso Moro, secondo Sergio Flamigni, ex senatore e infaticabile ricercatore che da anni indaga sulla P2 , sul terrorismo italiano, sul sequestro del presidente della Dc. Il suo ultimo lavoro, Rapporto sul caso Moro (Kaos edizioni), presenta il suo contributo ai lavori della seconda Commissione parlamentare d' inchiesta sul sequestro di Aldo Moro (2014-2017). Ma rende pubblica anche una denuncia secca per come il presidente della Commissione, il Pd Giuseppe Fioroni (preferito al più esperto Miguel Gotor), ha condotto i lavori. "In modo autocratico e disordinato", "abusando della secretazione", lavorando "quasi solo attorno all'agguato di via Fani, senza affrontare il nodo del 18 aprile, ossia la scoperta del covo di via Gradoli e il falso comunicato del Lago della Duchessa". Risultato finale: "Mantenere il delitto Moro un enigma irrisolto". Eppure alcuni elementi raccolti dalla Commissione sono riusciti a confermare "che la verità di Stato sul delitto Moro - confezionata dalla Dc di Francesco Cossiga insieme agli ex Br Valerio Morucci e Mario Moretti e avallata dalla magistratura romana - è una colossale menzogna". Flamigni segnala "tre dati di fatto che sbugiardano quella versione dall' inizio (strage di via Fani) alla fine (uccisione di Moro)".
Il primo dato accertato è che subito dopo la strage di via Fani, la mattina del 16 marzo 1978, i terroristi delle Brigate rosse si sono rifugiati con l'ostaggio in uno stabile di via Massimi 91 di proprietà dello Ior (la banca del Vaticano), su cui non è mai stato fatto alcun approfondimento. Non ci sono stati - come raccontato "dalla menzognera versione di Stato" - trasbordi del rapito in piazza Madonna del Cenacolo; non c' è stata una tappa successiva nel sotterraneo del grande magazzino Standa dei Colli portuensi; e non c' è stato l' approdo finale nel covo-prigione di via Montalcini.
Il secondo dato accertato dalla Commissione è che "sono una sequela di menzogne" anche il luogo e le modalità dell'uccisione del presidente della Dc raccontate dai brigatisti. Secondo la loro versione, Aldo Moro sarebbe stato ammazzato nel box auto di via Montalcini, nel baule della Renault rossa, con 11 colpi sparati alle 6-7 del mattino. Con successivo trasporto del cadavere per alcuni chilometri, da via Montalcini fino in via Caetani, al centro di Roma. Falso, secondo Flamigni: "Le vecchie e le nuove perizie hanno definito improbabile il luogo, ben diverse le modalità, e falso l' orario del delitto indicato dalla versione brigatista avallata dalla magistratura romana".
Il terzo dato di fatto è che la "verità ufficiale" sulla prigionia e sull' uccisione di Moro in via Montalcini (quella del "memoriale Morucci") è stata confezionata in carcere dal brigatista dissociato Valerio Morucci con la regia del Sisde, il servizio segreto del Viminale, con "la fattiva collaborazione della Dc cossighiana". "Il sequestro del presidente della Dc è rimasto un delitto senza verità", scrive Flamigni. "Infatti a distanza di più di quarant' anni non c' è alcuna certezza sul luogo (o i luoghi) dove Moro fu tenuto segregato per quasi due mesi, né si sa chi, come e perché lo abbia ucciso". Secondo Flamigni, "è certo che alla strage di via Fani partecipò un tiratore scelto". Ne parla anche uno dei testimoni oculari, il benzinaio Pietro Lalli, pratico di armi: raccontò di "aver visto sparare un esperto e conoscitore dell'arma in quanto con la destra la impugnava, e [teneva] la sinistra guantata sopra la canna in modo che questa non si impennasse".
Per scoprire gli eventuali professionisti in via Fani, "la Commissione avrebbe dovuto occuparsi dell' aereo libico, diretto a Ginevra, che nel tardo pomeriggio del 15 marzo 1978 (vigilia della strage di via Fani) atterrò invece a Fiumicino con quattro persone a bordo, e che ripartì l' indomani mattina alle ore 10,05 (un' ora dopo la strage) alla volta di Parigi. Un volo fortemente sospetto di avere trasportato uno o più killer di una particolare struttura di addestramento e supporto per organizzazioni terroristiche formata a Tripoli (Libia) dagli americani Edwin P. Wilson e Frank Terpil, entrambi ex agenti della Cia". Flamigni segnala come "episodica eccezione" al "quarantennale disastro giudiziario relativo al delitto Moro" il lavoro del procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli, che avocò un' indagine della Procura guidata da Giuseppe Pignatone. La requisitoria di Ciampoli dell' 11 novembre 2014 "ha confutato la versione di Stato del duo Morucci-Moretti sulla dinamica dell' agguato e della strage. E non ha mancato di menzionare la 'protratta inerzia' del pubblico ministero romano che lo aveva indotto a esercitare il potere di avocazione". La "protratta inerzia" ha riguardato anche la figura e il ruolo dell' americano Steve Pieczenik (insediato al Viminale per conto del Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro). Venne mandato a Roma da Washington - secondo Ciampoli - per quella che era una vera e propria operazione di "guerra psicologica" con tre obiettivi: garantire l' uccisione dell' ostaggio; recuperare le registrazioni degli interrogatori e degli scritti di Moro; ottenere il silenzio dei terroristi. Ciampoli ha riferito anche di aver indagato sulla presenza in via Fani di due uomini dei servizi segreti, a bordo di una moto Honda, al comando del colonnello Camillo Guglielmi. E si è detto convinto che "in via Fani vi fosse la presenza anche di servizi segreti di altri Paesi interessati, se non a determinare un processo di destabilizzazione dello Stato italiano, quantomeno a creare del caos". È stata secretata l'audizione in seduta segreta del 29 luglio 2015 di Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma e membro del Consiglio superiore della magistratura: riguardava l' interrogatorio di Pieczenik svolto per rogatoria da Palamara il 27 maggio 2014. "Da allora", commenta Flamigni, "la posizione giudiziaria di Steve Pieczenik si è inabissata, col suo carico di segretezza, nel porto delle nebbie".
Maria Antonietta Calabrò per il “Fatto quotidiano” il 26 novembre 2019.
La STASI, il potente servizio segreto della defunta Repubblica democratica tedesca, in un appunto dell' 8 giugno 1978, pubblico dal 2014, metteva in evidenza le somiglianze dell'intera azione brigatista con la notissima vicenda del rapimento dell' industriale Hanns-Martin Schleyer, compiuta dalla RAF (Rote Armeee Fraktion) alla fine del 1977, e segnalava una possibile "prigione del popolo" vicina al luogo del sequestro, via Fani.
La STASI era particolarmente ben informata visto che, secondo il suo leggendario capo Markus Wolf, la RAF (che oggi sappiamo essere stata presente con almeno due terroristi sulla scena di via Fani), era nelle sue mani. Se oggi questa "prigione" - la prima e più importante - è stata "scoperta", si deve ai lavori parlamentari della scorsa legislatura. Era in via Massimi 91. Ne parlo in più capitoli del libro che ho scritto a quattro mani con Giuseppe Fioroni, Moro, il caso non è chiuso, la cui seconda edizione è stata pubblicata in occasione del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. I riscontri sono stati trovati negli atti desecretati a partire dal 2014, e hanno portato a individuare questa prigione in un miniappartamento ricavato nell'attico della palazzina B di via Massimi 91, di proprietà allora dello IOR , la cosiddetta banca vaticana. Un attico che ha un' altra caratteristica: era allora sicuramente l' appartamento più alto di Roma. Quindi vista libera, nessun occhio indiscreto e la possibilità per Moro di poter stare all'aria aperta e di muoversi (tanto che il suo tono muscolare era buono e quindi incompatibile con una lunga detenzione su una brandina in via Montalcini). Oggi sappiamo che una "fonte riservata", già il giorno successivo al sequestro, il 17 marzo 1978, aveva avvertito il comandante della GdF Raffaele Giudice, che "le 128 dei brigatisti sarebbero state parcheggiate in un box o garage nelle immediate vicinanze di via Licinio Calvo", presso una base situata a un piano elevato, con accesso dal garage mediante ascensore, una tipologia di edilizia residenziale signorile e moderna. Grazie alla collaborazione del Comando della GdF, sono stati acquisiti dalla Commissione Moro, presieduta da Fioroni, tutti i documenti che riguardavano la localizzazione di questo covo-prigione. Le palazzine erano gestite dal padre di don Antonio (che le Br scelsero come interlocutore e mediatore con la famiglia Moro), Luigi Mennini, all' epoca ai vertici dello IOR . Gli accertamenti sviluppati dalla Commissione Moro 2, a partire dal 2015 hanno dimostrato che mai, dal 1978 a oggi, era stato svolto un serio lavoro investigativo sui condomini di via Massimi 91. Un miniappartamento nell' attico della Palazzina B Nel complesso di via Massimi 91, tra il 1977 e il 1978, furono fatte modifiche che sono state oggetto di recenti approfondimenti. Nell' attico della Palazzina B fu realizzata una camera compartimentata, costruita sul terrazzo e appoggiata a uno dei muri perimetrali. Situata nella zona di servizio, la stanza poteva ospitare un eventuale soggetto temporaneamente custodito nella "cameretta" con gli spazi e i servizi di un vero e proprio miniappartamento. E ciò combacia con quanto descritto in un appunto del 28 settembre 1979 dal generale Grassini (Sisde), in cui fa riferimento a un' intercettazione ambientale di una conversazione tra detenuti, "uno dei quali di alto livello terroristico": "Non gli hanno mai messo le mani addosso", "Non gli è stato torto un capello"; Moro otteneva tutto ciò di cui "aveva bisogno, si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva []". Si torna sempre sul luogo del delitto Le indagini compiute tra il 2014 e il 2017 hanno consentito di identificare per la prima volta due persone, allora conviventi in via Massimi 91, hanno esplicitamente ammesso di aver ospitato per alcune settimane, nell' autunno 1978, Prospero Gallinari il carceriere di Moro in un'abitazione sita in quello stesso condominio. Non è un caso se Gallinari entrò in quella abitazione in un periodo in cui la caduta della base di via Monte Nevoso a Milano e di altri covi brigatisti dovette indurre a cercare sistemazioni più sicure per il carceriere di Moro. All’interno del complesso di via Massimi 91, oltre quella degli alti prelati vaticani (tra cui Marcinkus) , la Commissione Moro 2 ha riscontrato altre presenze. Vi abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, corrispondente in Italia dei periodici tedeschi Der Spiegel e Stern, a quel tempo legata a Franco Piperno, il leader di Autonomia Operaia. Nella palazzina c' era poi la sede operativa di una società statunitense, la Tumpane Company (TumCo), con sede legale negli Stati Uniti e domicilio fiscale proprio in via Massimi 91. Ha cessato le proprie attività nel 1982, ma dal 1969 forniva assistenza alla presenza Nato e statunitense in Turchia, ed esercitava anche attività di intelligence per l'organismo informativo militare statunitense. Vivevano o lavoravano in via Massimi 91 anche diversi personaggi legati alla finanza e ai traffici tra Italia, Libia e Medio Oriente. Come Omar Yahia che mise in contatto con il Sismi la fonte Damiano, particolarmente informata sulle dinamiche terroristiche palestinesi. Il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro, quindi non appaiono come una vicenda puramente interna all' eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale, che i brigatisti hanno sempre negato. Roma a quei tempi, come Berlino, era occidentale per tre quarti e orientale per un quarto. Era in via Massimi 91 il Checkpoint Charlie della capitale italiana? Tutti gli atti e la documentazione raccolti dalla Commissione Moro 2 sono stati desecretati a eccezione degli atti prodotti dai magistrati o dagli ufficiali di Polizia giudiziaria consulenti della Commissione che hanno esplicitamente chiesto di mantenere la documentazione segreta, in quanto si tratta di indagini ancora in corso di approfondimento. Infatti "il caso non è chiuso".
Aldo Moro: “Il giorno di Piazza Fontana il Pci mi consigliò di non tornare a Roma”. Mentre si avvicina il cinquantenario della strage milanese, ecco quel che nel 1978 il leader Dc rivelava nel memoriale consegnato alle Brigate Rosse. Maurizio Tortorella il 20 novembre 2019 su Panorama. Manca meno di un mese al cupo anniversario della strage di Piazza Fontana, con i suoi 17 poveri morti causati dai candelotti di gelignite piazzati dai neonazisti di Ordine Nuovo il 12 dicembre 1969. Mentre stanno per partire celebrazioni e manifestazioni per il cinquantenario della prima grande strage italiana, va ricordato un particolare importante, ma del tutto ignorato dalle cronache di questi ultimi anni. E cioè che anche Aldo Moro, che nel 1969 è ministro degli Esteri del governo Rumor, e quel 12 dicembre si trova a Parigi, scrive di piazza Fontana. E si convince presto che sia una strage “nera”. Moro lo dichiara con estrema chiarezza nel memoriale che affida alle Brigate Rosse durante la sua prigionia del marzo-maggio 1978: “Personalmente ed intuitivamente”, annota il presidente del Consiglio, poche settimane prima di essere ucciso dai suoi carcerieri, “io non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (…) che questi e altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra e avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (…) allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, a una gestione moderata del potere”. Poco più in là, sempre nel suo memoriale, Moro offre alle Br una rivelazione interessante, che dimostra come già nel dicembre 1969 gli stessi potenti apparati d’intelligence del Partito comunista italiano avessero presente il rischio di una svolta autoritaria collegata alla bomba di Milano. Moro scrive che “Tullio Ancora, un alto funzionario della Camera dei Deputati e da tempo mio normale organo d'informazione e di collegamento con il Partito comunista, mi telefonò in ambasciata a Parigi, per dirmi con qualche circonlocuzione che non ci si vedeva chiaro e che i suoi amici (cioè proprio i comunisti) consigliavano qualche accorgimento sull'ora di partenza, sul percorso, sull'arrivo e sul trasferimento di ritorno. (…) Io ritenni, poiché ne avevo la possibilità, di adottare le consigliate precauzioni e rientrai a Roma non privo di apprensione”. Moro, comunque, ha una certezza: esistono centrali dell’intelligence straniera che hanno interferito nella strage. Nel memoriale, il prigioniero indica i due regimi di destra che nel 1969 sono al potere in Spagna e Grecia, poi aggiunge una frase sibillina: “Ci si può domandare” scrive “se gli appoggi venivano solo da quella parte o se altri servizi segreti del mondo occidentale vi fossero comunque implicati”. È una lettura interessante, che non andrebbe sottovalutata. Di certo, va conosciuta.
Storia d'Italia. Il memoriale che finalmente ci restituisce il vero Aldo Moro. Il documento, scritto a mano dal prigioniero durante il sequestro nel 1978, da sempre considerato la chiave dei cinquantacinque giorni più oscuri della Repubblica, approda a una nuova edizione critica. Che riconsegna allo Statista ucciso il suo tempo e la sua scrittura. Marco Damilano il 15 novembre 2019 su L'Espresso. La scrittura e il tempo. Erano queste le uniche armi, fragili, su cui poteva contare l’uomo di Stato spogliato del suo potere, diventato prigioniero, «nel cuore del terrore», come lo immaginò Italo Calvino, nelle mani dei suoi carcerieri e delle forze esterne al covo che si muovevano per condizionare gli esiti del sequestro di cui sapeva, lui soltanto, decifrare i fili invisibili. Scrivere per prendere tempo, come in una favola antica, e prendere tempo per scrivere, come in una lenta caduta in cui si sono avvinghiati, una volta per tutte, in un solo destino, la storia della Repubblica e il dramma di una persona. «Saper leggere il libro del mondo, con parole cangianti e nessuna scrittura, nei sentieri costretti in un palmo di mano, i segreti che fanno paura», è il testo di una canzone di Fabrizio De André, che viene in mente recuperando oggi, finalmente ricomposte con rigore scientifico, con dedizione e con umanità, le parole di Aldo Moro nel memoriale consegnato alle Brigate rosse più di quarant’anni fa, durante i 55 giorni del sequestro, dal 16 marzo 1978, il giorno del rapimento a Roma in via Mario Fani e della strage dei cinque agenti della scorta, al 9 maggio, quando il cadavere del presidente della Democrazia cristiana fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa in via Michelangelo Caetani. Il cosiddetto Memoriale di Moro fu scoperto in forma dattiloscritta e parziale nell’ottobre 1978, in un covo delle Br a Milano, in via Montenevoso, e poi, dodici anni dopo, nel 1990, rispuntò da un’intercapedine dello stesso appartamento in forma autografa e fotocopiata, dando il via a una serie infinita di congetture. È considerato una delle chiavi possibili dei misteri del caso Moro, i «segreti che fanno paura», quelli che il prigioniero minacciava di svelare, quelli legati al possesso del manoscritto originale che nel corso dei decenni avrebbe giustificato altre guerre di potere e il sospetto di altri morti e altro sangue. Oggi, a distanza di più di quarant’anni, il Memoriale viene pubblicato dalla direzione generale Archivi del ministero dei Beni culturali e dall’archivio di Stato di Roma in una nuova edizione critica, grazie al lavoro di cinque anni di un gruppo di studiosi, coordinati da Michele Di Sivo, vicedirettore dell’Archivio di Stato di Roma, esperto di fonti giudiziarie: gli storici Francesco Biscione e Miguel Gotor e l’ex senatore Sergio Flamigni, che in passato del memoriale hanno curato edizioni e pubblicazioni, Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni che conserva le carte personali dell’uomo politico, la grafologa Antonella Padova, l’archivista Stefano Twardzik. La storia, la filologia, la freddezza dell’analisi per un testo rovente consentono il passaggio fondamentale, definitivo, per la comprensione di quanto accadde nel 1978, nella vicenda spartiacque della nostra storia.
La conclusione in cui Moro immagina vicina la sua liberazione. «Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro ruotano attorno a una sola azione dell’ostaggio: il suo scrivere», afferma Di Sivo nell’introduzione. Le lettere, pensate dall’ostaggio per comunicare con l’esterno, utilizzate dai terroristi come arma di pressione, rese pubbliche o tenute segrete ovvero mai consegnate. E il Memoriale, fino ad ora considerato come il testo con cui Moro rispondeva alle domande dei suoi carcerieri, nel grottesco “processo del popolo” annunciato dalle Br nei loro comunicati: i 239 fogli ritrovati in fotocopia in via Montenevoso nel 1990, parte di un corpus di documenti più ampio, 420 fogli tra lettere e biglietti mai consegnati. Ricostruire il testo, in fotocopie rovinate e per di più mutilate dai prelievi della polizia scientifica, tondini conservati in bustine, come coriandoli. Ricostruire le modalità di stesura del prigioniero e le condizioni in cui Moro scriveva. «Ricostruire l’elaborazione da cui le scritture di Moro furono originate e il loro disporsi nel tempo, riconoscere il testo più prossimo alle intenzioni di un autore inquisito e condizionato da pieno dominio e da totale cattività, accostarsi alla tortuosa morfologia di questa fonte sono stati i nostri obiettivi», spiega Di Sivo. La grafologa Antonella Padova rivela che nel 1970 Moro si era rivolto a un medico psico-grafologo, Tonino Bellato, per risolvere un problema pratico, solo in apparenza banale: i suoi più stretti collaboratori non riuscivano a decifrare la sua scrittura, un impaccio non da poco perché Moro usava buttare giù a mano i discorsi e gli articoli, per poi arrivare alla stesura definitiva dopo una serie infinita di correzioni, integrazioni, cancellature, ricopiature. Tra i testi presi a paragone c’è l’intervista che il nostro Guido Quaranta gli fece nell’agosto 1972 per Panorama, dove la grafia ordinatissima di Quaranta convive sullo stesso foglio con l’appunto del leader politico: «Ho raggruppato le domande, collegando quelle affini. I numeri a margine sono quelli delle mie risposte, che seguono, mi pare, un ordine logico. Ho messo “no” per le domande cui non intendo rispondere. L’intervista è già lunghissima». Una notazione preziosa perché per gli studiosi fu lo stesso metodo utilizzato da Moro per rispondere ai suoi carcerieri. Raggruppare, ricopiare, riscrivere. Un lavoro meticoloso che ora consente di dare una risposta finale alla questione dell’autenticità degli scritti e della possibilità che Moro fosse stato drogato o costretto a scrivere messaggi non suoi. Paragonati (in modo emozionante) con l’ultima nota a mano da uomo libero, la firma del libretto del professore universitario con l’argomento della lezione (15 marzo 1978: La recidiva. All’agguato di via Fani mancavano meno di ventiquattr’ore, le caselle delle lezioni numero 41 e 42 del professor Moro docente di Istituzioni di diritto e procedura penale resteranno per sempre vuote), i fogli dalla prigionia portano a osservazioni molto lontane da quelle della grafologa Giulia Conte Micheli che giudicò la grafia di Moro «abulica, passiva, inerte», segno di «uno stato depressivo di angoscia interiore». Moro per primo aveva intuito di essere finito in una trappola nella trappola: se la sua scrittura fosse apparsa nervosa lo avrebbero fatto passare per un pazzo incapace di ragionare, se troppo ordinata come il diligente copista di testi scritti da altri. Protestava nelle sue lettere con i suoi compagni di partito: «Scrivo con il mio stile, per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio». E ancora: «Moro insomma non è Moro... Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con un’oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Io sono, sia ben chiaro un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, senza né pensiero, né un gesto di impazienza la mia condizione. Pretendere però in queste circostanze grafie cristalline e ordinate e magari lo sforzo di una copiatura, significa essere fuori della realtà delle cose». «Lo studio dei comportamenti grafomotori consente di restituire ad Aldo Moro non solo l’autografia ma anche la paternità dell’impianto generale» del Memoriale, arrivano a dire gli studiosi. Sono di Moro i brani, le correzioni, l’ordine delle domande e delle risposte. Sua l’organizzazione interna del discorso. Sua, e non dei carcerieri, la struttura del Memoriale. Ricostruita la cronologia del testo si arriva ad altre due conclusioni decisive. La prima: i rinvii interni al testo trovano la loro sistemazione, come un enigma che si scioglie. E l’attività grafomotoria del prigioniero evidenzia il cambiamento del piano d’appoggio su cui scrivere, orizzontale nei primi testi, e dunque il mutamento logistico delle condizione di scrittura nella seconda fase del sequestro. Il testo del Memoriale appare ora nella sua integrità, anche con correzioni notevoli. «Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre perché costituzionalmente chiamato all’errore. E l’errore è, in fondo, senza cattiveria», sembrava aver scritto Moro del capo doroteo Flaminio Piccoli, suo avversario interno nella Dc. Ma ora la frase diventa: «E l’errore è, in fondo, sempre cattiveria». Che non è la stessa cosa. Il Memoriale consente di penetrare nella scrittura di Moro, nella sua materialità. Le penne utilizzate, la pressione sulla carta, la povera carta straccia di cui sono rimaste le fotocopie che odorano di ciano. Entrare nel covo delle Br. E ancora di più, entrare nell’interiorità, nello stato d’animo di Moro. L’ottimismo e il pessimismo, le salite, le discese, il precipitare delle speranze, il senso di morte e l’attesa della liberazione che è evidente in una pagina drammatica: «Il periodo, abbastanza lungo, che ho passato come prigioniero politico delle Brigate Rosse, è stato naturalmente duro, com’è nella natura delle cose, e come tale educativo». In quelle stesse righe Moro spiega di aver avuto il tempo di valutare «gli avvenimenti, spesso così tumultuosi della vita politica e sociale», il loro ritmo, il loro ordine. «Motivi critici, diffusi ed inquietanti, che per un istante avevano attraversato la mente, si ripresentavano, nelle nuove circostanze, con una efficacia di persuasione di gran lunga maggiore che per il passato. Ne derivava un’inquietudine difficile da placare e si faceva avanti la spinta ad un riesame globale e sereno della propria esperienza, oltre che umana, sociale e politica». Si può così rileggere di seguito il testo del Memoriale carico di rimandi, come le uniche pagine diffuse durante i 55 giorni del sequestro, quelle relative al ruolo di Paolo Emilio Taviani, l’ex ministro democristiano che nel 1978 aveva un ruolo secondario ma che invece da ministro della Difesa, nel 1956, aveva fondato la struttura Stay-behind Gladio per operazione di difesa e anti-guerriglia in caso di invasione sovietica, ma di questo si venne a sapere soltanto all’inizio degli anni Novanta, proprio mentre il memoriale di Moro riemergeva dall’intercapedine di via Montenevoso, resistente come il muro di Berlino. E trovare in quel memoriale la spiegazione dell’ordine politico che sarebbe arrivato negli anni successivi, in un’epoca distante dalla sua. Quell’uomo che scriveva in condizioni di prigionia, a rischio della vita, aveva visto molte cose del futuro. La fine della rappresentanza dei partiti e l’emergere di un’organizzazione leggera, nella politica interna e internazionale. L’impossibilità dei partiti ad auto-riformarsi che avrebbe portato a scaricare la colpa dell’impasse sulle istituzioni e sulla Costituzione: «Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla... in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». Intuiva «il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro», la riduzione dell’Europa a «dimensione regionale» operata dagli Stati Uniti. Sfogliava le sorti future della stampa italiana che «costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì...». Guardava l’evoluzione futura della società italiana che avrebbe cambiato la politica: «Per chi abbia visto “Forza Italia”, fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l’altro all’On. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili. Oggi sono accettati e mettono in moto una sovrastruttura politica che presumibilmente, poiché le cose non nascono a caso, corrisponde all’esigenza di una parte almeno della società italiana di oggi». In quella scena del film di Roberto Faenza che Moro aveva visto al cinema (fu ritirato dalle sale il giorno del suo sequestro), un montaggio di immagini e sonori in cui i notabili di governo uscivano a pezzi, i delegati del congresso democristiano venivano alle mani, si affrontavano come nemici che non avevano più nulla in comune, si scambiavano i vaffa pur essendo dello stesso partito. Era già l’immagine del tutti contro tutti, nel cambiamento del linguaggio il prigioniero Moro una mutazione, un’esigenza della società italiana. E lo scrisse nel covo delle Brigate rosse, come una premonizione, non potendo sapere che sarebbe nato un partito chiamato Forza Italia e un altro originato da un vaffa-day, entrambi tutt’altro che estranei a quella spregiudicatezza, a quell’esigenza della società italiana, perché «le cose non nascono a caso». Inoltrarsi in quelle pagine, come ha fatto l’attore Fabrizio Gifuni che lo ha portato a teatro ritrovandone gli echi di Pasolini e di Gadda, attraversare il memoriale di Moro e della Repubblica significa provare a comporre con pietà le parole del condannato a morte e ridare vita a chi le ha scritte con disperazione e con fiducia, perché la scrittura è sempre un atto di apertura, e soprattutto continuare a compiere un passo essenziale per capire l’Italia di oggi. Strappare Moro dal caso Moro e restituirgli il suo onore politico e la sua dignità umana perché, come conclude Michele Di Sivo, «quella rappresentazione, così ricostruita, sembra dirigere il lettore verso una vertigine: il Memoriale di Moro si squaderna come l’ultimo atto della storia che si rivela».
40 anni fa il ritrovamento del "memoriale Moro". Il 18 ottobre 1978 veniva diffuso il contenuto dei dattiloscritti. Duro attacco alla Dc di Andreotti, all'eversione, alla corruzione. Con temi attualissimi come le pressioni dell'Europa e la Libia, scrive Edoardo Frittoli il 18 ottobre 2018 su "Panorama".
Milano: Via Monte Nevoso, 8 (Lambrate). Mattina del 1 ottobre 1978. Tutto era cominciato dall'irruzione da parte dei Carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa nel covo milanese delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso, 8 nello storico quartiere milanese di Lambrate. In una borsa di pelle marrone vengono ritrovati 60 fogli. Oltre ad alcune lettere scritte da Moro e mai recapitate, ci sono 49 pagine che contengono le risposte del prigioniero alle domande delle Brigate Rosse, parte del cosiddetto Memoriale Moro. Esattamente 40 anni fa il contenuto degli scritti fu divulgato, fatto che ebbe un importante impatto nell'opinione pubblica in particolare modo per il ruolo della Democrazia Cristiana nei trent'anni della storia dell'Italia Repubblicana.
Nel memoriale, il cui contenuto fu sviluppato durante gli interrogatori delle Br nei 55 giorni di prigionia, toccando molti degli aspetti controversi ed oscuri: dagli attacchi eversivi alle istituzioni democratiche, alla corruzione politica, agli scandali economici e finanziari. Aldo Moro fece molti ed illustri nomi, in gran parte compagni di partito come Andreotti, Piccoli, Donat Cattin, Galloni, Forlani.
Italcasse. L'Istituto di Credito delle Casse di Risparmio era un organo di secondo livello con il compito di investire la liquidità in eccesso delle Casse di Risparmio italiane. Nel 1977 fu interessato da un'ispezione da parte di Bankitalia che mise allo scoperto lo scandalo: Moro indica in Andreotti il cuore della malversazione, finalizzata al finanziamento illecito della Dc tramite favori a imprenditori "amici" come Gaetano Caltagirone (che fu in quel periodo nominato ai vertici dell'ente da Andreotti) e Nino Rovelli (Sir). Sui fondi neri al partito dello scudo crociato indagherà anche il giornalista Mino Pecorelli, assassinato nel 1979. Lo scandalo Italcasse vide coinvolti anche Domenico Balducci (membro della Banda della Magliana) e boss mafiosi come Pippo Calò.
Giulio Andreotti. "Un regista con tanti esecutori di ordini". Così, dalla "prigione del popolo", Aldo Moro descriveva l'allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Come nel caso Italcasse, il prigioniero delle Br lo chiamava in causa per fatti ancora più gravi, che avevano segnato con il sangue la storia italiana degli anni della "strategia della tensione". Con sentito dolore Aldo Moro dipingeva il leader democristiano come un freddo calcolatore, con una smodata sete di potere, al quale veniva attribuito un ruolo centrale nella destabilizzazione eversiva. Tra le righe del memoriale dedicate al "divo Giulio" il Presidente democristiano palesava la propria quarantennale diffidenza nei confronti di Andreotti, ben descritta nell'analisi della carriera politica di quest'ultimo. Moro lo accusava di avere sempre cercato il suo appoggio alla ricerca di investiture e cariche nel partito, per poi averlo lasciato come vittima sacrificale nelle mani delle Brigate Rosse per i propri personali sogni di gloria. Moro dipingeva Giulio Andreotti come un uomo privo di sentimenti, con la pretesa di identificarsi vanamente con la figura di Alcide de Gasperi, di cui fu il delfino. Lo accusava persino di aver abbracciato il Maresciallo Rodolfo Graziani nei primi anni del dopoguerra, segno di contiguità al defunto regime fascista. La grande colpa di Andreotti sarebbe stata quella di avere alimentato la divisione politico-ideologica dell'Italia uscita dalla guerra civile, provocando una frattura mai sanata dopo l'esclusione dei partiti frontisti dagli incarichi di governo e la formazione dell'esecutivo con i liberali. Nello scritto riferito all'allora Primo Ministro, Moro faceva riferimento all'amicizia pericolosa tra Andreotti e Michele Sindona e metteva in guardia Berlinguer da colui che avrebbe mandato a morte l'alleato ideatore della "strategia dell'attenzione" verso il Pci.
La trattativa con le Brigate Rosse. Aldo Moro, nell'affrontare il tema della trattativa con i terroristi, premette di essere lucido e in pieno possesso delle proprie facoltà intellettuali al momento della stesura. La sua è una denuncia integrale della posizione di "fermezza" assunta da Dc e Pci durante i giorni della sua prigionia. Da giurista, Moro affermava che il principio di legalità di una democrazia non può basarsi sul sacrificio di vittime innocenti. Secondo il prigioniero, la Democrazia Cristiana avrebbe abbracciato incondizionatamente la linea della fermezza per trarne vantaggio, emergendo come pilastro della legalità dopo la crisi politica ed elettorale che aveva colpito il partito negli anni delle rivendicazioni sociali dal 1968 fino al successo comunista del 1976.
L'eversione in Italia. Aldo Moro si concentra principalmente su tre fatti di eccezionale gravità, che i brigatisti avevano descritto nei comunicati come sommersi da una montagna di "omissis": il tentativo di golpe organizzato dal Generale dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo nel 1964 (noto anche come "piano solo"); la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e il golpe Borghese del 1970. Sul caso De Lorenzo, Moro faceva i nomi di chi nella Democrazia Cristiana era al corrente del piano eversivo, sostenendo la posizione del Generale come pedina e di fatto scagionandolo. Il motivo della sua difesa sarebbe da ricercare nella lunga collaborazione tra Moro e De Lorenzo, in particolare nel ruolo di difesa dell'ordine pubblico che il generale garantì in occasione della grave situazione di tensione sociale nata dopo i fatti di Genova del 1960 supportando Moro nell'azione di sfiducia al governo Tambroni ed aprendo di fatto la via alla lunga esperienza politica del centro-sinistra. Su Piazza Fontana lo statista democristiano affermava la propria originaria diffidenza sulla piega che presero le indagini all'indomani dei fatti, la cosiddetta "pista rossa" che vide coinvolti Pinelli e Valpreda. Moro traeva questa conclusione partendo dal fatto che gli inquirenti fossero tutti uomini politicamente orientati a destra, che non avrebbero potuto prendere altre direzioni se non indagare negli ambienti anarchici. Sul golpe Borghese infine, il redattore del memoriale ne sottolinea la pericolosità e la reale minaccia che il tentativo rappresentò nel 1970, tesi supportata dal fatto che il colpo di stato sarebbe stato avvallato da una parte significativa dei vertici dell'Esercito e del Ministero degli Interni.
La questione palestinese, l'ingerenza dell'Europa nella politica italiana, il mancato appoggio della Dc a Paolo VI. Una parte delle pagine dattiloscritte e corrette a penna da Moro riguardava la questione palestinese, con particolare riferimento al cosiddetto "lodo Moro", ossia il patto di non-belligeranza con i terroristi del FPLP di Abu Nidal raggiunto dal leader Dc per tramite dell'uomo del Sid a Beirut, Colonnello Stefano Giovannone. L'accordo, nel quale era stato coinvolto anche Vito Miceli, prevedeva lo scambio di prigionieri delle organizzazioni terroristiche palestinesi in cambio della salvaguardia del territorio italiano da attentati. Moro aveva incluso l'esempio del lodo per dimostrare che gli stessi soggetti che allora negavano la trattativa ai fini della sua liberazione, all'epoca accettarono senza dubbi lo scambio. Il capitolo Europa viene affrontato partendo da un fatto che aveva interessato i rapporti tra la Comunità Europea e la politica italiana, risalente al 1964. Il francese Robert Marjolin era all'epoca vice-presidente della CEE e incontrò a Roma Aldo Moro assieme ai ministri del governo che lo statista pugliese allora presiedeva. Dal vertice emerse un atteggiamento fortemente critico, se non aggressivo nei confronti della politica economica italiana, che Moro difendeva. Marjolin invocava senza mezzi termini una sorta di austerity ante-litteram che ebbe l'effetto di spaccare gli equilibri del centro-sinistra al governo e vanificare la speranza in un prestito europeo per tamponare gli effetti della crisi economica iniziata al termine del "boom". L'azione fu vista da molti esponenti politici come una decisa e brutale ingerenza di Bruxelles negli affari italiani. Aldo Moro affrontava quindi uno dei temi principali del fallimento della trattativa per il suo rilascio, il mancato appoggio all'iniziativa umanitaria di Papa Paolo VI (amico personale del prigioniero) in cui anche in questo caso ci sarebbe stata una volontà di isolamento dell'idea della negoziazione da parte degli esponenti Dc influenti in Vaticano, che avrebbero fatto leva sui vertici della Santa Sede (in particolare Monsignor Clemente Riva) affinché anche il Vaticano abbracciasse la linea della fermezza.
Lo scandalo Lockheed. Secondo Moro fu il successo del Pci alle politiche del 1976 (quelle del famoso "sorpasso") a rompere l'egemonia di trent'anni di potere democristiano, nel quale si sarebbe collocato lo scandalo della commessa militare segnata dalle tangenti per la fornitura degli aerei da trasporto Lockheed C-130. Lo stesso Moro fu sospettato fino alla vigilia della strage di via Fani di essere il personaggio-chiave del sistema delle tangenti (il famoso Antelope Cobbler). Anche in questo caso l'analisi di Moro si rivelerà anticipatrice, dichiarando nelle pagine del memoriale che la faccenda Lockheed (che porterà alle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone) sarebbe stata solamente la punta dell'iceberg di un sistema di corruzione diffuso e radicato. Tangentopoli gli darà ragione.
Pagine mancanti: i Servizi Segreti italiani in Libia e i rapporti Andreotti-Miceli. Non mancano, nel memoriale, i riferimenti ai rapporti Italia-Libia. O meglio non mancavano, dal momento che la parte che riguardava il ruolo degli 007 italiani in Libia risultò mancante anche dopo il ritrovamento della seconda parte del memoriale nel 1990. Nei dattiloscritti del 1978 si notavano palesi omissioni e mancati rimandi alle domande formulate dai carcerieri a riguardo. E' la maggiore e forse più rilevante omissione che riguarda entrambe le versioni ritrovate nel 1978 e nel 1990. L'unica traccia rimasta sull'argomento è un passaggio in cui Aldo Moro loda l'operato dei Servizi italiani attivi durante il regime di Gheddafi. Tutto faceva pensare ad una sottrazione volontaria della parte riguardante l'operato del Sid, che comprendeva anche una parte su Giulio Andreotti e i suoi rapporti conflittuali con il Generale Vito Miceli. La parte del memoriale mai ritrovata conteneva forse i segreti del caso Moro. Forse gli stessi di cui era a conoscenza Mino Pecorelli, direttore di O.P. assassinato pochi mesi dopo l'irruzione nel covo di via Monte Nevoso, il 20 marzo 1979. Esattamente un anno dopo i giorni del calvario di Aldo Moro.
IL MEMORIALE DI MORO: DI VERITÀ SI MUORE. CON LE MANIPOLAZIONI, GLI OCCULTAMENTI E I RICATTI SI SOPRAVVIVE E SI PUÒ PROSPERARE, scrive Benedetta Tobagi per "la Repubblica" il 5 maggio 2011. Nella "prigione del popolo", Aldo Moro fu interrogato dalle Brigate Rosse che volevano estorcergli i segreti di trent´anni di potere democristiano. In piena guerra fredda, nella palude della corruzione diffusa che sarebbe esplosa con Tangentopoli, il terrore di ciò che Moro avrebbe potuto dire fece tremare il governo e allertò i servizi segreti di 16 paesi: il lato più destabilizzante del sequestro Moro risiedette proprio in questo risvolto spionistico-informativo. I terroristi non pubblicarono mai gli interrogatori, adducendo motivazioni contraddittorie e insoddisfacenti; gli originali sono spariti. Di quella "verità rivoluzionaria" possediamo solo qualche centinaio di fogli: il cosiddetto "memoriale", in parte rielaborazione degli interrogatori, in parte memoria difensiva e testamento spirituale denso di durissimi giudizi politici. I Carabinieri lo ritrovarono nel covo milanese di via Montenevoso con tempi e modi rocamboleschi: un primo mazzo di dattiloscritti anonimi nell´ottobre ´78 (un formato "neutro" che consentì al governo di pubblicarli negando che fossero parola di Moro); una versione più ampia nel ´90, caduto il Muro, esploso lo scandalo Gladio (cui lo statista alludeva), con fotocopie dei manoscritti autografi di Moro che ne attestano l´autenticità. Stava dietro un tramezzo di cartongesso che alimentò infinite dietrologie su chi e perché l´avesse nascosto. Nel Memoriale della Repubblica (Einaudi, pagg. 624, euro 25) lo storico Miguel Gotor affronta con successo una sfida ambiziosa: a partire dall´analisi microstorica dell´odissea di queste carte, vagliando una mole immensa di documenti, testimonianze e atti processuali, ci racconta l´Italia degli anni Settanta e l´anatomia nascosta del potere italiano, un mosaico di spinte eterogenee e contraddittorie nel quadro di pesanti vincoli internazionali. Allergico alla retorica dei misteri, Gotor completa lo studio analitico del caso Moro inaugurato con l´edizione commentata delle Lettere dalla prigionia, portando elementi nuovi in un quadro di più ampio respiro. Intrecciando tenui ma incontestabili tracce documentali, con uso rigoroso del paradigma indiziario, deduce l´esistenza di un´operazione "Montenevoso-bis", mai verbalizzata. Dietro l´occultamento delle fotocopie autografe, l´ombra della cordata di Carabinieri infiltrata dalla P2 e un doppio terminale di riferimento, Andreotti sul piano istituzionale, Gelli su quello informale. Le operazioni di disinformazione a mezzo stampa che, attraverso la figura ambigua dell´ex Carabiniere Demetrio Perrelli, hanno voluto addossare al defunto Dalla Chiesa l´occultamento dei manoscritti, sono occasione per un´analisi delle tecniche manipolatore della P2. Le fughe di notizie e la gestione mediatica dei contenuti del memoriale dal ´78 in poi sono geroglifici attraverso cui indagare l´abbraccio soffocante tra stampa e potere; si ricostruisce il ruolo ambiguo svolto dal giornalista Mario Scialoja (ex giornalista dell'Espresso, oggi collabora al sito del settimanale trattando di vela, NDR), che aveva accesso a informazioni di prima mano dal partito armato. Il proliferare di versioni contraddittorie, fittizie ma verosimili, attorno a operazioni delicate come la scoperta e le perquisizioni di via Montenevoso, consente allo storico di sollevare il velo su alcune tecniche spregiudicate utilizzate dall´antiterrorismo in Italia. Contro la retorica che li ha ridotti a monumenti, le figure di Dalla Chiesa e di Moro giganteggiano, umane e chiaroscurali: emblemi dei dilemmi tragici e dei compromessi necessariamente posti dall´esercizio del potere, che in loro non fu mai disgiunto da una visione alta - della politica, dello Stato, dell´Arma. Sono sconfitti, scavalcati da due lati: dalla spregiudicatezza andreottiana, l´uso strumentale del potere che mira innanzitutto alla propria conservazione, e dalle spinte antipolitiche con pretese di purezza: virus trionfanti nel corpo del potere italiano. Con la libertà di giudizio di chi negli anni Settanta è nato, Gotor dedica pagine taglienti al cinismo e alle reticenze di quanti si mossero nella vasta area di contiguità con il terrorismo, che lambiva salotti, giornali, università. Dentro le Br, l´intelligenza del filologo Fenzi e del criminologo Senzani si profila nella gestione oculata di passaggi cruciali del sequestro: con forte afflato civile, lo storico non limita le responsabilità al cerchio delle risultanze processuali. Non solo Gladio: Gotor ripercorre il memoriale sopravvissuto, di cui leggiamo ampi stralci, argomenta perché certi passaggi fossero "pericolosi" prima del ´90 e ci resistuisce lo sguardo di Moro sull´Italia del suo tempo (è in preparazione un´edizione completa e annotata di tutti gli scritti della prigionia). Setacciando testimonianze dei "lettori precoci" del memoriale, morti ammazzati come Pecorelli o sopravviventi come gli ex brigatisti, desume l´esistenza di un "un-memoriale", un testo originario più ampio e ipotizza alcuni dei temi censurati: il golpe Borghese, la fuga del nazista Kappler, il cosiddetto "lodo Moro" che regolava i conflitti tra palestinesi e israeliani in Italia. Il crudo ammonimento evangelico agli ipocriti posto in esergo addita un percorso di lettura nella meditazione sul rapporto tra verità e potere. Il controllo dell´informazione resta il più formidabile ed elusivo strumento di dominio: una partita feroce giocata tra propaganda e segreto, utilizzando sofisticate mescolanze di vero, falso e verosimile. Di verità si muore, come Pecorelli e Dalla Chiesa. Grazie al combinato di manipolazione, occultamento e mercati ricattatori si può sopravvivere, vivere, financo prosperare, provano le diverse ma convergenti strategie di Brigate Rosse, Andreotti, Gelli. Il ragionare metodico dello storico che riconosce la realtà brutale della politica senza cedere al cinismo, chino a ricomporre i frammenti per sottrarre il potere urticante della verità alla fisiologica usura del tempo, è un vaccino - non solo un´autopsia - al corpo infetto del potere. Raccoglie la sfida di cui Moro prigioniero aggrappato alla propria scrittura fu l´incarnazione più tragica: l´intelligenza degli avvenimenti resta, ancora, "punto irriducibile di contestazione e di alternativa".
SCIALOJA CONTRO "REPUBBLICA": "MAI STATO AMBIGUO NELLA CRONACA SULLE BR". Lettera di Mario Scialoja a "la Repubblica" dell'5 maggio 2011. Leggo nell'articolo di Benedetta Tobagi su libro di Miguel Gotor Il memoriale della Repubblica che l'autore «ricostruisce il ruolo ambiguo del giornalista Mario Scialoja che aveva accesso a informazioni di prima mano dal partito armato». Ho scorso il libro e constatato che l'autore, bontà sua, mi cita in ben 44 pagine. Non capisco quale ambiguità possa venir attribuita a un cronista che ha sempre pubblicato sull'Espresso tutte le notizie di cui veniva in possesso. Cosa mai messa in discussione. Quanto ai miei «sin troppo informati articoli», come li definisce Gotor, ribadisco quanto ho sempre detto ai magistrati che mi hanno sentito nel corso degli anni e in Commissione Stragi: nessuna informazione mi è venuta attraverso un contatto diretto con l'area Br. Bensì tramite persone (Piperno, Scalzone ...) che potevano ricevere notizie dall'interno del gruppo armato. Sarebbe lunghissimo controbattere a tutte le ipotesi e connessioni fantasiose avanzate dall'autore. Solo un esempio. Gotor, parlando dell'incontro a Roma nel luglio '78 tra Piperno e Moretti «avvenuto in una casa alto borghese situata nei dintorni di piazza Cavour», osserva una «curiosa coincidenza topografica». Sostiene che io nel '78 abitavo dalle parti di piazza Cavour e che quindi la casa della «clamorosa riunione» potesse essere proprio la mia. Il che spiegherebbe, secondo lui, il mio essere tanto informato, ecc. Purtroppo, nel '78 (e fino al 1980) abitavo a via San Valentino 18. Tutt'altra zona di Roma.
LE DUE BOMBE DI ETTORE BERNABEI: "LE LETTERE DALLA PRIGIONIA NON SONO SCRITTE DA MORO. IO CREDO AI SOLERTI 007 CHE HANNO UBICATO IL SUO BARBARO OMICIDIO TRA LE MURA DI PALAZZO CAETANI". Dall'intervista di Malcom Pagani a Ettore Bernabei per "l'Espresso".
La dietrologia comunque non le dispiace.
"Spesso converge con la verità. Pensi al povero Aldo Moro".
Lei Moro lo conosceva bene.
"Benissimo. Lui e la sua calligrafia. Le lettere dalla prigionia, ad esempio, non sono scritte dalla sua mano. Se si vuole intuire qualcosa della recente parabola italiana, bisogna partire dal sogno energetico di Enrico Mattei".
Perché proprio Mattei?
"Il suo progetto, l'autosufficienza a basso costo per l\'Italia, irritò le grandi potenze. Disturbavamo. Da allora, il progetto di destabilizzazione del Paese non conobbe soste. Lo sapevano in Vaticano e ne tenevano conto in Piazza del Gesù".
Tra il tramonto dei Sessanta e i Settanta l\'Italia fu scossa da tragedie. Anni di caos.
"Stragi, bombe, terrorismo. I brigatisti rossi erano omuncoli di rara modestia. Mai avrebbero potuto sostenere lo sforzo economico e ideologico della loro mattanza".
Quindi?
"Erano eterodiretti. Qualcuno ha calcolato che l\'operazione costò in termini economici tra covi, armi e coperture, più della guerra del Vietnam".
Se le dico lobby cosa le viene in mente?
"Il clan dei sardi è stato, in Italia, l'unico vero gruppo di potere degli ultimi 50 anni. Politica, massoneria, matrimoni in chiesa, parentele, trasversalità. Berlinguer, Siglienti, Segni, Cossiga. Ricorda le picconate?"
Certo.
"Chi le scriveva per lui, sapeva quali messaggi trasmettere. Tra le righe, si sostenevano cose enormi, ma non c'era un solo passaggio che lo avrebbe potuto trascinare all'impeachment. Il Cossiga scosso dal caso Moro e messo a terra dalla vicenda Donat Cattin-Prima Linea, seppe poi adeguatamente risorgere".
Divenne presidente della Repubblica.
"All'unanimità. Dovrebbe far riflettere".
Aldo Moro, la profezia sulle Br e il leader Dc: “Il Presidente deve morire”. Il “piano b” - Nel ’69 l’articolo del “Bagaglino”: “Dio lo salvi”. Il leader Dc isolato anche per i dubbi di Berlinguer. Il 16 marzo in via Fani era tutto pronto, scrive Miguel Gotor il 16 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Il 16 marzo di quarant’anni fa, le Brigate rosse rapirono in via Fani Aldo Moro e sterminarono la scorta composta da Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Quella mattina passarono a prenderlo e se lo portarono via come se si fossero dati un appuntamento. Nelle ultime due settimane Moro si era esposto troppo, fino a rimanere isolato. Nel corso del discorso ai gruppi Dc del 28 febbraio 1978 aveva forzato il passo per raggiungere l’obiettivo di includere i comunisti nella maggioranza di governo, per la prima volta dal 1947. Un coraggioso atto di imprudenza, forse l’unico e l’ultimo della sua vita politica, in ragione dell’addensamento, in quegli ultimi mesi, delle resistenze del contesto internazionale della Guerra fredda e della vischiosità del fronte interno e degli apparati. Uno strappo che aveva fatto sì che Moro diventasse l’unico personale garante di quell’accordo, mentre nelle stesse ore Enrico Berlinguer diventava sempre più dubbioso e recalcitrante. Il colpo, secco e feroce, venne da sinistra, dagli esponenti del “partito armato”, ma avrebbe potuto arrivare da destra, dai cosiddetti “strateghi della strategia della tensione” e il risultato non sarebbe cambiato. Per persuadersi di questo meccanismo basterebbe prendere sul serio un articolo premonitore di Pier Francesco Pingitore che uscì nel 1969 sul Bagaglino intitolato “Dio salvi il presidente” in cui venivano descritti, con satirico e informatissimo puntiglio, il percorso che Moro faceva ogni mattina, le sue abitudini, il numero dei poliziotti di scorta, le qualità delle armi da usare per colpirlo, il punto esatto dove sarebbe stato agevole ucciderlo (presso la Chiesa di Santa Chiara secondo il “piano a” e proprio in via Fani secondo il “piano b”). Un articolo minacciosamente premuroso (talora la satira serve a veicolare le veline dei servizi e avvertimenti serissimi) che iniziava ponendosi questa domanda: “Quindici uomini vegliano sulla vita dell’onorevole Moro. Ma sarebbero sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?”, oppure dal pugnale del fanatico cattolico che uccise nel 1589 il re di Francia Enrico III, il cui omicidio era ricordato in posizione enfatica alla fine dell’articolo, sottolineando come fosse protetto da ben 45 uomini di scorta e non solo 15 come Moro. In realtà l’operazione ordita dalle Brigate rosse nove anni dopo l’uscita di questo scritto si sarebbe rivelata più raffinata: non un semplice regicidio, come quelli avvenuti più volte nella storia, a partire da Giulio Cesare, ma il suo sequestro e, poi, l’uccisione. L’eccezionalità della vicenda Moro è tutta qui: è il rapimento di un sovrano che si conclude con la sua morte, non un assassinio e basta. Un sequestro di persona che sarebbe equivalso al sequestro di uno Stato a partire dal suo capo (e capo dello Stato in senso proprio Moro lo sarebbe diventato se avesse vissuto ancora qualche mese) dei suoi segreti, delle sue informazioni sulla sicurezza nazionale ed estera. Un rapimento funzionale a distruggerne l’integrità morale, civile e politica, a massacrarne l’immagine in modo che quel disegno di tessitura e di conciliazione non potesse avere continuatori. In tanti avevano l’interesse, sia tra le eterne fazioni delle contrade nostrane sia tra le nazioni amiche, che l’Italia rimanesse lacerata e in balia degli eventi perché negli ultimi trent’anni quel Paese si era eccessivamente allargato, perdendo la guerra ma vincendo la pace, e perciò facendosi troppi nemici. Soltanto nel marzo 1990 si conobbero i nomi di nove partecipanti all’agguato, canonizzati nel memoriale del brigatista dissociato Valerio Morucci, redatto nel 1986 e inviato riservatamente all’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. In base a questo documento, su cui ancora oggi si fonda la verità giudiziaria sull’agguato di via Fani, quel giorno entrarono in azione Franco Bonisoli, arrestato nell’ottobre 1978, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore e Valerio Morucci, catturati nel 1979, Bruno Seghetti, imprigionato nel 1980, Mario Moretti, carcerato nel 1981, Barbara Balzerani, arrestata nel 1985, Alvaro Lojacono, catturato nel 1988, ma poi espatriato in Svizzera, e Alessio Casimirri, tuttora latitante in Nicaragua. In un’intervista dell’ottobre 1993, Morucci si ricordò anche di Rita Algranati, moglie di Casimirri, arrestata nel 2004. I brigatisti portarono via due delle cinque borse di Moro e, nella concitazione dell’azione, bisogna riconoscere che seppero scegliere con chirurgica precisione: presero infatti la borsa con le medicine e quella, secondo la testimonianza della moglie, con i “documenti riservatissimi”. L’agguato di via Fani accelerò la formazione del nuovo governo Andreotti e lo stesso giorno i sindacati proclamarono lo sciopero generale. Nelle principali città si tennero manifestazioni in cui le bandiere rosse del Pci e quelle bianche della Dc si confusero con i vessilli dei sindacati. Nella tarda mattinata gli esponenti di Autonomia operaia e del movimento studentesco tennero un’assemblea presso l’Università di Roma: esaltazione, euforia, eccitazione, ammirazione, smarrimento, paura, dubbio e attesa composero l’ampia e contraddittoria gamma sentimentale di questo vasto schieramento giovanile. Un’atmosfera tesa e sfuggente che il trascorrere degli anni e i balsami della memoria e del reducismo avrebbero contribuito a offuscare, fra una serie di inevitabili rimozioni, ambiguità e reticenze generazionali: chi aveva sparato a via Fani non era un marziano, ma un compagno di banco o magari il ricordo del primo bacio. Il giornale Lotta Continua l’indomani intitolò: “Respingiamo il ricatto: né con lo Stato, né con le Br”, facendo riferimento al clima di quest’assemblea. Uno slogan che, se vogliamo dirla tutta, coglieva lo spirito del tempo non soltanto fra quelle fasce studentesche, ma fra ampi strati del mondo operaio e della piccola e media borghesia italiana in cui diffusi umori giustizialisti e antiparlamentari lasciavano mormorare: poveri uomini della scorta, certo, ma Moro era un politico di “Palazzo” e dunque…A quarant’anni dalla strage di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è incompleto, ma viene da chiedersi se questo oggi sia un dato storico rilevante e non l’ovvietà che caratterizza ogni omicidio politico. Da alcune testimonianze oculari è possibile dedurre che furono presenti all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda, anche se i brigatisti hanno sempre smentito questa presenza, che li costringerebbe ad ammettere le relazioni intercorrenti tra le Br e le altre componenti del cosiddetto “partito armato”. Vale a dire la miriade di sigle, che spuntavano come funghi, composte in buona parte da una minoranza di ex militanti di Potere Operaio e di Lotta continua, i quali, dopo lo scioglimento delle due organizzazioni, invece di ritornare a casa o alle libere professioni dei padri, avevano preferito, sull’onda di ritorno del movimento del 1977, impugnare le pistole e imboccare la strada della lotta armata. E che dire poi di un confronto con il sequestro del magistrato Mario Sossi, realizzato dalle Brigate rosse nel 1974: allora non fu necessario eliminare la scorta, e sappiamo che vennero impiegati almeno 18 uomini, contro i dieci di via Fani. Un altro dato di fatto induce a ritenere che i numeri non tornano: nelle ore successive al sequestro le Brigate rosse fecero beffardamente ritrovare ben tre macchine utilizzate nell’agguato tutte in una stesso posto, la piccola via Licinio Calvo, un’operazione logistica che, oltre a una spiegazione ragionevole ancora mancante, deve avere richiesto la collaborazione di una manovalanza più numerosa. Anche la dinamica dell’agguato, quella restituita dalle testimonianze dei protagonisti e dalle non meno scivolose perizie balistiche, suggerisce la presenza di altre persone ancora non identificate. Un’azione non semplice perché si trattò di colpire i bersagli in modo selettivo, ossia uccidendo i due occupanti della vettura di Moro, ma lasciando incolume l’ostaggio da prelevare, colui che, secondo un testimone oculare, avrebbe urlato (e si fa fatica a immaginare Moro urlare) “mi lascino andare, cosa vogliono da me”. Sull’agguato di via Fani si stese prontamente la coltre ideologica della “geometrica potenza di fuoco” di un osservatore interessato come Franco Piperno, ma in realtà le perizie e le stesse testimonianze dei brigatisti dicono altro. In effetti, l’aspetto più paradossale di tutta la storia è proprio questo: tutti, nessuno escluso, hanno raccontato che le loro armi si incepparono nel corso dell’azione. Del resto, la seconda perizia ha stabilito come l’armamento utilizzato dai brigatisti fosse per oltre un terzo composto da veri e propri “residuati bellici” come ammesso dallo stesso Moretti. L’intervento di un tiratore scelto – per gli esegeti della Commissione Moro, un quinto sparatore da destra non ancora identificato che avrebbe giustiziato con un colpo di grazia il maresciallo Leonardi – potrebbe spiegare perché i brigatisti del gruppo di fuoco scelsero di indossare delle divise di aviere, rendendosi in questo modo più facilmente individuabili così da evitare di essere colpiti dal fuoco amico di un possibile tiro incrociato. L’ultima commissione Moro ha accertato la presenza di due macchine dalla posizione sospetta: un’Austin così malamente collocata da impedire alla vettura della scorta di Moro di svincolarsi (un particolare notato dallo stesso Morucci nel suo memoriale) e una Mini Cooper parcheggiata davanti alle fioriere dove si nascose il gruppo di fuoco. Le tardive ricerche sui loro proprietari hanno rivelato in entrambi casi dei profili biografici gravitanti nell’area dei servizi segreti nazionali. Un dato di fatto, ma anche le coincidenze possono esserlo. Le ultime testimonianze avvistarono Moro e i suoi rapitori in piazza Madonna del Cenacolo. Secondo la versione diffusa a rate dai brigatisti (peraltro gravida di evidenti contraddizioni logiche e pratiche) sarebbe stato portato in via Montalcini, nel quartiere della Magliana, da dove non si sarebbe mai mosso nel corso dei 55 giorni più bui della storia della Repubblica. Grazie all’attività della Commissione Moro oggi sappiamo che Gallinari, nell’autunno 1978, trovò rifugio in via Massimi, a poche centinaia di metri da via Fani e da via Licinio Calvo, dove vennero rilasciate le macchine del sequestro. Evidentemente in quello stabile di proprietà dello Ior, abitato da alti prelati, diplomatici, giornalisti, agenti e società di copertura di servizi segreti mediorientali e statunitensi, Gallinari dovette sentirsi sufficientemente al sicuro. Oppure, più banalmente (perché questa al fondo, fatta salva l’eccezionalità della vittima, è una storia banale se si pensa che la maggioranza dei sequestri termina con la morte dell’ostaggio), gli assassini ritornano sempre sul luogo del delitto.
Aldo Moro, le Br e la “strategia delle lettere” per beffare lo Stato, scrive Miguel Gotor il 30 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Come uno sparo nel buio: così risuonarono, dopo tredici interminabili giorni di silenzio, le prime tre lettere di Aldo Moro recapitate dalle Brigate rosse il 29 marzo 1978. La prima era indirizzata alla moglie Eleonora, la seconda al ministro degli Interni Francesco Cossiga e la terza a Nicola Rana, capo della segreteria politica di Moro. Nella tarda serata, i brigatisti fecero ritrovare un comunicato, cui allegarono la fotocopia della lettera a Cossiga (solo quella) che pervenne contemporaneamente alle redazioni di alcuni giornali di Roma, Milano, Genova e Torino, dando così prova di un imponente coordinamento e dispiegamento di forze che rivelava una logistica e una organizzazione ramificate a livello nazionale. Queste tre lettere sono importanti, anzi decisive, per diversi motivi in quanto costituirono il momento genetico della complessa “operazione Moro” e, come una prima cellula cancerogena, ne preannunciarono lo svolgimento futuro e l’esito finale. Sul piano della “propaganda armata” e della battaglia comunicativa determinarono i successivi orientamenti dell’opinione pubblica italiana concorrendo a formare l’immagine del prigioniero che occupò lo spazio mediatico in quei 55 giorni. I sequestratori dispiegarono una micidiale strategia differenziata dei recapiti che divenne parte integrante della loro azione terroristica. In un primo momento inviarono le tre lettere in originale a Rana così da potere saggiare il comportamento dei destinatari, ma subito dopo stabilirono di divulgarne una sola (quella a Cossiga), decidendo così loro quanto doveva restare segreto e quanto essere offerto in pasto all’opinione pubblica. In questo modo, costrinsero da subito il governo all’inseguimento e i famigliari del rapito ad acconciarsi ai tempi e ai modi della loro strategia comunicativa. In secondo luogo, sul piano della lotta politica visibile, le due lettere a Cossiga e a Rana (che vanno lette insieme come un’unica missiva) innescarono la dimensione spionistico-informativa del sequestro. Il prigioniero, infatti, spiegava che era in gioco la ragione di Stato, che si trovava “sotto un dominio pieno ed incontrollato”, che era sottoposto a un “processo popolare” e che poteva “essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”. In terzo luogo, con queste due lettere i brigatisti lasciarono che Moro indossasse direttamente i panni del capo del fronte della trattativa così da potere loro conservare uno spazio di autonomia e di libertà di manovra e di smentita. L’ostaggio, infatti, propose un esplicito scambio di prigionieri a condizione però che la trattativa rimanesse segreta. Bisognava quindi limitarsi a informare il capo dello Stato Giovanni Leone, il presidente del consiglio Giulio Andreotti “e pochi qualificati capi politici” che è facile immaginare rispondessero alle figure di Enrico Berlinguer, Bettino Craxi, Ugo La Malfa e forse Amintore Fanfani. Inoltre Moro indicava con chiarezza a chi rivolgersi per favorire il negoziato, ossia alla Santa Sede, essendo ben consapevole di come quel sentiero extra-territoriale avesse per secoli svolto un delicato ruolo di intermediazione tra i governanti della penisola e di compensazione dei conflitti fazionari. Infine, il comportamento adottato dai sequestratori con queste due missive mostra oggi come allora che i brigatisti in realtà erano ben interessati ad avviare una trattativa segreta che a parole negavano perché “nulla doveva essere nascosto al popolo”. Non si tratta di illazioni, ma di una semplice analisi delle loro effettive azioni, tutte efficaci e razionali. I brigatisti, infatti, dopo avere consegnato riservatamente le due lettere e avere garantito al prigioniero che il loro contenuto non sarebbe stato reso pubblico decisero di divulgare quella indirizzata a Cossiga. Oggi sappiamo che contemporaneamente fecero credere al prigioniero che non erano state loro a violare i patti, ma il ministro dell’Interno cui Moro rivolse una seconda lettera di rimprovero, scritta intorno al 4-5 aprile, che si guardarono bene dal recapitare, ritrovata soltanto nell’ottobre 1978 come dattiloscritto e in fotocopia autografa addirittura nell’ottobre 1990. In questo modo i brigatisti nel loro comunicato serale non persero l’occasione per farsi beffe di Moro, di Cossiga e della Dc e di conquistare punti davanti all’opinione pubblica italiana sostenendo che “le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana”. Allo stesso tempo, però, vollero tutelare la riservatezza della seconda missiva, quella indirizzata a Rana, il cui contenuto rimase segreto per loro scelta. Il contenuto di questa lettera era sostanzialmente identico a quello della missiva a Cossiga ma con una preziosa novità: Moro, infatti, individuava nella portineria dell’abitazione privata del suo collaboratore il luogo da utilizzare per far pervenire dei messaggi riservati dall’esterno all’interno della prigione e viceversa e invitava Cossiga a difendere la segretezza di questo canale di ritorno. Così facendo i brigatisti dimostravano all’antiterrorismo e agli uomini politici più avveduti che proprio quella era la preziosa informazione che essi volevano salvaguardare per futuri ed eventuali utilizzi. Che insomma, un conto erano le parole dette al popolo, un altro le loro effettive intenzioni che spietatamente avrebbero perseguito. Non a caso, tre giorni dopo il recapito di questa missiva rimasta segreta iniziò la vera partita, giocata mediante una serie interminabile di finte e controfinte, che avrebbe previsto l’avvio di un doppio e intrecciato canale, riservato (primo livello, con l’“iniziativa” socialista/Franco Piperno) e segreto (secondo livello, con il “negoziato” Vaticano) e che avrebbe coinvolto proprio la Santa Sede nella persona di Paolo VI e la famiglia pontificia lungo l’esile ma tagliante filo della ragion di Stato. Una dottrina di matrice cattolica, realistica, serissima e feroce, che già Benedetto Croce aveva definito “un Dio ascoso”: dunque non stupisce che avrebbe coinvolto persino lo spirito di Giorgio La Pira, che sarebbe stato interrogato nel corso di una seduta spiritica il 2 aprile 1978 e di seguito certamente invocato da Moro in una lettera d’addio non recapitata con un enigmatico “spero mi aiuti in altro modo”, di cui però parleremo la prossima volta. E già, in altro modo.
Un gigante timido in quel bel miracolo che fu la prima repubblica. È morto a 92 anni Giovanni Galloni, dimenticato, uno dei protagonisti della politica italiana, scrive Piero Sansonetti il 25 Aprile 2018, su "Il Dubbio". È morto l’altroieri, a 92 anni, Giovanni Galloni. Ieri non ho trovato traccia di questa notizia sulle prime pagine dei giornali. E neanche sulle homepage dei siti, che pubblicavano altre notizie e ci informavano anche della morte di altre persone, ma non di Galloni. Un personaggio, evidentemente, considerato come una figura minore dai giornalisti e dagli intellettuali. Un politico puro (oltre che un giurista) sobrio, poco conosciuto in Tv, riservato, percettore di vitalizio. Diciamo pure un uomo trascurabile. Casta, casta…No, non è solo una questione di nostalgia. È un fatto indiscutibile: lo spirito pubblico in questi anni ha subito un fortissimo decadimento, e l’annientamento della politica e il disprezzo per l’immaginario che la politica suscitava, sono stati probabilmente due delle cause di questa deriva. Chi era Giovanni Galloni ve lo racconta Francesco Damato nell’articolo che pubblichiamo qui accanto. Damato lo ha conosciuto molto bene. Io l’ho conosciuto poco, sul piano personale, ma ricordo benissimo del ruolo decisivo che ebbe Galloni nella politica italiana, soprattutto nella stagione della solidarietà nazionale, cioè negli anni del grande riformismo che trasformò questo paese e lo fece approdare alla modernità. Galloni era uno dei cervelli pensanti più rigorosi e lungimiranti di quella macchina politica che fece vivere la prima repubblica, e portò l’Italia a grandi successi, nonostante l’asprezza della lotta e del clima politico di quegli anni, e le grandi difficoltà dell’economia. Allora il ceto politico era molto ampio e variegato. C’erano i burocrati, c’erano gli organizzatori, c’erano quelli capaci di aggregare il consenso, i clientelari, i combattenti, e poi c’erano anche i cervelli, gli strateghi, gli intellettuali. Un vero leader politico doveva essere in grado di coprire diversi questi ruoli. E comunque gli si chiedeva di essere un intellettuale. I leader politici erano molto colti. Come Moro, Amendola, Ingrao, Lombardi, La Malfa, Fanfani. Tutti loro erano leader nel senso pieno, organizzatori, creatori di consenso, oratori, pensatori. Galloni era soprattutto un pensatore, che agiva in gruppo, ma credo che senza la sua capacità di pensiero, ma anche la sua prudenza e le sue doti di mediatore, la solidarietà nazionale sarebbe stata impossibile. Berlinguer e Moro la disegnarono, ma Galloni fu decisivo nel gestirla e nel trasformarla in una stagione di grande riformismo. Anche dopo la morte di Moro e durante la fragile segreteria Zaccagnini. Vi dicevo che un pochino l’ho conosciuto anche personalmente. E’ stato nel 1968. Andavo a scuola dai preti a piazza di Spagna, e a scuola con me c’era il figlio di Galloni, Nino, che oggi è un economista noto. Allora, insieme, organizziamo le (piccole e un po’ clandestine) proteste politiche. Ai preti non piacevano. Una volta ci sorpresero a distribuire volantini fuori dal portone e ci rifilano 15 giorni di sospensione. Allora, insieme ad altri compagni di scuola un po’ rivoltosi, ci riunimmo a casa di Nino, per prendere delle contromisure. Stavamo chiusi lì, a discutere in una nuvola di fumo, quando si aprì la porta ed entrò l’onorevole Galloni, con un libro in mano, sorridente. Ci lesse qualche riga di questo libro ed erano righe che spiegavano quanto fosse velleitaria la battaglia che noi stavamo conducendo. Poi alzò lo sguardo verso di noi e citò l’autore di quelle righe, scandendo bene le tre parole: Vladimir – Ilic – Lenin. Sorrise di nuovo e andò via. Votò inutilmente per Moro, mentre gran parte dei suoi colleghi di corrente votò per Leone, il cui figliolo Mauro d’altronde era già o sarebbe diventato presto – non ricordo più bene consigliere nazionale della Dc proprio per la sinistra di Base. “Hanno fatto – mi confidò Galloni parlando degli amici di corrente – un torto ingiusto a Moro e un cattivo servizio a Leone, condannandolo a gestire una fase politica pericolosa”. Il centrosinistra infatti si interruppe. La Dc sostituì i socialisti con i liberali di Giovanni Malagodi al governo e si incamminò verso quel referendum sul divorzio che, gestito proprio da Fanfani alla segreteria del partito nel 1974, avrebbe compromesso duramente la lunga primazia politica dello scudo crociato. Ma di Leone il povero Galloni era destinato ad occuparsi drammaticamente nella primavera del 1978, dopo la tragica fine di Moro, che già l’aveva tormentato partecipando come vice segretario della Dc alla gestione della cosiddetta linea della fermezza. Una linea dove Moro, dalla prigione delle brigate rosse, stentava a credere davvero che fosse sinceramente attestato l’amico Galloni, di cui faceva ricorrentemente il nome nelle lettere ai democristiani incitandoli a salvargli la vita, anche a costo di trattare con i terroristi che lo avevano sequestrato sterminandone la scorta. Alla fine di Moro seguì quella anticipata del settennato presidenziale di Leone. Ebbene, toccò proprio a Galloni andare al Quirinale, mandatovi dal segretario del partito Benigno Zaccagnini, per chiedere al capo dello Stato il “sacrificio” delle dimissioni, reclamate con una paradossale simmetria dai radicali di Marco Pannella e dal Pci di Enrico Berlinguer continuava a scrivere e a pubblicare, facendoci lo sconto sui prezzi di copertina: saggi della consueta lucidità. Giovanni non riuscì mai a dimenticare, in particolare, il rude trattamento riservatogli dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, quando lui ne era il vice al vertice del Consiglio Superiore della Magistratura. Cossiga arrivò nel 1991 a ritirargli pubblicamente quasi tutte le deleghe, restituitegli poi dal successore Oscar Luigi Scalfaro. La contesa, chiamiamola così, era scoppiata attorno al diritto nuovamente rivendicato da Cossiga, dopo un episodio analogo verificatosi col precedente Consiglio Superiore, ai tempi del governo Craxi, di dire l’ultima parola sugli ordini del giorno dell’organo di autogoverno della magistratura. La cui presidenza è affidata dalla Costituzione al capo dello Stato. I rapporti tra la magistratura e il Quirinale erano tesissimi. Si arrivò alla proclamazione di uno sciopero nei tribunali contro il presidente della Repubblica, cui si rifiutò di aderire a Milano, con tanto di cartello appeso alla porta del suo ufficio, il sostituito procuratore Antonio Di Pietro. Che Cossiga naturalmente volle poi conoscere personalmente, instaurando con lui rapporti altrettanto naturalmente destinati poi a rompersi. Ma la vice- presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura fu dolorosa per Galloni anche dopo la presidenza di Cossiga, in particolare quando le inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale della politica travolsero i partiti di governo e l’intera cosiddetta prima Repubblica. Galloni era sommerso dalle proteste di vecchi amici di partito e non, che volevano da lui interventi risolutivi contro questo.
GALLONI. QUANDO SINISTRA ERA ANCHE LA DC, scrive il 25 aprile 2018 Roberto Di Giovan Paolo su "Ildomaniditalia.eu". Le biografie di un’epoca in cui mancano non solo le ideologie ma spesso anche ideali, ci raccontano solo la sequela degli incarichi ma Galloni non fu certo una “seconda fila”. Sin da ragazzo. Giovanni Galloni, al di là delle biografie ufficiali, dell’ex ministro della pubblica istruzione (il successore della eterna Falcucci e il predecessore dell’attuale presidente della repubblica, Sergio Mattarella), è stato molto di più di una figura di spicco della Democrazia Cristiana, perché forse come pochi cattolici in politica ha saputo essere un ideologo, rispettato culturalmente e talvolta bistrattato politicamente anche dai suoi amici, nonostante abbia certamente vissuto una vita politica di primissimo piano, in cui oltre all’incarico di ministro è stato sei volte parlamentare, visegretario e vicepresidente dc e direttore de Il popolo. In un versante di mondo – quello cattolico – troppo spesso dominato dalla retorica dei valori e dal pragmatismo incombente delle scelte quotidiane – specie dopo la vittoria del 1948 che proiettò la Dc saldamente al governo – Giovanni Galloni ha mantenuto viva una battaglia ideale e un confronto ideologico che, con scritti, discorsi ed azioni politiche ha avuto pochi eguali, forse soli Guido Bodrato, Luigi Granelli e Carlo Donat Cattin, della sua generazione. Galloni è stato il collante e il riferimento ideologico di più di una generazione Dc, perché aveva cominciato presto a far politica, staffetta partigiana in Emilia Romagna, a Bologna dove la sua famiglia si era trasferita dalla Sicilia. Era stato, direi “naturalmente” tra i giovani che poi avevano seguito l’impegno politico di Giuseppe Dossetti, al punto di essere tra coloro presenti al secondo incontro di Rossena, nel 1951 quando il leader di minoranza della Dc annunciò l’addio alla politica e le dimissioni da vicesegretario dc e da deputato della Repubblica. Di quel dibattito (con Dossetti stesso poco, perché egli non voleva discutere un arretramento della sua scelta e fu categorico, ma di e con altri parecchio “forte” e che si è conosciuto solo nel tempo con una certa reticenza dei protagonisti, Giovanni Galloni fu testimone certo e ne scrisse in riviste (come Iniziativa Democratica e poi più in là in Appunti, ma anche in molti libri, ultimo quello su “Dossetti Profeta”), o forse si dovrebbe dire, che lo visse sulla sua pelle, sempre, in tutti i lunghi anni della sua vita politica. Quel dibattito verteva sulla condizione del cattolicesimo democratico nel nostro Paese e sulla ferrea presa di De Gasperi sulla Dc. Dossetti in sostanza diceva che le premesse della Resistenza per un cambio sociale nel Paese erano rimaste deluse ed i cattolici avevano grandi colpe in ciò (Nicola Pistelli anni dopo parlò di “rachitismo politico” dei cattolici italiani) e dunque nelle condizioni date De Gasperi rispondeva al massimo di progresso politico possibile per un movimento che non poteva andare oltre le sue radici. Giuseppe Dossetti, che con la sua corrente dopo lo sforzo fortissimo dei “professorini” per la nascita della Costituzione aveva contestato le modalità dell’Alleanza atlantica, aveva richiesto una riforma agraria complessiva e piani generali per il lavoro e per la casa (le “attese della povera gente” di La Pira) e cosa si ritrovava ora? Un partito baluardo contro il comunismo conservatore socialmente e che senza de Gasperi avrebbe ripiombato l’Italia nel conservatorismo politico ante Costituzione. Dunque, addio alla politica, almeno per lui. In attesa che il mondo cattolico evolva per cambiare poi la rappresentanza politica dei cattolici (e infatti prende i voti monacali…) Ma per chi resta? Tra cui Giovanni Galloni e tanti altri? Dossetti elabora la teoria dei “due piani”: chi vuole faccia formazione politica per accelerare il cambio di condizione culturale dei cattolici e del Paese; chi invece vuol continuare in politica sappia che dovrà rafforzare De Gasperi, anche se non lo ama, perché è l’unico argine al rischio di conservatorismo politico. Nel dire questo Dossetti si rivolge esplicitamente a Galloni e agli altri dei gruppi giovanili. E da lì prende le mosse il lavoro politico interno alla Dc di Giovanni Galloni. Il quale resiste due anni ma poi a Belgirate nel 1953 con altri, tra cui Marcora su tutti, dà vita alla corrente di “sinistra di Base”, la prima corrente di sinistra dc che punta decisamente sul cambio strutturale dello Stato (riforme strutturali, riforme istituzionali, confronto politico con tutti) e non solo sul miglioramento delle condizioni sociali o di mero eco delle battaglie sindacali. La sinistra di Base è stata la casa di Giovanni Galloni per tutta la sua vita. Una casa di famiglia, da cui ha polemizzato con Fanfani, uscito dalla corrente dossettiana convinto che solo il controllo pieno del partito portasse al controllo del governo, e in cui ha incontrato dall’inizio il brillante operaio Italsider Luigi Granelli (poi parlamentare e ministro), e gli studenti della Cattolica, Ciriaco De Mita e Riccardo Misasi, la corrente di cui è stato l’“anello romano” per Giovanni Marcora. Moro? Certo Aldo Moro era tra le amicizie più care ma il leader barese era restio al lavoro organizzato di una corrente a suo modo “scientifica” come la “sinistra di Base”. Rimasero l’amicizia e la consonanza “dossettiana” tutta la vita, fino al momento del comune concepimento della solidarietà nazionale e della tragedia del rapimento e dell’uccisione di Moro, ma non sempre si trovarono a fare il congresso Dc assieme, perché le tattiche di Moro e dei basisti spesso divergevano, anche per i numeri oggettivamente diversi. Giovanni Galloni fu l’ideologo di Marcora e della Base per l’apertura prima ai socialisti e poi al confronto con il Pci (qui assieme a Moro, certamente) e fu, assieme a Bodrato, colui che mise assieme tutte le anime delle sinistre dc per vincere il congresso con Zaccagnini nel 1975 e da allora il massimo esponente di un confronto istituzionale per le riforme con il Pci. Non era certo l’uomo delle clientele… eletto sei volte in parlamento, spesso con grande sforzo dei giovani e dei suoi amici fedeli, capolista al comune di Roma e appositamente non votato da tutte le altre correnti della riprovevole dc romana dei dorotei o degli andreottiani sia di rito Evangelisti che Sbardella. Galloni era mite ma non le mandava a dire… quando Cossiga presidente decise di improvvisarsi “picconatore”, lui nel frattempo divenuto vicepresidente del Csm, parlò di politica e di responsabilità e Cossiga-caso unico nella Repubblica – gli ritirò delle deleghe che gli furono restituite solo dal successore, Scalfaro. È stato un docente universitario valente ma soprattutto il riferimento di chiunque volesse fare un dibattito o una sessione di formazione politica. A qualunque partito, corrente, sindacato, associazione o qualsivoglia comunità appartenesse. Per discutere partiva da ogni dove ed arrivava ogni dove. Molti lo ricordano al volante della sua Fiat 127 con cui, per la verità metteva allarme in figli ed amici cari perché dell’intellettuale aveva tutte le caratteristiche, compresa una certa leggerezza per le cose di tutti i giorni. Che, francamente lo faceva apprezzare ancor di più.
Trattativa Stato mafia, anomalo riferimento a Berlusconi nella sentenza, scrive il 21 aprile 2018 Affari Italiani. "Marcello Dell'Utri è colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi": così i giudici della corte d'assise, nel dispositivo della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia, "circoscrivono" la responsabilità penale di Marcello Dell'Utri. L'ex senatore di Forza Italia, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato condannato a 12 anni. Un dispositivo ritenuto dagli addetti ai lavori "anomalo" perchè la corte non si limita a un riferimento temporale "dopo il '93", ma fa espressamente riferimento a Berlusconi. Anomalia ancora più evidente se si ritiene che per gli altri imputati, i vertici del Ros, condannati per lo stesso reato nel lasso temporale precedente al '93 la formula cambia. E manca completamente il riferimento specifico al premier in carica all'epoca. E tra i politici di Forza Italia c'è chi grida alla sentenza politica, sottolineando la vicinanza tra il pm Di Matteo e il M5s.
Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi. L'assurda sentenza di Palermo non dice che il centrodestra ha raggiunto i maggiori risultati sul campo. Scovati i latitanti più pericolosi, scrive Luca Fazzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Una casupola bianca e un po’ malconcia in una masseria sulle colline di Montagna dei Cavalli, fuori Corleone: un braccio che si allunga per ritirare un pacco di biancheria lasciato da poco lì fuori. «Via, entriamo», dice la radio dei trenta poliziotti arrivati fin lassù, nel silenzio del martedì di aprile. Finisce così, dopo quarantatré anni, la latitanza di Bernardo Provenzano, Binnu u’ Tratturi. Era l’11 aprile 2006. Da tredici anni, dalla cattura di Totò Riina, Binnu era il numero uno di Cosa Nostra, il latitante più importante d’Italia. Bisogna ripartire da quel fotogramma, dal braccio che si sporge, per capire quanto stia in piedi la teoria di un governo Berlusconi addomesticato ai voleri di Cosa Nostra, come sostengono trionfanti i pm di Palermo dopo la indiscutibile vittoria ottenuta nel processo per la presunta trattativa Stato- Mafia. Bisogna partire da quella foto, guardare le date, ragionare. Provenzano viene arrestato nella fase finale della XIV legislatura. Ministro dell’Interno è Beppe Pisanu, capo del governo è Silvio Berlusconi: cioè l’uomo politico che secondo la tesi della Procura di Palermo, fatta propria dalla sentenza di ieri, avrebbe ricevuto «una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa Nostra». Una trattativa in tre fasi, l’ultima - secondo i pm - gestita in prima persona da Provenzano medesimo. Che però viene catturato e sepolto in un carcere di massima sicurezza. Ne uscirà solo dieci anni dopo, ormai demente, per andare a morire in una stanza d’ospedale. Cosa era accaduto tra il 1993 della presunta trattativa e l’arresto di Provenzano? Si potrebbe ipotizzare che gli accordi di non belligeranza tra Stato e mafia avessero dispiegato un qualche effetto, almeno nella prima fase. Macché. Berlusconi va a Palazzo Chigi la prima volta il 10 maggio 1994, ci resta fino al 17 gennaio successivo; ministro dell’Interno è Roberto Maroni. Una manciata di mesi: ma nello stesso periodo finiscono in galera quasi cento latitanti per reati di mafia, criminali inseguiti da anni da mandati di cattura. Sono camorristi, ’ndranghetisti, ma il prezzo più alto lo paga Cosa Nostra, anche nelle sue propaggini internazionali: il 20 luglio 1994 a Long Island viene catturato dallo Sco, Paolo Lo Duca, latitante dal 1990, l’uomo di raccordo tra Cosa Nostra, i clan americani e il cartello di Medellin, un personaggio chiave nell’economia mafiosa. Tre mesi dopo a Palermo la Mobile arresta Francesco Inzerillo, cugino del boss ammazzato dai Corleonesi nel 1980, e interfaccia in Sicilia dei Gambino di New York. A novembre in Canada viene individuato e preso Salvatore Ferraro, successore di «Piddu» Madonia alla testa di Cosa Nostra a Caltanissetta. Si azzannano i tentacoli della Piovra oltreconfine. Berlusconi torna al governo nel 2001, al Viminale vanno prima Scajola e poi Pisanu. E la musica non cambia. La «Lista dei Trenta», l’elenco dei latitanti più pericolosi, deve venire aggiornata di continuo, perché uno dopo l’altro i boss cadono nella rete. Il 16 aprile 2002 a Roccapalumba tocca a Antonino Giuffrè: è il sanguinario braccio destro di Provenzano, in fuga da nove anni, condannato a otto ergastoli. Appena arrestato si pente e comincia ad accusare Marcello Dell’Utri e Forza Italia. L’anno dopo, a luglio, finiscono le latitanze anche di Salvatore Rinella e Salvatore Sciarabba: sono gli uomini che proteggono Provenzano. Il cerchio intorno a «Binnu» si sta stringendo. Saranno questi, i «benefici di varia natura» di cui parla la Procura di Palermo? Ad aprile 2006 tocca a Provenzano. Due settimane più tardi si vota, il centrodestra lascia Palazzo Chigi. Ci torna due anni dopo, l’8 maggio 2008. Premier è di nuovo Berlusconi, ministro degli Interni di nuovo Bobo Maroni. E la musica riprende. È il periodo d’oro della caccia ai boss, quello in cui Maroni a conti fatti potrà vantare l’arresto di 6.754 mafiosi, compresi ventotto della «Lista dei Trenta». Vengono smantellati santuari della criminalità organizzata in tutto il Mezzogiorno. La ’ndrangheta, che nel 2004 aveva visto la fine della interminabile latitanza di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradrittu» tra il 2008 e il 2009 vede finire in cella imprendibili di lungo corso come Francesco e Antonio Pelle; il 10 dicembre 2008 termina la fuga di Giuseppe De Stefano, «il top della ’ndrangheta» nelle parole del procuratore Giuseppe Pignatone. Il 17 novembre 2010 catturano nella sua Casal di Principe il superboss della camorra Antonio Iovine: «Abbiamo preso un re nel suo regno», commenta il procuratore antimafia Piero Grasso. «Questa è l’antimafia dei fatti», dice Maroni. Ma è in Sicilia, nella terra dove il progetto della trattativa avrebbe preso forma e sostanza, che l’assedio alla criminalità mafiosa continua con i risultati maggiori. Matteo Messina Denaro non si trova, ma - come all’epoca di Provenzano polizia e carabinieri fanno terra bruciata intorno al padrino in fuga. A settembre 2009 viene catturato Domenico Raccuglia, il collaboratore che gestisce la latitanza di Messina Denaro. A dicembre nello stesso giorno vengono presi a Palermo il giovane boss rampante Giovanni Nicchi e a Milano Gaetano «Tanino» Fidanzati, 78 anni, uno dei primi uomini d’onore a sbarcare al nord. Nel giugno successivo prendono Giuseppe Falsone, il capo di Cosa Nostra ad Agrigento: vive sotto falso nome a Marsiglia, la città dove Provenzano era riuscito a farsi operare alla prostata durante la latitanza. E poi centinaia di arresti solo apparentemente minori, esponenti di seconda fila dei clan e anche semplici gregari: che però costituiscono l’ossatura dei clan, la pianta organica senza la quale il potere dei boss diventa una scatola vuota. Sono risultati imponenti, figli del lavoro oscuro e tenace delle forze dell’ordine. E di una volontà politica.
40 anni fa: poteri occulti e lunga scia di sangue, scrive il 16 marzo 1978 Valter Vecellio su “la Voce dell'isola". Al terrorismo tutto l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, 14 mila atti di violenza politica. Cosa resta di quegli anni? È materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da poteri occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia. 16 marzo di 40 anni fa: è il giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della scorta. Moro è il protagonista di una politica scomoda, impasto di prudenza e di audacia: 55 giorni dopo lo uccidono. Uno scempio di umanità che segna l’apice del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua irreversibile crisi. Al terrorismo l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, oltre 1.000 feriti, almeno 14 mila gli atti di violenza politica.
Come inizio prendiamo il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana a Milano: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura,17 morti. Il paese precipita in un buio periodo di violenza. Una follia di cui sono vittime forze dell’ordine, magistrati, politici, sindacalisti, cittadini comuni. Ne ricordiamo alcuni episodi. Il commissario Calabresi: per la magistratura vittima di un gruppo di fuoco di Lotta Continua; il rogo di Primavalle: aderenti a Potere Operaio incendiano la casa di un dirigente missino, tra le fiamme muoiono i due figli di 22 e 8 anni. Poi le stragi fasciste, nel 1974 a Brescia, piazza della Loggia, e al treno Italicus; in quell’anno le Brigate Rosse rapiscono il giudice Mario Sossi.
Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.
Virgilio Mattei, 22 anni, figlio di Mario Mattei, segretario locale del Movimento Sociale Italiano, ucciso nel rogo di Primavalle (Roma) insieme al fratellino di 8, da aderenti a Potere Operaio il 16 aprile 1973.
Ogni giorno un agguato, un delitto. Tra le prime vittime due magistrati, Francesco Coco, assassinato dalle Brigate Rosse; Vittorio Occorsio, ucciso dai fascisti di Ordine Nuovo; sempre le Brigate Rosse uccidono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Il culmine con l’assassinio di Moro. Poi, come se qualcuno abbia detto: basta. Inizia la parabola discendente, non meno sanguinosa: le Brigate Rosse uccidono tra gli altri Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Valerio Verbano, Mario Amato. E secondo la magistratura porta la firma della destra estrema la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti, oltre 200 feriti.
La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, 85 morti, oltre 200 feriti: per la magistratura la firma è della destra estrema.
1980, strage di Bologna. Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da centri di potere occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno di loro magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia.
La storia, dunque. Quel 16 marzo a via Fani, questa forse è una delle poche cose sicure, si scrive una delle pagine più buie e tragiche della nostra storia recente. Le Brigate Rosse pensano di colpire mortalmente il cuore dello Stato. Indubbiamente si blocca una politica sgradita sia a Est che a Ovest, che mette in discussione equilibri nazionali e internazionali raggiunti quarant’anni prima. Il muro di Berlino era ancora ben solido. Al tempo stesso, uccidendo Moro le Brigate Rosse segnano anche l’inizio della loro fine. Prima, erano le Brigate Rosse cosiddette “storiche”: quelle dei Renato Curcio, delle Mare Cagol, degli Alberto Franceschini. Ingozzati di nozionismo marxisticheggiante mal digerito, il mito di una Resistenza ora e sempre salvifica e purificatrice. Prima semplici, simbolici, sequestri come quello, nel 1973, di Ettore Amerio, capo del personale della FIAT Mirafiori. Poi, un anno dopo, a Padova la svolta: quando uccidono due militanti del Movimento Sociale. Poi, ecco le Brigate Rosse di Mario Moretti, con solidi e anche sordidi contatti con l’Est europeo, movimenti palestinesi estremisti, ambienti inquinati da servizi segreti di ogni tipo. Su Moretti da sempre gravano sospetti mai del tutto fugati, da parte dei suoi stessi compagni. È lui che gestisce in prima persona l’affaire Moro. Ancora oggi ci si interroga su chi lo abbia ispirato, sui “suggeritori” occulti. C’è anche un “dopo” Moretti, che possiamo identificare con Giovanni Senzani. E’ l’ideologo terrorista che gestisce il rapimento di Ciro Cirillo, che vede coinvolti in una oscura trattativa gli immancabili servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo; lo stesso anno in cui, a Verona, viene rapito il generale americano James Lee Dozier, liberato da un blitz dei NOCS. Sono gli anni del declino delle Brigate Rosse. Un declino, lungo, doloroso, scandito sempre da rapimenti, attentati, sangue, morti; ma ormai è evidente che non servono più a nessuno. Il delitto Moro è uno spartiacque anche per loro: il sogno di colpire al cuore il Potere dello Stato si è rivelato solo un incubo, cementato da inganni e stupidità.
Caso Moro. I brigatisti rossi? Figli dell’Italia dell’odio antifascista e resistenziale, scrive il 19 marzo 2018 Mario Bozzi su Barbadillo e Secolo d’Italia. Il quarantesimo anniversario del massacro di Via Fani, con il sequestro di Aldo Moro, leader della Dc, da parte delle Brigate Rosse, ha confermato, oggi come ieri, un oggettivo ritardo culturale nell’interpretazione delle cause della stagione del terrorismo. A leggere certe ricostruzioni si ha quasi l’impressione che gli autori del massacro della scorta e del rapimento fossero venuti da un altro pianeta e non fossero invece i figli legittimi dell’Italia dell’epoca, di ben chiare ascendenze storiche e ideologiche. Al di là dei “misteri insoluti”, su cui ci si è soffermati nelle diverse ricostruzioni offerte in questi giorni (il numero dei partecipanti all’azione, il luogo della prigionia, i “depistaggi”, il ruolo di soggetti stranieri, ecc…) esistono alcuni fattori “certi” che erano alla base del sequestro Moro e dell’esperienza terroristica del decennio settanta.
Ascendenze e connivenze culturali. A legittimare ideologicamente l’operato dei terroristi era la visione dello Stato-nemico, prodotto dell’antagonismo di classe e strumento di sfruttamento della classe oppressa (Lenin), ed il nuovo radicalismo marxista-leninista, frutto delle esperienze guerrigliere in America Latina e nel Vietnam. La “visione” era in fondo simile a quella dei Partiti Comunisti “legalitari” (l’instaurazione della “dittatura del proletariato”), diversa la strada per raggiungere il potere. A difendere questo quadro d’assieme è il sostanziale asservimento della cultura italiana alla logica egemonica di stampo gramsciano, ma fatta propria da Togliatti. Riviste, case editrici, università sono state il “brodo di coltura” di questa doppia verità: in apparenza pluralista ed aperta al dialogo, in realtà alimentata dalle aspettative rivoluzionarie di stampo marxista-leninista: “I filosofi hanno soltanto ‘interpretato’ variamente il mondo, ora si tratta di ‘trasformarlo’” (Marx). “Il terrorismo è una forma di azione militare che può essere utilmente applicata o addirittura rivelarsi essenziale in certi momenti della battaglia” (Lenin).
La continuità antifascista. L’appello mitico alla Resistenza non è solo dettato dal cosiddetto “pericolo stragista”, quanto soprattutto dall’idea di una rivoluzione antifascista incompiuta e di un suo ulteriore sviluppo sulla strada della liberazione socialista dallo sfruttamento e dall’ oppressione capitalista, fino al passaggio – segnalato da Alberto Franceschini, cofondatore, con Renato Curcio, delle Brigate Rosse – delle armi usate durante la Resistenza ai “nuovi partigiani”: un passaggio reale e simbolico, che, durante gli Anni Cinquanta-Sessanta, era stato ideologicamente rappresentato – all’interno del Partito Comunista – da Pietro Secchia, vicesegretario del partito dal 1948 al 1958, e poi da Pietro Longo, segretario dal 1964 al 1972, il quale, ancora nel 1970, arriva a scrivere (su “l’Unità”) di una “nuova Resistenza”, in grado di realizzare nel nostro paese “ … una nuova decisiva avanzata democratica, liberandolo da ogni subordinazione all’imperialismo americano, dalla arretratezza e dalla miseria”.
L’ambiguità politica. Sia la Dc che il Partito Comunista hanno giocato per anni sulla politica degli “opposti estremisti”, dei “compagni che sbagliano”, delle “sedicenti Brigate Rosse”, favorendo così la crescita del terrorismo armato, che non a caso – secondo una coerente logica “antifascista” – aveva iniziato colpendo un sindacalista della Cisnal (Bruno Labate, sequestrato il 12 febbraio 1973, a Torino e sottoposto ad un “processo proletario”) e due militanti missini (Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, uccisi durante l’ assalto delle Br alla sede del Msi di Padova nel giugno 1974). C’è una complicità (morale) e una sottovalutazione (politica) dietro l’emergere delle Brigate Rosse, che chiamano in causa la principale forza di governo dell’epoca ed il maggiore partito comunista dell’occidente. Ad unirli non c’era solo la strategia del “compromesso storico” quanto l’idea di un possibile abbraccio tra cattolicesimo e marxismo, ben analizzato da Augusto Del Noce, il quale all’epoca denunciava il cosiddetto “progressismo cristiano”, autentica quinta colonna nel campo cattolico e moderato, culturalmente disarmato e quindi pronto a qualsiasi compromesso. Il “trauma” provocato dal sequestro di Moro (1978) e poi dall’assassinio (1979) dell’operaio comunista Guido Rossa da parte delle Br, obbligherà sia la Dc che il Pci a superare la fase dell’ambiguità politica per cogliere i tratti reali del fenomeno terroristico nel nostro paese. Ma fu certamente una presa d’atto tardiva, visti i grandi costi umani degli “anni di piombo”. Su un manifesto, che all’epoca fece scalpore, diffuso dal Fronte della Gioventù, c’era scritto “Moro: chi semina vento raccoglie tempesta”. Dopo quarant’anni – al di là di ogni retorica rievocazione – anche da lì bisogna partire per cogliere il senso di quella stagione, pervasa dall’odio ideologico e dalla tempesta che ne seguì e che travolse tutta l’Italia, con la sua lunga striscia di sangue. Per fissarne le responsabilità reali. Per non dimenticare.
Primavalle, il rogo e i depistaggi. Così la sinistra perse l’innocenza. I due figli del «fascista Mattei» furono uccisi una seconda volta dalla campagna di veleni e dall’indifferenza con cui l’omicidio fu trattato da un vasto fronte politico, scrive Pierluigi Battista il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Oggi Stefano Mattei, arso vivo in un delitto politico che si consumò la notte del 16 aprile 1973, avrebbe 55 anni. Suo fratello Virgilio, invece, ne avrebbe 67. Morirono tutti e due nell’incendio che, appiccato da un manipolo di delinquenti politici, stava divorando la piccola casa popolare in cui vivevano con tutta la famiglia. Una fotografia scattata quella notte di esattamente quarantacinque anni fa, dalla strada ritrae Virgilio carbonizzato dalle ustioni, che cerca inutilmente di gettarsi dalla finestra. Nella foto non si vede invece il piccolo Stefano, che in quel momento se ne sta avvinghiato alle gambe del fratello grande che non era riuscito a salvarlo. Due morti vittime dell’odio politico. Due vittime dell’indifferenza con cui la cultura democratica e progressista aveva reagito all’assassinio così orrendo che aveva colpito dei ragazzi colpevoli solo di essere figli di un fascista.
I responsabili. La vicenda giudiziaria è stata lunga, complessa, ma ormai nessuno più dubita dell’identità dei responsabili. Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, militanti di Potere Operaio, sono stati condannati come esecutori materiali di quel delitto. Sono riparati all’estero anche grazie all’aiuto di una sinistra che, come Dario Fo e Franca Rame, è stata talmente trascinata dall’odio ideologico contraffatto con le parole dell’antifascismo da considerare veniale la morte di un bambino e di un ragazzo nel rogo di Primavalle, il luogo dove la giovane sinistra uscita dal Sessantotto perse la sua innocenza. La casa dove abitavano i fratelli Mattei, era un appartamento a Primavalle di appena 40 metri quadri, al terzo piano della Scala D, lotto 15, in uno dei più famosi quartieri proletari di Roma. Ci abitavano in otto in quella casa di 40 metri quadri del «fascista Mattei», che poi era Mario Mattei, segretario della sezione «Giarabub» del Movimento Sociale Italiano: i genitori e sei figli, Stefano, Virgilio, Giampaolo, Antonella, Lucia e Silvia.
L’incendio. Quella notte terribile, mentre tutta la famiglia dormiva, gli assassini si misero in fretta a cospargere di benzina il pianerottolo al terzo piano, davanti alla porta e a far filtrare il combustibile con un piano inclinato, lasciare l’innesco e scappare. Probabile che quel gesto criminale volesse essere un irresponsabile gesto dimostrativo, i rampolli della borghesia di sinistra romana forse non avevano nemmeno idea di cosa fosse una casa di appena 40 metri quadri abitata da otto persone. Fatto sta che l’innesco esplose, la benzina prese fuoco e in un battibaleno bruciò l’intero appartamento del «fascista Mattei», i mobili, i letti, l’armadio, i vestiti, persino i pigiami dei bambini. Mario e la moglie spaccarono i vetri delle finestre e aiutarono i ragazzi a buttarsi nel vuoto. Ce la fecero tutti, sia pur con ustioni e fratture. Tranne due: Virgilio, 22 anni, che si era attardato per salvare il fratellino, e appunto Stefano, 10 anni, bruciato vivo in quello che passerà alla storia come il «rogo di Primavalle».
Disinformazione. Ma l’Italia non rimase sgomenta e interdetta per la fine così orribile di un bambino, il figlio di un fascista non meritevole di pietà e cordoglio sincero. Cominciò invece una campagna di disinformazione e di depistaggio, partita dall’estrema sinistra ma appoggiata dagli organi tradizionali della stampa e della televisione, per cancellare la vera matrice politica di quel misfatto. Stefano e Virgilio furono uccisi una seconda volta da titoli oltraggiosi e insensati che servivano a colpevolizzare le vittime e a scagionare politicamente e materialmente i responsabili del delitto. Si urlò al «regolamento dei conti tra i neri», si delirava di una «faida tra fascisti», si farneticava di una «provocazione fascista che arriva al punto di uccidere i propri figli»: ma a queste farneticazioni vollero credere in tanti, purtroppo non solo nell’estremismo di sinistra, ma anche negli ambienti rispettabili dell’establishment antifascista. Si faceva pure dell’ironia sulla fiamma «assassina» che sarebbe stata una «fiamma tricolore», come il simbolo del Msi in cui militava il «fascista Mattei». Partirono i cortei con gli slogan per «Lollo libero». Il padre di uno dei tre indagati venne raggiunto da una lettera aperta scritta da alcuni dei più accreditati esponenti della sinistra in cui si suggeriva il blasfemo paragone tra il carcere in cui era rinchiuso il figlio e un campo di concentramento nazista.
Odio ideologico. Per questa velenosa campagna di disinformazione, di odio ideologico, di disprezzo per le vittime, di cinica indifferenza per la morte di un bambino bruciato vivo nessuno ha chiesto veramente scusa. E in quella assurda campagna di autoinnocentizzazione insincera davvero una parte della sinistra ha perduto la sua innocenza morale e politica. Sono passati quarantacinque anni e quella vicenda terribile è quasi dimenticata, derubricata a uno dei tanti episodi di cieca violenza politica degli anni Settanta. Ma fu molto peggio. E a distanza di tanto tempo facciamo ancora fatica a rendercene conto.
1969 – 1978: la politica estera di Aldo Moro ai tempi del terrorismo internazionale, scrive Enrico Malgarotto il 12 aprile 2018 su "socialnews.it". “L’Unione Sovietica mira ad indebolire l’Europa occidentale con una manovra per linee esterne, tentando di separare politicamente da essa il Medio Oriente e l’Africa del Nord. In questo stato di cose si rafforzano i segni di un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa. E’ umano che il popolo americano cominci ad essere stanco di vedere schierati alla difesa dell’Europa occidentale i figli di coloro che la liberarono. Ciò pone, tuttavia, problemi di sicurezza interna e anche di obiettivo politico che noi europei dobbiamo prepararci ad affrontare al più presto.” Questo appunto inedito di Aldo Moro risalente al marzo del 1970 è stato ritrovato nell’archivio di Stato dall’ Avvocato e scrittore Valerio Cutonilli, autore, insieme al Giudice Rosario Priore, di un interessante libro sulla strage di Bologna e sui rapporti tra lo Stato italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi. La nota, ignorata per oltre 40 anni, si rivela particolarmente significativa se si esamina il contesto in cui è stata vergata e, più ancora, se si comprende la lucida analisi che connota la visione dello Statista sugli equilibri geopolitici dei decenni successivi e sulla stabilità interna di un’Italia ancora provata dalla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e che si preparava ad affrontare un importante vertice con la Germania, a sostegno della Ostpolitik per l’apertura con i paesi dell’Est.
Tale visione, da qualcuno definita “eretica”, si rivelerà profetica alla luce degli avvenimenti degli anni seguenti. L’allora Ministro degli Esteri Moro, autore di questa annotazione, sapeva bene quale fosse la situazione internazionale tra la fine degli anni sessanta ed il decennio successivo. Gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam con ingenti forze militari e risorse. Questa concentrazione di fondi ed energie verso il sud est asiatico aveva portato l’Amministrazione statunitense a rivedere le proprie priorità a svantaggio della tradizionale centralità dell’Europa nella propria pianificazione. Sebbene questo spostamento verso l’estremo oriente della politica estera di Washington fosse stato oggetto di appositi negoziati con la controparte sovietica, i fatti successivi hanno dimostrato che il Cremlino ha approfittato di questa situazione per agire contro l’Europa occidentale ed i suoi alleati. Questo processo sarebbe avvenuto non attraverso un conflitto frontale con la NATO, ma ricorrendo ad una guerra non convenzionale attuata da organizzazioni terroristiche supportate dai Servizi segreti del blocco orientale.
Verso il Lodo Moro: il terrorismo palestinese. In quegli anni faceva la sua comparsa in Europa il fenomeno terroristico dei gruppi palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e Settembre Nero sono i nomi delle maggiori formazioni operanti in quegli anni, sebbene la galassia delle unità terroristiche arabe fosse molto più vasta. Sono molti i fatti salienti, tra il 1969 e il 1973, che hanno visto come epicentro l’aeroporto di Roma – Fiumicino e che avrebbero portato il nostro Paese ad imboccare la strada dell’accordo con questi gruppi, ad iniziare dal dirottamento su Damasco di un aereo della TWA in volo da Los Angeles a Tel Aviv (con scalo a Roma) compiuto il 29 agosto 1969 dalla più famosa terrorista dell’organizzazione palestinese, Leila Khaled, cui è seguito l’attentato del 16 giugno 1972 messo in atto con un mangianastri imbottito di tritolo dotato di un timer regalato da due giovani arabi a delle ragazze israeliane conosciute poco prima. Nonostante la deflagrazione dell’ordigno nella stiva durante il volo, l’aereo, non avendo riportato danni, atterrava a Tel Aviv. Il 4 aprile 1974 a Ostia, fuori Roma, due membri dell’organizzazione palestinese venivano fermati e arrestati per detenzione di alcuni missili Strela di costruzione sovietica – facilmente trasportabili – da usare contro un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al durante le fasi di decollo o atterraggio. Il 17 dicembre 1973 a Fiumicino, cinque terroristi lanciavano delle bombe incendiarie all’interno di un aereo della statunitense Pan Am uccidendo trenta passeggeri tra cui quattro italiani. Il gruppo terroristico, poi, prendeva possesso di un velivolo della Lufthansa (la compagnia di bandiera tedesca) costringendo il pilota a decollare. Dopo aver fatto scalo per il rifornimento di carburante ad Atene, il velivolo veniva fatto atterrare a Kuwait City dove, una volta liberati gli ostaggi, le Autorità provvedevano ad arrestare i terroristi, rilasciati, in seguito e posti a disposizione dell’organizzazione terroristica palestinese. Anche i siti industriali sono stati oggetto di attentati da parte di tali organizzazioni arabe come occorso il 3 agosto del 1972 all’oleodotto di Trieste (in concomitanza con un simile attacco avvenuto in quegli anni in Olanda).
Il Lodo Moro. Di fronte alla portata degli attentati i Paesi europei decisero di entrare in contatto con le formazioni per stringere speciali accordi affinché il proprio territorio fosse escluso da ulteriori attacchi. L’Italia, presumibilmente nel 1972/1973, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, allora retto da Aldo Moro, stringeva un patto – passato alla storia come il Lodo Moro – che concedeva piena libertà alle organizzazioni palestinesi di muoversi nel nostro territorio e ad utilizzarlo come base logistica per azioni in tutta Europa. La controparte avrebbe assicurato che in Italia non ci sarebbero stati altri attentati, ad esclusione delle sedi e dei siti americani ed israeliani presenti nel territorio della penisola. Probabilmente l’autore materiale dell’accordo e’ stato il Servizio segreto italiano: prima il SID, il Servizio informazioni Difesa (organo d’intelligence italiano dal 1965 al 1977) e poi il SISMI – Servizio Informazioni Sicurezza Militare (a partire dal 1978) nella figura del Colonnello Stefano Giovannone, responsabile del centro del Servizio a Beirut, in Libano. L’agente infatti per tutto il periodo di durata del Lodo, aveva provveduto a mantenere i contatti tra Roma e il Medio Oriente sia con le organizzazioni terroristiche sia con gli altri Paesi, in particolare Giordania e Libano, che mal tolleravano la massiccia presenza di organizzazioni palestinesi nel proprio territorio. L’assenza di azioni terroristiche in Italia suggerisce che nel corso degli anni settanta l’accordo tra le parti sia stato sostanzialmente rispettato. Come hanno dimostrato diversi eventi, i terroristi scoperti e arrestati in procinto di progettare attentati nel nostro Paese sono stati liberati e riportati alle loro basi palestinesi anche attraverso la Libia di Mu’ammar Gheddafi, da sempre Padre Protettore di tali organizzazioni, cui forniva campi di addestramento e significativo supporto.
Da Ortona a Bologna: la violazione del Lodo. Nel novembre del 1979 ad Ortona, piccola cittadina abruzzese, i Carabinieri sequestrarono dei missili Strela (lo stesso modello usato dai due arabi a Ostia nel 1974) ad alcuni rappresentanti romani di Autonomia Operaia, movimento della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria in aperta opposizione al Partito Comunista Italiano di quel periodo. Indagando sulla provenienza delle armi, le Autorità Giudiziarie arrestavano a Bologna Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente fuori corso presso l’Ateneo ma, in verità, membro, in qualità di responsabile della rete logistica in Italia, del gruppo terroristico FPLP e della formazione tedesca Separat di Carlos lo Sciacallo, nome di battaglia di Ilich Ramirez Sanchez, famoso rivoluzionario venezuelano marxista – leninista e filo arabo, autore, con i suoi gruppi, di numerosi attentati in tutta Europa. Fin da subito le poche persone a conoscenza dell’accordo stretto da Moro si rendevano conto che l’arresto di Saleh avrebbe potuto essere considerato dalle formazioni palestinesi come una violazione del Lodo, con le inevitabili conseguenze che ciò avrebbe comportato. Attraverso le informazioni raccolte dal Colonnello Giovannone, cominciavano ad arrivare a Roma i primi segnali d’allarme circa la volontà di compiere un’azione punitiva nei confronti dell’Italia da parte dell’ala più oltranzista dell’organizzazione palestinese. Col passare dei mesi, con la condanna di Saleh, dal Medio Oriente giungeva la notizia che l’eventuale attacco contro il nostro Paese sarebbe avvenuto per mano di elementi esterni al FPLP. Il 2 agosto 1980 una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto della stazione di Bologna esplodeva causando ottanta vittime e il ferimento di circa duecento persone. Per circa trent’anni o più si è voluto associare questa strage alla matrice neofascista nell’ambito della strategia della tensione, tuttavia altri punti di vista, ancorché controversi ed in parte smentiti, porterebbero a puntare il dito contro quel Carlos a capo del gruppo Separat di cui anche lo stesso Saleh faceva parte.
La spinta dall’est del terrorismo europeo. Le formazioni eversive di estrema sinistra presenti in tutta Europa negli anni settanta e ottanta erano le francesi Action Directe, le tedesche RAF o Rote Armee Fraktion – conosciute anche come Banda Baader – Meinhof dal nome dei due capi storici – e le italiane Brigate Rosse. Questo sistema eversivo europeo occidentale, in coordinamento con quello medio orientale, nella sua fase più matura, era gestito dall’Unione Sovietica. I Servizi segreti di Mosca, quelli cecoslovacchi (Stb) e della Germania orientale (Stasi e Hva) hanno contribuito a supportare il terrorismo rosso di quegli anni. Fin dai primo dopoguerra, la Cecoslovacchia si è sempre dimostrata in prima linea per quanto riguarda le attività clandestine comuniste in occidente. Per approfondire quest’ultimo aspetto è necessario far riferimento a diverse fonti tra cui l’archivio Mitrochin, (il voluminoso dossier sui documenti top secret del kgb che l’ex archivista del Servizio sovietico Vasilij Nikitič Mitrochin ha portato in occidente nei primi anni novanta contribuendo a svelare la fitta rete di legami tra il blocco orientale e l’occidente durante la guerra fredda) ed il libro di Antonio Selvatici “Chi spiava i terroristi? KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa <<comunista>>” Ed. Pendragon, 2010, i quali trattano in modo approfondito le dinamiche con cui gli organi di intelligence d’oltrecortina aiutavano i terroristi. I campi erano stati creati dal Kgb nel 1953 per addestrare anche il personale dell’apparato militare clandestino in seno al PCI, composto soprattutto da ex Partigiani comunisti fuggiti dall’Italia in quanto colpevoli, durante la guerra, di crimini e per questo motivo ricercati dalle Autorità, alle attività di sabotaggio, guerriglia, intercettazione, all’uso delle armi interrate dal Kgb nel nostro Paese (che si aggiungevano a quelle utilizzate dalle formazioni rosse durante l’ultimo biennio della Seconda Guerra Mondiale e mai restituite agli alleati alla fine del conflitto) e alle comunicazioni radio cifrate. Karlovy Vary è il nome della località nell’ex Cecoslovacchia in cui sorgeva il campo d’addestramento gestito, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non dai Servizi segreti di Praga ma dal Gru, l’organo di intelligence militare di Mosca. La presenza degli 007 sovietici in questi campi potrebbe confermare la tesi secondo cui la stagione degli attentati degli anni settanta e ottanta non fosse solo una manovra politica ma una vera e propria guerra contro l’occidente, combattuta con strumenti ben lontani dal concetto tradizionale di conflitto. Nel 1974, dopo l’arresto, da parte dei Carabinieri di Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle BR ma completamente slegati ed autonomi dalle trame politiche di Mosca e Praga, il Servizio segreto cecoslovacco incrementò la propria presenza a fianco del movimento eversivo. I vertici del PCI erano a conoscenza di questi legami “pericolosi” tra est e ovest al punto che il segretario del partito Enrico Berlinguer inviava, nel 1975, una delegazione a Praga guidata da Salvatore Cacciapuoti, in qualità di responsabile agli affari internazionali del PC, per conoscere quanti e chi fossero gli italiani addestrati in Cecoslovacchia. Dalle Autorità slave solo silenzio (probabilmente dovuto alla volontà di non trattare l’argomento con elementi esterni o perché, come effettivamente è stato, i Servizi cecoslovacchi non avevano alcuna autorità su questi campi) e una vaga promessa di inviare a Roma una relazione in merito. L’invio della delegazione è dovuto al fatto che il PCI, soprattutto a partire dal 1974, cominciava a considerare la questione terrorismo rosso con molta preoccupazione, soprattutto perché era a conoscenza che elementi interni al partito continuavano a collaborare alle attività clandestine comuniste d’oltrecortina e che l’unica soluzione per contribuire a fermare l’ondata eversiva che stava colpendo l’Italia (e forse anche per scongiurare eventuali situazioni di imbarazzo politico) era collaborare con le Forze dell’Ordine, in particolare con la Sezione antiterrorismo dei Carabinieri guidati dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Contatti tra le Brigate Rosse e l’FPLP. Le Brigate Rosse godevano anche del supporto delle formazioni palestinesi, le quali mettevano a disposizione dei terroristi italiani i campi di addestramento del Libano, Yemen, Siria e Iraq mentre, come in una sorta di scambio, le BR custodivano le armi che i terroristi arabi portavano in Italia per colpire gli obiettivi israeliani e statunitensi presenti nel nostro Paese. Questi contatti erano avvenuti durante gli anni settanta proprio quando, come già detto, i Servizi segreti italiani stringevano con il Fronte Popolare di Liberazione delle Palestina (FPLP) di George Habbash il Lodo Moro. Come riportato dalla Stampa, citando le carte della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, già a partire dal 1976 i Vertici del FPLP cominciavano una rivoluzione all’interno delle varie sigle arabe a causa delle diverse vedute circa la richiesta di Mosca di por fine ai dirottamenti aerei e cominciavano a diffidare delle BR. Inoltre i vertici arabi volevano mantenere, a tutti i costi, la parola data al Governo Italiano attraverso il Lodo risparmiando la penisola da ogni tipo di attacco. Il già citato Colonnello Giovannone, il capo centro del SID/SISMI in Libano, veniva informato dal suo omologo palestinese circa i piani eversivi delle BR in Italia. L’ultima nota inviata a Roma dall’Ufficiale del Servizio risaliva al 18 febbraio 1978 e diceva:”[…] Mio abituale interlocutore rappresentante Habbash, incontrato stamattina, ha vivamente consigliatomi non allontanarmi da Beirut, in considerazione eventualità di dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista. Alle mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore ha assicuratomi che opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristi del genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario, elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte delle nostre Autorità.” A distanza di circa un mese dalla ricezione di questo telegramma da parte del governo italiano, l’Onorevole Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse. Con la morte dello statista si concludeva quello che può essere definito “Il decennio di Aldo Moro”, iniziato nel 1969 in qualità di Ministro degli Esteri e terminato nel 1978 da presidente della Democrazia Cristiana con il suo assassinio.
Lettere inedite dei familiari di Moro a Sciascia: sono conservate in Fondazione ad Agrigento. Ma la famiglia dell’ex presidente del Consiglio ucciso dalle Br non ha autorizzato la lettura pubblica, scrive Alan David Scifo il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Da quasi trent’anni quelle lettere sono lì: la busta strappata e l’indirizzo della casa di Leonardo Sciascia, che intanto scriveva il suo “Affaire Moro” avanzando numerosi dubbi sul ruolo dello Stato e della politica durante i giorni del rapimento di Aldo Moro, segretario Dc, ucciso in seguito dalle Brigate Rosse. Dall’altra parte c’era la moglie di Aldo Moro che si rivolgeva allo scrittore nei giorni successivi all’uccisione del leader della Democrazia Cristiana e sua figlia che scriveva altre missive all’autore, fortemente impegnato in politica e personaggio con un ruolo di rilievo nella società del tempo. Quelle lettere, consegnate insieme ad altre 14mila alla Fondazione Sciascia di Racalmuto, oggi sono rimaste conservate e poco si conosce sul contenuto, nonostante una lettura potrebbe probabilmente portare più chiarezza in uno dei casi più bui della storia italiana. Quello che si sa è che, mentre le lettere della moglie di Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli, hanno un contenuto esiguo, quelle della figlia, Maria Fida, sarebbero molto più lunghe e si rivolgerebbero allo scrittore ponendo delle domande e dei quesiti, per dei dubbi che Maria Fida Moro voleva fugare. Sono proprio queste tre lettere quelle impossibili da leggere a causa della mancata autorizzazione data dalla diretta interessata, e che rimarranno in questo stato se la negazione continuerà. Questo accade per un fatto semplice: le lettere infatti, pur essendo state donate dagli eredi di Sciascia alla Fondazione voluta proprio dallo scrittore qualche anno prima della sua morte, non sono di proprietà della stessa, ma della famiglia. Se questa ha comunque dato l’autorizzazione alla lettura, la legge impone che anche dall’altro lato ci sia il nulla osta per poter leggere e pubblicare, cosa che non è mai avvenuta. Quelle lettere però potrebbero essere importanti ai fini della ricostruzione della vita del presidente del Consiglio ucciso il 9 maggio del 1978. Così come si scoprì che erano importanti, ma solo diversi anni dopo la sua morte, le missive che Enzo Tortora, presentatore al centro di un clamoroso caso di malagiustizia, inviava dal carcere a Leonardo Sciascia. Oggi quelle lettere sono in un caveau, mentre l’unica bibliotecaria a 15 ore settimanali continua il suo non facile lavoro di inventario, volto a collegare le lettere esistenti, per un archivio ancora fermo alla lettera C nonostante un lavoro che dura da più di 30 anni. Mentre quelle decine di migliaia di lettere giacciono all’interno delle stanze della grande Fondazione costruita nell’ex centrale Enel, la Regione taglia i fondi e addirittura gli addetti ai lavori non riescono a pagare neanche le bollette della luce e in alcuni casi sono costretti a dover spegnere i riscaldamenti a giorni alterni al fine di rientrare nel budget annuale. Oltre a quelle dei familiari di Moro, che sono rimaste inedite, a creare scalpore è il fatto che altre lettere oggi sono sconosciute ai più solo per l’assenza di un lavoro mirato che cerchi di ricostruire la genesi degli autori, al fine di chiedere l’autorizzazione per la pubblicazione di missive che da sole potrebbero dare un quadro più chiaro degli anni che vanno dal Settanta ai Novanta, forse i più bui della storia italiana. Tutti infatti, come il boss Giuseppe Sirchia (lui dal carcere) scrivevano a Sciascia, consci della sua influenza nella società di quegli anni. Anni di misteri, di uccisioni, di mafia e di strani suicidi.
1978 L’ANNO DEI TRE PAPI.
1978, l'anno dei tre papi. Quarant'anni fa, in 53 giorni, si succedono tre pontefici alla guida della Chiesa cambiandone il volto e aprendola al mondo sulle spinte innovatrici del Concilio Vaticano II e avviandola verso il terzo Millennio, scrive Orazio La Rocca il 10 agosto 2018 su Panorama. Tre papi in un solo anno, precisamente in 71 giorni. È quanto la Chiesa cattolica vive nel 1978, quando al suo vertice la Navicella di Pietro colpita al cuore per ben due volte nel breve giro di 53 giorni—con le morti di Paolo VI (Giovanni Battista Montini) del 6 agosto e di Giovanni Paolo I (Albino Luciani) la notte del 28 settembre—, sembra traballare paurosamente sotto i colpi di un destino avverso che, per di più, vede ascendere al Soglio un papa non italiano, il polacco Giovanni Paolo II, dopo oltre 4 secoli e mezzo, con tutte le incognite legate ad una “novità” a cui onestamente nessuno era preparato. Vicende storiche di cui ricorre il quarantennale iniziato con la celebrazione della scomparsa di Montini definito da papa Francesco nell’omelia alla Messa di suffragio “il Papa della modernità”. Il 1978, dunque, passa alla storia come l’anno in cui tre pontefici tra gioie e dolori, sorprese e interrogativi cambiano il volto della Chiesa aprendola al mondo sulle spinte innovatrici del Concilio Vaticano II ed avviandola verso il terzo Millennio. Succede quando dopo la morte di Paolo VI vengono eletti il 26 agosto Giovanni Paolo I (Albino Luciani) che muore dopo 33 giorni, e il 16 ottobre Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), il primo papa di un Paese dell’Est a regime comunista. Un anno — il 1978 — in cui la Chiesa, pur colpita da uno shock tremendo trova la forza di rialzarsi e riprendere il cammino attraverso giorni contrassegnati anche da momenti altrettanto drammatici e dolorosi come l’esplosione del terrorismo culminato col sequestro di Aldo Moro e l’assassinio della sua scorta del 16 marzo e l’uccisione dello stesso Moro il 9 maggio, lo stesso giorno in cui la mafia ammazza a Palermo il giornalista Peppino Impastato, uno dei tanti martiri di Cosa Nostra caduti solo per aver fatto il proprio dovere di denunziare il male con la scrittura.
I TRE PAPI DEL 1978, UN ANNO DI TRAGEDIE. Dodici mesi archiviati col prezzo più alto pagato al terrorismo rosso e nero, iniziato il 7 gennaio con la strage di Acca Larentia a Roma con l’uccisione di tre giovani missini da parte di militanti armati comunisti, ma che anche a livello internazionale vengono macchiati di sangue con l’invasione del Libano dell’esercito israeliano il 14 marzo, una delle tante guerre nella martoriata Terra Santa che ancora oggi non riesce a trovare pace e felice convivenza tra le popolazioni dell’intera area. Un anno che in Italia anche a livello politico si vivono momenti di altissima tensione con le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, travolto dallo scandalo Lockheed da cui poi uscirà assolto, e sostituito per la prima volta da un partigiano, il socialista Sandro Pertini, che da non credente allaccerà una fraterna amicizia con papa Wojtyla, contribuendo entrambi, ciascuno secondo le proprie competenze, alla ricostruzione (morale, sociale e politica) del Paese.
SHOCK SALUTARE PER LA CHIESA. Appare del tutto naturale, quindi, parlare del 1978 come l’anno in cui la Chiesa, malgrado la non felice cornice in cui il Paese è costretto a vivere, viene colpita da un salutare choc che anche 40 anni dopo continua a suscitare interesse, domande, curiosità, voglia di capire come ho tentato di mettere a fuoco nel libro “L’Anno dei Tre papi” (Edizioni S.Paolo). Un momento epocale per la cattolicità e per il mondo intero su cui ancora c’è tanto da scoprire e da capire, anche se è indiscutibile che l’opera riformatrice di Montini, Luciani e Wojtyla—benché diversi per carattere, cultura, stili, origini familiari, sensibilità pastorali—, parte dalla stessa base ispiratrice nel Concilio Vaticano II. Tre papi-padri che, con i loro sguardi, con i loro sentimenti, con la loro passione pastorale in momenti difficili per la Chiesa e per la società intera, ci hanno trasmesso l’importanza di “essere sempre in cammino…” e la consapevolezza “di aver bisogno di incontrare sempre nuovamente il Signore sulla nostra strada…”, ricorda il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Sentimenti che non a caso nel anni successivi animeranno l’opera pastorale di Benedetto XVI e di papa Francesco, pur di fronte ad attacchi, critiche e resistenze che, dentro e fuori le Sacre Mura, hanno tentato (con Ratzinger) e stanno tentando (con Bergoglio) di frenare la ventata riformatrice conciliare per aprire la Chiesa al mondo contemporaneo nel rispetto della Tradizione evangelica.
Paolo VI, il Papa che non riuscì a salvare l'amico Aldo Moro. Gli sforzi del Papa per salvare Moro, amico di lunga data. La sua lettera alle BR, l'idea di un riscatto in denaro, la Caritas, i cappellani carcerari, e alla fine la sconfitta, scrive Edoardo Frittoli il 18 ottobre 2018 su "Panorama". Il 9 maggio 1978 Giovanni Battista Montini, Papa Paolo VI, cadde in ginocchio nella cappella privata raccogliendosi nel dolore e nella preghiera. Aveva appena ricevuto la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel portabagagli della Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani. I suoi sforzi, esplicitati durante le omelie lungo i 55 interminabili giorni della prigionia e sintetizzati nella lettera indirizzata ai brigatisti, si erano rivelati vani.
Salvare la vita ad un amico. Paolo VI non era riuscito a salvare la vita ad uno statista massima espressione della politica cattolica italiana ma non soltanto: aveva perso, quel pomeriggio di 40 anni fa, un amico sincero. I due si conoscevano infatti da lungo tempo, sin dalla militanza comune nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) di cui proprio Montini era stato tra i fondatori. Il futuro Papa aveva chiamato proprio Moro a dirigere la Federazione negli anni difficilissimi della guerra, che costituirono un passo fondamentale nella formazione politica dello statista barese e di molti altri futuri leader della Dc. Partecipare dunque alla tragedia di una persona che Montini considerava di famiglia fu un durissimo colpo anche per la già compromessa salute del Pontefice che si spegnerà appena tre mesi più tardi, il 6 agosto 1978. L'intervento mediatore del Pontefice della provincia di Brescia da poco canonizzato fu duplice: da una parte gli appelli per la liberazione dell'ostaggio ripetuti in diverse occasioni pubbliche ed attraverso i media; dall'altra un'azione individuale che si sviluppò nell'arco temporale compreso tra gli ultimi due comunicati delle Brigate Rosse, tra il 24 aprile e il 5 maggio. Tre giorni prima del ritrovamento del comunicato n°8 (quello che conteneva la richiesta di scambio con i brigatisti in carcere) Giovanni Battista Montini scrisse una lettera ai carcerieri di Moro, che diventerà oggetto di una lunga controversia per le ipotesi di manipolazione dei contenuti che si sono succedute negli anni. Nella missiva il Pontefice chiedeva la liberazione dell'ostaggio "senza condizioni".
La lettera di Paolo VI ai carcerieri di Aldo Moro. La ricezione della lettera, che pareva aver omologato l'atteggiamento del Vaticano alla linea della "fermezza" espressa dai partiti politici con l'eccezione del Psi (in primis La Dc di Andreotti) gettò Moro nello sconforto e nell'angoscia. In realtà nella prima stesura il Papa avrebbe scritto "senza condizioni imbarazzanti" (dove l'aggettivo indicherebbe più che altro l'imbarazzo come sinonimo di paralisi nelle trattative "ufficiali") lasciando quindi intendere l'intenzione del Pontefice di intervenire come soggetto di una negoziazione diretta con le BR. Sulla correzione fatta all'ultimo minuto del testo della lettera si sono succedute numerose interpretazioni e ipotesi. Alcune di queste chiamano in causa l'allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che avrebbe pilotato per mezzo di Agostino Casaroli (futuro Segretario di Stato Vaticano) la correzione del testo nella versione definitiva, tesi che sarà ripresa nel film di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, "Buongiorno Notte". Il primo ad indicare la possibilità di un intervento di Andreotti fu Corrado Guerzoni, Segretario personale di Moro. La sua idea sarà smentita da successive testimonianze come quella del Segretario particolare di Paolo VI Monsignor Pasquale Macchi. Proprio il segretario sarà uno dei primi a confermare l'intenzione di Papa Paolo VI di volersi sostituire come ostaggio in cambio della liberazione di Aldo Moro. A supportare le voci sul tentativo estremo di Montini furono i pregressi che videro il Pontefice spendersi più volte in azioni simili. Si ricordano gli interventi accorati e determinati durante il rapimento di Mario Sossi tra l'aprile ed il maggio 1974. Nello stesso mese si offrì ai terroristi palestinesi in cambio dei 105 bambini sequestrati in una scuola elementare israeliana; nel 1977 offrì la sua persona in cambio degli ostaggi del volo Lufthansa 181sequestrati dai Palestinesi a Mogadiscio. La lettera di Giovanni Battista Montini ai carcerieri di Moro e le intenzioni del Vaticano di intervenire come intermediario nella trattativa per la liberazione dell'ostaggio furono considerate dalle Brigate Rosse come un'opportunità di ottenere quel riconoscimento politico che lo Stato italiano, con l'affermarsi della strategia della fermezza, negava.
Paolo VI e la ricerca della trattativa diretta con le Brigate Rosse. Attraverso il Vaticano, in quei due drammatici mesi del 1978, presero forma diverse iniziative alternative alla trattativa tra lo Stato e le Brigate Rosse. E' nota l'iniziativa del Vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi che, in costante contatto con i familiari di Aldo Moro, avrebbe organizzato la raccolta del riscatto pronto ad essere versato ai carcerieri in cambio della vita del prigioniero. Sempre da ambienti religiosi partì l'iniziativa di far passare la trattativa attraverso le carceri dove erano detenuti i brigatisti. Se ne occupò l'Ispettore generale dei cappellani carcerari Don Cesare Curioni, che avrebbe secondo alcune fonti ricevuto l'incarico direttamente da Paolo VI di prendere contatto con i membri delle BR, (in particolare modo alle Carceri Nuove di Torino) con l'obiettivo di raggiungere i carcerieri di Moro che chiedevano la liberazione dei detenuti politici. Durante gli ultimi giorni della prigionia di Moro si mosse anche la Caritas, nell'intento di convogliare il rapimento sul piano umanitario. Era il 18 aprile 1978, giorno della scoperta del covo di via Gradoli e del falso comunicato n.7, quando sui giornali comparve la dichiarazione di intervento dell'organizzazione umanitaria cattolica. L'iniziativa della Caritas fu affidata a Monsignor Georg Hussler, invitato all'azione dal Vaticano, mentre la Dc si manteneva a riguardo su posizioni neutrali perché non venisse identificata l'azione umanitaria con quella politica, che si era stabilizzata sull'idea di una fermezza senza compromessi con le Brigate Rosse.
I Socialisti bussano alla porta del Vaticano. Nei giorni del sequestro Moro cercarono di mettersi in contatto con Paolo VI e la Santa Sede anche i Socialisti, sin dall'inizio favorevoli alla trattativa con i terroristi rossi. Lo fecero per suggerimento di Padre David Maria Turoldo, mentre l'iniziativa fu portata avanti dall'ambasciatore del Psi presso la santa Sede, il Senatore Gennaro Acquaviva. Questi si mise in contatto con monsignor Clemente Riva, Vescovo ausiliario di Roma. I colloqui tra i due non ebbero esito, in quanto Riva riferì tra le righe che anche il Vaticano, pur mantenendo viva la possibilità di un'iniziativa diretta del Santo Padre, si sarebbe assestato sulla linea della fermezza. Anche ai Socialisti, riferì Acquaviva, fu indicata l'esistenza di una forte somma raccolta per pagare un ipotetico riscatto. Il 5 maggio è recapitata l'ultima lettera di Aldo Moro alla famiglia, quella che contiene le durissime accuse alla Democrazia Cristiana per il comportamento intransigente che portò il Presidente del partito di fronte alla morte. Lo scritto, testamento dell'amore di Moro per i membri della sua famiglia e per gli amici più cari, si conclude con una nota amara nei confronti di un amico di lunga data, Papa Montini. Le ultime righe della lettera recitano così: "il Papa ha fatto pochino. Forse ne avrà scrupolo". Così come Aldo Moro si sentirà abbandonato da tutti nelle ultime ore passate nella "prigione del popolo", Giovanni Battista Montini sarà affranto da queste ultime parole rivolte a lui dall'amico di sempre, che non riuscì a salvare nonostante gli sforzi compiuti.
Dio, Dio Mio: perchè mi hai abbandonato? 13 maggio 1978. Il tema della solitudine e della sconfitta ritornerà nel discorso di Paolo VI in occasione della Messa in ricordo di Aldo Moro, che rifiutò i funerali di Stato. Il Pontefice usò le parole del Salmo 22, in cui Gesù sulla croce si sente abbandonato dal Padre. L'omelia del Papa si apriva il 13 maggio 1978 con queste parole: E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!
Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro e di convincere Andreotti. In due messaggi mai pubblicati e anticipati da Panorama, la famiglia dello statista in mano alle Br chiedeva al Papa di fare pressioni sul premier di allora, scrive Orazio La Rocca il 24 aprile 2018 su "Panorama". Il caso Moro visto dal Vaticano. Se ne parla, per la prima volta, con la pubblicazione di documenti inediti usciti dagli archivi della Santa Sede nel libro Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Moro (Edizioni San Paolo), ora in libreria. L'autore del volume, Riccardo Ferrigato, rivela tra l'altro il giallo che si consumò Oltretevere intorno alla famosa lettera di Paolo VI "agli uomini delle Brigate Rosse", dove in una prima stesura il pontefice chiedeva il rilascio di Moro "senza condizioni imbarazzanti". Nella versione finale, invece, Papa Montini parla, di "rilascio senza condizioni". Non solo. Ferrigato porta alla luce anche le pressioni su Paolo VI da parte della famiglia Moro, che non si fidava più dei politici. Sono testimoniate da due messaggi riservati del 31 marzo e del 5 aprile 1978 - Panorama li anticipa nell'altra pagina - fatti arrivare al Pontefice tramite il vescovo Antonio M. Travia. Vi si "ringrazia" il Papa e gli si chiede interventi più "concreti", mettendolo in guardia dalla indisponibilità di Giulio Andreotti e del governo a non avviare trattative con le Br. Non sarà stato un caso che il 21 aprile Montini si rivolge pubblicamente "agli uomini delle Br", mentre in segreto ha già fatto preparare 15 miliardi di lire - confezionati con fascette di una banca israeliana - per pagare il riscatto del presidente della Dc, come rivelerà alla Commissione parlamentare Moro don Fabio Fabbri, segretario di don Cesare Curioni, l'ispettore dei cappellani militari incaricato dal Papa di trovare un canale con i terroristi.
Nella prefazione del libro di Ferrigato, monsignor Leonardo Sapienza, Reggente della Prefettura della Casa Pontificia, accenna poi a un eventuale, straordinario sacrificio: la disponibilità di Paolo VI a offrirsi come ostaggio alle Br in cambio di Moro. D'altra parte, nell'ottobre 1977, papa Montini aveva offerto analoga disponibilità per favorire la liberazione di ostaggi, dopo una spettacolare azione della banda terroristica tedesca Baader-Meinhof.
31 marzo 1978. Padre Santo, la Sig.ra Eleonora Moro ha chiamato a colloquio la Sig.na Civran, Vice Presidente Centrale del Movimento Laureati di A.C., e l’ha pregata di far pervenire a Vostra Santità, nella maniera più riservata e più diretta, un suo appello. La Sig.na Civran si è consigliata a tal fine con Romolo Pietrobelli e con Padre di Rovasenda. Essi hanno convenuto di affidare a me tale incarico, che pertanto questa mattina mi è stato confidato personalmente e oralmente dal Padre di Rovasenda. Il pensiero della Sig.ra Moro può essere espresso, nella sostanza, come appresso. La famiglia Moro è profondamente grata al Santo Padre per l’affettuosa e ripetutamente dichiarata partecipazione al dramma del suo congiunto e suo. Ritiene che la lettera indirizzata da Aldo Moro al Ministro Cossiga sia autentica, almeno materialmente. È convinta comunque che sia autentico l’appello in esso contenuto di fare qualcosa per la sua liberazione, cioè di non irrigidirsi nel rifiuto di trattarla e particolarmente che le trattative siano mosse dalla Santa Sede. La Sig.ra Moro oserebbe chiedere al Santo Padre di chiamare l’On. Andreotti per indurlo personalmente ad accettare la via della trattativa. (La Sig.ra Moro teme che l’On. Andreotti possa essere incline verso un disinteressamento del Governo alla vicenda. Le dà motivo di coltivare tale timore il fatto che l’On. Andreotti sia l’unica personalità politica di rilievo che non si è recato a farle visita). La Sig.ra Moro chiederebbe che, dopo tale passo, la Santa Sede direttamente, se possibile, o per tramite di una organizzazione internazionale, per esempio la Croce Rossa, prendesse contatto con le Brigate Rosse al fine di avviare l’inizio di una qualche trattativa. Padre Santo, mi perdoni e mi benedica. Umilissimo e devotissimo figlio Antonio M. Travia
5 aprile 1978. La Sig. Moro desidera che giunga al Santo Padre l’espressione della profonda gratitudine sua e dei suoi figliuoli per il nobilissimo appello rivolto domenica scorsa ai rapitori per la liberazione del marito. Nello stesso tempo desidera manifestarGli l’angoscia e lo scoramento suo e dei suoi famigliari per la posizione di assoluta intransigenza assunta dai Partiti e dal Governo. Si rende conto in qualche modo che la Dc non può assumere posizione diversa, ma ritiene che così non debba fare il Governo [...] pertanto che sia fatta autorevole pressione su l’On. Andreotti. Ritiene che lo scambio con un personaggio non di rilievo delle Brigate Rosse sarebbe accettato da quest’ultime. Assicura che non le è pervenuto alcun messaggio dal marito, nonostante le supposizioni avanzate dalla stampa. La Sig.ra Moro ripone solo nella preghiera e nella iniziativa del Santo Padre tutta la sua speranza. Antonio M. Travia
(Articolo pubblicato sul n° 18 di Starbene in edicola dal 19 aprile 2018 con il titolo "Per salvare Moro il Papa convinca Andreotti").
La lettera di Paolo VI ad Aldo Moro venne “ritoccata”: ecco la prima versione, scrivono il 3 maggio 2018 Emanuele Cascapera e Roberta Benvenuto su "Michele Santoro". Un documento inedito, riportato alla luce dopo 40 anni. E’ la prima versione in bozza della famosa lettera scritta di proprio pugno da Papa Paolo VI agli “uomini delle brigate rosse” per chiedere la liberazione di Aldo Moro. Un testo limato e bilanciato parola dopo parola, in cui tratti di penna e correzioni svelano come si sia passati dalla prima versione a quella definitiva, resa poi pubblica. E forse oggi, alla luce delle nuove rivelazioni, si può dire che quelle modifiche furono il sottile tentativo di non svelare le carte in una partita importantissima e delicata, che puntava alla liberazione di Moro. “Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato”, scriveva il papa il 21 aprile 1978. Ma soprattutto si tratta della lettera con la quale il Pontefice chiedeva ai brigatisti il rilascio di Aldo Moro “Semplicemente, senza condizioni”. Quel “Senza condizioni”, che negli anni ha lasciato spazio a molteplici interpretazioni, è appunto il frutto di alcune, misurate modifiche che hanno poi portato alla formulazione definitiva della lettera consegnata per sempre alla Storia. Ma cosa aveva scritto, di suo pugno, Paolo VI? Quali sono state le modifiche apportate alla prima stesura? E su suggerimento di chi? A documentare la bozza della lettera scritta dal Pontefice in persona è Riccardo Ferrigato, ricercatore e scrittore classe 1986, autore del volume “Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro” (Edizioni San Paolo). La prima versione della lettera, infatti, conteneva l’invito a liberare l’ostaggio “Semplicemente, senza alcuna imbarazzante condizione”, diventato poi “Semplicemente, senza condizioni”. Una variazione significativa che, secondo il ricercatore, aveva l’obiettivo di tenere celato il tentativo di trattativa che lo stesso Papa aveva cercato di avviare per riuscire a liberare e salvare Aldo Moro, ma che quel riferimento a condizioni “imbarazzanti” poteva mettere a rischio. Un testo importante, quello di Ferrigato, che contiene anche altri documenti inediti, tra cui due lettere a Paolo VI dove, tramite un intermediario, la moglie di Aldo Moro chiede direttamente aiuto al Pontefice dimostrando di non avere piena fiducia nel Governo e un documento della Segreteria Vaticana che mette in luce i violenti dissidi tra gli uomini più vicini al Papa.
ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO DEINDUSTRIALIZZARE.
CHI COMANDA IL MONDO.
Quelli che decidono tutto: nomi, cognomi, club, confraternite e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'8 novembre 2017. Spesso sulla stampa, nei media, nei talk show, in numerosi libri, si parla di poteri forti. Ma a cosa ci si riferisce con tale espressione? Tale espressione sta ad indicare un ristretto numero di persone che, in piena autonomia, gestisce i capitali e la finanza del mondo. In questi casi il pensiero va alle grandi dinastie dei banchieri come i Rothschild, J.P. Morgan, i Rockfeller o ancora la famiglia Hahn-Elkann e la famiglia Worms, la famiglia Thyssen, la famiglia Kahn, la famiglia Goldschmidt, le famiglie Fitzgerald e Kennedy, le famiglie Agnelli – Caracciolo e molte altre. Si tratta di poteri per lo più sconosciuti all’uomo comune ma che agiscono in silenzio ed hanno una notevole influenza sulle decisioni dei governi ufficiali. Scrive Marco Pizzuti nel suo libro “Rivoluzione non autorizzata” con riguardo a siffatti poteri: “Il loro braccio esecutivo” clandestino per eccellenza è la massoneria, un’organizzazione praticamente sconosciuta alla popolazione, che da secoli occupa tutti i palazzi del potere. Non è quindi una mera coincidenza se ritroviamo i suoi membri tra i principali leader di ogni grande capovolgimento storico”. Negli ultimi decenni la massoneria è stata affiancata da altri organismi, creati dalla èlite finanziaria, tra i quali vanno menzionati il club Bilderberg, la Commissione Trilaterale, il CFR, la Round Table e il club di Roma. Scrive ancora Marco Pizzuti nel succitato libro: “Tutti questi nuovi organismi cooperano con la massoneria, per accelerare il processo di globalizzazione nel rispettivo campo di competenza e ambito territoriale” Al fine di realizzare tale obiettivo i suddetti organi invitano nei loro club gli esponenti di maggiore spicco delle varie categorie sociali: industriali, banchieri, politici, scrittori, giornalisti, militari. Nel settore bancario internazionale particolarmente rilevante è, ad esempio, il ruolo svolto in passato e fino ad oggi dalla famiglia Rothschild, proprietaria di un impero bancario che, secondo le stime degli esperti controllerebbe più di 350 miliardi di dollari. Tra i componenti della famiglia, un ruolo primario ricopre Jacob Rothschild il quale, oltre a gestire i beni di famiglia, gestisce anche i beni di oltre 10 mila azionisti. Lo stesso ha intrattenuto rapporti con i più importanti uomini di governo e della politica internazionale quali i presidenti degli Stati Uniti Ronald Reagan e Bill Clinton e l’ex primo ministro inglese Margaret Thatcher. Nel 2002 organizzò l’European Economic Round Table al quale intervennero ospiti di prestigio quali Nicky Oppenheimer, Warren Buffet, importante imprenditore ed economista statunitense, considerato il più grande valueinvestor di sempre (nel 2003 definì i derivati come armi finanziarie di distruzione di massa), Arnold Schwarzenegger, attore, politico, imprenditore e produttore cinematografico, James Wolfensohn, economista e banchiere australiano naturalizzato statunitense. Non inferiore a quella degli Rothschild è certamente la potenza finanziaria della famiglia Rokfeller il cui più prestigioso esponente è stato David Rockfeller uno dei fondatori del gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale. Nel 2012 Rockfeller e Rothschild, due delle più grandi famiglie di banchieri, si riunirono. La “RIT Capital Partners” di Jacob Rothschild acquistò una quota del “Financial Services di Rockfeller. Si trattò di un accordo storico a seguito del quale la RIT Capital Partners divenne socio del gruppo Rockfellere con il 37% di capitale. Il potere finanziario dei Rothschild è presente anche in Italia dove il gruppo Rothschild ha condotto l’acquisizione di Armani Exchange da parte di Armani Group, e ha avuto il ruolo di advisor per Cassa Depositi e Prestiti e Fintecna sulla privatizzazione di Fincantieri attraverso un’IPO di 390 milioni, e per l’acquisizione del 40% di Ansaldo Energia da parte di Shanghai Electric per ben 400 milioni di euro, e dalla creazione di due joint venture e dalla fusione da 24 miliardi di euro tra Atlantia e Gemina. Dovendo parlare di poteri forti non si può non parlare del gruppo Bilderberg del quale, come si è detto, uno dei fondatori fu David Rockfeller su iniziativa del quale nel maggio del 1954 fu organizzato il primo incontro. Il gruppo nacque con lo scopo di favorire, in un forum annuale, il dialogo tra l’Europa e il Nord America. Alle riunioni sono invitati a partecipare circa 120-150 leader politici, esponenti qualificati dell’industria, della finanza, del mondo accademico e dei media. L’incontro è un forum di discussioni informali sui trend e le principali problematiche che affliggono il mondo. Gli incontri sono caratterizzati da segretezza dato che non possono essere rivelate all’esterno le informazioni ricevute né l’identità o la appartenenza di chi ha fornito le informazioni. Non vi è alcun programma dettagliato, non vengono proposte delle risoluzioni, non viene espresso alcun voto e non viene esternata alcuna dichiarazione politica. E’ stata proprio la natura segreta dell’evento e del contenuto delle discussioni svolte all’interno del forum che intorno al gruppo Bilderberg ha fatto sorgere teorie complottiste, a mio avviso, non del tutto infondate. Sul presupposto che è impensabile ritenere che nel contesto di un mondo globalizzato qualsiasi questione, sia in Europa che nel Nord America possa essere affrontata in modo unilaterale, nel corso degli anni, gli incontri annuali hanno avuto ad oggetto una vasta gamma di argomenti spaziando dal commercio, ai posti di lavoro, alla politica monetaria per gli investimenti alla sicurezza e alle dinamiche politiche internazionali. Nel club Bilderberg vi sono stati e vi sono anche italiani. Si possono ricordare Franco Bernabè, banchiere e dirigente pubblico, già amministratore delegato dell’ENI e successivamente di Telecom Italia, fondatore di FB Group, holding di partecipazioni e management company di un gruppo attivo nel settore della consulenza strategica dell’ITC e delle energie rinnovabili e investito di numerosi altri incarichi di prestigio tra cui quello, dal 2011 al 2013 di Presidente della GSMA, organizzazione internazionale che riunisce gli operatori di telefonia mobile eancora membro dell’European Roundtable of industrialist e dell’International Council di JP Morgan. Si possono poi ricordare come facenti parte del club Bilderberg gli italiani Claudio Costamagna e John Elkann, il primo banchiere e dal luglio 2015 presidente della Cassa Depositi e Prestiti oltre che Presidente di FSI SGR Spa, società costituita dalla riorganizzazione del Fondo strategico italiano Spa-FSI di cui è statoa sua volta presidente e il secondo presidente della Fiat Chrysler Automobiles oltre che presidente ed amministratore delegato della Exor N.V. una società di investimento controllata dalla famiglia Agnelli. Sembra facciano parte del club anche la nota giornalista della rete televisiva “La 7” Lilli Gruber nonché Carlo Ratti, architetto ed ingegnere, docente presso il Massachuttes Institute Technology di Boston. In passato, ci sono stati anche tanti altri membri italiani nella Bilderberg. Tra i quali spicca il nome dell’ex premier Mario Monti, un vero e proprio habitué della Bilderberg. Poi spiccano i nomi di Giovanni Agnelli, Umberto Agnelli, Renato Ruggiero, Barbara Spinelli, Marco Tronchetti Provera, Mario Draghi, Alessandro Profumo, Monica Maggioni, presidente della RAI e molti altri ancora. Per avere un’idea del potere che gestisce il gruppo Bilderberg basta pensare che tutti coloro che ne fanno parte possiedono più della metà del patrimonio mondiale, il che induce ad avanzare qualche dubbio sul fatto che la finalità di questo club e dei relativi incontri sia quella di “aumentare i dialoghi tra Nord-America ed Europa e che i partecipanti si incontrino per tre giorni all’anno soltanto per trascorrere un piacevole weekend o per perseguire finalità benefiche. Così come si è indotti a ritenere che ogni qualvolta questo enorme potere finanziario e non solo, venga messo in pericolo, il club reagisca con azioni non sempre ortodosse per usare un eufemismo. E non è un caso se ogni familiare di David Rockfeller è o direttore della CIA o ambasciatore all’ONU o segretario di Stato o ricopre incarichi di vertice nel settore della sanità. Lo stesso David Rockfeller è stato d’altra parte, dal 2000, presidente ed amministratore delegato di JP Morgan, la banca che certamente costituisce uno dei poteri forti di cui parliamo. Il gruppo Bilderberg raccoglie i potenti della terra, leader politici ed economici precursori della globalizzazione, di diversi paesi come, può constatarsi ad esempio avuto riguardo alla riunione che nel 2002, in un clima di segretezza e tra rigide misure di sicurezza, ebbe luogo a Chantilly in Virginia. Ebbene, a tali lavori parteciparono, tra gli altri, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, e l’ex direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, oggi presidente della BCE. Più di recente, nel 2012 ha avuto luogo a Roma, una riunione del gruppo Bilderberg alla quale era presente Mario Monti, allora Presidente del Consiglio, che illustrò agli intervenuti gli sforzi dell’Italia per rimettere i conti in ordine. Presenti tra gli altri gli allora ministri Francesco Profumo, Paola Severino ed Elsa Fornero. Presenti erano anche importanti esponenti del mondo finanziario quali Ignazio Visco (Bankitalia), Alberto Nagel (Mediobanca), Rodolfo de Benedetti (CIR), Mauro Moretti (FS), Enrico Cucchiani (Intesa), Fulvio Conti (Enel), Etienne Davignon (già commissario europeo per il mercato interno). Presenti anche esponenti del mondo del giornalismo come Lilli Gruber. A presiedere il gruppo vi era Henry De Castries, pdg di Axa, società di assicurazioni. Numerose furono le contestazioni e le critiche allora formulate in occasione del suddetto incontro sia da parte della sinistra che della destra. In particolare affermò Francesco Storace che “partecipare al Bilderberg è peggio che essere della P2, è commettere tradimento”. Per quanto riguarda la partecipazione del Presidente del Consiglio Mario Monti, Palazzo Chigi fece sapere che Monti aveva accettato l’invito per poter parlare delle misure adottate dall’Italia per combattere la crisi e che “le polemiche sono fuor di luogo”. Monti ha ricoperto anche cariche nella Commissione Trilaterale, nella Università Bocconi, di cui era presidente, e in Goldman Sachs, incarichi abbandonati all’atto della sua nomina a presidente del Consiglio. Peraltro è stato sostenuto, non senza fondamento, che il forum del gruppo Bilderberg altro non è che un consesso dei poteri forti che decide le sorti del mondo, fuori dai meccanismi democratici. Di Contro Etienne Davignon nel negare questa caratteristica del gruppo Bilderberg ha affermato: “Se fossimo la cupola segreta che comanda il mondo dovremmo vergognarci come cani” Certo Davignon convince meno quando afferma che le 130 personalità che si incontrano ogni anno sono importanti quanto la cena sociale di un Cral di ferrovieri. Del club fanno parte e vi vengono invitate soltanto personalità di rilievo del mondo economico, finanziario, politico, dei media. Significativo è quanto verificatosi in occasione della riunione tenutasi nel 2011 a Saint Moritz e alla quale erano presenti tra gli altri Henry Kissinger, David Rockfeller, Paolo Scaroni, banchieri internazionali, imprenditori greci e spagnoli. In tale occasione, l’allora eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, si presentò al bureau per chiedere di partecipare ai lavori ma venne malamente allontanato. Dichiarò allora all’ANSA: “Ci hanno letteralmente preso a spintoni. Mi hanno anche dato un colpo al naso che ora è sanguinante. Un comportamento che smaschera la reale natura di questa consorteria: è una società segreta e non un gruppo che si riunisce in modo riservato”. Sembra che questi incontri, ai quali più volte Gianni Agnelli aveva partecipato gli piacessero meno di quelli dell’altro grande circolo di potenti, la Trilaterale fondata nel 1972 dal suo grande amico David Rockfeller. La natura del gruppo Bilderberg e le sue finalità sono molto discusse e le critiche nei confronti di tale gruppo provengono sia dalla sinistra che dalla destra. Comune ad entrambe è la convinzione che ci si trovi in presenza di una organizzazione globale che vuole dominare il mondo. Per la sinistra si tratterebbe di un organismo composto da capitalisti e finanzieri che ordiscono trame politiche ed economiche mentre per la destra si tratterebbe di una elite che intenderebbe imporre i propri disegni, tipo euro, in un mondo antidemocratico. Al di là di enfatizzazioni, non vi è dubbio che il Bilderberg è un gruppo di capitalisti che difendono il capitalismo. Nel corso degli incontri i partecipanti affrontano non solo temi politici, di economia o di finanza ma probabilmente discutono di affari e magari ne fanno e talvolta favoriscono qualche nomina rilevante. Forse non è una coincidenza il fatto che, dopo la partecipazione di Herman Van Rompuy ad una cena organizzata dal gruppo a Bruxelles, questi, poco tempo dopo divenne presidente del Consiglio europeo. Van Rompuy, appena eletto presidente del Consiglio UE, si dimostrò favorevole ad un prelievo sulle transazioni finanziarie, una specie di Tobintax. Lo stesso, prima della sua nomina aveva spiegato questo suo orientamento ai potenti politici, banchieri e uomini d’affari del riservato gruppo Bilderberg in un incontro avvenuto nel castello di Valduchesse, nelle vicinanze di Bruxelles, in occasione della cena di cui sopra. Ma negli incontri si parla anche di vicende internazionali. Così, in occasione della riunione tenutasi a Saint Moritz, si parlò molto di Grecia, di dollaro, di Libia e del conflitto interno all’Opec tra sauditi e iraniani sul prezzo del barile di greggio. Se forse è eccessivo affermare che il gruppo Bilderberg costituisce una organizzazione globale che vuole dominare il mondo tuttavia tale ipotesi non è del tutto priva di un qualche fondamento. Ma vi è chi va oltre e ritiene la implicazione del club Bilderberg anche in vicende tragiche che hanno attraversato il nostro Paese. Così l’ex magistrato Ferdinando Imposimato, nel suo libro “La Repubblica delle stragi impunite” e in una intervista rilasciata in occasione della presentazione del libro sostiene che: “La stagione delle stragi non serviva a destabilizzare lo Stato, serviva ad impedire la dinamica politica nel senso di portare gli equilibri politici da destra verso la sinistra.” E continua: “Hanno fatto tutto questo non per fare un colpo di Stato ma per rafforzare il potere, destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”. E spingendosi oltre afferma, facendo riferimento ad un documento rinvenuto tra gli atti della indagine condotta dal giudice Alessandrini sulla strage di Bologna e riportato nel libro, che il gruppo Bilderberg sarebbe responsabile della strategia della tensione e quindi anche delle stragi. “Il Bilderberg-afferma- governa il mondo e le democrazie in modo invisibile, in modo da condizionare lo sviluppo democratico di queste democrazie”. Si è sostenuto poi da Carlo Freccero, ma anche nei media e in varie pubblicazioni, tra cui Micro Mega, che Casaleggio & C sarebbero legati al gruppo Bilderberg e con una tesi alquanto azzardata, ma forse non priva del tutto di fondamento, anche se sfornita di prove certe, sostiene che i poteri forti “si sarebbero costruiti una gestibile opposizione interna attraverso Casaleggio, Grillo e quindi il movimento Cinque Stelle”. Ciò sarebbe avvalorato dal fatto che del gruppo Bilderberg, sempre secondo Freccero, farebbe parte il giornalista Enrico Sasson, socio di Casaleggio, manager legato all’Aspen Institute e quindi al gruppo Bilderberg. L’Aspen Institute , che sorge a Roma in Piazza Navona, è una filiale locale europea dell’Aspen e una ramificazione italiana dell’internazionale Club Bildenberg e la cui finalità è l’internazionalizzazione della leadership imprenditoriale. Enrico Sasson, in una lettera indirizzata al Corriere della Sera, pur ammettendo di essere socio di minoranza nella Casaleggio associati, precisava di non rappresentare alcun potere forte, di non conoscere Beppe Grillo, mai incontrato, di non avere mai partecipato alla gestione del suo blog in seno alla Casaleggio Associati, di non avere mai avuto niente a che fare con il movimento Cinque Stelle. Affermava essere calunniose e diffamatorie le teorie del complotto apparse in blog e in siti di diversa connotazione e che era una informazione distorta e malata quella che, anche in articoli e servizi televisivi, sosteneva il teorema dei poteri forti dediti ad infiltrare il Movimento. Se la tesi di Carlo Freccero fosse fondata, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso lui stesso di gestire l’opposizione. In altri termini, se dietro il Bilderberg vi fosse la Casaleggio, ciò significherebbe che il potere avrebbe deciso di infiltrare l’opposizione. Molto legata al gruppo Bilderberg è la Commissione Trilaterale all’interno della quale sono presenti più di 200 personalità eminenti (uomini politici, diplomatici, industriali, finanzieri, universitari, giornalisti) provenienti da Europa, America, e Giappone. Anche la Trilaterale fu fondata, qualche anno dopo la Bilderberg, da David Rockfeller, presidente della Chase Manhattan Bank di New York e altri dirigenti tra cui Henry Kissinger e pare anche da Gianni Agnelli anche se , per quanto riguarda quest’ultimo, non vi sono documenti che lo provino. Mario Monti ne fu presidente dal 2010 al 2011. Nel 2016, dopo oltre 33 anni, la Commissione Trilaterale si è riunita a Roma; in tale occasione gli Italiani che vi hanno partecipato sono stati oltre 20 tra cui Mario Monti, John Elkan, Mario Tronchetti Provera e la presidente della RAI Monica Maggioni. Riunioni della Commissione sono state tenute a Tokio, Washington, Parigi, Kioto e come si è detto in Italia. In occasione di una riunione avvenuta a Parigi nel dicembre del 1975 ed avente ad oggetto la gestione delle risorse mondiali, alla domanda su chi finanziasse l’attività della commissione, il direttore della stessa Zbigniew Brzezinky rispondeva : “Cittadini privati e qualche governo con contributi di minore importanza”. In occasione dell’incontro di Parigi si parlò sulla stampa di “un nuovo ordine mondiale”, affermazione non del tutto campata in aria se si considera che a tale riunione intervennero e fecero un discorso l’allora primo ministro Jacques Chirac e l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli. Gianni Agnelli, intervenendo, nel 1984 alla riunione della Commissione Trilaterale a Washington, sottolineò il ruolo dei vertici economici dei “sette grandi”, cioè i sette paesi più industrializzati.
Chi comanda, come e perché, dalle Logge all’Opus Dei, finanza e…scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'11 novembre 2017. Alla riunione della Trilaterale che ebbe luogo a Roma nell’aprile del 2016 parteciparono uomini di governo, ministri imprenditori, i massimi esponenti della classe dirigente mondiale del Nord America, Europa ed Asia. Tra i partecipanti vi furono l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, Jean Claude Trichet, ex presidente della BCE, Monica Maggioni, presidente della RAI. Presenti anche Andrea Guerra, ex AD di Luxottica, molto amico di Renzi, Maria Elena Boschi, allora ministro delle riforme che una settimana prima della Trilaterale, in una intervista aveva dichiarato: “Ci attaccano proprio perché non siamo schiavi dei poteri forti, non siamo il terminale di niente e di nessuno. Questo non piace a molti” Affermazione quanto meno strana se si considera che svolse un intervento in un meeting in cui erano presenti i poteri più forti del pianeta. Per dare una idea del vero e proprio grumo di potere presente alla riunione della Trilaterale di Roma basta considerare che tra gli invitati vi erano persone come Michael Bloomberg, miliardario, ex sindaco di New York, Jurghen Fitchen, della DeutschBank, Gerald Corrigan, vice presidente della Federal Reserve oggi a Goldman Sachs, Eric Schmidt, presidente di Google, Marta Dassau Finmeccanica, Herman Van Rompuy ex presidente del Consiglio europeo, oltre che David Rockfeller, fondatore della Trilaterale. Gianfelice Rocca, presidente dell’Assolombarda, intervistato da un giornalista della “Gabbia”, al termine della riunione dichiarava: “Io credo che questo governo abbia il sostegno di gran parte dell’establishement”. Secondo indiscrezioni trapelate dalla riunione, nell’incontro si sarebbe parlato anche del destino affatto roseo dell’Italia: la Trilaterale non immaginava un bel futuro per il nostro paese. Alla riunione si è parlato anche di privatizzazioni e di tagli alla spesa, il che significa la svendita del patrimonio pubblico dell’Italia, cioè la svendita delle aziende pubbliche. Ma al meeting si è parlato anche di immigrazione e, fatto strano, a presiedere l’incontro era Peter Satermann, direttore non esecutivo di Goldman Sachs, rappresentante generale dell’Onu per le migrazioni e componente del Bilderberg. Come mai e perché uno degli uomini più importanti della finanza internazionale si occupava di immigrazione? La risposta è semplice: lo scopo della Trilaterale è quello di favorire l’immigrazione di massa dal sud del mondo verso l’Europa in maniera da consentire alle multinazionali di avvalersi di una ingente massa di lavoratori sottopagati. Ciò è avvalorato dal fatto che, sempre secondo indiscrezioni, tutti i membri della Trilaterale concordarono sul fatto che i giornali parlassero dei vantaggi dell’immigrazione. Tutto ciò evidenzia la preminenza del potere economico –finanziario sulla politica che finisce con l’eseguire il diktat di questa elite di potere e come il fine del Bilderberg, della Trilaterale e di altri organismi simili, sia quello di togliere sovranità agli Stati e di creare un nuovo ordine mondiale. Desta impressione oggi leggere la relazione che, nel 1984, a conclusione della riunione della Trilaterale di Washington, fu predisposta dall’ex consigliere americano per la sicurezza Zbgniew Brzezinsky, dal segretario del partito socialdemocratico David Owen e dall’ex ministro degli esteri giapponese Saburo Okita, per conto della Commissione Trilaterale, relazione nella quale vengono indicati quelli che sarebbero stati i quattro pericoli per il mondo. Sembra quasi che i redattori del rapporto avessero previsto, con estrema precisione, e con 33 anni di anticipo, quello a cui oggi, nel 2017 assistiamo. Secondo quanto si legge nella suddetta relazione 4 erano i pericoli che , negli anni successivi avrebbero minacciato il mondo e l’umanità: Un significativo peggioramento della collaborazione economica e politica tra gli Stati , una crescente disoccupazione; un abbassamento del tenore di vita e una minore democrazia. Una escalation dei conflitti regionali, sempre meno contenibili sul piano internazionale e latori di rischi crescenti di confronto tra est ed ovest. Grossi sconvolgimenti sociali in ampie zone d’Africa e forse dell’America latina; fenomeni di carestie di grandi dimensioni che potrebbero sfociare, in massicce emigrazioni, in caos e violenza, riducendo in questo modo le prospettive di democrazia ed offrendo maggiori opportunità agli estremisti di destra e di sinistra di impadronirsi del potere. L’ultimo dei grossi pericoli che oggi incombono sull’umanità intera e sul pianeta è costituito dal rischio di una guerra nucleare. Afferma il rapporto della Trilaterale: “La guerra nucleare, con le sue capacità di provocare morti e distruzioni illimitate, costituisce una catastrofe dalla quale il globo potrebbe non essere in grado di riprendersi”. Il pensiero, leggendo queste parole, non può non andare al conflitto tra il premier nordcoreano e il presidente Trump che oggi rischia l’esplosione di un conflitto nucleare. Più che di previsioni viene da pensare ad un programma che nel 1984 qualcuno si proponeva di attuare negli anni successivi. Ma forse si tratta di una idea eccessiva. Ma come soleva dire Andreotti a pensare male si fa peccato ma spesso si indovina. Per quanto riguarda le reali finalità del gruppo Bilderberg, gli studiosi di questa materia scrivono a proposito dei promotori Bernardo de Lippe, ufficiale olandese, ex ufficiale delle SS e Joseph Retinger, politico polacco e massone : “La loro ambizione era quella di costruire una Europa Unita per arrivare ad una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali…” Al di là delle teorie complottiste, non vi è dubbio che costituisce un dato difficilmente smentibile il fatto che ci si trovi in presenza di un intreccio tra politica, finanza e in particolare banche in cui un gruppo ristretto di persone, a partire dal 1954 e una sola volta all’anno, si riunisce per decidere, nella massima segretezza il futuro politico ed economico dell’umanità. “Le Monde” intravede nelle biografie di Mario Draghi, Mario Monti e Luca Papademos la prova dei disegni nascosti maturati “nei piani alti della banca d’affari Goldman Sachs”. Ed è legittimo nutrire dei sospetti sul conflitto di interessi di cui hanno dato prova i banchieri che, come Corrado Passera sono diventati ministri nel governo Monti. E non bisogna dimenticare che la caduta di Silvio Berlusconi fu determinata e voluta dai poteri forti che teleguidarono lo spread. L’influenza poi del gruppo Bilderberg sulla politica internazionale, secondo quanto scrive sulla “Repubblica “Giuliano Balestreri, sarebbe comprovata dalla lettera che Richard Perle, membro del comitato direttivo del gruppo Bilderberg e teorico del neoconservatorismo americano, scrisse a Bill Clinton per chiedere la rimozione di Saddam Hussein. Di tale gruppo direttivo, oltre che Henry Kissinger e Edmond de Rotschild, hanno fatto parte anche 12 italiani tra cui il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Si è anche sostenuto che le riunioni del Bilderberg fossero anche finalizzate ad ascoltare quelli che sarebbero stati futuri presidenti e premier, anche degli USA. Così, sarebbero stati ascoltati, Tony Blair, Hillary Clinton, e lo stesso Barak Obama. Quest’ultimo si dice fosse presente con Hillary nel 2008, quando Bilderberg avrebbe negoziato un accordo per passare la mano attendendo le elezioni del 2016. Al meeting, avrebbero partecipato un paio di volte Mario Monti (nel 2011 e 2013), Enrico Letta (nel 2012). Non sarebbe estranea a Bilderberg la formazione del governo Monti. Non si ha notizia di una partecipazione di Renzi. Sembrerebbe quindi che per governare in Italia e nel mondo bisogna essere graditi ai poteri forti. Non può poi non suscitare dubbi, sul ruolo del Bilderberg nelle vicende internazionali, quanto scritto dal giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol, secondo cui nel meeting del Bilderberg, nel 2002, si era parlato di invasione dell’Irak da parte degli USA, ben prima che ciò accadesse. Per comprendere l’importanza del Gruppo Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili e il peso che in ambito internazionale queste elite rivestono, basta avere riguardo all’oggetto delle discussioni che hanno luogo all’interno di questi gruppi in occasione delle periodiche riunioni anche se il contenuto delle relazioni e degli interventi è mantenuto rigorosamente segreto. I temi trattati infatti, riguardano spesso i rapporti tra Europa e Stati Uniti, l’economia e in particolare la gestione della crisi economica mondiale, l’euro, l’inflazione, il protezionismo, la globalizzazione, il petrolio, il mercato delle armi, l’immigrazione. Essendo però segreto il contenuto delle relazioni, non è dato conoscere le decisioni adottate dal gruppo riguardo tali problematiche; i partecipanti agli incontri sarebbero però tenuti a mettere in pratica quanto deciso. L’interrogativo che spesso si pone è quali siano i rapporti tra la massoneria e gli altri poteri forti anche se deve riconoscersi che le inchieste che hanno riguardato la massoneria e il potere politico finanziario nazionale e internazionale, quasi sempre non hanno portato a nulla. E’ appena il caso di ricordare come l’inchiesta sulla P2 si concluse, dopo tanto clamore, in un nulla di fatto. Va tuttavia detto che quando si parla di massoneria bisogna tenere presente che ci si trova in presenza di due diversi livelli: un livello ufficiale ispirato a temi quali la libertà, l’eguaglianza la tolleranza religiosa e un secondo livello segreto caratterizzato dalla presenza di comitati di affari e di rapporti con la criminalità organizzata, mafia, camorra ‘Ndrangheta, servizi segreti deviati e terrorismo stragista. In altri termini ci si trova in presenza di due mondi paralleli. Ma, come sostenuto da taluno, esiste un rapporto tra la massoneria e i poteri forti di cui abbiamo parlato e se esiste a quale dei due livelli fa riferimento? Una risposta interessante ci viene da Giuliano De Bernardo, ex Gran Maestro della principale “obbedienza” italiana, il Grande Oriente d’Italia, dal 1990 al 1993, quindi ai vertici della massoneria, che abbandonò riferendo quello che pensava realmente. Ha dichiarato De Bernardo: “Dietro Gelli, (che rappresentava il livello oscuro della massoneria ndr), c’erano gli ambienti americani. Gelli è un prodotto degli americani”. De Bernardo parla anche del sequestro di Aldo Moro che aveva perso la fiducia degli americani che lo consideravano “un cavallo di Troia, “un ponte che avrebbe consentito ai comunisti di arrivare al potere. Quindi gli americani si trovarono senza rappresentanti autorevoli e affidabili in un Paese chiave dello scacchiere internazionale. E in piena guerra fredda”. Ed aggiunge: “Sono anni convulsi, nei quali il confronto tra il mondo atlantico e il blocco comunista è durissimo: anni di riarmo nucleare, di servizi segreti attivissimi, di spie, di omicidi politici. Tutto appare lecito in quel momento. La prospettiva di un sorpasso elettorale da parte dei comunisti, così come l’ipotesi di un compromesso storico tra Dc e PCI, terrorizza gli ambienti atlantici”. Il dipartimento di Stato americano e la CIA si convinsero allora di avere a che fare con una situazione di emergenza in Italia. Gli americani ritennero, e qualcuno glielo suggerì che, in Italia, Gelli, l’esponente della più potente loggia massonica mai esistita, era l’uomo adatto ad arginare il pericolo comunista. Non vi è dubbio quindi che vi fosse un ben preciso interesse degli americani ad impedire a Moro di realizzare il suo progetto di un compromesso storico tra DC e PCI. Continua De Bernardo sostenendo che allorquando divenne Gran Maestro, LinoSalvini, Sindona, Calvi e Gelli accrebbero il loro potere “fatto di alta finanza, controllo dei media (come il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera), corruzione politica ed uso dei servizi segreti” e istaurarono collusioni pericolose. Ma De Bernardo parla anche dei rapporti con la criminalità organizzata e della mafia infiltrata nella famosa Loggia Garibaldi in cui confluivano esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Dice De Bernardo ; “Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa Nostra in America”. La potente massoneria americana d’altra parte era legata fin dai tempi della Seconda guerra mondiale ai servizi segreti e in rapporti organici con ambienti siciliani. E’ d’altronde un fatto noto che lo sbarco degli alleati in Sicilia fu preparato dalla massoneria siciliana insieme a elementi della mafia americana. Io credo che si può dare per acclarata l’esistenza di rapporti non sempre leciti tra massoneria e potere politico- finanziario nazionale e internazionale nonché di una contiguità tra il livello oscuro della massoneria e le realtà criminali presenti nel nostro Paese. Così, per quanto riguarda La P2, numerose sentenze hanno accertato come Gelli godesse di un potere enorme ed avesse creato una rete di potere caratterizzata da favoritismi, finanziamenti concessi ai privati dalle banche vicine alla P2, da rapporti anche con poteri criminali, e come avesse un ruolo rilevante nel favorire le nomine anche di personaggi delle istituzioni; ma se aveva il potere di fare nominare una determinata persona, aveva anche il potere di asservirla a sé. E’ appena il caso di ricordare come Gelli raggiunse l’apice del proprio potere con l’appoggio di banchieri iscritti alla P2 quali Michele Sindona e Roberto Calvi. Va poi ricordato, a proposito degli intrecci tra massoneria e servizi segreti, come Gelli dal 1941 al 1945 sembra sia stato al servizio del Counter Intelligence Corp, cioè il controspionaggio militare americano. E che il potere di Gelli permanesse immutato anche dopo le indagini aperte sulla P2, a seguito della scoperta della lista degli iscritti, è testimoniato da una lettera inviata da Gelli al gran Maestro del Grande Oriente, nella quale lo stesso si dichiara certo dell’esito favorevole dell’indagine. (Non è un mistero per alcuno-scrive Gelli- che queste conclusioni saranno interamente assolutorie). E in effetti le indagini, non concluse dal Procuratore di Palmi Agostino Cordova, vennero trasferite per competenza alla Procura di Roma dove il procedimento, dopo essere rimasto fermo per circa sei anni, nel dicembre del 2002 venne archiviato dal giudice Augusta Iannini. Sempre De Bernardo evidenzia come il trasferimento della inchiesta Cordova alla Procura di Roma coincise con la pax mafiosa seguita all’assassinio di Falcone e Borsellino del 1992, anno in cui ebbe inizio l’inchiesta di Cordova. Analogie inquietanti. Lo stesso Cossiga, in una intervista, affermò che la P2 era stata una creazione degli americani, una “operazione “Filoamericana e atlantica…la P2 era perciò un baluardo anticomunista, un caposaldo di un certo tipo di politica estera e di pensiero”. Se le sentenze hanno escluso che la P2 cospirasse contro lo Stato, tuttavia “le ragioni atlantiche” che secondo la P2 dovevano cambiare l’Italia, erano certamente illegali. Si può parlare di poteri forti o poteri occulti anche a proposito dell’Opus Dei? Indubbiamente l’Opus Dei e la massoneria presentano una caratteristica comune che è quella della riservatezza interna. Dichiarò, in proposito, l’ex Gran Maestro Di Bernardo, in una intervista del 23 marzo 1991: “Se si parla di potere occulto, volendo fare riferimento alla massoneria, bisognerebbe considerare anche l’Opus Dei, che svolge una attività particolarmente occulta”. Ed ancora, in una intervista rilasciata a Giovanni Bianconi del “Corriere della Sera” Di Bernardo non lesina critiche all’Opus Dei. Afferma infatti: “Forse che quello non è un potere occulto? La massoneria (quella ufficiale, n.d.r.) cerca sempre di far conoscere le proprie finalità, si muove sempre sulla strada della trasparenza. Non mi risulta che l’Opus Dei abbia fatto qualcosa di simile. Eppure esiste e si muove ai limiti della riservatezza. Dobbiamo pensare che in Italia esistano due pesi e due misure?” Quanto fin qui scritto porta a ritenere che un gruppo ristretto di persone detiene ed orienta la politica finanziaria e internazionale e che con i suoi meccanismi di globalizzazione impone, in maniera sempre più incisiva, il proprio potere alle masse. Possiamo dire che una ristretta elite, l’uno per cento dell’umanità comanda sul restante 99% definendone il destino e in alcuni casi persino la sopravvivenza. Ma ciò che è più grave è che tale uno per cento detiene il proprio potere in “regime di democrazia rappresentativa”, favorito dalla legislazione e addirittura con il consenso popolare! E ciò è stato possibile, come scrive Rosario Castello nel libro “L’invisibile identità del potere nascosto”, grazie alla finanza mondiale con l’arma della globalizzazione e della moneta privata. E’ pertanto fondato ritenere che durante gli incontri che periodicamente hanno luogo tra i partecipanti del Bilderberg, della Trilaterale e degli altri organismi simili, vengano prese dalla classe dirigente globale, al riparo della privacy armata e della segretezza, le decisioni più rilevanti per il futuro dell’umanità su politica, economia e questioni militari, decisioni che sono e rimangono top secret.” Noi ci illudiamo di essere liberi ma l’illusione viene meno nel momento in cui i nostri diritti entrano in conflitto con quelli che sono gli interessi dei poteri forti e ci rendiamo conto di chi comanda realmente in questa società. Si assiste oggi ad un appiattimento dei partiti politici, delle istituzioni e degli organi di informazione che noi crediamo liberi e indipendenti ma che mai si porranno, salve rare eccezioni, in contrasto con tali poteri. In realtà sono le elite finanziarie di cui ho parlato che in ambito politico, finanziario, economico e dell’informazione, stabiliscono al nostro posto quali sono i limiti di conoscenza e di libertà oltre i quali non è consentito andare. Woodrow Wilson, nel 1913 eletto Presidente degli Stati Uniti, dopo la approvazione del “Federal Reserveact (la legge costitutiva della Federal ReserveBank) e la sua promulgazione da parte dello stesso Wilson, anni dopo dichiarò: “Sono uno degli uomini più infelici. Io ho inconsapevolmente rovinato il mio paese, una grande nazione industriale è ora controllata dal suo sistema creditizio. Non siamo più un governo della libera opinione, non più il governo degli ideali e del voto della maggioranza, ma il governo dell’opinione e della coercizione di un piccolo gruppo di personaggi dominanti”. Considerazione che anche oggi non può non essere condivisa.
Mattei, Kennedy, Moro: quando la mafia decideva i destini del mondo, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 24 ottobre 2017. Il Presidente degli Stai Uniti Donald Trump ha annunciato su Twitter la sua intenzione di divulgare i documenti, a lungo coperti dal segreto di Stato, sull’assassinio di J.F. Kennedy avvenuto a Dallas, nel Texas, il 22 novembre 1963. Sia la Commissione Warren che indagò sull’omicidio del Presidente degli Stati Uniti sia la stessa famiglia Kennedy, avevano optato per l’apposizione del segreto di Stato sui documenti riguardanti l’assassinio. Si trattò di una scelta infelice dato che tale decisione non fece altro che rafforzare le tesi degli scettici e dei complottisti. In realtà, nel corso degli anni, sono stati desecretati più del 90% dei documenti soprattutto a seguito del film JFK di Oliver Stone. I rimanenti documenti avrebbero dovuto essere desecretati nel 2017, come previsto nel “President Jhon F. Kennedy Assassination Records Collectio Act, intenzione che sembra avere, in questi giorni, manifestato il Presidente Trump. Avverso tale intenzione di Trump è stata tuttavia avanzata, da ambienti della Casa Bianca e in particolare dalla CIA la preoccupazione che la pubblicazione dei file più recenti potrebbe mettere in pericolo le operazioni di intelligence. In una dichiarazione giurata, Jefferson Morley, giornalista del Washington post ed esperto di servizi segreti, ha dichiarato che la CIA dispone di circa 1100 documenti riguardanti l’assassinio di Kennedy che dovrebbero esser mantenuti segreti fino al 2017, documenti che non sono mai stati visti dal Congresso degli Stati Uniti. E’ fondato ritenere che vi siano pressioni da parte delle Agenzie federali, CIA ed FBI, per convincere il Presidente Trump a mantenere ancora il segreto sui rimanenti documenti e ciò al fine di evitare di mettere in pericolo i segreti nazionali, relativi ad inchieste collegate che potrebbero divenire di pubblico dominio. Se Il Presidente Trump dovesse cedere alle pressioni dei suddetti organismi, rimarranno negli archivi dei documenti che potrebbero portare alla luce oscure e dubbie attività della CIA come quelle, ad esempio, relative ai programmi di assassinio di leader stranieri. Tra i documenti ancora secretati vi sono ad esempio quelli relativi ad Edward Hunt l’agente della Cia che partecipò allo sbarco fallito nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961 e che divenne famoso nello scandalo del Watergate che costrinse alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon nel 1974. Quello di Kennedy non è stato il primo omicidio di un presidente degli Stati Uniti. Prima di lui vennero assassinati Abram Lincoln, ucciso il 14 aprile 1865, James Garfield, ucciso il 2 luglio del 1881, William McKinley ucciso il 6 settembre 1901. E ciò senza contare i numerosi attentati falliti. L’assassinio di Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre del 1963, fu un evento determinante nella storia degli Stati Uniti per l’impatto che ebbe sulla nazione e sulla politica del Paese. Per l’omicidio venne arrestato Lee Oswald a sua volta ucciso da Jack Ruby che morì a sua volta in carcere di cancro. Numerose sono state le ipotesi sull’uccisione di Kennedy: un complotto di cubani, della mafia, della stessa CIA. La Commissione parlamentare Warren, istituita per indagare sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti, chiuse frettolosamente l’inchiesta archiviando il caso come omicidio ad opera di un fanatico e cioè: Lee Oswald. Sulla morte di Kennedy quindi esiste una verità ufficiale, quella della commissione Warren, istituita il 29 novembre 1963 dal Presidente Lyndon B. Johnson che concluse che Lee Oswald fu il solo esecutore materiale dell’omicidio. Le conclusioni della Commissione furono molto contestate e furono formulate molte ipotesi cospirazioniste. Soprattutto dei dubbi, peraltro non privi di un certo fondamento, sorsero sul fatto che soltanto Oswald possa essere stato l’esecutore materiale. Oswald infatti avrebbe sparato tre o quattro colpi a tempo di record – 6,75 secondi – un tempo ritenuto da coloro che contestarono le risultanze della commissione Warren, troppo breve. Un documentario, andato in onda sul canale televisivo CBS, dimostrò che in realtà si trattava di un tempo più che ragionevole per un tiratore scelto (qualità che non risulta avesse Lee Oswald) dato che, undici tiratori, messi alla prova, avevano esploso tre colpi in un tempo medio di 5,6 secondi. Tuttavia, alcuni testimoni affermarono concordemente di avere udito un quarto colpo che sarebbe stato sparato da una collinetta adiacente e quindi non soltanto dal deposito di libri da cui avrebbe sparato Oswald. Il che indurrebbe a ritenere la partecipazione all’assassinio di più persone. Cinque autorevoli storici americani, docenti universitari, hanno pubblicato dei libri nei quali hanno ricostruito l’omicidio di Kennedy. Di essi, quattro hanno sostenuto che Kennedy fu vittima di un complotto e che Oswald non agì da solo e uno ritiene che l’omicidio potrebbe essere avvenuto con il coinvolgimento di alcuni ufficiali dell’intelligence americana. David Kaiser, del Naval War College e Michael Kurt, poi, quest’ultimo della Luisiana University, sono concordi nel ritenere che a tirare i fili di tutta la vicenda sia stata la CIA. Fletcher Prouty, capo delle operazioni speciali del Pentagono dal 1960 al 1964 ed ufficiale di collegamento con la CIA, in una intervista rilasciata il 19 marzo del 1992 all’ “Unità”, sostenne che Kennedy venne ucciso in seguito ad una vera e propria cospirazione politica affermando che si trattò di un colpo di Stato in piena regola e che Lee Oswald non era colpevole. L’assassinio, eseguito militarmente con grande professionalità e coperture da “una anonima assassini”, sarebbe stato programmato e realizzato per la tutela degli affari e degli interessi di un strettissima elite di personaggi che da secoli si tramandano il governo del pianeta, interessi che venivano minacciati da Kennedy divenuto incontrollabile e pericoloso. Non soltanto l’uccisione di Kennedy ma tanti altri delitti sarebbero quindi stati eseguiti nell’ottica del dominio del mondo e delle risorse e a tal proposito Fletcher ricorda la guerra del petrolio e il cartello del petrolio nel mondo ed aggiunge: “Il Presidente degli Stati Uniti fu ucciso nello stesso piano strategico in cui fu eliminato l’anno precedente, Enrico Mattei. Lei ha presente che cosa rappresenta il potere di controllo sulle fonti energetiche? Si tratta del governo mondiale: Mattei come Kennedy e poi come Aldo Moro, sono stati uccisi da mani diverse ma per lo stesso motivo: non si adattavano a discipline superiori. E tanti altri sono stati uccisi come loro”. In altri termini una ristretta elite avrebbe il dominio della gran parte del continente. Ci si troverebbe in presenza di un governo segreto costituito da pochi gruppi di potere che regolano la fame, l’energia, le guerre e che non esitano a ricorrere al crimine ogni qualvolta vedono minacciati i loro affari e i loro interessi. Realizzati i delitti si sono occultate e si continuano a d occultare le prove. Ciò ad esempio è avvenuto più volte in America (ma anche in Italia) nel caso Nixon, nel caso dei bombardamenti segreti in Laos e Cambogia, in Iran, in Nicaragua, con i Contras, con gli ostaggi in Iran e dopo Kennedy con l’uccisione di Martin Luther King e Bob Kennedy. Ma tra coloro che improntarono la loro attività a un forte impegno democratico si possono ancora ricordare Allende, Palme, e Moro. Nell’assassinio di Kennedy non possono trascurarsi alcune strane coincidenze che sembrerebbero avvalorare, nell’omicidio del Presidente americano, un connubio tra politica e strutture criminali quali mafia e massoneria. Ma probabilmente si tratta soltanto di coincidenze che tuttavia qualche dubbio lo suscitano. Il giorno dell’assassinio infatti a Dallas, sulla autovettura in cui si trovavano John Kennedy e la First Lady, vi era il governatore del Texas John Connally, un nome che, curiosamente compare nei verbali delle varie inchieste italiane sulla Loggia massonica P2. Connally, fervente anticomunista e in seguito ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Nixon, era infatti amico e sodale del venerabile Licio Gelli come scrive l’ex giudice Imposimato nel libro “La Repubblica delle stragi impunite”. E non può non evidenziarsi e lasciare perplessi come negli omicidi di Kennedy e di Aldo Moro si trovino gli stessi personaggi legati alla mafia e alla massoneria come appunto il governatore del Texas Jhon Connally e il suo braccio destro Philip Guarino. E a proposito di quest’ultimo, Luigi Cipriani, nel suo intervento in aula del 2 agosto 1990, in occasione dell’anniversario della strage di Bologna, evidenziò come Guarino, che negli Stati Uniti aveva diretto il comitato elettorale di Regan e di Bush, fosse stato grande amico di Sindona e dirigente della Franklin Bank che Sindona aveva acquistato negli Stati Uniti. Matteo Lecs poi, un massone inquisito per la strage di Bologna, ha parlato dei rapporti di Philip Guarino con Gelli e delle riunioni che venivano tenute a Livorno alle quali partecipava un ufficiale della base americana diCamp Derby e nel corso delle quali si discuteva delle operazioni che Gelli e la P2 conducevano in quel periodo. Il Lecs dichiarò anche che gli elenchi veri della P2 sono depositati in codice presso il Pentagono. In un messaggio inviato agli americani, John Kennedy sembra quasi tracciare il profilo di quel coacervo di interessi che poco tempo dopo decreterà la sua morte. Disse infatti Kennedy in quella occasione: “La parola segretezza è ripugnante in una società libera e noi abbiamo avuto storicamente come persone un senso innato di avversione alle società segrete, ai giuramenti segreti e alle procedure segrete. Per questo si oppone a noi, in tutto il mondo, una cospirazione monolitica e spietata fondata principalmente sull’uso di mezzi sotterranei per espandere la propria sfera di influenza. Sull’infiltrazione anziché l’intrusione. Sulla sovversione anziché sulle elezioni. Sull’intimidazione anziché sulla libera scelta. E’ un sistema che ha coscritto vaste risorse umane e materiali per la costruzione di una fitta rete, una macchina altamente efficiente che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. La preparazione di queste operazioni viene nascosta, non resa pubblica. I loro errori sepolti, non sottolineati. Gli oppositori sono messi a tacere, non elogiati. Il costo di queste operazioni non viene messo in discussione; nessun segreto viene rivelato. E’ per questo che il legislatore ateniese Solone decretò che il rifiuto di una vertenza, di un dibattito pubblico, costituiva un reato per ogni cittadino. Sto chiedendo il vostro aiuto nell’arduo compito di informare ed allertare il popolo americano, fiducioso che con il vostro aiuto l’uomo potrà essere quello per cui è nato: libero e indipendente”. In fondo lo stesso concetto avevano espresso lo statista inglese Benjamin Dislaeli e il Presidente Franklin Delano Roosevelt. Disse infatti il primo: “Il mondo è governato da personaggi molto diversi da quelli che immaginano coloro che non si trovano dietro le scene”. E in maniera più incisiva disse il secondo: “La verità su questo tema è che elementi della finanza sono proprietari del governo nei suoi cardini principali dai giorni di Andrew Jackson”. Si riuscirà mai a sapere la verità su Dallas? Io credo di no poiché, per quello che ne sappiamo oggi, non vi sarebbe nulla di scritto e documentato che proverebbe, nell’assassinio di Kennedy, un complotto di quelli che oggi si suole definire “poteri forti”. Uno spiraglio tuttavia sembra potersi aprire se, come annunciato dal presidente Trump, saranno definitivamente e completamente aperti gli archivi che contengono i documenti sull’assassinio di Kennedy, fino ad oggi coperti dal segreto di Stato. Soltanto in tal modo, io credo, si potrà riprendere in mano il controllo della democrazia eliminando la parola “segretezza” che, come affermò Kennedy, è una parola ripugnante in una società libera.
Via Fani, 16 marzo del 1978. I segreti inesplorati sul caso Moro, scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" l'11 marzo 2018. Sono passati quaranta anni da quando il 16 marzo del 1978, Aldo Moro, mentre si stava recando alla Camera dei deputati per la presentazione del nuovo governo, fu vittima di un agguato effettuato da un commando delle Brigate rosse che, con una vera e propria azione militare, uccisero i cinque uomini della scorta e sequestrarono il presedente della Democrazia cristiana. Il sequestro si concluse dopo 55 giorni di prigionia nel covo di via Montalcini, con l’uccisione di Moro, fatto trovare all’interno di una Renault rossa, il 9 maggio a Roma in via Caetani, una via che si trova tra la sede della allora Democrazia cristiana e via delle Botteghe Oscure, la sede nazionale del Partito comunista italiano. Oggi, tutto, per ciò che riguarda questo grave fatto, sembra essere stato chiarito. In realtà molti sono i punti oscuri che ancora permangono e che non sono stati, volutamente o no, sufficientemente approfonditi. Così dicasi per ciò che riguarda il possibile coinvolgimento della P2 e dei servizi segreti, dell’URSS e degli Stati Uniti o di Israele Ed ancora non si è sufficientemente approfondita la vicenda del falso comunicato n. 7 e la scoperta del covo di via Gradoli. O ancora il ritrovamento, nell’ottobre del 1990, in un appartamento in via Montenovoso a Milano, appartamento occupato dalle BR e già allora attentamente perquisito, di documenti relativi alla prigionia di Aldo Moro. Per ciò che riguarda il possibile coinvolgimento degli Stati Uniti e dell’URSS, si può affermare che sia gli uni che gli altri potrebbero essere stati mandanti del sequestro. Non vi è dubbio infatti come il progetto di apertura del governo al PCI di Berlinguer, che come è noto era uno dei più convinti sostenitori dell’Eurocomunismo, fu mal visto dagli Stai Uniti che temevano un siffatto programma: se attuato, avrebbe cambiato gli equilibri di potere sia nazionali che internazionali. Ma anche dalla stessa URSS, una siffatta apertura poteva essere non gradita dato che tale evenienza avrebbe dimostrato, come è stato osservato, che un partito comunista era in grado di andare al potere in maniera democratica e di sfuggire così alla dipendenza dal PCUS di Mosca. Sin dagli anni 70 vi era sempre stata, negli USA una forte contrarietà sia da parte della amministrazione repubblicana con Nixon e Ford sia da parte di quella democratica con Carter (presidente dal 1977 al 1981, nel periodo in cui si verifica il sequestro e l’uccisione di Moro), alla politica perseguita da Moro che mirava a fare partecipare i comunisti al governo. Un segnale ben preciso si ebbe infatti nel settembre del 1974, allorquando Moro, allora Ministro degli esteri, si recò negli Stati Uniti. In questa occasione infatti vi fu un confronto molto duro tra l’allora segretario di Stato Henry Kissinger e Moro il quale voleva convincere Kissinger che data l’ascesa elettorale del partito comunista, un modo per fermare tale ascesa era proprio quello di fare partecipare i comunisti alla responsabilità di governo e che in pratica si trattava soltanto non di una alleanza di governo vera e propria ma di un accordo provvisorio per trovare una soluzione alla crisi economica. Kissinger, in questa occasione, per nulla convinto dalle affermazioni di Moro, minacciò che se l’Italia avesse perseguito tale strategia avrebbe tagliato gli aiuti economici di cui l’Italia in quel momento aveva particolare bisogno. Naturalmente ciò non significa affermare che l’ordine di sequestrare ed uccidere Moro sia venuto da Kissinger o da chi per lui, ma bisogna comprendere i meccanismi che stanno alla base di quasi tutti i delitti eccellenti. Non c è in altri termini nessun politico che direttamente dica ad altri di commettere un determinato delitto. Basta infatti che il potere politico lanci un messaggio quale ad esempio. “I comunisti stanno per impossessarsi del potere; la situazione è grave”. Questo messaggio viene recepito da un livello inferiore che non ha nessun contatto con il livello superiore ma che si rende conto della preoccupazione di quest’ultimo e trasmette il messaggio ad un livello successivo che comprende cosa fare ed esegue. Se, come si è detto, gli Stati Uniti erano fortemente contrari all’ipotesi che il partito comunista potesse andare al governo e che pertanto avrebbero fatto qualsiasi cosa per impedire tale evenienza, è semplicistico pensare che le Brigate rosse abbiano fatto tutto da sole e di loro iniziativa. Esse, come è stato osservato, gestirono un appalto e solo se si ritiene fondata questa tesi, si può comprendere ciò che avvenne durante i 55 giorni in cui Moro fu prigioniero delle Brigate Rosse. Significativa in proposito è la circostanza che la decisione di uccidere Moro viene presa proprio nel momento in cui la DC, attraverso l’allora presidente del Senato Fanfani, si apre alla trattativa. Rafforza ancora l’ipotesi di un coinvolgimento degli Stati Uniti nel sequestro Moro, quanto dichiarato nel 2005 da Giovanni Galloni, ex vicesegretario della democrazia cristiana secondo cui Moro gli disse di essere conoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israeliani, avevano degli infiltrati nelle BR e che nessun aiuto davano ai servizi italiani per l’individuazione dei covi di tale organizzazione. Nella seduta del 22 luglio 1998, dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia, lo stesso Galloni dichiarò come per gli americani impedire l’entrata dei comunisti al governo era una questione strategica di vita o di morte dato che se si fosse verificata una siffatta evenienza temevano di perdere le basi militari che gli Usa avevano sul territorio italiano in una posizione idonea a fare fronte ad una eventuale invasione dell’Europa da parte dei Sovietici. Dichiarò in particolare Galloni: «Quindi, l’entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, “life or death” come dissero, per gli Stati Uniti d’America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere. » (Dichiarazioni di Giovanni Galloni, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 39ª seduta, 22 luglio 1998.) Emanuele Macaluso, in un articolo pubblicato il 26.09.1982 sull’Unità scrisse: “Caso Moro. Noi siamo tra coloro che non hanno mai creduto che a rapire ed uccidere il presidente della Dc siano state solo le Brigate rosse che organizzarono l’infame impresa. Abbiamo sempre pensato che gli autonomi obiettivi politici delle Br coincidessero con quelli di potenti gruppi politico-affaristici, nazionali ed internazionali che temevano una svolta politica in Italia”. Ma che Moro fosse inviso agli Stati Uniti a causa della sua politica di avvicinamento al partito comunista, emerge anche dalle dichiarazioni rese dalla moglie di Moro in occasione del primo processo al nucleo storico delle BR. La vedova di Moro dichiarò che fin dal 1974 il marito era stato oggetto da parte di esponenti politici degli USA, tra cui il segretario di Stato Henry Kissinger, di moniti e di avvertimenti sulla pericolosità di qualsiasi legame con il PCI. Riferì in particolare che nel marzo del 1976 il marito ricevette un avvertimento esplicito da parte di un personaggio americano che, avvicinatolo, lo aveva apostrofato duramente. L’episodio fu riferito dalla vedova Moro dinanzi alla Commissione di inchiesta in questi termini: “: «È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. […] Adesso provo a ripeterla come la ricordo: ‘Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere’». Un altro aspetto, forse non sufficientemente approfondito è quello relativo ad una macchina tipografica che collegherebbe il delitto Moro a Gladio, organizzazione quest’ultima che altro non era se non una propaggine della Cia. La stampatrice infatti, usata dalle BR per redigere i comunicati emessi durante i 55 giorni del sequestro del presidente della DC, venne portata nella tipografia brigatista di via Pio Foà a Roma da Mario Moretti nel 1977. Ebbene tale macchina tipografica proveniva ufficialmente, come sostenuto in un servizio del 1990 dell’ “Espresso” da un reparto unità speciali dell’esercito, sigla RUS. Secondo quanto dichiarato dal generale Gerardo Serravalle alla Commissione stragi, il RUS era “una proiezione del centro addestramento guastatori, il Cag di Alghero” Lo stesso Serravalle, che fu a capo di Gladio dal settembre 1971 al luglio del 1974, precisò che il “RUS” era un settore supersegreto, “sempre compartimentato da tutti”. Dichiarazioni in contrasto con quanto invece affermato a suo tempo, dall’ex capo del SISMI, Giuseppe Santovito, dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. In relazione alla rivelazione dell’Espresso, il senatore Sergio Flamigni, componente della Commissione Moro ed autore del libro “La tela del ragno” sul sequestro Moro ebbe a dichiarare: “E’ una informazione di grande valore, che consente di rileggere in una nuova luce tutta la storia della “stampatrice” usata durante il sequestro del leader democristiano”. Alla Commissione Moro, Flamigni ed altri commissari cercarono di approfondire la questione nel corso delle audizioni dei dirigenti dei servizi ed emerse che l’ufficio “RUS” era uno dei compartimenti segreti di Gladio, che altri non era, come si è detto, che una propaggine della Cia; il che ci riporta ancora una volta a un possibile coinvolgimento degli USA nel sequestro Moro. Non vi è dubbio pertanto che ci si trovò in presenza di una circostanza che sembrava avallare i sospetti di collegamento tra brigatisti e servizi deviati. Non risulta che le indagini sul punto che indurrebbero a ritenere un collegamento tra le BR e Gladio e quindi la CIA siano state approfondite al fine di chiarire o comunque smentire un siffatto rapporto. Nell’ambito di una inchiesta aperta dal PM De Ficchy nel 1992 sul caso Moro si indagò anche sul ruolo che avrebbe svolto l’ex colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, ufficiale che, come venne accertato, si trovava nei pressi di via Fani, al momento in cui ebbe luogo l’agguato delle BR. Il Guglielmi inoltre sembra che fosse l’uomo incaricato dai servizi segreti di tenere i rapporti con esponenti della criminalità. La presenza dl Guglielmi in via Fani non era stata segnalata agli inquirenti e venne alla luce casualmente a seguito della rivelazione di un ex carabiniere che poi fu costretto a ritrattare. Interrogato nel 1991, Gugliemi ammise che si trovava in via Fani a suo dire perché invitato a pranzo da un collega e che assistette al rapimento di Moro. Affermò di essere stato invitato dal colonnello Armando D’Ambrosio che effettivamente abitava nei pressi di via Fani. Questi dichiarò che Guglielmi si era presentato a casa sua poco dopo le nove ma negò di averlo invitato a pranzo aggiungendo che si era intrattenuto con lui solo qualche minuto perché, sempre a dire del Guglielmi, egli doveva tornare in strada in quanto “doveva essere accaduto qualcosa”. Lasciando l’abitazione del collega, circostanza inverosimile, Guglielmi disse di non essersi accorto che all’incrocio con via Fani c’era stata una strage e di avere appreso che era stato sequestrato Moro soltanto quando era rientrato a casa. La versione fornita dal Guglielmi, come emerso nell’ambito dell’inchiesta condotta dal P.M. De Ficchy, fu smentita dall’ex agente del Sismi Ravasio il quale, parlando di Guglielmi, disse che la mattina del sequestro Moro, l’alto ufficiale si era precipitato in via Fani dopo avere ricevuto una telefonata di Musumeci, ai vertici del Sismi, che lo aveva invitato a recarsi subito in via Fani avendo appreso da un infiltrato delle BR, il cui nome di copertura era “Franco” che in via Fani sarebbe successo qualcosa di grosso e che forse avrebbero rapito Moro. Guglielmi, recatosi in via Fani sostenne successivamente di non aver potuto intervenire. Lo stesso, come scrive la giornalista Rita Di Giovacchino ne “Il libro nero della Prima Repubblica” avrebbe confidato a Ravasio di essere andato in via Fani a cose fatte e di essere rimasto sconvolto: “Ero lì’, c’erano tutti quei corpi a terra e non ho potuto fare niente”. Una strana circostanza è quella che per anni i servizi segreti fecero circolare la notizia che Gugliemi era morto. La figura e il ruolo di quest’ultimo, mai chiariti, riconducono verosimilmente a un coinvolgimento nel sequestro Moro dei servizi segreti e ,considerati i rapporti che Guglielmi teneva con la criminalità, a un interessamento della criminalità e in particolare della mafia, della ‘ndrangheta e della banda della Magliana, contattati per la liberazione di Moro, Il pentito Marino Mannoia ha riferito che negli ultimi giorni della prigionia di Moro circolava una specie di parola d’ordine : “Lasciate perdere le iniziative per trovare Moro, qualcuno ha già deciso che deve essere ucciso”. Un elemento che rafforza la convinzione che il sequestro Moro non fu gestito esclusivamente dalle Brigate Rosse, così come ritenuto in sede processuale, è dato dal famoso comunicato numero 7, quello con cui i brigatisti annunciarono l’esecuzione di Moro indicando in un laghetto ghiacciato in provincia di Roma il luogo in cui era stato abbandonato il cadavere del presidente della DC. Ebbene, tutti i cinque processi del caso Moro hanno accertato che fu Antonio Giuseppe Chicchiarelli, un falsario legato alla banda della Magliana, a redigere il suddetto comunicato (il c.d. comunicato del lago della Duchessa) e che la stessa macchina da scrivere veniva usata nello stesso periodo di tempo dai brigatisti e da un soggetto esponente della criminalità romana e dei servizi segreti. Ciò venne confermato dalla testimonianza dell’ex capo dell’Ucigos, dr.Fariello il quale, sentito il 7 novembre 1980 dalla Commissione parlamentare di indagine sul delitto Moro, allorquando gli fu mostrato il comunicato n. 7 affermò: “…era autentico, lo do per scontato…io mi baso sui miei collaboratori, i quali a suo tempo hanno riconosciuto che la battuta e la testina erano le stesse (di quelle usate per gli altri comunicati brigatisti n.d.r.)
Moro, 40 anni senza verità. Chi era Martin Woodrow Brown? Scrive Alberto Di Pisa su "Sicilia Informazioni" il 14 marzo 2018. La figura di Chicchiarelli non venne approfondita nel corso dei processi sul sequestro e l’uccisione di Moro, cosa che sarebbe stata opportuna se si considera che lo stesso aveva collegamenti oltre che con la criminalità (Cosa Nostra e banda della Magliana), con estremisti di destra e di sinistra, la loggia P2, l’Opus Dei e i servizi segreti. Secondo il confidente del Sisde e dei carabinieri Luciano Dal Bello, soprannominato Gheddafi, Chicchiarelli era un esponente delle BR. Ed ancora il 14 aprile 1979 fu fatto ritrovare “casualmente” in un taxi a Roma un borsello con materiale vario riguardante il sequestro e l’omicidio Moro, l’omicidio Pecorelli e il depistaggio del lago della Duchessa, borsello che risultò appartenere al Chicchiarelli il quale però venne sostanzialmente lasciato ai margini del processo Moro anche quando vennero rinvenuti due spezzoni di foto scattate, quasi sicuramente da Chicchiarelli, all’interno del covo dove era tenuto prigioniero Moro. Il ruolo rivestito dal Chicchiarelli nella vicenda Moro e i motivi che lo spinsero a redigere il falso comunicato non sono mai stati accertati e chiariti. Un dato però è certo e cioè che questi era certamente a conoscenza dei retroscena della vicenda Moro. Il 28 settembre 1984 Chicchiarelli venne ucciso in un agguato a Roma. Il possibile coinvolgimento della CIA nel sequestro Moro emergerebbe dalla vicenda che vide protagonista Aldo Semerari, direttore dell’Istituto di criminologia dell’università di Roma, docente di psichiatria forense, più volte inquisito per terrorismo nero. Nell’estate del 1978 pervenne, indirizzata personalmente al Semerari, una lettera che lo stesso aprì e lesse insieme al suo collega Antonio Mottola. La lettera che era a firma di tale “Mister Brown” diceva che il sequestro e la morte di Moro erano riconducibili a “un complotto della CIA”. La lettera venne inviata al generale dei carabinieri Ferrara, ma non risulta che sul contenuto della stessa siano state effettuate particolari indagini. Nel luglio del 1981 Mottola venne assassinato dopo essere stato prelevato presso la propria abitazione da tre uomini. Aldo Semerari scomparve il 25 marzo del 1982: il suo cadavere decapitato sarà ritrovato all’interno di una fiat 128, parcheggiata in viale Elena, a pochi metri dal municipio di Ottaviano. Una circostanza strana si verifica il 14 giugno1986 allorquando un cittadino inglese, tale Martin Woodrow Brown muore mentre viene trasportato in ospedale a Pisa. Nella sua borsa vengono rinvenuti degli articoli in tedesco e in italiano che riguardano la camorra e le BR tedesche e italiane. Ma circostanza interessante è che nella borsa vi è anche una lettera inviata da Semerari a un funzionario della Criminalpol nella quale lo stesso annotava alcune sue valutazioni sulle Brigate Rosse. Ma chi era Woudrow Brown? Era una spia, un mitomane un criminologo? Tra il materiale ritrovato nella borsa vi è anche un ritaglio di giornale dal quale risultava che Brown era stato fermato dalla Polizia di Dallas in occasione dell’assassinio di Kennedy, nel 1963. Si trovava a breve distanza dal luogo in cui si era trovata a transitare la macchina di Kennedy. Per gli inquirenti Brown era un mitomane con una passione per le indagini e nessun collegamento aveva con ambienti della criminalità e del terrorismo. Resta comunque il fatto, non spiegato, di come lo stesso fosse in possesso di una lettera di Semerari indirizzata alla Criminalpol e sulla cui autenticità gli inquirenti avanzarono qualche dubbio pur non escludendola. La verità giudiziaria nei vari processi Moro si basò quasi esclusivamente sulla ricostruzione della vicenda che ne fece il brigatista Valerio Morucci nel suo c.d. memoriale, redatto in carcere con la collaborazione del giornalista democristiano Remigio Cavedon. Si è sempre ritenuto, sulla base della ricostruzione della vicenda effettuata dall’ex brigatista, che nel sequestro e nell’assassinio di Moro tutto fosse chiaro. Il memoriale fu visto con favore dalla DC e fu avallato dall’ex capo delle BR Mario Moretti nonché da una parte della magistratura. In realtà come osserva l’ex senatore Sergio Flamigni nel libro “Patto di omertà” il memoriale è un documento pieno di omissioni, di reticenze, di bugie, di vuoti e di ambiguità “che racconta una verità ufficiale menzognera dall’inizio (la strage di via Fani) alla fine (la prigionia e l’uccisione di Moro”. In questo libro Sergio Flamigni, non solo ritiene del tutto inattendibile il memoriale ma afferma che lo stesso sarebbe il frutto di un” patto di omertà” stipulato dagli ex terroristi con settori politici, statali ed istituzionali. In altri termini il memoriale avrebbe avuto come finalità quella di impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e dell’omicidio del presidente della DC presentando delle lacune gravissime e dei quesiti ancora oggi privi di risposta. Nel memoriale si sostiene che la strage e i 55 giorni della prigionia di Moro vennero eseguiti e gestiti soltanto dalle BR senza l’intervento di complicità esterne, di manovre o trattative occulte. In realtà come si è visto rimangono ancora alcuni aspetti oscuri della vicenda che non furono adeguatamente scandagliati e che possono così riassumersi: nessuno raccolse mai i numerosi avvertimenti che indicavano che proprio quella mattina Moro sarebbe stato rapito. Le linee telefoniche di buona parte di Roma restarono fuori uso durante il periodo del rapimento. Il colonnello dei servizi segreti Guglielmi era presente al rapimento fornendo versioni contrastanti e smentite della sua presenza in via Fani la mattina del 16 marzo 1978. A distanza di 39 anni dall’agguato vennero fuori alcune foto scattate sul luogo della strage e poi scomparse. Si tratta di 11 fotografie scattate da un ottico di via Stresa, Gennaro Gualerzi il cui esercizio si affacciava a metà della stradina che si snoda sull’incrocio-scena della sparatoria. Della esistenza di queste foto vi è traccia in un rapporto del Nucleo Operativo dei Carabinieri (allegato agli atti della prima Commissione Moro (voll. 30-39). Circa il numero di queste foto si rileva una correzione a mano che lo porta a 16 ma quelle effettive sono solo 11. Tra queste foto vi è l’immagine di Giustino De Vuono, un ex legionario vicino all’estremismo politico che nel 1975 partecipò insieme ad elementi di Autonomia operaia al sequestro dell’ing. Carlo Saronio. Il De Vuono venne riconosciuto da un testimone tale Rodolfo Valentino. Si ipotizzò che il De Vuono, presente sul luogo dell’agguato, non avesse partecipato all’azione di sequestro ma si trovasse sul posto con il ruolo di supervisore. La domanda che ci si pone è perché queste foto sparirono dagli atti per 39 anni? Nessuna spiegazione plausibile è stata data del fatto che la stampante utilizzata per la redazione dei comunicati delle BR proveniva da un ufficio riservato dei servizi segreti. Non tutti i componenti il gruppo di fuoco dell’agguato sono stati identificati. Alcune delle borse che Moro portava sempre con sé, non furono prelevate dal commando brigatista. Però scomparvero ugualmente, e non se ne seppe più nulla. Non è stato accertato da chi Chicchirelli, componente della banda della Magliana, ricevette l’incarico di redigere il falso comunicato della Duchessa nel quale, come si è detto, si diceva che il cadavere di Moro era stato sepolto in tale lago. Chicchiarelli, che venne ucciso a Roma nel 1984, era in effetti in contatto con le BR e quasi sicuramente si era recato nel covo in cui era tenuto prigioniero Moro. La banda della Magliana, alla quale Chicchiarelli apparteneva, era legata al terrorismo nero, alla mafia, a Giusva Fioravanti, all’aristocrazia nera romana, a Flavio Carboni, a Francesco Pazienza e a Pippo Calò. Nessuna indagine risulta essere stata effettuata al fine di accertare quale fosse il nesso tra questi personaggi e le Brigate Rosse e il ruolo dagli stessi avuto nella vicenda Moro. Da quanto fin qui, sia pure sinteticamente detto, si intuisce nella vicenda del sequestro e della uccisione di Moro, un intreccio perverso, ancora oggi oscuro, tra varie componenti, quali servizi di sicurezza anche stranieri, criminalità comune ed organizzata, massoneria, interessi transnazionali. E non è senza significato il fatto che il comitato costituito presso il ministero dell’Interno per seguire la vicenda del sequestro Moro era quasi completamente costituito da esponenti piduisti che con l’assassinio di Moro verosimilmente perseguivano gli interessi delle suddette componenti. In ogni caso la vicenda Moro non potrà mai essere compresa a fondo se non verrà vista avuto riguardo al contesto internazionale in cui maturò il delitto: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.
Il caso Moro e gli infiltrati dei servizi nelle brigate rosse, scrive il 4 giugno 2018 Piccole Note su Il Giornale. Difficile dire cose nuove sul caso Moro, la tragedia che ha cambiato l’Italia nel profondo e che resta snodo centrale della storia del nostro Paese, anche recente (è nota l’assidua frequentazione del presidente del consiglio italiano Matteo Renzi con Michael Ledeen, uomo della Nato la cui storia personale è legata anche a quei giorni). Tante interpretazioni di quell’oscura vicenda, tanti interrogativi, tante spiegazioni o rivelazioni che spesso vanno a intorbidire ancora di più le acque. A dire qualcosa di nuovo è stato Giovanni Galloni, figura di primo piano della democrazia cristiana, in una intervista a una televisione poco nota, Attivo-tv, tempo fa. Nel suo intervento, l’esponente della Dc, ricordando quei giorni, spiega: «Io non posso dimenticare il discorso che ebbi con Moro poche settimane prima del suo rapimento. Discutevamo con Moro delle Br, delle difficoltà di trovare i covi delle Br, e Moro mi disse: “La mia preoccupazione è questa: che io ho per certo la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno degli infiltrati all’interno nelle Br, però non siamo stati avvertiti di questo, perché se fossimo stati avvertiti i covi li avremmo trovati». Un ricordo postumo, che giustifica così: «Me ne sono ricordato proprio per le difficoltà che nei 55 giorni della prigionia di Moro noi avemmo con i nostri servizi segreti a metterci in contatto con i servizi segreti americani per ritrovare la prigione di Moro, che non fu mai ritrovata». Mentre invece, ragiona ancora Galloni, quanto le Brigate rosse rapirono il generale americano James Lee Dozier (1981) «la prigione fu ritrovata nel giro di quindici giorni». Possibile che da questi infiltrati all’interno delle Brigate rosse non arrivò alcuna indicazione? A questa domanda, posta dall’intervistatore, Galloni risponde che forse qualche informazione, in effetti, era trapelata. E rammenta come il giornalista Carmine Pecorelli, del cui assassinio «fu accusato ingiustamente Andreotti», doveva aver saputo qualcosa. Così Galloni: «Pecorelli tre giorni prima del rapimento di Moro scrisse una notizia un po’ ambigua sulla sua agenzia, dicendo: “il 15 di marzosi verificherà un nuovo fatto gravissimo in Italia in cui saranno implicate personalità di grande rilievo”. Lo disse tre giorni prima […]. In realtà poi sapemmo che la cattura di Moro doveva avvenire il giorno prima [Moro fu rapito il 16 marzo ndr.], quindi aveva imbroccato decisamente tutto». Tanto che, è l’ipotesi di Galloni, il direttore dell’Osservatore politico (Op) sarebbe stato ucciso proprio perché, a un certo punto, avrebbe minacciato «di rivelare da dove aveva attinto quelle notizie. E fu fatto fuori scientificamente, in maniera molto adeguata, probabilmente da servizi». Il mistero che ancora aleggia su quell’oscura vicenda è dovuto anche alla reticenza dei brigatisti. Le loro dichiarazioni, infatti, non sono state «convincenti», secondo quanto riferito a Galloni dai magistrati che in diverse inchieste e gradi di giudizio hanno cercato di far luce sul caso Moro. Ancora Galloni: «Le brigate rosse interrogate oggi ci dicono che hanno già detto tutto […] Non è così. Probabilmente qualche cosa ci hanno taciuto; anche loro hanno voluto coprire certe situazioni, certe realtà. Questo è l’interrogativo che nasce». Un interrogativo che investe anche i servizi segreti italiani, meglio i servizi «cosiddetti deviati», che poi deviati non furono secondo Galloni. Semplicemente si trattava di funzionari che «in buona fede, ritenevano che, stante la stretta alleanza che avevamo con l’America, su alcune questioni delicate dovevano rispondere prima ai loro colleghi americani della Cia che non al governo italiano».
Lo rivela l'ex vicesegretario DC, Giovanni Galloni. Moro sapeva che le "Br" erano infiltrate da Cia e Mossad, scrive il 13 luglio 2015 Pmli. Prendendo spunto dal caso dell'imam egiziano rapito da spie americane nel nostro Paese, in un'intervista trasmessa il 4 luglio scorso dal programma di approfondimento quotidiano "Next" di Rainews24, l'ex vicepresidente della DC Giovanni Galloni ha rivelato nuovi particolari sul rapimento di Aldo Moro che confermano l'ipotesi non nuova di un ruolo occulto della Cia e del Mossad in quella vicenda. "Non posso dimenticare - ha dichiarato Galloni - un discorso con Moro poche settimane prima del suo rapimento: si discuteva delle BR, delle difficoltà di trovare i covi. E Moro mi disse: 'La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle BR ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati"'. L'ex vicepresidente del CSM ha aggiunto di essersene ricordato proprio ora "perché nei 55 giorni di prigionia di Moro avemmo grandi difficoltà a metterci in contatto con i servizi americani, difficoltà che non incontrammo poi durante il rapimento del generale Dozier". Il generale americano della Nato J. L. Dozier fu rapito dalle "BR" a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato senza colpo ferire con un blitz delle forze speciali dei Nocs il 28 gennaio 1982. Il modo rapido e apparentemente "brillante" con cui fu risolto il caso destò subito forti sospetti sulla possibilità che i rapitori fossero infiltrati dai servizi segreti americani, se non addirittura che la "liberazione" dell'ostaggio fosse stata in qualche modo concordata con i rapitori. Galloni conferma questi sospetti, rivelando una sorta di politica a doppio binario da parte dei servizi segreti Usa nei due casi: collaborativa nel caso di Dozier, per nulla collaborativa nel caso del rapimento di Moro. In effetti Galloni aveva già rivelato qualcosa di simile qualche anno fa, il 22 luglio 1998 davanti alla Commissione parlamentare sulle stragi, quando riferì che Moro gli aveva detto: "La cosa che mi preoccupa è che credo che i Servizi segreti americani e israeliani abbiano elementi sulle Brigate rosse che ci sarebbero utili per le nostre indagini, ma non ce li hanno detti". Secondo questa prima dichiarazione Moro avrebbe lamentato solo una mancanza di informazioni da parte dei servizi Usa e israeliani, mentre ora Galloni precisa che il presidente della DC era "certo" che essi avessero degli infiltrati nelle "BR" e che di questo non tenessero informate le autorità italiane.
Il vero obiettivo del rapimento Moro. La differenza è sostanziale, e tale da dare corpo all'ipotesi, già avanzata da alcune fonti e suffragata da diversi elementi mai chiariti finora, della presenza di spie della Cia e del Mossad dietro le quinte del rapimento di Moro. In particolare le rivelazioni di Galloni confermano in pieno quello che noi abbiamo sempre denunciato e sostenuto fin dall'inizio della vicenda di Moro, e cioè che il suo rapimento, detenzione e assassinio furono pianificati ed eterodiretti, tramite l'infiltrazione della Cia e del Mossad nelle sedicenti "Brigate rosse", da parte del governo Usa per impedire che si realizzasse il disegno di Moro di pilotare l'ingresso del PCI in un governo di "unità nazionale" insieme alla DC. A conferma di ciò Galloni aggiunge nell'intervista altri particolari significativi, come l'osservazione che "tutti i magistrati che hanno lavorato sul rapimento Moro hanno detto che le dichiarazioni delle BR non sono state del tutto convincenti. I brigatisti interrogati ci dicono di aver raccontato tutto ma sappiamo che non è così. Qualcosa ci hanno taciuto, resta da capire che cosa hanno voluto coprire. E l'interrogativo nasce in relazione anche ai servizi segreti deviati italiani, che rispondevano prima ai colleghi americani della Cia che ai loro superiori". E come l'impressione riportata dai suoi numerosi viaggi negli Usa effettuati tra il 1978 e il 1984, dove "venni a sapere - confida l'ex vicepresidente della DC e del CSM - che la Cia era estremamente preoccupata per l'Italia, per il fatto che se i comunisti arrivavano al governo loro non avrebbero potuto mettere certe basi in Italia: una questione di vita o di morte, per loro, rispetto alla quale qualunque atto sarebbe stato giustificabile". Che gli americani avessero informazioni di prima mano sul rapimento di Moro, tali che se avessero voluto avrebbero potuto portare all'individuazione della prigione di Moro di via Montalcini, per Galloni è dimostrato anche dallo strano preannuncio del rapimento dello statista democristiano, fatto tre giorni prima in forma criptica dal giornalista Mino Pecorelli, legato ai servizi italiani "deviati" e alla Cia, sul suo foglio scandalistico "OP". "L'assassinio di Pecorelli - aggiunge l'intervistato - potrebbe essere stato determinato dalle cose che il giornalista era in grado di rivelare". Le rivelazioni di Galloni sul coinvolgimento dei servizi segreti americani nella vicenda Moro sono suffragate anche da una testimonianza del giornalista de "l'Unità" Luigi Cancrini, che in un articolo sul suddetto quotidiano del 7 luglio riporta le confidenze che gli furono fatte nel 1990 in punto di morte dal professor Franco Ferracuti, docente di psicologia giuridica all'università della Sapienza, uomo legato ai servizi segreti e alla P2 e facente parte della commissione del ministero degli Interni istituita da Cossiga al tempo del sequestro di Moro: il professore gli rivelò che le riunioni della commissione che coordinava al massimo livello le azioni di tutte le forze dell'ordine erano "non solo frequentate ma sostanzialmente dirette da due funzionari della Cia".
Reazioni sprezzanti. Malgrado tutto ciò le dichiarazioni di Galloni a Rainews24 sono state praticamente ignorate tanto dalla destra neofascista quanto dalla "sinistra" borghese, ormai perfettamente convergenti nel negare qualsiasi interpretazione "dietrologica" del rapimento e dell'uccisione di Moro, attribuendoli esclusivamente all'ideologia "rivoluzionaria" aberrante dei sedicenti "brigatisti rossi". C'è da segnalare tuttavia gli interventi di due "parti in causa", e cioè i senatori neofascisti Francesco Cossiga e Paolo Guzzanti. Il primo, con una lunga lettera a "l'Unità" del 7 luglio, in cui ridicolizza "i ricordi sinistri di Galloni", sostenendo che al tempo del rapimento Moro mai quest'ultimo, pur essendo a stretto contatto con lui come suo referente per la DC, gli prospettò l'ipotesi di un'infiltrazione della Cia e del Mossad nelle "BR". Il secondo, che è anche presidente della Commissione Mitrokin, con un fondo su "Il Giornale" della famiglia di Berlusconi di cui è anche il vicedirettore, in cui rigetta le rivelazioni di Galloni quali frutto di una falsa tesi diffusa allora dal Kgb sovietico, che a suo dire sarebbe invece il vero servizio segreto infiltrato nelle "BR" e che ordinò e diresse per loro tramite il rapimento e l'assassinio di Moro. Per quanto riguarda Cossiga c'è da dire che ammesso dica il vero (cosa che nel suo caso c'è sempre da dubitare), non ci sarebbe comunque da meravigliarsi che Galloni non gli avesse riferito le preoccupazioni di Moro, specie se essendo depositario delle confidenze dello statista DC fosse stato già allora a conoscenza del ruolo di Cossiga come capo di Gladio, e quindi referente diretto dei servizi segreti americani. Quanto alla tesi di Guzzanti, pur non escludendo del tutto che anche il Kgb possa aver avuto contatti e infiltrati nelle "BR", cosiccome analoghi interessi alla Cia e al Mossad nel far fallire il "compromesso storico", da qui a scambiarne il ruolo con gli americani nel caso Moro ce ne corre. Basti pensare alla vicenda del rapimento dell'imam egiziano e a come la Cia si muove in tutta libertà nel nostro Paese e con la piena collaborazione dei servizi segreti italiani, suoi stretti alleati dal 1945 in poi, per capire chi tra i due - Cia o Kgb - abbia potuto più facilmente attuare e gestire un'operazione politico-militare così complessa come il rapimento e l'uccisione di Moro. E in ogni caso, ammesso che a rapire Moro fosse stato un servizio segreto avversario della Cia, possibile che questa, che opera in Italia come in casa sua, non ne sapesse nulla e non fosse in grado di scovare la prigione del sequestrato? Si provi a immaginare un'operazione altrettanto spettacolare e clamorosa, attuata dalla Cia in un paese dell'allora blocco socialimperialista sovietico, condotta per 55 giorni sotto il naso del Kgb, senza che questo riuscisse a capirci nulla. Quantomeno irreale! Resta da capire perché Galloni si è deciso solo ora, dopo quasi trent'anni, a rivelare l'importante confidenza di Moro, quando tutto è stato abbuiato e nessuno, né a destra né a "sinistra", ha più interesse a fare luce sui veri burattinai, in Italia e all'estero, che hanno tirato le fila del suo rapimento e sul disegno politico che lo ha ispirato: che è quello piduista della seconda repubblica neofascista, presidenzialista e federalista di Gelli, Craxi e Berlusconi, ma che oggi sta bene anche alla "sinistra" borghese composta da rinnegati, falsi comunisti, riformisti e democristiani. Il fatto è che anche Galloni, come appartenente a tale "sinistra", ha coperto questo disegno è stato complice, ed è per questo che le sue rivelazioni finiscono per essere reticenti e tardive e cadere oggi sostanzialmente nel vuoto. Mentre se fatte a suo tempo avrebbero avuto ben altro peso ed effetto sulla situazione politica.
CASO MORO: GALLONI RISPONDE A PASCALINO, scrive il 9 dicembre 1993 Adnkronos. Il Consiglio Superiore della Magistratura non può interrogare l'ex Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Roma, Pietro Pascalino, sulle rivelazioni di Francesco Cossiga in merito al caso Moro, dal momento che il magistrato è andato in pensione. In ogni caso, al termine dell'ispezione promossa dal ministro Conso, il Csm sicuramente si pronuncerà sull'accaduto. E' quanto si legge in una lettera inviata dal Vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, a Pietro Pascalino. ''Ho preso cognizione -scrive Galloni- della sua lettera aperta nella quale esprime il comprensibile disagio in lei provocato dalle dichiarazioni dell'onorevole Cossiga sulla collaborazione di magistrati per la formazione di un piano diretto a comprimere la libertà personale dell'onorevole Moro nel caso in cui fortunatamente fosse stato liberato dalla sua prigionia''. ''Per quanto fui a conoscenza della dolorosa vicenda -prosegue Galloni- nei 55 giorni di ansiosa attesa e di speranza della restituzione di Moro vivo non posso che confermare la sua categorica smentita. Tuttavia per ragioni insuperabili di forma e di sostanza che lei ben conosce non possiamo come Csm aprire un'indagine promossa o sollecitata da un magistrato che, pur sentendosi a ragione parte ancora in senso morale dell'ordine giudiziario servito con ben 40 anni spesi con intelligenza e con grande senso di equità al servizio della giustizia, non fa piu' parte solo materialmente dell'ordine soggetto al governo del Csm''.
Giovanni Galloni è morto/ “Il cervello più lucido della Dc”: amico di Moro, ex ministro e vicepresidente Csm. È morto Giovanni Galloni, ex ministro e storico esponente della Dc: "il cervello più lucido della Democrazia Cristiana". Amico di Moro e Andreotti, ex vicepresidente del Csm: la sua eredità, scrive il 23 aprile 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Era definito negli ambienti della politica come “il cervello più lucido della Dc”: è morto nella sua abitazione di Roma nord Giovanni Galloni, storico rappresentante della Democrazia Cristiana, più volte ministro e anche vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). Un addio importante nel mondo della Prima Repubblica, un esponente di rilievo che fece spesso da “tramite” per le varie anime interne della “Balena Bianca” da Andreotti e Moro, profondo uomo di cultura e di fede è stato ed è ancora per tutti gli “eredi” della Dc uno dei maggiori ispiratori. Nei due libri scritti “Trent’anni con Aldo Moro” e “Giuseppe Dossetti profeta del nostro tempo” Galloni ha saputo raccontare le due anime della Democrazia Cristiana, ovvero la sacralità della Dottrina sociale della Chiesa e insieme il rispetto e il valore della Carta Costituzionale di cui lui fu un grande “estimatore”. «Certamente vengono da lì i valori e le regole di cui abbiamo bisogno per vincere non soltanto la corruzione ma anche la più estesa malattia politica che sta mettendo a dura prova l’Italia», disse di quel libro Beppe Pisanu in una intervista sul Corriere della Sera. Fu tra i fondatori della corrente di sinistra della Democrazia cristiana, tra i migliori amici di Aldo Moro e più volte ministro dell’Istruzione sia nei governi Goria (dal 1987 al 1988) che nell’esecutivo De Mita (1988-1989); per 4 anni poi fu anche il vicepresidente e membro del Csm, oltre che in epoca più recente (era il 2009) fu tra i fondatori del Movimento Sinistra cristiana-Laici per la giustizia. Nel ricordare più volte l’amico ucciso nel celebre sequestro delle Brigate Rosse, Galloni amava ripetere che «Moro in un discorso una settimana prima del rapimento mi disse che “La mia preoccupazione è questa: che io so per certa la notizia che i servizi segreti sia americani che israeliani hanno infiltrati nelle Br ma noi non siamo stati avvertiti di questo, sennò i covi li avremmo trovati”». Nelle sue lezioni di politica e giurisprudenza, Galloni ripeteva spesso che finita l’epoca dei partiti ideologici (Pci, Dc, Psi ecc) bisognava assolutamente tornare alla cultura politica della Carta Costituzionale o ci saremmo arresi allo stallo e al caos politico. Galloni lascia una famiglia che lo adorava, in particolare modo i due figli Nino (noto e stimato economista) e Matteo, un sacerdote che a Firenze ha fondato anni fa la comunità Amore e Libertà per accogliere bambini poveri, malati e sotto disagio inviati dai Centri Sociali.
Nino Galloni: Come ci hanno deindustrializzato, scrive il 29 luglio 2013 "Inchiesta On Line". Per il Dossier L’Europa verso la catastrofe? pubblichiamo una intervista di Claudio Messora de Il fatto quotidiano a Nino Galloni, economista, ex direttore del Ministero del Lavoro. Nino Galloni è figlio di Giovanni Galloni amico e stretto collaboratore di Aldo Moro.
MESSORA: Nino, buongiorno.
GALLONI: Buongiorno!
MESSORA: Benvenuto su byoblu.com, a queste interviste volute dalla rete. Io ero rimasto molto colpito dalla tua affermazione in un convegno che ripresi e misi su Youtube, intitolando il video “Il funzionario oscuro che fece paura a Kohl”. Nel tuo racconto del processo con il quale siamo entrati nell’euro, tratteggiavi questa decisione assunta dalla politica italiana di un vero e proprio progetto di deindustrializzazione del nostro paese. E mi sono sempre chiesto: ma perché mai, alla fine, la politica avrebbe dovuto decidere questo strangolamento, questo inaridimento, la morte del nostro tessuto produttivo? Ho cercato, via via, delle risposte nel tempo, ma oggi che sei qua forse queste risposte ce le puoi dare tu. È un processo, quello di deindustrializzazione, che parte da molto lontano. Riesci a farci una carrellata di eventi e poi arriviamo al focus?
GALLONI: Credo che la data dalla quale dobbiamo necessariamente partire sia il 1947, quando al Trattato di Parigi De Gasperi cede una parte della nostra sovranità, ma in cambio ottiene il riassetto di certi equilibri. La componente socialcomunista esce dal governo, ma manterrà una grande influenza nel campo creditizio e questo, vedremo, sarà un fattore decisivo una trentina di anni dopo.
MESSORA: gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo in questa decisione.
GALLONI: Gli Stati Uniti hanno avuto un bel ruolo perché chiaramente gli aiuti del Piano Marshall erano condizionati all’uscita dei comunisti dal governo. In realtà Togliatti, giustamente, si lamentava del fatto che ci fosse questo ricatto, ma era perfettamente consapevole di doverlo fare di uscire dal governo, anche perché tutto sommato alla Russia stalinista non faceva comodo un Partito Comunista al governo, come poi trent’anni dopo non farà scomodo il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, che tutto sommato era stato additato come interessato a fare avvicinare i comunisti all’area di governo, cosa che poi potrebbe essere sfatata.
Ma torniamo all’industria. Quindi nel 1947 la produzione industriale, per non parlare della produzione agricola italiana, è a livelli del 1938. Il paese è semidistrutto. Tuttavia inizia una ricostruzione. Ad un certo punto di questa ricostruzione, in cui hanno un ruolo le industrie energetiche, quindi Mattei, ma si comincia a sviluppare in modo sorprendente anche il nucleare, ci si trova già negli anni ’60 nel miracolo. Cioè piccole industrie, grandi industrie, industrie a partecipazione statale, soprattutto, e anche cooperative, trainano l’Italia in una situazione completamente diversa. Negli anni ’70 scopriamo che abbiamo superato l’Inghilterra, scopriamo che ci stiamo avvicinando alla Francia, scopriamo che possiamo, dal punto di vista manifatturiero, andare a dar fastidio alla Germania. Nel ’71 si sgancia la moneta dall’oro e questo rende teoricamente tutto più facile: gli aumenti salariali anche in termini reali, la spartizione dei guadagni di produttività che va in parte ai lavoratori e quindi aumentano i consumi, aumentano le vendite, aumenta il valore delle imprese. Questo è un concetto fondamentale che oggi è stato completamente dimenticato. Oggi la consapevolezza e l’orizzonte delle imprese – e di questo ha grave responsabilità la Confindustria – è ridotto all’immediato, al profitto annuale. Le imprese dovrebbero traguardare obiettivi di crescita del valore delle imprese stesse, in modo di contrattare poi con le banche tassi di interesse buoni e invece manca completamente questa consapevolezza.
MESSORA: Negli anni ’70 eravamo all’apice.
GALLONI: All’apice. Diciamo che forse l’anno di maggior crescita è proprio il ’78, che è l’anno, non a caso, del rapimento di Moro.
MESSORA: Cioè noi stavamo raggiungendo e superando le altre economie avanzate.
GALLONI: C’erano stati altri segnali gravissimi di attacco al sistema italiano, come appunto l’omicidio di Mattei, ordinato perché aveva pestato i piedi alle “Sette Sorelle” in Medio Oriente, trovando una formula che ci aveva dato una posizione nel Mediterraneo veramente ragguardevole dal punto di vista della politica estera. E non ci dimentichiamo che Moro era amico degli arabi moderati, quindi aveva contro Israele e aveva contro gli arabi estremisti. Poi abbiamo visto che aveva contro la Russia, che non voleva un avvicinamento del Partito Comunista Italiano al governo e anzi mal sopportava l’importanza in Europa di questo grande partito, e gli americani che temevano – questa è la versione non dico ufficiale, ma su cui concordano molti osservatori, che dobbiamo (va citato in questo caso) alla ricostruzione di mio padre, che era principale collaboratore di Moro a quei tempi – che l’avvicinamento del Partito Comunista all’area di governo, secondo i loro centri studi, i loro servizi, avrebbe potuto vanificare il principale piano strategico di difesa dell’Occidente nei confronti della Russia sovietica, che aveva una supremazia evidente di terra. Quindi un’avanzata dei carri armati sovietici attraverso la Germania orientale, poteva essere fermata prima che i carri arrivassero nella Germania occidentale solo con degli ordigni atomici tattici che erano necessariamente e solo piazzabili e piazzati nel Nord-Est dell’Italia. Quindi se non si poteva fermare con armi atomiche nucleari tattiche l’avanzata dell’esercito sovietico verso occidente, l’Europa era persa e quindi gli americani se ne sarebbero dovuti andare dall’Europa, conseguentemente dal Mediterraneo che – teniamolo sempre presente – è l’ombelico del mondo. Ma questo è un quadro teorico.
MESSORA: Spieghiamolo bene. Cosa c’entra Moro in questo quadro? Cosa c’entra Moro con le bombe nucleari?
GALLONI: c’entra! Perché se Moro faceva riavvicinare i comunisti al governo, si pensava che i comunisti avrebbero posto un veto all’uso di ordigni nucleari, anche nel caso di un’avanzata dei carri armati sovietici verso occidente. Ma erano scenari che gli americani fanno continuamente, non è detto che le politiche si debbano ispirare a quello. Però c’è un fatto di cui ci sono testimonianze certe, anche della famiglia di Moro: Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima, Moro lo aveva riferito alla famiglia e la famiglia aveva detto “ritirati dalla politica”, cosa che poi lui non aveva fatto, ma non si sa poi che cosa avesse in mente di fare dopo quel fatidico marzo 1978.
MESSORA: Quindi le Brigate Rosse in realtà avevano avuto un ruolo…
GALLONI: Dobbiamo distinguere le prime Brigate Rosse, per capirci quelle di Curcio, che erano un fenomeno promanante dall’incontro tra l’estremismo, un certo tipo di estremismo marxista-leninista, che bene o male aveva un legame col Partito Comunista, anche se lontano, e forze che tutto sommato, partigiani ed ex partigiani che avevano conservato le armi, anche perché si sapeva che dall’altra parte c’era la minaccia; tutti gli anni ’70, e forse anche prima, sono stati vissuti con l’idea che potesse esserci un golpe di destra, quindi partigiani ed ex partigiani avevano conservato armi, soprattutto nel nord. Quindi una certa continuità col terrorismo si può anche vedere. Le seconde Brigate Rosse, quelle che – per capirci – rapirono Moro, eccetera, invece sono fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani, israeliani; ci sono evidenze ormai incontrovertibili su questa lettura. Torniamo all’industria. Il problema qual è? Il problema è che in pratica il gioco è: quanto e come ci avviciniamo all’Europa, quanto e come sviluppiamo l’economia italiana, che già appunto era arrivata a livelli, come abbiamo detto, di eccellenza. Allora ci sono due strategie, fondamentalmente. C’è la strategia più moderata che vuole l’Europa e che faceva capo anche a Moro, ma che faceva capo anche a Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, e ad altri personaggi del mondo economico e finanziario italiano, e poi invece emerge una posizione più estremista, pro Europa, che praticamente fa propria l’idea che si debba combattere la classe politica corrotta e clientelare e tutte le sue espressioni facenti capo fondamentalmente alla Democrazia Cristiana e ai suoi partiti alleati, compreso il Partito Socialista, e che per questo si debbano anche cedere porzioni di sovranità, e si comincia con la sovranità monetaria.
MESSORA: Ma chi si faceva propugnatore di questa tesi?
GALLONI: Intanto era cambiata la dirigenza della Banca d’Italia ed era passata la linea, diciamo, più estremista sull’Europa, facente capo a Carlo Azeglio Ciampi. Poi la sinistra democristiana era divisa tra la sinistra sociale, che faceva capo a Donat-Cattin, che era su posizioni euromoderate, e la sinistra politica, che faceva capo a De Mita e soprattutto a Beniamino Andreatta, che invece era su posizioni euroestremiste e giustificavano questa rinuncia alla sovranità monetaria, cioè alla possibilità dello Stato di fare investimenti pubblici produttivi, per impedire alla classe politica stessa, corrotta e clientelare, di avere potere. Quindi per sottrarre potere alla classe politica, si cominciò a rinunciare alla sovranità monetaria, quindi agli investimenti pubblici. Quindi la classe politica poi si trovò ad occuparsi solo di nomine, di poltrone, eccetera, perché non c’era più da discutere gli investimenti pubblici che ormai dovevano minimizzarsi. Degli investimenti pubblici la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia, i trasporti e via dicendo, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale.
MESSORA: Mario Monti era molto vicino a De Mita, quindi potremmo dire che già da allora era un euroestremista.
GALLONI: Di Monti mi ricordo la posizione sulla scala mobile, che era stata considerata interessante da Donat-Cattin, però poi, per il resto, era sicuramente un rappresentante della scuola monetarista, non era un keynesiano. I keynesiani si stavano abbandonando. Anche Andreatta, pur essendo stato un keynesiano, era entrato in quella che noi chiamiamo “la corrente neo-keynesiana”, li chiamiamo anche “keynesiani bastardi”, di cui il maggior rappresentante era il premio Nobel Modigliani, i quali proponevano appunto questo passaggio rispetto alla moneta che impedisse alla classe politica di decidere investimenti in infrastrutture per lo sviluppo industriale, per lo sviluppo del paese. Ecco, questo è stato un errore cruciale che ha determinato poi l’esplosione dei tassi di interesse e quindi del debito pubblico, ma soprattutto l’accorciamento di orizzonte delle imprese industriali che assumevano sempre di meno perché dovevano valutare il profitto immediato e non potevano stare a fare grandi progetti industriali. Quindi quello che accadde per gli investimenti pubblici, accadde anche per gli investimenti privati, a causa degli alti tassi di interesse. Io negli anni ’80 feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione. Il passaggio successivo però è molto più grave e riguarda appunto il periodo che va dalla fine degli anni ’80 all’inizio delle privatizzazioni.
MESSORA: Ci arriviamo. Ci spieghi però, a noi che non siamo economisti, come si lega questa nuova politica monetarista con l’esplosione dei tassi di interesse? Questo passaggio tecnico ce lo spieghi un po’?
GALLONI: Fino al 1981 la Banca d’Italia, se un’emissione di obbligazioni pubbliche che servivano per ottenere moneta da parte dello Stato non veniva completamente coperta, comprava lei il restante, quindi era la compratrice di ultima istanza, come diceva il mio maestro Federico Caffè. Questo faceva sì che se l’emissione avveniva a un tasso di interesse basso, mettiamo del 3%, e una parte non veniva comprata proprio perché il rendimento era basso, la Banca d’Italia comprava quello che avanzava e quindi emetteva moneta. Con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, era data alla Banca d’Italia la facoltà di non essere obbligata… Sembra un po’ un gioco di parole però, in fondo, lo stesso divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, di cui stiamo parlando, non è che obbligava la Banca d’Italia a non comprare titoli, le dava la facoltà di non farlo e la pratica, voluta da Carlo Azeglio Ciampi, fu di applicare questo divorzio in modo letterale. Per la cronaca, ricordo che l’Inghilterra aveva le stesse regole, perché noi copiammo quelle, ma non le praticava. Cioè la Banca d’Inghilterra, quando serviva, stampava sterline a gogò, mentre la Banca d’Italia si irrigidì su quella facoltà che le era stata riconosciuta attraverso una semplice lettera del Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, e quindi la parte di emissione obbligazionaria che non veniva coperta, causava un aumento del tasso di interesse finché non si piazzava questo residuo, ma poi questo tasso di interesse andava ad essere applicato su tutta l’emissione della mattinata. Quindi in questo modo c’è stata una rincorsa dei tassi di interesse verso l’alto. In effetti io feci un appunto e ci fu una discussione col Ministro del Tesoro, in cui dimostrai oltre ogni ragionevole dubbio, applicando semplicissimi tassi di capitalizzazione – come sanno tutti gli economisti – che il debito pubblico sarebbe raddoppiato e avrebbe superato il Pil. Addirittura mi dissero che il debito pubblico non poteva superare il Pil, se no il sistema saltava, al che io gli feci presente che non era così, perché il debito è uno stock e il Pil è un flusso. Ma avevano deciso una cosa e non volevano più cambiarla, non accettavano né le critiche di Federico Caffè né quelle di Paolo Leon, figuriamoci le mie! Per cui poi litigammo e io andai via da quella amministrazione. E siamo a metà degli anni ’80. Il peggio deve ancora arrivare.
MESSORA: Lo scopo era soltanto quello nobile di sottrarre alla politica la gestione dei soldi e quindi andare verso un’Europa che avrebbe potuto salvarli in qualche maniera, o c’era anche sotto una strategia che poi avrebbe portato al nostro processo non solo di deindustrializzazione ma anche di privatizzazione? Qual è stata la road map successiva?
GALLONI: Nel mio ultimo libro “Chi ha tradito l’economia italiana”, infatti, affronto questo problema e identifico due tipi di personaggi, cioè quelli che in buona fede volevano fare i salvatori della patria, come hai ricordato tu, ma anche quelli che traguardavano nella possibilità di una svendita delle partecipazioni statali, nelle privatizzazioni – allora si chiamavano dismissioni – la possibilità di fare immensi profitti, come fu. Quindi c’è stata anche una parte di questa componente, diciamo così, anti-statalista, anti-italiana, anti-sviluppista, che ha fatto affari strepitosi e su cui qualcuno, infatti, ha proposto una commissione di indagine parlamentare.
MESSORA: arriviamo quindi, con questo ragionamento, all’inizio degli anni ’90.
GALLONI: Sì. Diciamo che c’è il passaggio successivo. È prima dell’inizio degli anni ’90, perché all’inizio degli anni ’90 avviene il crollo del sistema monetario europeo, perché non era sostenibile per la semplice ragione che produceva tassi di interesse più alti per i paesi deboli, che quindi si indebolivano di più, e tassi di interesse più bassi per i paesi forti, che quindi si rafforzavano di più. Ad un certo punto il sistema è saltato, ma era prevedibile. Ma noi ci dobbiamo rapportare, raccontando gli eventi, al tempo in cui accadevano, perché col senno del poi siamo tutti bravi. Nell’89 è emerso, qualcuno aveva detto – lì entra in gioco l’oscuro funzionario, probabilmente-, l’apice della classe politica italiana, che tutto sommato faceva capo in quel momento a Giulio Andreotti, capisce che bisogna trovare una strada un po’ diversa, perché se no si compromettono gli interessi nazionali. Tra le altre cose, quindi, mi manda un biglietto, mi scrive Giulio Andreotti e mi dice “caro dottore, vuole collaborare con noi per cambiare l’economia di questo paese?”. Al che io entusiasticamente aderisco. Per farla breve io mi trovo al vertice del Ministero del Bilancio, che era il ministero cruciale, alla fine dell’estate del 1989. Quindi in quel momento Andreotti era più vicino alle posizioni americane e più lontano dalle posizioni europeistiche estreme. Passano poche settimane, perché dalla fine di agosto dell’89, quando io ho ripreso servizio al mio ex ministero, fino a quando praticamente vengo di nuovo estromesso, che è novembre, passano due mesi praticamente. In questi due mesi io metto mano, e si sa in giro che io sto mettendo mano, ci fu anche un mio incontro molto in tensione con Mario Monti alla Bocconi. Io stavo appunto col mio Ministro e ci fu questo scontro piuttosto forte sul problema della moneta e del debito pubblico; avevamo posizioni completamente diverse.
MESSORA: La tua qual era?
GALLONI: La mia era che praticamente si dovesse operare per abbassare i tassi di interesse in qualunque modo e dimostrai appunto che la Banca d’Inghilterra aveva lo stesso regime nostro, cioè il divorzio, ma non lo praticava, quindi quando serviva al paese stampava sterline. Questo era il problema.
MESSORA: E la sua?
GALLONI: La sua, che si dovesse andare avanti su una politica di forte europeizzazione e quindi si dovesse continuare con questo forte debito pubblico. Dopo questo incontro alla Bocconi in effetti si scatena l’inferno, perché arrivano pressioni dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dalla Confindustria e vengo a sapere che persino un certo Helmut Kohl aveva telefonato al Ministro del Tesoro Guido Carli per dire “c’è qualcuno che rema contro il nostro progetto”, adesso le parole le ho ricostruite in base a delle testimonianze dirette, però vengono fatte pressioni sul mio Ministro affinché io venga messo da parte, cosa che avviene nel giro di un pomeriggio, nel senso che io ottengo dal Ministro la verità, mi rivela la verità, la scriviamo su un pezzo di carta perché lui temeva ci fossero dei microfoni, gli faccio vedere questo pezzetto di carta, dico “ci sono state pressioni anche dalla Germania sul Ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?” e lui mi fece di sì con la testa. Per cui ho mantenuto rispetto per questa persona, però me ne sono andato. Che cosa era successo? Che fino all’estate del 1989 Andreotti era contrario alla riunificazione tedesca e questo fatto impediva qualunque progresso, ovviamente, perché la Germania voleva fare la riunificazione.
MESSORA: e ci fu quella famosa battuta.
GALLONI: sì, sì. Infatti in quei tempi ad Andreotti chiesero “ma lei ce l’ha tanto con la Germania?”, dice “no, io amo la Germania. Anzi, la amo talmente tanto che mi piace che ce ne siano addirittura due!”. Questa era la frase. Passano appunto pochi mesi e invece la Germania, pur di ottenere la riunificazione, si mette d’accordo con la Francia per rinunciare al marco, che era quello che faceva paura alla Francia. Però perché questo accordo tra Kohl e Mitterand regga, occorre deindustrializzare l’Italia e indebolire l’Italia. Perché se no che fanno? Si passa a una moneta unica e l’Italia poi…
MESSORA: che stava fiorendo.
GALLONI: stava già perdendo colpi l’industria italiana, da vari punti di vista, però era una situazione ancora di dominio del panorama manifatturiero internazionale. Eravamo la quarta potenza che esportava. Voglio dire, eravamo qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero. Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici e cose del genere. Dopodiché, ovviamente, si entra nella stagione delle privatizzazioni spinte, negli anni ’90, in cui praticamente quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale.
MESSORA: Quindi decidono la deindustrializzazione. Dopodiché c’è qualcuno che si attiva.
GALLONI: Sì. La deindustrializzazione significa che non si fanno più politiche industriali. Non ci dimentichiamo che poi c’è stato un periodo in cui Bersani era Ministro dell’Industria, in cui, diciamolo, teorizzò che non servivano le strategie industriali. Adesso sta dicendo il contrario, ma poteva pensarci pure prima. Per dirne una. Non si fanno politiche per le infrastrutture. Questo è importante, perché è un paese che è molto lungo, quindi è costoso trasportare le merci da sud a nord, mentre il nord è già in Europa dal punto di vista geografico e infrastrutturale, il centro e il sud sono lontani, quindi potenziare le infrastrutture sarebbe stato strategico.
Poi, alla fine degli anni ’90, si introduce la banca universale, quindi la possibilità per la banca di occuparsi di meno del credito all’economia e di occuparsi di più di andare a fare attività finanziarie e speculative che poi avrebbero prodotto solo dei disastri, come sappiamo.
MESSORA: La fine del Glass-Steagall Act.
GALLONI: Sì, esatto. Poi la mancanza di strategie efficaci della stessa FIAT, dell’industria privata. Ripeto, in quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti – che poi avrebbero prodotto la precarizzazione – aumentare i profitti, quindi una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale, quindi perdita di valore delle imprese, perché le imprese guadagnano di valore se hanno prospettive di profitto che dipendono dalle prospettive di vendita. Questo è l’ABC. Se invece difendono il profitto oggi perché devono realizzare e devono portare ai proprietari una certa redditività ma poi, voglio dire, compromettono il futuro di un’azienda, questa perde di valore.
MESSORA: Si narra di questo incontro sul Britannia. Qual è stato il ruolo anche dell’Inghilterra, secondo te?
GALLONI: L’Inghilterra non è che avesse un interesse diretto all’indebolimento dell’Italia nel Mediterraneo, ma ha una strategia complessiva in Africa e in Medio Oriente, che ha sempre teso ad aumentare i conflitti, il disordine, e c’è la componente che fa capo alla corona, di cui sono espressione anche alcuni movimenti ambientalisti, che poi si debba puntare a una riduzione drastica della popolazione del pianeta; quindi è contraria ad ogni politica che invece favorisca lo sviluppo così come lo intendiamo comunemente.
MESSORA: Quindi è vero che sul Britannia si presero delle decisioni?
GALLONI: Qui dobbiamo capirci. Allora, Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli Illuminati di Baviera, sono tutte cose vere. Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decidono delle cose. Ma non è che le decidono perché veramente le possono decidere, è perché non trovano resistenza da parte degli Stati. L’obiettivo è quello di togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale in questo senso. Dopodiché è ovvio che se gli Stati sono stati indeboliti o addirittura nei governi ci sono rappresentanti di questi gruppi, che siano il Britannia, il Bilderberg, gli Illuminati di Baviera, eccetera, negli Stati Uniti d’America c’era la Confraternita dei Teschi, di cui facevano parte padre e figlio Bush, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti. E’ chiaro che dopo questa gente risponde a questi gruppi che li hanno, bene o male, agevolati nelle loro ascese.
MESSORA: Quindi alla fine decidono.
GALLONI: Ma perché dall’altra parte è mancata, da parte dei cittadini e degli Stati, una seria resistenza. Quindi praticamente questi dominano la scena.
MESSORA: Quindi non è colpa di questi ma è colpa di chi non si oppone abbastanza.
GALLONI: Questi si riuniscono, decidono delle cose, però rimangono lì. Ci sono sempre stati i circoli dei notabili che hanno deciso delle cose. Mica è detto che siano riusciti sempre a farle!
MESSORA: Però in questo caso ci sono riusciti.
GALLONI: In questo caso ci sono riusciti perché non hanno trovato resistenza.
MESSORA: Quindi è colpa nostra.
GALLONI: Beh, sì, un po’ sì, secondo me.
MESSORA: L’ignavia del cittadino che non rivendica il potere.
GALLONI: Sì. Ad esempio l’idea montiana che l’aumento della base monetaria produca inflazione è stato ciò che ha consentito di attrarre anche i sindacati in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981, quando invece si è dimostrato, anche in tempi recenti, che l’emissione e l’autorizzazione di mezzi monetari per migliaia, decine di migliaia di dollari e di euro non ha prodotto l’iper inflazione. Quindi evidentemente è qualcos’altro che genera l’inflazione, non è la quantità di moneta. La quantità di moneta può influire sui tassi di interesse attraverso le tensioni della domanda di essa, ma non è che influiscano direttamente sull’inflazione. Certo, paradossalmente potrebbe essere il contrario: se la moneta è poca e i tassi di interesse aumentano, quelli hanno effetti sui livelli dell’inflazione.
MESSORA: Quindi l’ignoranza degli attori sociali è stata o anche un certo tornaconto?
GALLONI: Una cosa non esclude l’altra. Diciamo che quelli che volevano avere un certo tornaconto facevano leva sull’ignoranza dei fatti monetari, dei partiti, dei sindacati, della classe dirigente e anche una certa scomparsa della scuola keynesiana dovuta a vari fattori anche oscuri.
MESSORA: Quindi privatizzazioni. Anni ’90. Cosa succede poi?
GALLONI: Dopo gli anni ’90 la situazione praticamente comincia a precipitare quando inizia questa crisi, che è il 2001. Quando gli operatori di borsa si accorgono che anche i titoli che avevano tirato fino a quel punto, e-commerce, e-economy, prodotti avanzati, eccetera, non danno più rendimenti crescenti, allora cominciano a svendere e comincia la speculazione al ribasso. In quelle condizioni le banche, che avevano preso grandi impegni coi sottoscrittori dei loro titoli, perché erano diventate, come ho ricordato prima, universali, per garantire questi rendimenti fanno operazioni di derivazione. Le operazioni di derivazione sono tipo catene di Sant’Antonio: tu acquisisci denaro per dare i rendimenti e quindi posticipi la possibilità di dare i rendimenti agli ultimi che ti hanno affidato delle somme. Questa cosa, si è fatta nel giro di due o tre mesi, perché dopo c’era la ripresa, era sempre stata fatta dalle banche, è un’operazione tecnica, diciamo così. Quindi di tre mesi in tre mesi si diceva che arrivava la ripresa. Centri studi, economisti, osservatori, studiosi, ricercatori, tutti sui loro libri paga, prevedevano di lì a tre mesi, di lì a sei mesi, la ripresa. Non si sa perché. Perché le politiche economiche volute per esempio da Bush, tipo la riduzione delle tasse, erano chiaramente politiche che non avrebbero risolto il problema della crescita. Poi tutte queste guerre americane, speculazioni, vanificavano la potenza di un dollaro che se fosse stato destinato a investimenti produttivi, alla ricerca, alle infrastrutture, eccetera, probabilmente avrebbe creato una situazione accettabile. Invece non si faceva niente di tutto questo, non si avviavano gli investimenti produttivi pubblici, perché i privati non investono se non c’è prospettiva di profitto; come avviene in borsa così avviene nell’economia reale. Quindi siamo andati avanti anni e anni con queste operazioni di derivazione, emissione di altri titoli tossici. Finché si è scoperto, intorno al 2007, che il sistema bancario era saltato, nel senso che nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose che faceva lei stessa, cioè speculazioni in perdita. La massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava, per la prima volta, la massa di quello che le famiglie, le imprese e la stessa economia criminale mettevano dentro il sistema bancario. Di qui la crisi di liquidità che deriva da questo, cioè che le perdite superavano i depositi e i conti correnti. A questo punto è intervenuta la FED e ha cominciato a finanziare le banche, anche europee, nelle loro esigenze di liquidità. La FED ha emesso, dal 2008 al 2011, 17 mila miliardi di dollari, cioè più del Pil americano, più di tutto il debito pubblico americano, ha autorizzato o immesso mezzi monetari in qualche modo e poi ha chiesto all’Europa di fare altrettanto. L’Europa alla fine del 2011 ha offerto qualche resistenza e poi, anche con la gestione di Mario Draghi, ha fatto il “quantitative easing”, cioè dare moneta illimitatamente per consentire alle banche di non soffrire di questa crisi di liquidità derivante dalle perdite che superano nettamente le entrate. Ovviamente l’economia è sempre più in crisi, quindi i depositi che seguono gli investimenti produttivi sono sempre di meno e le perdite, invece, sono sempre di più. Allora il problema qual è? Perché continua questo sistema? Questo sistema continua per due ragioni. La prima è che chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite. Perché non guadagna su quello che sono le performance, come sarebbe logico, ma guadagna sul numero delle operazioni finanziarie che si compiono, attraverso algoritmi matematici, sono tantissime nell’unità di tempo. Quindi questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo. Non vanno a ramengo perché poi le banche centrali, che sono controllate dalle stesse banche che dovrebbero andare a ramengo, le riforniscono di liquidità.
MESSORA: Non solo le banche centrali, anche i governi.
GALLONI: Sì, ma sono le banche centrali che autorizzano i mezzi monetari.
MESSORA: Ma i Monti bond? Chi ce li ha messi i soldi?
GALLONI: Sì, però i debiti pubblici sono bruscolini. Nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di decine di trilioni di dollari e di euro.
MESSORA: Sì, questo non lo discuto. Però quello che abbiamo dato di Monti bond, alla fine si sarebbe risparmiata forse l’IMU agli italiani. Per cui sulle singole famiglie questo discorso ha valore.
GALLONI: sì, sicuramente sulle singole famiglie. Certo, avremmo potuto risparmiarci l’IMU invece che darli al Monte dei Paschi. Però è una piccola cosa rispetto ai 3-4 quadrilioni di titoli tossici che oggi sono in giro per il mondo. Sono tremila, quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi. Quindi stiamo parlando di grandezze stratosferiche. Siccome le perdite si aggirano sul 10%, mediamente, che è quello che ovviamente questi titoli non rendono, avremmo bisogno a regime non di qualche decina di trilioni, come hanno dato oggi le banche centrali alle banche, ma praticamente dai 300 ai 400 trilioni di dollari. Cioè in pratica stiamo parlando di 6 volte il Pil mondiale. Sono cose spaventose.
MESSORA: Quindi come se ne esce adesso?
GALLONI: Se ne esce con un accordo tra gli Stati, Cina, India, Stati Uniti d’America, possibilmente Europa e qualcun altro, che congelano tutta questa massa, la garantiscono, la trasformano invece in mezzi monetari che servano per lo sviluppo. Quindi a quel punto poi il problema diventerebbe la capacità di progettare infrastrutture, voli su Marte, acchiappare gli asteroidi per farne delle miniere, voglio dire, se ci vogliamo allargare. Se ci sono queste capacità progettuali, industriali, produttive, forze disoccupate, eccetera, noi ne usciamo. Diversamente la teoria ci porta a pensare che potrà esserci una grande botta iperinflattiva che cancellerà tutti i debiti.
MESSORA: Traduci per i non capenti.
GALLONI: Allora, dai debiti si esce in vari modi. Primo, perché si hanno dei redditi che consentono di ripagare in qualche modo i debiti, e questa è la via maestra, quindi non ci si dovrebbe mai indebitare per somme che si sa che non si possono ripagare attraverso i nostri redditi; e questa sarebbe la regola numero uno. Quindi il debito non è un male, il debito è un bene se tu hai il reddito (nel caso degli Stati il Pil) sufficiente per poi fronteggiare la situazione. C’è la remissione del debito, che è una possibilità anche parziale che io ho sollevato in una mia ricerca sulle banche italiane anni fa, quando ci fu la crisi del 2007-2008, che tutto sommato agevolerebbe anche le banche e ci metterebbe tutti in condizione di avere fondamentalmente, per 8 anni, un 5% in più di reddito, riducendo del 40% i crediti delle banche; questa è un’altra possibilità. E poi c’è l’inflazione che praticamente, se non ci sono indicizzazioni, si mangia il debito, perché decresce il valore della moneta e conseguentemente decresce l’importanza del debito. Queste sono le strade che si possono aprire a livello operativo nei confronti della gestione del debito.
MESSORA: A livello nazionale? Per esempio andrebbe bene per l’Italia o parli a livello europeo?
GALLONI: A livello nazionale c’è appunto chi parla di varie misure riguardanti il debito pubblico. In realtà la cosa migliore sarebbe riprendere il percorso della crescita e quindi minimizzare l’importanza del debito rispetto alla ricchezza nazionale. Non ci dimentichiamo che le ricchezze pubbliche e private in Italia sono 10 volte il Pil, quindi ovviamente ce n’è, non è che non riusciremmo a ripagare il debito. Però il debito non è che si deve ripagare, come credono alcuni, il debito sta lì. L’importante è ridurre i tassi di interesse e che i tassi di interesse siano più bassi dei tassi di crescita, allora non è un problema. Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico. Diversamente può succedere, come è successo in Grecia, che per 300 miseri miliardi di euro poi se ne perdano a livello europeo 3.000 nelle borse. Allora ci si interroga: ma questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Ma chi comanda effettivamente in questa Europa si rende conto? Oppure vogliono obiettivi di questo tipo per poi raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati per obiettivi poi fondamentalmente, come è stato in Italia con le privatizzazioni, di depredazione, di conquista di guadagni senza lavoro?
MESSORA: Adesso c’è un altro ciclo di privatizzazioni. Sembra che ci stiamo avvicinando a quello.
GALLONI: Il problema delle privatizzazioni è anche quello dei prezzi di vendita. Perché se ovviamente, come è successo negli anni ’90, ci si aggirava intorno ai valori di magazzino, voi capite di che truffa stiamo parlando. È chiaro che se poi i prezzi di vendita fossero troppo alti, nessuno comprerebbe. Bisogna trovare una via di mezzo. Ma in realtà bisognerebbe cercare di ragionare sulle capacità strategiche e sul mantenimento di poli pubblici di eccellenza che servissero per rilanciare la ricerca, il campo dell’acquisizione delle migliori tecnologie per il trattamento dei rifiuti, che per esempio in Italia avrebbe delle prospettive enormi. Non ci dimentichiamo che in Italia siamo depositari di due brevetti fondamentali, uno è dell’Italgas e l’altro dell’Ansaldo, per produrre degli apparati relativamente piccoli che consentono al chiuso, quindi senza emissioni, di trasformare i rifiuti in energia elettrica e in altri sottoprodotti utili per l’agricoltura e per l’edilizia.
MESSORA: E dove stiamo andando in Europa, in questo momento?
GALLONI: Io avevo identificato una spaccatura di impostazione, anche al momento in cui Monti era diventato Presidente del Consiglio dei Ministri, tra le posizioni americane e le posizioni europee. In Europa si diceva “lacrime e sangue. Prima il risanamento dei conti pubblici e poi lo sviluppo”. Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa. In condizioni di ripresa è facile ridurre la spesa pubblica, ma in condizioni recessive ridurre la spesa pubblica significa far aumentare la recessione con conseguenze sulle entrate e sulle uscite.
MESSORA: ma è possibile, secondo te, che questi non lo sanno?
GALLONI: Ma bisogna vedere quali sono i loro obiettivi.
MESSORA: Quali sono?
GALLONI: E che ne so quali sono i loro obiettivi?
MESSORA: Si possono immaginare?
GALLONI: Sono obiettivi anche di asservimento dei popoli, chiaramente. Mentre la posizione americana era una posizione di sviluppo, cercando di non peggiorare i conti pubblici, che già è una versione possibilista. Ma non è la concezione né di Monti né della Merkel né del polo europeo, chiaramente. Quindi al momento le uniche speranze sono quelle di una politica nuova che reintroduca la Glass-Steagall, che riproponga la sovranità monetaria a livello europeo o se no si torni alle valute nazionali o al limite alla doppia circolazione, che sarebbe assolutamente sostenibile.
MESSORA: Valuta nazionale più euro?
GALLONI: Sì. Terza cosa da fare è un gestione diversa dei debiti pubblici, tranquillizzante, perché ci sono tanti altri modi per gestire i debiti pubblici. In parte qualcosa, addirittura, è stato anticipato da Draghi che è intervenuto sul mercato secondario raffreddando gli spread. Quindi praticamente forse Draghi ha fatto una retromarcia rispetto alle decisioni dell’inizio degli anni ’80 dei cosiddetti divorzi tra governi e banche centrali. Poi in Italia dobbiamo assolutamente riposizionare la pubblica amministrazione. Oggi è piazzata in modo di creare un’alleanza tra irregolari e criminali. Questo ci porta a una sconfitta. La pubblica amministrazione si deve piazzare in un altro modo, si deve piazzare tra gli irregolari e i criminali. I criminali li deve trattare come meritano, con gli irregolari, invece, deve avere tutto un altro atteggiamento, cioè deve essere la stessa pubblica amministrazione che deve realizzare gli adempimenti previsti dalle normative e quando c’è scontro, perché spesso c’è scontro tra norma e diritto, tra norma e buonsenso, tra norma ed equità, il funzionario pubblico deve essere messo in condizioni di scegliere il diritto, l’equità e il buonsenso e vedere di tutelarsi rispetto alla arida applicazione della norma. Se non si fa questo non si va da nessuna parte. E poi, quello che è forse più importante e che riassume un po’ tutto, dobbiamo acquisire quelle strepitose tecnologie oggi a disposizione dell’umanità, che rimetteranno in gioco tutti gli equilibri geopolitici a livello internazionale e a livello locale, ma che sono la nostra più grande speranza per l’ambiente e per lo sviluppo, per esempio tutte le tecnologie di trasformazione e di trattamento dei rifiuti solidi urbani. Ci sono, ripeto, delle tecnologie, alcune sono già applicate, ad esempio a Berlino si stanno applicando. Tu vai a conferire i tuoi rifiuti e ti danno dei soldi, poi ricevi energia gratis, non inquini, non ci sono i cassonetti per strada, non ci sono i mezzi comunali o municipali che intralciano il traffico per trasportare l’immondizia, non ci sono cattivi odori, non ci sono emissioni nocive. Questo è fondamentale. L’azzeramento delle emissioni genotossiche e la limitazione di quelle tossiche nell’ambito dei parametri internazionali.
MESSORA: Facciamo un ragionamento sullo scenario geopolitico globale. Spiegaci come si bilanciano gli interessi degli Stati Uniti e quelli dell’Europa con quelli della Cina, se questi Stati Uniti d’Europa convengono oppure no agli Stati Uniti, se c’è una pressione, secondo te, da parte loro e in che modo la Cina può influire in questo processo, se è un influsso positivo o negativo. Lanciamoci in queste speculazioni.
GALLONI: Diciamo che dopo Kennedy gli Stati Uniti sono sempre più risultati preda dei britannici. È lì che c’è un nodo fondamentale da sciogliere. Peraltro gli Stati Uniti hanno drammaticamente cercato, in determinate situazioni regionali, come può essere la più importante il Mediterraneo, dei partner adeguati. L’Italia questa partita non se l’è saputa giocare dopo la caduta del muro di Berlino, per le ragioni che dicevamo all’inizio. La Cina si sta avvicinando agli Stati Uniti d’America sotto certi profili, ma è ancora lontanissima sotto altri profili. Non dobbiamo neanche sopravvalutare certi comparti manifatturieri, che se anche fossero totalmente ceduti alla Cina e all’India – ma c’è anche il Brasile, c’è anche il Sud Africa, ci sono tante altre realtà emergenti nel pianeta – non sarebbe un dramma. Il problema è che noi abbiamo un futuro, ad esempio nei nostri rapporti con la Cina, se capiamo che non dobbiamo andare lì in Cina per fare un business qualunque, ma se capiamo che cedendo anche parti delle nostre produzioni industriali e manifatturiere, otteniamo però una maggiore penetrazione rispetto ai nostri prodotti di qualità, di eccellenza, perché non ci dimentichiamo che stiamo confrontando un mercato di 60 milioni di persone con un mercato che è 20 volte più grande. Quindi è chiaro che se noi rinunciamo a qualche cosa, ma riusciamo anche ad esportare un po’, quel po’ moltiplicato per la domanda che in questo momento sta crescendo, ci dà tutto un altro risultato. Però della Cina parlerei da un altro punto di vista. All’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese è stato deciso un grande cambiamento di rotta, cioè di puntare di più sulla crescita della domanda interna e di meno sulle esportazioni. Questo potrebbe essere l’inizio della fine della cosiddetta globalizzazione. Non ci dimentichiamo che la globalizzazione è il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente, quello che non rispetta la salute. Questa è la causa principale delle crisi che stiamo vivendo: che invece di premiare il produttore migliore, abbiamo premiato il produttore peggiore. Questo ha danneggiato le industrie europee e soprattutto l’industria italiana, chiaramente. E non solo l’industria, anche l’agricoltura.
MESSORA: Perché si demanda la questione della tutela dei diritti oltre il confine, dove non c’è un controllo.
GALLONI: Si deve rimettere in piedi l’economia, nel senso che deve avere tutta la sua importanza l’economia reale. L’economia reale deve avere una finanza che la aiuta. Poi se c’è un’altra finanza che va a fare disastri da qualche altra parte, che non influiscano sull’economia reale, sulla vita dei cittadini. Questo deve essere il primo punto che corrisponde alla reintroduzione della legge Glass-Steagall in pratica. Per questo possono essere utili le doppie e le triple circolazioni monetarie, le monete complementari e addirittura la reintroduzione di monete nazionali, pure in presenza di una moneta internazionale.
MESSORA: Ma per scontrarsi o per far fronte alla Cina è necessario avere gli Stati Uniti d’Europa o basta anche il piccolo guscio di noce italiano, come alcuni dicono?
GALLONI: Io non penso che ci si debba scontrare o frenare la Cina. Bisogna avere delle strategie industriali, e non solo industriali, in grado di difendere i nostri interessi, i nostri valori, i nostri principi, le nostre vocazioni. Dopodiché ci si confronta con i cinesi e si vede quali sono le sinergie che possono essere messe in campo. Si deve fare un discorso di carattere strategico, secondo me.
MESSORA: Ma la politica di Nino Galloni quale sarebbe? Uscire dall’euro e recuperare sovranità monetaria o puntare sul “più Europa”?
GALLONI: A me interessa che ci siano spese in disavanzo, perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione è un crimine puntare al pareggio di bilancio. Ovviamente se gli Stati hanno pareggio di bilancio, è possibile che l’Europa faccia gli investimenti in disavanzo, e allora mi sta benissimo l’euro.
MESSORA: Cosa che non c’è.
GALLONI: Cosa che non c’è, ma è il terzo passaggio che potrebbe essere favorito dalla gestione Draghi. Io non lo escludo. Perché chi immaginava che avrebbero dato mezzi monetari illimitatamente alle banche? Chi immaginava che sarebbero intervenuti per raffreddare gli spread acquistando i titoli pubblici sui mercati? Adesso il terzo e ultimo passaggio è quello di accettare di autorizzare mezzi monetari per la ripresa, per lo sviluppo, per gli investimenti produttivi. L’importante però è che questo non avvenga in una logica di quantitative easing. Cioè la politica monetaria sbagliata può impedire lo sviluppo, ma la politica monetaria giusta non produce lo sviluppo. Cioè la moneta è una condizione necessaria, ma non sufficiente dello sviluppo. Quindi non basta approntare mezzi monetari a gogò e allora si acchiappa lo sviluppo. Questa è una visione di tipo liberista riguardante le emissioni monetarie. In realtà bisogna fare dei progetti di infrastrutture, di ricerca, di ripresa industriale, di salvaguardia della salute e degli interessi dei cittadini e soprattutto dell’ambiente, e sulla base di queste grandi strategie approntare i mezzi monetari che certamente non sarebbero scarsi. Quindi se io dovessi ripetere i miei punti fondamentali, immediati: una legge che ripristini la netta separazione tra i soggetti che fanno speculazioni finanziarie sui mercati internazionali dai soggetti che devono fare credito all’economia. Perché la prima cosa è il credito, la più grande componente della moneta, il 94% della moneta è credito. Poi il discorso della sovranità monetaria, come ho detto prima. O gli Stati o l’Unione Europea devono fare spese in disavanzo per acchiappare la ripresa. Una diversa gestione dei debiti pubblici, che è possibile, un diverso posizionamento della pubblica amministrazione, perché il cittadino deve vedere un amico nello Stato, nella pubblica amministrazione, quindi fermare anche questo progetto di polizia europea senza controlli che potrebbe compiere qualunque azione senza dover rispondere a nessuna autorità.
MESSORA: Eurogendorf con base in Italia a Vicenza.
GALLONI: Quinto: acquisizione di tutte quelle grandi tecnologie che oggi sono a disposizione dell’umanità per migliorare veramente le condizioni di vita di tutti.
MESSORA: L’ultima domanda. Tedeschi cattivi? Amici o buoni?
GALLONI: I tedeschi sono posizionati nella storia e nella geografia in modo di doversi in qualche modo espandere. Se devono assumere una posizione di leader, devono anche accettare di rivedere le proprie politiche estere. Quindi un paese che voglia essere leader, come sono stati gli Stati Uniti d’America, importano più di quello che esportano. Se i tedeschi non accettano di importare più di quello che esportano, non possono neanche pretendere di essere leader.
ALTRO CHE CONTRO IL COMPROMESSO STORICO. CI VOLEVANO SOVIETIZZARE. IL TERRORISMO COMUNISTA-ISLAMISTA.
Da Ansa il 28 aprile 2019.- "Potevo salvare Moro, fui fermato". Così il super boss della camorra, Raffaele Cutolo, in carcere da anni, in un verbale inedito di un interrogatorio del 2016 di cui riferisce oggi in esclusiva Il Mattino. "Aiutai - spiega Cutolo - l'assessore Cirillo (rapito e successivamente rilasciato dalle Br, ndr), potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi". Nel '78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, sostiene lui, di salvare Moro. "Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava". Le dichiarazioni di Cutolo risalgono al 25 ottobre del 2016, come risposte alle domande del pm Ida Teresi e del capo della Dda, Giuseppe Borrelli.
Paolo Guzzanti, quando era presidente della Commissione Mitrokin, fu a un passo dalle prove che il terrorismo rosso aveva contatti con i Paesi dell'Est. Ma poi tutto fu insabbiato, scrive Paolo Guzzanti, Martedì 09/04/2019 su Il Giornale. «Venga a Budapest e troverà tutte le risposte che cerca» mi aveva scritto nell'estate del 2005 il procuratore generale di Budapest per posta diplomatica. E mi dette un assaggio: il terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos lo Sciacallo - mi disse - fu trapiantato dal Kgb sovietico a Budapest negli anni Ottanta e gli ungheresi furono costretti a sopportarlo mentre scorrazzava per la città con i suoi pistoleros, protetto dalla Stasi tedesca. Quando Carlos andava in missione terroristica in Europa occidentale, mi spiegò ancora il magistrato, gli ungheresi furono autorizzati a fotografare i documenti che si trovavano nelle abitazioni della banda: «Dovevamo consegnare tutto, ma abbiamo fatto le copie: venga a Budapest e saprà tutto sui rapporti fra terrorismo e Kgb». La Commissione bicamerale Mitrokhin di cui ero Presidente stava per chiudere i battenti avendo ultimato i suoi compiti ma, insieme al deputato Enzo Fragalà (uno squisito dandy e intellettuale palermitano) riuscimmo a vincere le resistenze delle sinistre e ottenere una rogatoria internazionale. Ci presentammo dunque a Budapest dove la Commissione fu ricevuta in un palazzo di stile sovietico-babilonese. Aleggiava ancora l'odore inconfondibile dei Paesi comunisti: varechina e scarpe vecchie, the perfect mix. Fummo accolti sontuosamente con tè, pasticcini, discorsi e grandi applausi per la ritrovata democrazia. Poi il procuratore si schiarì la voce e ci presentò un giovane maggiore in uniforme dal nome impronunciabile il quale issò sul tavolo una grande valigia di cuoio verde dagli angoli lisi. La aprì e mostrò il contenuto: pacchi di fogli ingialliti, contenitori di dossier a soffietto con la costa cartonata e disse: «Qui troverete tutto: nomi e cognomi, foto, date e recapiti degli uomini delle Brigate Rosse eterodirette dalla Stasi e dal Kgb e tutto ciò che abbiamo raccolto in questi anni». Mi sembrava di sognare. Chiesi: «Anche ciò che riguarda il rapimento e la morte di Moro?». Certo, disse. Tutto. Troppo bello per essere vero. Infatti, ecco la postilla avvelenata: «Purtroppo non siamo liberi di consegnarvi questo materiale senza il permesso di quelli del piano di sopra». E chi sono quelli del piano di sopra? «Noi abbiamo un trattato con la Federazione Russa come ogni Paese dell'ex Patto di Varsavia e non siamo proprietari dei documenti di quell'epoca. Ma entro una settimana spediremo tutto per valigia diplomatica». La fine è nota. Non arrivò nulla perché gli amici del piano di sopra dissero di no. Andai a protestare col un certo generale Ollo, l'uomo del collegamento con i Paesi della Nato, e quello allargò le braccia. Non possiamo farci nulla. Fine dell'illusione. Il tesoro restò sepolto. Pochi mesi dopo finì la legislatura e dunque anche la Commissione Mitrokhin. Non vorrei sembrare patetico con questo ricordo. Vorrei invece pronunciare un atto d'accusa. Non contro i russi o gli ungheresi, ma contro coloro che in Italia ebbero le informazioni che ho appena riferito (atti ufficiali di una rogatoria internazionale) che una Commissione del Parlamento raccolse con le stesse funzioni di un magistrato. Invece, tutti zitti. Come mai, pur avendo la notizia del tesoro contenente i legami del terrorismo italiano con i servizi segreti dell'Est, comprese le coperture di fiancheggiatori, esecutori e complici di delitti come la cattura, interrogatorio ed esecuzione di Aldo Moro, nessuno delle varie Commissioni e processi Moro Ter, Quater, Quinque e così via, abbia fatto un salto sulla sedia gridando che si doveva a tutti i costi recuperare il materiale di Budapest? Soltanto l'onorevole Enzo Fragalà, anima di quella rogatoria, insorse contro gli insabbiatori ma fu barbaramente assassinato a bastonate sotto la porta del suo studio il 23 febbraio 2010. A questi ed altri eventi ho pensato leggendo gli eccellenti interventi ieri e l'altro ieri sul Giornale sul tema del terrorismo dopo il caso Battisti firmati da Alessandro Gnocchi e del mio ex consulente Gianni Donno, storico ed accademico. E vedo che ancora una volta si torna sulla segretezza di alcuni documenti e all'invocazione al governo affinché imponga di aprire la gabbia in cui la colomba della verità è imprigionata. Questo nobile impulso può essere, se preso da solo, alquanto fuorviante perché l'esperienza di investigatore storico mi suggerisce che la «ciccia» sia altrove che non in un armadio blindato. Ogni Commissione parlamentare ha infatti diritto di ottenere documenti, non importa quanto riservati, segreti o segretissimi, da tutte le agenzie ed enti dello Stato come magistratura, servizi segreti, polizie e carabinieri. Questi enti, a norma di legge, consegnano documenti su cui è scritto riservato, segreto o segretissimo e restano proprietari di questa classifica («classified» è la parola inglese per segretato). Il Parlamento è autorizzato a leggere, ma non a riprodurre. Un consulente di Commissione può apprendere ma non può svelare l'originale. Io ho personalmente letto centinaia di documenti segretissimi (e come me ogni commissario) e posso garantire che dentro c'è soltanto burocrazia. Direte: dunque sarebbe tutto pulito? No, al contrario. Tutto è molto più sporco di quanto si immagini. Solo che il marcio è nascosto molto meglio. Un solo esempio: la mia Commissione deve moltissimo a un servitore dello Stato, militare e galantuomo (che non nomino per non arrecargli ulteriori danni) il quale ci spiegò a tutti e quaranta senatori e deputati che un documento si nasconde dandogli un nome diverso o cambiando la sua collocazione. Per la mia esperienza, i documenti ci sono, basta cercarli e i famosi «misteri italiani» sono tutti risolvibili. Ho trovato un documento della Stasi tedesca (il servizio segreto della DDR) che apparteneva a un magistrato illustre, ma era illeggibile per le righe nere della censura. Dandomi da fare ottenni lo stesso documento da una fonte diversa e appresi così che proprio il terrorista Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos lo Sciacallo, dava conto ai suoi referenti tedeschi e russi di essere l'attentatore del cosiddetto «treno di Natale» del 1983, per cui furono condannati dei neofascisti. Qualcuno ha forse fiatato? Nulla. Quando con la Commissione andammo a Parigi per un'altra rogatoria presso la Procura, non soltanto scoprii che il parquet dei magistrati inquirenti d'Oltralpe funziona, ma feci amicizia con il «Giovanni Falcone francese», ovvero Jean-Louis Bruguière, colui che ha stroncato le attività di Carlos e dei suoi affiliati terroristi arabi, il quale mi disse: «So da un ufficiale del Kgb che l'attentato al Papa del 13 maggio 1981 fu organizzato dal servizio segreto militare Gru sovietico che aveva assoluto bisogno di garantirsi lo spazio di manovra di una Polonia sgombra dal Papa e da Solidarnosc». Con Fragalà organizzammo e facemmo votare una analisi medico legale computerizzata delle foto dell'attentato in piazza San Pietro e scoprimmo attraverso i periti che l'uomo che era accanto ad Ali Agca mentre sparava al Papa era il signor Antonov, cioè il capo del servizio segreto bulgaro e referente delle forze armate sovietiche. Le sinistre della Commissione, profondamente irritate, chiesero un secondo expertise di loro scelta, che però confermò senza esitazione il primo e fu questa la svolta e anche l'inizio della fine della più delicata e maltrattata inchiesta che il Parlamento abbia avviato e poi con poco coraggio seppellito. L'accesso ai documenti è dunque molto importante e va sostenuto, ma senza nutrire illusioni superflue sulla localizzazione del tesoro. Il tesoro, vi assicuro, è in genere altrove.
Così fu bloccato da Est il "compromesso storico". Il piano di staccare il Pci da Mosca scatenò il Kgb Anche Orbán dovrebbe riaprire gli archivi..., scrive Paolo Guzzanti, Mercoledì 10/04/2019, su Il Giornale. Intanto, sono grato anch'io al ministro Salvini per i suoi propositi e, visto che è amico del premier ungherese Viktor Orbán, mi permetto di suggerirgli di chiedere a quel leader di recuperare la promessa valigia di cuoio verde e farmela recapitare o almeno invitarmi a Budapest per esaminarla. Sarebbe l'ora che l'Italia reclamasse ciò che fa parte della sua storia. In questo articolo vorrei spiegare, specialmente a chi è più giovane e non sa, per quale motivo il dossier Mitrokhin che tutti i Paesi occidentali ricevettero dagli inglesi, soltanto in Italia diventò una vicenda furiosa e scalmanata, conclusa da un bel po' di morti, sfuggiti all'attenzione dei giornalisti eroici. Il fatto: quando gli inglesi annunciarono per via diplomatica negli anni Novanta di voler distribuire ai Paesi alleati le schede di loro interesse redatte dal maggiore Vasilij Mitrokhin, in Italia e soltanto in Italia successe il finimondo in casa comunista, divisa verticalmente fra l'ala americana (Giorgio Napolitano era da tempo uno stimato amico di Henry Kissinger) e quella pro-sovietica capeggiata da Armando Cossutta. Il comunismo sovietico era già crollato e avevano proposto nel 2000 una commissione parlamentare d'inchiesta che non andò in porto, io fui eletto nel 2001 in Senato come giornalista esperto dei fatti e l'anno successivo, varata faticosamente la legge, fui dichiarato presidente eletto da un lividissimo Giulio Andreotti che mi fu contro da subito e per sempre. Il terrorismo rosso (e in parte nero) era già finito da oltre dieci anni e il presidente emerito Francesco Cossiga era già andato in pellegrinaggio nelle carceri per visitare i brigatisti e certificarli come «bravi ragazzi che avevano un po' esagerato» o anche «boys scout della rivoluzione». Quando ero un redattore del quotidiano socialista Avanti!, negli anni Sessanta, fui personalmente avvicinato da uomini del Kgb un po' troppo entusiasti dei miei articoli, anche perché i sovietici preferivano reclutare fra socialisti e democristiani per non esporre gli iscritti al Pci. Quando interrogammo nella commissione Mitrokhin l'ex capo della Rezidentura sovietica a Roma, Leonid Kolosov, quello raccontò un sacco di balle, ma era certamente sincero quando disse che davanti alla sua porta «c'era la fila» degli informatori che odiavano l'America e volevano collaborare con i russi. Ma sui reali informatori e agenti di influenza non indagò nessuno perché era considerata un'attività poco amichevole nei confronti del Pci il cui segretario, Enrico Berlinguer, aveva del resto fallito nel tentativo di sottrarre il suo partito ai finanziamenti di Mosca (vedi L'Oro di Mosca del nostro Valerio Riva). Berlinguer aveva tentato di installare una nuova ideologia: quella del comunista geneticamente ariano del bene che guarda più a Santa Maria Goretti che a Lenin. Il Kgb sosteneva allora anche gli estremisti di destra e qualsiasi gruppo eversivo in Europa. Pochi si sono presi la briga di leggere un testo fondamentale: A Cardboard Castle? An Inside Story of the Warsaw Pact 1955-1991. Il grosso tomo, 720 pagine, contiene tutti i verbali delle riunioni del Patto di Varsavia (l'anti-Nato del blocco sovietico) da cui si può vedere come, fino al 1991, l'Est progettasse ogni anno una nuova invasione dell'Europa occidentale anche con atomiche tattiche sull'Italia, col pretesto di reagire preventivamente a un imminente attacco della Nato. Il progetto era politico oltre che militare: l'Europa tecnologica sarebbe stata resa irrecuperabile agli Stati uniti con una guerra lampo che sigillava porti e aeroporti e sarebbe stata aggregata al sistema sovietico, come spiegò Vladimir Bukowskij in EURSS. Unione europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel 2007 quando a suo parere il progetto politico era ancora in svolgimento. Questo piano aveva bisogno di una continua pressione terroristica in Occidente (Francia e Italia con la banda Carlos e i suoi agenti interni, la Frazione Armata Rossa in Germania, l'appoggio all'Ira irlandese e all'Eta basca, per azioni di infiltrazione). In Italia il progetto del Compromesso storico era stata benedetto dalla Cia americana (vedi Maurizio Molinari L'Italia vista dalla Cia con i documenti originali) con la garanzia di Aldo Moro nelle vesti di Presidente della Repubblica (si dovette estromettere con una falsa campagna mediatica l'innocente presidente Giovanni Leone sulla base di documenti americani fatti apparire ad hoc) e il senso strategico era di distaccare per sempre il Pci dall'Unione Sovietica e portarlo al governo dopo aver scatenato la famosa operazione «Clean Hands» (Mani Pulite) che avrebbe decapitato la corrotta Prima repubblica per far posto ai comunisti italiani. Tutto ciò è narrato per filo e per segno con tutti i documenti in The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy's First Repubblic scritto in inglese da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, un libro che, curiosamente, nessun editore italiano ha avuto il fegato di pubblicare. La reazione sovietica non si fece aspettare: dopo un primo tentativo fallito di uccidere Berlinguer mandato da Cossutta a visitare la Bulgaria, con la consolidata tattica del camion che sbuca all'improvviso (morì l'autista di Berlinguer il quale rimase lievemente ferito e fu subito fatto riportare in Italia dai corpi speciali, mandati da Cossiga). Poi arrivò la strage di Via Fani, dove tutti furono uccisi da una sola arma e un solo killer e la neutralizzazione del garante del Compromesso destinato al Quirinale. L'operazione era politicamente ovvia. Attendiamo da Orbàn le carte. Il Compromesso storico fallì, il Pci tornò ad elemosinare la sua paghetta al Cremlino anche se l'operazione mani pulite portò realmente alla ghigliottina la prima Repubblica e certamente Achille Occhetto, leader del rinominato partito comunista, avrebbe vinto con la sua Gioiosa macchina da guerra se l'imprenditore Silvio Berlusconi non si fosse messo di traverso costruendo il bipolarismo impossibile e battendo il vecchio piano degli anni Settanta. Ciò accadde dopo la fine della Guerra fredda, ma l'apparato di sostegno a tutte le forme di terrorismo in funzione tattica era rimasto funzionante. Il mea culpa dello scrittore francese Daniel Pennac, ipocrita e conformista anche se avverte rossore sulle guance, è esemplare. Quando nel 1999 a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino, per iniziativa di Berlusconi, organizzammo un grande convegno internazionale di cui fui il chairman, conobbi un uomo dagli enormi baffi rossicci furibondo e aggressivo. Era Lech Walesa, l'elettricista cattolico che aveva organizzato, insieme al papa polacco Karol Wojtyla, il sindacato Solidarnosc che aveva conquistato le piazze polacche, occupato il Paese e paralizzato le manovre militari sovietiche. Walesa parlava soltanto polacco e una ragazza mesta e gentile traduceva con sbalorditiva rapidità: «Che diavolo vi è venuto in mentre di celebrare la caduta del Muro di Berlino decisa da Gorbaciov? Siamo noi, i polacchi, che abbiamo fatto cadere il sistema, noi del Paese da cui doveva partire la guerra, noi destinati al sacrificio, noi polacchi che ci siamo ribellati e abbiamo vinto. Altro che muro! altro che Berlino!». Aveva perfettamente ragione. Il Muro venne giù quando Gorbaciov lo decise d'accordo con il presidente Reagan che pronunciò lo storico invito: «Mister Gorbaciov, tear down this wall!». La nostra storia, quella della contiguità culturale e militare fra terroristi alla Cesare Battisti e sistema sovietico è però ancora tutta da raccontare e da rivelare, almeno per le nuove generazioni che si affacciano al mondo fresche e pulite e che chiedono il sacrosanto rispetto della verità.
La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:
Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;
La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);
La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.
Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.
Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?
Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno.
Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".
Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.
Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee.
Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa? Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo.
Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.
Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.
Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.
Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi.
L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.
L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".
L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".
Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. Gli ospedali già in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al torace. «I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci diceva Aziz Kahlout, un giornalista.
Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di tiratori scelti.
Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato lanci di pietre e di molotov, ha parlato di «manifestazioni di massa volte a coprire attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima di essere uccisi da una cannonata.
La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla marcia e che si unirà alle prossime proteste «perché la vita è difficile a Gaza e non abbiamo nulla da perdere». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta «porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza».
Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.
Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.
Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.
MIGRAZIONI O INVASIONI? Di Claudio Mutti 1 dicembre 2016. La storiografia italiana e francese è solita applicare la definizione di “invasioni barbariche” a quel vasto fenomeno di spostamenti a catena che si verificò tra l’Asia e l’Europa a partire dal IV secolo d. C., portando popolazioni eterogenee a stabilirsi in sedi diverse da quelle originarie, spesso sui territori appartenenti o appartenuti all’Impero romano. Gli storici tedeschi e ungheresi, per ragioni facilmente comprensibili, hanno preferito far uso di termini più neutri e anodini, quali Völkerwanderung e népvándorlás (“migrazione di popoli”). L’odierna penetrazione di masse umane originarie dell’Asia e dell’Africa entro i confini europei è a volte paragonata al fenomeno che ebbe luogo nel Tardoantico e nell’Alto Medioevo; ed anche i termini “migrazione” e “invasione”, quando vengono applicati al caso attuale, riflettono prospettive e percezioni alquanto diverse.
“Migrazione”, infatti, è il termine con cui viene comunemente indicato lo spostamento che individui, famiglie o gruppi più o meno numerosi intraprendono con l’intenzione di stabilirsi in una nuova sede, in maniera provvisoria o definitiva. La teoria geopolitica è solita distinguere i movimenti migratori, rispetto alla volontà dei migranti, in volontari e coatti. Si parla di migrazione volontaria quando gl’individui decidono liberamente di andare a stabilirsi in un luogo in cui sperano di migliorare la loro condizione economica. Invece, una migrazione viene considerata coatta quando i migranti trasferiscono altrove la loro residenza per effetto di una costrizione esercitata dal potere politico (ad esempio, nel caso in cui siano vittime di una deportazione); il movimento migratorio è considerato coatto anche quando viene intrapreso allo scopo di evitare il coinvolgimento in eventi bellici o in catastrofi naturali. Alle due suddette varianti della tipologia migratoria è possibile aggiungerne una terza: quella che in uno studio recente Kelly M. Greenhill (già assistente del senatore John Kerry e consulente del Pentagono) definisce come coercive engineered migration, ossia “migrazione coatta progettata”. Le migrazioni “create ad arte” (engineered) sono, secondo la definizione fornita dalla studiosa stessa, “movimenti di popolazione transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di estorcere concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più Stati presi di mira”.
Le migrazioni coatte progettate vengono a loro volta distinte in espropriatrici, esportatrici, militarizzate. “Le migrazioni progettate espropriatrici – scrive la Greenhill – sono quelle il cui obiettivo principale consiste nell’appropriazione del territorio o della proprietà di un altro gruppo o gruppi, oppure nell’eliminazione di tale gruppo o gruppi in quanto minacciano il dominio etnopolitico o economico di coloro che progettano l’(e)migrazione; rientra in questo caso ciò che è comunemente noto come pulizia etnica”.
Si parla invece di “invasione” allorché un gruppo militare o anche un gruppo di civili penetra in un territorio, vi si diffonde e lo occupa, sottraendolo, tutto o in parte, al controllo ed alla sovranità della popolazione autoctona. Non è dunque necessario che un’invasione, per essere tale, venga portata a termine con le armi; anzi, un’invasione può avvenire in modo pacifico, se a stanziarsi su un determinato territorio e a modificarne l’omogeneità etnica o culturale sono masse umane disarmate ma numericamente consistenti.
Vi sono infatti casi nei quali un fenomeno immigratorio si configura come un’invasione vera e propria. L’immigrazione di massa possiede allora l’efficacia di un’arma di distruzione di massa. Esempi storici in tal senso non mancano: si pensi all’immigrazione che ha praticamente cancellato dal territorio degli attuali Stati Uniti d’America la presenza della popolazione autoctona o a quella che ha trasformato la Palestina nell’odierno “Stato d’Israele”. Da parte sua, Kelly M. Greenhill individua circa una cinquantina di casi di migrazioni architettate o comunque eterodirette ed utilizzate, tutti casi verificatisi dopo che nel 1951 entrò in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati.
Perciò l’invasione migratoria attualmente diretta verso l’Europa, se si vuole riproporre un termine usato dalla studiosa statunitense, è “un’arma di guerra” (a weapon of war), che rientra nel novero delle armi non convenzionali impiegate nella cosiddetta “guerra asimmetrica”. Come il terrorismo, la manipolazione dei mezzi di comunicazione, la pirateria informatica, le turbative dei mercati azionari, così anche i flussi migratori che investono l’Italia e la regione balcanica – flussi sollecitati, attirati, agevolati ed importati – costituiscono un’arma non convenzionale utilizzata per destabilizzare l’Europa. È dunque in corso qualcosa che, a detta di Samar Sen, ambasciatore dell’India all’ONU, assomiglia molto ad una guerra. “Se aggredire un Paese straniero – argomenta il diplomatico – significa colpire la sua struttura sociale, danneggiarne l’economia, costringerlo a rinunciare a porzioni del suo territorio per accogliere profughi (refugees), qual è la differenza tra questo tipo di aggressione e il tipo più classico, che si ha quando viene dichiarata una guerra?” Il medesimo concetto è stato espresso nel corso di una conferenza sul conflitto in Cossovo tenuta l’11 dicembre 2000 alla Brandeis University: “La natura della guerra è cambiata – ebbe a dire Martha Minow, della Harvard Law School –; ora la guerra sono i profughi (refugees)”.
Gli strateghi di questa guerra sui generis agiscono allo scoperto. Uno di loro, il famigerato speculatore statunitense George Soros, il 20 settembre 2016 ha apertamente rivendicato dalle colonne di “The Wall Street Journal” il proprio ruolo di finanziatore dell’invasione. “Ho deciso – ha dichiarato – di stanziare 500 milioni di dollari per investimenti destinati in modo specifico ai bisogni di migranti, rifugiati e centri d’accoglienza. Investirò in nuove imprese, società già esistenti, iniziative di impatto sociale fondate dai migranti e rifugiati stessi. Anche se il mio impegno principale consiste nell’aiutare migranti e rifugiati che arrivano in Europa, cercherò progetti di investimento che avvantaggino i migranti in tutto il mondo”.
Come furono inventati i palestinesi, scrive di Robert Spencer il 19 agosto 2018 su l’Informale. Nel 1948, il nascente Stato di Israele sconfisse gli eserciti di Egitto, Iraq, Siria, Transgiordania, Libano, Arabia Saudita e Yemen che volevano distruggerlo completamente. Il jihad contro Israele proseguì, ma lo Stato ebraico tenne duro, sconfiggendo ancora Egitto, Iraq, Siria, Giordania e Libano nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e l’Egitto e la Siria ancora una volta nella guerra dello Yom Kippur del 1973. Nell’ottenere queste vittorie contro enormi difficoltà, Israele riscosse l’ammirazione del mondo libero, vittorie che comportarono l’attuazione più audace e su più ampia scala nella storia islamica del detto di Maometto: “La guerra è inganno”. Per distruggere l’impressione che il piccolo Stato ebraico stesse fronteggiando ingenti nemici arabi musulmani e che stesse prevalendo su di loro, il KGB sovietico (il Comitato sovietico per la sicurezza dello Stato) inventò un popolo ancora più piccolo, i “palestinesi”, minacciato da una ben funzionante e spietata macchina da guerra israeliana. Nel 134 d.C., i Romani avevano espulso gli ebrei dalla Giudea dopo la rivolta di Bar Kokhba e ribattezzarono la regione Palestina, un nome tratto dalla Bibbia, il nome degli antichi nemici degli Israeliti, i Filistei. Ma il termine palestinese era sempre stato riferito a una regione e non a un popolo o a una etnia. Negli anni Sessanta, tuttavia, il KGB e il nipote di Hajj Amin al-Husseini, Yasser Arafat, crearono tanto questo presunto popolo oppresso quanto lo strumento della sua libertà, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). Ion Mihai Pacepa, già vicedirettore del servizio di spionaggio della Romania comunista durante la Guerra Fredda, in seguito rivelò che “l’OLP era stata una invenzione del KGB, che aveva un debole per le organizzazioni di ‘liberazione’. C’era l’Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato dal KGB nel 1964 con l’aiuto di Ernesto ‘Che’ Guevara (…) inoltre, il KGB creò il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, che perpetrò numerosi attacchi dinamitardi. (…) Nel 1964, il primo Consiglio dell’OLP, composto da 422 rappresentanti palestinesi scelti con cura dal KGB, approvò la Carta nazionale palestinese – un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese nacquero a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del KGB che divenne il primo presidente dell’OLP”. Affinché Arafat potesse dirigere l’OLP avrebbe dovuto essere un palestinese. Pacepa spiegò che “egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall’intelligence estera del KGB. Il KGB lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciali a Balashikha, cittadina a est di Mosca, e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell’OLP. Innanzitutto, il KGB distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita”. Arafat potrebbe essere stato marxista, almeno all’inizio, ma lui e i suoi referenti sovietici fecero un uso copioso dell’antisemitismo islamico. Il capo del KGB, Yuri Andropov, osservò che “il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L’antisemitismo islamico ha radici profonde… . Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti – che gli Stati Uniti e Israele erano ‘paesi fascisti, imperial-sionisti’ finanziati da ricchi ebrei. L’Islam era ossessionato dall’idea di evitare l’occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico”. Il membro del Comitato esecutivo dell’OLP, Zahir Muhsein, spiegò in modo più esaustivo la strategia in una intervista del 1977 al quotidiano olandese Trouw: Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo stato di Israele per la nostra unità araba. In realtà, oggi non c’è alcuna differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Solo per ragioni politiche e strategiche parliamo oggi dell’esistenza di un popolo palestinese, dal momento che gli interessi nazionali arabi esigono che noi postuliamo l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” che si opponga al sionismo. Per ragioni strategiche, la Giordania, che è uno stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Bee-Sheva e Gerusalemme. Tuttavia, nel momento in cui rivendicheremo il nostro diritto a tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto a unire Palestina e Giordania. Una volta che era stato creato il popolo, il loro desiderio di pace poteva essere facilmente inventato. Il dittatore romeno Nicolae Ceausescu insegnò ad Arafat come suonare l’Occidente come un violino. Pacepa raccontò: “Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. ‘Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora’, disse Ceausescu ad Arafat. (…) Ceausescu era euforico all’idea che Arafat e lui potessero riuscire ad accaparrarsi un Premio Nobel per la pace con la loro farsa del ramoscello d’ulivo. (…) Ceausescu non riuscì a ottenere il suo Premio Nobel per la pace. Ma nel 1994 Arafat lo ricevette, proprio perché continuò a interpretare alla perfezione il ruolo che gli avevano affidato. Aveva trasformato la sua OLP terrorista in un governo in esilio (l’Autorità palestinese), fingendo sempre di porre fine al terrorismo palestinese, pur continuando ad alimentarlo. Due anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era aumentato del 73 per cento”. Questa strategia ha continuato a funzionare alla perfezione, attraverso i “processi di pace” negoziati dagli Stati Uniti, dagli accordi di Camp David del 1978 alla presidenza di Barack Obama e oltre, senza posa. Le autorità occidentali non sembrano mai riflettere sul perché siano tutti falliti così tanti tentativi di raggiungere una pace negoziata tra Israele e i “palestinesi”, la cui esistenza storica oramai tutti danno per scontata. La risposta, ovviamente, sta nella dottrina islamica del jihad. “Cacciateli da dove vi hanno cacciato” è un ordine che non contiene alcuna mitigazione e che non accetta nessuno.
Nota: Questo è un estratto esclusivo dal nuovo libro di Robert Spencer, The History of Jihad From Muhammad to ISIS. Tutte le citazioni sono contenute nel libro. Traduzione in italiano di Angelita La Spada
Terrorismo islamista. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il terrorismo islamista o, meno correttamente, islamico è una forma di terrorismo religioso praticato da diversi gruppi di fondamentalisti musulmani per raggiungere vari obiettivi politici in nome della loro religione. Eccezione fatta per alcune sporadiche manifestazioni di antica militanza oltranzista religiosa condotta con metodi sanguinari dalla setta degli assassini(specialmente in Persia e negli ex-dominî fatimidi quali Egitto e Siria), il fenomeno ha assunto dimensione globalmente rilevante solo nel secondo dopoguerra, in particolare a seguito dell'irrisolta questione palestinese[senza fonte], varie organizzazioni della cui resistenza hanno fatto ricorso a strumenti quali attentati dinamitardi, rapimenti, dirottamenti aerei, omicidi e attentati suicidi. L'anelito verso l'instaurazione di un nuovo ordine sociale ancorato ai valori dalla propria fede per fronteggiare le sfide del presente, al pari di un certo qual spirito apocalittico, è un topos ricorrente da tempo immemorabile in numerose religioni. Tale concezione, parlando di Islam, affonda le proprie radici fin dalle origini di questa religione. Già fin da dopo il 750, in effetti, con la fine del califfato omayyade, si attendeva da parte di nostalgici sostenitori della dinastia abbattuta dagli Abbasidi l'epifania di un non meglio precisato Sufyāni, appartenente cioè al deposto casato omayyade del ramo sufyanide, che avrebbe riportato per volere divino la Umma alla sua purezza originaria. Analogamente, nel 1258, la presa di Baghdadda parte dei Mongoli e la conseguente distruzione del califfato abbaside fu ricollegata dal giurista e teologo hanbalita del XIV secolo Ibn Taymiyya all'allontanamento della comunità dei credenti dalla pretesa «retta via» della prima Umma musulmana. Al giorno d'oggi le azioni poste in essere da tali gruppi rappresentano, secondo la loro ideologia, un tentativo di ricreare una società perfetta — ancorché utopistica— in quanto asseritamente modellata secondo i dettami del Corano e, di conseguenza, priva di quelle ingiustizie sociali, politiche ed economiche attribuite dall'ecumene islamica ai regimi secolarizzati (munāfiqūn, «ipocriti» e proni al mondo occidentale, definito kāfir, «infedele») i cui governanti sarebbero di fatto asserviti al Cristianesimo e al sionismo e, quindi, pervicacemente ostili all'Islam più "puro". Non manca, peraltro, chi considera le organizzazioni terroristiche di matrice islamica l'ala estrema di una «religione politica», adottando una terminologia analoga a quella utilizzata per definire il nazismo. Vi furono in passato gruppi, configurati come sette religiose, che contestarono alla maggioranza dei credenti musulmani o agli ulema, il cosiddetto clero islamico, l'allontanamento dal retto insegnamento di Maometto, che essi cercarono di contrastare con un loro distacco fisico o simbolico dalla società, come fece la setta dei kharigiti (arabo kharaa, «coloro che vanno fuori») ove non fosse possibile il ricorso a una «doverosa» violenza, come fu il caso della setta degli Assassini. Nei cosiddetti versetti della spada della Sura IX del Corano, cosiddetta "della conversione", è scritto: «Quando poi saran trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli, ovunque in imboscate. Se poi si convertono e compiono la Preghiera e pagano la Dècima, lasciateli andare, poiché Dio è indulgente, clemente.» (Cor., IX:5) « Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s'attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo, uno per uno, umiliati.» (Cor., IX:29) I summenzionati passi sono stati oggetto di interpretazioni non univoche: da una parte alcuni studiosi hanno interpretato i questi passaggi coranici come giustificazione per l'uccisione su larga scala degli infedeli, mentre vi è chi non è d'accordo con tale visione, privilegiando una lettura non orientata alla violenza, ispirata piuttosto alla tolleranza, così come invocato nella sura II:256: « Non vi sia costrizione nella Fede: la retta via ben si distingue dall'errore, e chi rifiuta āġūt e crede in Dio s'è afferrato all'impugnatura saldissima che mai si può spezzare, e Dio ascolta e conosce.» (Cor., II:256). Tra le varie ipotesi formulate per spiegare l'origine del terrorismo islamista moderno figurano la rivoluzione iraniana, il ritiro sovietico dall'Afghanistan e la rivitalizzazione della religione a livello globale post-guerra fredda: «Mentre è impossibile stabilire in maniera definitiva quando fu usato per la prima volta, le radici di quello che oggi chiamiamo "terrorismo" affondano in un passato di 2000 anni fa. Inoltre il terrorismo odierno ha in qualche maniera chiuso il cerchio, con molti dei suoi praticanti attuali spinti da convinzioni religiose – cosa che guidò molti dei predecessori originari.» Nel 1979 la rivoluzione islamica in Iran spazzò via lo shah Mohammad Reza Pahlavi, con tutte le forze d'opposizione riunite attorno all'ayatollah Khomeini. Il nuovo governo instaurò la shari'a nel Paese e col tempo iniziò a finanziare anche movimenti politici tra cui Hezbollah in Libano, successivamente classificato come terroristico in vari Paesi del mondo, compresi quelli arabi come la Giordania, l'Arabia Saudita e l'Egitto di Mubarak; i citati condannarono le azioni di Hezbollah, mentre Siria e Iran si dichiarano favorevoli alle azioni dell'organizzazione. L'Unione europea rifiutò inizialmente di qualificare Hezbollah come organizzazione terroristica, ma il 10 marzo 2005 il Parlamento europeo adottò una risoluzione non vincolante che di fatto accusa Hezbollah di aver condotto «attività terroriste»; gli Stati Uniti esercitarono pressioni sull'Unione per fare includere il movimento nella lista delle organizzazioni terroristiche[18]; il Consiglio d'Europa accusò poi Imad Mughiyah di essere membro di Hezbollah e di attività terroristica. Il primo movimento che teorizzò l'uso della lotta per ripristinare lo stile di vita ortodosso dei primi credenti (salaf al-aliīn, «i pii antenati», da cui il termine salafita), fu quello dei Fratelli Musulmani. Il movimento, fondato in Egitto nel 1928 a opera di Hasan al-Banna, si diffuse rapidamente in Siria, Giordania e Sudan, e, alla fine degli anni quaranta, esso contava circa 500 000 adepti, con la volontà di affrancare il mondo islamico dalla sua sudditanza, psicologica e politica, nei confronti dell'Occidente non-musulmano, anche se ancora il salafismo non aveva l'accezione attualmente in uso e collegata al rigido fondamentalismo. Le metodologie di organizzazione del movimento ricalcarono quelle di ideologia marxista che si andavano affermando dopo la fine della seconda guerra mondiale nei Paesi arabi, in corso di affrancamento dai regimi coloniali, con un emiro al posto della segreteria generale e la shura al posto del «comitato centrale» dei gruppi marxisti, e nelle università spesso i gruppi studenteschi islamisti contendevano il predominio intellettuale a quelli marxisti, più allineati ai governi esistenti. I Fratelli Musulmani, organizzati secondo una rigida struttura gerarchica, divennero così il primo vero movimento di massa neo-islamico e, all'inizio degli anni cinquanta, sull'onda della guerra in Palestina, esso arrivò a raccogliere circa due milioni di aderenti. Nelle prime fasi della guerra afghano-sovietica le varie centinaia di arabi che si erano trasferite a Peshāwar, in Pakistan, occuparono solo ruoli di supporto, compreso Ayman al-Zawāhirī che effettuò varie missioni umanitarie con la Mezzaluna Rossa, ma a un certo punto iniziarono a crearsi i presupposti per un diverso tipo di impegno. ʿAbd Allāh al-ʿAzzām era un predicatore nato in Palestina, trasferitosi in Arabia Saudita e poi in Pakistan, i cui sermoni avevano influenzato anche il pensiero di bin Laden e che aveva istituito un'organizzazione denominata Maktab al-Khidamat (MAK), finalizzata alla gestione dell'afflusso di volontari e fondi in loco per il sostegno ai mujaheddin[23]; quando i due si incontrarono a Peshāwar, al-ʿAzzām iniziò a teorizzare una lotta come obbligo morale per tutti i musulmani, come nel suo libro Ultime Volontà del 1986; in Difendere la terra dei musulmani è il dovere più importante di ognuno, al-ʿAzzām afferma che: « Questo dovere non si concluderà con la vittoria in Afghanistan; il jihad resterà un obbligo personale finché ogni altra terra appartenuta ai musulmani non ci sarà restituita così che l'Islam torni a regnare; davanti a noi si aprono la Palestina, Bukhara, il Libano, il Ciad, l'Eritrea, la Somalia, le Filippine, la Birmania, lo Yemen del Sud, Tashkente l'Andalusia.» Nei testi di al-ʿAzzām viene ripetutamente citato il martirio come mezzo per ottenere le ricompense nell'altra vita quali «l'assoluzione da tutti i peccati, settantadue bellissime vergini, e il permesso di portare con sé settanta membri della propria famiglia»; comunque sugli obiettivi da perseguire emersero contrasti tra al-Zawhāhirī e al-Azzām, che portarono quest'ultimo a essere dapprima fatto bersaglio di un attentato fallito e poi ucciso da tre mine. Una radicale trasformazione del terrorismo islamico si è avuta con l'emergere di nuovi Stati con grandi disponibilità finanziarie come l'Arabia Saudita e gli emirati del Golfo Persico, caratterizzati anche da forme di governo che si influenzano reciprocamente con gli ambienti "clericali" islamici e con le dottrine legate a correnti di pensiero integraliste come il wahhabismo. Questi Stati hanno indirettamente finanziato (foss'anche inconsapevolmente), attraverso donazioni da parte di istituzioni caritatevoli, gruppi più o meno legati al terrorismo, e lo stesso si può dire di facoltosi esponenti del mondo privato di questa stessa area. Non esiste un automatismo tra donazione e finanziamento al terrorismo, ma parte dei soldi destinati ad opere assistenziali è stata usata per gestire istituzioni di accoglienza in aree come il Pakistan, dalla quale gli stranieri provenienti dal Golfo Persico, dalle Filippine o da altri paesi con una popolazione almeno in parte islamica sono stati smistati presso i campi di addestramento situati in Afghanistan o nell'area di confine tra i due paesi; qui è stata fatta una ulteriore selezione tra i candidati, destinandone alcuni a corsi specifici di uso degli esplosivi e demolizione o gestione degli ostaggi. La pratica era comune nel periodo dal 1990 al 2001 e assolutamente trasversale tra le varie sigle del terrorismo islamista. Tra i nomi più noti dei terroristi addestrati in questi campi figura ʿAbd al-Rasūl Sayyāf, cui è dedicato il gruppo terroristico filippino Abū Sayyāf. In altri casi dei fondi sono stati usati per finanziare direttamente spedizioni di armi, come ad esempio dall'Alto Commissariato saudita per i rifugiati all'Alleanza Nazionale Somala di Mohammed Farrah Aidid, in cui armi e munizioni provenienti da Sudan e Iraq sarebbero stati trasportati dai sauditi, insieme a beni di necessità, nascoste nei doppi fondi di container fino ai magazzini della SNA a Mogadiscio.
Questioni aperte e dibattute rimangono:
se le motivazioni dei terroristi o supposti tali siano di auto-difesa o espansionistiche, di autodeterminazione popolare o di supremazia islamica;
se gli obiettivi dei terroristi o supposti tali siano non di tipo militaristico;
se l'Islam perdoni o giustifichi, e in quali casi, il terrorismo;
se alcuni attentati vadano compresi nel terrorismo islamista o se siano da considerare semplici atti di terrorismo attuati da musulmani;
quanto appoggio abbiano nel mondo musulmano e, in caso, per quale tipo di terrorismo islamista propendano;
se il conflitto arabo-israeliano sia la radice del terrorismo islamista o ne sia solo una concausa.
Il modo nel quale il terrorismo viene combattuto dagli Stati Uniti d'America, sua principale controparte, non è da tutti ritenuto efficace; tra i dubbiosi un ex giudice francese, Jean-Louis Bruguiere, che ritiene venga raccolto un eccesso di informazioni, ma poi non venga analizzato, ed un altro ostacolo è la scarsità di coordinamento tra le troppe agenzie federali statunitensi. Lo stesso giudice ha peraltro evidenziato come organizzazioni ufficialmente umanitarie come la Insani Yardim Vakfi abbiano avuto almeno in passato legami con al-Qaida. Sebbene Stati Uniti e Israele siano gli obiettivi più spesso colpiti dal terrorismo islamista, molti attentati sono avvenuti in altri Paesi e contro altri obiettivi: a metà degli anni novanta nel mirino dei terroristi c'era la Francia, come strascico della guerra civile algerina; la Russia ha subito molti attentati terroristici per il suo coinvolgimento nella seconda guerra cecena e nel 1997 il governo cinese fu il principale artefice dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai voluta anche per combattere i movimenti islamici in Asia centrale. Tra il 2005 e 2007 l'Iraq fu il luogo dove si concentrò maggiormente l'attività terroristica: solo nel 2005 oltre 8 000 iracheni morirono a causa di attentati. Non tutti gli attentati elaborati da organizzazioni terroristiche islamiste ebbero successo; tra i fallimenti figura il progetto Bojinka (una esplosione simultanea in volo di undici aerei di linea), attacco con missili terra-aria a un aereo di linea israeliano con 260 persone a bordo al decollo da Nairobi il 28 novembre 2002; contemporaneamente a quest'ultimo, tuttavia, un attentato con una jeep imbottita di esplosivo contro un albergo frequentato da turisti israeliani, con tredici morti e decine di feriti. Solo parzialmente riuscito era stato, quasi dieci anni prima, l'attentato al World Trade Center del 1993, in quanto l'obiettivo era l'implosione delle Torri gemelle tramite cariche di esplosivo collocate in un parcheggio sotterraneo; ciononostante vi furono sei morti. L'ideatore e realizzatore del piano, Ramzi Yusuf, non cercò la morte nell'esplosione, a dimostrazione che non tutte le espressioni di terrorismo islamista cercano il martirio dell'esecutore, fatto salvo l'obiettivo comune di colpire l'Occidente. Secondo i dati elaborati dal centro nazionale per l'antiterrorismo statunitense, l'estremismo islamico tra il 2004 e i primi mesi del 2005 si rese responsabile di circa il 57% delle vittime e del 61% dei ferimenti per terrorismo, considerando solo i casi in cui la matrice è chiara. Gli atti terroristici dell'estremismo islamico includono dirottamenti di aerei, decapitazioni, rapimenti, assassinii, autobombe, attentati suicidi e, occasionalmente, stupri. L'attività dei terroristi islamisti è spesso indicata come jihad ("sforzo, "impegno", qui inteso però in senso bellico), ma questa espressione non intende necessariamente una azione violenta. Le minacce, incluse quelle di morte, sono spesso emesse come fatwa, (sentenze legali islamiche su fattispecie giuridiche del tutto astratte). Obiettivi e vittime includono sia musulmani che non musulmani. I musulmani sono normalmente minacciati con il takfir (condanna di "miscredenza" grave, emessa contro un musulmano o un gruppo che si definisca islamico, tale da rendere teoricamente lecito "versarne il sangue"). Questa è una condanna a morte implicita perché, secondo gli hadith del Profeta, nell'Islam la punizione degli apostati è la morte. Secondo il Rapporto sul terrorismo internazionale di matrice jihadista della Fondazione ICSA presentato alla Camera dei deputati italiana il 28 novembre 2013, negli ultimi 5 anni vi sono state in Europa 14.470 vittime di attentati terroristici di matrice islamica, con 153 morti compresi gli attentati nel 2015 in Francia, ed in Italia si riscontra un aumento della cyber-jihad, cioè l'attività terroristica programmata od effettuata via web. La galassia terrorista si articola in molte organizzazioni, in alcuni casi direttamente sponsorizzate da servizi segreti nazionali, come il caso della deviata Inter-Services Intelligence pakistana che ha sostenuto i Talebani in Afghanistan e sostiene tuttora Lashkar-e Taiba nella sua campagna di destabilizzazione del Kashmir indiano e negli attacchi all'India. In alcuni casi sono direttamente gli stati a supportare militarmente, spiritualmente e finanziariamente le organizzazioni, come nel caso dell'Iran verso Hezbollah; stime ritengono che il sostegno duri da 25 anni e che vi siano stati trasferimenti di valuta e materiale dell'ordine dei 100 milioni di dollari annui, anche se la provenienza è di una fonte non terza come il Mossad, il tutto finalizzato anche ad espandere la propria influenza regionale. Le organizzazioni evolvono col tempo, o spariscono a beneficio di nuovi gruppi sotto la pressione degli stati e delle forze di polizia; un esempio è il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento che ha raccolto l'eredità e il ruolo del Gruppo Islamico Armato (GIA) in Algeria e nella zona del Sahel, espandendosi nel Mali dove sotto il nome di Al-Qa'ida nel Maghreb islamico (AQMI) ha fomentato la guerra civile e la secessione del nord del paese, dimostrando di poter perseguire obiettivi politico-militari di ampio respiro rispetto all'esecuzione di attentati e alla propaganda[45]; il cambio di nome evidenzia inoltre la volontà di sottolineare l'affiliazione ad Al-Qāʿida o quanto meno una contiguità di metodi ed obiettivi. I soldi che finanziano l'operatività di queste organizzazioni provengono da varie fonti come donazioni di privati, ma anche e soprattutto vendita di armi o di droga come nel caso dell'AQMI[45]. Un'altra fonte, anche se indiretta, è la pirateria navale, come nel caso della pirateria somala dalla quale l'organizzazione Al Shabab ha preteso percentuali dell'ordine del 20% dei riscatti ai pirati, e non ricevendoli ha proceduto ad "arrestare" alcuni tra loro. Al-Gama'at al-Islamiyya è una organizzazione egiziana che si è resa responsabile del massacro di Luxor e di una intensa campagna terroristica, anche se nel 2003 aveva dichiarato di abbandonare la lotta armata. In realtà vi sono stati massicci rilasci di suoi membri dopo i 25 anni dalla morte di Sadat, che avrebbe dovuto essere un segno di confidenza del governo egiziano dell'epoca sulla riduzione della minaccia[48]. L'organizzazione ha come leader religioso ʿUmar ʿAbd al-Ramāned affonda le sue origini nei Fratelli Musulmani, una cui frangia denominata Al-Jihād o Tanīm al-Jihād (Organizzazione del Jihād) fu costituita nel 1980 ed è elencata dalle Nazioni Unite tra le entità appartenenti o associate ad al-Qāʿida.; l'organizzazione è responsabile dell'assassinio di Anwar el-Sadat nel 1981. Tuttavia un leader della Jamāʿa, Mohammad Hasan Khalil al-Hakim (Muhammad al-ukayma), disse anche che non tutti i membri della Jamāʿa erano ancora propensi all'uso della violenza e che alcuni rappresentanti della Jamāʿa avevano negato di essersi uniti ad al-Qāʿida[51]. Lo Shaykh ʿAbd al-Akhir ammād, ex leader della Jamāʿa dichiarò ad al-Jazeera: "Se [alcun]i fratelli ... hanno raggiunto [al-Qāʿida], ciò è la loro personale scelta e io non credo che la maggioranza dei membri di al-Jamāʿa al-Islāmiyya condividano la medesima opinione"[52]. In realtà al-Qāʿida non è una organizzazione rigida, e spesso ha concesso l'uso del proprio nome, in una specie di franchising del terrore a gruppi che rappresentavano interessi locali particolari, pur nell'ambito del fattore comune dato dalla fede islamica e dalla lotta contro gli infedeli. Altra organizzazione molto importante ed attiva nel sud-est asiatico è il già citato gruppo Abu Sayyaf (letteralmente padre di Sayyaf). Il nome deriva dal fatto che il suo fondatore diede il nome di Sayyaf a suo figlio; questo nome però è ispirato al predicatore wahhabita afghano Sayyaf, che nel 1981 fondò una fazione, Ittehad e-Islam, che venne scelta come interlocutore dal servizio segreto pakistano ISI e godeva di finanziamenti e supporti religiosi sauditi[53]. Sayyaf in origine si chiamava Ghulam Rasud (servo o schiavo del Profeta) in Abd al-Rab al-Rasud (servo di Dio e del Profeta), poiché la venerazione di un essere umano, sia pure il Profeta, implicata dal primo nome era inaccettabile dai fedeli di stretta osservanza wahhabita; con i fondi arabi venne creata intorno al 1984 una città, nota comeSayyaffabad (letteralmente città di Sayyaf) che ospitava un campo profughi ma anche magazzini di armi e materiale bellico, strutture di addestramento, moschee e madrasse, nei pressi della città di Pabbi, ad est di Peshawar. Un'altra organizzazione relativamente recente è Boko Haram, attiva in Nigeria dove sta tentando di scatenare una guerra civile di matrice religiosa tra la componente cristiana e quella musulmana di questa repubblica federale. Al-Qaida è una rete mondiale panislamica di terroristi sunniti neo-neo-hanbaliti, capeggiata da Ayman al-Zawahiri, diventata famosa in particolare per gli attentati dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Attualmente sembra sia presente in più di 60 Paesi. Il suo obiettivo dichiarato è l'utilizzo del jihad per difendere l'Islam dal Sionismo, dal Cristianesimo, dall'Occidente secolarizzato e dai governi musulmani filo-occidentali o "moderati", quali quello dell'Arabia Saudita che è visto come insufficientemente islamico e troppo legato agli USA. Formata nel periodo successivo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, nei tardi anni ottanta da Bin Laden e Muhammad Atef, al-Qāʿida rivendica il legittimo uso delle armi e della violenza contro l'Occidente e il potere militare degli Stati Uniti d'America e di ogni Stato che sia alleato con essi[58]. Dalla sua formazione, al-Qāʿida ha compiuto numerosi attacchi terroristici in Africa, Vicino Oriente, Europa, e Asia. Sebbene un tempo fosse sostenuta dai Talebani, gli Stati Uniti d'America e il governo britannico non considerano i Talebani un'organizzazione terroristica. Fath al-Islam è un gruppo islamista operante fuori dal campo-profughi di Nahr al-Bared, nel settentrione del Libano. Fu costituito nel novembre 2006 da militanti che ruppero col gruppo filo-siriano di Fath-Intifada, a sua volta un gruppo scissionista di al-Fatḥ, e guidato da un militante clandestino palestinese chiamato Shaker al-Absi. Gli appartenenti del gruppo sono stati genericamente descritti dai media come militanti jihadisti, e il gruppo stesso è stato descritto come un movimento terrorista ispiratosi ad al-Qa'ida. Il suo fine ufficiale è quello di portare tutti i campi-profughi palestinesi sotto l'imperio della Shari'a e i suoi obiettivi prioritari sono la lotta contro Israele e gli Stati Uniti d'America[60]. Le autorità libanesi hanno accusato l'organizzazione di essere coinvolta nell'attentato dinamitardo del 13 febbraio 2007 contro due minibus, nel quale hanno trovato la morte tre persone, mentre 20 altre sono rimaste ferite, nella libanese Ain Alaq, con quattro attentatori identificati e rei confessi dell'attentato. Hamas, ("scossa" o "zelo" in arabo, ma acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya, "Movimento di Resistenza Islamica"), cominciò a propugnare attacchi contro obiettivi militari e civili israeliani[64] all'inizio della Prima Intifada nel 1987. Come organizzazione che si ispira esplicitamente alla Fratellanza Musulmana per la Palestina, la sua leadership è assicurata da «…intellettuali della pia classe media […] da rispettabili chierici devoti alla religione islamica, da dottori, chimici, ingegneri e insegnanti». Lo Statuto di Hamas del 1988 esorta alla distruzione di Israele sebbene i suoi portavoce non ricordino sempre in modo così esplicito questo fine strategico. La sua «ala militare» rivendica sempre la responsabilità degli attentati perpetrati contro lo Stato d'Israele. Hamas è stata anche accusata di sabotaggio del processo di pace israelo-palestinese, avviato con gli ormai falliti Accordi di Oslo, grazie al lancio di operazioni armate contro i civili israeliani anche nel corso delle elezioni, al fine di esasperare l'animo dei cittadini dello Stato ebraico e indurli a eleggere candidati collocati su posizioni sempre più estremistiche, al fine di rendere impraticabile un avvicinamento delle posizioni fra i contendenti. Ad esempio, «…una serie di attacchi suicidi spettacolari condotti da palestinesi e che portarono alla morte di 63 israeliani, condussero direttamente alla vittoria elettorale di Benjamin Netanyahu e del partito Likud il 29 maggio 1996». Hamas giustifica tali attacchi come necessari nel combattere l'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi occupati e come risposta agli attacchi condotti da Israele contro obiettivi palestinesi. Il movimento serve anche da collettore di fondi, usati tra l'altro per fini di assistenza caritatevole dei rifugiati palestinesi. Hamas è stata definita come "gruppo terroristico" dall'Unione europea, dal Canada, dagli Stati Uniti d'America, da Israele, dalla Commissione ONU per i diritti umanie da Human Rights Watch. Gli oppositori di tale definizione oppongono la supposta non legittimità dello Stato di Israele in ragione delle modalità che portarono all'autoproclamazione d'indipendenza nel 1948. Hezbollah è un partito politico sciita libanese, dotato di sue proprie milizie armate e di un articolato programma mirante allo sviluppo sociale delle aree libanesi (di quelle meridionali in particolare) e di strutture in grado di portarlo a effettiva realizzazione. Jaljalat (in arabo: «Tuono dirompente») è un gruppo islamico salafita armato operante nella Striscia di Gaza che ha preso ispirazione da al-Qāʿida. Nato nel 2007 mentre Hamas conquistava il potere, Jaljalat raccoglie fuoriusciti di Hamas ed ex militanti di un altro gruppo vicino ad al-Qāʿida, l'Esercito dell'Islam. Nel settembre 2009, l'organizzazione rivelò di aver cercato di assassinare il precedente presidente statunitense Jimmy Carter ed il Quartetto del Medio Oriente inviato da Tony Blair. Una nuova sigla che si è affacciata sulla scena mondiale è lo Stato Islamico, (IS), proclamatosi indipendente il 29 giugno 2014 ma in precedenza conosciuto anche come Stato Islamico dell'Iraq e al-Sham, comunemente tradotto come Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (ISIS) oppure Stato Islamico dell'Iraq e del Levante (ISIL). La sua origine è legata alla Jamā'at al-Tawīd wa l-jihād, al-Qāʿida in Iraq e Mujāhidīn del Consiglio della Shura (attivo dal 1999 al 2006), fondato dal salafita e takfirista giordano Abu Mus'ab al-Zarqawi. La sua storia si è incrociata con quella del siriano Fronte al-Nusra, che crebbe rapidamente diventando una forza combattente sostenuta dall'opposizione siriana. Il gruppo gihadista, attivo in Siria e in Iraq, ha come leader nel 2014 Abu Bakr al-Baghdadi, che ha unilateralmente proclamato la rinascita del califfato nei territori caduti sotto il suo controllo. Peculiarità dello Stato Islamico è quella di riunire in una sola entità le caratteristiche dell'esercito, delle modalità terroristiche, della fisicità del territorio in cui risiede e della struttura statale. Lo Stato Islamico ha anche coniato una sua moneta, seppure non riconosciuta a livello internazionale: il Dinaro dello Stato Islamico.
SEGRETI DI STATO/ Dal Lodo Moro alle stragi, i silenzi di un testimone scomodo. E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. "La Stampa" ha intervistato Bassam Abu Sharif, ma i conti non tornano. Molte le reticenze. E non solo sue, scrive Salvatore Sechi il 5 luglio 2017 su "Il Sussidiario". E' tornata d'attualità la vicenda del cosiddetto lodo Moro. Il termine indica lo scambio (una sorta di informale patto di non belligeranza) tra Aldo Moro, per conto del governo italiano, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un'organizzazione del terrorismo palestinese affiliata all'Olp. Il Fplp risulta legatissimo all'Unione sovietica, alla primula rossa del terrorismo Carlos, alle Cellule rivoluzionarie tedesche di Thomas Kram. Attraverso il responsabile per l'informazione, Bassam Abu Sharif (più tardi stretto collaboratore di Arafat), il Fronte intrattiene ottimi rapporti con il col. Stefano Giovannone, uomo di assoluta fiducia di Moro sulle questioni e i rapporti mediorientali. E con la sua collaborazione invia in Italia il giordano Abu Saleh Anzeh. Sarà sempre Giovannone a proteggere Abu Saleh (un finto studente nelle università di Perugia e Bologna) anche dai tentativi della questura del capoluogo emiliano e in generale del ministero dell'Interno di rimandarlo in Giordania, per antisemitismo e odio rissoso verso Israele. Come capo-centro del Sismi, da Beirut nel 1972-1981, e in quanto collegato a Moro, Giovannone ha l'incarico di vigilare sulla sicurezza delle nostre rappresentanze diplomatiche in Medio oriente. Acquisisce una conoscenza preziosa e ineguagliata dei problemi e dei dirigenti politici del Medio oriente. Morto nel 1985, dopo un calvario giudiziario in cui è stato lasciato solo dai suoi referenti politici, ai minuziosi contatti con i palestinesi di Giovannone si debbono i sette anni di pace di cui l'Italia ha potuto godere dal 1973 all'80. Da quanto emerge da diversi documenti dell'intelligence, il nostro governo gioca la carta della diplomazia parallela. Condivide l'obiettivo di dare ai palestinesi uno Stato e riconosce un vero e proprio salvacondotto per i terroristi (o estremisti arabi che li si voglia chiamare), cioè il diritto a lottare per conseguirlo anche col trasporto di armi sul nostro territorio. In cambio, il Fronte si impegna a non compiere azioni di guerra o di rappresaglia anti-israeliana all'interno delle nostre frontiere, oltre a fornire — pare — una moral suasion sui paesi arabi per la fornitura (e il prezzo) del petrolio. L'intesa si rompe nell'inverno del 1979-1980. Abu Saleh Anzeh (legatissimo ad Habbash), insieme a Daniele Pifano e ad altri tre rappresentanti romani di Autonomia vengono fermati e arrestati il 7 novembre 1979 a Ortona e condannati dai tribunali di Chieti e di Ortona, il 25 gennaio 1980, a sette anni di carcere per il trasporto di alcuni missili Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica. Sono solo in transito da noi, ma la loro destinazione è di essere usati contro un nostro alleato, Israele. I paesi arabi reagiscono con una forte minaccia. Se Abu Saleh Anzeh non verrà immediatamente liberato (il che avverrà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia), ci saranno pesanti ritorsioni contro la popolazione civile (Giovannone parla di una città o di un aeroporto). Questo è il messaggio che i nostri servizi (Ucigos e Sismi) recepiscono e diffondono. Nel giro di qualche semestre si avrà l'abbattimento nel mare di Ustica di un aereo Dc9 dell'Itavia (con la morte di 81 persone) e l'attentato alla stazione centrale di Bologna con 200 feriti e 84 morti. Il 2 settembre a Beirut scompaiono due giornalisti, Italo Toni e Graziella De Palo, che il Fplp avrebbe dovuto proteggere. Forse i due giornalisti hanno appurato troppo sui responsabili della strage di Bologna? C'è un collegamento tra i due episodi? A chiarire il clima di quel periodo la Commissione parlamentare d'inchiesta su Moro ha di recente chiamato uno dei dirigenti del Fplp, amico di Giovannone, Bassam Abu Sharif. La Stampa lo ha fatto intervistare da Francesca Paci. In realtà la sua testimonianza, che sia Fioroni sia la giornalista non hanno pensato minimamente di contestare, è poco affidabile e reticente. Vediamolo da vicino. Sharif ignora la differenza, sul piano giuridico, tra la promessa di un impegno e un "lodo". Il Fronte avrebbe concesso solo la prima, e l'Italia si sarebbe obbligata a fornire un aiuto umanitario che per la verità era in corso da anni. La mediazione svolta da Giovannone non può essere scambiata per una responsabilità istituzionale per la quale il colonnello dei carabinieri non aveva la veste né le deleghe. Sharif dice di avere contato circa un migliaio di italiani che frequentarono i corsi di addestramento militare e ideologico, e ricorda l'opzione del Fronte per il sindacato. Ma non è in grado di fare i nomi di nessuno. Non spende una parola su Rita Porena, una giornalista e ricercatrice del ministero degli Esteri che era legata a Giovannone, ma anche a lui e al responsabile dei servizi segreti di Al Fatah, Abu Iyad. Per la verità, è incomprensibile, se è ancora in vita, la mancata testimonianza di costei. Avventata mi pare la negazione di ogni rapporto tra il Fplp e le Brigate rosse. E' vero che inizialmente ci furono delle resistenze, ma le testimonianze raccolte dal giudice Mastelloni, insieme alle memorie di Mario Moretti, presso il Tribunale di Venezia mostrano che fu stabilita una collaborazione sul traffico delle armi. Suscitano ulteriori dubbi e riserve sull'affidabilità di Sharif la sua dichiarazione di non sapere nulla di quanto avvenne a Ortona, come della strage di Ustica e di quella di Bologna. Eppure Abu Saleh Anzeh, cioè una persona molto vicina ad Habbash e a Giovannone, è direttamente o indirettamente presente in tutte queste vicende. Sulla crisi dei missili del novembre 1979, quando il lodo Moro si ruppe, il silenzio di Sharif è solo reticenza. Trovo molto strano e preoccupante che il senatore Fioroni e i suoi collaboratori di centro-sinistra e di centro-destra non abbiano voluto contestare le affermazioni di questo alto dirigente del Fplp. Per quale ragione l'hanno invitato in Commissione se non avevano nulla da chiedergli?
1969 – 1978: la politica estera di Aldo Moro ai tempi del terrorismo internazionale, scrive Enrico Malgarotto il 12 aprile 2018 su "socialnews.it". “L’Unione Sovietica mira ad indebolire l’Europa occidentale con una manovra per linee esterne, tentando di separare politicamente da essa il Medio Oriente e l’Africa del Nord. In questo stato di cose si rafforzano i segni di un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa. E’ umano che il popolo americano cominci ad essere stanco di vedere schierati alla difesa dell’Europa occidentale i figli di coloro che la liberarono. Ciò pone, tuttavia, problemi di sicurezza interna e anche di obiettivo politico che noi europei dobbiamo prepararci ad affrontare al più presto.” Questo appunto inedito di Aldo Moro risalente al marzo del 1970 è stato ritrovato nell’archivio di Stato dall’ Avvocato e scrittore Valerio Cutonilli, autore, insieme al Giudice Rosario Priore, di un interessante libro sulla strage di Bologna e sui rapporti tra lo Stato italiano e le organizzazioni terroristiche palestinesi. La nota, ignorata per oltre 40 anni, si rivela particolarmente significativa se si esamina il contesto in cui è stata vergata e, più ancora, se si comprende la lucida analisi che connota la visione dello Statista sugli equilibri geopolitici dei decenni successivi e sulla stabilità interna di un’Italia ancora provata dalla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 e che si preparava ad affrontare un importante vertice con la Germania, a sostegno della Ostpolitik per l’apertura con i paesi dell’Est.
Tale visione, da qualcuno definita “eretica”, si rivelerà profetica alla luce degli avvenimenti degli anni seguenti. L’allora Ministro degli Esteri Moro, autore di questa annotazione, sapeva bene quale fosse la situazione internazionale tra la fine degli anni sessanta ed il decennio successivo. Gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra del Vietnam con ingenti forze militari e risorse. Questa concentrazione di fondi ed energie verso il sud est asiatico aveva portato l’Amministrazione statunitense a rivedere le proprie priorità a svantaggio della tradizionale centralità dell’Europa nella propria pianificazione. Sebbene questo spostamento verso l’estremo oriente della politica estera di Washington fosse stato oggetto di appositi negoziati con la controparte sovietica, i fatti successivi hanno dimostrato che il Cremlino ha approfittato di questa situazione per agire contro l’Europa occidentale ed i suoi alleati. Questo processo sarebbe avvenuto non attraverso un conflitto frontale con la NATO, ma ricorrendo ad una guerra non convenzionale attuata da organizzazioni terroristiche supportate dai Servizi segreti del blocco orientale.
Verso il Lodo Moro: il terrorismo palestinese. In quegli anni faceva la sua comparsa in Europa il fenomeno terroristico dei gruppi palestinesi. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e Settembre Nero sono i nomi delle maggiori formazioni operanti in quegli anni, sebbene la galassia delle unità terroristiche arabe fosse molto più vasta. Sono molti i fatti salienti, tra il 1969 e il 1973, che hanno visto come epicentro l’aeroporto di Roma – Fiumicino e che avrebbero portato il nostro Paese ad imboccare la strada dell’accordo con questi gruppi, ad iniziare dal dirottamento su Damasco di un aereo della TWA in volo da Los Angeles a Tel Aviv (con scalo a Roma) compiuto il 29 agosto 1969 dalla più famosa terrorista dell’organizzazione palestinese, Leila Khaled, cui è seguito l’attentato del 16 giugno 1972 messo in atto con un mangianastri imbottito di tritolo dotato di un timer regalato da due giovani arabi a delle ragazze israeliane conosciute poco prima. Nonostante la deflagrazione dell’ordigno nella stiva durante il volo, l’aereo, non avendo riportato danni, atterrava a Tel Aviv. Il 4 aprile 1974 a Ostia, fuori Roma, due membri dell’organizzazione palestinese venivano fermati e arrestati per detenzione di alcuni missili Strela di costruzione sovietica – facilmente trasportabili – da usare contro un aereo della compagnia di bandiera israeliana El Al durante le fasi di decollo o atterraggio. Il 17 dicembre 1973 a Fiumicino, cinque terroristi lanciavano delle bombe incendiarie all’interno di un aereo della statunitense Pan Am uccidendo trenta passeggeri tra cui quattro italiani. Il gruppo terroristico, poi, prendeva possesso di un velivolo della Lufthansa (la compagnia di bandiera tedesca) costringendo il pilota a decollare. Dopo aver fatto scalo per il rifornimento di carburante ad Atene, il velivolo veniva fatto atterrare a Kuwait City dove, una volta liberati gli ostaggi, le Autorità provvedevano ad arrestare i terroristi, rilasciati, in seguito e posti a disposizione dell’organizzazione terroristica palestinese. Anche i siti industriali sono stati oggetto di attentati da parte di tali organizzazioni arabe come occorso il 3 agosto del 1972 all’oleodotto di Trieste (in concomitanza con un simile attacco avvenuto in quegli anni in Olanda).
Il Lodo Moro. Di fronte alla portata degli attentati i Paesi europei decisero di entrare in contatto con le formazioni per stringere speciali accordi affinché il proprio territorio fosse escluso da ulteriori attacchi. L’Italia, presumibilmente nel 1972/1973, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, allora retto da Aldo Moro, stringeva un patto – passato alla storia come il Lodo Moro – che concedeva piena libertà alle organizzazioni palestinesi di muoversi nel nostro territorio e ad utilizzarlo come base logistica per azioni in tutta Europa. La controparte avrebbe assicurato che in Italia non ci sarebbero stati altri attentati, ad esclusione delle sedi e dei siti americani ed israeliani presenti nel territorio della penisola. Probabilmente l’autore materiale dell’accordo e’ stato il Servizio segreto italiano: prima il SID, il Servizio informazioni Difesa (organo d’intelligence italiano dal 1965 al 1977) e poi il SISMI – Servizio Informazioni Sicurezza Militare (a partire dal 1978) nella figura del Colonnello Stefano Giovannone, responsabile del centro del Servizio a Beirut, in Libano. L’agente infatti per tutto il periodo di durata del Lodo, aveva provveduto a mantenere i contatti tra Roma e il Medio Oriente sia con le organizzazioni terroristiche sia con gli altri Paesi, in particolare Giordania e Libano, che mal tolleravano la massiccia presenza di organizzazioni palestinesi nel proprio territorio. L’assenza di azioni terroristiche in Italia suggerisce che nel corso degli anni settanta l’accordo tra le parti sia stato sostanzialmente rispettato. Come hanno dimostrato diversi eventi, i terroristi scoperti e arrestati in procinto di progettare attentati nel nostro Paese sono stati liberati e riportati alle loro basi palestinesi anche attraverso la Libia di Mu’ammar Gheddafi, da sempre Padre Protettore di tali organizzazioni, cui forniva campi di addestramento e significativo supporto.
Da Ortona a Bologna: la violazione del Lodo. Nel novembre del 1979 ad Ortona, piccola cittadina abruzzese, i Carabinieri sequestrarono dei missili Strela (lo stesso modello usato dai due arabi a Ostia nel 1974) ad alcuni rappresentanti romani di Autonomia Operaia, movimento della sinistra extraparlamentare e rivoluzionaria in aperta opposizione al Partito Comunista Italiano di quel periodo. Indagando sulla provenienza delle armi, le Autorità Giudiziarie arrestavano a Bologna Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente fuori corso presso l’Ateneo ma, in verità, membro, in qualità di responsabile della rete logistica in Italia, del gruppo terroristico FPLP e della formazione tedesca Separat di Carlos lo Sciacallo, nome di battaglia di Ilich Ramirez Sanchez, famoso rivoluzionario venezuelano marxista – leninista e filo arabo, autore, con i suoi gruppi, di numerosi attentati in tutta Europa. Fin da subito le poche persone a conoscenza dell’accordo stretto da Moro si rendevano conto che l’arresto di Saleh avrebbe potuto essere considerato dalle formazioni palestinesi come una violazione del Lodo, con le inevitabili conseguenze che ciò avrebbe comportato. Attraverso le informazioni raccolte dal Colonnello Giovannone, cominciavano ad arrivare a Roma i primi segnali d’allarme circa la volontà di compiere un’azione punitiva nei confronti dell’Italia da parte dell’ala più oltranzista dell’organizzazione palestinese. Col passare dei mesi, con la condanna di Saleh, dal Medio Oriente giungeva la notizia che l’eventuale attacco contro il nostro Paese sarebbe avvenuto per mano di elementi esterni al FPLP. Il 2 agosto 1980 una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto della stazione di Bologna esplodeva causando ottanta vittime e il ferimento di circa duecento persone. Per circa trent’anni o più si è voluto associare questa strage alla matrice neofascista nell’ambito della strategia della tensione, tuttavia altri punti di vista, ancorché controversi ed in parte smentiti, porterebbero a puntare il dito contro quel Carlos a capo del gruppo Separat di cui anche lo stesso Saleh faceva parte.
La spinta dall’est del terrorismo europeo. Le formazioni eversive di estrema sinistra presenti in tutta Europa negli anni settanta e ottanta erano le francesi Action Directe, le tedesche RAF o Rote Armee Fraktion – conosciute anche come Banda Baader – Meinhof dal nome dei due capi storici – e le italiane Brigate Rosse. Questo sistema eversivo europeo occidentale, in coordinamento con quello medio orientale, nella sua fase più matura, era gestito dall’Unione Sovietica. I Servizi segreti di Mosca, quelli cecoslovacchi (Stb) e della Germania orientale (Stasi e Hva) hanno contribuito a supportare il terrorismo rosso di quegli anni. Fin dai primo dopoguerra, la Cecoslovacchia si è sempre dimostrata in prima linea per quanto riguarda le attività clandestine comuniste in occidente. Per approfondire quest’ultimo aspetto è necessario far riferimento a diverse fonti tra cui l’archivio Mitrochin, (il voluminoso dossier sui documenti top secret del kgb che l’ex archivista del Servizio sovietico Vasilij Nikitič Mitrochin ha portato in occidente nei primi anni novanta contribuendo a svelare la fitta rete di legami tra il blocco orientale e l’occidente durante la guerra fredda) ed il libro di Antonio Selvatici “Chi spiava i terroristi? KGB, STASI – BR, RAF. I documenti negli archivi dei servizi segreti dell’Europa <<comunista>>” Ed. Pendragon, 2010, i quali trattano in modo approfondito le dinamiche con cui gli organi di intelligence d’oltrecortina aiutavano i terroristi. I campi erano stati creati dal Kgb nel 1953 per addestrare anche il personale dell’apparato militare clandestino in seno al PCI, composto soprattutto da ex Partigiani comunisti fuggiti dall’Italia in quanto colpevoli, durante la guerra, di crimini e per questo motivo ricercati dalle Autorità, alle attività di sabotaggio, guerriglia, intercettazione, all’uso delle armi interrate dal Kgb nel nostro Paese (che si aggiungevano a quelle utilizzate dalle formazioni rosse durante l’ultimo biennio della Seconda Guerra Mondiale e mai restituite agli alleati alla fine del conflitto) e alle comunicazioni radio cifrate. Karlovy Vary è il nome della località nell’ex Cecoslovacchia in cui sorgeva il campo d’addestramento gestito, a differenza di quello che si potrebbe pensare, non dai Servizi segreti di Praga ma dal Gru, l’organo di intelligence militare di Mosca. La presenza degli 007 sovietici in questi campi potrebbe confermare la tesi secondo cui la stagione degli attentati degli anni settanta e ottanta non fosse solo una manovra politica ma una vera e propria guerra contro l’occidente, combattuta con strumenti ben lontani dal concetto tradizionale di conflitto. Nel 1974, dopo l’arresto, da parte dei Carabinieri di Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle BR ma completamente slegati ed autonomi dalle trame politiche di Mosca e Praga, il Servizio segreto cecoslovacco incrementò la propria presenza a fianco del movimento eversivo. I vertici del PCI erano a conoscenza di questi legami “pericolosi” tra est e ovest al punto che il segretario del partito Enrico Berlinguer inviava, nel 1975, una delegazione a Praga guidata da Salvatore Cacciapuoti, in qualità di responsabile agli affari internazionali del PC, per conoscere quanti e chi fossero gli italiani addestrati in Cecoslovacchia. Dalle Autorità slave solo silenzio (probabilmente dovuto alla volontà di non trattare l’argomento con elementi esterni o perché, come effettivamente è stato, i Servizi cecoslovacchi non avevano alcuna autorità su questi campi) e una vaga promessa di inviare a Roma una relazione in merito. L’invio della delegazione è dovuto al fatto che il PCI, soprattutto a partire dal 1974, cominciava a considerare la questione terrorismo rosso con molta preoccupazione, soprattutto perché era a conoscenza che elementi interni al partito continuavano a collaborare alle attività clandestine comuniste d’oltrecortina e che l’unica soluzione per contribuire a fermare l’ondata eversiva che stava colpendo l’Italia (e forse anche per scongiurare eventuali situazioni di imbarazzo politico) era collaborare con le Forze dell’Ordine, in particolare con la Sezione antiterrorismo dei Carabinieri guidati dal Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Contatti tra le Brigate Rosse e l’FPLP. Le Brigate Rosse godevano anche del supporto delle formazioni palestinesi, le quali mettevano a disposizione dei terroristi italiani i campi di addestramento del Libano, Yemen, Siria e Iraq mentre, come in una sorta di scambio, le BR custodivano le armi che i terroristi arabi portavano in Italia per colpire gli obiettivi israeliani e statunitensi presenti nel nostro Paese. Questi contatti erano avvenuti durante gli anni settanta proprio quando, come già detto, i Servizi segreti italiani stringevano con il Fronte Popolare di Liberazione delle Palestina (FPLP) di George Habbash il Lodo Moro. Come riportato dalla Stampa, citando le carte della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Moro, già a partire dal 1976 i Vertici del FPLP cominciavano una rivoluzione all’interno delle varie sigle arabe a causa delle diverse vedute circa la richiesta di Mosca di por fine ai dirottamenti aerei e cominciavano a diffidare delle BR. Inoltre i vertici arabi volevano mantenere, a tutti i costi, la parola data al Governo Italiano attraverso il Lodo risparmiando la penisola da ogni tipo di attacco. Il già citato Colonnello Giovannone, il capo centro del SID/SISMI in Libano, veniva informato dal suo omologo palestinese circa i piani eversivi delle BR in Italia. L’ultima nota inviata a Roma dall’Ufficiale del Servizio risaliva al 18 febbraio 1978 e diceva:”[…] Mio abituale interlocutore rappresentante Habbash, incontrato stamattina, ha vivamente consigliatomi non allontanarmi da Beirut, in considerazione eventualità di dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazione estremista. Alle mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli, interlocutore ha assicuratomi che opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristi del genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario, elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte delle nostre Autorità.” A distanza di circa un mese dalla ricezione di questo telegramma da parte del governo italiano, l’Onorevole Aldo Moro veniva rapito dalle Brigate Rosse. Con la morte dello statista si concludeva quello che può essere definito “Il decennio di Aldo Moro”, iniziato nel 1969 in qualità di Ministro degli Esteri e terminato nel 1978 da presidente della Democrazia Cristiana con il suo assassinio.
Strage di Ustica, il testimone che riscrive la storia d'Italia: "Era guerra, ho visto tutto", scrive il 20 Dicembre 2017 “Libero Quotidiano”. Si riaccende lo scontro politico, dopo le novità arrivate dagli Usa, sul caso Ustica, con la nuova testimonianza su quanto avvenne il 27 giugno del 1980, la notte in cui il Dc9 Itavia, in volo da Bologna a Palermo, con a bordo 81 persone, sparì dai radar, finendo in mare. Le parole di Rian Sandlin, l’ex marinaio della portaerei Saratoga, che al giornalista Andrea Purgatori racconta di un conflitto aereo, nel Mediterraneo, tra caccia americani e libici, rilanciano, di fatto, l’ipotesi di un incidente di guerra che coinvolse il volo civile italiano. Parole che - in attesa di un interessamento della Procura di Roma - riaprono il dibattito tra chi sostiene la tesi della bomba a bordo e chi pensa che a colpire l’aereo sia stato un missile, forse alleato. Per Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica "il fatto che due Mig libici fossero stati abbattuti la notte di Ustica lo avevano già detto altri, ma sentirlo dire da un signore che stava sulla Saratoga, che finora gli Usa ci avevano detto stesse in rada, è una novità importante". "È chiaro che ci sono cose non dette su Ustica, ma il problema non è la verità, perché loro, al governo, sanno qual è la verità, il problema è che non vogliono raccontarla", aggiunge Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione 2 agosto: "Pensavano con la direttiva Renzi di tacitare la richiesta di verità, ma non hanno fatto il loro dovere fino in fondo, ora basta, diano le carte vere". Di cosa "vergognosa" e di "bufala gigantesca", parla invece il senatore di Idea, Carlo Giovanardi. "Sono falsità - sottolinea - già smentite da sentenze penali passate in giudicato che dicono che non c’è stata alcuna battaglia aerea, nessun missile, nessun aereo in volo". Giovanardi, non dà alcun credito alle ultime novità: "Ci sono 4mila pagine di perizie internazionali che dicono dov’era la bomba, quando è esplosa e tutti i dettagli - spiega il senatore di Idea - dall’altra, invece, abbiamo 27 versioni diverse" che accusano "gli Usa, i francesi, i libici". "Ho letto cose terrificanti in Commissione Moro - ricorda il senatore che è membro dell’organismo che indaga sulla morte del leader Dc - sui palestinesi che preparavano un terribile attentato, i documenti sono ancora segretati e Gentiloni, che abbiamo chiesto venisse a riferire, non ci risponde". "Per arrivare a chiarire rendiamo pubbliche quelle carte, in particolare il carteggio del biennio ’79-’80 dei nostri servizi da Beirut che parla delle minacce di rappresaglia da parte dei palestinesi, dopo lo stop al Lodo Moro", conclude il senatore di Idea.
Giovanni Lindo Ferretti e la stage di Bologna: furono o no i fascisti?, scrive il 2/08/2017 Chiara Comini. Avvenne il 2 agosto del 1980 alle 10.25 l’esplosione, causata da una bomba, che provocò la morte di 85 persone e 200 i feriti. Oggi, dopo 37 anni dalla strage, Giovanni Lindo Ferretti lancia una provocazione. Ferretti, noto per essere stato il cantate del gruppo musicale CCCP Fedeli alla linea, nato nell’Emilia degli anni Ottanta, in un intervista rilasciata a Repubblica dichiara: “Non concordo con il pensiero della maggioranza dei bolognesi, non credo che l’attentato del 2 agosto sia opera di fascisti italiani. Mi dispiace non essere in sintonia con la mia città, quella in cui ho vissuto di più. Quando è successo il 2 agosto io ero ancora un bolognese di adozione, ma io non ci ho mai creduto”. Continua affermando: “In quel momento i palestinesi avevano dei problemi con lo Stato italiano e il fatto che non siano state fatte indagini su tre o quattro personaggi in quei giorni a Bologna mi convince oltremisura. Se almeno si fossero fatte le indagini…”. Secondo Ferretti sarebbe più plausibile la pista, allora archiviata, definita “Lodo Moro”, o “Lodo Palestinese”: il patto tra servizi segreti italiani e la dirigenza palestinese per evitare attentati in Italia. Solo negli ultimi anni si sono iniziate a scoprire le carte, ammettendo l’effettiva esistenza dell’accordo, allora considerato una tesi complottista. Un documento segreto, emerso anni fa grazie a Enzo Raisi, datato 17/02/1978 e pubblicato nel 2015 dal Quotidiano nazionale, prova l’esistenza del Lodo Moro. Raisi il 2 agosto 1980 era nei pressi della stazione, in procinto di partire per il servizio militare. Da quel giorno si è assiduamente dedicato alla ricerca della verità. La sua convinzione è che la strage sia stata opera dei palestinesi in combutta con Carlos, un terrorista internazionale famoso anche con il nome di “Sciacallo”. Non è da sottovalutare che tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980, fosse stato arrestato e condannato il responsabile del Fronte per la liberazione della Palestina in Italia. Nel libro “Ustica storia e controstoria”, scritto dall’on. Eugenio Baresi, possiamo leggere: “Fra il sette e otto novembre 1979, in un casuale controllo – ricorda Baresi – vengono sequestrati missili antiaerei a membri dell’Autonomia romana e ad un palestinese, Abu Anzeh Saleh, […], rappresentante in Italia del Fronte per la liberazione della Palestina (FPLP). La Procura di Chieti con assoluta e inusuale velocità perviene ad un’immediata condanna il 25 gennaio del 1980. Il responsabile del FPLP in Italia, arrestato e condannato, è residente da anni a Bologna”. La strage della stazione di Bologna, pertanto, si collocherebbe in uno scenario intrecciato di fatti avvenuti in quegli anni che la collegherebbero dall’omicidio di Aldo moro e all’aereo di Ustica, che Baresi considera un “avvertimento non capito”. L’ordigno a Bologna sarebbe stato il secondo avvertimento. Ferretti conclude la sua dichiarazione a La Repubblica dicendo: “Tutte le persone che conosco e a cui voglio bene non lo vogliono nemmeno sentire. Questa città si è fatta un punto di onore nel rivendicare una necessità di antifascismo militante 50 anni dopo l’epopea fascista e ha avuto un’occasione meravigliosa”. Resta il fatto che questa ipotesi, dopo quasi quarant’anni dalla tragedia, grazie a documenti allora secretati, ha iniziato a prendere sempre più forma.
C’è una pista araba per la strage alla stazione di Bologna? Scrive Paolo Delgado il 2 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Trentasette anni dopo la bomba alla stazione di Bologna, cioè la più sanguinosa strage nella storia d’Italia, oggi si ripeteranno puntualissime le polemiche che accompagnano da sempre la commemorazione. Stavolta nel mirino ci sarà la stessa procura di Bologna, fortemente criticata per aver archiviato l’inchiesta sui mandanti della strage. E’ opportuno ricordare che, secondo una sentenza definitiva ma giudicata quasi ovunque non credibile, non sono ancora stati individuati né i mandanti, né il movente, né gli esecutori materiali della strage. Ci sono tre condannati, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma come “anelli intermedi”: quelli che avrebbero organizzato, su mandato non si sa di chi, l’attentato poi realizzato non si sa da chi per non si sa quali ragioni. Si può scommettere che nella polemica sui mandanti non una parola verrà dedicata alla denuncia che il quotidiano romano Il Tempo porta avanti, inascoltato, da una settimana. Il direttore Gian Marco Chiocci ha rivelato che esistono delle note dell’allora capo dei servizi segreti in Medio Oriente Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut e già uomo di fiducia di Aldo Moro. Le informative, ancora secretate dal Copasir, potrebbero secondo Chiocci gettare una luce tutta diversa sulla strage e sui suoi mandanti. Le note di Giovannone sono state visionate dai parlamentari della commissione Moro, ma senza il permesso di fotocopiarle né di diffonderne i contenuti. Prima di entrare nel merito degli appunti del vero ideatore del famoso Lodo Moro, quello che consentiva alle organizzazioni palestinesi di usare di fatto l’Italia come base in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi italiani ( a meno che, segnalava però Cossiga, non avessero rapporti con Israele: il che, secondo l’ex presidente picconatore, escludeva dall’accordo gli ebrei), bisogna chiarire perché quelle note sono importanti e fino a che punto costituiscono un elemento valido per l’individuazione della verità sulla strage del 2 agosto 1980. A rendere particolarmente interessante quel documento è prima di tutto proprio il fatto che siano note di pugno di Giovannone. Non si trattava infatti di un agente dell’Intelligence come tanti: “Stefano d’Arabia”, com’era soprannominato, era senza dubbio la persona che nello Stato italiano conosceva meglio, più a fondo e più da vicino le organizzazioni palestinesi, nei confronti delle quali provava una assoluta simpatia. Il secondo elemento d’interesse è la stessa scelta di mantenere il segreto su quelle note del 1979- 80 a destare curiosità e sospetti: cosa giustifica, a quasi quarant’anni di distanza, tanta prudenza? Allo stesso tempo va chiarito che gli appunti di Giovannone non indicano affatto con certezza una responsabilità palestinese nella strage. In compenso confermano al di là di ogni dubbio che le indagini trascurarono deliberatamente una pista e scelsero, non sulla base di elementi concreti ma al contrario ignorando i soli elementi concreti a disposizione, di seguire solo quella neofascista. L’antefatto è noto ma conviene riassumerlo. Nella notte tra il 7 e l’8 novembre tre autonomi romani del collettivo di via dei Volsci furono arrestati a Ortona mentre trasportavano per conto dei palestinesi due lanciamissili Sam- 7 Strela di fabbricazione sovietica. Giovannone si mobilitò immediatamente, poche ore dopo l’arresto, per cercare invano di risolvere l’incidente, evidentemente molto preoccupato per qualcosa, anzi per qualcuno, che non potevano certo essere i tre autonomi. Si trattava infatti Abu Anzeh Saleh, ufficialmente studente a Bologna, in realtà responsabile militare del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina in Europa. Saleh, che aveva chiesto ai tre autonomi di occuparsi del trasporto, senza chiarire di cosa si trattasse, fu arrestato pochi giorni dopo. Qualche settimana fa l’allora dirigente dell’Fplp Abu Sharif, nel corso dell’audizione di fronte alla Commissione Moro, ha rivelato che proprio Saleh era il dirigente palestinese a cui lo Stato italiano si era rivolto, dopo il sequestro di Moro, chiedendo un intervento dell’Olp a favore della liberazione dell’ostaggio. I rapporti stretti tra Giovannone e Saleh sono confermati dall’interessamento del potente colonnello perché al palestinese, espulso nel ‘ 74, fosse consentito il ritorno e il soggiorno in Italia. La preoccupazione di Giovannone era comprensibile e fondata. Sin dal ‘ 73 era in vigore l’accordo con il Fronte, come con altre organizzazioni palestinesi, che avrebbe dovuto mettere Saleh al riparo da ogni rischio d’arresto. Il colonnello aveva capito al volo che, con tre autonomi italiani di mezzo e nel clima dell’epoca, ottenere la scarcerazione del palestinese sarebbe stato molto difficile. Era ben consapevole di quanta irritazione ciò avrebbe comportato nei vertici dell’Fplp, allora fortemente influenzato dalla Libia, e quanto fosse di conseguenza alto il rischio di una reazione violenta. Pochi giorni dopo gli arresti, Giovannone accenna, nelle informative ancora secretate, a una lettera inviata al premier italiano Cossiga da Arafat, evidentemente preoccupatissimo per i sospetti di collusione tra palestinesi e terrorismo italiano. Nella lettera, mai consegnata a Cossiga per l’intervento del responsabile dell’Olp in Italia Nemer Hammad, Arafat attribuiva alla Libia ogni responsabilità per il trasporto dei lanciamissili. In dicembre Giovannone accenna per la prima volta a una divisione tra falchi e colombe ai vertici dell’Fplp e del conseguente rischio di dure rappresaglie ove l’Italia non mantenesse i propri impegni con il Fronte. In concreto, senza la liberazione di Saleh e la restituzione dei lanciamissili. Il colonnello torna a registrare la possibilità di rappresaglie e di iniziative punitive nei confronti dell’Italia nei primi mesi del 1980, dopo che il 25 gennaio tutti gli imputati erano stati condannati in primo grado a sette anni. In aprile Giovannone riporta le preoccupazioni dello stesso leader dell’Fplp George Habbash, che si dice pressato dall’ala estremista del Fronte favorevole alla rappresaglia. Nella stessa occasione il responsabile dei servizi segreti italiani in Medio Oriente specifica che l’eventuale attentato sarebbe commissionato a un’organizzazione esterna all’Olp, quella di Carlos con il quale, aggiunge Giovannone, l’area dura dell’Fplp ha appena preso contatti. L’esecuzione, prosegue la nota, sarebbe probabilmente affidata a elementi europei, per non ostacolare il lavoro diplomatico in vista del riconoscimento dell’Olp da parte dell’Italia. In maggio Giovannone cita apertamente un ultimatum, con scadenza il 16 maggio, dopo il quale la maggioranza sia dei vertici che della base del Fronte è favorevole a riprendere la piena libertà d’azione in Italia, se nel frattempo non ci sarà stata la liberazione di Saleh. Il colonnello afferma anche che, secondo le sue fonti, a premere per un’azione violenta è la Libia, principale sostegno del Fronte ma che, in ogni caso, nulla succederà prima della fine di maggio. La fase più pericolosa è invece considerata l’avvio del processo d’appello, il 2 luglio. Nelle settimane seguenti il governo italiano fa sapere di essere pronto a prendere in considerazione la condizione di Saleh, ma non quella dei tre autonomi italiani, e di essere disponibile a indennizzare i palestinesi per i due lanciamissili sequestrati. Il 29 maggio però la Corte d’Appello dell’Aquila respinge la richiesta di scarcerazione di Saleh e le fonti di Giovannone alludono a due possibili ritorsioni: un dirottamento aereo oppure l’occupazione di un’ambasciata. Ma è lo stesso capocentro del Sismi, in giugno, a sottolineare che gli siano stati segnalati obiettivi falsi allo scopo di coprire quelli e a ipotizzare un attentato “suggerito” dalla Libia all’Fplp ma non rivendicato per evitare di creare problemi all’Olp. L’ultimo appunto è di fine giugno. Giovannone dice di essere stato informato sulla scelta del Fronte di riprendere a muoversi in piena libertà, cioè senza più offrire le garanzie previste dal Lodo Moro e afferma di aspettarsi «reazioni particolarmente gravi» se l’appello non rovescerà la sentenza di condanna. Il processo però viene subito rinviato fino a ottobre. Le comunicazioni di Giovannone si fermano qui, ma l’11 luglio il direttore dell’Ucigos prefetto Gaspare De Francisci mette in allarme con una nota riservata il direttore del Sisde Giulio Grassini in merito a possibili ritorsioni da parte dell’Fplp. Né l’informativa di Giovannone né i molti altri elementi che potrebbero indicare una pista libicopalestinese per la strage sono tali da permettere di arrivare a conclusioni credibili, come troppo spesso ha cercato di fare negli ultimi anni uno stuolo di investigatori dilettanti. Ma il punto non è sostituirsi agli inquirenti. È, più semplicemente, chiedersi perché, che, con elementi simili a disposizione, gli investigatori abbiano deciso, sin dalle prime ore dopo l’attentato, di seguire tutt’altra pista.
Quegli ipocriti perbenisti dell’Lgbt. Demonizzano D&G, ma restano in silenzio sui gay uccisi dall’Is, scrive Giulio Meotti il 16 Marzo 2015 su “Il Foglio”. Nulla hanno mai detto sugli omosessuali palestinesi, tutti fuggiti in Israele per non finire spellati vivi sotto il regime di Arafat e Abu Mazen, per non parlare di Hamas. Non soltanto il mondo Lgbt si è voltato dall’altra parte, ma ha pure accettato, senza soprassalto di dignità, accecato com’è, che il Gay Pride di Madrid boicottasse gli omosessuali israeliani. Nulla, ma proprio nulla, l’Lgbt ha detto negli anni Novanta mentre in Algeria i fondamentalisti islamici annunciavano come avrebbero risolto la questione gay: “Nella lotta contro il male abbiamo il dovere di eliminare gli omosessuali e le donne depravate”. Nulla o quasi ha detto contro Mahmoud Ahmadinejad, il presidente iraniano che qualche anno fa, oltre alle camere a gas, negò l’esistenza di gay nella Repubblica islamica? Va da sé che adesso i capi Lgbt stiano in silenzio, mentre lo Stato islamico getta dai palazzi di Siria e Iraq i reprobi omosessuali, bendati, uno dopo l’altro, per un “peccato” da mondare con la morte, e le pietre della folla. Non uno striscione, non un appello, non una campagna che provenga dal mondo della militanza gay. Due giorni fa, il più noto editorialista australiano, Andrew Bolt, si è chiesto perché non c’erano barche contro l’Is alla fiera di Sydney dell’orgoglio gay friendly. Non una barca su centocinquanta. Opinionisti gay spesso accusano gli “islamofobi” di voler dividere mondo islamico e omosessuali. Come ha fatto Chris Stedman su Salon: “Stop trying to split gays and Muslims”. In questi giorni invece si sono tutti scatenati – a cominciare da Elton John, e poi via via altre celebrities – contro Dolce e Gabbana, il due fondatori della casa di moda italiana, rei di credere alla famiglia tradizionale e che i figli non si fabbricano in provetta. “Filthy”, lercio, osceno, schifoso, è l’aggettivo più usato su twitter contro i due stilisti italiani da parte della comunità gay nel mondo, che adesso annuncia il boicottaggio. La rappresaglia economica ha già funzionato contro Barilla e Mozilla, i cui capi erano stati accusati di “omofobia” e poi costretti a umilianti scuse pubbliche. E la rappresaglia funzionerebbe se volessero davvero attirare l’attenzione del mondo su quei regimi arabo-islamici dove gli omosessuali sono davvero discriminati, altro che in occidente. Eppure ipocrisia e silenzio annebbiano l’Lgbt. Mai una volta che denuncino i versetti della Sunna, che assieme al Corano compone la legge islamica, e in cui degli omosessuali si dice: “Quando un uomo cavalca un altro uomo, il trono di Dio trema. Uccidete l’uomo che lo fa e quello che se lo fa fare”. Qualche giorno fa il settimanale inglese Spectator ha sintetizzato l’indulgenza Lgbt: “Perché la battaglia per i diritti gay si ferma ai confini dell’islam”. Non è che il diritto alla vita di un gay è meno importante del diritto di Elton John ad avere un bambino? Non è che sputare contro Dolce e Gabbana renda perfino, in termini di probità morale, mentre denunciare i fanatici islamici può costare la testa e allora è meglio glissare? Perbenisti.
QUELL'ESKIMO IN REDAZIONE.
Anni di piombo: i giornalisti e le Brigate Rosse, scrive "Cultura.biografieonline.it".
I giornalisti nel mirino delle Br. A partire dal 1977 anche i giornalisti entrano nel mirino dei terroristi rossi (Brigate Rosse). Tra il primo e il 3 giugno, tre direttori vengono gambizzati a Genova, Milano e Roma. Si tratta di Vittorio Bruno de “Il Secolo XIX”, Indro Montanelli de “Il Giornale” e Emilio Rossi del “Tg1”. Lo scopo è quello di intimorire il mondo giornalistico. Nei mesi di luglio e settembre vengono feriti altri giornalisti e a novembre i brigatisti alzano il tiro sparando a Carlo Casalegno, vice direttore de “La Stampa”, che muore dopo tredici giorni.
L’agguato di Carlo Casalegno. È il 16 novembre del 1977 quando Carlo Casalegno viene ferito dalle Brigate Rosse a Torino. Colpito con quattro pallottole alla testa, rimane vivo per 13 giorni ricoverato in terapia intensiva presso l’ospedale Le Molinette. Muore il 29 novembre, dopo vari giorni di agonia. Casalegno Aveva ricevuto minacce, una bomba era arrivata al giornale, da alcuni giorni era scortato. Quel giorno un improvviso mal di denti lo costringe ad andare dal dentista: è senza scorta. Quando arriva a casa, ad attenderlo nell’androne trova gli assassini, che gli sparano a bruciapelo.
1980, la Brigata 28 marzo: ancora attentati. Il terrorismo si scatena di nuovo contro i giornalisti nel 1980. La Brigata 28 marzo, gruppo terroristico di estrema sinistra, ferisce a Milano Guido Passalacqua inviato di “Repubblica”. A maggio uccide Walter Tobagi, giovane inviato del “Corriere della Sera”. È un delitto feroce e assurdo che desta sospetti perché il volantino di rivendicazione appare scritto da persone che hanno una buona conoscenza del mondo del giornalismo milanese. Per i socialisti i mandanti vanno cercati in via Solferino, sede del Corriere. I processi contro Marco Barbone e i suoi compagni dimostrano l’infondatezza di questi sospetti.
Il delitto di Walter Tobagi. È il 28 maggio 1980 quando, poco prima delle 11, il giornalista esce di casa e si reca verso via Salaino, dove ha lasciato l’auto in un garage. Viene affiancato da due giovani armati: sparano, Tobagi cade a terra, vicino al marciapiede. Si saprà poi che all’agguato partecipano sei giovani: Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus e Manfredi De Stefano. A sparare il colpo mortale è Marco Barbone.
Chi è Marco Barbone. All’epoca dei fatti Barbone ha 22 anni. E’ esponente della Milano “bene”, leader dell’organizzazione terroristica di estrema sinistra, chiamata “Brigata 28 marzo”. Nata a Milano nel maggio del 1980 con lo scopo di lottare e contrastare il mondo dei media, in particolare i giornalisti della carta stampata.
Il sequestro Aldo Moro. I problemi più complessi sorgono dall’evento cruciale: il sequestro di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La notizia del sequestro e del massacro della scorta viene diffusa la mattina del 16 marzo 1978 dalla radio, dalla televisione e dalle edizioni straordinarie di molti quotidiani. Nel corso della prigionia, i servizi segreti non riescono a trovare Moro. Nasce il dibattito, in Italia, tra chi sostiene la necessità di trattare con le Brigate Rosse e chi, al contrario, rifiuta ogni compromesso. Così lo Stato non tratta: il 9 maggio del 1978 il cadavere del presidente della Dc viene ritrovato all’interno di una Renault 4, a Roma, in via Michelangelo Caetani.
1980: Le Br sfidano i giornali. Alla fine del 1980 le Br sfidano direttamente i giornali. Per rilasciare il magistrato Giovanni D’Urso chiedono che vengano pubblicati i proclami dei loro compagni incarcerati a Trani e a decidere se accettare o meno devono essere i giornali. La maggior parte delle testate respinge il ricatto, mentre pubblicano i proclami “Il Messaggero”, “Il Secolo XIX”, “L’Avanti!”, “Il Manifesto” e “Lotta continua”. Il “Corriere della Sera” decide di adottare il “completo silenzio stampa” e quindi di non dare neppure notizie riguardanti il terrorismo. Gli altri quotidiani del gruppo devono adottare la stessa linea. Nel 1982, subito dopo la pubblicazione dei documenti brigatisti e la chiusura del supercarcere dell’Asinara, i terroristi rilasciano il magistrato.
Così i giornalisti chiusero gli occhi sulle Brigate rosse. Negli anni '70 i quotidiani ignorarono i terroristi. Per preconcetto ideologico, scrive Michele Brambilla, Martedì 17/07/2018, su "Il Giornale". Il Giorno, quotidiano di proprietà pubblica, il 23 febbraio del 1975 sentì il dovere di dare ai suoi lettori la chiave di lettura di un fenomeno che stava diventando sempre più inquietante: le Brigate Rosse. Per farlo, impegnò una delle sue firme più prestigiose: quella di Giorgio Bocca. L'articolo, a pagina 5, aveva un titolo che non lasciava spazio a equivoci: «L'eterna favola delle Brigate Rosse». «A me queste Brigate Rosse», scriveva Bocca, «fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali dei Cc e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un'ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla». Purtroppo, quella delle Br non era una favola. Non interessava solo i bambini scemi o insonnoliti. Non faceva per nulla tenerezza e, soprattutto, non era una storia «vecchia, sgangherata, puerile». Nel momento in cui Bocca scriveva quel pezzo, le Br avevano già compiuto una serie di azioni delle quali gli italiani erano venuti a conoscenza non leggendo libri di fiabe, ma la cronaca nera dei giornali. La prima impresa brigatista risaliva addirittura a cinque anni prima: il 17 settembre 1970 era stato incendiato il garage di un dirigente della Sit Siemens di Milano. Una cosa da ridere, in confronto alla vera guerriglia rivoluzionaria. Ma da quel momento era cominciata una paurosa escalation. Il 3 marzo del 1972, sempre a Milano, era stato rapito il dirigente della Siemens Idalgo Macchiarini; il 12 febbraio del '73 altro sequestro: a Torino, del sindacalista della Cisnal Bruno Labate; il 10 dicembre 1973 ancora un rapimento, quello a Torino di Ettore Amerio, capo del personale del settore auto della Fiat. A conferma che di un'escalation si trattava, e quindi che i bersagli delle Br erano sempre più importanti e difficili da colpire, il 18 aprile del 1974 era stato sequestrato a Genova, e poi a lungo tenuto prigioniero e «processato», il sostituto procuratore della Repubblica Mario Sossi, un magistrato cattolico osservante, considerato dalla sinistra un duro, un intransigente, un conservatore. Insomma, un reazionario. E a conferma che, nel momento in cui veniva pubblicato il pezzo di Bocca, le Brigate Rosse avevano già fatto capire di non scherzare, il 17 giugno '74 c'era stato il duplice omicidio, a Padova, di due aderenti al Movimento Sociale Italiano: Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci. E il 16 ottobre dello stesso anno 1974, a Robbiano di Mediglia, il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano era rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con dei brigatisti. Nel frattempo (9 settembre '74) erano stati arrestati a Pinerolo due capi storici delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Il 20 febbraio '75, cioè tre giorni prima dell'apparizione sul Giorno dell'«eterna favola delle Brigate Rosse», un commando di questa formazione che secondo alcuni non esisteva neppure era riuscito a far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale Monferrato. Com'era dunque possibile che, nonostante tre omicidi, quattro sequestri e un'evasione, Giorgio Bocca scrivesse in quei termini delle Brigate Rosse? C'erano fatti che non potevano essere ignorati. Ma la risposta è contenuta nello stesso articolo «L'eterna favola delle Brigate Rosse». Giorgio Bocca spiegava che le prove raccolte su questi tupamaros italiani erano talmente ridicole da non poter essere prese sul serio: «Questi brigatisti rossi», si legge in quell'articolo, «hanno un loro cupio dissolvi, vogliono essere incriminati a ogni costo, conservano i loro covi, le prove di accusa come dei cimeli, come dei musei. Sull'auto di Curcio, al momento dell'arresto, vengono trovati dei documenti, delle cartine; in un covo, intatto, c'è, si dice, la cella in legno in cui era prigioniero Sossi... E, naturalmente, bandiere con stelle a punte irregolari». (...)
Giorgio Bocca faceva notare, sempre in quell'articolo, che ai magistrati e alla polizia aveva «fatto parecchie pubbliche domande sulle incongruenze, quasi divertenti, di questi guerriglieri, senza ricevere né sdegnate smentite né spiegazioni convincenti». E allora, che cos'erano queste Br? «Una cosa è certa», scriveva Bocca, «le vigilie elettorali hanno per queste Brigate Rosse un effetto da flauto magico, due o tre note e saltano fuori nello stesso modo rocambolesco in cui sono scomparse». Il pezzo, come un processo, finiva con un verdetto: «Questa storia è penosa al punto da dimostrare il falso, il marcio che ci sta dietro: perché nessun militante di sinistra si comporterebbe, per libera scelta, in modo da rovesciare tanto ridicolo sulla sinistra». Questo si leggeva, nel 1975, su un giornale considerato «borghese». Anni dopo, Giorgio Bocca fece pubblica autocritica, ammettendo di «non aver capito niente» del terrorismo rosso. Ma va detto che sia lui personalmente, sia Il Giorno non erano certo eccezioni nel panorama della stampa italiana. Erano anzi la regola. Da quando le bombe, gli omicidi, gli attentati, gli scontri di piazza avevano avvelenato la politica e non solo la politica del Paese, i mass media erano entrati in un tunnel.
Giugno 1977: la campagna Br contro i giornalisti e il black out su Montanelli, scrive il 2 giugno 2018 Ugo Maria Tassinari.
1 giugno 1977 Genova. Vittorio Bruno, vice direttore del Secolo XIX di Genova viene ferito alle gambe da un giovane armato di pistola. L’attentato avviene vicino all’ingresso della tipografia. Le Br rivendicano l’attentato con un volantino in cui dichiarano guerra a tutta la stampa.
2 giugno 1977 Milano. Indro Montanelli, direttore del Giornale Nuovo, viene colpito alle gambe da un uomo armato di pistola con silenziatore. L ‘attentatore e un suo complice raggiungono una macchina che li attendeva e fuggono. L’attentato è rivendicato con una telefonata al Corriere d’Informazione dal “gruppo Walter Alasia” delle Br.
3 giugno 1977 Roma. Emilio Rossi, direttore del TG l, viene colpito da due giovani, un uomo ed una donna armati di pistola. L ‘attentato avviene in via Teulada a pochi metri dalla sede Rai di Roma. I due giovani dopo aver sparato si allontanano a piedi con un terzo complice. L’attentato è rivendicato con un volantino fatto pervenire all’ANSA e al Messaggero dalle Br. Nel volantino Rossi viene definito “direttore del più grande giornale di regime”. Così, in rapida successione, si dispiega la campagna brigatista contro la “stampa di regime”, con gli attacchi eseguite da tre delle principali colonne della Br. Mancano soltanto i torinesi. A perenne vergogna, invece, della stessa stampa la vergognosa scelta di “oscurare” il fatto che una delle vittime era il più noto e prestigioso giornalista italiano, Indro Montanelli, all’epoca protagonista di una “scissione da destra” del Corriere della Sera per fondare il Giornale, organo di battaglia anticomunista ben prima che divenisse proprietà di Berlusconi. Non solo il Corriere della Sera (in basso), che aveva dirette ragioni di bottega, ma anche numerosi altri quotidiani. Tra questi la Stampa (a sinistra) che il 3 giugno fa (del tutto volontariamente) un clamoroso “errore”, titolando in prima pagina sul ferimento di due direttori (Bruno e Montanelli) sull’articolo da Milano sulla gambizzazione del secondo, mentre il primo è stato ferito l’1 e in pagina c’è un altro articolo sugli sviluppi delle indagini. Viola così una regola ferrea: non si titola su elementi che non sono presenti nell’articolo. Fedele al suo personaggio di feroce anticomunista (all’epoca) non farà la mattina per poi avviare un dialogo umano con il leader delle Br che gli aveva sparato alle gambe, Franco Bonisoli.
Ugo Tognazzi è il Capo delle BR, scrive il 13 maggio 2011 Pier Luca Santoro su mediahub.it. "Il Male" è stata una rivista satirica di grande successo in Italia. Edita tra il 1978 ed il 1982 con cadenza settimanale è stata diretta anche da Vincenzo Sparagna poi co-fondatore di Frigidaire. Uno dei motivi di successo della pubblicazione si legava al filone di falsificare le prime pagine dei principali quotidiani italiani. Il paginone centrale, mascherato da un qualsiasi quotidiano nazionale, diventava la prima pagina del Male, dalla finta prima di Repubblica che annunciava a caratteri cubitali "Lo stato si è estinto" al Corriere dello Sport" che riportava l'annullamento dei mondiali del '78, passando per l'annuncio dell'avvenuta invasione aliena del Corsera. E' ancora molto vivo nella mia mente il ricordo di come mi divertissi all'epoca, mentre andavo al liceo in autobus, ad esibire le diverse versioni per poi spiare di nascosto le facce, le reazioni degli altri passeggeri. Come noto, erano quelli, anche, "anni bui", un periodo difficile della storia della nostra nazione caratterizzato dal fenomeno del terrorismo. Una delle versioni che ebbe maggior successo fu l'annuncio, in tre versioni diverse che riproducevano la prima pagina del Giorno, della Stampa e di Paese Sera, dell'arresto di Ugo Tognazzi identificato come il capo delle Brigate Rosse.
Dall'eskimo al burqa (in redazione). Così il buio della ragione contraddistingue i nostri intellettuali e la nostra cultura, scrive Nicola Porro Domenica 27/03/2016, su "Il Giornale". C'è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni '70, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo accanto a loro. Scritto nel '91, per le edizioni Ares, da Michele Brambilla, si intitola L'eskimo in redazione. Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Uno contingente: anche oggi siamo immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due balle, viene trattato come un paria. E infine c'è una ragione più storica: occorre conoscere il livello di cialtronaggine che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Che poi sono gli stessi che si sono fatti establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi una caterva. D'altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico più ridicolo del secolo: i fatti separati dalle opinioni. Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Quello di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l'orrore per cui nei giornalisti degli anni '70 l'ideologia veniva prima della cronaca. L'orrore per cui campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. L'orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. L'orrore per cui, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po', ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate Rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L'orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata...), la quale nel '72 aveva il coraggio di scrivere sull'Espresso: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». E aggiungeva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti lo sapevano anche allora), da un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era piuttosto la maggioranza degli intellettuali dell'epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d'onore nella nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura.
L’eskimo in redazione, i bei giornali di una volta, scrive il 6 marzo 2016 Stefano Olivari su "L'Indiscreto.info". La fusione Repubblica-Stampa-Secolo-eccetera già definita e quella Corriere della Sera-Sole 24 Ore scenario credibile hanno già scatenato i rimpianti per il presunto bel giornalismo di una volta, quello che mai si sarebbe conformato al pensiero unico. Leggendo a distanza di oltre quarto di secolo L’Eskimo in redazione – Quando le Brigate Rosse erano ‘sedicenti’ viene qualche dubbio, perché Michele Brambilla già nel 1990 ebbe il merito di analizzare gli anni di piombo, non ancora storicizzati perché molti dei suoi protagonisti erano ancora in pista, dal punto di vista di chi li avrebbe dovuti raccontare ai lettori. I giornalisti, insomma. Un libro che suo tempo generò fortissime polemiche, dovute alla cattiva coscienza di una stampa che aveva sottovalutato i pericoli del terrorismo rosso continuando a sostenere la tesi che si trattasse di operazioni portate avanti da fascisti mascherati, al soldo della CIA o di indefinibili poteri forti. Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, si muove su più fronti. Il primo è proprio quello della paternità dei crimini, anche quando chi li aveva commessi li rivendicava con orgoglio e la sua storia politica era evidente. Così per anni, fino a quasi il sequestro Moro, le Brigate Rosse quando venivano nominate erano accompagnate nell’articolo dall’aggettivo ‘sedicenti’. Le sedicenti Brigate Rosse, così come sedicenti erano altri gruppi della stessa area, altro non sarebbero stati che gruppi di destra diretti astutamente dalle forze della reazione: questo si leggeva sul Corriere della Sera e su altri grandi giornali nazionali, con la ovvia eccezione del Giornale che nel 1974 Indro Montanelli fondò proprio per sfuggire al pensiero unico e perché non si riconosceva più nel Corriere di Piero Ottone. Il secondo fronte su cui si muove Brambilla è quello del doppiopesismo. L’attentato rivendicato dal neofascista è indubbiamente opera sua, quello del brigatista una manovra per influire sul voto popolare ed impedire l’arrivo del PCI al governo. Questi della maggioranza silenziosa e della CIA però avevano sbagliato i calcoli, visto che alle Politiche del 1976 il partito allora guidato da Enrico Berlinguer toccò il suo massimo storico superando il 34% dei voti. Il doppiopesismo si applica anche alle vittime: quella di destra è uno che in qualche modo se l’è cercata (esempio classico Sergio Ramelli, iscritto al Fronte della Gioventù ma non certo un attivista) mentre quello di sinistra è la vittima di uno Stato reazionario. E qui si arriva ai tanti uomini dello Stato maltrattati anche dai giornali cosiddetti borghesi, quelli con lettori che istintivamente avevano più fiducia nel prefetto Mazza che in Sofri. Il caso Calabresi è da manuale, con una campagna di odio senza precedenti che non fu soltanto di Lotta Continua (tra i tanti firmatari del documento dell’Espresso in cui veniva definito ‘commissario torturatore’ svettavano Eco, Fellini, Bobbio, Guttuso, Scalfari, Bocca, Moravia…) e che terminò con l’assassinio di Calabresi, ma anche i magistrati capaci di mantenere equilibrio (fra questi Gerardo D’Ambrosio) venivano giudicati con sospetto perché facevano il gioco del ‘nemico’. Brambilla mette insieme verità giudiziarie, semplice logica e articoli dell’epoca, in un affresco che sarebbe esilarante se non fosse popolato di morti e di violenza ideologica. Non classificabile il Corriere della Sera che non comprò la foto più famosa degli anni di piombo (quella scattata in via De Amicis, a Milano, durante gli scontri in cui fu ucciso il vicebrigadiere Antonio Custra) e che non mise il nome di Montanelli (non ancora icona anti-berlusconiana) nel titolo dell’articolo sulla sua gambizzazione, imbarazzanti le tante ipotesi fatte sulle morti di Pasolini e Feltrinelli (con la scomparsa del ‘Se la sono cercata’), di assoluto culto gli articoli che mettevano in relazione la strage dei Graneris (storia con cui Vespa oggi farebbe 1.200 puntate di Porta a Porta), assimilabile per certi versi alla vicenda di Pietro Maso, con una vendetta contro partigiani comunisti. Solo in pochi, non a caso i più grandi (su tutti Bocca), seppero poi fare autocritica, ma in generale davanti all’evidenza dei fatti si preferì la notizia asettica o il silenzio. Insomma, nemmeno editori diversi possono fare più di tanto contro il pensiero unico, che a prescindere dalla realtà ha già i suoi buoni e i suoi cattivi. La forza di questo libro, per niente datato nonostante abbia ormai più di 25 anni, è proprio questa: il pensiero unico non è una tavola di leggi imposte da un grande vecchio, ma un conformismo a cui quasi tutti si adeguano per pigrizia e soprattutto convenienza. L’abbiamo visto applicato al terrorismo di sinistra come all’europeismo, al liberismo come all’immigrazione, a seconda dei periodi, con una ‘linea’ a cui la maggioranza si adegua perdendo ogni capacità critica e svegliandosi troppo tardi. Ma qui già stiamo andando sui massimi sistemi, dimenticando una questione mai davvero analizzata: l’intolleranza quasi genetica della sinistra (e non parliamo di terrorismo o violenza fisica) nei confronti di chi la pensa diversamente, che non si esprime con la spranga ma in maniere molto più sottili e durature.
Quell’eskimo in redazione che fa ancora vergognare. Esclusiva intervista a Michele Brambilla: il mea culpa mancato dei giornalisti italiani sugli anni di piombo, scrive il 13 giugno 2018 Frediano Finucci su "Informazionesenzafiltro.it". Il mea culpa è una pratica a cui i giornalisti italiani sono da sempre poco avvezzi. Non tiriamo in ballo la legge sulla Stampa e l’obbligo della rettifica per chi è oggetto di notizie false o imprecise: chi l’ha vissuto sulla propria pelle sa quanto sia difficile – se non impossibile – ottenere la pubblicazione di una rettifica, su di un giornale o un notiziario, con la stessa evidenza della notizia da rettificare. Figuriamoci poi sul Web. Sull’argomento “mea culpa e stampa” esiste però un caso editoriale sul quale da decenni, nel mondo del giornalismo italiano, si discute di malavoglia e sottovoce, come si fa nelle famiglie per il caso di un parente che ha dato scandalo e delle cui malefatte tutti sono al corrente. Protagonista è il giornalista Michele Brambilla, attuale direttore della Gazzetta di Parma, per decenni inviato del Corriere della Sera e de La Stampa, già vicedirettore de Il Giornale e di Libero. Brambilla nel 1990 ha scritto un libro molto documentato, L’eskimo in redazione, nel quale dimostra come la quasi la totalità della stampa italiana negli anni ’70 abbia fatto di tutto per negare l’esistenza delle Brigate Rosse e per dare la colpa a elementi neofascisti di gravissimi fatti di cronaca nera che in realtà non avevano alcuna connotazione politica. Una tesi semplice ma dirompente che torna d’attualità oggi, nel quarantennale dall’assassinio di Aldo Moro.
Dopo l’uscita del tuo libro quanti giornalisti hanno fatto mea culpa per avere negato l’esistenza delle BR?
«Alcuni, anche se non subito. Giorgio Bocca fu uno dei primi a farlo, e in tempi non sospetti, quando scusarsi non era di moda. Nel corso degli anni Paolo Mieli ed Eugenio Scalfari hanno riconosciuto di avere sbagliato: qua mi riferisco a una delle nefandezze legate a quegli anni, vale a dire l’incitamento della stampa all’odio verso il commissario di polizia Luigi Calabresi con il famoso documento pubblicato sull’Espresso nel giugno 1971, dove più di 800 esponenti del mondo culturale e giornalistico accusavano il commissario della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Nel complesso però sono stati pochi quelli che hanno fatto pubblica ammenda. Uno dei primi fu certamente Giampaolo Pansa che, pur essendo di sinistra, tra l’altro non aveva di che pentirsi avendo sempre fatto un tipo di giornalismo corretto. Il mondo che non si è mai pentito è quello che ad esempio gravitava intorno a Dario Fo, che continuava a sostenere che Calabresi era un poco di buono».
Chi non ha fatto mea culpa, secondo te, non l’ha fatto per quale motivo?
«Direi essenzialmente per orgoglio e ideologia. Nel primo caso perché se per un essere umano è difficile dire “ho sbagliato”, lo è di più per un giornalista. Nel secondo caso, ovvero l’ideologia, perché negare l’esistenza di un terrorismo rosso ancora oggi vuol dire affermare che la Sinistra era (ed è) esente dal peccato originale della violenza, perché sta sempre dalla parte degli ultimi e dei poveri. Non si vuole ammettere insomma la possibilità che anche da sinistra possa venire violenza, il che storicamente è successo – e non solo in Italia, intendiamoci. Per questo ancora oggi quando si parla delle BR c’è sempre dietro un complotto, delle macchinazioni del potere: si sostiene che le bombe furono solo fasciste, che non furono i brigatisti a rapire Moro, anzi: furono manovrati. Ma per queste affermazioni non ci sono prove».
Qual è stato il mea culpa più sincero da parte di un collega?
«Difficile dirlo ma per farti capire il clima – e non solo di allora – che persiste nella categoria, ti racconto un episodio. Nel 2012 scrivevo per La Stampa e fui inviato in un cinema romano a vedere l’anteprima per i giornalisti del film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage, sulla bomba di piazza Fontana e i fatti che ne seguirono. Valerio Mastandrea interpretava il commissario Calabresi, dipinto come una figura positiva, un giovane poliziotto schiacciato da vicende più grandi di lui, rispettoso degli indagati durante gli interrogatori; soprattutto – come emerge dalla verità storica – si precisava che il commissario non si trovava nella stanza della Questura di Milano dalla cui finestra l’anarchico Pinelli volò giù, morendo. Al termine della proiezione, quando si riaccesero le luci, in sala calò il gelo: nessuno dei giornalisti applaudì e dai commenti si capiva che i presenti si aspettavano da un regista apertamente di sinistra come Giordana tutto meno che la riabilitazione di Calabresi. Andai subito a parlare con Giordana riferendogli delle perplessità dei colleghi e lui rispose: “quando ero militante di sinistra fui arrestato e interrogato da Calabresi il quale fu di una correttezza esemplare, un poliziotto che si sforzava di capire le rimostranze di una generazione”. Morale: Per i giornalisti italiani a partire dagli anni ’70 Calabresi fu un capro espiatorio, e quando una categoria fa una scelta del genere poi è difficile tornare indietro».
C’è stato qualche collega che dopo aver letto il libro ti ha detto in privato che avevi ragione, ma poi non ha fatto scuse pubbliche?
«Ti rispondo ancora una volta con un episodio. Il mio libro è stato pubblicato da quattro editori e ha avuto una quindicina di ristampe. Quando uscì, nel 1990, lavoravo al Corriere della Sera, e con l’eccezione de La Repubblica L’eskimo in redazione fu recensito da tutti i giornali italiani. Allora al Corriere il direttore era Ugo Stille e tra i vicedirettori c’era un gentiluomo piemontese che si chiamava Tino Neirotti, che mi disse: “hai fatto un libro bellissimo, ora dico ai colleghi della Cultura di scrivere una recensione”. Nessun giornalista però si dichiarò disposto a farlo: nessuno voleva “sporcarsi le mani”. Allora Neirotti mi disse: “Michele, scrivi tu una scheda di sessanta righe sul tuo libro, non firmarla e a lato mettiamo un pezzo di Giuliano Zincone che secondo me qualche riflessione sul tema la fa volentieri”. Ebbene, una volta scritta la scheda, da sessanta righe previste diventò una segnalazione di una riga e mezzo con accanto il pezzo di Zincone che mi stroncava. Questo per dirti che persino un vicedirettore non era riuscito non dico a far pubblicare un’autocritica, ma nemmeno a garantire una parità di dibattito. E questo, credimi, lo dico con dolore profondo, perché il Corriere è un pezzo della mia vita».
In occasione del quarantennale della morte di Moro la stampa italiana ha affrontato anche il tema della negazione delle BR da parte dei giornali di cui parli nel libro?
«Alcuni l’hanno fatto: Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, demolendo la riproposizione del cosiddetto “mistero del caso Moro”, e anche sul Post di Luca Sofri sono apparsi articoli che smontavano le tesi complottistiche sull’eccidio di via Fani. Nonostante questo ancora oggi si vuol far credere che non ci sia stato un terrorismo di sinistra. Proviamo a riflettere: i “bombaroli” neri degli anni ’70, quelli davvero coperti da alcuni elementi dei Servizi segreti italiani, sono stati fatti scappare all’estero o messi in condizione di essere assolti nei processi. I rapitori di Moro hanno passato 20/30 anni in galera: se davvero fossero stati collaboratori di Servizi italiani o esteri questi li avrebbero fatti scappare, assolti o al limite uccisi. Che interesse avrebbero i brigatisti a negare ancora oggi di essere stati manovrati?»
Dopo gli anni del terrorismo, a tuo parere, ci sono stati nella stampa italiana episodi di conformismo estremo, di miopia giornalistica analoghi a quelli che racconti nel libro?
«Si. Uno è stato la prima fase di Mani Pulite che ho seguito sin dall’arresto di Mario Chiesa. Di nuovo: non credo che dietro lo scoppio di Tangentopoli ci sia stato un complotto di chissà chi. Tutto nacque dalla grande abilità di Antonio di Pietro – forse più bravo come poliziotto che come magistrato – a trovare le prove della corruzione dei politici. Allora montò un’indignazione popolare verso i politici corrotti, e all’inizio fu giusto per la stampa italiana appoggiare le inchieste; dopodiché la cosa sfuggì di mano ai giornalisti. Subito le procure di tutt’Italia cominciarono ad arrestare politici e imprenditori senza avere però le competenze di Di Pietro, e la grande stampa peccò di conformismo appoggiando sempre e comunque i magistrati. Fu allora che nacque l’idea generale che i politici sono tutti corrotti e nel nostro Paese lo sono più che in altri. Il “fa tutto schifo” e il “tutti sono colpevoli” non li ha inventati Beppe Grillo, ma proprio i “giornaloni” verso i quali il comico si accanisce. I pochi che non si accodavano al conformismo verso i magistrati – ad esempio Giuliano Ferrara o Filippo Facci – venivano accusati di essere complici dei ladri. C’è però una grande differenza tra il conformismo totale della stampa negli anni di piombo e quello di Mani Pulite. Nel primo caso – con l’eccezione de Il Giornale di Montanelli – tutti i quotidiani erano concordi nell’esprimere dei dubbi sulla reale esistenza delle Brigate Rosse, che non a caso definivano “sedicenti”; nel caso di Tangentopoli il conformismo si spezzò dopo un paio d’anni quando venne indagato Silvio Berlusconi: allora i giornali e l’opinione pubblica si divisero tra chi lo difendeva a spada tratta e chi invece appoggiava i giudici di Milano. Ora, Berlusconi ha avuto sicuramente dalla sua buona parte dei media di cui è proprietario, ma anche i cronisti di Mani Pulite di allora (molti dei quali hanno fatto autocritica) riconoscono che fu eccessivamente demonizzato, tant’è che oggi nei suoi confronti è in corso, come dire, una sorta di riabilitazione».
L’ESKIMO IN REDAZIONE DI BRAMBILLA. UN IMPORTANTE LIBRO SUL CONFORMISMO. Scrive il 20/11/2015 Stefania Miccolis su "Lamescolanza.com". È difficile essere obiettivi con il libro “L’Eskimo in redazione” di Michele Brambilla. È difficile tenere un distacco adeguato per dare una valutazione a favore o contro, drugstore there soprattutto se si è affetti da una sorta di pregiudizio dovuto a una formazione culturale ben precisa. Ma il libro è certamente di alto interesse e porta a una riflessione profonda, e senza dubbio fa comprendere meglio il clima di quegli anni di piombo, capitolo buio della storia italiana. All’epoca della sua uscita nel 1990 (ristampato varie volte e nel 2010 da ed. Ares), fu recensito da molti quotidiani tranne che dal Corriere della Sera dove Brambilla lavorava, luogo in cui i tanti giornalisti indossavano un Eskimo per coprire i loro cachemire. Fu oggetto di discussione, un testo scomodo per tutta una élite culturale di sinistra. Il titolo del libro che fa riferimento a una canzone di Francesco Guccini diviene un nuovo modo di dire per indicare i “tempi in cui il giornalismo era allineato su posizioni più gruppettare che di sinistra”. Il lavoro di Brambilla si basa su una ricerca accurata, fatta in particolare negli archivi del Corriere della Sera, una carrellata o miscellanea di articoli di giornalisti di prestigio dell’epoca, quelli che Indro Montanelli indica come “l’intellighenzia (inutile aggiungere “di sinistra”: quella di destra non è riconosciuta come intellighenzia)”. Ma questo, tiene a sottolineare lo stesso autore, “lungi dall’essere un libro contro la sinistra, è un libro di denuncia di uno dei vizi mai morti della nostra categoria: il conformismo”: la sinistra negli anni ’70 è la vincente di turno, e sua è l’egemonia culturale. È un “libro-documento” come scrive Indro Montanelli nella prefazione, dove “c’è tutto quello che bisogna sapere” ed è “scritto a futura memoria, nella speranza che la memoria serva a qualcosa”. Vengono raccontati gli anni di piombo, e analizzati alcuni dei casi importanti delle Brigate Rosse. Ne esce un quadro ideologizzato e fazioso: le Brigate Rosse erano le “sedicenti Brigate Rosse”, a detta dei molti giornali borghesi che “per anni hanno fatto intendere agli italiani che quelle formazioni non erano rosse, e quindi erano nere, o peggio ancora al servizio delle istituzioni. Ma il loro programma era quello di aumentare la tensione al punto di scatenare una reazione dei conservatori che avrebbe convinto tutta la sinistra a scendere nelle strade e nelle piazze per dar vita alla guerra civile e instaurare un nuovo regime, marxista”. “Le Brigate Rosse hanno sempre rivendicato le proprie azioni e la propria appartenenza alla sinistra rivoluzionaria”. Si diceva fossero “fascisti mascherati”, e che “di rosso avessero solo il nome” (Sandro Pertini); Biagi, Bocca e molti altri avevano sottovalutato la gravità del loro potere rivoluzionario. Si prendeva in considerazione la “strategia della tensione” che serviva a spostare a destra l’equilibrio politico italiano, mentre “la teoria degli opposti estremismi”, ovvero l’esistenza di due terrorismi, uno rosso e uno nero, era solo un alibi per le forze conservatrici. Un vero coro conformista, solo pochi si distinguevano fra cui Pansa, Tobagi e Montanelli, che si attenevano ai fatti e senza incriminare nessuno aspettavano le sentenze, e comunque condannavano qualsiasi tipo di terrorismo, a destra e a sinistra. Brambilla fa coincidere l’inizio della violenza politica in Italia con la morte, rimasta impunita, il 19 novembre 1969 dell’agente di polizia Annarumma, (questo fu “l’esordio degli scontri di piazza e della guerriglia”), nello scontro a Milano fra estremisti di sinistra e forza pubblica. Nessuno voleva dare la colpa agli estremisti. Poi venne il 12 dicembre del 1970 e il prefetto di Milano Mazza scrisse un rapporto al Ministero degli Interni in cui segnalò la violenza rossa e la violenza nera e per questo non fu mai perdonato dalla sinistra e da allora Mazza venne considerato un ottuso conservatore reazionario. Ecco poi dunque il caso di Giangiacomo Feltrinelli morto perché gli era scoppiata in mano una carica di dinamite per fare saltare un traliccio e provocare il black-out in una zona di Milano. Ma tutti scrissero che Feltrinelli “Il guerrigliero dei Navigli” o “il rivoluzionario dorato” era stato ucciso, che vi era “Il sospetto di una spaventosa messa in scena” che fosse “un delitto”. Solo Montanelli e pochi altri ebbero il coraggio di andare contro a una stampa preconcetta, quella della “verità in tasca” che ingannava i lettori. Montanelli nel 1972 diceva che non c’era nulla da obiettare se fossero ipotesi di una messa in scena e di un delitto, ma “ciò che rifiutiamo è il tentativo di spacciarla come una certezza già acquisita”; “in questa orgia di bombe e incalzare di attentati, in questo macabro carnevale di cadaveri e nella irresponsabile speculazione che si cerca di farne strumentalizzandoli a scopi di parte, l’unica speranza riposa proprio nella pubblica opinione, nella saldezza dei suoi nervi, nell’equilibrio del suo giudizio […] la esortiamo a non credere, per ora, a nessuno”. Altro caso analizzato, il delitto Calabresi, ucciso nel 1972 da due colpi di pistola, “e, ancor prima, da una campagna diffamatoria forse senza precedenti in Italia” dopo la morte nel 1969 di Giuseppe Pinelli. E così venne chiamato il “commissario finestra”. Accusato della morte di Pinelli, diversi furono gli appelli e le lettere aperte, e le adesioni degli uomini di cultura “una delle prove più evidenti del conformismo di allora”. L’autore espone un documento firmato da filosofi, intellettuali, registi cinematografici, storici, giornalisti e pubblicato sull’Espresso il 13 giugno del 1971, in cui Calabresi veniva definito un “commissario torturatore” e il “responsabile della fine di Pinelli”. Questo fa comprendere quanto la cultura italiana, scrive Brambilla, fosse monopolizzata. E neanche dopo la sua morte Calabresi fu lasciato in pace. Sofri riconobbe durante il processo che vi fu una campagna diffamatoria sul giornale di lotta continua sul commissario: “una specie di gusto inerte, diciamo, dell’insulto, del linciaggio, della minaccia, si è impadronito di noi, e non solo di noi”. Indro Montanelli fu “fra i giornalisti che non seguirono l’onda” e lo difese: “Calabresi pagò con la vita la campagna di opinione che lo dipingeva come un brutale torturatore al servizio dei golpisti. Ma nemmeno il suo assassinio turbò i sonni dei suoi accusatori. L’unica loro preoccupazione fu di risolvere in chiave nera anche quel delitto”. Una forte disputa la ebbe con Camilla Cederna; fra i due botta e risposta sui giornali, per Montanelli la Cederna era colpevole di prendere sempre “posizioni preconcette”. Poi ancora si parla dell’attentato a Indro Montanelli “Uno dei clamorosi casi di censura politica attuata dai giornali italiani. “Quando le Br mi spararono alle gambe – dice Montanelli -, i grandi quotidiani non misero neppure il mio nome nel titolo” (tranne Scalfari e Bocca). Infine Brambilla non lascia in disparte neanche il caso di Pier Paolo Pasolini, nulla a che vedere con terrorismo o estremismo, ma “l’appiccicare un’etichetta politica, ovviamente di stampo reazionario, anche a ciò che di politico non aveva alcunché, rientrava nella logica di quegli anni, la logica delle sedicenti Brigate Rosse e delle provocazioni del potere”. Un delitto che poi con l’intervento di Oriana Fallaci, che mai rivelò le sue fonti, diventò delitto politico, addirittura paragonabile al caso di Feltrinelli. Solo la morte di Moro scosse le coscienze, anche se non tutti furono capaci di autocritica. Certo è che alcuni giornalisti riconobbero di avere sottovalutato la violenza delle Brigate Rosse. Per Bocca – La Repubblica, febbraio 1979 – “in quegli anni dal 69 al 72 l’informazione fu travolta da uno spirito fazioso e dalla rivelazione, per molti di noi traumatizzante del “terrorismo di Stato”. “In quegli anni noi cronisti non capimmo niente della sinistra armata”, “perché non si volle dire e capire sin dagli inizi che le Brigate Rosse erano una cosa seria? Noi conosciamo i nostri errori.” E così Walter Tobagi nel 1979 sul Corriere della Sera “…i germi del partito armato c’erano, ed erano espliciti. Solo i pregiudizi ideologici impedivano di rendersene conto”. Montanelli, nella sua acuta, concisa prefazione, ritiene che Brambilla abbia compilato una preziosa “comparsa per il cosiddetto Tribunale della storia”, tribunale del quale non ha molta fiducia, ma certamente chi vorrà ricostruire gli anni di piombo non potrà fare a meno di questo libro.
Ne ammazza più la penna che le BR. «Io non credo che le Brigate Rosse fossero molto lusingate dalla partecipazione, dalla loro parte, degli intellettuali - non credo. Erano gli intellettuali che volevano mettersi – casomai - al sicuro. Gli intellettuali italiani, si ricordi, per nove decimi stanno dalla parte di chi picchia. Mai dalla parte di chi le busca! È sempre stato così» (Indro Montanelli ad Alain Elkann), scrive Valerio Alberto Menga il 26 novembre 2015 su "L'Intellettualedissidente.it". La Repubblica ha dato notizia dell’avvenuto passaggio di direzione del quotidiano da Ezio Mauro a Mario Calabresi. È però noto che tra le firme illustri del sopracitato giornale vi era quella di Adriano Sofri, ritenuto il mandante dell’omicidio del Commissario Luigi Calabresi, padre del neodirettore di Rep. Le due firme avrebbero potuto convivere con ovvie difficoltà. Così Adriano Sofri si è dovuto ritirare. E la cosa ha suscitato molto scalpore. Spieghiamo il perché, ripercorrendo la Storia recente. Milano, 12 dicembre 1969. Ore 16:37. Sette chili di tritolo esplodono all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura sita in Piazza Fontana. 16 morti e 87 feriti. La polizia imbocca subito la pista anarchica. Dopo alcune indagini e interrogazioni ai tassisti che quel giorno hanno portato sul luogo dell’attentato, spunta fuori il nome dell’anarchico Pietro Valpreda, noto per essere un ballerino con inclinazioni “bombarole”, ma solo a parole. Poi, la notte successiva alla strage, si interroga Giuseppe Pinelli, anarchico anche lui. Verrà portato in questura per una serie di lunghi ed estenuanti interrogatori. Tre giorni dopo l’attentato, il 15 dicembre del 1969, Pinelli precipita dal quarto piano dell’aula dell’interrogatorio e si schianta al suolo. Arriverà già morto all’ospedale Fatebenefratelli. Questa è una vicenda a tinte fosche, dai mille risvolti. Sono gli anni della Guerra Fredda. L’Italia ha paura di divenire una repubblica sovietica da una parte, e dall’altra di ritornare alla dittatura nera. Con Piazza Fontana ebbero inizio i tristemente noti “Anni di piombo” e con essi la teoria della “Strategia della tensione”. Una teoria secondo cui uomini di stato, servizi segreti, terroristi rossi e neri avrebbero stretto un patto scellerato, portando la Repubblica Italiana alla sua ora più buia. L’obiettivo supposto? Condizionare l’opinione pubblica italiana, spaventata da una serie di attentati ben orchestrati, affinché la colpa ricadesse sugli “opposti estremi” e i voti confluissero verso il più rassicurante centro democristiano. In seguito alla strana morte dell’anarchico Pinelli il movimento extraparlamentare Lotta Continua indicava il commissario Luigi Calabresi come il responsabile, oltre che esecutore materiale, della morte di Pinelli, avvenuta probabilmente (sempre secondo LC) per un colpo di karate ben assestato. Il 10 giugno 1971 il settimanale L’Espresso pubblicò una lettera aperta sul caso in questione. In questa lettera si formulavano una serie di accuse a persone che avrebbero condizionato il processo in favore del commissario Calabresi, avvalendosi della “indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica”, dando per scontata l’uccisione di Pinelli per mano o responsabilità diretta del commissario Calabresi. La lettera era “rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni” e si chiedeva (leggesi pretendeva) l’allontanamento di costoro dai loro uffici, in quanto si rifiutava di “riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini”. La lettera, partendo da 10 firme iniziali, arrivò, al momento della pubblicazione, al numero di ben 757 personalità di spicco della società italiana, comprendendo la quasi totalità dell’intellighenzia della Sinistra di allora e di oggi, ma non solo. Tra questi nomi si ricordano, in ordine sparso, quelli di: Norberto Bobbio, Umberto Eco, Dario Fo, Franca Rame, Margherita Hack, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari, Inge Feltrinelli, gli Editori Laterza, Giulio Einaudi, Federico Fellini, Paolo Mieli, Tinto Brass, Luigi Comencini, i fratelli Taviani, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Folco Quilici, Carlo Levi, Alberto Moravia, Dacia Maraini, Alberto Bevilacqua, Primo Levi, Giancarlo Pajetta, Furio Colombo, Camilla Cederna, Tiziano Terzani, Toni Negri e i fratelli Carlo e Vittorio Ripa di Meana. (Qui l’elenco completo dei firmatari. Vedere per credere). Il Premio Nobel Dario Fo, in seguito alla firma, ebbe pure la brillante idea di portare in scena lo spettacolo Morte accidentale di un anarchico. In tale spettacolo Calabresi era soprannominato “il Commissario Cavalcioni” a causa della strana usanza da lui praticata nei confronti degli interrogati, messi, appunto, a cavalcioni di una finestra, per poi, ovviamente, farli cadere giù. Nella lunga video-intervista che tenne Alain Elkann con Indro Montanelli negli anni Novanta per la Storia d’Italia, il buon vecchio Indro, ebbe a dire di Calabresi quanto segue: “Se c’era un funzionario corretto e che veniva portato ad esempio da tutti i suoi colleghi questi era Calabresi”. E poi ricordò un piccolo dettaglio: “Calabresi non era in questura nel momento in cui avvenne il fattaccio”. Ma erano anni in cui il vento del conformismo tirava a sinistra e la verità veniva dettata dagli dei del proletariato armato. Quella lettera risuonò come una vera e propria condanna a morte. Tant’è che un anno dopo la sua pubblicazione, Luigi Calabresi verrà freddato dai sicari di Lotta Continua. Giustizia proletaria fu fatta. Era il 17 maggio del 1972. Solo pochi giornalisti italiani non si unirono al coro. Tra loro Giampaolo Pansa (unitosi oggi ad un altro coro), Massimo Fini e il già citato Indro Montanelli. Il caro Indro, a causa della sua dissidenza nei confronti della linea editoriale filobrigatista che il Corriere della Sera pareva aver assunto in quegli anni, lasciò, nauseato, la redazione del giornale ritirando la sua penna. Il 2 giugno 1977, Montanelli fu “gambizzato” da parte delle Brigate Rosse. Ne uscì vivo, con qualche ferita alle gambe. Non si saprà mai chi fu il mandante. Si mormorò però che, come in altri casi analoghi, in qualche salotto-bene della sinistra di allora si brindò all’evento. Sofri, ha ricordato Montanelli, scrisse una lettera alla vedova Calabresi in cui negava di esser stato il mandante dei sicari di suo marito. Si assumeva però, in quell’occasione, la responsabilità per aver contribuito a creare l’atmosfera che condusse all’assassinio del marito. E di ciò le chiese perdono. Venti anni dopo l’omicidio Calabresi, L’Europeo mandò un redattore ad intervistare i firmatari dell’appello di Lotta Continua per rendergliene conto: dissero di non ricordarsene più. Montanelli, nell’intervista con Elkann, ebbe a dire: «Nessuno di loro ha fatto atto di contrizione. Gli unici che lo hanno fatto sono stati quelli che si trovano in galera». Quando si dice: “ne ammazza più la penna”… Oggi, Giampiero Muhgini, insieme a Fulvio Abbate, ha ricordato i fatti narrati alla telecamera di Teledurriti. E bisogna rendergliene atto, dato che Mughini stesso fu uno dei giovani esaltati di Lotta Continua. Ma la sua firma, a quella dannata lettera, non comparve. Per chi avesse l’interesse e il coraggio di ripercorrere quegli anni e quelle vicende, può trovare tutto nel saggio di Michele Brambilla L’eskimo in redazione. Quando le Brigate Rosse erano “sedicenti”.
Quei giornali che negavano le Br. ll nuovo libro del conduttore di Matrix, giornalista liberale, contro i concreti pericoli del pensiero unico, scrive Nicola Porro il 9 Ottobre 2016 su "La Gazzettadiparma.it". C’è un libro che le nuove generazioni, specialmente, dovrebbero leggere. Per la verità è consigliabile anche a quella fascia di ex giovani nati agli inizi degli anni settanta, dunque troppo giovani per sapere cosa stesse succedendo in Italia nei loro primi anni di vita. Scritto nel 1991 da Michele Brambilla, si intitola «L’eskimo in redazione». Varrebbe la pena leggerlo per due ordini di motivi. Il primo è contingente: anche oggi siamo in una situazione paragonabile, immersi in un pensiero unico sul fenomeno del terrorismo islamista. Chi pensa che accoglienza e integrazione siano due etichette vuote, chi ritiene che il fenomeno non derivi da presunte colpe dell’Occidente, chi denuncia la violenza fondamentale di certe interpretazioni, molto diffuse, del Corano, viene trattato come un paria. C’è poi una ragione più storica: occorre conoscere bene il livello di cialtroneria che ha caratterizzato la nostra classe giornalistica e culturale nel ventennio del terrorismo. Uno dei più delicati della nostra breve stagione repubblicana. Che poi sono gli stessi intellettuali che si sono «fatti» establishment spiegando alle nuove generazioni quali errori non fare, proprio loro che ne hanno commessi un’infinità. Criticavano il presunto «regime» di allora per trovare un posto al sole e, quando ci sono riusciti, hanno messo in opera esattamente il medesimo modello di controllo degli spazi culturali che criticavano negli anni settanta. D’altronde era la generazione che inventò lo slogan giornalistico, alla luce di ciò che avvenne, più ridicolo del secolo: «i fatti separati dalle opinioni». Brambilla ci racconta bene come le cronache erano per lo più ideologiche, altro che opinioni. Sentite cosa scriveva l’inventore del fortunato slogan, Lamberto Sechi, del «Giornale» di Montanelli: «Quando ‘il Giornale’ finanziato da Cefis commemora, nel settimo anniversario della morte di Giovanni Guareschi, un uomo che ha dedicato la maggior parte della sua vita alla denigrazione dell’antifascismo e della repubblica, qualsiasi fascista ha diritto di sentirsi, nonché giustificato, riverito, degno di un medaglione su uno di molti (ormai quasi tutti) giornali di regime». Insomma «il Giornale» non poteva e non doveva, secondo l’autorevole opinione dell’inventore dei fatti separati dalle opinioni (regola a cui si sarebbero dovuti attenere tutti i giornalisti a eccezione dell’inventore della stessa), commemorare nell’anniversario della morte il padre di Don Camillo e Peppone, uno degli autori più amati dagli italiani. Come scrive il Nostro, bastava questa commemorazione «per essere ritenuti non solo dei fascisti, ma addirittura dei complici morali dei bombaroli che sterminavano innocenti sui treni». Il racconto di Brambilla è il racconto di un orrore a cui solo pochi si seppero sottrarre: Montanelli, Pansa, Casalegno, Tobagi. È l’orrore, come detto, per il quale nei giornalisti degli anni settanta l’ideologia veniva prima della cronaca. L’orrore per il quale le campagne di stampa hanno armato la mano che ha ucciso il commissario Calabresi. Camilla Cederna (bisognerà dire una volta che non merita neanche un centesimo della correttezza e della fama di cui ancora gode) disse che Calabresi aveva interrogato l’anarchico Pinelli «per 77 ore ininterrotte». Totalmente falso. «Lotta continua» e «l’Unità» si inventarono che Calabresi era un agente della Cia. Totalmente falso. Fu «Lotta continua» a scrivere: «Luigi Calabresi deve rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». E ancora: «Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati, ma è questo sicuramente un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato allo stato assassino». E quando Calabresi sporse querela 44 redazioni di riviste politiche e culturali (tra cui alcune cattoliche) sottoscrissero un documento di solidarietà a «Lotta continua». Brambilla racconta l’orrore orwelliano del pensiero unico per cui i manifesti della gente per bene erano firmati da Eco e da Fo, da Scalfari e da Mieli. Manifesti in cui si scriveva: «Combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento». E pensare che tanti di quelli che all’epoca firmarono oggi sono i padroni. L’orrore per il quale, nonostante tutte le evidenze, giornalisti come Bocca, Sechi (pensate un po’, ancora considerato un mito del giornalismo), Galli e mille altri ci hanno raccontato per anni che le Brigate rosse erano sedicenti, e che piuttosto era in corso una strategia della tensione sotto la regia della destra. L’orrore della signora Cederna (quanto continua a essere celebrata) che nel 1972 aveva il coraggio di scrivere sull’«Espresso»: «Ho capito da sola in questi anni come è scomodo essere in una minoranza specialmente quando si ha ragione». Poco più giù diceva che Feltrinelli era stato ucciso chissà da chi e non, come si seppe qualche anno dopo (ma tutti sapevano anche allora), per un incidente sul lavoro, piazzando un ordigno su quel traliccio. E la sua supposta minoranza era, piuttosto, la maggioranza degli intellettuali dell’epoca. Brambilla fa un lavoro grandioso: mette in fila questa galleria degli orrori, fa nomi e cognomi, cita date e giornali e mette in evidenza questo impasto di conformismo e di vigliacca omologazione. Merita un posto d’onore in questa nostra Biblioteca liberale, anche se non si tratta di un saggio economico, non affronta questioni filosofiche, ma meglio dei primi e dei secondi racconta il buio della ragione che ha contraddistinto i nostri intellettuali e la nostra cultura. Il fenomeno non era confinato certamente alla sola Italia. I paesi anglosassoni hanno però poi saputo combattere contro questo piatto e ormai canuto conformismo culturale. Oggi la cultura del dubbio, il punto di vista dell’individuo contro quello della massa, il privilegio del pensiero contro il gusto della moda restano merce rara. Negli anni settanta gli intellettuali, che bene descrive Brambilla, erano affascinati dalla rivoluzione e disgustati dalla cosiddetta maggioranza silenziosa. Avevano clamorosamente ingannato e oggi le giovani generazioni e quelle di mezzo pendono dalle labbra di questi vecchi tromboni che hanno sbagliato tutto e dai quali si attendono uno strapuntino o almeno un decente assegno consegnato a margine di uno dei tanti ridicoli premi giornalistici da strapaese che i vecchi arnesi controllano con efficacia.
Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro, scrive Eleonora Marzi.
Riassunto. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha creato una frattura nella società italiana e nel mondo politico degli anni Settanta. Il presente articolo si propone di analizzare le pubblicazioni che il quotidiano Le Monde diede del fenomeno in due momenti cruciali: la nascita delle Brigate Rosse come soggetto mediatico con il rapimento del giudice Mario Sossi nel 1974, e il suo gesto più eclatante, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Così, attraverso un’analisi dei pezzi di giornalismo di quel periodo è possibile prefigurare lo scenario di comprensione e il messaggio che conseguentemente venne trasmesso al paese.
Indice
1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole»
1.1 Il dato storico: il sequestro
1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR
2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica
2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati»
3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse
3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani
3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse?
Testo integrale. Le Brigate Rosse sono state un fenomeno sociale e politico controverso che ha spaccato la società italiana e il mondo politico degli anni Settanta. Ancora oggi è un caso che continua a dividere il mondo degli studiosi, anche a causa delle discordanti testimonianze dei protagonisti: si tratta infatti di un soggetto scivoloso, la cui ricostruzione storica presenta numerose zone d’ombra. Uno dei principali ostacoli alla carenza di esattezza storica consiste nella mancata metabolizzazione del fenomeno da parte degli italiani. É perciò interessante fornire un punto di vista altro, esterno, alla cui prospettiva storica si unisce l’analisi testuale dei pezzi di giornalismo in un epoca nella quale i fatti quotidiani erano la principale fonte di informazione – internet non esisteva – e la neo-arrivata televisione si posizionava ancora in una zona di consumo di nicchia. Si è scelto dunque di analizzare, attraverso le pagine del quotidiano Le Monde, due momenti storici precisi, la nascita “mediatica” delle Brigate Rosse – resa possibile dal rapimento del magistrato Mario Sossi, e il loro atto più eclatante, il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. La metodologia impiegata per condurre questo lavoro unisce in un discorso che si vuole pluridisciplinare la storia e la cultura italiana ad una forma di critica giornalistica che si concentra sia sui contenuti che sulla loro presentazione formale. Prima di affrontare il discorso sulla comunicazione si rende necessario compiere un breve excursus al fine di presentare utili elementi storici per una migliore comprensione.
1. Il sequestro Sossi o «l’operazione girasole».
1.1 Il dato storico: il sequestro. Il 18 aprile 1974, il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, il dottor Mario Sossi viene rapito da un commando armato, facente parte del gruppo di lotta marxista-leninista delle Brigate Rosse. La condizione per la liberazione del rapito è la scarcerazione e il successivo espatrio dei componenti della «XXII Ottobre», un gruppo di attivisti di sinistra i cui membri sono stati precedentemente condannati per diversi atti criminosi1. In realtà la tattica del sequestro si inscrive in una più ampia strategia volta ad indebolire lo Stato: le BR sono infatti convinte che in Italia vi siano le condizioni per una rivoluzione che però non si concretizzano per la mancanza di una guida rivoluzionaria e per il “tradimento” del Partito Comunista Italiano, oramai integrato nelle istituzioni. I brigatisti intendono perciò colpire con la lotta armata “l’ordine borghese”, così da mostrarne la debolezza, risvegliare la coscienza rivoluzionaria delle masse e porre le basi di una sollevazione. Le BR con il sequestro Sossi, anche detta «l’operazione girasole» decidono e attuano ciò che verrà descritto come «l’attacco al cuore dello Stato»; se precedentemente infatti si erano limitate ad azioni di propaganda “pacifica” con quest’azione compiono un passaggio ulteriore iniziando un percorso che sfocerà, come vedremo, nel drammatico epilogo del rapimento e della morte di Aldo Moro. Intendono dunque compiere un salto di qualità, adeguandosi al corso degli eventi che, a loro giudizio, costringe ad alzare il tiro rispetto alla precedente fase della propaganda armata. Da un opuscolo interno al movimento risalente al 1974 si legge: […] Perché se è vero che la crisi di regime e la nascita di una controrivoluzione agguerrita e organizzata sono il prodotto di anni di dure lotte operaie e popolari, è ancora più vero che per vincere il movimento di massa deve oggi superare la fase spontanea e organizzarsi sul terreno strategico della lotta contro il potere. E la Classe Operaia si conquisterà il potere solo con la lotta armata. Il procuratore Mario Sossi sarà detenuto per la durata di 35 giorni. Lungo questo arco di tempo l’opinione pubblica e le istituzioni, si divideranno su due linee contrapposte: l’una di intransigenza, la «linea della fermezza» (incarnata dal governo, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista Italiano) l’altra d’apertura alla trattativa da parte di associazioni come «magistratura democratica». Le trattative per la scarcerazione sembrano concretizzarsi, ma il procuratore della Repubblica Francesco Coco si oppone al provvedimento; sebbene le richieste non vengano esaudite le BR rilasciano comunque Sossi in buone condizioni di salute. Il loro scopo, ovvero mostrare come lo Stato non sia in grado di proteggere i cittadini, è stato raggiunto. Hanno rapito e detenuto per 35 giorni un sostituto procuratore della repubblica, lo hanno interrogato, ed hanno confermato la loro analisi dello e sullo stato “borghese-canaglia”: nutrito da politiche farraginose, dedito alla pratica del sotterfugio e succube del capitalismo. Inoltre l’opinione pubblica, tacitamente e velatamente, le percepisce come un gruppo criminale “cavalleresco” per aver rilasciato il detenuto nonostante il mancato accordo.
1.2 Le particolarità del Caso Sossi e il percorso identificativo delle BR. L’importanza del caso Sossi, nella logica delle BR, è specialmente di natura propagandistica. Innanzitutto le BR si presentano all’opinione pubblica in modo organizzato, introducono il proprio programma, la propria ideologia e iniziano massicciamente quell’azione di chiamata alla lotta armata indirizzata alla classe proletaria. I terroristi sanno perfettamente che la loro richiesta è troppo alta per essere soddisfatta. Ciò che davvero gli interessa è la presentazione di loro stessi al paese, l’accertamento della veridicità delle loro tesi riguardo il tessuto politico, la risposta sociale alle loro azioni e la verifica della strategia mediatica che rappresenterà un punto cardine dei loro futuri attacchi. Il mezzo del “comunicato”, che troverà larghissimo impiego durante il sequestro Moro, inizia qui il suo percorso come strumento informativo e propagandistico per eccellenza, in grado di unire con un comune filo la stampa, il potere istituzionale e l’opinione pubblica in un gioco di specchi estremamente complesso. Il governo, il popolo e la comunicazione: il triangolo perfetto lungo il quale le BR giocheranno la loro partita al fine di istaurare ciò che definiscono lo «Stato proletario».
2. I quotidiani e le Brigate Rosse: un nuovo e misterioso soggetto politico si affaccia sulla scena mediatica. 8Come per un meccanismo di specchi riflessi, all’esordio delle BR sulla scena mediatica, lo sforzo maggiore dei quotidiani è diretto ad inquadrare e comprendere questo “nuovo” soggetto. Il tempo impiegato dai giornali a focalizzare il fenomeno, a definirne le dimensioni e a comprenderne le conseguenze fu determinante per il tipo di informazione che venne veicolata. Sulla scena nazionale ed internazionale si affaccia un nuovo protagonista: presenta tratti clandestini, usa le armi per portare a termine azioni criminali a fini politici e informa delle proprie rivendicazioni e dei propri programmi ideologici sia la classe governativa che l’opinione pubblica utilizzando dei “comunicati”. Non si tratta dunque di comuni malavitosi, ma di un gruppo che ha fini e scopi ben precisi che per i contemporanei risulta estremamente difficile chiarire. Al momento della loro comparsa sulle pagine dei quotidiani riguardo le BR si ipotizza tutto l’ipotizzabile. Il nome del gruppo armato è sistematicamente riportato tra virgolette, ad indicare un dubbio generico rispetto le reali origini e le motivazioni che muovono i combattenti. Ed è proprio questo clima di smarrimento a dare adito alle più fantasiose ipotesi con interrogativi che sui giornali francesi si accavallano in merito al colore politico dell’organizzazione, alla composizione e alla strutturazione del gruppo stesso. Come si vedrà nel corso dell’articolo il tema della reale identità delle Brigate Rosse sarà ampiamente indagato dai quotidiani, rappresentando in questo modo uno dei fulcri d’interesse del discorso mediatico e inoltre il punto d’incontro delle differenti interpretazioni provenienti dai vari Stati d’Europa.
2.1 Le Monde e gli «sconosciuti armati». Le Monde informa del sequestro Sossi nell’edizione del 20 aprile con un pezzo di Jacques Nobécourt in terzo taglio dal titolo: «Il sostituto procuratore di Genova è stato rapito da sconosciuti armati». La notizia è pubblicata due giorni dopo del fatto, elemento normale in epoca non ancora digitale, sebbene dia anche la misura di una attenzione di grado medio verso la notizia. É significativo come essi vengano definiti come degli “sconosciuti” anche se l’articolo si interroga sulla natura dell’organizzazione, pur non inoltrandosi in supposizioni caotiche; si limita a riportare il fatto certo. Nell’introduzione del pezzo la notizia è riportata con stupore: L’evento più spettacolare è il rapimento a Genova, giovedì alle nove, del sostituto procuratore della Repubblica, Mario Sossi, un uomo di quarant’anni che è uno dei giovani magistrati italiani più controversi degli ultimi anni. Il cronista, proseguendo il racconto del sequestro, riferisce: Mario Sossi rientrava a casa in autobus e davanti il suo domicilio alcuni uomini tra i venticinque e i trent’anni, secondo i testimoni, vestiti elegantemente e senza alcuna maschera, lo hanno costretto, minacciandolo con un’arma, a salire su un furgone. Il particolare dell’aspetto dei rapitori, eleganti e a viso aperto, deve aver colpito gli osservatori dell’epoca, ed è un elemento che colora di mistero l’identità del gruppo. Le Monde mostra cautela quando nell’individuazione del gruppo terrorista modifica lo status di «sconosciuti» precedentemente attribuito alle BR: «In alcuni comunicati trovati in una cabina telefonica, le “brigate rosse” rivendicano la responsabilità dell’operazione». L’atteggiamento è cauto, ben riscontrabile attraverso l’utilizzo delle virgolette che mantengono il soggetto terrorista in un campo di indefinitezza. Tuttavia il comunicato viene preso in considerazione, seppure non assunto a prova di certezza: Il ritrovamento dei comunicati non prova assolutamente che le «brigate rosse» esistano realmente, né che si tratti di un’organizzazione di estrema sinistra. Tuttavia, la personalità del magistrato tende a far credere che l’operazione è stata condotta da estremisti di sinistra. L’atteggiamento cauto porta Le Monde a non assumere posizioni nette in mancanza di dettagli. Gli unici elementi che potrebbero concorrere all’individuazione dell’identità sono di natura storica: Lo stesso modus operandi era stato utilizzato in dicembre in occasione del rapimento di uno dei capi del personale della Fiat a Torino. Questi era stato rilasciato dopo qualche giorno e i suoi rapitori, che si dichiaravano ugualmente appartenenti alle «brigate rosse», facevano apparentemente parte di un gruppo isolato, senza alcun legame con altre organizzazioni politiche. Le Monde si posiziona su una linea corretta nel non attribuire legami con altre organizzazioni politiche: in termini generali, alla data del rapimento, ogni interrogativo è aperto, l’orientamento politico del gruppo armato resta non definito così come la loro ideologia, e gli scopi che si prefiggono attraverso le loro azioni. Nel corso del sequestro l’attenzione del quotidiano sarà fortemente polarizzata sul comportamento tenuto dalla magistratura e sugli effetti che il ricatto delle Brigate rosse ha sulle relazioni tra questa e il governo. Il tema dell’identità delle BR non viene affrontato nella sua totalità, contentandosi di qualche definizione qua e là e più spesso di citazioni provenienti dalla stampa italiana. É questo il caso dell’edizione del 25 aprile, quando a seguito di un messaggio dell’ostaggio, viene sospesa dalla procura di Genova l’indagine su quest’ultimo. Il quotidiano riporta la reazione de La Stampa: La Stampa esprime un sentimento generalmente diffuso affermando che «il blocco dell’inchiesta non può non apparire come un gesto di abdicazione dello Stato». […] Ciò suscita sgomento, provoca un sentimento di sfiducia nei confronti del potere e della capacità di resistenza delle istituzioni davanti a tali fenomeni. Era permesso ai magistrati genovesi, direttamente implicati, di inclinarsi davanti alla sfida terrorista?. Il quotidiano si ferma alla definizione di “sfida terrorista” ma i moventi e le ideologie che vi si celano restano ignoti, come viene sottolineato in seguito: «Gli inquirenti sembrano convinti che il giudice sia detenuto a Genova, ma la natura delle “brigate rosse” resta misteriosa». Nell’articolo del 22 maggio «La sorte del giudice Mario Sossi non è stata svelata dai suoi rapitori» è riportato il punto di vista de l’Unità «L’Unità, organo del P.C.I. denuncia il fallimento di tutte le inchieste fatte per «smascherare e punire» le Brigate rosse e richiede che la «democrazia italiana si difenda da tutti gli attacchi e, in primo luogo, contro dei tali gesti criminali». Le linee utilizzate per definire i brigatisti si orientano intorno ad una definizione di criminalità, a volte di terrorismo, ma senza alcun riferimento al quadro ideologico che muove le loro azioni. Sulle reazioni provocate all’interno del potere giudiziario di cui tratta l’articolo del 14 maggio «Il caso Sossi accentua i dissensi all’interno della magistratura» il quotidiano tuttavia definisce una caratteristica brigatista quando scrive: […] si tratta della credibilità de la magistratura, e in particolar modo del ministero pubblico. Su questo punto, le Brigate rosse – qualunque sia il loro orientamento politico – hanno ottenuto una vittoria portando Mario Sossi, nelle sue lettere successive, a rinnegare il rigore delle sue proprie requisitorie e gettando dunque il dubbio su ciò che ispirava la sua interpretazione della legge. Si noti come l’orientamento politico delle Brigate Rosse resti incerto e come ingenerale si proceda a stenti e per piccoli passi alla definizione della loro identità. Un momento di sblocco può considerarsi postumo alla liberazione di Sossi in cui Le Monde giunge alle seguenti conclusioni: «Sossi è in buona salute; è dimagrito di cinque chili, ma la sua detenzione sembra essersi svolta in discrete condizioni. Poteva leggere i giornali e non ha mai avuto la sensazione che la sua vita potesse essere in pericolo». Si tratta di criminali cortesi, elemento ugualmente rintracciabile quando in cronista riporta le condizioni della liberazione del giudice: […] dopo aver fatto un viaggio in un furgoncino ed essersi svegliato dopo un lungo sonno provocato da una bevanda che gli era stata somministrata, Sossi si trovava in un luogo sconosciuto. Degli occhiali da sole nascondevano i suoi occhi bendati e aveva su di se un biglietto di prima classe per il tragitto Milano-Genova. […] Senza difficoltà il magistrato ha preso un taxi, si è recato alla stazione, è salito su treno ed è rientrato nella propria città. Il quotidiano scrive che i suoi rapitori hanno provveduto a fornirgli un biglietto di prima classe per il treno che gli avrebbe permesso di rientrare a casa: non si tratta di riflessioni esplicite, ma esse lasciano comunque trasparire un atteggiamento di stupore riguardo la condotta cavalleresca delle Brigate Rosse. Si consideri a questo proposito che le richieste del gruppo armato non erano state soddisfatte, o almeno lo erano state per una minima parte. É seguendo questo ragionamento che Le Monde si pone un interrogativo che trascende la mera cronaca: Per quale ragione le Brigate Rosse lo hanno liberato? Negli ultimi giorni, la situazione era sfociata in un’impasse totale, e ugualmente l’esecuzione del magistrato avrebbe avuto come solo effetto quello di provocare una reazione molto forte, che i rapitori certamente non si augurano. Si noti come vi sia la certezza che essi non siano sanguinari né crudeli. Le Monde prosegue nella sua ricerca: Durante la notte, l’ottavo comunicato delle Brigate rosse è stato trasmesso al Corriere della Sera per spiegare le ragioni della liberazione di Mario Sossi. La prima riguarda la decisione della corte d’appello di Genova che ha deciso di accordare la libertà provvisoria all’ottavo condannato del processo del 22 ottobre. La seconda motivazione apportata dalle Brigate rosse riguarda la volontà di «combattere fino alla fine». La conclusione del comunicato è la seguente: «Il significato strategico della nostra scelta è più chiaro che mai: la classe operaria prende il potere unicamente attraverso la lotta armata». Le Monde – a differenza di altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro – non riporta la totalità del comunicato ma si limita a pubblicare singole frasi direttamente provenienti dal documento brigatista, commentando e deducendo. Lo scopo dei brigatisti, secondo Le Monde, è la strategia di lotta armata per il proletariato. Si tratta comunque di una consapevolezza ancora embrionale, con le zone d’ombra che prevalgono sulle conoscenze acquisite. Il ritratto dei terroristi è dunque qualcosa che resta nel vago, si comprende che la loro matrice è politica, si immagina un’appartenenza allo schieramento di sinistra ma molti sono i punti che rimangono in sospeso. In generale l’informazione è ben coperta con una presenza di 35 articoli su venti giorni; non vi sono mai prime pagine e gli articoli vengono presentati interamente nella sezione della cronaca internazionale. Questo elemento relativo alla posizione della notizia – che in analisi giornalistica risulta particolarmente indicativo dell’importanza che essa ha per l’opinione pubblica – sembra abbastanza naturale trattandosi effettivamente di cronaca estera: essa cambierà radicalmente durante il caso Moro – 55 giorni di detenzione – durante il quale la prima pagina sarà appannaggio della cronaca italiana. Siamo nel 1974, le BR si affacciano sul panorama politico italiano, gruppo terroristico che in quanto tale si serve della comunicazione in modo massiccio e importante. L’estremo della loro attività culminerà quattro anni dopo, nel 1978, allorché l’inasprirsi della lotta politica e sociale e più in generale un cambiamento del livello di tensione nella lotta armata porterà il gruppo a compiere un atto estremo: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’allora presidente della Democrazia Cristiana. Anche in questo caso sarà necessario partire dal dato storico al fine di comprendere al meglio il trattamento che la stampa diede del caso.
3. Il caso Moro o «l’operazione Fritz»: l’apice delle Brigate Rosse.
3.1 Il dato storico: tra via Fani e via Caetani. La mattina del 16 marzo 1978 l’onorevole Aldo Moro, presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, si sta recando in Parlamento per assistere al voto di fiducia del IV governo Andreotti, formatosi l’11 marzo 1978. L’esecutivo – risultato di una tela tessuta congiuntamente da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, segretario nazionale del Partito Comunista Italiano – è la sublime espressione delle convergenze parallele, e consiste in un governo monocolore con l’appoggio esterno dei comunisti, oltre che dei socialisti, dei repubblicani e dei socialdemocratici, entrato nella storia della Repubblica come compromesso storico25. Il ragionamento che porta alla necessità di creare un governo di solidarietà nazionale deriva dall’analisi dello stato di salute della società italiana, solcata dal disagio economico e dalla recrudescenza sociale. Quella stessa mattina del 16 marzo tra le 9.00 e le 9.15 in via Mario Fani a Roma un commando delle Brigate Rosse rapisce l’onorevole Aldo Moro e a colpi di mitragliatrice fa strage della sua scorta, composta da cinque uomini; l’azione è rapida e precisa, l’ostaggio non viene ferito ma caricato di una FIAT 125 e fatto sparire nel nulla. Ha inizio ciò che i terroristi preparavano da mesi: l’operazione Fritz. Il paese è sotto shock e la mobilitazione militare immediata con il dispiegamento di 6000 uomini delle forze dell’ordine lanciate in una massiccia caccia all’uomo. Perché le BR compiono un tale gesto? Moro appare ai loro occhi uno dei massimi responsabili delle ingiustizie e dei crimini commessi da quello che chiamano lo Stato Imperialista delle multinazionali, in qualità di protagonista della politica italiana da circa un ventennio. Per accertare le sue colpe nei confronti della classe proletaria, come capo e come rappresentante della DC, lo rinchiuderanno in una “prigione del popolo” sottoponendolo ad un processo ad opera del “tribunale del popolo”. Attraverso un’approfondita analisi dei loro documenti si possono rintracciare due tipologie di conseguenze che essi auspicavano; la prima era di natura strategica e in linea con l’attività propugnata fino a quel momento: la destabilizzazione dello Stato. La seconda era di natura ideologica: essi volevano ricevere lo status di interlocutori, anche se loro malgrado. Dichiara Moretti: Avremmo liberato Moro e si sarebbero spostati gli equilibri politici: chi, Pci o altri, avesse preso atto della nostra esistenza, avrebbe tentato un nostro recupero, un rientro, avrebbe fatto politica e rafforzato la sua contrattualità. Per avere un quadro generale del caso Moro occorre inoltre analizzare brevemente quali furono le posizioni incarnate ufficialmente dalle istituzioni. Fin dal principio infatti erano emersi due fronti: quello della fermezza, che niente avrebbe concesso ai terroristi, di cui facevano parte il PCI e la Democrazia Cristiana, e quello della trattativa, disposto a scendere a compromessi per il costo di una vita umana che comprendeva il Partito Socialista Italiano e il Vaticano. Ma quali furono le reazioni del fulcro di tale vicenda, del prigioniero Moro? Egli scrisse una grande quantità di materiale tra cui lettere, testamenti, promemoria e biglietti. Redasse 87 lettere, 27 furono recapitate di cui 16 destinate ad alte personalità politiche ed istituzionali. In questi scritti – mappatura della distribuzione del potere all’epoca – si trova tutto il tentativo di Moro di portare il suo partito ed il paese verso il fronte della trattativa. Salvarsi così la vita, «impedendo non in ultima analisi una frattura irreparabile nell’ethos della democrazia italiana». Purtroppo queste dichiarazioni scatenarono delle reazioni degli uomini di partito, i quali negarono alle parole di Moro prigioniero ogni validità etica e morale, ipotizzando uno stato psichico non attendibile. Le Brigate Rosse comunicano con l’esterno attraverso dei comunicati nei quali informano dello stato di salute di Moro e delle loro richieste. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro; si è arrivati al n° 6 quando il 15 aprile giunge una risoluzione che appare irremovibile «Aldo Moro è colpevole e viene perciò condannato a morte». Il subbuglio negli ambienti politici è massimo, l’opinione pubblica è sconcertata; il quotidiano italiano Il Messaggero riceve una telefonata che annuncia il luogo per il ritrovamento del comunicato n° 7. Secondo quest’ultimo, Moro sarebbe stato ucciso e il suo cadavere si troverebbe nei fondali del lago Duchessa, nella regione limitrofa a Roma. Vengono dispiegate migliaia di forze dell’ordine e sommozzatori ma dopo ore di ricerche del cadavere non v’è nessuna traccia. Si tratta di un comunicato falso, opera del magistrato Claudio Vitalone, scritto al fine di informare i terroristi che i servizi segreti erano in grado non solo di controllare le loro mosse, ma anche di occupare e manipolare i loro stessi canali mediatici. Il 20 aprile le BR fanno pervenire alla redazione di La Repubblica il vero comunicato n° 7 a cui è allegata una foto di Moro con in mano il quotidiano, ad indicare che egli è vivo, e all’interno del quale i brigatisti esplicitano il vero oggetto per salvare la vita di Moro: i tredici brigatisti detenuti e sotto processo nel tribunale di Torino. Va aggiunto al dato storico che contemporaneamente al periodo di detenzione dell’onorevole Moro, si sta svolgendo a Torino il processo contro i capi storici delle BR, tra cui vi sono Renato Curcio e Alberto Franceschini. I fili che da qui si dipanano sono incrociati, perché i brigatisti incarcerati rivendicano la responsabilità del rapimento Moro, creando notevoli problemi giuridici, e simmetricamente nella seconda parte del sequestro la richiesta dei brigatisti in libertà sarà di scarcerare quelli in prigione. La risposta ufficiale del governo è del 28 aprile, quando Andreotti in televisione comunica con fermezza il rifiuto delle istituzioni democratiche alla trattativa con i terroristi. Nonostante un ultimo appello della famiglia Moro il Governo mantiene la propria linea. Arriva il 5 maggio l’ultimo comunicato n° 9 dove si legge «Concludiamo […] la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Il 9 maggio 1978 sarà un giorno che cambierà per sempre il corso della storia italiana: in via Mario Caetani, a Roma vicino alle sedi della DC in Piazza del Gesù e del PCI in via delle Botteghe Oscure, viene ritrovato il cadavere dell’onorevole Aldo Moro, crivellato da undici colpi di mitragliatore nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. Il paese sprofonda all’istante in uno stato di shock, le reazioni internazionali irradiano stupore misto ad orrore. La democrazia italiana non ha ceduto ai terroristi, ma lo ha fatto sacrificando la vita di un uomo30. Si svolgono dunque il 10 maggio i funerali privati a Torrita Tiberina; tre giorni più tardi piazza di San Giovanni in Laterano sarà invasa da una folla di comuni cittadini e presieduta da tutti gli uomini di potere per il rito funebre di Aldo Moro, senza salma e senza la presenza della famiglia.
3.2 L’analisi di Le Monde: chi sono le Brigate Rosse? La distribuzione della notizia sulle pagine di Le Monde risulta di primo impatto: su 55 giorni di sequestro 45 sono coperti dalla notizia sull’Italia, di cui 17 prime pagine. Rispetto alla copertura del caso Sossi la percentuale aumenta notevolmente, indice questo di un maggiore interesse verso la vicenda ma anche di una diversa portata del suo significato, non perché diverso il valore della vita dell’uomo in questione, ma perché con Moro entrano in gioco una serie di elementi che investono la totalità delle istituzioni del Paese e inoltre l’identità delle BR è, ad oggi, abbastanza chiara da poter far temere il peggio. La notizia del rapimento di Moro viene data in prima pagina, come articolo di testa in primo taglio. Le Monde rispetto ad altri quotidiani è piuttosto avaro di immagini; Le Figaro e Libération ad esempio pubblicheranno la foto che fece il giro dei quotidiani di tutto il mondo, quella del cadavere di Moro crivellato di colpi nel bagagliaio della Renault 4 in Via Fani mentre Le Monde si “limiterà” in questo caso a pubblicare un pezzo di solo testo, occupando però la quasi-totalità della prima pagina dell’edizione del 10 maggio 1978. Durante tutto il sequestro Moro, dal 16 marzo al 9 maggio 1978, le Brigate rosse stabilirono un contatto con il mondo attraverso i comunicati. In questo tipo di azioni il mezzo risulta fondamentale: il terrorismo si alimenta del rimbalzo dell’informazione spesso trattata in modo iperbolico e finzionale. Negli anni Settanta, in un’epoca non ancora multimediale, lo strumento cartaceo assume tutta la sua importanza e il mezzo attraverso il quale esso viene diffuso – la redazione giornalistica – si trova nell’occhio del ciclone della nostra analisi. I comunicati delle Brigate rosse seguivano un preciso iter: venivano nascosti dai “postini” Valerio Morucci e Adriana Faranda in luoghi pubblici, come cabine del telefono o cassonetti dell’immondizia, successivamente una telefonata informava uno o più redazioni di quotidiani sul luogo del ritrovamento. I comunicati, che spesso allegavano le lettere dello stesso Moro, in sostanza informavano governo e opinione pubblica sul corso del processo da parte del tribunale del popolo a cui il prigioniero era sottoposto e illustravano attraverso le analisi brigatiste quali fossero gli obiettivi che le stesse si propugnavano nell’ambito del loro progetto rivoluzionario. Il ritmo dei comunicati cadenza tutto il sequestro e di conseguenza tutta la produzione giornalistica che ad ogni ritrovamento, oltre a darne il fatto di cronaca forniva anche una serie di approfondimenti e riflessioni sulla vicenda e sui suoi protagonisti. Per seguire la linea che avevamo tracciato all’inizio dell’articolo ci concentreremo sulla questione dell’identità delle BR, elemento che, accanto ovviamente alla cronaca dei fatti, richiama l’attenzione ei giornalisti e degli osservatori. Due sono i fattori che concorrono alla discussione sulla loro identità quale si possono rintracciare le sfumature sfogliando le pagine dei quotidiani. Uno è il lungo calvario dei 55 giorni di sequestro che porta ad un progressivo aumento della percezione della crudeltà dei brigatisti, il secondo è l’apparente sdoppiamento dei terroristi presenti come carcerieri di Moro e contemporaneamente come “incarcerati” a Torino durante il processo al loro «primo gruppo». Questo apparente sdoppiamento dei terroristi crea una sorta di illusione ottica che spinge ad interrogarsi tra l’eventualità dell’esistenza di diverse brigate rosse o piuttosto un’evoluzione in corso all’interno dei quadri del movimento terrorista. Nel 1978 la stampa francese ha le idee abbastanza chiare su chi siano i brigatisti. Si conoscono il loro orientamento politico, la loro modalità d’azione, si conoscono i loro fini e scopi. Ma con il rapimento Moro, le BR realizzano un’azione spettacolare, di cui nessuno le avrebbe mai ritenute capaci. Vi sono dunque dei nuovi elementi che la stampa, l’opinione pubblica e la classe politica non hanno l’abitudine ad affiancare alle BR: ad esempio la scoperta di un’impressionante competenza nelle armi, elemento risultato dalla perfezione criminale dell’attentato, che farà nascere l’ipotesi di trovarsi di fronte a dei killer professionisti. Immediatamente Le Monde mostra un’approfondita conoscenza delle Brigate Rosse. All’indomani del rapimento di Moro, il quotidiano dà alle stampe un articolo monografico sulle BR altamente informativo: vi sono riferimenti ai processi in corso e l’individuazione di Curcio come capo dell’organizzazione è immediata. Le BR sono « un mouvement d’extrême gauche, partisan de l’action violente »31. Esse sono precisamente inquadrate e rapidamente viene compresa la loro pericolosità, più velocemente rispetto ad altri quotidiani, come ad esempio Le Figaro o Libération. Dalla penna di Robert Solé, alla data del 1 aprile scaturisce un’efficacie riassunto della situazione in Italia: Gli italiani sono alle prese con un nemico imprendibile in tutti i sensi. È riuscito a scappare alla più formidabile caccia all’uomo che questo paese – così poco poliziesco – ha mai conosciuto dopo la fine della guerra. D’altra parte, i suoi reali obiettivi sfuggono a tutti colo che vi riflettono con attenzione. Le brigate rosse sono, effettivamente, completamente scollegate dalla realtà. Esse invocano un «popolo» che le ignora, si identificano con un «proletariato» che le rigetta. Ma si mostrano anche estremamente efficaci sia nella strategia delle armi che in quella della tensione…una «follia lucida» si dice a Roma. Il riconoscimento della pericolosità delle BR è un tema al quale Le Monde dedica parecchio spazio, ovviamente specificando che ammettere la loro forza non significa né legittimarle tantomeno assolverle. Se Le Figaro ha in un primo momento definito la loro sceneggiatura come «banale», Le Monde non sottovaluta mai il loro potere, fino ad interrogarsi se esse siano «Les maîtres du jeu»: Nelle incertezze e nella confusione italiana si impone un dato evidente: le Brigate rosse stanno riuscendo, ben oltre le loro aspettative, nella loro impresa. Di fronte allo Stato, questo «contro-Stato selvaggio» di qualche fuorilegge ha raggiunto i propri obiettivi. Il suo nemico si discredita e si sgretola ogni giorno di più. Il dibattito di ordine «umanitario» per salvare la vita di Aldo Moro […] è in fondo un notevole successo del terrorismo. I ritratti delle BR forniti da Solé e Franceschini con i loro articoli hanno la precisione e l’esattezza di una biografia storica. Viene ripercorsa più volte nei particolari la storia del gruppo terrorista, si informa sul loro scopo iniziale di «costruire un’avanguardia proletaria armata per favorire il potere rivoluzionario delle classi oppresse che lottano contro il sistema»34. Indicativo è il titolo dell’articolo: «Delle brigate d’un rosso sospetto». I particolari seguono, viene ripercorsa la loro “carriera” riportando la svolta del ’74 con il relativo rapimento del giudice Sossi e la scalata verso l’attacco al cuore dello Stato. Rispetto ad altri quotidiani Le Monde cerca di scendere in profondità lasciandosi prendere dalla tesi, molto inflazionata in quel periodo, di una possibile influenza sul gruppo terroristico delle azioni di CIA o del KGB; nell’articolo dall’indicativo titolo «Manipolati? E da chi?» Le Monde porta un’ipotesi, palesa un’esitazione alla quale Solé adduce due argomentazioni: esse compiono delle azioni per la cui riuscita si necessita di precise informazioni, e spesso le loro azioni sortiscono l’effetto contrario a quello desiderato. Le BR mostrano certo le contraddizioni del regime ma «[…] le masse non seguono affatto la loro “avanguardia”». Le Monde prosegue: Molti uomini politici ne deducono che queste Brigate di un rosso sospetto sono contemporaneamente supportate e manipolate. E aggiungono: da servizi segreti stranieri […] Nelle conversazioni, oltre all’inevitabile CIA, si citano volentieri alcuni paesi dell’Est, come la Cecoslovacchia...Si tratta di un dubbio legittimo che Le Monde lascia in sospeso, siglando l’articolo con un sibillino «[…] resta ancora da provarlo». L’analisi scende nel particolare delle reazioni dell’opinione pubblica, dove, il ricorso alla violenza riduce gli spazi di simpatia diffusi soprattutto negli ambienti di estrema sinistra. Il quotidiano scrive: Invece di minare l’ultra-revisionismo di Berlinguer, le loro azioni spingono senza sosta il partito comunista verso il potere. Le istituzioni sono senza dubbio screditate, appaiono certamente alcune contraddizioni dello Stato, ma le masse non seguono affatto la loro [delle Brigate Rosse] «avanguardia»: al contrario si mobilitano contro la violenza […]. Le Brigate Rosse sperano forse di attaccare il forte potere di Roma provocando delle reazioni a catena fino al sollevamento popolare? Nulla di tutto ciò si è ancora verificato […] ogni volta che un corpo è crivellato da pallottole, i terroristi si allontanano un po’ di più dalla popolazione. Le Monde coglie il moto di base della reazione dell’opinione pubblica, che a prescindere dall’oggetto della contestazione reagisce togliendo supporto alla causa perché perpetrata con la violenza. Il 24 marzo l’ex sindaco della città di Torino, democristiano, Domenico Piantone subisce un attentato. L’evento conduce Le Monde verso un disarmante interrogativo: «Esistono diverse Brigate rosse?». La vittima viene ferita, non si comprende se lo scopo degli attentatori è stato raggiunto o se essi avrebbero voluto ucciderlo. Ciò porta Robert Solé a scrivere: «Questa nuova sparatoria pone varie questioni. Si tratta di un ritorno alla strategia precedente che puntava delle personalità d’importanza secondaria e consisteva, una volta su due, a intimidire senza uccidere?». Secondo i responsabili della DC, il fine degli attentatori era però quello di uccidere. Le Monde conclude dunque: Sono dunque di un tutt’altro livello «tecnico» rispetto a chi ha massacrato la scorta armata di Aldo Moro senza ferire, apparentemente, il presidente della DC. Anche se i due attentati rientrano all’interno della medesima strategia della «guerra civile anti-imperialista», nella quale si arrivare a domandarsi se non esistano diverse «Brigate rosse». La rabbia con la quale i dirigenti «storici» dell’organizzazione, sotto processo a Torino, rivendicano ogni attentato, la loro caparbia nel dimostrare ad ogni costo l’unità delle Brigate rosse, sono sospette. L’interrogativo che si pone Le Monde è analogo a quello di Le Figaro, le spiegazioni offerte però, differiscono. Per Le Monde l’ipotesi di una doppia esistenza potrebbe essere legata ad una differente competenza e padronanza della tattica criminale, da un lato killer professionisti che polverizzano una scorta, dall’altro goffi tiratori che gambizzano piuttosto che uccidere. Giungiamo all’epilogo del sequestro e Le Monde annuncia la notizia contenendo il suo stupore e spiazzamento rispetto all’atroce gesto compiuto dalle BR. Questo è ovviamente condannato, ma avendo il quotidiano inquadrato con più precisione la pericolosità dell’argomentazione non mostra eccessivo stupore davanti il crimine. Le Monde a mezzo di un editoriale del direttore Jacques Fauvet dal titolo particolarmente emblematico «Illegittima demenza »44 si indigna addirittura verso coloro che sono stati presi alla sprovvista dal crimine. «L’assassinio di Aldo Moro ha sorpreso soltanto gli ingenui e gli ottimisti impenitenti: l’Italia non ha vissuto per cinquantaquattro giorni un qualunque scherzo di studenti, ma un dramma sanguinario proveniente dal fanatismo più assoluto »45. Il direttore del giornale sottolinea l’evidenza dell’agguato di via Fani, che a suo avviso avrebbe mostrato sufficientemente la pericolosità del gruppo armato. L’epilogo del caso non deve far dimenticare che i commandos delle Brigate rosse avevano ucciso a sangue freddo le cinque guardie del corpo del presidente della Democrazia Cristiana per impossessarsi dell’ostaggio: fin dall’inizio avevano palesato il loro istinto di morte: lo hanno confermato anche durante la detenzione di Aldo Moro aggiungendo altre vittime al loro sinistro quadro di caccia. La loro crudeltà era dunque qualcosa di chiaro fin dall’inizio. Quando Fauvet parla nel suo articolo di illegittima demenza si riferisce ad uno stato che, seppure fuori dalle forme di pensiero delle persone “usuali”, non può essere scusato neanche attraverso la disperazione. Si riferisce alla diabolica sceneggiatura montata dalle BR che mostra «[...] non il prodotto dell’immaginazione di qualche giovane perduto, deluso, alla ricerca di un ideale, ma delle menti profondamente perversi, dei maniaci della politica allo stato peggiore »47. Anche Le Monde, rintraccia i segni di una logica altra, una logica sanguinaria. In un articolo di Robert Escarpit, egli individua il loro modus operandi ispirato in «Un culto perverso della personalità »48. Il cronista motiva: «Rapendo, torturando, massacrando degli individui o giocandoci come degli ostaggi, hanno rivelato la loro vera natura nella misura in cui pensavano influenzare in questo modo il destino dei popoli». Le Monde cerca di scendere nei meandri della buia e oscura logica che spinge i terroristi a compiere crimini efferati, e se durante il caso Moro, articoli sullo stesso tema presentavano un tono meno drammatico, ora a disastro avvenuto prendono tinte più fosche, più accese. L’importante, per Le Monde è scongiurare quella tendenza a considerare i brigatisti come degli ingenui, degli insoddisfatti, dei disperati: questo atteggiamento equivarrebbe a sottovalutare la loro vera forza, ossia non solo quella di essere gente senza scrupoli, ma di avere un piano ben preciso e soprattutto motivato anche se la legittimazione gli viene da loro stessi. Escarpit prosegue nella sua analisi: «Tutte le azioni, anche le più orribili, mostrano una profonda coerenza che esclude le improvvisazioni del cieco fanatismo». Giunge per Le Monde la condanna circa gli effetti nulli della campagna delle Brigate Rosse. Con il loro operato, afferma Escarpit, esse non giungeranno ai cambiamenti da loro auspicati: «[…] nessuno è indispensabile, e qualunque sia l’importanza politica della loro vittima, questi assassini che non rischiano neanche la pena di morte vogliono ignorare ciò che ogni terrorista sa: quando un uomo cade, un altro uomo esce dall’ombra e lo rimpiazza».
Per citare l'articolo. Eleonora Marzi, «Le Brigate Rosse e i quotidiani francesi dal caso Sossi alla tragedia Moro», 3/05/2017, su “Revues.univ-tlse2.fr”
I 55 GIORNI DI MORO CHE CAMBIARONO LA STORIA D’ITALIA.
Sequestro Moro: perché le prime ricerche fallirono. Tra riforma dei Servizi, trasferimento di uomini-chiave e mancato coordinamento passarono i primi 15 giorni. Tra gli errori anche quello di un supercomputer del Viminale, scrive Edoardo Frittoli il 13 aprile 2018 su "Panorama". Il rapimento di Aldo Moro aveva colto i Servizi Segreti italiani mentre si trovavano in una terra di nessuno: una fase transitoria e di completa trasformazione. La sensazione che la risposta delle Autorità all'azione brigatista fosse inefficace montò rapidamente in Italia già una decina di giorni dopo la strage di via Fani. Ma ciò che lascia maggiormente perplessi rileggendo le cronache di 40 anni fa è che tutto quello che fu costruito per combattere il terrorismo in quasi un decennio di strategia della tensione era stato decisamente indebolito in quella cruciale primavera del 1978. Il motivo della transizione era dovuto alla riforma dei Servizi, che prevedeva un vero e proprio smantellamento degli organismi precedenti e la formazione dell'UCIGOS (Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e per le Operazioni Speciali).
La situazione dei Servizi Segreti. Poco prima del rapimento di Moro diversi funzionari chiave dell'ex Sisde erano stati trasferiti ad altri incarichi. Si trattava di dirigenti molto attivi nell'antiterrorismo sin dalla strage di Piazza Fontana. Uno di loro, Guglielmo Carlucci (ex vicecapo del Sisde) si trovava in Questura a Milano la sera della morte di Pinelli. Si diceva sapesse ogni dettaglio sull'organico delle Br, tuttavia allo scioglimento del Servizio era stato assegnato alla Criminalpol. Il 10 gennaio 1978 era stato trucidato a Torino proprio dai brigatisti rossi il Maresciallo Rosario Berardi, uno dei massimi esperti dell'eversione terrorista, mentre il suo collaboratore più stretto Giorgio Criscuolo era stato inviato in un commissariato di provincia, proprio come il suo collega toscano Giuseppe Joele. Nel 1974, anno del rapimento di Mario Sossi era stato istituito proprio per l'emergenza terrorismo l'SdS (voluto dallo stesso Cossiga) con funzioni soprattutto operative, mentre il nuovo Ucigos avrebbe avuto funzione squisitamente informativa, quindi meno "sul campo". Da questo sostanziale caos nella storia dei Servizi Segreti partirono le prime ricerche della prigione di Moro, coordinate da un Consiglio di Sicurezza permanente con sede al Viminale e presieduto dal Ministro Cossiga.
Cervelli umani. Cossiga e il Consiglio di Sicurezza. Si trattava nella pratica un centro di raccolta delle informazioni convogliate da tutti gli organi di Pubblica Sicurezza, che si riuniva due volte al giorno. Ne facevano parte anche politici come il democristiano Nicola Lettieri (Sottosegretario agli Interni) e il compagno di partito Francesco Mazzola, nuovo in tale ruolo in quanto nominato il giorno stesso della strage di via Fani. Oltre al capo del Sisde prossimo alla riforma, nel consiglio sedeva anche il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che aveva allora l'incarico di responsabile della sicurezza nelle carceri italiane. Il nuovo Ucigos era rappresentato da un uomo di fiducia di Cossiga, Antonio Fariello. Sedevano al tavolo infine i comandanti di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Fuori, il caos. Il numero del Viminale, l'ondata di perquisizioni a vuoto. Mentre si susseguivano i briefing del Consiglio del Viminale, Roma era nel panico. Si parlava continuamente di possibili attentati ai Ministeri, vi erano continui allarmi Nato nelle caserme, si temeva ancora il colpo di Stato. E quel che sembrava peggio era che, con il passare dei giorni, l'iniziale solidarietà degli italiani uniti nella difesa della democrazia stesse cedendo il passo alla rassegnazione e ancor peggio alla sfiducia nelle Forze dell'Ordine. Cossiga si era ispirato ai tedeschi nell'organizzazione delle ricerche e nella strategia di intervento. Questo perché nel 1977 si era consumato un rapimento che in pratica era la fotocopia di via Fani. I terroristi rossi della RAF avevano sequestrato il capo della Confindustria della Germania Ovest Hanns-Martin Schleyer utilizzando la tecnica del "cancelletto" dopo aver neutralizzato la scorta dell'industriale tedesco, azione replicata esattamente dalle Br in via Fani. Il Viminale prese contatti anche con uno psicologo che aveva partecipato alle operazioni di ricerca di Schleyer, Wolfgang Salewski, e istituì una linea telefonica per la raccolta di segnalazioni anonime (lo 06/4756989). Il numero fu tempestato di chiamate spesso di mitomani, medium, veggenti e parapsicologi. Con il passare del tempo la linea squillò sempre meno, così come si stese gradualmente il silenzio sulla localizzazione della prigione di Moro. Ma il peggio agli occhi dei cittadini lo offrirono le sortite isteriche delle Forze dell'Ordine. La prima e forse la più grottesca fu l'arresto la sera stessa del 16 aprile 1978 di un funzionario di banca tesserato Dc, Franco Moreno, accusato di essere un fiancheggiatore delle Br. Passò kafkianamente quattro giorni recluso a Regina Coeli con l'accusa di "omicidio plurimo e sequestro di persona" prima di essere rilasciato immediatamente al primo interrogatorio. Nei giorni successivi al rapimento del segretario Dc, Roma fu un fischiare continuo di sirene che uscivano giorno e notte dai commissariati coordinati dalla Questura di Roma San Vitale, che si erano concentrate nei primi giorni di ricerche nella zona di Monte Mario, nei pressi dell'abitazione della famiglia Moro. In totale le perquisizioni fino al 3 aprile 1978 saranno ben 233, i fermi 129 e 42gli arresti, tutti senza esito. Molti degli obiettivi indicati dagli inquirenti erano palesemente fuori bersaglio: il nervosismo e la fretta avevano portato la Questura a fare irruzione persino nella libreria alternativa di Roma "L'Uscita" (letteralmente devastata) e nelle sedi delle radio libere. Non andò meglio ai Carabinieri in mancanza di coordinamento con la Polizia di Stato nonostante l'impiego di uomini che negli anni precedenti e sotto la guida di Dalla Chiesa avevano portato all'arresto di Curcio e Franceschini.
Cervelli artificiali: gli errori del supercomputer della Questura. Se le menti umane brancolavano nel buio, non andò diversamente per l'intelligenza artificiale, vale a dire quella del supercomputer installato negli uffici di PS di Castro Pretorio e fortemente voluto da Cossiga. Il primordiale cervellone elettronico avrebbe dovuto incrociare i dati di 10 milioni di schede personali raccolte dai vari organi di Polizia. Fu un flop clamoroso, perché il computer indicò come responso finale 20 possibili autori del rapimento Moro. L'errore fu subito chiaro in quanto molti dei terroristi presunti si trovavano già in carcere (e in molti casi per reati comuni), uno compariva due volte con due nomi e due foto diverse. La tensione crescente per l'impasse nelle ricerche generò screzi tra il Viminale e le Forze dell'ordine da questo coordinate, con accuse reciproche di ritardi nell'organizzazione dei posti di blocco a cui si replicava con la mancata coordinazione strategica e con la carenza cronica di uomini e mezzi. I sindacati delle Forze dell'Ordine avevano denunciato all'indomani di via Fani il proprio malessere per la carenza di almeno 13.000 agenti. Quelli in servizio si sentivano allo sbaraglio, avevano la sensazione di rispondere ad ordini inefficaci e talvolta contradditori. Mancavano armi e munizioni e la sicurezza non era garantita, come aveva dimostrato la mancata dotazione alla scorta di Moro di auto blindate e giubbotti antiproiettile. In questo momento difficile Francesco Cossiga si chiuse nel riserbo più assoluto, cosa che fece irritare non poco l'opinione pubblica a cui fece eco Sandro Pertini, che più volte aveva punzecchiato il Ministro degli Interni per l'inefficienza strutturale dei Servizi e delle Forze dell'Ordine.
I militari intervengono. Inefficienza di un Esercito di soldati di leva. L'ultima decisione presa dal Viminale nei primi 15 giorni di prigionia di Moro fu quella di coinvolgere l'Esercito. Non andò meglio, nonostante Cossiga avesse dovuto trattare per due giorni con i vertici della Difesa. I militari italiani non avevano un piano di intervento antiterrorismo aggiornato, essendosi fermati alle ultime disposizioni operative risalenti al golpe Borghese del 1970.
Erano stati ai margini durante gli anni della strategia della tensione. Il ritardo si palesò immediatamente anche perchè l'Esercito Italiano era ancora pressochè totalmente formato da militari in servizio di leva, che furono richiamati in numero di 1,200 per l'operazione dal nome altisonante di "Cintura di Ferro". Uscirono dalle caserme romane i mezzi e gli uomini dei Granatieri di Sardegna, i Bersaglieri e gli Artificieri da Civitavecchia mentre l'unico corpo speciale era rappresentato da un nucleo di Incursori di Marina trasferiti da La Spezia. I soldati di leva furono portati nelle strade ad istituire posti di blocco con vecchi fucili Beretta mod.59 (il Fal) e vetusti Garand tra le lamentele degli ufficiali di carriera che potevano misurare con mano tutta l'inadeguatezza degli organici dell'Esercito. Una situazione ben diversa da quella tedesca a cui si era ispirato il Ministero degli Interni, e lo si era capito dall'azione delle squadre speciali GSG-9, le teste di cuoio entrate in azione a Mogadiscio per la liberazione degli 86 ostaggi del volo Lufthansa dirottato dai terroristi come appendice del tragico rapimento Schleyer.
Il silenzio di Cossiga. Tra le maglie dei posti di blocco e dei rastrellamenti senza coordinamento, le Br furono in grado di lasciare impunite il comunicato n.2 nelle principali città italiane. Parole di sfida dei carcerieri di Aldo Moro che di lì a poco avrebbero fatto recapitare anche una lettera indirizzata a Cossiga. Parole siglate con la stella a cinque punte a cui si era contrapposto il cupo silenzio del Ministro, uomo normalmente incline alle esternazioni.
Sequestro Moro e BR: "Panorama" e il numero speciale dopo via Fani. Come il settimanale ha analizzato i fatti dopo il rapimento. Parlano Pertini e i think tank americani. Si rilegge la storia dell'escalation delle Br, scrive Edoardo Frittoli il 30 marzo 2018 su "Panorama". Il numero speciale di Panorama esce nelle edicole il 21 marzo 1978, a 5 giorni dalla strage di via Fani. Il direttore è Lamberto Sechi, firma l'editoriale Giuliano Amato.
Le "voci della strada" il giorno della Strage di via Fani. Stefano Benni, che nello 1978 curava la rubrica "opinioni per la Tv" su Panorama, fa rivivere ai lettori i momenti che accompagnarono uno dei giorni più drammatici della vita della Repubblica Italiana. Voci dal mercato, drappelli nei bar davanti alle televisioni poco dopo la prima diffusione della notizia da parte di radio e televisione. Benni ci lascia la testimonianza delle voci, delle imprecazioni, delle provocazioni e in generale dello sgomento e del terrore che il rapimento di Aldo Moro, (che molti ormai consideravano il prossimo Presidente della Repubblica) aveva pervaso gli Italiani. Squillano i telefoni delle radio "libere": le voci gracchiano notizie false tipo "è vero che hanno ucciso i figli di Moro"? ma anche "Giustizia proletaria è fatta". Alle 10 la Rai manda le prime immagini che Benni guarda in un bar dove il silenzio e l'emozione sono rotte dalle parole di un anziano: "Quando hanno sparato a Togliatti non c'erano tutte queste cose qui…". Fuori dal bar un uomo dice di essere spaventato perché abita sopra una sezione del Pci. Un altro vuole andare a casa a vedere "la Tv Svizzera, per sapere la verità". La diffusione della notizia, quarant'anni prima di Twitter, avviene con ogni mezzo. Anche un sorpasso tra camionisti può funzionare, come raccontato da un trasportatore dell'ortomercato. Quindi al brusio continuo si sovrappone il gracchio di un altoparlante di una macchina del Pci che invita alla mobilitazione immediata dei cittadini, nel nome della solidarietà nazionale. Mentre passano le drammatiche immagini dell'Alfetta della scorta di Moro crivellata di colpi, c'è lo spazio anche per qualche frase cinica per esorcizzare la paura: "scommettiamo che stasera in tv salta anche Scommettiamo". Allora è davvero "la fine del mondo" è la risposta.
Parla Pertini. Tutto nasce da una frase pronunciata da Ugo La Malfa poco dopo la strage di via Fani: "siamo in guerra". E la guerra era proprio ciò che le Br volevano che lo Stato riconoscesse, argomento chiave del primo comunicato dal rapimento Moro. Il leader repubblicano è spinto dall'angoscia quando comincia a parlare di Tribunali Speciali, pena di morte, stato di emergenza nazionale. Gli risponderà Sandro Pertini, che aveva conosciuto le carceri del ventennio e le leggi speciali di Mussolini, intervistato da Panorama. Il futuro Presidente della Repubblica e ex Presidente della Camera è naturalmente molto ferrato sull'argomento: Più che di "guerra", come paventava La Malfa, Pertini parla una di guerriglia brigatista descrivendo l'azione intrapresa dai terroristi. E sa bene per esperienza che la guerriglia può far male, molto male. Era quella unica forma di lotta possibile che il partigiano Pertini combattè fino al 1945, sconfiggendo alla fine lo Stato fascista. Da uomo delle istituzioni democratiche se la prende con i Servizi segreti italiani, a suo avviso inefficienti nel prevenire l'agguato e il rapimento del Presidente Dc. Il futuro Capo dello Stato dichiara la propria convinzione che dietro all'azione vi sia una mente antidemocratica, che vorrebbe far tornare indietro di 50 anni l'Italia. Nel 1972 ebbe a scontrarsi con Francesco Cossiga proprio sull'argomento. Il tono si fa quindi duro quando Pertini esprime la convinzione che la centrale del terrorismo sia all'estero, in qualche punto nevralgico parte di una rete internazionale. Per questo "bacchetta" Cossiga, allora Ministro degli Interni per l'inefficienza nelle ricerche del covo dove Moro è nascosto. E' pessimista, ma non abbattuto il leader socialista: ancora una volta il suo sguardo volge indietro al delitto Matteotti, quando "il delitto vinse come arma politica". Ma nel marzo 1978, dice Pertini, la situazione è molto diversa. Nessuno si era ritirato sull'Aventino. Lo sciopero di massa seguito alla strage di via Fani era un segnale della presenza del Paese, da non sottovalutare e da non abbandonare a sé stessa. La responsabilità della fiducia al governo Andreotti (pur con tutte le lacune che Pertini tiene a sottolineare) significa una risposta forte dello Stato contro le armi delle Br. Che a Pertini rievocano molti fantasmi del passato.
Il punto di vista di Botteghe Oscure. E' affidata alla parola del deputato milanese Giovanni Cervetti (1933) la reazione del Partito Comunista Italiano alla strage di via Fani. Cervetti è membro della Segreteria Nazionale del partito dal 1975 dopo essere stato segretario della Federazione milanese del Pci. La sede nazionale del partito di Botteghe Oscure è tra le organizzazioni che per prime si muovono nelle immediate circostanze del rapimento di Moro costato la vita ai 5 uomini della scorta, facendo scattare l'"operazione periferia" cioè l'ordine di mobilitazione dei consigli di fabbrica attraverso una rete di circa 150 sedi decentrate tra Provincia e Regione. Il punto di vista dei comunisti emerge immediatamente e si può sintetizzare dalle parole di Cervetti come l'esito di un'azione delle forze reazionarie internazionali nella scia inaugurata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana e proseguita nella "strategia della tensione". Il colpo di acceleratore dell'azione terroristica nel caso del rapimento Moro, secondo i dirigenti del Pci, sarebbe stato causato proprio dalla crescita elettorale inaugurata dalle politiche del 1976 e proseguita nell'avvicinamento alla Dc voluto e promosso dallo stesso Presidente democristiano. Nessun intervento esterno da parte di Mosca, che non avrebbe avuto motivo di colpire le istituzioni italiane nel momento di massimo favore di un partito membro dell'Internazionale comunista. Dall'intervista non emerge immediatamente la futura linea della fermezza che caratterizzerà la posizione del Pci di Enrico Berlinguer lungo i 55 drammatici giorni della prigionia di Moro. A poche ore dal rapimento le parole di Cervetti riecheggiano ancora un linguaggio "sinistrese": il ruolo primario del Pci di fronte all'attacco al cuore dello Stato avrebbe dovuto essere quello di organizzare "un grande contatto di massa del partito alimentando costantemente la discussione sulle radici e le azioni del terrorismo".
Visto dagli Stati Uniti. La parola ai think tank americani della Rand Corporation di Los Angeles: risponde alle domande di "Panorama" Brian Jenkins, uno dei massimi esperti di terrorismo internazionale. Sull'addestramento militare del commando di via Fani Jenkins allontana subito ogni ipotesi di coinvolgimento dei Servizi delle due grandi potenze della Guerra Fredda. Nè CIA nè KGB, forse i Palestinesi. Anche perché ci sarebbe il precedente dei terroristi tedeschi del gruppo Baader Meinhof (poi RAF) addestrati dai Palestinesi e autori dell'attacco al villaggio olimpico di Monaco di Baviera nel 1972. Gli esperti americani non escludono neppure la possibilità di un intervento dei Nordcoreani nell'appoggio logistico alle operazioni dei terroristi rossi in Europa. Se Jenkins e Robert Kupperman (esperto di terrorismo e consigliere dell'Us Arms Control and Disarmament Strategy) si dicono convinti del non coinvolgimento dei Servizi Segreti americani nel caso Moro, altrettanto ritengono per quanto riguarda una ipotetica azione del Kgb, condivisa da parte dell'opinione pubblica di destra in Italia, in funzione di contrasto all'"eurocomunismo" del Pci di Berlinguer. Secondo gli studiosi californiani l'Italia del 1978 sarebbe stata molto lontana dal Cile di Allende di 5 anni prima: quindi niente implicazioni delle grandi potenze. E in chiusura di intervista una dichiarazione non poco inquietante, se letta 40 anni dopo e se inquadrata nelle primissime ore che seguirono il rapimento di una delle figure più importanti della politica italiana del dopoguerra. "D'altra parte- dichiarava Michael Ledeen (consigliere di Kissinger) è difficile ipotizzare che atti come l'operazione Moro possano provocare svolte determinanti nella politica italiana". Ma per ammissione stessa degli esperti americani, le Brigate rosse erano state attentamente studiate negli ultimi mesi come uno dei 53 gruppi terroristici da prendere in seria considerazione, anche per i suoi possibili legami internazionali. Ma solamente con altre organizzazioni terroristiche internazionali: impermeabili ai Servizi occidentali.
Un legame con i "compagni" tedeschi? Quando Moro viene rapito, le Brigate rosse sono già entrate in una seconda fase organizzativa, quella successiva a Curcio e Franceschini già in carcere dal settembre 1974, rappresentata dalla leadership strategica di Mario Moretti. La prova dell'esistenza di legami con i terroristi tedeschi della Baader-Meinhof era emersa alla scoperta del covo di Robbiano di Mediglia (a pochi chilometri a Est di Milano) il 15 ottobre 1974 in seguito allo scontro a fuoco che costò la vita al Maresciallo dei Carabinieri Felice Maritano. In un opuscolo in tedesco appariva la foto di Pietro Bertolazzi, uno dei capi storici delle Br. Segno che qualcosa stava cambiando nelle relazioni dei terroristi rossi, e che la diffidenza dovuta alla prima impostazione leninista e operaista dei vecchi capi stava cedendo il passo ad una idea di internazionale del terrorismo che avrebbe prediletto l'azione di piccoli nuclei di guerriglieri al posto della grande sollevazione delle masse proletarie. Le azioni dei "Tupamaros" italiani furono forse lette in una chiave sbagliata, specie nel caso dell'azione più importante dopo via Fani, il rapimento del Procuratore Generale Mario Sossi. L'azione terminata con il rilascio dell'ostaggio dopo un "processo" non sarebbe tanto servito ad ottenere il rilascio dei terroristi del gruppo XXII ottobre, bensì a testare la reazione degli organi dello Stato prima di sferrare il "colpo al cuore" del 16 marzo 1978. Pochi giorni dopo Sossi i brigasti alzavano il tiro e uccidevano per la prima volta due militanti nella sede del Msi di Padova, provando in questo caso l'efficacia delle armi. Secondo il pm Emilio Alessandrini, che morirà nel 1979 sotto il piombo di Prima Linea, le Br della seconda generazione erano molto pericolose perché dotate di una rete capillare di "irregolari" ben coperti e difficilmente individuabili in grado di colpire rapidamente dappertutto. In questo nuovo corso, la Raf (Rote Armee Fraktion) tedesca era indubbiamente il modello di riferimento. Tornando al manuale ritrovato a Robbiano di Mediglia, si nota come diversi contenuti si ritrovino poi nel comunicato n.1 seguito di due giorni al rapimento di Aldo Moro: la centralità della Dc come obiettivo da colpire e l'analisi della storia dei partito da De Gasperi in poi. Esiste tra le righe dell'opuscolo il riferimento all'internazionalismo della lotta armata contro quella che i brigatisti considerano allo stesso modo un'organizzazione di potere transnazionale: Lo Stato Imperialista delle Multinazionali (SIM) citato poi continuamente nei comunicati redatti nel corso dei 55 giorni del sequestro Moro. Qualcuno parla di legami con le frange più oscure del terrorismo arabo-palestinese in un momento di grave tensione del Medio Oriente. Qualcuno invece, come l'avvocato esperto di terrorismo Giannino Guiso, parla addirittura di preparazione sotterranea alla terza guerra mondiale.
Banda Baader-Meinhof. Le idee, le bombe, i suicidi, “sospetti”. Nel 1968 in Germania si forma il gruppo terroristico Raf. E scoppia l’autunno caldo, scrive Paolo Delgado l'8 Aprile 2018 su "Il Dubbio". Li chiamavano “Banda Baader- Meinhof” e i media tedeschi li definivano comunemente “anarchici”, oltre che naturalmente “terroristi”. In realtà il nome che si erano dati era Raf, Rote Armee Fraktion, Frazione dell’armata rossa, ed erano comunisti con forte venatura terzomondista. Per sconfiggerli, lo Stato varò leggi eccezionali infinitamente più dure di quelle adoperate in Italia contro le Br. Calpestò ogni diritto, umano e civile. Fu il momento più tragico della storia della Germania ovest nel dopoguerra: “l’autunno tedesco”. Bettina Rohl, figlia di Ulrike Meinhof, una delle più famose esponenti del gruppo, ha segnalato in una recente intervista quanto, secondo lei, la separazione dei genitori sia stata determinante nella scelta estrema di sua madre. Materiale sufficiente per consentire qualche titolo a effetto sul terrorismo tedesco derivato dalle sofferenze private di Ulrike, giornalista molto nota negli anni 60. In realtà neppure Bettina Rohl accenna una tesi così balzana. Si limita ad affermare che il “tradimento” di suo padre Klaus Rohl, direttore della rivista radicale tedesca Konkret, la stessa dove aveva a lungo lavorato Ulrike, avesse fatto vacillare l’equilibrio mentale della madre, spingendola nelle braccia dell’Armata rossa. È anche questa una forzatura. Iscritta al Partito comunista illegale sin dal 1959, poi redattrice di punta dell’infiammata Konkret, Ulrike Menhoif era sempre stata schierata su posizioni molto estreme. E’ possibile che l’abbandono da parte di Rohl abbia pesato sulla sua decisione, ma certamente fu più determinate la situazione che si era creata in Germania ovest alla fine degli anni 60. Lo stesso clima incandescente che aveva portato alla nascita della Raf, gruppo armato longevo il cui scioglimento fu annunciato solo nel 1998, con numerosi attentati spettacolari all’attivo e un bilancio di sangue pesante: 33 vittime, oltre 200 feriti. Più una sfilza impressionante di suicidi, su molti dei quali non hanno mai smesso di aleggiare sospetti di omicidio camuffato, tra cui quello della stessa Ulrike Meinhof. Il ‘ 68 tedesco inizia in realtà il 2 giugno 1967. Quel giorno, nel corso delle manifestazioni contro la visita dello Scià di Persia, uno studente di 27 anni, Benno Ohnesorg fu ucciso da un poliziotto a Berlino. La situazione era già tesa di per sé. Per la prima volta era al governo una Grosse Koalition e i già esigui spazi d’opposizione, con il partito comunista fuori legge, si erano definitiva- mente chiusi. Il capo del governo, Kurt Georg Kiesinger, aveva avuto in tasca la tessera nazista fino al 1945. Ex nazisti di spicco erano disseminati un po’ ovunque nella pubblica amministrazione. L’assassinio di Ohnesorg suscitò tra i giovani una reazione fortissima, che si tradusse nella nascita di un diffuso movimento rivoluzionario che coniugava spesso confusamente marxismo, terzomondismo e suggestioni controculturali. Dal quel terreno sarebbero presto nati i gruppi armati, come la stessa Raf, le Cellule rivoluzionarie, il Movimento 2 Giugno di Bommi Bauman, che prendeva il nome proprio dalla data dell’uccisione di Ohnesorg. Il 2 aprile 1968 quattro studenti, tra cui Andreas Baader e Gudrun Ensslin, diedero fuoco alla sede di due grandi magazzini a Francoforte per protesta contro la guerra in Vietnam. Meno di dieci giorni dopo il leader della Sds, guida del movimento studentesco, Rudi Dutschke fu ferito gravemente da un neofascista dopo una campagna martellante contro il movimento e contro Dutschke personalmente dei giornali del gruppo Springer. La Germania prese fuoco. Le manifestazioni furono violentissime, costellate da attacchi ai giornali di Springer. Gli attentatori di Francoforte furono condannati a tre anni, con pena temporaneamente sospesa nel giugno 1969. Cinque mesi dopo, in novembre, fu spiccato un nuovo ordine di arresto ma a quel punto tre di loro, tra cui Baader e Ensslin erano già riparati in Francia, ospiti del giornalista amico di Castro e di Guevara Regis Debray. Baader fu catturato nell’aprile 1970: meno di un mese dopo fu fatto evadere grazie all’aiuto di Ulrike Meinhof. Il ruolo della giornalista, che aveva chiesto un’intervista per far sì che il leader della Raf venisse spostato dal carcere permettendo l’evasione, avrebbe dovuto restare ignoto. Ma nell’imprevisto scontro a fuoco ci scappò un ferito grave e la giornalista decise di seguire Baader e la Ensslin in clandestinità. La Raf propriamente detta nacque allora. Il gruppo si trasferì in Libano, fu addestrato all’uso delle armi nei campi del Fronte popolare della Palestina. Strinse legami fortissimi con i palestinesi e probabilmente anche con qualche servizio segreto dell’est. Scelse il nome e il simbolo, pare commissionato da Baader a un grafico pubblicitario debitamente pagato: la stella rossa col mitra sovraimpresso e il nome del gruppo. Iniziarono le rapine e gli attentati, molti segnati dall’antimperialismo ma molti anche contro le propietà di Springer. La Raf diventò il pericolo pubblico numero 1 in Germania, oggetto di una caccia all’uomo di proporzioni inaudite che si concluse con l’arresto di tutti i dirigenti nel giugno 1972. Una nuova generazione di militanti riempì però i vuoti lasciati dagli arresti e iniziò allora la fase più tragica della storia tedesca nel dopoguerra. I detenuti furono rinchusi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, un inferno lastricato di isolamento assoluto, luci sempre accese, controlli permanenti. Nel 1974 Holger Meins proclamò uno sciopero della fame per protesta e ne morì. Nel 1976 morì anche la Meinhof: un altro suicidio. In occasione dell’inizio del processo ai capi della Raf, nell’aprile 1977, il gruppo uccise il pubblico ministero, Siegfried Buback, con l’autista e la guardia del corpo. In luglio fu colpito a morte il banchiere Hans Jurgen Ponto. Il 5 settembre fu sequestrato a Colonia il presidente della Confindustria tedesca, in un attacco che fece da modello al sequestro Moro. I quattro uomini della scorta furono uccisi. La Raf chiese il rilascio dei detenuti, lo Stato prese tempo pur avendo già deciso di non trattare. In ottobre l’Fplp si unì all’operazione con uno spettacolare dirottamento aereo. Per il rilascio degli ostaggi avanzò le stesse richieste dei rapitori di Schleyer, aggiungendo alla lista due detenuti palestinesi. Le teste di cuoio tedesche attaccarono l’aereo in sosta a Mogadiscio uccidendo quasi tutti i sequestratori. La stessa notte Baader, la Ensslin a Jan- Carl Raspe si suicidarono a Stammheim. Sulla loro morte, come su quella di Ulrike Meinhof non è mai stata fatta davvero chiarezza. Schleyer fu ucciso il giorno dopo. L’autunno tedesco durò ancora a lungo.
Sequestro Moro: tutti i comunicati delle Br nei 55 giorni di prigionia. L'analisi degli obiettivi e del linguaggio dei rapitori. Le lettere di Moro durante la drammatica trattativa tra le Br e lo Stato prima della tragica fine, scrive Edoardo Frittoli il 21 marzo 2018 su "Panorama". Tra Largo Arenula e Largo di Torre Argentina c'è un sottopasso pedonale. Sul tetto di una macchinetta automatica per le fototessere c'è una busta arancione. Dentro l'involucro, il primo comunicato delle Brigate Rosse viene ritrovato da un giornalista de "Il Messaggero" dopo una telefonata in redazione da parte dei rapitori. Si apre così la storia dei 9 comunicati (di cui uno falso) divulgati dai brigatisti durante i 55 giorni di prigionia del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Di seguito, la sintesi e l'analisi dei messaggi inseriti nel contesto dei 55 giorni del sequestro.
COMUNICATO n.1 - Aldo Moro nella "prigione del popolo". E' il primo messaggio fatto pervenire ai media due giorni dopo la strage di via Fani. Viene ritrovato sabato 18 marzo 1978. Allegato al messaggio nella busta trovata sopra la macchina per fototessere c'è la polaroid che diventerà l'icona dei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro. Il Presidente DC è ritratto in maniche di camicia, in apparenti buone condizioni fisiche. Dietro di lui un fondale con la stella a cinque punte su cui campeggia la scritta "Brigate Rosse". Il lessico del primo messaggio dei brigasti presenta già una serie di caratteristiche che ricorreranno nei comunicati successivi: la contrapposizione tra il "noi", che evoca anche una supposta unità del fronte terrorista ed il "loro", identificato come il nemico del proletariato (regime democristiano, Stato imperialista delle multinazionali, partiti dell'arco costituzionale ecc.). L'impressione è quella che i redattori dei messaggi vogliano arrivare subito all'obiettivo della propria legittimazione e ad un riconoscimento da parte dello Stato come interlocutori ufficiali e rappresentanti della giustizia nei confronti di un non meglio descritto "proletariato". Proprio questa volontà emerge fin dalle prime battute, dove si dichiara la detenzione del "prigioniero" (e non "ostaggio") in uno stato di detenzione carceraria, la famigerata "Prigione del popolo". Si nota subito l'enfasi posta dai brigatisti riguardo il successo dell'azione in via Fani, con l'eliminazione fisica non di una scorta regolare bensì degli appartenenti a non ben definiti "famigerati Corpi Speciali". Di seguito le Br analizzano il curriculum politico di Aldo Moro, che definiscono erede diretto dell'anticomunismo di Alcide De Gasperi, principale promotore dell'allontanamento di quel PCI erede della lotta partigiana dalla compagine del Governo e di conseguenza artefice della mancata rivoluzione proletaria che avrebbe dovuto seguire la fine della guerra. Nella seconda parte del primo comunicato le Brigate Rosse passano all'incitamento e alla ricerca dell'appoggio dei "compagni" tramite l'eco attesa dai media nazionali e internazionali. Si definisce il nemico da combattere, lo Stato Imperialista delle Multinazionali (una sorta di anticipazione delle future critiche alla globalizzazione) un organo sovranazionale rappresentato in Italia dalla Democrazia Cristiana, dai Servizi e dai partiti politici (non escluso il Pci, perchè siamo al culmine della fase di avvicinamento all'area di governo nota come "compromesso storico". Quindi il primo messaggio non è tanto rivolto allo Stato, bensì ai simpatizzanti e fiancheggiatori non organici alle Br, come in una sorta di dimostrazione dell'effettivo potere dei terroristi nell'azione militare pronta a colpire direttamente il "cuore dello Stato". Il comunicato si chiude infatti con l'uso di termini militari atti a dimostrare che vi sia in corso una guerra (come ad esempio l'espressione "stanare dai covi democristiani gli agenti controrivoluzionari" piuttosto che il "non concedere tregua" (notare che "Senza Tregua" era il titolo di un testo fondamentale sulla guerriglia partigiana scritto dal gappista Giovanni Pesce e considerato una guida negli ambienti del terrorismo come dimostrò la storia di Giangiacomo Feltrinelli). La parte finale è spezzettata in una serie di slogan, altra caratteristica ricorrente dei messaggi durante la detenzione di Aldo Moro.
COMUNICATO n.2 - L'"Internazionale del terrore" letta dai terroristi. Questa volta, come a confermare la volontà dei rapitori di coinvolgere il più possibile i mass media e di raccoglierne la più larga eco possibile, i volantini vengono fatti trovare a Torino, Roma, Milano e Genova in seguito a telefonate alle redazioni locali dell'Ansa, delle radio e di alcuni quotidiani. E' il 25 marzo 1978. Moro ha trascorso la Pasqua nella "prigione del popolo". Sono passati 8 giorni dal primo comunicato e la reazione dello Stato al rapimento e alla strage degli agenti di scorta aveva portato alla fiducia immediata all'esecutivo guidato da Giulio Andreotti, che aveva già reso nota la linea della "fermezza" nel rifiutare ogni tipo di trattativa con i rapitori. L'incipit del messaggio dattiloscritto riguarda un prolisso elenco delle responsabilità di Aldo Moro nell'esercizio delle sue numerose cariche istituzionali dagli anni '50 in poi. Si fa accenno a passaggi fondamentali e oscuri nella storia della Repubblica, sopra tutti il "Piano Solo" e lo scandalo del Sifar del Generale De Lorenzo (1964). I rapitori dichiarano che tutti questi ultimi saranno i punti chiave dell'interrogatorio al prigioniero Moro e che le risposte saranno divulgate pubblicamente, cosa che non avverrà mai. Il comunicato, diviso anche in questo caso in due parti distinte, affronta quindi la definizione del nemico sovranazionale, quel fantomatico Stato Imperialista retto manu militari da organizzazioni identificate come "Internazionale del Terrore". Stati Uniti e Israele sarebbero i centri nevralgici della controrivoluzione e della repressione della lotta comunista e proletaria (contro gli irlandesi dell'IRA, i Palestinesi, I tedeschi della Raf, i Tupamaros). Importante il riferimento all'autonomia delle BR messa in dubbio dai giornali nella prima settimana della prigionia di Moro. Lo scritto si chiude con un riferimento non privo di interrogativi: si rende onore ai due giovanissimi "compagni" milanesi Fausto Tinelli e Lorenzo "Iaio" Iannucci, assassinati il 18 marzo 1978. Nonostante gli organi di informazione e gli inquirenti credessero fermamente nella pista dello spaccio di droga, le Br escludono anche il possibile movente politico indicando chiaramente il duplice omicidio quale opera di "sicari del regime", come fossero stati a conoscenza di qualche elemento oscuro nella vicenda.
COMUNICATO n.3 - La lettera a Cossiga. L'attacco al Pci di Berlinguer. La sera del 29 marzo 1978 si ripete la pratica usata per il recapito del comunicato precedente, fatto ritrovare nelle stesse città dopo le telefonate alle redazioni. Allegata al messaggio delle Br viene ritrovata una lettera scritta da Aldo Moro a Francesco Cossiga (Ministro degli Interni). L'autenticità delle parole del Presidente della Dc è subito messa in dubbio, poiché suona come un testo dettato dai carcerieri al fine di alzare il tono della trattativa con lo Stato. Ormai il Governo ed i rappresentanti dei partiti hanno definito la propria linea, con la Dc, il Pc e l'Msi per la fermezza, alla quale si contrapponeva la voce dei Socialisti di Craxi e dei Socialdemocratici aperti alla trattativa per avere salva la vita di Moro. La minaccia di rendere pubbliche le missive del prigioniero che avrebbero potuto contenere elementi compromettenti nei confronti della politica italiana fu una sorta di boomerang per Moretti e i suoi, che trovarono inefficaci e sminuite le armi costituite dalle parole di Moro da parte dei destinatari del comunicato. La risposta della controparte, rappresentata dalla posizione di assoluta intransigenza di Giulio Andreotti, costrinse i carcerieri a dichiarare che il "prigioniero" collaborasse fattivamente e stesse svelando segreti inquietanti. L'attacco è poi diretto al Partito Comunista Italiano accusato di tradimento del proletariato per la sua opera di "spionaggio e delazione" nel fabbriche. I toni contro Berlinguer sono durissimi: è il capo di un partito di traditori e spie asservito al potere Dc, alla quale in quei mesi i comunisti si sarebbero avvicinati. Il testo qui rispecchia l'origine vetero marxista del linguaggio originario delle Brigate Rosse sin dalla fondazione nel 1970.
COMUNICATO n.4 - Moro abbandonato, lettera a Zaccagnini - Le Br sulla difensiva. Squilla il telefono alla redazione milanese del quotidiano "La Repubblica". Una voce anonima annuncia la pubblicazione del quarto comunicato dopo il rapimento Moro. E' il 4 aprile del 1978. Anche in questo caso assieme al volantino viene ritrovata una lettera del prigioniero al Segretario della Dc Benigno Zaccagnini. Nello scritto autografo al compagno di partito Moro si sarebbe lamentato della linea intransigente espressa dai Comunisti, sentiti come traditori degli accordi del "compromesso storico". In un passo del manoscritto emerge una contraddizione con il primo comunicato riguardo la sicurezza della scorta e l'inadeguatezza i mezzi a disposizione di quest'ultima al momento dell'agguato di via Fani. Una situazione ben diversa da quella descritta dai terroristi che si erano pregiati di aver eliminato un nucleo di teste di cuoio armate di tutto punto. Il comunicato va subito sulla difensiva: Moro è stato lasciato solo dalle istituzioni, e lo scritto a Cossiga divulgato con il comunicato n.3 sarebbe stato autenticamente redatto dal prigioniero, nonostante i giornali e le tv lo considerassero un messaggio sotto dettatura. Segue un testo contorto e scritto in un linguaggio esortativo sulle intenzioni programmatiche nel passaggio dall'azione clandestina alla vera e propria guerra del proletariato contro lo Stato Imperialista delle Multinazionali con una serie di passaggi strategici che ricalcano in qualche modo le azioni (non ben declinate nella realtà socio-economica italiana del 1978) dei primi nuclei comunisti organizzati alle origini della Rivoluzione di Ottobre.
COMUNICATO n.5 - Stralcio del "processo" a Moro, attacco a Paolo Emilio Taviani e al Pci di Berlinguer. E' un giorno di primavera ai Giardini Pubblici di Palestro, nel cuore di Milano. In un cestino dei rifiuti viene ritrovato il quinto comunicato dal giorno del sequestro di Aldo Moro. E' il 10 aprile 1978. Questa volta, insieme al consueto volantino con la stella a cinque punte è presente una parte delle risposte di Moro alle domande del "Tribunale del popolo". E' uno dei passaggi più inquietanti dei 55 giorni di prigionia, in quanto l'attacco è rivolto a Paolo Emilio Taviani, chiamato con spregio dai brigasti "teppista di Stato". Colpisce il fatto che proprio Taviani fosse stato in quei giorni uno dei più convinti sostenitori della fermezza contro ogni trattativa. Il politico Dc è chiamato in causa come tessitore di trame con i Servizi, la CIA, le altre cariche dello Stato in una rete segreta che ricorda da vicino la descrizione dell'organizzazione "Gladio". Le Brigate Rosse riprendono il discorso di Moro con una dimostrazione di forza che parte proprio da Taviani e dalle origini del terrorismo in Italia: il gruppo XXII ottobre di Genova (omicidio Floris, 1971). Le parole che seguono sono un elenco dell'azione delle Br della colonna genovese contro la "cricca democristiana" duramente colpita con l'uccisione del giudice Francesco Coco l'8 giugno 1976, il rapimento del magistrato Mario Sossi il 18 maggio 1974 ed altre azioni andate a segno come i ferimento del dirigente Ansaldo Carlo Castellano (17 novembre 1977). Sembra ancora un passo di difesa, quello compiuto dai redattori del comunicato numero 5: la trattativa sta andando in stallo, la risposta dello Stato è ancora stabile sul rifiuto. E' necessario per i sequestratori ribadire ancora una volta l'azione del fantomatico "partito armato dei proletari" in contrasto all'azione "repressiva" dello Stato, alla quale parteciperebbero attivamente Berlinguer ed il P "C" I, con le virgolette sulla "C" al fine di sottolineare il tradimento dell'ideale comunista.
COMUNICATO n.6 - L'imputato Moro è condannato a morte dal "popolo"- il distacco dalla realtà delle Br. Ancora una volta una telefonata a "Repubblica" anticipa il ritrovamento di un comunicato. Stavolta a Roma, ancora in un cestino dei rifiuti in via dell'Annunciata. E' il 15 aprile 1978 e sono passati appena cinque giorni dal comunicato ritrovato a Milano. L'attacco del comunicato sembrerebbe ad una prima lettura indicare il fallimento degli obiettivi del processo a Moro, il quale secondo i brigatisti non avrebbe aggiunto nulla di nuovo alla storia del potere democristiano dal dopoguerra. E' il comunicato che preannuncia la sentenza di morte per l'imputato del "Tribunale del popolo". Nelle parole dei brigatisti irrompe un linguaggio che per la prima volta utilizza una terminologia molto vicina a quella della mafia. I capi della Dc sono descritti infatti come "boss", appartenenti ad una "cosca" di politici. L'analisi delle Br di Moretti su 30 anni di Stato Imperialista sostenuto dalla Dc esce dai binari della realtà. La descrizione dell'oppressione di stato nei confronti delle avanguardie comuniste evoca direttamente la storia del nazismo: arresti di massa, rastrellamenti, torture, campi di concentramento per i "compagni combattenti". Non c'è più alcun riferimento a fatti precisi come nel caso del comunicato precedente (citazione dell'esperienza delle Br a Genova).
COMUNICATO n. 7 (FALSO) - Il cadavere di Aldo Moro sul fondale del lago della Duchessa. Viene trovato la mattina del 18 aprile 1978 a Roma in piazza Belli, a pochi passi dal Ministero di Grazia e Giustizia. Non è un documento originale, ma una copia battuto utilizzando una macchina da scrivere diversa dalla precedente. Importantissima la data del 18 aprile, che coincide con il ritrovamento del covo romano delle Br in via Gradoli 96, occupato da Mario Moretti e Barbara Balzerani ai vertici della colonna romana dell'organizzazione terroristica e autori della strage di via Fani. Inizialmente identificato come autentico dagli esperti, in realtà differisce dagli altri comunicati per molti aspetti, a partire da quello sintattico lessicale, ai contenuti, all'italiano incerto che lo allontanava dai messaggi ritrovati sino ad allora. Era inoltre molto più breve degli altri e non conteneva i soliti slogan conclusivi. Il messaggio annunciava l'avvenuta esecuzione del Presidente della Dc e l'occultamento del cadavere nei fondali "limacciosi" del lago della Duchessa, uno specchio d'acqua a 1,800 metri di quota tra Lazio ed Abruzzo. Naturalmente i sommozzatori giunti sul posto non trovarono altro che ghiaccio e neppure l'ombra del corpo di Aldo Moro, che era ancora in vita. Il comunicato del lago della Duchessa fu realizzato dal falsario Paolo Cucchiarelli, collegato alla banda della Magliana.
COMUNICATO n.7- Moro è vivo, tutta la colpa è di Andreotti. L'ultimo scambio possibile. Il vero comunicato n.7 delle Brigate Rosse fu trovato due giorni dopo quello fasullo. Era stato lasciato a Roma in via dei Maroniti nella solita busta arancione. Nell'involucro c'è la seconda foto di Aldo Moro, quella che i brigatisti usarono per dimostrare immediatamente l'esistenza in vita del prigioniero, ritratto mentre tiene in mano una copia del quotidiano "La Repubblica" datata 19 aprile. Il linguaggio torna quello dei veri comunicati divulgati precedentemente. Il cuore del messaggio sono le pesantissime accuse al Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che sarebbe stato l'autore del falso comunicato, di anni di trame con i Servizi deviati e addirittura della bomba in Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 come atto primo della "strategia della tensione". L'opinione delle Br a riguardo lascia un interrogativo riguardo alla decisione di colpire Aldo Moro piuttosto che Andreotti. Dopo il consueto delirio sulla risposta delle forze proletarie armate, giunge l'ultimatum di 48 ore allo Stato: la vita di Moro in cambio della libertà dei brigatisti incarcerati. O la sentenza del "popolo" sarà eseguita nonostante gli appelli giunti alle Br da parte del Papa Paolo VI, della Caritas, delle organizzazioni umanitarie internazionali.
COMUNICATO n.8- Funesti presagi di un condannato a morte, la lista dei brigatisti per lo scambio. Il penultimo comunicato delle Br, ritrovato il 24 aprile 1978, giunge in un momento particolarmente drammatico dei 55 giorni del sequestro dello statista Dc. Due giorni prima il Papa Paolo VI aveva rivolto un appello ai brigatisti letto ambiguamente, poiché il pontefice implorava la liberazione dell'ostaggio "senza condizioni", escludendo quindi ogni forma di scambio o trattativa con i rapitori. La fermezza del governo Andreotti procedeva parallelamente all'isteria generale e allo spiraglio letto dai sostenitori della trattativa capeggiati da Bettino Craxi. Il clima di chiusura alle richieste delle Br gettò Aldo Moro (che soffriva da tempo di una forma depressiva) nello sconforto, che si può leggere in una seconda lettera a Zaccagnini nella quale il prigioniero accusa la condotta dei democristiani annunciando un cupo avvenire per la politica italiana che avrebbe pagato caro il prezzo del suo sacrificio. Il comunicato contiene i nomi dei brigatisti di cui i rapitori richiedono la liberazione in cambio di Moro. Sono in tutto tredici (Tra cui Franceschini e Curcio, oltre al delinquente comune Sante Notarnicola e altri detenuti).
COMUNICATO n.9 - La trattativa è fallita. Il Tribunale del popolo ha emesso la sentenza di morte per colpa della Dc e del Pci. L'ultimo messaggio delle Brigate Rosse precede di soli quattro giorni l'esecuzione di Aldo Moro. Il ritrovamento avviene intorno alle 16,30 del 5 maggio 1978 e a Torino viene lasciato in un luogo macabramente evocativo: nei pressi di Corso Regina Margherita e via Valdocco. E' il "Rondò della Forca" dove fino all'800 venivano impiccati i condannati a morte. Passano ben 10 giorni dall'ultimo messaggio in cui si moltiplicano gli appelli umanitari, si riaccende la flebile speranza di salvare la vita di Aldo Moro. In questo lasso di tempo il prigioniero moltiplica i suoi appelli per la trattativa, includendo anche politici al di fuori del suo partito come Pietro Ingrao e naturalmente Bettino Craxi. Il comunicato n.9 giunge alle redazioni come una doccia fredda. Il linguaggio dei terroristi si fa greve nello scaricare la responsabilità di un processo (deciso e svolto solo ed esclusivamente dalle Br) sulla Democrazia Cristiana e addirittura su Luciano Lama e Enrico Berlinguer. Tornano i temi ossessivi del nazismo, dei lager, delle SS e la descrizione delirante di sistematici "rastrellamenti nei quartieri proletari" perpetrati dalle Forze dell'Ordine. I rapitori di Moro, dopo aver annunciato ufficialmente la fine del processo e l'imminente esecuzione dell'imputato, si aggrappano alla consolazione di una presunta vittoria sullo Stato Imperialista, che non sarebbe riuscito ad individuare il carcere del Presidente Dc in quasi due mesi di sequestro. La postilla che segue la firma in calce al messaggio dichiara la volontà di diramare gli atti del processo del "Tribunale del popolo" ad un fantomatico "Movimento rivoluzionario". L'intenzione non avrà naturalmente alcun seguito. Quello che accadrà quattro giorni dopo sarà proprio l'esecuzione di Aldo Moro. Era il 9 maggio 1978. Per l'Italia la morte del Presidente Dc significherà la fine di un percorso che cambierà la storia della vita politica nazionale: la morte, contemporanea a quella del suo massimo esponente, dell'idea di "compromesso storico" tra la Dc e il Pci.
Perché Aldo Moro è il Kennedy italiano. I tanti dubbi sulla strage di via Fani e la gestione del sequestro, nel 1978. Le rivelazioni della figlia sulla mancata presenza dello statista sul treno Italicus. I nuovi interrogativi sollevati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. «La storia del delitto Moro è un impasto di mezze verità, bugie, depistaggi, manovre». Parola di un giornalista che ci ha costruito un libro di successo, uscito dopo 36 anni dalla prima stesura, scrive Antonio Ferrari il 12 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera”. Tra gli uomini migliori che ho conosciuto e frequentato, uno si staglia decisamente. Non era un filosofo, non un sofisticato intellettuale, ma un limpido servitore dello Stato: Sandro Pertini. Se non ci fossero stati il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro (rispettivamente il 16 marzo e il 9 maggio 1978, ndr.), probabilmente Pertini non sarebbe mai diventato presidente della Repubblica. Quando esplose fragorosamente lo scandalo della loggia massonica P2, centrale eversiva e criminale, per fortuna l’Italia era guidata da un grandissimo patriota, che seppe lenire anche le gravi ferite subite dal nostro amato Corriere della Sera, inquinato dalle pedine di Lucio Gelli. Pertini impose e ottenne la nomina di un direttore verticale come lui, e con lo stesso aspro carattere, Alberto Cavallari. Il presidente ripeteva: «Ai giovani non servono sermoni. Hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza, di altruismo». Sante parole, valide sempre, oggi come nel passato e sicuramente nel futuro.
Il frigorifero dei silenzi. Quando la mia azienda mi chiamò, dopo la pubblicazione della vergognosa lista dei piduisti, ero un giovane inviato speciale sotto scorta. L’anno prima, infatti, era stato ammazzato dai terroristi il collega Walter Tobagi, ed era necessario garantire la sicurezza a chi, come chi scrive, si occupava di terrorismo. L’azienda mi chiese di aiutare il Corriere a salvarsi l’anima, imponendo l’esempio delle figure non compromesse con Gelli. Mi convocò e chiese, anzi mi impose di scrivere un libro. Non ero pronto per un saggio. Optai per un romanzo, dove avrei raccontato i retroscena del sequestro e dell’assassinio di un uomo politico. Non avrei fatto il nome, ma tutti avrebbero capito. Non vi furono obiezioni. Firmai il contratto, ottenni l’anticipo, ma il mio libro finì nel frigorifero dei silenzi, della paura e dell’imbarazzo.
Trentasei anni dopo. Per 36 anni — ripeto, trentasei anni — non uscì. È uscito adesso perché sono un ostinato, un «guastafeste della memoria», come mi ha definito l’Ambasciatore Sergio Romano, che del Corriere è una della firme più illustri. Il romanzo, titolo Il Segreto, edito da @chiarelettere, è composto dal 60 per cento di verità comprovata, dal 20 per cento di fantasia, e dal restante 20 per cento di quella «zona grigia» che sempre accompagna le storie epocali. Per esempio: sappiamo davvero tutto sull’assassinio del presidente degli Stati Uniti John Kennedy a 55 anni di distanza? Sappiamo davvero tutto dell’11 settembre 2001 con l’attacco all’America? Pensate allora che sia possibile sapere tutto del nostro «11 settembre», cioè del sequestro e dell’assassinio di Moro? Pia illusione.
Le verità ufficiali. La rassicurante costruzione che ci è stata offerta per far quadrare il cerchio delle responsabilità, e cioè il ruolo esclusivo delle Brigate rosse, formazione appartenente all’album di famiglia della sinistra (ma solo all’inizio) non mi ha mai convinto. Allora non sapevamo tante cose e forse avevamo bisogno di parziali «certezze». La paura, infatti, può produrre danni gravi. Sapevo che il mio Segreto aveva toccato corde intoccabili, come il ruolo dei servizi segreti e forse di quella stessa P2 che aveva infangato il mio Corriere. Mi hanno ovviamente accusato d’essere il dietrologo che non sono mai stato. Non amo le appartenenze, le ideologie, i partiti. Cerco di pensare con la mia testa. Certo, se dietrologo vuol dire rifiutare le veline e diffidare delle presunte verità ufficiali, allora mi riconosco nel ruolo.
La Commissione d’inchiesta. Nella mia seconda vita, dopo aver seguito il terrorismo, sono andato all’estero, seguendo le vicende internazionali con identica passione, e impegnato soltanto a rendere più forte il Corriere e a cercare di far vedere i «sorci verdi» alla concorrenza. Però la vicenda del Segreto mi rodeva. E quando ho deciso di affidarmi al più bravo agente letterario italiano, Marco Vigevani, ho trovato finalmente la strada giusta. La gara è stata vinta da @chiarelettere, e siamo ormai alla sesta edizione. Ma non è solo questo che mi soddisfa. Sono i risultati dell’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e sull’assassinio di Moro a tendermi la mano, dimostrando 36 anni dopo che alcune intuizioni non erano soltanto fantasie «dietrologiche», come speravano gli smemorati o i sabotatori della memoria.
Cosa è affiorato. La Commissione ha fatto affiorare: gli ambigui ruoli di Mario Moretti e Valerio Morucci; le ambiguità del ministro dell’Interno e futuro capo dello Stato Francesco Cossiga. Il quale non soltanto era convinto che Moro non fosse stato ucciso dalla BR, ma disse che conosceva il nome dell’assassino: non un brigatista ma un affiliato ad un’organizzazione criminale; le inascoltate dichiarazioni di testimoni preziosi come il palestinese Bassam Abu Sharif, esponente del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, convinto che in via Fani abbiano agito gli americani; il ruolo di un brigatista lasciato espatriare e mai arrestato, Alessio Casimirri, figlio di un dipendente del Vaticano; le iniziative del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Cosa sappiamo. È ormai assodato che: 1) In via Fani c’erano «anche le Brigate rosse»; 2) in via Fani erano presenti agenti di almeno quattro servizi segreti; 3) in via Fani c’erano uomini della ‘ndrangheta e della Banda della Magliana; 4) almeno un corpo dello Stato sapeva che in via Gradoli c’era un covo delle BR (con all’interno Mario Moretti e Barbara Balzerani, armati fino ai denti), ma non fecero nulla per scoprirlo. Il collega Andrea Purgatori, già grande firma del Corriere della Sera e ora straordinaria punta professionale de La7, ha condotto un’inchiesta televisiva esemplare sul caso Moro, scoprendo senza alcun timore carte e sospetti che dovevano restare segreti. Tanto di cappello davvero. Perché la storia del delitto Moro è un impasto di mezze verità, bugie, depistaggi, manovre.
Il ricordo degli studenti. Anch’io, riprendendo le vicende ai quegli anni drammatici per il nostro Paese, ho potuto mettere a punto fatti e retroscena che 36 anni fa ignoravo. Per esempio, la figura morale di Aldo Moro. Ho parlato con i suoi studenti, con i suoi colleghi universitari, con chi lo ha ben conosciuto. L’ammirazione è intatta. Le lezioni del professore pugliese, grande visionario della Democrazia Cristiana, cominciavano tutte con una frase: «Prima di tutto la persona», con l’invito a «rispettare le idee di tutti». Moro si battè come un leone per far approvare la legge sull’istruzione obbligatoria fino alla terza media. Era convinto che la democrazia si sarebbe consolidata soltanto diffondendo la cultura.
Quell’agosto del ‘74. Alla destra tutto questo non piaceva. Nel ‘63, negli anni di De Lorenzo e del piano Solo, si prevedeva la soppressione di Moro e il confino in Sardegna degli altri leader democratici. Il leader della Dc era sempre nel mirino. Per ragioni internazionali (il compromesso storico che non piaceva né agli Stati Uniti né all’Unione Sovietica) e per ragioni di politica interna. È passata quasi sotto silenzio, nel 2004, un’intervista di rilasciata da Maria Fida Moro a Giorno, Carlino, Nazione, al Gazzettino di Venezia e al Venerdì di Repubblica, in cui la figlia dello statista raccontava quanto gli confidò suo padre. Il 4 agosto del 1974, Moro salì sul treno Roma-Monaco per raggiungere la famiglia in vacanza nel Trentino. All’ultimo momento fu invitato a scendere da due funzionari della Farnesina, perché c’erano documenti importanti da firmare. Di malavoglia, Moro scese e decise di partire poi in auto. Poche ore dopo quel treno (l’Italicus) saltò in aria a San Benedetto val di Sambro: 12 morti e decine di feriti. Una coincidenza? Forse. Oppure un segnale minaccioso inviato all’uomo politico che, due giorni prima di morire, a chi prevedeva che sarebbe diventato presidente della Repubblica, rispose: «No, mi faranno fare la fine di John Kennedy».
La Lega e i 5S come Dc e Pci nel ‘76: è ora di “un compromesso storico”, scrive Francesco Damato il 7 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Nessuno aveva i numeri per governare e Moro trovò la soluzione. Nella storia ormai più che settantennale della Repubblica c’è un solo precedente di risultato elettorale neutro come quello di domenica scorsa. Esso risale al 1976, quando nel Parlamento eletto con un sistema integralmente proporzionale nessuno dei due partiti più votati – la Dc di Benigno Zaccagnini e Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer, dichiaratamente alternativi nella campagna elettorale – aveva i numeri per governare l’uno contro l’altro insieme con alleati disponibili e/ o sufficienti all’avventura. Che si trattasse di un’avventura era dimostrato da una situazione economica gravissima e da un ordine pubblico minacciato da un terrorismo di matrice non più soltanto nera ma anche rossa, affacciatosi sulla scena nel 1974 col sequestro del giudice Mario Sossi. La soluzione della crisi fu trovata da quel mago della mediazione che era Moro adottando, ma in una forma ridotta e contingente, il famoso ‘ compromesso storico’ proposto in una prospettiva più ampia alla Dc da Berlinguer. Il quale aveva temuto che anche in Italia una svolta marcatamente di sinistra finisse come in Cile. Dove i militari sostenuti dagli americani avevano soppresso nel sangue la democrazia. Ai colleghi di partito insofferenti e desiderosi di altre elezioni, anticipate come quelle appena svoltesi, Moro espose la parabola, diciamo così, dei due vincitori usciti dalle urne: la Dc e il Pci. Troppi per governare con i vecchi schemi di maggioranza e opposizione, capaci solo di paralizzarsi a vicenda. Occorreva quindi una stagione di decantazione o tregua, chiamata poi di ‘ solidarietà nazionale’, in cui entrambi i vincitori dovevano aiutarsi a vicenda a passare la nuttata, dicono a Napoli. E nacque il governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti sostenuto in modo determinante dai comunisti: prima con l’astensione, poi con la vera e propria fiducia negoziata nella lunga crisi che precedette il tragico sequestro di Moro. Sta per ricorrerne il quarantesimo anniversario. Diversamente dal 1976, questa volta si è votato con un sistema elettorale misto: prevalentemente proporzionale, con una quota maggioritaria modesta ma sufficiente a produrre un effetto opposto a quello perseguito dai cultori del metodo maggioritario. Si è prodotta non più governabilità, parola quasi magica dei costituzionalisti anti- proporzionalisti, ma meno governabilità. I due vincitori di domenica scorsa, destinati nella parabola morotea a garantire una tregua obbligata dopo un risultato neutro, sono il candidato grillino a Palazzo Chigi, che ha preso tanti voti da farne indigestione, e la coalizione di centrodestra, anch’essa molto votata ma non tanto da disporre della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, al pari del movimento delle 5 stelle. All’interno del centrodestra si è tuttavia verificato il sorpasso della Lega di Matteo Salvini sulla Forza Italia di Silvio Berlusconi, o del proconsole potenziale a Palazzo Chigi indicato dallo stesso Berlusconi alla vigilia del voto in Antonio Tajani, suo ex portavoce e attuale presidente del Parlamento Europeo. I due vincitori del 4 marzo si chiamano pertanto Di Maio e Salvini, col partito o la coalizione che hanno, rispettivamente, alle spalle. Coalizione, quella di cui Salvini ha conquistato la guida, che proprio per questa novità potrebbe però trovare ancora più difficilmente in Parlamento i voti che le sono mancati nelle urne per conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. E ciò anche se il forzista Renato Brunetta, capogruppo uscente alla Camera, ha immaginato davanti ai microfoni nella notte dello spoglio elettorale una lunga fila di aspiranti al ruolo di responsabili, pronti cioè a saltare sul carro di un governo Salvini. Se il segretario della Lega dovesse pertanto rassegnarsi alla rinuncia ad un incarico presidenziale conferitogli dal presidente della Repubblica, come ha già reclamato, per mancanza dei numeri necessari alla fiducia, egli si ritroverebbe a maggior ragione da solo a rivendicare e a condividere con Di Maio la vittoria elettorale. E insieme rientrerebbero nello schema moroteo dei due vincitori costretti dal loro stesso ruolo ad accordarsi. Che è poi la cosa alla quale Renzi li ha praticamente e perfidamente sfidati collocando il suo malmesso Pd all’opposizione per rimanere fedele all’impegno elettorale di non accordarsi con gli ‘ estremisti’ dei campi avversi. Sembrerà un paradosso al simpatico Sergio Staino, espostosi sul Dubbio a favore di un’intesa fra i grillini e il Pd, forse preferito da Di Maio per le condizioni di debolezza in cui lo stesso Pd si trova dopo le elezioni, ma la posizione assunta da Renzi appare più in linea di altre con lo schema moroteo del 1976. Lo stesso Renzi si sorprenderà a sentirsi dare del moroteo, o quasi. E i suoi avversari di sinistra saranno letteralmente scandalizzati, al pari di Sergio Mattarella e dei suoi collaboratori al Quirinale, per il culto che hanno di Moro, ma così stanno le cose stando al precedente del 1976. Così è se vi pare, avrebbe detto Luigi Pirandello.
Aldo Moro, quei 55 giorni che cambiarono l'Italia, scrive Davide Gianluca Bianchi il 6 aprile 2008 su "L’Occidentale". Quando Moro fu rapito facevo la Quinta elementare e, nonostante questo ne ho un ricordo piuttosto nitido, soprattutto delle emozioni che quel grande fatto politico determinò nel nostro paese. L’episodio che più mi colpì allora, e che non raramente mi ritorna alla mente ancora oggi, è di carattere personale, ma significativo: la mattina del 16 marzo, mentre mi trovavo a scuola, improvvisamente si spalanca la porta ed una signora del personale non docente, trafelata, dice poche parole con evidente emozione: “Hanno rapito Moro”. La maestra di allora, non estranea alla Sinistra extraparlamentare, scoppia in una risata sarcastica, che lascia esterefatta la signora e anche qualche ragazzino che, pur senza afferrare tutti gli elementi della vicenda, non capisce cosa ci sia da ridere della morte di cinque uomini alle dipendenze dello Stato (che secondo Pasolini erano più proletari dei contestatori universitari). Era l’area della “contiguità”, come si diceva allora, della condivisione politica di un progetto che intendeva attaccare il “cuore dello Stato”, era la scelta della complicità fattiva da parte di alcuni, l’ambiguità.
MORO: I 55 GIORNI CHE CAMBIARONO L'ITALIA, scritto da Ferdinando Imposimato e Ulderico Pesce. Scheda artistica: “Non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato.” Questa frase è il fulcro dell’azione scenica ed è documentata dalle indagini del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro, che nello spettacolo compare in video interagendo con il protagonista e rivelando verità terribili che sono rimaste nascoste per quarant’anni. Il titolo dello spettacolo è “moro” con la “m” minuscola a voler sottolineare che nel cognome del grande statista c’è la radice del verbo “morire”. Come se la “morte” di Aldo Moro fosse stata “scritta”, fosse cioè necessaria per bloccare il dialogo con i socialcomunisti assecondando i desideri dei conservatori statunitensi e dei grandi petrolieri americani in Italia rappresentati da Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che, dopo la morte di Moro, ebbero una folgorante carriera e condannarono l’Italia alla “sudditanza” agli USA. Moro sente che uomini di primo piano del suo stesso partito “assecondano” la sua morte trincerati dietro “la ragion di Stato” e lo scrive in una delle ultime lettere che fanno da leit motive dello spettacolo: “Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese. Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno voluto veramente bene e sono degni di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore”.
IL RACCONTO SCENICO. Il racconto scenico parte dai fatti del 16 marzo 1978 quando fu rapito Aldo Moro e furono uccisi gli uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Raffaele Iozzino, unico membro della scorta che prima di morire riuscì a sparare due colpi di pistola contro i terroristi, era di Casola di Napoli e proveniva da una famiglia di contadini. Raffaele, alla Cresima, aveva avuto in regalo dal fratello Ciro un orologio con il cinturino in metallo. Ciro, quella mattina del 16 marzo era a casa e casualmente, grazie al vecchio televisore Mivar, vide l’immagine di un lenzuolo bianco che copriva un corpo morto. Spuntava da sotto al lenzuolo soltanto il braccio con l’orologio della Cresima. Questa è l’immagine emblematica che ricorre più volte nelle video proiezioni, questa immagine è la radice prima del dolore di Ciro, protagonista dello spettacolo. Questo dolore diventa rabbia, e questa rabbia lo spinge a rintracciare il giudice Imposimato titolare del processo al quale chiede di sapere la verità. Sarà il rapporto tra Ciro e il giudice, strutturato su questo forte desiderio di verità, a rendere chiaro al pubblico che la morte di Moro e dei giovani membri della scorta furono è “assecondata” dai più alti esponenti dello Stato italiano con la collaborazione dei Servizi segreti americani. Nello spettacolo assume una funzione altrettanto importante l’incontro e l’amicizia tra Ciro Iozzino e Adriana, la sorella del poliziotto Francesco Zizzi, altro membro della scorta di Moro, proveniente da Fasano in provincia di Brindisi, che quella mattina del 16 marzo era al suo primo giorno di lavoro sostituendo la guardia titolare che la sera prima, “stranamente”, era stata mandata in ferie. Francesco, diventato da poco poliziotto, aveva una grande passione per la chitarra e cantava le canzoni di Domenico Modugno, pugliese come lui e come lo stesso Aldo Moro che, in macchina, quella mattina, affrontava gli ultimi giorni della sua vita, ascoltando Zizzi che cantava “La Lontananza” di Modugno. L’ingenuità e la leggerezza dei membri della scorta irrobustiscono la disperata determinazione di Ciro Iozzino nella ricerca della verità. Questa ricerca lo porterà di fronte a molte “stranezze” portate avanti da statisti come Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. Tra le “stranezze” scoperte e denunciate da Ciro Iozzino nello spettacolo ne ricordiamo alcune: in genere un’ora dopo il rapimento di una persona le indagini venivano assegnate, come stabilito dal Codice di procedura penale, al giudice istruttore che a Roma, il giorno in cui avvenne la strage, era Ferdinando Imposimato. Invece le indagini, trasgredendo il Codice, rimangono nelle mani della Procura della Repubblica di Roma che le affida al giudice Imposimato solo il 18 maggio 1978 quando Aldo Moro è già stato ucciso da nove giorni. Le “stranezze” denunciate nello spettacolo continuano. Il 31 gennaio del 1978, circa due mesi prima del rapimento Moro, nasce l’UCIGOS, un organismo di polizia speciale che va a lavorare alle dipendenze del Ministro dell’Interno che all’epoca era Francesco Cossiga. La famiglia di Iozzino non si spiega come mai nasca una squadra speciale di polizia investigativa senza l’autonomia che la Costituzione gli affida perché alle strette dipendenze di un ministero. Qualche mese prima della strage di via Fani accade una cosa ancora più inspiegabile, viene smantellato l’Ispettorato antiterrorismo diretto da Santillo che aveva raggiunto risultati eccellenti contro i terroristi e contro la Loggia Massonica P2. Fatto fuori Santillo e la sua “squadra”, a indagare sul terrorismo, prima del rapimento di Moro, rimaneva solo l’UCIGOS, che era alle strette dipendenze del ministro Cossiga. Chi aveva interessi a cancellare la squadra antiterrorismo di Santillo per fondare una polizia alle strette dipendenze di Cossiga? –si chiede Ciro Iozzino. Altra terribile verità scoperta da Ciro e denunciata nello spettacolo è quella secondo la quale uomini dell’UCIGOS ad agosto del 1978 erano già stati in via Montalcini n. 8, la prigione di Moro e che il quadro generale dei fatti fosse chiaro a pezzi dello Stato già allora. La denuncia finale che Ciro Iozzino fa nello spettacolo, e che allontana ogni dubbio sulla partecipazione dello Stato alla condanna a morte di Moro, suffragata da documenti, riguarda le rivelazioni di Pieczenik, un esperto di terrorismo mandato segretamente in Italia dal governo USA per la gestione del caso Moro. Pieczenik fa delle rivelazioni di cui è in possesso il giudice Imposimato e che riportiamo in parte, che diventano un momento importante dello spettacolo e, nel contempo, la rivelazione finale della verità sui mandanti dell’assassinio di Moro: “Quando Moro ha fatto capire attraverso le sue lettere che era sul punto di rivelare dei segreti di Stato e di fare i nomi di coloro che quei segreti detenevano, in quel momento mi sono girato verso Cossiga dicendogli che ci trovavamo a un bivio: se Moro potesse continuare a vivere o dovesse morire con le sue rivelazioni. La decisione di far uccidere Moro non è stata una decisione presa alla leggera. La decisione finale è stata di Cossiga, e presumo anche di Andreotti: Moro doveva morire.”
Note di regia. “Un altro spettacolo su Moro? Non se ne può più.” -direte. Avete ragione. Più che di spettacoli sul caso Moro c’è la necessità di sapere la verità sulla sua morte. Questo nostro lavoro vuole prima di tutto contribuire alla scoperta della verità e alla sua divulgazione. E’ un pò altezzoso il fine ma le scoperte del giudice Ferdinando Imposimato, titolare dei primi processi sul caso Moro, fino all’assassinio del fratello Franco, vanno verso la costruzione di una chiara verità: “Moro doveva morire”, era utile bloccare la sua apertura alla sinistra. Le nuove rivelazioni del giudice Imposimato rappresentano la base contenutistica del testo dove però le scoperte del giudice, sono intrecciate con la vita di Iozzino e Zizzi, due membri della scorta. Raffaele Iozzino era il poliziotto che riuscì a sparare due colpi contro i terroristi. Francesco Zizzi, era poliziotto ma soprattutto grande chitarrista e cantante di piano bar. Era al suo primo giorno di lavoro avendo sostituito, proprio quella mattina, la guardia titolare che aveva presentato un certificato medico. Nelle parole e nelle azioni di Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, protagonista dello spettacolo, abbiamo voluto descrivere le ansie e la disperazione di un ragazzo del sud a cui “distruggono” la famiglia. Con la figura della mamma di Raffaele, continuamente evocata, abbiamo voluto far parlare la disperazione di una mamma che non riesce a darsi pace, una mamma che vede il figlio partire per servire lo Stato e che rimane ad aspettare la verità da più di trent’anni. Nello stesso tempo crediamo che questo lavoro contribuisca ad informare sulle “colpe” di Francesco Cossiga e Giulio Andreotti che “non hanno voluto salvare Moro”.
Gustavo Selva, Eugenio Marcucci: Aldo Moro. Quei terribili 55 giorni. Introduzione di Simona Colarizi, Collana: Problemi Aperti 2003, pp 446, Rubbettino Editore, Storia d'Italia. La cronaca del "caso Moro" così come gli italiani la vissero fra il 16 marzo e il 17 ottobre del 1978. Di quelle giornate il racconto conserva tutta la drammaticità e le emozioni provate da chi, come Selva e Marcucci, seguirono la vicenda momento per momento. Gustavo Selva, all'epoca direttore del GR2, commentò, con una serie di "editoriali", i passaggi più significativi che sono rimasti impressi nella memoria di tutti ma che i giovani non conoscono. Al testo è aggiunta una documentazione di particolare interesse: per la prima volta vengono raccolte tutte le lettere, anche quelle mai recapitate ai destinatari, che Aldo Moro scrisse dalla "prigione del popolo", dove le Brigate rosse lo segregarono per 55 giorni; il "memoriale" dettato dallo statista democristiano; l'ultimo discorso del 28 febbraio 1978 che Aldo Moro pronunciò davanti ai gruppi parlamentari della DC e che fu determinante per la formazione del Governo Andreotti appoggiato dal Partito Comunista.
Aldo Moro, i 55 giorni più lunghi della Repubblica. Lo statista democristiano fu rapito il 16 marzo 1978 e ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio, scrive il 9 maggio 2017 "Ansa". Il 16 marzo 1978, poco dopo le 9, un commando delle Brigate Rosse entra in azione in via Fani, a Roma: blocca le auto del presidente Dc Aldo Moro, uccide i 5 uomini di scorta e portano via Moro su una Fiat 132 blu. Poco dopo rivendicano l'azione con una telefonata all' Ansa. Il sequestro terminerà 55 giorni dopo, il 9 maggio, con l'uccisione dello statista. Ecco le tappe drammatiche di quei giorni.
- 16 marzo: poco dopo le 9 un commando delle Brigate Rosse entra in azione a via Fani, a Roma. In pochi minuti, dopo aver bloccato con un tamponamento le auto del presidente Dc Aldo Moro, le Br uccidono i 5 uomini di scorta e portano via Moro su una Fiat 132 blu. Poco dopo rivendicano l'azione con una telefonata all' Ansa. Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale. In serata il governo Andreotti, il primo con il voto favorevole del Pci, ottiene la fiducia alla Camera e al Senato.
- 18 marzo: Arriva il 'Comunicato n.1' delle Br, che contiene la foto di Moro e annuncia l'inizio del processo.
- 19 marzo: Papa Paolo VI lancia il suo primo appello per Moro.
- 20 marzo: al processo di Torino, il 'nucleo storico' delle Br rivendica la responsabilità politica del rapimento.
- 21 marzo: Il governo approva il decreto antiterrorismo.
- 25 marzo: Le Br fanno trovare il Comunicato n.2.
- 29 marzo: Arriva il ''comunicato n. 3'' con la lettera al ministro dell'Interno Cossiga in cui Moro dice di trovarsi ''sotto un dominio pieno e incontrollato dei terroristi'' e accenna alla possibilità di uno scambio. Moro non voleva renderla pubblica, ma i brigatisti scrivono di averla resa nota perchè ''nulla deve essere nascosto al popolo''. Recapitate anche altre lettere indirizzate alla moglie e a Nicola Rana.
- 4 aprile: Arriva il 'Comunicato n. 4', con una lettera al segretario della Dc Benigno Zaccagnini.
- 7 aprile: Il ''Giorno'' pubblica una lettera di Eleonora Moro al marito. La famiglia tiene un linea del tutto autonoma rispetto alla ''fermezza'' del governo. - 10 aprile: Le Br recapitano il comunicato n.5 e una lettera di Moro a Taviani, che contiene forti critiche.
- 15 aprile: Il 'Comunicato n.6' annuncia la fine del processo popolare e la condanna a morte di Aldo Moro.
- 17 aprile: Appello del segretario dell'Onu Waldheim.
- 18 aprile: Grazie ad un'infiltrazione d'acqua, polizia e carabinieri scoprono il covo di via Gradoli 96. I brigatisti (Moretti e Balzerani) sono però assenti. A Roma viene trovato un sedicente 'comunicato n.7' in cui si annuncia l'avvenuta esecuzione di Moro e l'abbandono del corpo nel Lago della Duchessa. Il comunicato, falso in modo evidente, è ritenuto autentico e per giorni il corpo di Moro sarà cercato, con un grande schieramento di forze, in un lago di montagna, tra le province di Rieti e L'Aquila, ghiacciato da mesi.
- 20 aprile: Le Br fanno trovare il vero 'Comunicato n.7', a cui è allegata una foto di Moro con un giornale del 19 aprile.
- 21 aprile: La direzione Psi è favorevole alla trattativa.
- 22 aprile: Messaggio di Paolo VI agli ''Uomini delle Brigate rosse'' perchè liberino Moro ''senza condizioni''.
- 24 aprile: Il Comunicato n.8 delle Br chiede in cambio di Moro la liberazione di 13 Br detenuti, tra cui Renato Curcio. Zaccagnini riceve un'altra lettera di Moro, che chiede funerali senza uomini di Stato e politici.
- 29 aprile: E' il giorno delle lettere. Messaggi di Moro sono recapitati a Leone, Fanfani, Ingrao, Craxi, Pennacchini, Dell' Andro, Piccoli, Andreotti, Misasi e Tullio Ancora.
- 30 aprile: Moretti telefona a casa Moro e dice che solo un intervento di Zaccagnini, ''immediato e chiarificatore'' puo' salvare la vita del presidente Dc.
- 2 maggio: Craxi indica i nomi di due terroristi ai quali si potrebbe concedere la grazia per motivi di salute.
- 5 maggio: Andreotti ripete il 'no alle trattative'. Il 'Comunicato n. 9' annuncia: ''Concludiamo la battaglia cominciata il 16 marzo, eseguendo la sentenza''. Lettera di Moro alla moglie: ''Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l'ordine di esecuzione''.
- 9 maggio: Verso le 13,30, in via Caetani (vicino alle sedi di Dc e Pci), dopo una telefonata di Morucci avvenuta poco prima delle 13, la polizia trova il cadavere di Moro nel portabagagli di una Renault 4 rossa. Era in corso la direzione Dc, dove sembra che Fanfani stesse per fare un discorso aperto alla trattativa. Moro sarebbe stato ucciso la mattina presto nel garage di via Montalcini, il covo usato dai brigatisti come ''prigione del popolo''.
Moro: Da via Fani a via Caetani, mappa di un sequestro. Tra le strade di Roma che raccontano covi e misteri a 40 anni dall'agguato, scrive Massimo Nesticò il 12 marzo 2018 su "Ansa”. Da via Fani a Via Caetani. Passando per via Montalcini. Senza trascurare via Gradoli. Con una puntata 'fuori porta', tra Palidoro e Palo Laziale, sul litorale. I misteri del caso Moro si riflettono plasticamente sulla toponomastica di una città - Roma - che tra il 16 marzo ed il 9 maggio del 1978 era presidiata dalle forze dell'ordine, con posti di blocco ovunque. Ma nessun controllo si rivelò utile e le vie della Capitale si trasformarono in un labirinto senza uscita. Quarant'anni dopo, per ciascuna delle 'stazioni' lungo cui si è dipanata la via crucis dello statista democristiano restano aperti gli interrogativi su cosa sia davvero successo. Una coltre di nebbia favorita dalla rigida compartimentazione con cui si muovevano le Brigate Rosse, oltre che da reticenze e depistaggi messi in atto da diversi soggetti.
VIA FANI - Inizia tutto in via Fani, angolo con via Stresa, la mattina del 16 marzo, intorno alle 9. Quartiere Camilluccia, quadrante nord della città. Un commando di terroristi (ma c'erano solo loro? E quanti in realtà?) apre il fuoco sulla scorta del presidente della Dc, Aldo Moro (partito dalla sua casa in via del Forte Trionfale 79 per andare alla Camera a votare la fiducia al quarto governo Andreotti), uccidendo i cinque agenti: Oreste Leonardi e Domenico Ricci a bordo della Fiat 130 di Moro; Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi sull'altra vettura. Moro viene prelevato e sistemato a bordo di una Fiat 132 blu che riparte a tutta velocità verso via Trionfale, preceduta e seguita da altre due auto dei componenti del commando. Secondo le ricostruzioni fornite successivamente dai brigatisti, le tre auto vengono abbandonate tutte insieme nella vicina via Licinio Calvo.
VIA MONTALCINI - Quartiere Portuense. Al numero 8, interno 1, di questa via della Magliana, secondo quanto emerso dai processi, sarebbe stato tenuto sotto sequestro per 55 giorni il presidente della Dc. La prigione del popolo è in un territorio all'epoca capillarmente controllato dalla banda della Magliana che, a sua volta, ha legami solidi con apparati dello Stato deviati. Alcuni esponenti del gruppo criminale - da Danilo Abbruciati ad Antonio Mancini - abitano a pochi passi dal numero 8 di via Montalcini. L'appartamento è intestato alla brigatista Anna Laura Braghetti, la cosiddetta 'vivandiera'. Dentro ci sono anche Prospero Gallinari e Germano Maccari. Per gli 'interrogatori' arriva Mario Moretti, che parte da un altro luogo simbolo: via Gradoli 96. Tanti i dubbi sul covo: c'è chi ipotizza che lo statista sia stato prigioniero in altre zone. Addirittura sul litorale, in una zona più appartata e tranquilla rispetto a Roma, tra Focene e Palidoro, come indicherebbero i sedimenti trovati sugli indumenti del politico.
VIA GRADOLI - In questa traversa della Cassia, zona Nord, in una palazzina al numero 96, c'è Mario Moretti, sotto l'alias 'ingegner Borghi', con la compagna Barbara Balzerani. La Polizia, in occasione dei controlli fatti due giorni dopo la strage di via Fani, va in via Gradoli, come in altre strade del quartiere, ma non in quell'appartamento. Il 'covo di Stato' (nella definizione di Sergio Flamigni) viene scoperto solo il 18 aprile 1978, in seguito ad una perdita d'acqua segnalata dall'inquilina del piano di sotto. Si apprenderà poi che nella palazzina ci sono ben 24 case di società immobiliari intestate a fiduciari del Sisde. Altra stranezza: nel settembre del '79 il funzionario del Viminale Vincenzo Parisi compra un appartamento al numero 75, stesso stabile dove Moretti, prima e durante il sequestro, disponeva di un box auto. Tra l'81 e l'85 Parisi - nel frattempo diventato vicedirettore e poi direttore del Sisde - prosegue con gli acquisti al numero 75 ed anche al 96. Parisi diventa poi capo della polizia.
VIA CAETANI - Il sequestro si chiude con l'ultimo atto, questa volta al centro di Roma: in via Caetani - dietro Botteghe Oscure, sede del Pci e poco distante da piazza del Gesù, sede della Dc - dove la mattina del 9 maggio viene fatta trovare una Renault 4 amaranto con il cadavere del politico nel portabagagli. Tanti i dubbi sollevati da chi ritiene improbabile che i brigatisti quella mattina abbiano attraversato tutta la città per arrivare da via Montalcini al centro storico, con quell'ingombrante carico. C'è chi ipotizza che il prigioniero si trovava in realtà in un covo nei dintorni di via Caetani. L'informato Mino Pecorelli scrive il 17 ottobre 1978: "Il ministro di Polizia (Cossiga, ndr.) sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero: dalle parti del ghetto". Altra suggestione: via Caetani costeggia due palazzi storici, Palazzo Caetani e Palazzo Antici Mattei. In quest'ultimo il Sismi fa degli accertamenti dopo via Fani identificando il direttore d'orchestra russo, naturalizzato italiano, Igor Markevitch e la moglie, Topazia Caetani. Markevitch venne poi indicato come possibile intermediario nella trattativa per liberare Moro e, da alcuni, addirittura come colui che condusse gli interrogatori sul politico. Successivamente, il Sisde installerà un ufficio nella piccola via alle porte del ghetto. L'ennesimo enigma di una storia ancora oscura, come una strada non illuminata.
Nella cella di Aldo Moro oggi dormono due bambine. Dall’appartamento di via Montalcini al covo di via Gradoli, ecco cosa resta, scrive Giovanni Bianconi il 10 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Nella stanza dove fu recluso Aldo Moro, ostaggio delle Brigate rosse dal 16 marzo al 9 maggio 1978, ora dormono due bambine di 7 e 4 anni. È la camera da letto e dei giochi delle figlie della famiglia che abita in via Camillo Montalcini 8, piano 1 interno 1. La «prigione del popolo» allestita dai terroristi in una ordinata palazzina piccolo-borghese alla periferia sud di Roma non ha più nulla di ciò che fu quarant’anni fa, quando in quell’appartamento di oltre cento metri quadrati, completo di giardino, cantina e garage dove avvenne l’esecuzione dell’ostaggio, abitavano i militanti delle Br Anna Laura Braghetti, Prospero Gallinari e Germano Maccari, con Mario Moretti che andava e veniva per interrogare il prigioniero. La cella di Moro era nascosta dietro un muro improvvisato che copriva un’intercapedine larga poco più di un metro e lunga quattro. Anche fuori l’ambiente è cambiato. Nello spazio verde sull’altro lato della strada, all’epoca abbandonato, oggi c’è un bel parco attrezzato, all’ingresso il capolinea degli autobus. Sui muri campeggiano un paio di graffiti illeggibili e una scritta neofascista contro Laura Boldrini. Nient’altro che evochi i contrasti politici di oggi, e tantomeno quelli del 1978, quando in questo luogo cambiò la storia d’Italia. La casa dove Moro fu segregato fu acquistata nel 1977 dalla Braghetti, non ancora entrata in clandestinità, che restò ad abitarci per qualche tempo dopo la conclusione del sequestro e lo smantellamento della prigione. Sul parquet, a terra, rimase il segno della parete rimossa. Nel ’79 la brigatista vendette l’appartamento alla stessa cifra a cui l’aveva comprato, 50 milioni di lire, e l’acquistò il capofamiglia del quarto piano, per la suocera. Ignaro di tutto. Finché un giorno bussarono gli investigatori, la signora mostrò il contratto d’acquisto dove compariva il nuovo indirizzo della Braghetti, che fu arrestata poco dopo. Poi si scoprì che quel covo era stato il carcere di Moro, e il segno sul parquet rimase lì a ricordarlo finché nel 2008 — dopo la morte della signora e l’ingresso di una nipote — i lavori di ristrutturazione tolsero ogni traccia. Non prima di un contatto con la famiglia Moro: «Voi avrete sempre il diritto di venire in questo luogo, ogni volta che vorrete». Un esempio di memoria privata che va oltre il tempo trascorso e la mutazione dei luoghi. L’anno scorso sono tornati qui i carabinieri del Ris, che in garage hanno fatto nuovi rilievi e prove di sparo per verificare la versione brigatista dell’omicidio, portando in via Montalcini una Renault 4 uguale a quella in cui fu riconsegnato il cadavere dell’ostaggio. Conclusione: «Si ritiene che non siano emersi elementi oggettivi tali da sconfessare un’azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro». Diciotto chilometri più a nord, dall’altra parte della città, una sbarra a comando regola l’accesso in via Gradoli, una traversa della Cassia, dove c’era la base br abitata da Mario Moretti. «Certamente il luogo più enigmatico», scrive l’autore televisivo Roberto Fagiolo nel suo recentissimo Topografia del caso Moro (Nutrimenti editore). Il 18 aprile, un mese dopo la strage di via Fani, un’infiltrazione d’acqua dal secondo piano della palazzina B, interno 11, provocò l’irruzione dei vigili del fuoco: saltarono fuori armi e documenti delle Br, ma il sedicente ingegnere Mario Borghi, che l’aveva affittata tre anni prima, riuscì a farla franca insieme all’altra inquilina, la brigatista Barbara Balzerani. Poi si scoprì che già all’indomani del sequestro, il 18 marzo, la polizia aveva controllato l’edificio, all’interno 11 nessuno aprì e gli agenti se ne andarono; nonostante la signora di fronte sostenesse di aver sentito trasmettere nottetempo messaggi con l’alfabeto Morse (mai confermati). Seguirono la segnalazione su «Gradoli» giunta da una seduta spiritica, che portò gli investigatori in un paese del viterbese ma non nella via omonima, e la successiva scoperta di appartamenti in zona nella disponibilità dei servizi segreti. Ancora oggi, dice un inquilino che all’epoca non era nato, molte case sono intestate a società, «e chissà chi c’è dietro». Sul cancello gli annunci di vendite e affitti sono scoloriti dal tempo, l’appartamento delle Br è vuoto. Fino a dicembre era abitato da un anziano signore morto in solitudine, l’amministratore è alla ricerca degli eredi. Nessuno degli attuali inquilini era qui quarant’anni fa. Il portiere — un cingalese arrivato nel 1999 — ha sentito parlare di Moro e delle Br solo dopo tanto tempo, in occasione di un altro caso di cronaca dai risvolti politici emerso dal sottoscala del palazzo: gli incontri della transessuale Natalie, frequentata dall’allora presidente della Regione Lazio. Era il 2009, e per interrompere il viavai di giornalisti, curiosi e clienti fu montata la sbarra che oggi protegge la tranquillità degli abitanti e i segreti veri o presunti di quarant’anni fa. Da qui Mario Moretti portava i testi dei comunicati brigatisti nella tipografia di via Pio Foà 31, quartiere Monteverde. La polizia la individuò negli ultimi giorni del sequestro, ma l’irruzione avvenne dopo il 9 maggio. Tra macchine da scrivere e stampatrici c’era pure una fotocopiatrice dismessa dal ministero della Difesa, particolare che ha alimentato ulteriori sospetti. Oggi dietro la stessa saracinesca lavora un tappezziere che ha acquistato il locale nel 1994. Delle Br ha avuto i racconti del barbiere che lavorava nel negozio accanto, dove si appostavano i poliziotti durante i pedinamenti; ora il barbiere è in pensione, al suo posto c’è un parrucchiere per signore. Di fronte abitava il leader comunista Giancarlo Pajetta insieme alla giornalista Miriam Mafai, morta nel 2012, da cui ha preso il nome della Fondazione che ha sede nello stesso, anonimo palazzo. Di fianco, lungo la rampa che porta ai garage, un materasso sull’asfalto e un paio di coperte, accanto a un fornelletto e due pentole sporche, sono il ricovero di un senzatetto; quarant’anni fa sarebbe stato un testimone utile per l’antiterrorismo, oggi lo è di una nuova emergenza. A breve distanza, meno di cinque chilometri, un’altra base brigatista che ha avuto grande importanza durante il sequestro Moro: via Gabriello Chiabrera 76, alle spalle della basilica di San Paolo. Era il rifugio dei «postini» delle Br Valerio Morucci e Adriana Faranda. Da qui, la mattina del 16 marzo, Morucci e Franco Bonisoli uscirono per andare a sparare in via Fani contro gli uomini della scorta, mentre la Faranda rimase ad ascoltare i messaggi radio di polizia e carabinieri. Qui, la sera dell’8 maggio, Moretti e compagni decisero le modalità d’azione della mattina seguente: l’esecuzione di Moro e il trasporto del cadavere nel centro di Roma, dove in via Caetani un brigatista aveva parcheggiato la sua macchina per tenere il posto alla Renault 4 rossa. Anche in via Chiabrera, dove in fondo alla strada c’era un bar frequentato dai banditi della Magliana, nessuno s’era accorto di nulla all’epoca; ma nessuno sa niente nemmeno adesso. Nell’appartamento al primo piano affittato dalle Br abitano tre studentesse ignare di tutto. Che non mostrano alcuna curiosità per le Brigate rosse né per la storia di Aldo Moro. «Vabbè, ma noi che c’entriamo?», si schermisce quella che apre la porta. Pronta a richiuderla: «Arrivederci». La memoria può aspettare.
Aldo Moro, il buio oltre via Fani. Indagine sui retroscena del sequestro. Il 16 marzo in edicola con il «Corriere» un saggio di Giovanni Bianconi sulla tragedia del leader democristiano. Qui pubblichiamo una sintesi della nuova introduzione, scrive Giovanni Bianconi il 14 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il testo che segue è una sintesi della nuova introduzione scritta da Giovanni Bianconi per la riedizione del suo libro «Eseguendo la sentenza», in edicola il 16 marzo con il «Corriere della Sera» in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Sono passati quarant’anni, e più che in altre occasioni le celebrazioni per l’anniversario del sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta — i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci, insieme ai poliziotti Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi — assumono un significato particolare. Non solo perché è una ricorrenza «a cifra tonda» e dunque considerata più evocativa, ma per l’atmosfera in cui cade. È l’inizio di una nuova legislatura, caratterizzata da incognite e fermenti che, in tutt’altre condizioni, ricorda quella del 1978, quando il presidente della Democrazia cristiana cercava soluzioni a una situazione politica ugualmente ingarbugliata. E individuò una difficile via d’uscita che apriva nuove prospettive. La «solidarietà nazionale», che per un biennio aveva tenuto in vita il governo monocolore Dc grazie all’astensione degli altri partiti, si trasformò in «unità nazionale», con il voto favorevole di tutti gli alleati, comunisti compresi. Era la prima volta, dal 1947. Ma la mattina del 16 marzo 1978, quando il Parlamento doveva sancire questa svolta storica, le Brigate rosse tolsero dalla scena il protagonista principale della trama, e la via d’uscita si trasformò in un vicolo cieco. Destinato ad esaurirsi in pochi mesi, dopo l’omicidio di Moro, con una retromarcia che riportò le maggioranze di governo su percorsi più tradizionali. Rispetto ad allora tutto è cambiato, ma la politica italiana è sempre alla ricerca di qualche via d’uscita. Non ci sono più i partiti di allora e — soprattutto — non ci sono più le formazioni armate che condizionarono in maniera decisiva quel lungo tratto di strada, dalle Br in giù; e prima ancora le sigle neofasciste che con le bombe e le coperture degli apparati statali avevano alimentato la «strategia della tensione». Ciò nonostante la violenza politica, seppure con forme e prospettive nemmeno paragonabili, resta un fantasma sempre pronto ad agitarsi e ad agitare i contrasti che viviamo. Oggi non solo l’Italia, ma le società occidentali in genere sono chiamate a misurarsi con altre forme di terrorismo che quarant’anni fa non erano contemplate, seppure già covassero sotto i conflitti dell’epoca, in Medio Oriente e non solo. Rievocare i drammatici cinquantacinque giorni della primavera 1978 può servire a conoscere meglio la storia di ieri e quello che siamo diventati, fino ad oggi. In questo libro pubblicato nel 2008, a trent’anni dai fatti, ho cercato di ricostruire l’intera vicenda vista da tre angolazioni differenti, tutte essenziali: i brigatisti che sferrarono l’attacco, con il loro carico di ideologia e di morte; lo Stato che lo subì, nelle sue diverse articolazioni: la magistratura e le forze dell’ordine, il governo, i partiti e la Dc in primo luogo; Moro e la sua famiglia che inizialmente, in qualità di vittime, erano al fianco delle istituzioni ma da un certo momento in poi, quando l’ostaggio cominciò a scrivere le sue lettere dalla «prigione del popolo», divennero a loro volta antagonisti dello Stato e della «linea della fermezza» ufficialmente adottata. Ho cercato di scavare tra tanti episodi più o meno conosciuti, che si sono susseguiti e spesso accavallati in quei due mesi frenetici e drammatici, per portare alla luce sensazioni personali, stati d’animo, speranze, delusioni, ragioni e torti dei diversi protagonisti, per provare a meglio comprendere la storia più grande attraverso piccoli frammenti. Dalla prima edizione sono trascorsi altri dieci anni, ma la sostanza del racconto che si potrebbe fare oggi non è dissimile da quella di allora. Le ulteriori indagini di magistratura e commissione parlamentare d’inchiesta non hanno cambiato il quadro complessivo. Il mosaico che si può intravedere mettendo insieme le tessere dei tre punti di vista, resta sostanzialmente lo stesso. Con le ombre, i chiaroscuri, i rilievi e i vuoti che pure ci sono, ma non impediscono di vedere il disegno che s’è realizzato: un’azione politico-criminale, di stampo rivoluzionario, lanciata all’assalto di un sistema che per resistere all’urto ha scelto di sacrificare un suo illustre rappresentante finito «sotto processo» per conto di tutti gli altri, e condannato a morte. Schierandosi contro gli assassini che avevano trucidato la scorta e avrebbero ucciso il prigioniero, ma anche contro un uomo che fino all’ultimo ha cercato di salvare la propria vita e una certa idea dello Stato e delle istituzioni. Inutilmente.
Delitto Moro: l’identikit di "Defilato", un imprendibile delle Brigate Rosse. A Firenze c'è un uomo, in libertà, che era "il contatto sporco" dei fiancheggiatori delle Br che gestivano gli interrogatori del presidente della Dc, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 15 marzo 2018 su Panorama. Quarant’anni dopo il sequestro Moro c’è ancora chi, tra quei terroristi che progettarono il più eclatante attacco allo Stato, è sfuggito agli arresti. Qualcuno che conosce molti segreti delle Brigate rosse, dagli anni ’70 ai giorni nostri. Il suo nome in codice è il “Defilato”, l’uomo che unisce via Fani agli ultimi attentati brigatisti di Nadia Desdemona Lioce; il giovane militante che accompagnava il braccio destro di Barbara Balzerani, componente del commando che sequestrò Moro, nei suoi soggiorni fiorentini e ha poi permesso di organizzare il gruppo di Nadia Lioce. Passando come testimone, se non protagonista, dei delitti brigatisti degli anni ’80. L'antiterrorismo continua a dargli la caccia perché ha ancora le chiavi di accesso a molti segreti delle vecchie e delle nuove Brigate Rosse, dai covi agli arsenali, ai nomi dei brigatisti ancora in libertà. A svelare la sua esistenza agli investigatori è stata la brigatista Nadia Desdemona Lioce, la primula rossa che aveva ucciso Massimo D’Antona e Marco Biagi e che fu catturata il 2 marzo 2003 a Castiglion Fiorentino dopo lo scontro a fuoco sul treno in cui persero la vita il sovrintendete di Polizia Emanuele Petri e il terrorista Mario Galesi. O meglio, sono stati i computer e i floppy disk scoperti, nove mesi dopo quella sparatoria, nel covo brigatista in via Montecuccoli, a Roma. Quell’archivio digitale conteneva 183.690 files, protetti da numerose password. Violate grazie anche alla collaborazione dell’Fbi statunitense. Dalla lettura di quei documenti gli investigatori scoprirono che il Defilato era l’unico che – scrivevano le stesse Br nei loro documenti interni - "conosceva i meccanismi per entrare in contatto con la sede centrale, le modalità di ripresa del rapporto con l’Istanza Centrale cioè la parte residua dei militanti di quel collettivo”. Cioè di quei compagni che parteciparono alle azioni degli anni ’80. Quel nome in codice ha destato l’interesse dello Sceti (Servizio contrasto estremismo e terrorismo interno), l’ex Ucigos. E soprattutto della Digos fiorentina, che ben conosceva la storia dei movimenti eversivi toscani. Furono così ripescate le indagini condotte sull’omicidio, nel 1987, dell’ex sindaco Lando Conti. Rileggendo quegli atti, in questura hanno ritenuto di poter retrodatare la militanza nella lotta armata della Lioce fino a quegli anni. La brigatista, che oggi sconta la sua pena al 41bis nel penitenziario dell’Aquila, unica detenuta “politica” in regime di carcere duro, nel 1978, da Foggia, si trasferisce a Pisa e già scrive lettere d’amore immaginando il suo futuro dietro le sbarre.
Frequenta ambienti antagonisti, viaggia tra Mosca e il Nicaragua e, quando le Br toscane uccidono Lando Conti, viene perquisita dalla Digos. Conti venne ucciso con la stessa mitraglietta Skorpion impiegata negli omicidi di due militanti del Msi, a Roma, nel 1978; del professor Ezio Tarantelli, sempre a Roma nel 1985, e del senatore democristiano Roberto Ruffilli, nel 1988, Forlì. Quella mitraglietta, marchio di fabbrica Br, non è mai stata ritrovata. E le sentenze hanno accertato che non tutti i responsabili di quegli omicidi sono stati individuati e condannati. Tra i loro fiancheggiatori c’erano certamente militanti dei Nuclei comunisti combattenti, organizzazione guidata da Nadia Lioce che progettava la ricostruzione delle nuove Brigate Rosse. Ancora oggi il dossier della Digos sulla Lioce sta a portata di mano, accanto all’ufficio di Gabinetto, al secondo piano della questura di via Zara, a Firenze. A parte la beffarda logica alfabetica che lo posiziona accanto a quello del terrorista nero Mario Tuti, il fascicolo della Lioce si distingue per i colori: poche pagine bianche, relativamente recenti, e quelle ormai gialle e fragili delle antiche indagini sul Comitato rivoluzionario toscano, l’organizzazione che, in riva d’Arno, diede ospitalità alla Direzione Strategica delle Brigate Rosse che, proprio da Firenze, nel 1978, gestì il sequestro, gli interrogatori e l’assassinio di Aldo Moro. Tra quelle carte vecchie e nuove c’è una corposa relazione che la Digos ha inviato alla procura della Repubblica di Firenze nel 2006. Panorama ha potuto leggere quelle carte dove, per la prima volta, si traccia il profilo politico e criminale del Defilato, fino ad ipotizzare quattro nomi di personaggi tuttora a piede libero, depositari di segreti protetti per decenni. Trentotto pagine con le quali gli investigatori, riassumendo piste investigative dimenticate o inedite, ricostruiscono una matrice fiorentina, ma anche pisana e del litorale tirrenico, dell’organizzazione eversiva più sanguinaria della nostra storia. Panorama ha consultato gli atti processuali e i vecchi atti di indagine citati nella relazione riservata. Una rilettura che, dopo decenni, dimostra che, grazie a quei nomi, è possibile riannodare il filo dei misteri che ancora avvolgono gli assassinii commessi da brigatisti vecchi e nuovi. Fino a suggerire un’inedita chiave di lettura della metamorfosi del brigatismo italiano: che cioè se Curcio, partendo da Trento, fondò le Brigate Rosse, il loro sanguinario cammino fu portato avanti soprattutto da ex militanti di Lotta Continua, fondata a Pisa da Adriano Sofri. I nomi contenuti nella relazione inviata alla procura di Firenze, che però non riuscì ad emettere capi d’accusa circostanziati, riportano ai covi toscani dove si riunivano Mario Moretti e compagni. E al magma di fiancheggiatori che da Pisa e della costa tirrenica predisposero i preparativi per il sequestro Moro. Sul cruscotto della Renault 4 dove fu recuperato il corpo dello statista, infatti, era esposto il tagliando assicurativo rubato proprio a Pisa nel 1976 dal Comitato rivoluzionario toscano. Proprio da quel gruppo di militanti (Paolo Baschieri, Dante Cianci - altro foggiano emigrato a Pisa come la Lioce -, e Giampaolo Barbi), fermati a Firenze, nel dicembre 1978, con varie armi comprate con lo stesso porto d’armi utilizzato per acquistare un fucile pompa marca Ithaca trovato nel covo di via Gradoli il 18 aprile 1978. Oltre alle chiavi di uno dei covi fiorentini dove si riunivano, nei giorni del sequestro Moro, Moretti e la Balzerani.
D’altronde Barbara Balzerani a Firenze aveva stretto rapporti con i componenti della brigata Catabiani, attiva dalla costa al capoluogo toscano, con frequenti incursioni a Milano e Roma, poi confluita nel Comitato rivoluzionario toscano.
Il Defilato fa parte di quel gruppo ma riesce a sfuggire agli arresti. Poi, negli anni ’80, sempre accompagnandosi alla Balzerani - che dal carcere rivendica l’omicidio Moro - contribuisce a riformare le Brigate Rosse. Partecipa quindi all’organizzazione degli ultimi omicidi firmati dalla stella a cinque punte (Ezio Tarantelli, Lando Conti e Roberto Ruffilli) e per qualche anno, appunto, si defila. Fino ad essere riattivato, nel 1997, dalla Lioce, che ben conosceva. Ma chi è il Defilato? Gli esperti dell’antiterrorismo hanno redatto una lista di quattro nomi; tutti personaggi ben noti ai più anziani tra i poliziotti fiorentini. Mentre a Roma gli analisti sperano che le nuove tecnologie possano estrarre un’identità certa dalle prove dormienti repertate sugli omicidi D’Antona e Biagi. Capelli e altri reperti biologici che quindici anni fa non fornirono un profilo genetico completo, che i nuovi strumenti acquistati dalla Polizia scientifica potrebbero ricostruire. Panorama ha rintracciato quei quattro sospettati. Sono nati tra il 1962 il 1965. Uno di loro è di origini straniere, un altro gestisce un bar, uno è un sindacalista e un altro partecipa alle iniziative dell’Associazione nazionale partigiani. Tutti e quattro sono ancora attivi nell’ultrasinistra. Tutti hanno frequentato o frequentano il Centro popolare autogestito Firenze Sud, come faceva Mario Galesi e, prima di lui, alcuni dei brigatisti degli anni ’80. Lo stesso centro sociale fiorentino dove Barbara Balzerani, oggi libera, proprio nella ricorrenza del sequestro Moro, “per fuggire ai fasti del quarantennale”, ha annunciato la presentazione del suo ultimo libro. Alla riunione, tra vecchi compagni e giovani antagonisti che forse nemmeno sanno chi era Aldo Moro, potrebbe esserci anche il Defilato. (Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata sul numero di Panorama in edicola il 15 marzo 2018, in un servizio ampio dedicato ai 40 anni dal rapimento e l'omicidio di Aldo Moro).
Rapimento Moro: 40 anni fa la strage di via Fani. Il 16 marzo 1978 un commando delle Br rapiva il Presidente della Dc Aldo Moro uccidendo tutti gli uomini della scorta. Italia sotto shock, scrive Edoardo Frittoli il 14 marzo 2018 su "Panorama". Nel 40° anniversario della Strage di via Fani dove fu rapito il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e dove furono trucidati i 5 componenti della sua scorta, ripercorriamo con le immagini la cronaca di quel giorno che cambiò la storia dell'Italia repubblicana.
Roma, via del Forte Trionfale. Ore 8,45 di giovedì 16 marzo 1978: il giorno del "compromesso storico". L'Alfetta bianca della scorta del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro attende con il motore acceso fuori dal civico 79. Il politico pugliese (62 anni e 5 mandati da Presidente del Consiglio alle spalle) era atteso alla Camera dei Deputati per votare la fiducia al quarto governo Andreotti a cui per la prima volta avrebbero partecipato i deputati del Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer. Il clima del Paese in quel marzo del 1978 era molto teso, segnato profondamente dalla lunga scia di delitti da parte delle organizzazioni terroristiche che caratterizzarono gli anni di piombo. Le Brigate Rosse avevano alzato il tiro fin dal secondo arresto del leader Renato Curcio nel 1976 e, sotto la guida organizzativa di Mario Moretti, avevano assassinato a Genova il Procuratore Generale Francesco Coco e gli uomini della scorta. Oltre ai morti nelle forze dell'ordine dovuti a diversi scontri a fuoco con i brigatisti, gli uomini di Moretti facenti parte della "colonna romana" compirono la prima azione nella Capitale, ferendo il 12 febbraio 1977 Valerio Traversi, membro del Ministero di Grazia e Giustizia. L'attacco al "cuore dello Stato" era cominciato. Poco dopo, a Torino, sarà la volta dell'assassinio del presidente dell'Ordine degli Avvocati Fulvio Croce. A Milano, pochi giorni dopo sarà gambizzato Indro Montanelli, così come altri giornalisti di diverse testate e orientamenti politici. Il 16 novembre fu ferito Carlo Casalegno, che morirà dopo 13 giorni di agonia. Proprio l'emergenza generata dall'attività dei terroristi aveva portato ai cosiddetti "governi di unità nazionale" nei quali era maturata l'idea del compromesso storico tra DC e PCI, osteggiato dal dissenso interno di parte dei rappresentanti dei due partiti e dagli Stati Uniti, che avevano già ammonito Moro sulla ferma intenzione di Washington di interrompere gli aiuti americani in caso di coinvolgimento dei Comunisti nel Governo italiano. Nei giorni precedenti il 16 marzo, inoltre, Aldo Moro era stato fatto bersaglio della campagna scandalistica legata al processo sullo scandalo Lockheed, secondo le cui indiscrezioni il mediatore politico delle tangenti per le forniture militari, in codice "Antelope Cobbler", sarebbe stato proprio il Presidente DC. Pochi minuti dopo l'arrivo della scorta, Moro prendeva posto sul sedile posteriore della Fiat 130 blu ministeriale e la colonna si muoveva rapidamente verso Montecitorio.
Via Fani angolo via Stresa. Ore 9:00. La strage. All'incrocio tra le due vie del quartiere Trionfale, la storia italiana sarà segnata da uno dei fatti più sconvolgenti dal dopoguerra. All'improvviso la vettura di Moro tamponava una Fiat 128 familiare di colore bianco con targa falsa del Corpo Diplomatico (CD 19707), che aveva tagliato la strada alle due auto in viaggio verso la destinazione. In una manciata di secondi il commando terrorista sbucato dai cespugli di fronte al bar "Olivetti" fa fuoco sull'Alfetta della scorta, uccidendo sul colpo gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, l'unico riuscito a scendere dall'auto durante l'assalto. Il Vicebrigadiere Francesco Zizzi giaceva ferito gravemente dai proiettili delle BR, l'unico rimasto in vita oltre a Moro. All'interno dell'auto di Aldo Moro giaceva il corpo dell'autista, L'appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci. Sul sedile anteriore del passeggero della 130 il corpo del maresciallo dei CC Oreste Leonardi, responsabile della scorta. Di dietro, il posto vuoto occupato dall'Onorevole Aldo Moro. La prima volante della Polizia di Stato giungeva sul posto pochi minuti dopo l'agguato, intorno alle 9:05 proveniente dal Commissariato Monte Mario, distante circa 2 km. da via Fani. Gli agenti allontanavano a fatica la folla, chiedendo l'intervento delle ambulanze. Le pattuglie giunte per prime in via Fani diramavano la segnalazione di ricercare un'altra Fiat 128 bianca targata Roma M53995, una Fiat 132 blu (Roma P79560) e una moto Honda di colore scuro. I poliziotti riportano quanto riferito dai testimoni, che avrebbero visto i membri del commando indossare divise da "marinai o da agenti di PS". Alle 9:20 fu informato il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga.
Ore 9:25 GR2 Edizione Straordinaria. Quando giungono gli uomini della Digos, nelle case degli Italiani le trasmissioni radiofoniche della mattina sono interrotte dalla sigla dell'edizione straordinaria del GR2: la voce del giornalista Cesare Palandri, rotta dall'emozione, diffonde la notizia del rapimento di Aldo Moro e della strage degli agenti di scorta. Nel frattempo sul luogo della strage la Digos inizia a raccogliere prove ed indizi, faticando per la pressione della massa di cittadini attorno alla scena. Nella Fiat 130 vengono rinvenute due borse e documenti dell'Onorevole Moro, le armi cariche della scorta e la radio dell'Alfetta con il ricevitore appoggiato sul pianale, come fosse stata pronta all'uso. A poca distanza gli uomini delle Forze dell'Ordine rinvengono a fianco della 128 una borsa e, a poca distanza, un caricatore con 22 colpi e un cappello dell'Alitalia.
Ore 9:45 I posti di blocco, le telefonate all'Ansa, la seduta a Palazzo Chigi. Tre quarti d'ora dopo l'agguato i posti di blocco delle Forze dell'Ordine sono completati. Nel frattempo era stata ritrovata la Fiat 132 usata dai terroristi per la fuga e abbandonata in via Licinio Calvo, ad appena 2 km. da via Fani. Dall'aeroporto militare di Pratica di Mare si alzavano in volo due elicotteri. Alle 10:00, esattamente un'ora dopo la strage, i brigatisti rivendicavano l'attentato alle sedi dell'Ansa di Milano e Roma, usando la famosa espressione "attacco al cuore dello Stato". Il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga convocava allora il supervertice interforze al quale prendono parte il Ministro della Giustizia Bonifacio, quello delle Finanze Malfatti (a capo della GdF) e della Difesa Ruffini. Con loro i capi delle tre Armi, della Polizia e dei Carabinieri, il Questore di Roma e i comandanti dei Servizi Segreti. Alle 10:20 si riunisce anche il Governo con le rappresentanze dei Partiti. Lo sgomento e la concitazione inducono il Presidente della Camera Sandro Pertini ad invitare i rappresentanti delle forze politiche italiane a votare immediatamente la fiducia al Governo di solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti. Quando anche i telegiornali nazionali danno la notizia del rapimento e della strage della scorta, dal Policlinico Gemelli giunge la notizia del decesso dell'unico sopravvissuto all'agguato, il Vicebrigadiere Francesco Zizzi, ricoverato con tre colpi di arma da fuoco in pieno torace.
Primo pomeriggio del 16 marzo 1978: l'Italia si ferma. Mentre gli inquirenti ascoltavano le prime concitate testimonianze dei cittadini che avevano assistito all'agguato, in tutta Italia i lavoratori delle aziende pubbliche e private si fermavano. I sindacati pronunciavano lo sciopero generale e nelle piazze della principali città italiane affluivano spontaneamente centinaia di migliaia di persone in solidarietà alle istituzioni democratiche. Non mancò qualche episodio isolato di giubilo alla notizia, limitato tuttavia a qualche elemento tra le componenti di estrema sinistra degli studenti e di alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare che vedevano la soluzione nell'allargamento della lotta armata. Ma nella pressoché totalità, gli Italiani erano attoniti e spaventati: l'azione terroristica era arrivata all'obiettivo in una manciata di secondi, portando con sè l'angoscia sulla sorte di Aldo Moro e lo sgomento per la morte violenta degli uomini della scorta.
Cala la sera sul giorno più lungo: inizia la notte della Repubblica. Al calare della luce del sole il buio della sera dell'attentato al cuore dello Stato è interrotto dalla luce tremola dei milioni di apparecchi televisivi sintonizzati sui canali della Rai che trasmettono le immagini della strage. Il Consiglio dei Ministri con i rappresentanti dei partiti vota la fiducia all'esecutivo alle 20:45. Roma è blindata da una rete di posti di blocco intrecciata da 2.000 agenti, che attendono ulteriori rinforzi da altre città. Mentre l'Italia fatica a prendere sonno al termine di quel giorno drammatico, nessuna traccia del Presidente della Democrazia Cristiana e del commando dei rapitori. Iniziavano i 55 giorni di detenzione del "prigioniero" Aldo Moro in un appartamento di proprietà della brigatista Anna Laura Braghetti al primo piano di via Montalcini, 8 nel quartiere Portuense. La "prigione del popolo" dove, dietro ad una parete costruita appositamente, fu rinchiuso e processato il Presidente della DC nella sua cella di 4 metri per 1. Oppure in altri luoghi di detenzione, come sostenuto in tempi recenti da diversi studiosi del caso Moro: forse in una villa sul litorale romano, forse in un appartamento di proprietà dello Ior a pochi passi da via Caetani, dove la storia del rapimento ebbe il suo tragico epilogo.
Sequestro Moro, Bodrato: «Quel 16 marzo tememmo che fosse iniziata l’insurrezione», scrive Carlo Fusi il 14 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Guido Bodrato, che all’epoca era il numero due della Dc, guidata da Zaccagnini, e che ebbe un ruolo decisivo in tutti i drammatici 55 giorni del rapimento. Guido Bodrato, Dc, classe 1933: il 27 marzo prossimo compirà 85 anni. A metà degli anni ‘ 70, assieme a Corrado Belci, Luigi Granelli e Giovanni Galloni, ha fatto parte della “banda dei 4”, termine mutuato dalla Rivoluzione culturale avviata da Mao Tsedong e poi rovesciata come struttura di potere popolare. Meno enfaticamente, la banda scudocrociata identificava i migliori cervelli in circolazione che stazionavano all’ombra di Aldo Moro. In quel livido marzo di quarant’anni fa, Bodrado festeggiò il suo compleanno più amaro: undici giorni prima la Brigate Rosse avevano rapito l’allora presidente della Dc sterminando la sua scorta. Quattro decenni hanno inevitabilmente cambiato la prospettiva di quell’atto terroristico che segnò l’apogeo dell’attacco “al cuore dello Stato”. Ma Bodrato conserva il sentimento e la memoria di una cesura che fu allo stesso tempo, politica, storica, culturale e personale. Stroncò la vita di Moro, immerse l’Italia negli Anni di piombo, pose una pietra tombale sulla stagione del dialogo volta a realizzare la cosiddetta “democrazia compiuta”, quella dell’alternanza: finissima tessitura politica morotea, strappata e rimasta incompiuta per come era stata concepita nella mente del suo creatore. «E’ passato tanto tempo, sono state dette e scritte moltissime cose», sussurra Bodrato riandando a quesi terribili 55 giorni di prigionia che poi portarono al martirio di Moro. «Quando ci comunicarono la notizia, stavamo entrando in Parlamento per il voto di fiducia al governo Andreotti. Fu un colpo durissimo».
Ma lei quale fu la prima cosa che pensò: hanno vinto i terroristi oppure c’è la vita di un amico in pericolo mortale?
«Fu impossibile selezionare sentimenti così netti in quel momento. Pensai alla scorta che era stata distrutta, assieme ad altri amici ci domandavamo se Moro era morto nell’attentato oppure no. Fu un miscuglio di emozioni: grandi e tremende tutte».
E magari la principale era l’angoscia per quanto stava avvenendo e i pericoli che dischiudeva…
«Per forza. Però vede, le voglio dire una cosa. A quarant’anni di distanza, molti si rifanno al rapimento di Moro come se quell’atto segnasse l’inizio dell’incubo terrorista. Non è così. Da tempo infatti nella realtà italiana incubava la degenerazione della violenza politica, dalla piazza all’omicidio politico. Le cose erano già accadute, i morti c’erano già stati. Il rapimento Moro rappresentò un salto di qualità e costrinse tutti ad interrogarsi sul suo significato, sulla sua valenza».
Cosa accadde in quei primi momenti?
«Ci riunimmo subito tutti a palazzo Chigi per valutare la situazione, decidere cosa fare e come reagire. Si sovrapponeva il fatto che stavamo per votare la fiducia al governo».
Ecco, appunto: la fiducia al governo. Non aveste subito la percezione che fosse quello l’obiettivo politico delle Br: sabotare l’intesa Dc- Pci?
«Guardi, a questa distanza temporale c’è il rischio di mischiare le valutazioni fatte allora a caldo con quelle successive. Certamente la prima cosa che cercammo di capire era cosa significava il rapimento: se fosse un atto chiuso in sè oppure il segnale d’avvio di una strategia di tipo insurrezionale. Adesso, a tanti anni di distanza, è possibile mettere in ordine le cose, allora non era così».
Davvero pensaste che l’Italia poteva diventare terra rivoluzionaria?
«Ma non era forse questo l’obbiettivo dei terroristi? Nella strategia delle Br c’era la convinzione di essere l’avanguardia di una rivoluzione che doveva nascere da una insurrezione. Cosa dovevamo fare? Tra le proteste dei Radicali e dell’estrema sinistra, optammo per un dibattito di fiducia molto veloce. Ma c’era da affrontare un’emergenza nazionale».
Era l’attacco al cuore dello Stato…
«Così si è detto dopo. In quel momento c’era il rapimento di Moro: anche lui stava arrivando a Montecitorio per la fiducia. Tutti sapevano che si trattava di una discussione dall’esito assai incerto. La mia interpretazione – che ho raccolto in un libro scritto assieme a Belci e credo sia l’unica testimonianza di parte democristiana – è che il rapimento di Moro ha avuto come effetto quello di indurre il pci a votare una fiducia che probabilmente non avrebbe votato. L’intenzione brigatista era stroncare la politica di incontro tra Dc e Pci e nel tempo medio l’obiettivo fu raggiunto. Ma nell’immediato, creando appunto un’emergenza terroristica, l’effetto fu di spingere le principali forze politiche ad unirsi per fronteggiare quel tipo di pericolo, tralasciando di affrontare qualunque altra questione politica e sociale. E’ una contraddizione, qualche volta dimenticata. Ma ci sono testimonianze dirette che la confermano. I comunisti si aspettavano alcuni cambiamenti nella compagine governativa che invece non ci furono. Senza il rapimento Moro non avrebbero votato a favore del governo. Ricordiamo tutta la polemica interna al Pci se stare oppure no in mezzo al guado, se stare dentro o fuori della maggioranza».
A quarant’anni di distanza, lei conferma la scelta della fermezza, del no alla trattativa? Oppure bisognava agire diversamente?
«Un tema che non si è mai posto. Si trattava di salvare la vita di Moro e anche di respingere la possibilità di un riconoscimento politico alle Br. Io non ho mai dimenticato che prima del rapimento c’erano già stati dei morti; che gli attentati c’erano e poi sono proseguiti; non posso dimenticare l’assassinio di Ruffilli seppur avvenuto successivamente; non posso dimenticare gli amici colpiti dai terroristi a Genova, a Milano a Torino. Colpiti perché democristiani. Guardi, chi insiste sulla trattativa ignora la realtà delle cose. Io non posso farlo. Sicuramente lo Stato era impreparato; sicuramente c’era chi approvava l’azione delle Br. Ricordo che Liberazione fece un inserto su quella vicenda che io ho conservato. Una parte della popolazione italiana appoggiava le Br. Gli studenti della mia città giustificavano il rapimento di Moro perché era l’Uomo del Regime che si era arricchito sulle sciagure del Paese; così come a destra c’erano persone che sostenevano che Moro se l’era voluta. Il Paese era tutt’altro che unito. La Dc cercò una soluzione ma a patto che non apparisse come un riconoscimento all’azione del terrorismo brigatista perché questo non avrebbe fatto altro che allargare il bacino della violenza senza peraltro salvare la vita di Moro. Le ricostruzioni in base alle quali la fermezza per il Pci era il riconoscimento del senso dello Stato e per la Dc il tradimento del senso dell’amicizia non mi appartengono».
C’era anche una parte del Paese che era agostica: nè con lo Stato né con le Br…
«Come dice lei: era agnostica. Guardi una parte dell’Italia così c’è sempre stata. C’era ieri e c’è anche oggi. Chi possiede un minimo di conoscenza della cultura politica di Moro sa che di questi sentimenti del profondo dell’Italia lui era assolutamente consapevole. Era maestro ed è rimasto insuperato in quel tipo di analisi. Chi si considera moroteo sa benissimo che le cose non sono mai del tutto limpide, che ci sono sempre zone d’ombra e aree di compromissione nell’opinione pubblica».
E’ senso comune sostenere che dopo l’uccisione di Moro l’Italia non fu più la stessa. Che quei 55 giorni segnarono una cesura. Secondo lei cosa davvero cambiò nel profondo con l’uccisione del presidente della Dc?
«Siamo tutti d’accordo che è stato così, anche se poi ognuno declina quella consapevolezza in modo diverso. Certo, dopo l’uccisione di Moro non è finita la Storia: le nuove generazioni che non hanno vissuto quella tragedia non capiscono nemmeno il problema se è posto così. Per quel che era un processo avviato verso quella che si definiva una democrazia compiuta, per quello che era il sottilissimo filo che legava Moro e Berlinguer, certamente la sua barbara uccisione ha troncato quel filo, ha azzerato quel processo. C’è stata una profondissima svolta nella vita politica del Paese, penso nessuno possa negarlo. Naturalmente non è finita la politica. Chi non condivideva quel disegno non si è sentito affatto messo fuori gioco: al contrario. E’ una innegabile constatazione: una certa politica è stata colpita al cuore. Una politica che in larga parte si fondava sulla possibilità di costruirla, di interpretarla, di darle un’anima da parte di Aldo Moro. Lui ne era il garante e sapeva di esserlo. Non si può dire che morto lui è finita la storia democratica italiana: sicuramente però ha perso il regista di una partita politica fondamentale».
E adesso Bodrato, cosa rimane? Che Italia c’è del dopo Moro?
«L’Italia è cambiata molto, e molto è cambiato il mondo. La politica fa fatica a interpretare la realtà. Per esempio: il mondo digitale che ci circonda la mia generazione non lì’ha conosciuto e fa fatica ad adeguarvisi. Ma non c’è dubbio che ha una influenza decisiva nel disegnare la realtà che viviamo e la politica fatica a interpretarla. Non ci sono più le grandi fabbriche, è scomparsa o quasi la classe operaia. Ancora nel 1978 gli scioperi si decidevano davanti ai cancelli di Mirafiori: ora Mirafiori non c’è più. Sono in atto mutamenti profondi. Se la politica li affrontasse con lo sguardo lungo, considerando il dialogo – ecco il punto – una forza della politica e non espressione della sua debolezza, se lo facesse senza posizioni dogmatiche, e Moro era tutto fuorché un dogmatico, allora probabilmente ne verrebbe un vantaggio per tutti. Si è persa la capacità di legare una visione più generale – per Moro direi anche culturale e religiosa – della vita con la politica».
Cioè si è persa la capacità di pensare la politica come uno strumento per governare la società?
«Sì, dice bene: governare. Ma stiamo attenti. Oggi governare significa conquistare il potere ed esercitarlo fino in fondo e senza limiti. Per Moro non era assolutamente così. Le Br lo consideravano l’espressione dello Stato delle Multinazionali, ed invece è noto che Moro era tutt’altro. Io non mi considero assolutamente un interprete del suo pensiero, però dico questo. Manca Moro come persona, ovviamente, anche se oggi sarebbe centenario. Manca in particolare la sua capacità di riflessione, manca vorrei dire il Moro “montiniano”. Moro ha rappresentato l’espressione più compiuta di una generazione che considerava la politica non mera conquista del potere. Era un politico laico e non leninista, nel senso che la dimensione cattolica serviva ad esaltare la sua laicità e non a soffocarla, dunque era soprattutto laico liberale. Si è persa quella dimensione della vita democratica che in lui era vivissima. Oggi c’è il rischio che votare non significhi più affermare la democrazia bensì addirittura uscirne. Anche in Turchia e in Russia si vota: ma è un voto plebiscitario. Abbiamo perso la capacità di riflettere sulle radici più profonde della democrazia, che si esprime, è vero, nel voto ma può anche finire per avere un significato opposto. Ebbene la capacità di Moro era di arrivare al fondo delle cose, di capire il senso degli accadimenti senza lasciarsi trascinare dalla dimensione del momento. Amava approfondire, insomma. Oggi chi lo fa?».
In morte di Aldo Moro, scrive il 14 marzo Piccole Note su "Il giornale". Tante e diverse in questi giorni le rivisitazioni del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro. Sono passati quarant’anni dal suo assassinio ed è atto dovuto. Purtroppo sono tutte più o meno stucchevoli. Con questo articolo iniziamo una serie di riflessioni sulla vicenda. Per cenni, come si può scrivere di queste cose. Un premessa d’obbligo è sulle ricostruzioni. Di tanto in tanto spuntano nuovi covi dei brigatisti, nuovi particolari su quanto accaduto in via Fani e altrove in quei terribili giorni.
Di ricostruzioni. Si tratta di particolari importanti, ma secondari. Tutti sanno che Moro non è stato nel covo che ci hanno detto i brigatisti. Semplicemente non avrebbe potuto stare in quello sgabuzzino senza deperire, né poteva avere sabbia nei risvolti dei pantaloni e tanto altro. Come tutti sanno che Moro era stato salvato dai suoi compagni di partito, come scritto da Pecorelli (e altri). Liberato, Aldo Moro non è stato ucciso nel bagagliaio, come da narrativa ufficiale. È stato ucciso in macchina durante il trasferimento in auto, mentre era seduto sul sedile posteriore, come ricostruito in maniera definitiva da Paolo Cucchiarelli in “Morte di un Presidente”, uno dei pochi libri sull’omicidio Moro che val la pena leggere perché supportato da documenti d’epoca più che sorprendenti. Uno di questi, tanto per citare, è la foto del bagagliaio della Renault 4 dove fu trovato il corpo di Aldo Moro. Una foto successiva, del bagagliaio vuoto, mostra come la macchia di sangue sul tappetino non si trovasse nella zona dove stava poggiato il busto dello statista, quello martoriato dai colpi, ma sotto le gambe, che colpi non avevano ricevuto. Insomma, come indica anche la posa del tutto innaturale del corpo, Moro fu ucciso e poi stipato nel bagagliaio: il corpo che andava irrigidendosi fu costretto a forza nello spazio angusto del ripostiglio. Ma chi vuole può leggere il libro citato che, come detto, è uno dei pochi che dice qualcosa di interessante sul tema.
Aldo Moro e il compromesso storico. Ma interrogarsi su queste cose, anche se utile e prezioso, non esaurisce un tema molto più vasto, sul quale non vengono poste domande. Oggi possiamo fare un primo cenno su questo livello. Una narrativa consolidata spiega che il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro fu un attacco al cuore dello Stato. Lo Stato avrebbe vacillato, certo, ma si sarebbe poi ripreso e avrebbe contrattaccato riuscendo a debellare il nemico. Nulla di più falso: l’omicidio Moro fu un omicidio politico perfettamente riuscito. Moro, Andreotti, Berlinguer, Rodano e Paolo VI (nei modi e nelle forme con le quali un Papa può accompagnare un processo politico) avevano immaginato un cambiamento epocale. Tale era il compromesso storico, il più grande disegno politico del Dopoguerra. Che aveva prospettiva globale e non solo italiana. Una prospettiva che avrebbe fatto del Pci italiano, ormai scollegato da Mosca, il punto di riferimento della sinistra d’Occidente. E avrebbe così indotto l’Unione sovietica a intraprendere un cammino di riforme ben prima dell’era Gorbacev. Con Moro quella prospettiva fu uccisa. Un omicidio politico perfettamente riuscito, appunto.
Il rapimento dell’onorevole Moro, la morte dei 5 agenti di scorta, i 55 giorni del sequestro e il tragico epilogo: I dubbi sulle verità svelate, i segreti mai rivelati e i timori di rivelazioni devastanti. A 40 anni dalla strage di via Fani, il docuweb di Giovanni Bianconi e Antonio Ferrari sui retroscena del sequestro. Giovanni Bianconi, giornalista del Corriere della Sera, è in edicola dal 16 marzo con il libro «Eseguendo la sentenza», in vendita con il «Corriere della Sera» in collaborazione con Giulio Einaudi editore. Antonio Ferrari, ex inviato ed ora editorialista del Corriere della Sera, è in libreria dal 14 settembre con il Segreto (edizione Chiarelettere), romanzo che racconta un’altra verità sul delitto Moro: un’opera di fantasia che vale come un’inchiesta.
Sequestro Moro, cosa ci faceva il boss in via Fani? Una foto può riaprire il caso. Sparito e poi riapparso, lo scatto che ritrae un capo della ’ndrangheta potrebbe dare un volto a uno dei colpevoli dell'eccidio, impunito dopo 40 anni, scrive Paolo Biondani il 15 marzo 2018 su "L'Espresso". Il mistero di una foto. Scattata in via Fani il 16 marzo 1978, poco dopo il sequestro di Aldo Moro e l’eccidio della scorta. Un’immagine scomparsa dal palazzo di giustizia di Roma. E ritrovata in copia a Perugia. Una foto che potrebbe dare un volto e un nome a uno dei colpevoli che da 40 anni restano impuniti. E riscrivere uno dei capitoli più tragici della nostra storia. Perché l’uomo della foto non è uno dei brigatisti già identificati e condannati: assomiglia terribilmente a un mafioso della ’ndrangheta. Un boss di alto rango, che scambiava favori sporchi con un militare dei servizi segreti. Una foto collegata ad altri misteri: la presenza in via Fani di due sconosciuti, in moto, armati di almeno un mitra che ha sparato. E il recente ritrovamento in Calabria di due mitragliette skorpion, che i boss più potenti della ’ndrangheta collegavano proprio al caso Moro. Tutto parte dalla storia della moto, che è confermata anche dagli studiosi più scettici. Vladimiro Satta è uno storico che ha firmato vari saggi per smontare «i falsi misteri del caso Moro». Sentito dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta, ha riconfermato la sua conclusione: «Moro è stato sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse di Mario Moretti, che non erano etero-dirette». Le tante dietrologie di questi anni, ha aggiunto però lo studioso, hanno distolto l’attenzione dall’unico vero mistero, che «merita di essere approfondito»: la «questione della moto Honda». Di cosa si tratti lo ha spiegato ai parlamentari il pm romano Antonio Marini: «Un cittadino mio omonimo, Alessandro Marini, che nel momento dell’agguato si trovava sul suo motorino all’incrocio di via Fani, ha visto passare una moto Honda di grossa cilindrata, da cui sono stati esplosi alcuni colpi contro di lui». Il magistrato romano sottolinea che la presenza della moto in via Fani «non è un’ipotesi, ma un fatto accertato con sentenza definitiva: «i brigatisti sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio anche per il tentato omicidio di Alessandro Marini». In concorso con gli ignoti motociclisti. La «moto Honda di colore blu» è stata vista da altri tre testimoni oculari, sempre accanto a due soli brigatisti (poi condannati). Un teste ha notato anche «il calcio di un mitra». Il killer che ha sparato, «quello seduto dietro», impugnava «una mitraglietta di piccole dimensioni» ed era «coperto da un passamontagna scuro». Per cui avrebbe potuto tornare senza problemi a godersi la scena in via Fani. I brigatisti del commando hanno sempre smentito la presenza di qualsiasi moto, rivendicando di aver fatto «tutto da soli». Sul caso Moro però i terroristi rossi, dissociati compresi, hanno offerto nel tempo solo verità parziali, aggiustate dopo la scoperta e le successive condanne di altri complici, come Alessio Casimirri o il carceriere Germano Maccari. Le prime indagini sulla moto, quindi, seguono l’ipotesi più logica: altri due brigatisti ancora ignoti. Ma la pista rossa porta solo a due ex autonomi, riconosciuti totalmente estranei al caso Moro. Il primo a parlare di complici esterni è un super pentito della ’ndrangheta, Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni ’90. Le sue confessioni hanno permesso al pm milanese Alberto Nobili e alla Direzione investigativa antimafia di ottenere più di cento condanne nel maxi-processo Nord-Sud. Morabito, giudicato nelle sentenza «di assoluta attendibilità», rivela che un mafioso importante, Antonio Nirta, nato a San Luca l’8 luglio 1946, negli anni ’70 aveva legami inconfessabili con un carabiniere di origine calabrese, Francesco Delfino, poi diventato generale dei servizi. Il pentito ne parla con paura e aggiunge che il suo capo, Domenico Papalia, gli rivelò che «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro»: un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi. Il pm Nobili trasmette il verbale al collega Marini, che riapre l’indagine sui due in moto. E riascolta una telefonata intercettata durante il sequestro Moro. Un nastro del 1978, ma tenuto segreto fino al 1982. Un parlamentare calabrese della Dc, Benito Cazora, impegnato come tanti a cercare il covo brigatista, spiega al segretario di Moro che la ’ndrangheta può aiutare, ma vuole qualcosa in cambio: «Quelli giù, dalla Calabria» chiedono di «far sparire una foto del 16 marzo, presa lì sul posto», perché si vede «uno di loro... un personaggio noto a loro». L’inchiesta accerta che la profezia calabrese si è avverata. Un fotografo, Gherardo Nucci, ha scattato numerose foto in via Fani subito dopo l’agguato. Il rullino risulta consegnato all’allora pm romano Luciano Infelisi, ma non si trova più: è sparito. A recuperare alcune copie di quelle foto, anni dopo, sono i magistrati di Perugia che indagano sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Visto che «i calabresi di giù» parlavano di un’immagine pubblicata, le verifiche si concentrano su una foto apparsa su un quotidiano del 17 marzo. È lo scatto riprodotto in queste pagine. In via Fani, davanti al bar Olivetti e ai corpi delle vittime, c’è un uomo che fuma una sigaretta. Giacomo Lauro, un altro grande pentito calabrese, vede la foto e conferma: «È Antonio Nirta». La somiglianza è riscontrata anche da una perizia dei carabinieri del Racis. Per fare un confronto, L’Espresso ha recuperato due foto segnaletiche di Nirta del 1968 e del 1975. Tra il boss e l’uomo di via Fani coincidono tutti i dettagli visibili: capigliatura, forma del naso, orecchio, occhi, sopracciglia... Se non è lui, è un sosia.
La pista della ’ndrangheta è accreditata anche dall’ex procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, e dal suo aggiunto Giuseppe Lombardo. Sentiti dalla commissione il 28 settembre scorso, i due magistrati premettono che la famiglia Nirta “la maggiore” fa parte di «un livello altissimo della ’ndrangheta», una cupola segreta con referenti nell’economia, politica e servizi. E in questo quadro inseriscono i legami tra Antonio Nirta e il generale Delfino. I procuratori calabresi aggiungono che un armiere importante della ’ndrangheta, quando si è pentito, ha fatto ritrovare un arsenale micidiale, con due armi speciali. Due «mitragliette tipo skorpion» che un boss potentissimo gli diede da «custodire con particolare cura e attenzione, perché sono simili a quelle usate per Moro». Dicendo «simili», sottolineano i pm, il pentito e il suo boss non parlano delle armi usate dai brigatisti, ma le collegano comunque al caso Moro. I due in moto, secondo i testimoni, non erano del commando: facevano da copertura esterna ai terroristi. A tutt’oggi solo un ex brigatista, Raimondo Etro, ha parlato della moto. Etro non era in via Fani, ma dopo l’agguato ha ricevuto le armi in custodia da Alessio Casimirri. Mentre gliele consegnava, proprio Casimirri gli parlò di «due in moto», non previsti da altri brigatisti, tanto da definirli «due cretini». Al processo Moro, quando si scoprì un viaggio di Mario Moretti a Reggio Calabria, altri brigatisti reagirono con stupore. Oltre al capo delle Br, chi potrebbe conoscere questi segreti è Casimirri, che però non è mai stato arrestato ed è latitante dal 1982 in Nicaragua. La commissione Moro ha recuperato un documento del 1982 da cui risulta che fu fermato dai carabinieri, ma incredibilmente rilasciato. Lo stesso Etro, che era suo amico e scappò con lui, oggi sospetta una fuga favorita dai servizi. Antonio Nirta, intervistato dall’autore di questo articolo durante un processo, non ha mai ammesso nulla, ma ha risposto con una frase allusiva: «Cosa volete da noi? In Italia comandano gli americani». Delfino, che dopo il caso Moro lavorò alla Nato e poi a New York, era soprannominato «l’americano». Purtroppo il generale è morto il 2 settembre 2014, portando con sé tutti i suoi segreti.
Sequestro Moro, le Br hanno sempre mentito. A quarant’anni di distanza dal rapimento sono ancora troppe le zone d’ombra. Che mettono seriamente in dubbio la versione "ufficiale" delle Brigate Rosse, scrive Federico Marconi il 15 marzo 2018 su "L'Espresso". A quarant’anni da quei 55 giorni che hanno sconvolto l’Italia, il Caso Moro rimane ancora avvolto nel mistero. Non sono bastati cinque processi, sette commissioni parlamentari, decine di inchieste giornalistiche e opere storiografiche, per elaborare una ricostruzione del rapimento, del sequestro e della morte del presidente della Democrazia Cristiana, che faccia definitiva chiarezza. Sono ancora molti coloro che, nonostante siano tacciati di complottismo e dietrologia, continuano a mettere in dubbio l’asse portante della “verità ufficiale”: la versione dei fatti fornita dalle Brigate Rosse. O meglio, le versioni dei fatti. I brigatisti, infatti, nel corso degli anni hanno deciso di collaborare con gli inquirenti, pentendosi o dissociandosi, e godendo così di forti benefici carcerari. Ma le loro ricostruzioni sono state sempre parziali e spesso in contrasto. Basti pensare alle due testimonianze più celebri: quella di Valerio Morucci, sul cui memoriale si fonda gran parte della verità processuale, e quella del regista dell’“attacco al cuore dello Stato”, l’irriducibile Mario Moretti.
Sono molti i punti che non combaciano tra le ricostruzioni dei due Br, ma anche tra queste e le testimonianze di chi ha assistito all’agguato. Morucci ha scritto che i brigatisti presenti in via Fani erano solamente nove, numero confermato anche da Moretti. Il capo delle Br ha poi sempre dichiarato di essere stato l’unica persona all’interno della Fiat 128 bianca che blocca la scorta di Moro e di esservi rimasto fino alla fine della sparatoria. Ma i presenti al momento della strage hanno testimoniato di aver visto due persone scendere da quella macchina e sparare verso l’auto della scorta di Moro. Se così fosse il numero dei presenti in via Fani non sarebbe quello indicato dai brigatisti. Nel corso degli anni, il numero dei componenti del commando ha subito continue modifiche: si è passati dai sette condannati nei primi processi, ai nove indicati da Morucci, agli undici individuati tra anni ’80 e ’90. Senza considerare i due uomini, di cui ancora non si è scoperta l’identità, che hanno sparato verso un testimone, Antonio Marini, mentre erano a bordo di una moto Honda al seguito del convoglio brigatista. Allo stesso tempo è cambiato anche il numero dei carcerieri del presidente Dc. Nel 1993, Moretti ha svelato la presenza di un quarto uomo in via Montalcini, oltre lui, Barbara Balzerani e Prospero Gallinari, che avrebbe partecipato all’omicidio Moro: il suo nome è Germano Maccari e viene subito arrestato e condannato a 30 anni. Perché smascherarlo quindici anni dopo la morte del politico pugliese? Tante contraddizioni rimangono poi su molti altri aspetti: sul percorso fatto dai brigatisti in fuga da via Fani, sulle modalità con cui sono state abbandonate le auto utilizzate, sul luogo in cui Moro è stato tenuto prigioniero, e persino sulla dinamica dell’assassinio del presidente Dc. Nel 2017, questa è stata oggetto di una perizia dei Ris, incaricati dalla Commissione Moro che ha lavorato nell’ultima legislatura, e che ha messo nero su bianco che no, lo statista non è stato ucciso coricato nel portabagagli come hanno sempre dichiarato i brigatisti, ma era seduto e avrebbe guardato il suo assassino negli occhi. A quarant’anni di distanza quindi sono ancora molte le zone d’ombra, e viene spontaneo chiedersi se le Br non abbiano sempre mentito. Hanno voluto coprire qualche compagno sfuggito alla giustizia? O hanno celato la presenza di complici non appartenenti alle Brigate Rosse?
Ritrovare Moro: a 40 anni dal sequestro l'Italia è di nuovo in un momento cruciale. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte del leader della Dc, scrive Marco Damilano il 15 marzo 2018 su "L'Espresso". Immagini dell'archivio Aldo Moro conservate nel centro documentazione Sergio Flamigni. Moro tra i militari, Moro tra la gente, Moro in auto scoperta, Moro con le bacchette che mangia giapponese. Affacciato da un balcone sopra la scritta “Viva Moro”, inchinato, reclinato, omaggiato da politici locali, vescovi, ambasciatori, insegnanti, imprenditori, poveracci. Scorro per ore e ore, sul computer, sugli album, sui ritagli, le foto di Aldo Moro, dopo aver letto la sua corrispondenza riservata con Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Alberto Ronchey, Vittorio Gorresio. Nel suo archivio personale, conservato nel centro di documentazione di Oriolo Romano che porta il nome dell’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, sono raccolte quindicimila immagini: diapositive, fotogrammi, gli scatti ufficiali in bianco e nero degli anni Cinquanta e le polaroid a colori sbiaditi degli anni Settanta, le foto comparse sulla stampa italiana e internazionale del Presidente, ritagliate, incollate e conservate. Mucchietti di carta, con le graffette colorate e ora arrugginite. In una scatola che contiene articoli ingialliti c’è un biglietto del sarto Randolfo Conti, via Duilio 7, nel quartiere romano di Prati, con la fattura per un abito e fodera due petti con gilet, costo 15 mila lire, datata 11 giugno 1955. Quando Moro giura da ministro della Giustizia, il 6 luglio, deve ancora compiere quarant’anni. L’immagine pubblica esisteva già anche in una stagione in cui pensavamo non ci fosse. Moro si ripete, si replica, sempre uguale, sempre identico a se stesso, sempre rigorosamente vestito di scuro e in giacca e cravatta, così, per quindicimila volte, e sempre diverso, impercettibilmente in movimento, come lo era quella politica, la sua politica. Messe tutte insieme, in ottomila giorni di quei 23 anni fanno in media quasi due foto al giorno, sono il film di un uomo totalmente dedito alla politica, al governo, al potere, ma anche della vita collettiva degli italiani, di trent’anni di progresso, di benessere, di sviluppo, di protagonismo nel mondo, e poi di improvvisa cupezza e depressione. Quando il grigio era il colore dominante si intuiva una febbrile vitalità, verso gli anni Settanta le tinte si fanno plumbee. Di tutti questi momenti Moro era stato il garante, lui a tenere in equilibrio la crescita economica e la maturazione democratica che l’Italia non aveva mai avuto. Fino ai due ultimi scatti, quarant’anni fa, i due dei 55 giorni del rapimento nel covo delle Brigate rosse, dopo la strage di via Mario Fani del 16 marzo 1978 con l’omicidio dei cinque agenti della scorta: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Lo ricordano tutti, in camicia, anche i più giovani che non c’erano. In pochi, invece, ricordano oggi chi era Aldo Moro, la sua politica, il suo progetto, il suo metodo. I quarant’anni del suo rapimento coincidono con le elezioni del 4 marzo 2018 e con l’apertura di una fase politica molto delicata, come quella di allora. Nuove elezioni che sembrano chiudere una fase di lungo periodo, quello che cominciò dopo la morte di Moro. La fine della Repubblica dei partiti, rappresentativi della società in ogni sua piega, e l’emergere di leader e movimenti che si sono proposti di rappresentarsi da soli, seguendo il «moto indipendente delle cose» di cui aveva parlato Moro nel 1975. Dopo Moro è finito il suo partito, la Democrazia cristiana. Dopo Moro è finito il Pci. Il segretario Enrico Berlinguer morì nel 1984, ma tutto era terminato la mattina del 16 marzo 1978, con la violenta estromissione dalla scena del presidente democristiano che aveva strappato a Berlinguer qualcosa di più importante di un partner privilegiato: l’alleato indispensabile, insostituibile. Dopo Moro è finito anche Bettino Craxi. Moro era il potere fragile, Craxi il potere forte. Moro aveva capito che il potere si stava disgregando. Craxi, invece, pensava che solo il potere valesse, la conquista delle posizioni, lo sfondamento nelle linee avversarie, a qualunque costo, con qualsiasi mezzo. Furono sconfitti entrambi. Nessuno può dire cosa sarebbe successo se Moro non fosse stato rapito quella mattina di marzo, mentre andava a votare la fiducia al governo Andreotti. I segnali non erano positivi e la decisione del Pci di entrare in maggioranza per la prima volta dall’inizio della guerra fredda nel 1947 era messa a dura prova. Nell’intervista pubblicata postuma da Eugenio Scalfari nell’ottobre 1978, una rielaborazione di un colloquio che si era svolto nello studio di via Savoia il 18 febbraio, un mese prima del sequestro, il presidente della Dc sembrava ipotizzare una coabitazione al governo, una grande coalizione all’italiana. Finita la fase dell’emergenza, sarebbe cominciata quella dell’alternanza: «Se continua così, questa società si sfascia, le tensioni sociali, non risolte politicamente, prendono la strada della rivolta anarchica, della disgregazione. Se questo avviene, noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del paese. E affonderemo con esso». Corrado Guerzoni, il portavoce di Moro, ha testimoniato che alla fine del colloquio il Presidente fece un gesto inatteso, strinse con la mano un braccio di Scalfari. Nell’ultimo discorso ai parlamentari democristiani, il 28 febbraio 1978, sedici giorni prima del rapimento, Moro aveva invitato i suoi amici di partito a guardare fuori dal Palazzo, nel cuore dell’emergenza italiana, «l’emergenza reale che è nella nostra società»: «C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute. Il dato serpeggiante del rifiuto dell’autorità, il rifiuto del vincolo, la deformazione della libertà che non sa accettare né vincoli né solidarietà. Immaginate cosa accadrebbe in Italia, in questo momento storico, se fosse condotta fino in fondo la logica della opposizione, da chiunque essa fosse condotta, da noi o da altri, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova di una opposizione condotta fino in fondo...». E aveva concluso: «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo, noi non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trent’anni la gestione della vita del Paese. È la nostra flessibilità, più che il nostro potere, che ha salvato fin qui la democrazia italiana...». Nel quarantesimo anniversario del rapimento, in un nuovo momento di passaggio, nell’Italia «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili» di nuovo in bilico, in questi giorni di crisi che come quarant’anni fa richiedono più flessibilità che esercizio cieco del potere. In tutto l’Occidente le innovazioni non sono più governate dalla politica, la politica è apparenza di potere ma non sostanza. La politica non è più sfida di cambiamento dell’esistente, ma appiattimento sull’istante. La politica non coltiva più la speranza, ma la paura e la rabbia dei cittadini. Genera frustrazione negli elettori, promette quello che non riesce più a dare e prova a guadagnare consenso sulla frustrazione che ha generato. Per questo Moro va ritrovato, come scriveva Leonardo Sciascia nella prima pagina del suo libro dedicato al sequestro: «un tempo da ritrovare». Moro va strappato dal caso Moro, l’immagine del prigioniero cui è stato consegnato dai terroristi. Lo Stato non riuscì a farlo ma noi possiamo oggi liberarlo e riconsegnato alla politica, all’Italia di oggi di cui aveva capito molto, quasi tutto. Il leader che per la politica era vissuto e infine morto e che nella politica, tuttavia, non aveva mai esaurito la sua persona. «La verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto», scrisse Moro in una delle sue ultime lettere disperate dal covo delle Br al deputato dc Riccardo Misasi. «Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità». Negli ultimi giorni della sua vita, in maniche di camicia, con un foglio di carta a quadretti e una penna come sola arma a disposizione per farsi sentire, con la coscienza come unica voce da ascoltare, Aldo Moro aveva concluso che tutto si racchiudeva in questo, un atomo di verità. Ciò che manca oggi a una politica che si percepisce come onnipotente, forte di consensi e successi, che si auto-celebra per i milioni di voti raccolti, ma che non possiede un atomo di verità sul Paese e su se stessa. E dunque è destinata a essere perdente, sempre.
"Quel giorno rappresenta l'11 settembre italiano". Damilano: «Capimmo cos'è la paura, l'ansia di un attacco imprevedibile riuscito nei dettagli», scrive Massimo Malpica, Venerdì 16/03/2018, su "Il Giornale". Un libro per ricordare quei giorni, ma anche per «liberare» Aldo Moro. Questo il senso di Un atomo di verità - Aldo Moro e la fine della politica in Italia, di Marco Damilano, direttore dell'Espresso, che racconta a 40 anni dai fatti il sequestro, la prigionia e la morte dello statista democristiano, ma che vuole anche ricordare quello che Moro ci ha lasciato, e recuperarlo alla memoria comune. «Penso che Moro vada liberato dalla prigione delle Br in cui è stato confinato da 40 anni», spiega l'autore, che quel giorno di marzo del 1978 era solo un bambino, e che passò con il minibus della scuola proprio a quell'incrocio, in via Fani, pochi minuti prima dell'agguato e dell'uccisione degli uomini della scorta di Moro. Anche la portata emotiva dell'evento trova spazio nel libro, visto che quel 16 marzo è per Damilano «l'11 settembre italiano», da un lato per l'enormità di un gesto come il rapimento dell'uomo «architrave del sistema politico italiano», e dall'altro appunto per le sensazioni che quell'evento ha impresso in ognuno di noi, e che sono rimaste sedimentate nella memoria, sia personale che collettiva, da allora: «Quel giorno - scrive il direttore dell'Espresso - abbiamo conosciuto cos'è la paura, l'ansia di un attacco imprevedibile e riuscito fin nei dettagli». Ma l'altro spunto di questo libro, Damilano l'ha trovato nel «liberare» Moro, raccontandone gli aspetti umani e la visione politica, e non solo l'immagine di un prigioniero, stanco, immortalato davanti allo stendardo delle Brigate Rosse. «A via Mario Fani - scrive Damilano - è finita in Italia la politica come leva privilegiata del cambiamento, e oggi la politica invece non coltiva speranze ma cavalca paure». E se è un caso che un libro che celebra un anniversario si ritrovi a uscire proprio dopo le elezioni, non lo è di certo il parallelo che l'autore fa da quella che era la politica in quell'«anno di mezzo» tra 1968 e 1989, tra contestazione e caduta del muro di Berlino. Per Damilano di quel 1978 c'è poco da invidiare se non un elemento: la politica dei partiti che, allora, si poneva l'obiettivo di rappresentare la società. In questo mille miglia lontana da quella attuale. Di fronte alla frattura profonda tra classe politica ed elettori, tra sentimenti anticasta e frustrazione di fronte al proliferare di promesse prima delle urne, suona ancora più profetica la frase scritta da Moro al deputato Dc Riccardo Misasi: «Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò perdente».
Quelle cinque vittime dimenticate. I carcerieri di Moro non erano, in quel momento, soltanto i suoi rapitori, con i quali eventualmente trattare. Erano già anche gli assassini degli agenti, scrive Claudio Magris il 15 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Quarant’anni dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro si torna pure a discutere sulla tragica scelta tra salvarlo, cedendo ai rapitori, oppure difendere la legge e lo Stato, ossia l’intera comunità civile, sacrificando la vita di un uomo, lasciandolo morire per mano dei suoi criminali carcerieri. Salvare ad ogni costo una vita umana — cosa cui del resto, in generale, non si bada sempre molto, non solo in guerra, ma anche sul posto di lavoro — o difendere con fermezza la legalità, difesa anch’essa talora trascurata o esercitata chiudendo un occhio.
Oblio ripugnante. C’è un elemento rivoltante che colpisce in questa certo drammatica scelta tra fermezza e pietà, legge generale garante di ogni convivenza e caso individuale, anche al di là delle oscure manovre politiche celate dietro quell’incertezza. I carcerieri di Moro non erano, in quel momento, soltanto i suoi rapitori, con i quali eventualmente trattare. Erano già anche gli assassini dei cinque agenti della sua scorta, ammazzati come cani e subito dimenticati quasi non fossero esseri umani. Moro era certo politicamente e socialmente più «importante», così come pure tra le vittime dell’Isis e anche di Auschwitz ci sono personalità più e meno pubblicamente «importanti», ma non perciò il loro assassinio può essere preso sottogamba. Questo oblio, inconsciamente insensibile e indifferente al valore di ogni vita umana, è ripugnante.
Le lettere di Moro. Trattare con i terroristi significava cancellare l’assassinio di cinque persone, quasi non fosse avvenuto o fosse irrilevante. Nemmeno nelle lettere di Moro si fa menzione di loro, morti per difenderlo, ma ovviamente erano i carcerieri a decidere cosa potesse e dovesse venir detto o no in quelle lettere. Proprio per questo esse non potevano e non dovevano essere prese in considerazione, così come un matrimonio non è valido se il sì viene pronunciato con una pistola puntata alla schiena. Non a caso in quei giorni Sandro Pertini dichiarò che, se eventualmente egli fosse stato rapito, da quel momento qualsiasi sua parola detta o scritta avrebbe dovuto essere ignorata e cestinata.
Memoria. Persone diverse, tempre diverse. Anche diversi sentimenti di umanità. I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po’ più noti. Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe.
Panettoni. Qualche tempo dopo l’assassinio di Moro, una sua strettissima congiunta inviò, a Natale, dei panettoni ai suoi uccisori. Le chiesi pubblicamente, sul Corriere, se si era ricordata di mandarne pure alle vedove dei poliziotti assassinati, anche considerando che, per chi vive con la pensione vedovile di un agente di pubblica sicurezza, un panettone, oltre ad essere un segno di affetto, può essere anche un piccolo aiuto per il pranzo di Natale. Non ci aveva pensato.
Moro, figlio agente Ricci il 15 marzo 2018: «Basta "scorte di", ricordiamo i nomi di chi difese uomini e democrazia». "Si è parlato di una guerra ma in una guerra sai chi è il nemico. Lì era sparare vigliaccamente alle spalle. In via Fani furono esplosi 93 colpi: 91 dei brigatisti, 2 dall'eroico Raffaele Iozzino". Così Giovanni Ricci, figlio di Domenico Ricci, uno dei cinque uomini della scorta uccisi 40 anni fa in via Fani, con Iozzino, Oreste Leonardi, Francesco Zicci e Giulio Rivera. "Non è più tempo di schiacciare tanti uomini sotto diciture anonime come la 'scorta di' Moro, Falcone e Borsellino - ha detto Ricci all'inaugurazione dei giardini in memoria delle cinque martiri di quell'agguato -. Da oggi spero che anche i ragazzi delle scuole possano leggere non una semplice riga ma i nomi di chi ci garantisce la libertà democratica di cui godiamo".
Via Fani 40 anni dopo: Moro e la strage nel ricordo dei residenti. Siamo tornati sul luogo dell'agguato di quel drammatico 16 marzo 1978. E nella memoria di chi ci vive, sembra sia passato un giorno, scrivono Giulia Pozzi e Valentina Barresi il 16 Marzo 2018 su "La Voce di New York". Per le strade della Balduina, il quartiere di Roma sconvolto da un evento che avrebbe cambiato per sempre la storia d'Italia. “Un’angoscia! Abbiamo sentito i rumori, ma nessuno ebbe il coraggio di muoversi. Poi andammo a prendere i figli a scuola”, racconta una vicina di casa del leader Dc. Mentre una residente in via Fani ricorda “una persona appostata in mezzo alle piante” le sere prima dell'agguato. Tornare in via Fani, all’angolo con via Stresa, 40 anni dopo. A Roma è una mattinata plumbea, l’aria è carica di umidità, e i colori di quella via passata drammaticamente alla storia sono appiattiti sulle sfumature del grigio. Fino a qualche ora prima dell’inaugurazione del nuovo monumento, il marciapiede in prossimità dell’incrocio, dove alle 9.02 del 16 marzo 1978 la Fiat 130 che trasportava Aldo Moro venne bloccata da una 128 bianca guidata dal capo delle Brigate Rosse Mario Moretti, era reso inaccessibile dalle transenne che delimitavano un cantiere. Oggi, alla cerimonia, in presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, è stato scoperto il nuovo memoriale. Per anni, però, il ricordo del rapimento del presidente della Democrazia Cristiana e dell’uccisione dei cinque uomini della sua scorta è stato affidato a una lapide quasi anonima appesa al muro, momentaneamente rimossa con l’inizio dei nuovi lavori. Una volta rimontata, a fine febbraio, è stata barbaramente imbrattata con svastiche e la scritta “a morte le guardie”. Proprio lì, dove, 40 anni prima, a trovare la morte furono il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi e i poliziotti Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Eppure, anche a distanza di quattro decenni, il tempo, in via Fani, pare essersi fermato. Gli imponenti palazzi che sorgevano ai lati della strada ci sono ancora, qualcuno riammodernato nel corso del tempo; c’è ancora quella strada un po’ in salita che conduce fino a via Trionfale, nei pressi della via dove Moro abitava; c’è ancora la chiesa del quartiere che il leader della Dc frequentava non solo la domenica. Certo: qualcosa è anche cambiato. Come il bar Olivetti, un tempo “crocevia di criminali” – come riconobbe già la Commissione Moro presieduta da Beppe Fioroni -, che fu smantellato subito dopo l’agguato. Oggi al civico 109, dove sorgeva, soltanto appartamenti residenziali, e di fianco un ristorante, “La Camilluccia”. Il proprietario del locale – che negli anni ha cambiato gestione – ricorda bene tutte le cerimonie che di 16 marzo in 16 marzo si susseguono e a cui può facilmente assistere dalla grande vetrata della sala da pranzo che dà proprio sull’incrocio tra via Fani e via Stresa. “Quest’anno hanno fatto la lapide nuova”, osserva. “Dopo 40 anni finalmente si sono decisi: prima era attaccata al muro, era una cosa… bruttina”, spiega. E, indignato, prosegue: “Quando la stavano facendo, hanno fatto pure uno scempio, con scritto ‘A morte le guardie’…”. Sarà forse per le tante immagini della strage passate davanti ai nostri occhi, anno dopo anno; o sarà perché ancora oggi Aldo Moro resta presente “come un fantasma” – così osservò il figlio – sulla scena politica italiana, che camminando in via Fani è così semplice fare un tuffo nel passato. Un’altra delle ragioni, probabilmente, è anche che tanti, troppi dubbi sono rimasti aperti nella ricostruzione di quei 55 giorni, tra i più drammatici della storia d’Italia.
GLI INTERROGATIVI ANCORA APERTI. Moro si stava recando in Parlamento – alle 10 lo attendeva il voto di fiducia al quarto governo Andreotti, appoggiato anche dal Partito Comunista – quando il rapimento andò in scena. Più tardi, avrebbe dovuto presiedere la discussione di 10 tesi di laurea alla Sapienza di Roma. Nulla di tutto ciò accadde. Ma quello che esattamente avvenne, ancora oggi, non si sa ricostruirlo. Quante persone furono coinvolte in quell’azione giustamente definita “militare”? Perché – come sostennero i brigatisti – venne trasbordato due volte in luoghi affollati (prima, in piazza della Madonna del Cenacolo, su un furgone 850 Fiat guidato da Mario Moretti, poi, in un parcheggio sotterraneo in via Newton, Ami 8 familiare di Laura Braghetti)? Che ne è di quella moto Honda cavalcata da due passeggeri, rapidamente passata in via Fani a pochi secondi dall’agguato, e dalla quale, secondo alcuni testimoni, addirittura partirono dei colpi? Cosa ci faceva un colonnello del Sismi in via Fani? E ancora, che fine hanno fatto le altre 3 delle cinque borse di Aldo Moro? E fu davvero tenuto in prigionia solo in via Montalcini o, dubbio avvalorato dall’ultima Commissione di inchiesta, anche in via Massimi, dove sorgevano i palazzi dello Ior? Che dire, poi, di quella “seduta spiritica”, avvenuta il 2 aprile 1978, nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, a cui assistette anche Romano Prodi, dove uscì il nome della località “Gradoli” come luogo di prigionia di Moro? Tutte domande drammaticamente aperte, anche dopo che sei commissioni d’inchiesta, cinque processi e tanti tentativi di ricostruzione di quei 55 giorni tra via Fani e via Caetani, dove il corpo di Moro fu poi ritrovato.
LA MEMORIA VIVA DEI RESIDENTI. Domande che riecheggiano anche tra la gente che ancora oggi abita quel quartiere: non è difficile trovare persone che già vivevano lì, in quei palazzi, il 16 marzo 1978. E per molti di loro, i ricordi di quei momenti – quei momenti in cui si seppe che qualcosa di grave, gravissimo stava avvenendo – sono pressoché indelebili. La signora Caterina è una degli inquilini del civico 109 di via Fani che all’epoca ospitava il famigerato bar Olivetti, quello della saracinesca mezza abbassata sulla scena del crimine la mattina del 16 marzo e che pure per 38 anni venne dichiarato completamente chiuso quel giorno. Bar frequentato da personaggi quantomeno “sinistri”, commenta un residente, e che le indagini hanno portato a identificare quale centrale operativa per l’innesco dell’agguato a Moro e agli agenti della sua scorta. Nel rievocare quei giorni, la signora Caterina annota degli strani movimenti tutt’intorno: “All’epoca uscivo tutte le sere perché avevo un bassotto: ecco, la cosa che ben ricordo è che per diverse sere vidi una persona che stava ferma proprio lì davanti al palazzo, appostata in mezzo alle piante – racconta – Poi la mattina del sequestro non vidi nulla, perché ero a lavoro. Naturalmente dopo perquisirono la casa e tutta la zona”. E sulle celebrazioni per il quarantennale aggiunge: “E’ chiaro che adesso stiano ricordando tanto questo evento, non soltanto perché ricorrono i quarant’anni, ma penso che abbia più un significato politico, perché si vede che allora dal punto di vista politico… beh, diciamo che c’era un po’ di confusione”. Ci sono poi le vicine di casa del presidente della Dc, due signore che abitavano nella stessa strada di Aldo Moro, alla Balduina, in via Cortina d’Ampezzo: oggi percorrono una traversa di via Fani con il carrellino della spesa al seguito e, a dispetto dei 40 anni trascorsi, di quel 16 marzo hanno un ricordo nitido, impresso a fuoco nella memoria. “Un’angoscia! Te lo ricordi?”, chiede Mirella all’amica, che annuisce col capo: “Abbiamo sentito proprio i rumori. È un ricordo netto – sottolinea – anche se non abbiamo visto niente, perché nessuno aveva il coraggio di muoversi. Poi siamo andate a prendere subito i figli a scuola, perché dicevano che bisognava andarli a prendere”. “Soprattutto in noi c’era una rabbia! – esclama invece Anna, che scandisce bene ogni parola nel racconto delle emozioni provate in quegli attimi e nei giorni immediatamente successivi all’eccidio di via Fani – Una rabbia per questo ‘coso inutile’, proprio una cosa balorda. I giorni dopo sono stati molto molto brutti, venivano nelle case, ispezionavano… E’ un ricordo chiarissimo. Noi c’eravamo!” Riferendosi a Moro racconta: “Lo vedevamo sempre. Abitava proprio vicino a noi e la mattina presto lo vedevamo andare a messa, a Santa Chiara. Sapete cosa mi ha fatto un po’ impressione ieri sera alla tv? – confessa – Vedere le interviste ai brigatisti! Perché dare voce a questi soggetti che sono pure tutti liberi?”. Mentre si allontanano insieme, Mirella aggiunge: “E’ stata una morte proprio cattiva, perché era un uomo di grande stile”. C’è poi chi pur non essendo stato testimone diretto o indiretto, descrive l’atmosfera dei giorni che seguirono il rapimento di Aldo Moro: “Ricordo lo stato di guerra – dice il signor Carlo – ricordo posti di blocco ovunque, anche se fatti malissimo. Mia moglie stessa se ne andava in giro insieme ai bambini con un bagagliaio immenso, ma nessuno l’ha mai fermata – sorride. “Ricordo i cecchini appostati mentre imboccavo l’autostrada per Civitavecchia. È stato un periodo buio certo, ma ormai sono passati quarant’anni, appartiene al passato”. Risalendo via Fani e imboccando poi sulla sinistra via Trionfale, dopo una manciata di minuti si arriva in un altro luogo chiave del caso Moro, via Massimi 91. Un complesso di palazzine di lusso, nel 1978 di proprietà della banca vaticana, lo Ior, al cui interno gli investigatori della Commissione Moro hanno individuato un covo delle Brigate rosse e dove, verosimilmente, venne organizzata la vera prigione dello statista della Democrazia Cristiana. “L’ho vissuto quel periodo, eccome! – racconta il signor Paolo – So’ venuti pure a casa mia e di mi’ moglie a fa’ i controlli. Il complesso adesso è tutto rifatto – spiega – Solo un palazzo è rimasto originale. Dopo che lo Ior l’ha venduto, qui sono passati mafiosi, ‘ndranghetisti e pure strozzini”. Di movimenti strani, però, dice di non averne mai registrati in quei 55 giorni che vanno da via Fani al ritrovamento del cadavere di Moro in via Caetani. E con una scrollata di spalle si congeda. “Tutti banditi e ladri, la storia d’Italia si fonda su questo!”.
Quarant’anni fa i terroristi rapivano Moro: apice e declino delle Brigate Rosse. Il presidente Dc verrà ucciso 55 giorni dopo: uno scempio di umanità che segna il culmine del terrorismo rosso, ma anche l'inizio della sua irreversibile crisi, scrive Sciascianamente Valter Vecellio il 16 Marzo 2018 su "La Voce di New York". Al terrorismo tutto l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, 14 mila atti di violenza politica. Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da poteri occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia.
16 marzo di 40 anni fa: è il giorno in cui le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro e uccidono i cinque uomini della scorta. Moro è il protagonista di una politica scomoda, impasto di prudenza e di audacia: 55 giorni dopo lo uccidono. Uno scempio di umanità che segna l’apice del terrorismo rosso, ma anche l’inizio della sua irreversibile crisi. Al terrorismo l’Italia paga un pesantissimo tributo: in 20 anni almeno 428 morti, oltre 1.000 feriti, almeno 14 mila gli atti di violenza politica. Come inizio prendiamo il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana a Milano: una bomba collocata nella Banca Nazionale dell’Agricoltura,17 morti. Il paese precipita in un buio periodo di violenza. Una follia di cui sono vittime forze dell’ordine, magistrati, politici, sindacalisti, cittadini comuni. Ne ricordiamo alcuni episodi. Il commissario Calabresi: per la magistratura vittima di un gruppo di fuoco di Lotta Continua; il rogo di Primavalle: aderenti a Potere Operaio incendiano la casa di un dirigente missino, tra le fiamme muoiono i due figli di 22 e 8 anni. Poi le stragi fasciste, nel 1974 a Brescia, piazza della Loggia, e al treno Italicus; in quell’anno le Brigate Rosse rapiscono il giudice Mario Sossi. Ogni giorno un agguato, un delitto. Tra le prime vittime due magistrati, Francesco Coco, assassinato dalle Brigate Rosse; Vittorio Occorsio, ucciso dai fascisti di Ordine Nuovo; sempre le Brigate Rosse uccidono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Il culmine con l’assassinio di Moro. Poi, come se qualcuno abbia detto: basta. Inizia la parabola discendente, non meno sanguinosa: le Brigate Rosse uccidono tra gli altri Guido Rossa, Emilio Alessandrini, Valerio Verbano, Mario Amato. E secondo la magistratura porta la firma della destra estrema la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: 85 morti, oltre 200 feriti. Cosa resta di quegli anni? E’ materia di amara riflessione per tutti. Di certo i terroristi sparano, uccidono, vengono usati da centri di potere occulti e settori deviati dello Stato. Qualcuno di loro magari pensava davvero di colpire al cuore l’odiato potere. Ma qui non è più cronaca; diventa storia. La storia, dunque. Quel 16 marzo a via Fani, questa forse è una delle poche cose sicure, si scrive una delle pagine più buie e tragiche della nostra storia recente. Le Brigate Rosse pensano di colpire mortalmente il cuore dello Stato. Indubbiamente si blocca una politica sgradita sia a Est che a Ovest, che mette in discussione equilibri nazionali e internazionali raggiunti quarant’anni prima. Il muro di Berlino era ancora ben solido. Al tempo stesso, uccidendo Moro le Brigate Rosse segnano anche l’inizio della loro fine. Prima, erano le Brigate Rosse cosiddette “storiche”: quelle dei Renato Curcio, delle Mare Cagol, degli Alberto Franceschini. Ingozzati di nozionismo marxisticheggiante mal digerito, il mito di una Resistenza ora e sempre salvifica e purificatrice. Prima semplici, simbolici, sequestri come quello, nel 1973, di Ettore Amerio, capo del personale della FIAT Mirafiori. Poi, un anno dopo, a Padova la svolta: quando uccidono due militanti del Movimento Sociale. Poi, ecco le Brigate Rosse di Mario Moretti, con solidi e anche sordidi contatti con l’Est europeo, movimenti palestinesi estremisti, ambienti inquinati da servizi segreti di ogni tipo. Su Moretti da sempre gravano sospetti mai del tutto fugati, da parte dei suoi stessi compagni. E’ lui che gestisce in prima persona l’affaire Moro. Ancora oggi ci si interroga su chi lo abbia ispirato, sui “suggeritori” occulti. C’è anche un “dopo” Moretti, che possiamo identificare con Giovanni Senzani. E’ l’ideologo terrorista che gestisce il rapimento di Ciro Cirillo, che vede coinvolti in una oscura trattativa gli immancabili servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo; lo stesso anno in cui, a Verona, viene rapito il generale americano James Lee Dozier, liberato da un blitz dei NOCS. Sono gli anni del declino delle Brigate Rosse. Un declino, lungo, doloroso, scandito sempre da rapimenti, attentati, sangue, morti; ma ormai è evidente che non servono più a nessuno. Il delitto Moro è uno spartiacque anche per loro: il sogno di colpire al cuore il Potere dello Stato si è rivelato solo un incubo, cementato da inganni e stupidità.
E alla fine Vittorio Emiliani strappò D’Urso alle Br, scrive Giuseppe Loteta il 31 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Nel 1980 le Br sequestrarono il magistrato Giovanni D’Urso. Il Messaggero fu al centro della vicenda capeggiando il fronte umanitario, grazie al quale si salvò una vita. La sera del 12 dicembre del 1980 un cronista del Messaggero riceve una telefonata: “Qui Br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D’Urso. Chiediamo la soppressione del carcere dell’Asinara. Segue comunicato”. In quel tempo lavoravo nel giornale romano. Il direttore era Vittorio Emiliani. Immediatamente si riformarono gli schieramenti politici che avevano caratterizzato la vicenda di Moro: il “fronte della fermezza” e il “fronte della trattativa”. Il primo era costituito dai comunisti, dai repubblicani e dai missini, più tiepidi e divisi al loro interno i democristiani. Il secondo, dai radicali e dai socialisti. Ma questa volta furono i giornali a giocare un ruolo di primo piano, perché le Br chiesero la pubblicazione dei loro comunicati. Pubblicare o no? Salvare D’Urso o lasciare che l’uccidessero? Erano passati due anni e mezzo dall’assassinio di Aldo Moro quando l’Italia fu scossa da un caso che presentava molte analogie con le circostanze che erano costate la vita allo statista democristiano e che, come nei giorni del caso Moro, divise profondamente il mondo politico italiano. Il 12 dicembre del 1980 le Brigate rosse rapirono il magistrato Giovanni D’Urso, direttore dell’ufficio III della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del ministero di Grazia e Giustizia. A differenza di quanto era accaduto a Moro, D’Urso non fu ucciso. Il 15 gennaio del 1981, dopo più di un mese dal rapimento, fu liberato. Ma cosa accadde in quel mese? Quale partita fu giocata sulla pelle del magistrato? E quali erano le forze in campo? Andiamo con ordine. La sera del 12 dicembre un cronista de Il Messaggero riceve un insolita telefonata: “Qui Br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D’Urso. Chiediamo la soppressione del carcere dell’Asinara. Segue comunicato”. In quel tempo lavoravo nel giornale romano. Il direttore era Vittorio Emiliani, che aveva formato una bella equipe nominando condirettore l’ex bravissimo capocronista, Silvano Rizza, vicedirettore Felice La Rocca, che conosceva Il Messaggero come le sue tasche, e redattore capo Pino Geraci, che aveva ricoperto lo stesso incarico al Giornale di Sicilia. La squadra, insieme con tutta la redazione, fu all’altezza della situazione, in quelle ore e nei giorni successivi. Di D’Urso, fu appurato, non c’era traccia. E il giornale del 13 dicembre uscì con un titolo di prima pagina a sette colonne che annunciava il rapimento del magistrato ad opera delle Brigate rosse. Nello stesso giorno le Br si fecero vive con l’annunciato comunicato, diffuso insieme con una fotografia del giudice. Vi si leggeva che D’Urso, “aguzzino di migliaia di proletari”, “è in un carcere del popolo e verrà sottoposto con un processo al giudizio del proletariato”. Il documento si chiudeva con un imperativo: “CHIUDERE L’ASINARA”, il carcere di massima sicurezza che sorgeva sull’omonima isola sarda e che era adibito alla reclusione di brigatisti. Immediatamente si riformarono gli schieramenti politici che avevano caratterizzato la vicenda di Moro, fino alla sua morte: il “fronte della fermezza” e il “fronte della trattativa”. Il primo era costituito dai comunisti, dai repubblicani e dai missini, più tiepidi e divisi al loro interno i democristiani. Il secondo, dai radicali e dai socialisti. Ma questa volta sono i giornali a giocare un ruolo di primo piano, soprattutto nella seconda fase della vicenda. Gli intransigenti si fanno sentire subito, il 14 dicembre. Il comunista Ugo Pecchioli, il più autorevole dirigente del Pci dopo Berlinguer, afferma: “Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile”. Gli fa eco il repubblicano Leo Valiani: “È necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro Moro”. Il 15 dicembre i brigatisti ripropongono in un secondo comunicato la richiesta di una chiusura immediata dell’Asinara, aggiungendo che D’Urso “sta bene e risponde all’interrogatorio”. Il giorno dopo, in Parlamento, i radicali sono i primi a schierarsi sul fronte umanitario. Franco De Cataldo: “Qualsiasi tentativo deve essere fatto per salvare la vita di D’Urso”. E Marco Boato: “Chiudere il carcere dell’Asinara e rivedere tutto il regime delle carceri speciali è una rivendicazione sacrosanta che dobbiamo portare avanti autonomamente, con forza”. Per la verità, la chiusura del carcere di massima sicurezza era stata già programmata, ma l’attuazione era stata rinviata a tempo indeterminato. Seguono dieci giorni di incertezza. Il governo, presieduto da Arnaldo Forlani, è diviso, con una maggioranza di possibilisti, dal ministro di Grazia e Giustizia, Adolfo Sarti, al ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. Ed è Rognoni ad affermare, a chiusura del dibattito parlamentare sul rapimento: “Il governo non lascerà nulla d’intentato, nei limiti delle possibilità, per raggiungere l’obiettivo, oggi primario, della restituzione del giudice D’Urso alla sua famiglia”. Si delinea anche tra i giornali la divisione tra intransigenti e trattativisti. Il direttore de Il Messaggero decide di tenere una linea “laicamente possibilista” per “non ripetere il caso Moro”. Radio radicale dedica molte ore alla vicenda del giudice. I brigatisti, il 18 e il 23 dicembre, informano con due comunicati che “l’interrogatorio del prigioniero D’Urso prosegue”. E continuano a richiedere l’immediata chiusura dell’Asinara. Il giorno di Natale i socialisti rompono ogni indugio. Il segretario del Psi, Bettino Craxi, fa diffondere un comunicato della direzione del partito, nel quale si afferma che la chiusura dell’Asinara coincide con un “adempimento giustificato e da più parti richiesto”. Il giorno dopo il ministro Sarti annuncia lo sgombero del carcere, A questo punto è ragionevole supporre che le Br, soddisfatta la loro richiesta, rilascino D’Urso. Ma, all’improvviso si apre, con una rivolta carceraria e con una tragedia, la seconda fase della vicenda. Il 28 dicembre, domenica, nel carcere di Trani, dopo l’ora d’aria, il brigatista Seghetti aggredisce il capo delle guardie e lo sequestra. Una settantina di detenuti cattura le altre guardie e si asserraglia nella sezione speciale del carcere. Ma dura poco. Nel pomeriggio del giorno successivo entrano in azione i gruppi d’intervento speciale dei carabinieri. Scendono dagli elicotteri, impiegano bombe al magnesio e armi da fuoco, domano in breve tempo la rivolta. Non ci sono vittime, ventisette feriti tra i rivoltosi. Tre giorni dopo, alle 18,30 il generale Enrico Galvaligi ritorna a casa. Il generale è il vice comandante del coordinamento dei servizi di sicurezza per gli istituti di prevenzione e pena. In quei giorni ha avuto parecchio da fare. È lui, infatti, che ha diretto da Roma l’operazione di repressione della rivolta di Trani. Ora sta per raggiungere moglie e figli e festeggiare insieme con loro l’arrivo del nuovo anno. Non ha scorta. E, nell’androne di casa, trova due brigatisti travestiti da fattorini postali. Dicono di volergli consegnare un pacco, ma uno dei due impugna rapidamente una pistola e gliela scarica addosso. Il generale non ha scampo. L’assassinio di Galvaligi è la reazione vendicativa delle Br all’operazione guidata dal generale. Ma non è la sola. Il 29 dicembre, lo stesso giorno del blitz dei carabinieri, i brigatisti alzano la posta con un ultimatum. I nostri comunicati, affermano, “devono essere pubblicati immediatamente e integralmente”. E ancora: “Se quanto sopra verrà disatteso, agiremo di conseguenza”. Il 4 gennaio sono più espliciti. Da un lato annunciano la condanna a morte del magistrato. Dall’altro affermano che “l’opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente”. E che “per decidere se eseguire o sospendere l’esecuzione di D’Urso i comunicati dovranno essere trasmessi dai vostri strumenti televisivi, letti sui maggiori quotidiani italiani”. Ma di quali comunicati si tratta? Di una serie di fogli che i brigatisti detenuti hanno consegnato ai deputati radicali durante una loro visita al carcere. Sono scritti da Renato Curcio e contengono le abituali farneticanti accuse allo Stato imperialista e la rivendicazione delle lotte “proletarie” delle Brigate rosse. A questo punto la parola passa ai giornali. Sono loro, non il governo, gli interlocutori dei brigatisti. Che fare? Il Tempo diretto da Gianni Letta e Il Corriere della Sera, diretto da Franco Di Bella, annunciano il silenzio stampa su tutte le notizie che riguardano il terrorismo e chiedono agli altri giornali di fare altrettanto. Il Messaggero si oppone nettamente. Avrebbe continuato a dare tutte le informazioni sul terrorismo. Ma neanche gli altri giornali raccolgono l’invito, neppure La Repubblica, pur schierata da Eugenio Scalfari sul fronte della fermezza. Restava l’interrogativo: pubblicare o no i comunicati dei brigatisti? “Non pubblicare” è la linea dura del Corriere della Sera, di Repubblica, della Stampa, del Tempo, dell’Unità, di Paese Sera, dell’Avvenire, del Mattino, del Resto del Carlino, del Giornale, seguiti da una serie di giornali minori; una linea ancora una volta sostenuta con ferrea decisione dai comunisti, dai repubblicani, dai missini e dagli ambienti più conservatori del mondo cattolico. L’Espresso è contrario alla pubblicazione, ma non rinuncia agli scoop. Così, lo stesso giorno dell’omicidio Galvaligi, il 31 dicembre, viene arrestato il giornalista del settimanale, Mario Scialoja, che aveva ricevuto dal brigatista Giovanni Senzani (e pubblicato) il resoconto dell’interrogatorio di D’Urso da parte delle Br. Al Messaggero la vicenda è seguita dalla direzione e dal corpo redazionale con viva partecipazione. Il giornale romano è laico e garantista, è stato protagonista di battaglie libertarie, a cominciare da quella per il divorzio. Non può restare insensibile alla sorte di D’Urso. L’assemblea di redazione si riunisce in permanenza e la maggioranza dei sostenitori della pubblicazione si scontra con una minoranza di contrari. La direzione, malgrado il parere avverso della proprietà, si attesta su una linea “marcatamente aperturista, possibilista”. E pubblica un’intervista a Leonardo Sciascia, nella quale lo scrittore siciliano sostiene che “il cittadino ha il diritto di essere informato, anzi a formarsi un’opinione, su qualsiasi argomento”. Il 10 gennaio, Sciascia lancia un appello ai giornali, sottoscritto da settanta giornalisti e personalità in vista, invitandoli alla pubblicazione dei documenti delle Br. I primi nomi in calce all’appello sono quelli di Elena Moro, Stella Tobagi e Andrea Casalegno. E due giorni dopo, con un secondo appello, rivolge ai direttori dei giornali italiani lo stesso invito, nominandoli uno ad uno. Il Corriere della Sera, con il quale Sciascia aveva un contratto di collaborazione, non dà notizia dell’intervista e non pubblica gli appelli. Altri giornali non contrari alla pubblicazione sono l’Avanti, il Secolo XIX, Lotta continua, Il manifesto. Giuliano Zincone dirige il genovese Il lavoro, del gruppo Rizzoli. È possibilista, ma non lo sono i vertici del gruppo. Non lo è Angelo Rizzoli, non lo è Bruno Tassan Din, direttore generale di Rcs, non lo è Franco Di Bella, direttore de Il Corriere della Sera. I nomi di tutti e tre compariranno, dopo qualche tempo, negli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2, guidata da Licio Gelli. Ed è Leonardo Iorio, direttore editoriale del Corriere, a ingiungere a Zincone, in nome del gruppo, di non pubblicare i documenti delle Br. La risposta è: “Se lo riterrò opportuno pubblicherò e subito dopo mi dimetterò dalla direzione del Lavoro. Il Giorno si impegna alla pubblicazione dei documenti dopo la liberazione di D’Urso. Il direttore della Nazione, Gianfranco Piazzesi, vorrebbe pubblicare, ma ne è impedito dal proprietario del gruppo che comprende anche il giornale fiorentino, Attilio Monti, anche lui, si saprà dopo, negli elenchi della P2. L’attività dei radicali è frenetica. Il 12 gennaio cedono la loro tribuna politica televisiva a una figlia di D’Urso, Lorena (oggi giornalista a Radio radicale), che lancia un appello alle Br e ai direttori dei giornali. La ragazza legge anche un brano dei documenti. Ha le lacrime agli occhi quando nel corso della lettura deve dare del “boia” al padre. E non passa giorno che Radio radicale, Pannella e altri esponenti del partito non intervengano sul caso. L’ultimo messaggio dei brigatisti è del 10 gennaio. Non lascia spazio a interpretazioni: “Se entro 48 ore non leggeremo integralmente sui maggiori quotidiani italiani i comunicati, daremo senz’altro corso all’esecuzione della sentenza a cui D’Urso è stato condannato”. A questo punto bisogna decidere. Il possibilismo e la non contrarietà non bastano più. L’onere della decisione spetta soprattutto al Messaggero, il più diffuso tra i giornali che puntano alla liberazione del magistrato. L’assemblea di redazione è sempre più infuocata. Assistono ai suoi lavori la moglie di D’Urso, Franca, e le due figlie. Non sembrano esserci spazi di mediazione tra la maggioranza favorevole alla pubblicazione e la minoranza contraria. Si sta per arrivare a una votazione che avrebbe spaccato in due il giornale, quando arriva in assemblea il direttore, Emiliani. “La nostra linea umanitaria è nota”, dice, “non condividiamo nulla di quei comunicati deliranti, ma siamo disposti a pubblicarli soltanto per ragioni squisitamente umanitarie. Vi scongiuro di non giungere a un voto che creerebbe fratture gravi tra di noi. La responsabilità del giornale è mia e la rivendico pienamente, nel bene e nel male”. Non si vota. La decisione è presa. E confermata da un corsivo indirizzato alle brigate rosse che Emiliani scrive l’indomani sulla prima pagina del giornale. Indirettamente, i brigatisti fanno sapere che accettano la pubblicazione “per ragioni umanitarie”. Il 14 gennaio Il Messaggero pubblica integralmente i comunicati delle Br. Contemporaneamente pubblicano l’Avanti, il Secolo XIX, Lotta continua, Il Manifesto e Notizie radicali. Pubblica anche Il Lavoro e Zincone si dimette dalla direzione. Ritorna al Corriere della Sera, ma dopo poco tempo lascerà anche questo giornale. Il Messaggero accompagna la pubblicazione con un editoriale che puntualizza: “È una decisione soltanto umanitaria, non politica”. Nello stesso 14 gennaio Leonardo Sciascia pubblica un terzo appello, rivolgendosi direttamente ai brigatisti. La mattina del 15 gennaio D’Urso viene ritrovato al Portico di Ottavia, a Roma, incatenato in un’auto, occhi e bocca coperti da cerotti, ma vivo. L’incubo è cessato. Non si è ripetuta la tragica conclusione del caso Moro. I sostenitori della “fermezza” sono stati sconfitti. Sconfitti i comunisti e la loro visione leninista dello Stato. Sconfitta l’intransigenza di stampo risorgimentale dei repubblicani. Sconfitti i missini, i piduisti di Gelli e quanti auspicavano, con la morte di D’Urso, la fine del governo quadripartito di Forlani e una virata a destra dell’asse governativo. Una vita umana è stata salvata. Due giorni dopo Sciascia viene al Messaggero, accolto da un applauso. Si congratula con Emiliani per la linea umanitaria tenuta in tutta la vicenda e s’impegna a collaborare al giornale. Il francese Le Monde pubblica una vignetta che mostra D’Urso in viaggio verso la libertà su un aereo del Messaggero.
Aldo Moro. Faccia a faccia tra la figlia e l'ex brigatista, scrive Antonio Maria Mira venerdì 16 marzo 2018 su Avvenire. 16 marzo 1978: in via Mario Fani a Roma si scrive una delle pagine più buie della nostra storia, la parte più tragica della «notte della Repubblica». In un agguato le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro uccidendo i 5 uomini della sua scorta. Il rapimento si concluderà drammaticamente dopo 55 giorni di prigionia con l’uccisione dell’allora presidente della Democrazia Cristiana. Oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella assisterà alla cerimonia commemorativa in via Fani, durante la quale il sindaco di Roma Virginia Raggi scoprirà una lapide in memoria degli agenti trucidati, alla presenza di una rappresentanza dei loro familiari. Prevista anche la visita di una delegazione del Pd. Nel pomeriggio presso L’Altro Spazio di via Tiburno si svolge l’evento 'Via Fani 16 marzo 1978', durante il quale viene presentato il cortometraggio 'Valeria' di Matteo Pizziconi e Valerio Schiavilla, che racconta la storia, vera o verosimile, della fidanzata di Francesco Zizzi, uno dei poliziotti uccisi. In programma anche la mostra fotografica I particolari della cronaca dello stesso Pizziconi e un incontro con Gero Grassi, membro della commissione parlamentare su Moro.
Agnese e Adriana. La vittima e il carnefice. Eppure quando le vedi, le senti, è la prima ad apparire la più forte. Come quando Agnese Moro accarezza Adriana Faranda, quasi per sostenerla, per sostenere parole difficili. La figlia del presidente della Dc, rapito dalle Brigate rosse quaranta anni fa e l’ex brigatista fianco a fianco. L’occasione è un incontro nella chiesa romana di San Gregorio al Celio, per raccontare l’esperienza del gruppo sulla giustizia riparativa, promosso da padre Guido Bertagna, del quale Agnese e Adriana fanno parte, assieme ad altre vittime e altri ex esponenti della lotta armata. Si parla del loro incontro, del loro dialogo. Ma il dramma di quei 55 giorni del 1978 emerge continuamente. Agnese ricorda «l’uccisione di cinque brave persone che proteggevano mio padre, il suo rapimento, un lungo periodo di angoscia, di disumanità non solo in coloro che avevano commesso questi atti ma anche in coloro che avrebbero dovuto aiutare mio padre ad uscire da quella situazione. E poi la sua morte e tutto quello che è seguito. Alla fine c’è una grande assenza, una persona per te cara, indispensabile, che non c’è più». Anche Adriana ricorda. «Quando è stato ucciso il papà di Agnese, mi sono sentita responsabile in pieno di quella morte ma ero assolutamente contraria al fatto che venisse ucciso e l’ho vissuta come una delle cose più atroci che stavano avvenendo». Poi il carcere e un percorso per un’altra forma di giustizia. «Per me Agnese era il suo avvocato di parte civile che voleva dimostrare che io ero la persona più orribile che fosse mai nata sulla terra. Non potevo in quel momento e in nessun modo arrivare ad Agnese, era assolutamente impossibile perchè dovevo solo difendermi e cercare di affermare la dignità di un percorso che avevo scelto. Quando poi alla fine riconquisti la libertà, ti rendi conto che quella del carcere è una forma di giustizia ma incompleta. A me non bastava. Quello che sentivo come dovere e anche come desiderio era affrontare fino in fondo il problema della giustizia ritrovando le persone che erano state colpite, andando a cercare l’altro che avevamo negato». È lo stesso cammino di Agnese cominciato proprio 40 anni fa. «La mia vita è rimasta bloccata tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, sei sempre lì. E non perché te lo ricordi, ma perché ogni giorno risuccede. E questa dittatura del passato ti isola perché pensi che nessuno ti potrebbe mai capire. Hai dentro un urlo che non riesce a uscire, ti soffoca. Alla fine tutto fa sì che i morti abbiano più spazio dei vivi, di quelli che stanno intorno a te, di quelli che ami. E ti accorgi drammaticamente che il male non rimane lì. Va avanti finchè qualcuno non lo fermerà, perché crea altre situazioni di sofferenza. E tutto si accompagna a sentimenti di rancore, di rabbia, anche di senso di colpa perché mio padre non è stato abbattuto un giorno uscendo di casa. È stato lì tanti giorni e io non sono riuscita a salvarlo. E assieme c’è un desiderio di giustizia». Che non sono gli anni di carcere. «Non si sta meglio. È un’illusione. Potevano dargli 100mila anni di carcere e non si sarebbe risolto il problema perché tu hai bisogno di avere una giustizia che riguardi anche le ferite che hai ricevuto. E che non sono facilissime da curare». E allora, Agnese, la giustizia sta provando a costruirla proprio insieme ai responsabili della morte del padre. «Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati». Ma, aggiunge, «le persone non rimangono uguali, non è che se tu hai fatto delle cose orrende poi per sempre dovrai essere una persona orrenda. Dentro queste persone c’è qualcosa di diverso da quello che io pensavo». In particolare scoprire «un dolore infinitamente peggiore del mio, perché è quello di chi l’ha fatta grossa e non può rimediare. E che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Per me Adriana è l’emblema della persona disarmata (le sorride e l’accarezza, ndr) perché io avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa e l’avrebbe accettata, non perché sono delle pecore ma perché sono disarmate di fronte a me. E imparare a disarmarsi è stata per me la grande lezione di questo stare insieme. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia». E Adriana conferma, piegata sul microfono e dai ricordi. «Io sono sempre disarmata rispetto a qualunque parola, al tocco di Agnese che nel momento in cui sembra spaccarti in due il cuore costruisce un ponte, ti tende sempre la mano. Questa è una delle cose più importanti che ho vissuto in questo percorso estremamente duro in cui ci siamo messi a nudo gli uni nei confronti degli altri». Con una certezza. «Che quelle cose che venivano dette con forza nei momenti di maggiore emotività e dolore non erano per tagliarti fuori ma per stimolare una maggiore profondità, intensità, autenticità dell’incontro che stavamo vivendo». In «un’atmosfera di quotidianità, come se fosse naturale che persone vittime di tragedie così irreparabili potessero convivere lavando i piatti insieme a chi aveva prodotto questo disastro». E così, sottolinea Agnese, «il passato arretra e viene sostituito da un presente che è fatto dai loro volti, delle nostre discussioni e tu sei più libero. Così quel male che ti ha portato via qualcuno, e di cui delle persone sono state interpreti ma che esiste a prescindere da loro, non ha l’ultima parola perché le loro vite sono ritornate delle vite buone perché c’è la possibilità di ricostruire. Per me è l’unica forma di vera giustizia: tu male che hai preso mio padre in maniera così terribile, non vincerai per sempre perché oggi siamo qui insieme, siamo amici, ci occupiamo gli uni degli altri e questo guarirà qualcosa». Un’esperienza che Adriana cala nel presente. «Se siamo riusciti a dialogare noi, può riuscirci chiunque e può riuscirci prima che sia necessario perché altrimenti ci ritroveremo con altre espressioni di violenza che non saranno paragonabili a quelle dei nostri anni, ma potranno assumere altri volti». Ma, avverte Agnese, «bisogna recuperare nella vita quotidiana, nella politica, la fiducia nella forza della parola. Noi non abbiamo fatto altro che accettare di stare seduti in una stanza e parlarci, anche dirci cose odiose. Le parole cambiano le vite, cambiano le persone».
L’ex br Balzerani sui morti di via Fani: «La vittima è un mestiere». La componente della colonna terroristica che rapì Moro e uccise la scorta è intervenuta a Firenze. Le sue parole ancora una volta suonano come uno schiaffo ai familiari di chi venne ucciso, scrive Claudio Del Frate il 17 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Barbara Balzerani, l’ex componente della colonna romana delle Br condannata per l’omicidio di Aldo Moro e la strage di via Fani non recede e rivendica il suo diritto a parlare a 40 anni dai tragici fatti che sconvolsero l’Italia. Lo ha fatto da Firenze dopo la sera del 16 marzo, proprio in coincidenza del quarantennale dell’eccidio della scorta del segretario Dc era stata invitata in un centro sociale a presentare il suo libro dal titolo «l’ho sempre saputo» (che non parla di terrorismo). «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola - ha detto la componente della batteria che prese parte al rapimento di Aldo Moro -. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te» aggiunto Balzerani sfidando il cinismo e pronunciando parole destinate a innescare dure polemiche sull’eredità degli anni di piombo.
Il centro sociale: «Pura coincidenza». Inizialmente, alla presentazione del libro a Firenze erano intervenuta solo una settantina di persone e l’ex terrorista aveva evitato di parlare dell’anniversario della strage. «Anche se nessuno ci potrà credere, in realtà davvero nessuno aveva pensato a questa coincidenza, ma quando è stato fissato l’appuntamento non ci siamo tirati indietro» aveva affermato Edoardo Todaro, sindacalista dei Cobas, introducendo l’iniziativa con Silvia De Bernardinis, autrice della prefazione: «Probabilmente i mezzi di informazione, vista la scarsezza di notizie da dare, dovevano `crearne´ una». Poi, a incontro concluso Barbara Balzerani ha pronunciato le frasi destinate a rinfocolare la polemica.
La replica di Maria Fida Moro. Già lo scorso gennaio l’ex brigatista aveva pronunciato frasi che erano suonate come uno schiaffo ai familiari delle vittime di via Fani e di Aldo Moro. «Che palle, sta per arrivare il quarantennale della strage, qualcuno vuole ospitarmi?» aveva detto colei che era stata condannata per omicidio e sequestro di persona. Dopo un lungo silenzio proprio pochi giorni fa le aveva replicato Maria Fida Moro, figlia dello statista assassinato, attraverso un video pubblicato su Youtube. «Io ho il diritto di dire “che palle il quarantennale, non tu» aveva detto Maria Fida rivolgendosi all’ex terrorista.
Cinismo-shock dell'ex br Balzerani: "Vittima è diventato un mestiere...". Polemica a Firenze, rabbia di Fida Moro. Presenta un suo libro in un centro sociale. Parla di "spauracchio del 16 marzo". Molti rappresentanti cittadini: "Episodio inaccettabile". La figlia dello statista: "Voi avete trasformato in mestiere una morte ingiusta" . Il presidente dell'Associazione vittime del terrorismo: "Un consiglio? Questi signori cercassero di farsi dimenticare", scrivono Gerardo Adinolfi e Laura Montanari il 17 marzo 2018 su "La Repubblica". "C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano diritto a dire la loro, figuriamoci. Ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te". Così l'ex brigatista Barbara Balzerani - della colonna romana delle Br e componente del gruppo che ha preso parte al rapimento di Aldo Moro - ha commentato l'anniversario di quel 16 marzo 1978, ieri sera al centro sociale Cpa di Firenze, alla fine della presentazione del suo libro "L'ho sempre saputo". L'incontro era stato fissato il giorno stesso dell'anniversario della strage di via Fani e questo ha suscitato non poche polemiche e proteste da parte di parlamentari del centrosinistra e della destra fiorentina. Lei ha risposto con quelle parole sulle vittime a chi ricordava l'intervento del capo della polizia Franco Gabrielli che aveva sostenuto che "vedere i brigatisti in tv era un oltraggio ai morti". Non si è fatta attendere la risposta di Maria Fida Moro, figlia dell'ex statista della Dc: "Prendo atto della sua inconsulta dichiarazione. Avrei immaginato che avrebbe risposto con il silenzio che è d'oro. Negli ultimi quaranta anni mentre io mi arrampicavo sugli specchi per mantenere mio figlio, voi ve la siete "goduta" senza fatica, senza dolore e senza merito" - dice Fida Moro - ciò detto aggiungo che io sono quella del perdono nei vostri confronti, che mi è costato un baule di parolacce e minacce di morte (compresa la carta igienica sporca inviata per posta). Altri - sottolinea - hanno trasformato in mestiere ed in una lucrosa fonte di reddito il nostro dolore. Detesto anche solo l'idea del mestiere di vittima, che ho sempre rifiutato. Sono andata in giro gratis attraverso l'Italia per portare un messaggio di pace amorevole, nonostante. Se c'è qualcuno che ha trasformato in mestiere una morte totalmente ingiusta siete voi, portati in palma di mano, da gente vile e meschina". Oltretutto, nelle settimane precedenti, la stessa Balzerani aveva scritto (il 9 gennaio) un post su Facebook poi cancellato in cui si leggeva: "Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?". Il riferimento all'anniversario di Moro è parso evidente e qualche giorno fa, la figlia dell'esponente Dc, Maria Fida Moro, ha caricato un video su Youtube in cui ha risposto a distanza: "Che palle il quarantennale lo dico io che non l'ho provocato e che l'ho subito e che ho il titolo per dirlo. Perché il quarantennale mi dà dolore. Ma la signora Balzerani non può dirlo perché lei è tra coloro che l'hanno provocato". La ex terrorista, nel parlare delle vittime durante la presentazione del libro a Firenze, ha anche spiegato con un parallelo agghiacciante che "non è che se vai a finire sotto un'auto sei una vittima della strada per tutta la vita, lo sei nel tempo che ti aggiustano il femore...". L'invito del Cpa a Barbara Balzerani aveva sollevato molte polemiche e proteste fin dalla vigilia: "E' inaccettabile che una ex brigatista non pentita possa dare lezioni sugli anni più drammatici e bui della democrazia" ha detto l'onorevole Gabriele Toccafondi (di Civica Popolare eletto nel centrosinistra), mentre Jacopo Cellai e Mario Tenerani (Forza Italia) e Francesco Torselli (Fratelli d'Italia) hanno parlato di "memoria infangata delle vittime di una strage che segnò per sempre la storia della nostra Repubblica". Sulle parole della ex Br è intervenuto anche il presidente della Regione Enrico Rossi: "Non provo rancore nei confronti di chi partecipò al rapimento Moro, il tempo passa, ma non sono loro i protagonisti dei commenti e del ricordo. Capisco che hanno espiato e che hanno diritto a dire la loro. Ma ci sono molte cose su cui esprimersi: sulla vicenda Moro loro possono solo dire di avere sbagliato e chiedere scusa agli italiani”. Per il sindaco di Firenze Dario Nardella invece "le parole dell'ex brigatista Balzerani sono un insulto meschino ad Aldo Moro e a tutte le vittime del terrorismo. Quanto da lei affermato è un oltraggio alla memoria di coloro che hanno perso la vita in una strage che ha segnato e cambiato la storia del nostro Paese. Firenze, che ha perso un sindaco, Lando Conti, per mano terrorista - conclude Nardella -, si schiera dalla parte di chi ha perso la vita in nome dei valori istituzionali che i brigatisti volevano sovvertire". E comunque in una saletta affollata uno degli organizzatori aveva spiegato che l'invito per il 16 marzo era soltanto una coincidenza: "Ma abbiamo pensato di non tirarci comunque indietro", aggiungendo che non si sarebbe parlato di via Fani. Così non è stato, non c'è stato un minimo contradditorio, nessuno che dalla platea abbia sollevato obiezioni alle parole dell'ex-terrorista che ha argomentato di una "decontestualizzazione di quella mattina" di 40 anni fa e di una "guerriglia comunista condotta contro le principali forze politiche che avevano fatto blocco". Di via Fani si è parlato, eccome. Ma alle parole dell'ex-compagna di Mario Moretti (con cui ha condiviso anche la "gestione" della prigionia di Moro nel covo di via Gradoli) nessuno ha sollevato una qualsiasi obiezione. Dura, invece, la reazione dell'Associazione vittime del terrorismo, il cui presidente Roberto Della Rocca, fu gambizzato dalle Br nel 1980 a Genova: "La vittima non è mestiere ma una calamità che capita a persone e familiari. E dura tutta la vita, perché le ferite morali non si rimarginano - ha detto Della Rocca - questi signori se hanno da dire qualcosa si presentino davanti ai giudici e diano brandelli di verità, anche se la giustizia noi non la possiamo ormai più pretendere". Della Rocca continua: "Ci farebbe piacere che invece che esporsi cercassero di farsi dimenticare". Sulla stessa linea Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili: "Quello delle vittime non è un mestiere, lo è invece quello di chi ha fatto parte di gruppi terroristici eversivi e oggi cerca di imporsi alle nuove generazioni con insegnamenti".
Il tour indisturbato della terrorista. Gira l'Italia per rivendicare il proprio passato. E nessuno dice nulla, scrive Luca Fazzo, Lunedì 19/03/2018 su "Il Giornale". Hanno evidentemente la manica larga, i capi della azienda di informatica che ha assunto Barbara Balzerani, già membro della direzione strategica delle Brigate Rosse: cui, invece di timbrare il cartellino, concedono di impiegare il tempo scrivendo libri e girando l'Italia per presentazioni, convegni e dibattiti. Contenti loro, si potrebbe dire. Peccato che i tour della Balzerani si trasformino in una sorta di campagna revisionistica della stagione del terrore, in cui l'unico vero torto che viene ammesso dalle Br è quello di non avere vinto la loro guerra. Più delle inossidabili certezze della Balzerani, fa effetto il fascino che le sue rivendicazioni esercitano non solo sui vecchi compagni di ideali, ma anche su una galassia che va dal mondo antagonista a settori della sinistra parlamentare, del sindacalismo di base e persino delle istituzioni. Non una banda di fanatici ma degli Icaro caduti in volo: così la Balzerani e i suoi compagni si presentano e vengono applauditi. Il D-Day, il giorno in cui la sanguinosa utopia brigatista viene ufficialmente sdoganata, è il 19 gennaio 2013, quando si celebrano i funerali di Prospero Gallinari, fondatore delle Br: a salutare a pugno chiuso la bara ci sono i quadri storici, con in testa Renato Curcio e la Balzerani: ma anche centri sociali, comitati no Tav, persino il coordinatore di Rifondazione Comunista Alberto Ferrigno e il segretario nazionale Claudio Grassi, già senatore. Pugni chiusi, inni partigiani, un clima da «formidabili quegli anni». «Non sarò mai né un ex brigatista né una dissociata», dice pochi giorni dopo la Balzerani. È una rivendicazione tetragona della giustezza delle ragioni brigatiste che non impedisce a settori importanti della sinistra di flirtare con l'ex ergastolana. A venire sedotta è anche una figlia della più celebre vittima delle Br, Maria Fida Moro: che nel 2007 incontra a lungo la Balzerani, e ne esce dando il suo decisivo via libera alla scarcerazione della brigatista. La quale oggi la ringrazia con la battuta brutale a margine di un incontro a Firenze, «quello di vittima ormai è un mestiere». A fare la fila per ospitare la Balzerani sono soprattutto i centri sociali dell'ala antagonista: le ultime esternazioni di «Compagna Luna» (suo soprannome e titolo della sua autobiografia) hanno avuto per teatro il Cpa di Firenze. Nel 2009 era toccato al «Corto Circuito» di Roma, il cui sgombero, dopo ventitré anni di occupazione abusiva, verrà poi stigmatizzato dai leader di Sinistra Italiana: come se la rivendicazione dell'esperienza brigatista non fosse sufficiente a tirare una riga nel dibattito a sinistra, non bastasse a separare ragioni e torti, e anche i crimini delle Br dovessero venire ammessi nell'album di famiglia della gauche. Qua e là per l'Italia - da Ruvo di Puglia a Carpineto Romano a Aiello Calabro - sindaci in stato confusionale si candidano a ospitare e patrocinare le presentazioni-comizio della Balzerani. Ma i veri plebisciti «compagna Luna» li riscuote sui social network, di cui è alacre frequentatrice. E dove anche le ultime polemiche che l'hanno investita per la battutaccia sul «mestiere di vittima» vedono scendere in campo al suo fianco valanghe di supporter: «Hai avuto il coraggio di agire insieme agli altri compagni per una trasformazione in senso socialista della società e osato sfidare frontalmente il capitalismo!». E roba di questo genere.
La sceneggiatura del caso Moro. Tra Todo Modo di Sciascia e influenze bibliche. Il rapimento del leader Dc riletto da uno scrittore millennial come fosse un film, scrive Raffaele Alberto Ventura il 17 Marzo 2018 su "Il Foglio". Quando nel 1978 il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro venne rapito e assassinato dalle Brigate Rosse, lo scrittore Leonardo Sciascia dovette ammettere che i fatti presentavano spiacevoli analogie con il contenuto del suo romanzo Todo modo, pubblicato nel 1974 e adattato al cinema nel 1976. Il libro fornisce una descrizione grottesca dei torbidi meccanismi di potere che regolavano la vita politica italiana della Prima Repubblica e alla fine racconta l’uccisione rituale di un personaggio riconoscibile come caricatura di Aldo Moro. Nel romanzo il segretario della DC paga per le colpe di un intero sistema politico: proprio come accadrà nella realtà, ovvero come sosterrà lui stesso nelle sue lettere dalla prigionia e come rivendicheranno i rapitori nei loro comunicati. Tutto sarà trovato esatto più tardi. Immaginando quella morte e poi raccontandola, Sciascia aveva per caso, involontariamente, designato (ovvero disegnato) la vittima? Lo scrittore siciliano era riuscito nel suo romanzo a trasfigurare la complessa situazione politica italiana in un’allegoria potente e grottesca. Era riuscito a fornire, in forma di finzione, una chiave di lettura della realtà. E così aveva in un certo senso disegnato la mappa che le Brigate Rosse avrebbero usato per muoversi nello spazio tra la strategia rivoluzionaria e la la tattica terroristica. In questo senso Todo modo non è una profezia innocente che anticipa la realtà, ma un evento che la produce, un tassello fondamentale della storia delle rappresentazioni che portarono a quel mistero tremendo che è la "Passione" di Aldo Moro. Durante il rapimento, un mese prima dell’omicidio, il 23 marzo, Sciascia aveva espresso su Radio Radicale il suo stato d’animo: "Oggi posso dire che non mi rimangio nemmeno una virgola di Todo Modo. Come uomo, come cittadino, di fronte al caso Moro sento lo sgomento e la pena di qualsiasi persona che abbia sentimento e ragione. Ma come autore di Todo Modo, rivedo nella realtà come una specie di proiezione delle cose immaginate. Questo mi ha fatto da remora nell’intervenire, come scrittore, anche per un senso di preoccupazione e di smarrimento nel vedere le cose immaginate verificarsi…" Sciascia esitava tra la tentazione di rallegrarsi per la sua illuminata profezia e il timore d’influenzare (ancora) gli eventi. Faceva sicuramente bene perché il 9 maggio, dopo una prigionia di 55 giorni, Aldo Moro venne infine ucciso. Proprio come nel romanzo. Ovviamente non esiste nessuna prova, nessuna testimonianza che le Brigate Rosse si siano ispirate a Todo modo; e nello stesso tempo è improbabile che non lo conoscessero, perlomeno nella sua versione cinematografica. La pellicola di Elio Petri, liberamente tratta dal romanzo, è persino più potente del romanzo. C’è, soprattutto, quella tremenda somiglianza tra Aldo Moro e Gian Maria Volonté, che si era impegnato a riprodurre in maniera caricaturale tutti i tic dell’onorevole DC, presentandolo nella finzione come quel viscido burattinaio e aspirante agnello sacrificale che le Brigate Rosse presenteranno nei loro comunicati. Fu quindi nel buio di una sala di cinema che si è deciso di condannare a morte il presidente della Democrazia Cristiana? Il regista dovette difendersi dall’accusa di essere in qualche modo un mandante morale dell’omicidio — o il mandante simbolico — dichiarando che “Todo modo non era certo un invito a uccidere Moro” e che “No, il film non era terroristico”. Quella sala buia ci riporta alla mente le grotte preistoriche dove gli uomini decretavano la morte dei bisonti, e dove oggi talvolta si condannano a morte gli esseri umani. Non fu certo l’ultima volta che un artista ha dovuto difendersi dall’accusa di avere influenzato la realtà. Nel 1981, John Hinckley Jr. tentò di assassinare il presidente americano Ronald Reagan per imitare le gesta del protagonista del film Taxi Driver (1976) e fare colpo sull’attrice Jodie Foster. Lo scrittore Michel Houellebecq, il cui romanzo sull’Islam è uscito in Francia proprio nel giorno degli attentati al settimanale Charlie Hebdo all’inizio del 2015 e quindi non ha potuto in alcun modo influenzare i fatti, è stato comunque accusato dalla stampa di avere contribuito a provocare i terroristi. Qualche mese dopo, intervistato dalla televisione francese a proposito della sua responsabilità di scrittore, Houellebecq ha risposto semplicemente: "Non me lo spiego, ma nella pratica è terrificante: lascia credere che effettivamente ci sia una divinità che crea delle coincidenze tra gli eventi e che sono stato chiamato a ciò che chiamiamo un destino… Non mi sento responsabile: mi sento manipolato da una divinità malefica. È piuttosto sgradevole". Anche Aldo Moro e i brigatisti parvero presto essere manipolati da una divinità che assomigliava stranamente al Dio cristiano. Tutto il caso Moro, il grande trauma della Prima Repubblica, presenta curiose contaminazioni tra realtà e finzione. Ci sono, ovviamente, le innumerevoli versioni dei fatti, i depistaggi, le sedute spiritiche, i falsi comunicati. Ci sono le innumerevoli congetture sugli autori — americani? russi? marziani? — della sceneggiatura che i brigatisti sembrano seguire senza nemmeno capirla. Ma c’è innanzitutto il modo in cui i protagonisti della vicenda hanno iniziato a immedesimarsi nei personaggi di altre storie. E principalmente nel Nuovo Testamento, come dei padri pellegrini alla conquista di un nuovo territorio. I primi martiri del cristianesimo vivevano e morivano come il Nazareno, utilizzando i racconti che erano stati tramandati come vere e proprie “sceneggiature” da attualizzare. Nei secoli non c’è re o santo cristiano che non abbia preteso di orientare la sua condotta sull’esempio di Gesù Cristo, imitando il Figlio come il Figlio imitava il padre. Alla fine di un secolo che sembrava essersi lasciato alle spalle ogni teologia politica, Aldo Moro si trovò a interpretare di nuovo quel ruolo antichissimo. La Pasqua 1978 cadde un 26 Marzo, in pieno durante la prigionia di Aldo Moro. Questa coincidenza temporale, che si ripete ogni anno con differente precisione, negli ultimi quarant’anni ha ispirato continue commemorazioni incrociate della Passione di Cristo e di quella del segretario DC. Il giornalista televisivo Bruno Vespa poteva dunque nel 2008 dedicare una puntata del suo programma, nella notte tra Giovedì e Venerdì Santo, ai “55 giorni di Passione” di Moro così contribuendo alla reductio ad Christum che lo stesso presidente democristiano aveva suggerito nelle sue ultime lettere. Si tratta di un corpus strano e affascinante, in bilico tra autenticità e apocrifia, che possiamo leggere nell’edizione curata da Miguel Gotor per Einaudi proprio nel 2008, per il trentennale. Scritte sotto il controllo e l’influenza dei carcerieri, ispirate dalle informazioni filtrate che giungevano a Moro e poi nuovamente filtrate prima di giungere ai loro lettori, rese pubbliche secondo modi e tempi differenti da differenti destinatari, queste lettere non hanno uno ma tanti autori. Ognuno di questi co-autori manipola la realtà in modo diverso per produrre un effetto diverso. La formazione di questo corpus è un vero proprio thriller che Gotor, di formazione specialista del Cinquecento e del Seicento, ha sviluppato qualche anno più tardi in un volume corposo, Il memoriale della Repubblica. Attraverso la storia di questi scritti, prodotti su commissione dei carcerieri e sottoposti a vari livelli di censura, poi scomparsi e riapparsi a singhiozzo in versioni diverse, lo storico prova a fornirci nientemeno che una “anatomia del potere italiano”. E denuncia una rimozione della quale questi scritti sono stati oggetto, una volontà di dimenticare la testimonianza di Aldo Moro da parte dell’intera generazione di coloro che, per eterogenesi dei fini, inconsapevolmente si accordarono per propiziare — vedi Sciascia — e lasciar compiere il suo sacrificio. Gotor confuta piuttosto facilmente il luogo comune secondo cui tra le Brigate Rosse e la sinistra extraparlamentare della fine degli anni Settanta non ci fossero punti di contatto, e arriva a suggerire una responsabilità del vertice di Potere Operaio non certo nella pianificazione del rapimento, ma nella formazione del contesto ideologico e nella formulazione dei quesiti che sarebbero stati rivolti al rapito, e complessivamente nella costruzione dell’ingranaggio mortale nel quale finì il corpo di Moro. Il corpus delle lettere dalla sua prigionia ha una dimensione martiriale che evoca gli epistolari tragici di Paolo di Tarso o di Ignazio di Antiochia oltre che l’antica letteratura apocalittica giudaico-cristiana. Come disse Giovanni Moro, figlio di Aldo, “le lettere devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia”. E proprio come questi testi antichissimi, anche le lettere di Moro ci giungono in forma apocrifa, o meglio come risultato di una contorta sovrapposizione al termine della quale si trova un autore impossibile, un discorso del quale viene misconosciuta l’originalità. Tuttavia, il risultato ha una misteriosa coerenza che realizza una sacra sceneggiatura; un “sacro mistero” proiettato nell’immaginario collettivo, sulla superficie della Storia. In un paio di occasioni Aldo Moro descrive la propria prigionia come un “Calvario”. Quando capisce che i suoi compagni di Partito intendono abbandonarlo in nome della Ragion di Stato, il prigioniero si sente abbandonato come Gesù sulla croce. E finisce per scrivere testualmente le parole “Il mio sangue ricadrà su di loro” come maledizione lanciata al Sinedrio democristiano. Il Partito sembra rispondere con le parole di Caifa: “È meglio che un uomo solo muoia per il popolo”. Se prendiamo alla lettera questa lettura cristologica, ne dobbiamo concludere che le Brigate Rosse non sono altro che gli esecutori materiali di un delitto “moralmente” commissionato dallo Stato. Evidentemente questa narrazione non è neutra e serve uno scopo, ma quale? Secondo Sciascia, è questo il dubbio che Moro tenta di produrre nei brigatisti: ovvero di essere delle semplici pedine, inconsapevoli strumenti di un progetto democristiano e forse americano. La sua insistenza sulla necessità di una trattativa non era rivolta allo Stato ma innanzitutto ai suoi carcerieri, i quali avrebbero dovuto convincersi che paradossalmente la sua morte facesse comodo allo Stato. Nello stesso tempo, ciò che forse Moro non capiva, questa versione dei fatti assolve i brigatisti ed è spesso servita ad attenuare le loro colpe: hanno dovuto uccidere Moro perché nessuno dei loro tentativi di trattativa è andato a buon porto. Quando i combattenti comunisti eseguiranno la sentenza potranno “lavarsene le mani” come Ponzio Pilato perché Moro morituro aveva dirottato la colpa su altri. Ma in cosa consiste precisamente questa maledizione, reiterata di continuo nelle lettere e continuamente tenuta implicita – questa maledizione che distruggerà e farà collassare la Democrazia Cristiana, chiamando altro sangue? Come doveva realizzarsi la catastrofica profezia, e come si è realizzata? Tutto il discorso della prigionia di Aldo Moro tiene nel conflitto tra Legalità e Necessità, ovvero tra il Diritto e la Politica. Abdicando al proprio potere di sospendere la Legalità sulla base di una Necessità politica, morale e umanitaria, la Democrazia Cristiana stava semplicemente rinunciando alla propria anima cristiana, riducendosi ad una grigia idolatria procedurale, incapace di esercitare la Sovranità (e perciò l’Eccezione) in nome di un bene più alto. In questo senso vanno i continui appelli alla Santa Sede, che avrebbe dovuto spingere lo Stato ad una rottura dell’ordinamento giuridico in materia di sequestri. Aldo Moro sperava dunque in un miracolo, ma non un miracolo impossibile che infrangesse le leggi della fisica, ma nel miracolo possibile della politica. Rifuggendo la soluzione politica, ovvero la soluzione cristiana, Moro profetizzò, la D.C. avrebbe perso l’anima. E perché lo fece? Lemà sabactàni? Scrive Sciascia: "Da un secolo, da più che un secolo, [lo Stato Italiano] convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi e rivoli d’impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò – al momento di farla finire – “la ricreazione”: scuole occupate e devastate, violenza dei giovani tra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate Rosse, lo Stato Italiano si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza, della sua solennità?" Infine c’è l’ultima analogia cristologica: la coincidenza simbolico-istituzionale tra vittima e carnefice. L’archetipo del sacrificio del Re, o del suo rappresentante, il figlio prediletto, è pienamente rispettato. Aldo Moro viene lasciato morire dal partito di cui è presidente, e in qualità di presidente paga. Un ultimo paradosso: è la propria morte, il più alto crimine che Moro paga con la propria morte.
Moro, parla l'avvocato Li Gotti: "Non si fece mai vincere e non è mai stato zitto". Il legale che ha rappresentato i familiari dell'appuntato Domenico Ricci e del maresciallo Oreste Leonardi, due degli uomini della scorta che morirono in via Fani. "Sulla prigionia di Moro c'è un documento inedito del 1979 con una intercettazione della conversazione fra due detenuti, di cui uno di alto livello terroristico, avvenuta in un carcere di massima sicurezza", scrive il 17 marzo 2018 "La Repubblica". "Durante la sua prigionia nelle mani delle Brigate Rosse, Aldo Moro si è comportato con estrema dignità davanti ai suoi carcerieri, non si è fatto vincere, non si è fatto prendere dal panico, non è stato zitto". A riferirlo è l'avvocato Luigi Li Gotti estrapolando parte "di quanto è contenuto in un documento inedito del 1979 in cui è trascritta una intercettazione ambientale della conversazione fra due detenuti di cui uno di alto livello terroristico avvenuta in un carcere di massima sicurezza". Il legale ha rappresentato i familiari dell'appuntato Domenico Ricci e del maresciallo Oreste Leonardi, uomini della scorta di Moro assassinati dalle Br nell'agguato di via Fani del 16 marzo 1978, cui seguì il sequestro dello statista e poi la sua uccisione. Intervistato dalla AdnKronos, sostiene che sui giorni del sequestro e sul trattamento subito da Moro durante la prigionia questo "documento inedito mai diffuso" potrebbe "fare luce su altri misteri" legati al sequestro e all'uccisione del presidente della Dc. Secondo Li Gotti, che è stato sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, non esisterebbe però "solo il documento di trascrizione dell'intercettazione ma, come dice, "esisterebbe il nastro della registrazione di questa intercettazione" che potrebbe essere ancora custodito in qualche cassetto "del ministero dell'Interno". "Nel processo Moro quater -racconta il legale- arrivarono dalla Presidenza del Consiglio tantissimi documenti, casse di documenti che mi andai a guardare e trovai, fra questi, che nel 1979 erano stati trasmessi alle varie autorità documenti particolari che riguardavano la trascrizione della conversazione fra due detenuti". "Appresi, e apprendemmo, quando vidi questa documentazione, che l'autorità giudiziaria - sostiene ancora Li Gotti - avuta cognizione di tale documentazione la restituì al mittente dicendo che, trattandosi di persone ignote - gli intercettati -, non potevano fare ingresso nel processo, essere cioè messi come elemento di prova. Per cui si disse di individuare i nomi degli intercettati e poi di rimandare il documento completo". Ma, chiarisce Li Gotti, "da quel momento non arrivò più nulla e solo nel 1990 venne fuori questo carteggio e presi conoscenza di questa trascrizione che riguardava il sequestro ed il trattamento che aveva Moro durante la prigionia". Oltre a dichiarare che, in base a quanto letto nel documento, "nella sua prigionia Aldo Moro fu trattato bene, non è mai stato torturato fisicamente, non gli sono mai state messe le mani addosso", Li Gotti sostiene che dal documento risulterebbe che "Moro abbia meditato a lungo, anche un'ora, prima di rispondere alle domande del suo interrogatorio".
E dopo Moro iniziò il riformismo rosso, scrive Piero Sansonetti il 17 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il sequestro di Aldo Moro, la sua uccisione, e poi nove mesi nei quali il palazzo spostò il paese a sinistra. Uscii di casa verso le nove e comprai i giornali. Repubblica aveva un titolo molto grande che diceva che Aldo Moro era Antelope Cobbler, nome in codice del politico italiano che aveva preso le tangenti della Lockheed. Clamoroso: perché il caso Lockheed fu il più grande scandalo del dopoguerra prima di Tangentopoli, e perché quel giorno si presentava alla Camera il primo governo di unità nazionale, cioè con comunisti e dc in maggioranza, e Moro era il regista, l’artefice, il padre di quel governo. Moro Antelope Cobbler? Una bomba. Arrivai a Montecitorio in autobus una ventina di minuti più tardi. Per me era la prima volta a Montecitorio: non c’ero mai entrato. Una settimana prima del 16 marzo, il direttore mi aveva nominato cronista parlamentare e mi aveva detto che iniziavo con la presentazione del nuovo governo. Lavoravo all’Unità, il giornale del Pci. Davanti all’ingresso della Camera però non trovai il mio collega Frasca Polara, che mi aveva dato appuntamento alle 9 e un quarto. Chissà come mai. Lui era precisissimo, non scordava mai niente. Invece vidi Massimo D’Alema, che era il segretario dei giovani comunisti ed era venuto a Montecitorio per accompagnare in macchina suo padre, vecchio deputato comunista. D’Alema mi venne incontro e mi disse che avevano rapito Moro e sterminato la sua scorta. Me lo disse con quella sua aria di sempre, apparentemente calmissima, fredda, ma in realtà drammatica, teatrale. Rapito Moro? Una cosa incredibile, pazzesca. Ero sveglio solo da un paio d’ore ed avevo saputo prima che Moro rischiava di essere travolto da una valanga giudiziaria, che ragionevolmente avrebbe travolto anche il governo, e poi che Mo- ro era prigioniero delle Brigate Rosse, le quali gli avevano ammazzato i cinque uomini di scorta, e ora avrebbero chiesto allo Stato di trattare. Cinque minuti dopo entrai alla Camera, andai nel Transatlantico, che non sapevo neppure come fosse fatto, ero un po’ spaesato: vidi comparire i volti che fino a quel momento avevo visto solo nelle foto dei giornali, oppure sui libri di storia: Pietro Nenni, Ferruccio Parri, Luigi Longo, Francesco de Martino, e poi Amendola, Berlinguer, Riccardo Lombardi, Ugo La Malfa. Ho ancora impressa nella memoria la faccia rugosa di Benigno Zaccagnini, che veniva verso l’aula da uno dei due corridoi laterali, e piangeva, piangeva. Ancora oggi, se penso a Zaccagnini mi viene subito in mente quella immagine. Così come, se penso a Ugo La Malfa, rivedo la scena di lui che strilla “pena di morte, pena di morte!”. Pensai che fosse impazzito. Fu una giornata incredibile nella politica italiana. Per me, giovinetto che vedeva il palazzo per la prima volta, addirittura sconvolgente. Finii di lavorare alle quattro di mattina, quando il Senato votò la fiducia e io dettai qualche riga di “ribattuta” al giornale. Allora i quotidiani chiudevano tardissimo, quasi all’alba. Tornai a casa molto incerto. Non impaurito, perché i ragazzi di 26 anni non si impauriscono facilmente. Però se qualcuno mi avesse chiesto: «secondo te cosa succederà, ora, in Italia?», avrei risposto: boh. L’altro giorno Guido Bodrato, che in quei giorni era il giovane numero 2 della Democrazia Cristiana, ha raccontato al Dubbio che loro temettero che fosse iniziata l’insurrezione. Beh, il clima era quello. Cosa successe in realtà? Nei giorni scorsi abbiamo parlato molto del sequestro, dei risvolti drammatici, della condotta dei partiti, dei misteri veri o presunti. Non aggiungo altro. Vorrei solo accennare a cosa successe in termini politici reali, perché, di solito, nessuno, quando ragiona sul nostro passato politico, si sofferma su quei mesi – più o meno nove – dal sequestro Moro alla fine dell’anno. Io credo che furono i mesi del riformismo rosso. Non trovo un altro modo per definirlo. In nessun altro periodo della sua storia l’Italia repubblicana ha visto realizzarsi un numero così grande di riforme politiche e sociali, di tipo socialdemocratico, molto profonde e che cambiarono il volto del paese e del suo popolo. Il 1978, oltre ad essere l’anno del sequestro Moro, è l’anno del riformismo. E si potrebbe persino azzardare l’ipotesi che i due avvenimenti non furono slegati Prima vi presento un breve elenco di quello che successe, nel Parlamento italiano, tra il 9 maggio – cioè il giorno dell’esecuzione di Moro – e la fine dell’anno. Poi proviamo a ragionarci un attimo, senza paraocchi e senza formule. Dunque, nello stesso mese di maggio nel quale fu trovato il cadavere dello statista democristiano, lasciato dalle Br nel centro di Roma in un luogo equidistante tra le sedi della Dc e del Pci (via Caetani) si svolse alla Camera, e poi in forma più blanda al Senato, la battaglia dell’aborto. I partiti laici e di sinistra avevano presentato una legge che legalizzava e regolamentava l’aborto. Si opponevano la Dc, per ragioni religiose, il Msi di Almirante e – per ragioni opposte – anche i radicali che non avrebbero voluto regole e quindi preferivano la semplice depenalizzazione, da ottenere tramite referendum. Alla Camera il provvedimento passò dopo alcuni giorni di ostruzionismo radicale. Al Senato si andò al voto con grande incertezza. I partiti laici disponevano di 160 voti, più quattro senatori a vita. Gli oppositori, guidati dalla Dc, di 153 voti più 3 senatori a vita. Si votò il 18 maggio, appena 9 giorni dopo l’assassinio di Moro. Si temevano defezioni in un campo e nell’altro. I senatori a vita dc non si presentarono, tranne Fanfani che però si astenne in quanto presidente del Senato. C’erano una decina di assenti, più o meno nella stessa misura tra le due parti. Il voto era segreto. Il risultato era in bilico. Vinsero i laici, 160 a 148. E Giulio Andreotti, capo del governo monocolore Dc, firmò la legge che introduce l’aborto in Italia. Con grande furia del Vaticano. La settimana dopo il Parlamento approvò quella che fu chiamata la legge- Basaglia. Franco Basaglia era un grande psichiatra e un teorico della de- istituzionalizzazione. La legge- Basaglia, ispirata al suo pensiero, chiudeva i manicomi. E introduceva l’idea che la malattia mentale non è qualcosa da reprimere ma da assistere e curare. L’Italia fu il primo paese al mondo a dotarsi di una legge simile, fece da apripista. In luglio, il giorno nove, Sandro Pertini, uno dei capi della Resistenza, diventa il primo presidente della Repubblica socialista nel nostro paese. Rompe l’eternità della Dc. La sua elezione è il primo successo politico di Craxi, segretario da poco, anche se in realtà Craxi gli avrebbe preferito Antonio Giolitti. Pertini, appena insediato, pronuncia un discorso trascinante. Entusiasma la sinistra. Grida: «Riempite i granai e svuotate gli arsenali». Due settimane dopo la sua elezione, il Parlamento approva un’altra riforma molto forte. Si chiama equo canone. In pratica limita fortemente il diritto di proprietà sulle abitazioni. Stabilisce che l’affitto delle case non è a libero mercato ma è a prezzi fissi (molto bassi) stabiliti dallo Stato. E’ una riforma che non funzionerà, ma che è in tutta evidenza una riforma di tipo socialista. Prima di dicembre vengono riformati i patti agrari e viene modificato anche il diritto di famiglia. In dicembre arriva a conclusione la grandiosa riforma sanitaria, che assomiglia molto a quella che Obama riuscirà ad imporre agli Stati Uniti quasi mezzo secolo più tardi. Afferma il principio del diritto assoluto alla salute e alle cure gratuite. Stabilisce un criterio che è il più avanzato in tutto il mondo occidentale. L’Italia sarà poi imitata da quasi tutti i paesi europei. Beh, se qualcuno è in grado di trovare nella storia d’Italia nove mesi più rossi di questi vince un premio. Non lo vincerà nessuno. Le domande che mi pare giusto porre, sono le seguenti.
Prima: questo blocco di riforme profondissime e così veloci era nei piani originari del governo Andreotti ed era nella mente di Moro?
Seconda: quali furono le forze che permisero questa quasi rivoluzione?
Terza: L’impeto dell’attacco terroristico frenò o no la spinta riformista?
Io credo che Moro e Berlinguer, quando siglarono l’accordo che portò alla nascita del governo (guidato, come abbiamo detto, da Giulio Andreotti, cioè da un esponente moderato della destra Dc) non avessero in mente un piano di riforme così radicali e strutturali. La verità è che il Pci si trovò in quei mesi, dopo l’uscita di scena del capo della Dc, in una posizione incredibilmente forte, che non si aspettava, e che gli permise di spingere a tavoletta sul programma. Poi il Pci pagò pesantemente, in termini elettorali, i suoi successi, ma di questo ne parliamo tra qualche riga. E la verità è anche che le Brigate Rosse, e insieme il movimento giovanile rivoluzionario, che era molto forte, soprattutto in piazza, e molto di rottura – e che nel 1977 aveva messo a soqquadro l’Italia – non provocarono nessun contraccolpo di tipo reazionario, anzi, spinsero tutti i partiti a sinistra – anche la Dc esercitando quasi una forza di attrazione, non ideale, ma molto concreta. Il Palazzo si convinse che per combattere il terrorismo bisognava usare un mix: mano libera (e mano dura) alla magistratura, e riforme sociali che rendessero meno evidenti e meno forti le ingiustizie che rappresentavano il carburante “di massa” per la lotta armata. Le Brigate rosse, forse a loro insaputa, esercitarono un ruolo, più o meno, di “riformismo armato”. La sterzata a destra, in Italia, arrivò molto più tardi. All’inizio degli anni ottanta. Ma non dipese né dalle Br, né da fattori di politica interna, né tantomeno dal Pci o dalla Dc. Dipese dalla congiuntura internazionale, dalla vittoria della signora Thatcher in Gran Bretagna e poi del vulcanico Reagan negli Stati Uniti. Ma allora perché il Pci, che ebbe una funzione di guida in questa stagione “rossa”, poi perse le elezioni e iniziò il declino? Forse la risposta sta proprio in quell’inciso che abbiamo fatto qualche riga sopra. Il doppio binario: da una parte riforme sociali, dall’altra stretta autoritaria sul piano dello Stato di diritto e delega alla magistratura. La storia dello strapotere della magistratura in Italia inizia in quei giorni. E probabilmente è proprio la convinzione che si possa sacrificare la libertà e il diritto in cambio di riforme sociali – e cioè la tara storica, in varie e molto diverse gradazioni, del movimento comunista – la ragione della sconfitta dei comunisti. Il Pci ebbe un’occasione riformista grandiosa, ma seppe sfruttarla solo in parte: seppe riformare l’Italia ma non seppe riformare se stesso. Perciò iniziò la discesa.
«Liberate Moro, senza condizioni». Così cambiò la lettera di Paolo VI ai brigatisti. La prima bozza scritta dal Papa e le successive modifiche. Il suggeritore ignoto, scrive Giovanni Bianconi il 14 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". La famosa e controversa frase contenuta nella lettera di Paolo VI agli «uomini delle Brigate rosse», in cui chiedeva loro di liberare Aldo Moro «semplicemente, senza condizioni», fu scritta dopo la correzione di una precedente versione. Cancellando due parole e modificandone un’altra. Nella prima stesura il Papa vergò di suo pugno un’altra formulazione; più ambigua e suscettibile di interpretazioni che potevano rimandare a trattative in corso, o a contropartite accettabili per lo Stato. E forse proprio per questo venne cambiata. Rivolgendosi ai terroristi che, dopo la strage di via Fani, da 36 giorni tenevano prigioniero il presidente della Democrazia cristiana, il Pontefice aveva chiesto inizialmente di rilasciarlo «semplicemente, senza alcuna imbarazzante condizione». Ma poi la terza e quarta parola di questa frase (alcuna e imbarazzante) furono escluse con un tratto di penna anonimo, e un puntino sull’ultima lettera di «condizione» trasformò il sostantivo da singolare a plurale.
Trattativa segreta. Venne così fuori l’espressione definitiva, più generica e più drastica, che pure tante discussioni e illazioni ha provocato in quarant’anni: «senza condizioni». La scoperta è contenuta in un libro di Riccardo Ferrigato (nato otto anni dopo l’omicidio Moro) che sta per essere pubblicato dalla casa editrice San Paolo: «Non doveva morire. Come Paolo VI cercò di salvare Aldo Moro». Un lavoro prezioso, costruito su alcuni documenti inediti rimasti finora custoditi negli archivi vaticani. Come la «brutta copia» della lettera del Papa (che contiene altre significative correzioni) su cui Ferrigato si interroga: chi suggerì quelle modifiche, e perché? Secondo il giovane studioso, l’eliminazione di ogni riferimento a improponibili «condizioni imbarazzanti» doveva servire, nelle intenzioni del Papa, a mantenere segreta la trattativa con i brigatisti che lui stesso aveva provato ad attivare attraverso il cappellano delle carceri, monsignor Cesare Curioni. Una volta pubblicizzata la lettera, infatti, tutti si sarebbero chiesti quali fossero le richieste non imbarazzanti che, nella mente di Paolo VI, potevano essere prese in considerazione per ottenere la liberazione di Moro. Facendo così emergere il proprio ruolo, anche solo auspicato, di mediatore tra i brigatisti e lo Stato.
La visita ad Andreotti. Ma ammesso che questo fosse il motivo della correzione, resta ignoto il suggeritore. Per quanto se ne sa, la sera del 21 aprile 1978 alla stesura della missiva parteciparono, oltre al Papa e al suo segretario don Pasquale Macchi (sua la calligrafia delle correzioni), don Curioni (interpellato telefonicamente) e monsignor Agostino Casaroli, futuro Segretario di Stato. Il quale, subito dopo l’arrivo della lettera di Moro al Papa con la preghiera di aiuto, la portò al presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Che a sua volta gli spiegò, affinché li riferisse al Pontefice, «i limiti che i nostri doveri ci impongono», sostenendo che lo scambio dei prigionieri preteso dai brigatisti era «inaccettabile» per il governo. Dunque, quando decise di rivolgersi ai carcerieri di Moro, Paolo VI aveva ben presente la ferma posizione del governo, e di certo non sarebbe stato utile mettersi in contrapposizione. Così come fu ritenuto conveniente cambiare alcune espressioni che potevano essere lette come un atteggiamento troppo disponibile del Papa verso i terroristi; e viceversa altre troppo dure nei loro confronti. Ecco allora che laddove era scritto «oso rivolgermi a voi» resta un meno deferente «mi rivolgo a voi»; in un successivo passaggio sparisce la formula «ardisco scrivere» e scompare un «vi supplico», considerato di troppo. Per contro, i brigatisti da «terribili» avversari di Moro diventano solo «implacabili»; e il «vile ardimento» con il quale commettono ferimenti e omicidi scompare nella stesura definitiva.
Scontro tra cardinali. Le altre modifiche testimoniano la lunga e sofferta elaborazione della lettera — rimasta senza esito — scritta dal Papa anche per andare incontro alle richieste della famiglia dell’ostaggio. Nel libro di Ferrigato vengono per la prima volta resi noti altri documenti vaticani che svelano come il cardinale vicario di Roma Ugo Poletti riferì a Paolo VI i timori della signora Moro rispetto allo «stato di remissività» della Dc nei confronti di un governo «controllato e forse manovrato dal partito comunista», e di conseguenza schiacciato su un atteggiamento di immobile intransigenza che avrebbe inesorabilmente portato alla morte dell’ostaggio. La famiglia spingeva perché la Santa Sede premesse su Andreotti in senso contrario, ma non tutti nei palazzi apostolici erano d’accordo. Lo si evince da un appunto del 2 maggio del cardinale Segretario di Stato Jean Villot, molto critico nei confronti di Poletti, accusato di voler interferire sulla linea del governo per conto dei familiari di Moro. Alla fine il Papa in persona scrive che «occorre avvertire il card. Poletti: non videtur expedire (non sembra opportuno, ndr), e avvertire L’Osservatore Romano, come indicato», e cioè che non bisognava prendere posizione a favore dello scambio di prigionieri. Con una postilla: «Ciò non vieta che si continui a vedere se vi sia qualche altra via per la soluzione del dolorosissimo caso». Ma non se ne trovarono.
Sequestro Moro: il cadavere nella Renault 4 rossa. Il 9 maggio 1978 il corpo di Aldo Moro fu ritrovato nel bagagliaio dell'auto parcheggiata in via Caetani a pochi metri dalle sedi del Pci e della Dc. Un fatto che sconvolse la storia dell'Italia repubblicana, scrive Edoardo Frittoli l'8 maggio 2018 su "Panorama". Due settimane di flebile speranza, poi la fine drammatica della storia del rapimento di Aldo Moro si consuma alle ore 13,15 di mercoledì 9 maggio 1978 in via Caetani, una strada del centro di Roma posta simbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe Oscure (sede del Pci) e piazza del Gesù (sede della Dc). Il corpo del Presidente della Democrazia Cristiana è nascosto nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, crivellato da 11 colpi esplosi da una mitraglietta Skorpion. Alla diffusione della notizia l'Italia, come era accaduto 55 giorni prima in occasione della strage di via Fani dove ebbe inizio la drammatica storia del rapimento Moro, scese in piazza a difesa delle istituzioni democratiche.
I giorni precedenti l'assassinio. Gli episodi del del falso comunicato n.7, ritenuto attendibile dal supervertice del Ministero dell'Interno, e il nodo del 18 aprile con il ritrovamento "casuale" del covo Br di via Gradoli che non aveva portato alla cattura dei suoi occupanti, avevano gettato molte ombre sull'operato degli uomini di Francesco Cossiga, il quale aveva irritato buona parte del mondo politico e dell'opinione pubblica con il suo ostinato silenzio di fronte al precipitare della situazione. Dall'altra parte l'attività delle Brigate Rosse non si era fermata al rapimento dello statista Dc, ma era proseguita con la volontà di mantenere alta la tensione e di alzare la posta della trattativa. Le ultime vittime del piombo brigatista erano tutte legate alla gestione del sistema carcerario italiano. Già nel comunicato n.8 i carcerieri di Moro avevano chiesto il rilascio dei brigatisti rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza paragonate dai rapitori ai lager nazisti, gestiti da Agenti carcerari che nel messaggio del 24 aprile le Br non esitavano a definire "le mai dimenticate SS". Tra le parole grottesche del comunicato si possono inquadrare i due delitti compiuti a Roma e Milano nelle circostanze del sequestro Moro. Il primo in ordine cronologico avviene nella Capitale un mese prima di via Fani, il 14 febbraio 1978. La vittima è Riccardo Palma, all'epoca direttore dell'Ufficio VIII della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena, responsabile dell'edilizia carceraria. Fu freddato da 14 colpi di mitraglietta dalla "colonna romana" responsabile poco più tardi della strage di via Fani. A Milano è freddato dalle Br "Walter Alasia" il Maresciallo maggiore degli Agenti di Custodia (oggi Polizia Penitenziaria) Francesco di Cataldo. Siamo nel pieno del sequestro Moro, è il 20 aprile 1978.
Gli ultimi messaggi delle Br. Gli ultimi comunicati, dai quali emergeva chiaramente l'oggetto dell'ultima possibilità di trattativa, fu causa anche della spaccatura che si consumerà definitivamente all'interno delle forze politiche parlamentari con Craxi e parte dei Socialisti con i Radicali di Pannella favorevoli al dialogo, a cui si contrapponeva la linea della fermezza promossa soprattutto dalla Dc di Giulio Andreotti e dal Pci di Berlinguer. In particolare nel comunicato n.8 veniva esplicitato l'attacco non solo al regime carcerario di massima sicurezza, ma anche ai magistrati e ai Carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa. La possibilità di trattare alla pari con lo Stato offriva ai rapitori di Moro la possibilità di sfruttare e alimentare la situazione esplosiva delle carceri italiane, da anni in attesa di riforma, come serbatoio di consensi alla lotta armata.
La famiglia Moro e le ultime speranze. Durante il silenzio che passò fino all'ultimo comunicato, anche la famiglia di Moro si mosse in silenzio, distante dalla strategia ufficiale del Viminale. Il tentativo estremo di trattativa dei familiari dello statista barese si era consumato nei giorni immediatamente precedenti l'ultimo drammatico messaggio delle Br, il numero 9. Da quel momento parve impossibile a tutti (Craxi compreso) poter trovare ancora qualche barlume di speranza seppur flebile. Si attendeva nervosamente la mossa successiva dei brigatisti: presumibilmente l'ultima, dato che ai vertici dei partiti dell'arco costituzionale si cominciava a parlare di "dopo Moro". L'iniziativa privata di un tentativo di contatto tra la famiglia Moro e i suoi carcerieri avvenne per intercessione dei Vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi il quale si sarebbe offerto come prigioniero in cambio del Presidente Dc, procurando contemporaneamente la disponibilità di 10 miliardi di lire per un'eventuale richiesta di riscatto in denaro.
"Cara Norina, mi hanno detto che tra poco mi uccideranno". L'ultima lettera di Aldo Moro alla famiglia. Il comunicato n.9 spense le speranze di tutti. Era il 5 maggio 1978. Solamente quattro giorni separavano il messaggio dal ritrovamento del corpo dello statista rapito il 16 marzo. Furono ore convulse, durante le quali si susseguirono rassegnazione, smarrimento, rabbia, illusioni. VI furono perfino estremi tentativi di liberare terroristi in carcere con un colpo di mano, come quello studiato dall'uomo di fiducia dei Moro Sereno Freato, segretario particolare del Presidente della Dc. Nei giorni immediatamente precedenti la morte del leader democristiano cercò di organizzare il trasferimento di 7 detenuti delle Br nel carcere di Novara, dal quale sarebbe poi dovuta scattare l'operazione di evasione. Per il mancato appoggio finale al piano, il progetto finì con un nulla di fatto. Il 5 maggio 1978 è anche il giorno in cui fu recapitata alla famiglia l'ultima drammatica lettera di Aldo Moro indirizzata alla moglie Eleonora. Nell'epilogo della fitta corrispondenza intrattenuta da moro durante i 55 giorni di prigionia (aveva scritto in tutto 39 lettere, di cui 25 recapitate) il Presidente Dc rivolgeva durissime accuse ai colleghi di partito. Ecco le parole di Moro dell'ultima lettera in cui le pesanti accuse al partito emergono stridenti dal commovente commiato ai suoi cari. "Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare".
La passione di Moro è terminata. Una trattativa che, come è noto, non si svolgerà mai. Sarà la voce fredda di Valerio Morucci a interrompere bruscamente tutte le speranze di aver salva la vita di Aldo Moro. Alle 13 circa giunge la telefonata delle Br. A rispondere è Francesco Tritto, assistente universitario di Aldo Moro. Il corpo senza vita di Moro si trova in una Renault 4 rossa rubata e parcheggiata in via Caetani, di cui Morucci fornisce l'inizio della targa "Roma N5". Sono circa le 14.00 quando la Polizia arriva sul posto insieme agli Artificieri per il sospetto che nella vettura possa esserci un ordigno. Quando il bagagliaio della Renault viene forzato tutti i dubbi vengono purtroppo fugati. Aldo Moro giaceva sopra ad una coperta di tela cerata, con la testa appoggiata al passaruota sinistro. Così l'Artificiere Vitantonio Raso svelò agli occhi del mondo la terribile e innegabile realtà. Il corpo ormai irrigidito di Aldo Moro indossava gli stessi abiti del 16 marzo, giorno del rapimento. Nei risvolti dei pantaloni e sui calzini gli inquirenti troveranno tracce di sabbia e alcuni forasacchi, le piccole spighe tipiche della vegetazione litorale del Lazio ed alcuni residui bituminosi che alimenteranno i dubbi sulla reale localizzazione della "prigione del popolo". Mentre i referti avrebbero indicato una possibile detenzione di Moro sulle coste del litorale romano, negli atti degli interrogatori successivi alla cattura i brigatisti della "colonna romana" avrebbero dichiarato che la sabbia e i residui vegetali sarebbero stati appositamente raccolti e sparsi sul corpo dell'Onorevole Moro ai fini del depistaggio. Tuttavia le deposizioni appariranno lacunose ed in molti casi incongruenti, alimentando le teorie sul il mistero della prigionia dello statista proseguite fino ai giorni nostri.
La condanna di Moro, l'Assoluzione divina. L'ultima scena della tragedia dei 55 giorni del sequestro Moro si chiude con il primo compagno di partito ad aver visto il corpo del Presidente della Dc, Guido Gonella. Pochi minuti dopo sarà la volta di Francesco Cossiga, che aveva guidato il Viminale durante i giorni della prigionia del leader democristiano. La folla si accalca, ci sono anche piccoli scontri con il cordone di Polizia. Mentre gli Artificieri sono ancora intorno alla Renault 4, si avvicina un vecchio sacerdote arrivato dalla chiesa di piazza del Gesù. Sono le 14,45 del 9 maggio 1978 quando il prete fa il segno della croce sulla fronte terrea di Moro, ancora adagiato nel bagagliaio: è l'Assoluzione divina per un uomo dalla fede incrollabile, che lasciava la vita terrena conclusa con la feroce condanna di un "tribunale del popolo".
Sequestro Moro: il nodo del 18 aprile. La scoperta del covo romano di via Gradoli, (presagita anche da una seduta spiritica) e il falso comunicato del Lago della Duchessa. Un punto di svolta verso l'esito tragico del caso Moro, scrive Edoardo Frittoli il 18 aprile 2018 su "Panorama". La giornata del 18 aprile 1978 è considerata uno spartiacque durante i 55 della prigionia di Aldo Moro per tre fatti accaduti quello stesso giorno: il ritrovamento del falso comunicato n.7 a firma delle Brigate Rosse, della scoperta del covo di via Gradoli, 96 a Roma e per l'intervento delle Forze dell'ordine presso il Lago della Duchessa, dove il falso volantino avrebbe indicato la presenza del cadavere del Presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo precedente in via Fani.
Le Brigate Rosse alzano il tiro. Durante il primo mese di prigionia dello statista barese, era emerso quanto inadeguati fossero stati le indagini e i conseguenti interventi di Polizia e Carabinieri nelle ricerche della prigione di Moro. Le Brigate Rosse avevano fatto ritrovare il 6° comunicato in cui si dichiarava per la prima volta la "condanna a morte" per il prigioniero. Era il 15 aprile 1978. Un colpo di acceleratore dei rapitori a fronte di uno Stato che brancolava nel buio e tra le pesanti polemiche da parte di molti esponenti politici nei confronti della gestione della crisi da parte del Ministro dell'Interno Francesco Cossiga.
Le Brigate Rosse gettano l'amo: il falso comunicato del Lago della Duchessa. Ma il peggio doveva ancora venire: a soli tre giorni dal ritrovamento dell'ultimo comunicato viene trovato in piazza Belli a Roma un altro messaggio a firma BR. Fatto singolare, perché i precedenti messaggi erano stati recapitati a distanza di circa una settimana l'uno dall'altro. Fu dato per autentico dagli esperti, ma in realtà il volantino si presentava ben diverso da tutti i precedenti. Era stato consegnato soltanto a Roma, e non nelle principali città d'Italia tramite le redazioni dei quotidiani; il foglio era fotocopiato (e non ciclostilato come gli altri) di formato inferiore. I caratteri e la sintassi erano totalmente differenti, il testo era breve e scarno: non vi erano proclami ideologici scritti in un italiano più che corretto, bensì poche e macabre parole sul presunto "suicidio" di Moro, il cui cadavere sarebbe stato gettato nel fondale "limaccioso" del Lago della Duchessa, uno specchio d'acqua a oltre 1,800 metri di quota al confine tra Lazio e Abruzzo. Il comunicato scatena il putiferio al Viminale, Cossiga è uno dei più convinti dell'autenticità del messaggio. Parte così la spedizione al lago montano, allora ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio che gli artificieri fanno saltare con il tritolo. Saranno i sommozzatori che, dopo l'immersione nelle acque gelide del laghetto confermeranno la falsità delle dichiarazioni contenute nel comunicato. Nessuna traccia del cadavere di Aldo Moro, soltanto gli effetti di una trappola alla quale le istituzioni avevano abboccato in toto. Invece di aver visto affiorare il corpo di Moro, emerse la cruda verità: a cinque settimane dal rapimento, le indagini erano più o meno al punto di partenza. Nonostante ciò, Cossiga pronunciò solo poche e inconcludenti parole dopo i fatti cruciali di quel giorno. Il secondo colpo di scena di quel martedì 18 aprile 1978 fu la scoperta "casuale" del covo delle Brigate Rosse di via Gradoli, 96 a Roma. Fu un allagamento dovuto al rubinetto di una doccia lasciato aperto ad attirare l'attenzione su un anonimo appartamento della zona Cassia. I Vigili del Fuoco, dopo aver sfondato la porta, trovarono nei locali allagati un arsenale e una quantità notevole di documenti quasi fossero stati appositamente messi in mostra. Nessuno degli occupanti di quell'appartamento era presente e nessuno fu in seguito individuato o arrestato. Lo spiegamento di forze accorse sul posto fu enorme, cosa che con tutta probabilità mise in allarme gli occupanti che non vi fecero più ritorno. La casa, un trilocale di modeste dimensioni in un palazzo piccolo borghese, era stato affittato all'Ingegner Mario Borghi, alias Mario Moretti. Il capo delle Br della colonna romana aveva abitato l'appartamento assieme alla compagna Barbara Balzerani. Entrambi erano stati parte attiva nel sequestro di via Fani. Nessuno di loro sarà rintracciato dopo l'irruzione spettacolare delle Forze dell'Ordine. Fatto ancora più inquietante emerso già due settimane prima del ritrovamento del falso comunicato n.7 e diffusasi come voce di corridoio negli ambienti parlamentari della Dc, fu la notizia della seduta spiritica svoltasi la sera del 3 aprile nella casa di campagna di Zappolino (Bologna) di proprietà di Alberto Clò, allora professore universitario e in seguito ministro dell'Industria nel governo Dini. Con lui anche erano altre due figure di primissimo piano della politica italiana dei decenni successivi: Romano Prodi e Mario Baldassarri. Il gruppo, all'epoca parte del corpo accademico dell'università di Bologna, decise di evocare gli spiriti di due padri della Democrazia Cristiana perché rivelassero la posizione della prigione di Aldo Moro: Giorgio La Pira e Don Luigi Sturzo. Il piattino, girando vorticosamente, compose la parola Gradoli, che fu intesa come nome di un piccolo comune in provincia di Viterbo e non come il toponimo della via di Roma, che neppure fu preso in considerazione. Giunta alle orecchie degli inquirenti, la risposta degli spiriti si tradusse in una retata nel piccolo centro, naturalmente senza esito e con gran pubblicità e dispiegamento di quelle forze di Polizia già messe a dura prova dai giorni di frenesia isterica che seguirono il rapimento del Presidente Dc. Un altro passo falso del Viminale, che fece crescere il sentimento di sfiducia degli Italiani e l'acuirsi della tensione tra le forze politiche. Il nodo del 18 aprile fece sì che la frattura tra i favorevoli alla trattativa e i fautori della linea intransigente divenisse ancora più netta. Ad aggravare il momento contribuì decisamente la sempre più netta sensazione di un prossimo sacrificio di Aldo Moro. A suggellare quel cupo presentimento contribuirà il comunicato n. 7 (quello vero) ritrovato il 20 aprile 1978 in una busta arancione in via dei Maroniti. Allegata, la seconda foto di Moro: quella in cui il prigioniero è fotografato con il numero de La Repubblica del 19 aprile. Per la prima volta i rapitori impongono un ultimatum di 48 ore e lo scambio con i brigasti in carcere per la vita di Moro.
I giorni dell'angoscia: Le Br continuano a colpire. I giorni che seguiranno saranno carichi di angoscia: sulle pagine di periodici e quotidiani si parlò apertamente di un possibile colpo di Stato da parte della destra con lo scopo di "ristabilire l'ordine", sullo stile di quello dei Colonnelli in Grecia. Altre voci paventarono un rafforzamento dei brigatisti dopo i fatti del 18 aprile. Questi ultimi ebbero una conferma il 20 aprile 1978quando a Milano le Brigate Rosse del colonna Walter Alasia colpiscono a morte e in pieno giorno Francesco di Cataldo, Maresciallo Maggiore capo degli Agenti di Custodia del Carcere di San Vittore, rivendicando poco dopo l'omicidio di un "torturatore e assassino dei compagni in carcere". In realtà Di Cataldo si era sempre distinto per la propria umanità, riconosciuta dagli omaggi successivi alla sua morte da parte di molti detenuti di san Vittore. Nonostante le molte minacce di morte ricevute non gli fu mai assegnata una scorta, rendendolo un obiettivo "facile". Proprio come era avvenuto nel caso di Aldo Moro e dei cinque agenti della sua scorta, privi dei mezzi adeguati per proteggersi dai nemici del progresso delle istituzioni democratiche italiane.
Il rapimento e l'uccisione di Moro "Quei 55 giorni che cambiarono la nostra storia". Dal 9 marzo, ogni venerdì su “Repubblica”, Ezio Mauro racconta a quarant’anni dai fatti “Cronache di un sequestro”, con ricostruzioni e interviste, scrive Marco Bracconi il 6 marzo 2018 su "la Repubblica". "E' stato l'11 settembre dell'Italia. L'istante lungo 55 giorni che ha dirottato il cammino verso una democrazia finalmente compiuta. Perché con la morte di Moro, ben prima di Mani Pulite e della caduta del Muro di Berlino, finisce la Prima Repubblica". Dopo la Rivoluzione d'Ottobrela nuova inchiesta multimediale di Ezio Mauro Aldo Moro - Cronache di un sequestro (dieci articoli e due interviste su Repubblica dal 9 marzo al 9 maggio, una webserie in dieci episodi su Repubblica.it e un documentario dal titolo Il condannato in onda su Rai3 il 16 marzo) entra nel vivo di una pagina decisiva della nostra storia, che "a differenza della rivoluzione russa non è ancora storia, anzi pesa sulla carne viva del Paese". Il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, appunto, narrati attraverso la rilettura del corpus di materiali che a quarant'anni da quella tragedia abbiamo a disposizione: le carte processuali, i comunicati dei brigatisti, le lettere inviate dal presidente della Dc dalla cella di un covo che ancora oggi non sappiamo con certezza se sia stato l'unico. Ma anche la mappa dei luoghi di quella Roma plumbea e frenetica, la via Fani del rapimento e della strage, la prigione di via Montalcini, il piazzale davanti alla chiesa di Santa Chiara dove il brigatista Franco Bonisoli vide per la prima volta la scorta dell'uomo politico. "Sono luoghi che sembrano parlare ancora di quanto avvenne. Ogni mattina passo davanti a quella chiesa e mi è impossibile non andare col pensiero alla primavera del 1978 e a quell'Italia sfiancata da un decennio terribile che inizia con la strage di piazza Fontana e finirà con la bomba alla stazione di Bologna. Ecco, esattamente come ho fatto per l'Ottobre, provo a raccontare quei giorni nella loro complessità, con uno sguardo da cronista". Un cronista che si emoziona, quarant'anni dopo, sfiorando con i polpastrelli i fori lasciati dai proiettili sulle automobili dove viaggiavano Moro e gli uomini che lo proteggevano, oppure scorrendo gli originali scritti a mano delle lettere che "il prigioniero" inviava tramite i suoi carcerieri al mondo esterno. La famiglia, il partito, il papa, e una calligrafia "che con il passare del tempo, mentre le possibilità di uscire vivo da quella cella si confermano sempre più esigue, si fa rapida, nervosa". Perché la cronaca del sequestro e dell'assassinio di Aldo Moro, per Ezio Mauro, non è la storia di un "prigioniero" ma quella di un "condannato", perché storia di una macchina implacabile che si mise in moto non con un capo d'accusa ma con un verdetto poi impossibile da disattendere. "Se c'è una chiave di lettura in questo lavoro è appunto nell'idea di una condanna connaturata all'atto stesso del sequestro, che di per sé è già un punto di non ritorno.
Nello schema brigatista la Democrazia Cristiana è uno dei referenti dello Stato Imperialista delle Multinazionali, il famigerato Sim dei comunicati; Moro è il presidente della Dc e l'imputazione, se così possiamo chiamarla, è troppo totalizzante per non contenere in sé anche la sentenza". Quello che accadrà dopo, allora, sarà l'impossibile tentativo dello statista di sfuggire a un destino già deciso, nel contesto lunare di un processo "proletario" dove l'"imputato" e i suoi accusatori parlano un linguaggio reciprocamente incomprensibile: "Le Br chiedevano nomi e cognomi, lui argomentava spiegando processi politici e intanto cercando di scovare i punti deboli dei terroristi". L'anello della rete da smagliare, insomma, il buco dove infilarsi per ritrovare la libertà, la vita, l'amato nipotino accarezzato in una delle sue lettere più commoventi. Sull'altro versante, le parole indirizzate al partito, nelle quali ancora oggi risuona il terribile dilemma che separa la ragione di Stato e la pietas umana. "In quei pochi metri quadrati Moro gioca contemporaneamente due partite. Una con i terroristi e un'altra con la Dc. Era abituato a influenzare i processi politici e ha tentato di farlo, per come poteva. Ma tutto ciò avveniva in un contesto dove gli stessi brigatisti, con un macabro paradosso, si erano "condannati a condannarlo"". Non c'era scampo, dunque. La sola soluzione possibile sarebbe stata - se gli apparati dello Stato fossero stati più efficienti e meno inquinati - trovare il covo e liberarlo. "Resto convinto che la fermezza nel non trattare con i terroristi sia stata la scelta giusta", dice Ezio Mauro, pure se, da tanti punti di vista, suonano come un monito a rischiarare ogni ombra le parole di Giovanni Moro: "Mio padre - dice Giovanni - resta presente sulla scena pubblica come un fantasma, in senso concreto e non metaforico. In fondo i fantasmi cosa sono? Morti che ritornano a ricordare dei doveri nei loro confronti che non sono stati compiuti". Per riannodare tutti i fili Mauro ha così riascoltato le voci degli inquirenti, di chi era personalmente vicino al presidente Dc, dei protagonisti politici che all'epoca svolsero un ruolo. E anche quelle degli uomini e delle donne che si "condannarono a condannare": da Morucci a Bonisoli, dalla Faranda alla Braghetti. Ne esce un quadro che è assieme una ricostruzione dell'Italia di quegli anni di piombo, di quella società civile, politica e sindacale che si dimostrò all'altezza di una sfida mortale, e il ritratto di un uomo e di un uomo di Stato. Il cui destino fu segnato "fin da quella prima foto simbolo, occhi fissi sul proprio carceriere, la stella a cinque punte dietro le spalle leggermente ricurve. Ecco, nella violenza di quella immagine, nel sopruso intrinseco a quello scatto che ritrae un uomo in cattività, è lì che sta racchiusa simbolicamente l'intera tragedia". Che non è stata tragedia definitiva della democrazia, ricorda Mauro, "perché questa storia ci ha detto con chiarezza che la democrazia era più forte". Ma è la stessa storia, conclude, che ci consegna un messaggio senza tempo e che tutti ci riguarda. "Perché la democrazia non è mai scontata. Ha bisogno di buona manutenzione. E ne ha bisogno sempre".
CRONACHE DI UN SEQUESTRO. A quarant’anni dal rapimento e dall’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse ripercorriamo i 55 giorni che sconvolsero il nostro Paese e la democrazia. Una webserie in dieci puntate in cui Ezio Mauro incontra i protagonisti di quella drammatica vicenda e ne analizza tutti gli aspetti e i nodi ancora irrisolti. Tanti extra: interviste, documenti originali, audio, video, foto, mappe. Un viaggio nell’Italia del 1978. Guerre Stellari, Portobello, l’austerity, il terrorismo. L’Italia del caso Moro, scrive "La Repubblica". La sera del 15 marzo Aldo Moro rimane fino alle 22 nel suo ufficio di via Savoia, a Roma. Discute con i suoi collaboratori Nicola Rana e Corrado Guerzoni. Siamo a un passo dal compimento del suo disegno politico: il nuovo governo Andreotti, monocolore Dc, riceverà l’appoggio esterno del Partito comunista. E’ la prima volta dal 1947. Ma non è detto che l’intesa regga, il giorno seguente, alla prova del voto di fiducia in aula. Tutto intorno, il Paese è inquieto. Tante sigle terroristiche, tanti omicidi politici. E l’austerity, l’inflazione (nel ‘78 è al 12,1%), la crisi economica internazionale. Il tasso di disoccupazione è del 6,6% (era del 6,4 nel 1977, sarà del 6,9 nel 1979). Un litro di latte costa quasi 400 lire, il pane 523 lire al Kg, un chilo di pasta 600 lire. Al cinema, dove un biglietto costa tra le 1000 e le 2500 lire, gli italiani vedono fantascienza e film d’autore. E in tv spopolano Raffaella Carrà ed Enzo Tortora.
Cronache Di Un Sequestro. I 55 giorni di Moro. La mattina del 16 marzo 1978 il presidente della Dc esce di casa. Alla Camera sta per giurare il primo governo con l’appoggio del Partito comunista. È il suo capolavoro politico. Quella stessa mattina un commando delle Brigate Rosse lo sta aspettando. Così incominciano i 55 giorni più lunghi della nostra storia, scrive EZIO MAURO l'8 marzo 2018 su "La Repubblica".
Vento freddo di marzo quel giovedì mattina, il 16, cinque minuti prima delle nove, in via del Forte Trionfale a Roma. Sette gradi, umidità 72 per cento. Le due auto erano già in formazione, l'una dietro l'altra coi motori spenti nel piccolo ingresso del numero 79. Oggi il cancello rinchiude la normalità a mattonelle rosse di un condominio borghese, anche se allora - quarant'anni fa - nel cass...
Giovanni Moro: “È mio padre il fantasma di questa Italia senza pace”. "In quei 55 giorni lo Stato decise di non decidere: né trattò con i terroristi né tentò di prenderli. Bisognava seguire una delle due strade" di EZIO MAURO 12 marzo 2018. Giovanni Moro, 59 anni, sociologo. Lei è figlio dello statista sequestrato e ucciso con gli uomini della scorta dalle Brigate Rosse, ma è anche un intellettuale, ha studiato quegli anni su cui ha scritto un libro che ci restituisce il contesto di quell'attacco al cuore dello Stato. Per lei dunque il caso Moro è insieme un dramma privato e una tragedia pubblica.
Adriana Faranda: “L’ultimo giorno di Aldo Moro iniziò la fine di noi brigatisti”. Parla l'ex Br, condannata a trent'anni per il rapimento e l'uccisione dello statista: “Siamo tutti responsabili. Abbiamo accettato l’idea che si potesse uccidere e l’uso politico della violenza” di EZIO MAURO 13 marzo 2018. Adriana Faranda, lei ha 67 anni è entrata nelle Br a 24, è stata condannata a trent'anni per il rapimento Moro e l'uccisione dei cinque uomini della scorta. Quarant'anni dopo che giudizio dà di quei 55 giorni? "Che sono stati una vera e propria tragedia. Noi sequestrando Moro lo abbiamo praticamente condotto in un vicolo che alla fine si è rivelato cieco, in nome della ragion di Stato e di una presunta ragione rivoluzionaria.
“Il Condannato - Cronaca di un sequestro”, il film di Ezio Mauro su una tragedia repubblicana. di FILIPPO CECCARELLI 13 marzo 2018. Rivisti in questo tempo confuso, i colori degli anni '70 sono pesanti, sgranati e paiono addirittura più irreali degli stessi eventi che pure allora certissimamente non solo ebbero luogo, ma condizionarono i successivi quarant'anni. LEGGI I 55 giorni di Moro di Ezio Mauro Il rosso carico del sangue sparso in strada e quello metallico della Renault4 di Moro; il blu quasi azzurro del pennarello usato nelle lettere dal "carcere"; il bianco abbacinante delle grottesche...
Via Fani ore 9.05, tutto è già finito: l’agguato a Moro. È il 16 marzo 1978. I brigatisti si sono svegliati presto, hanno fatto colazione e hanno ripassato il piano. È un'operazione militare "perfetta": il presidente della Dc e la scorta finiscono in trappola. Cadono cinque agenti. Sull'asfalto, 93 bossoli e un paio di baffi finti. In tre minuti l'Italia piomba nell'incubo. E in quarant'anni di misteri di EZIO MAURO 15 marzo 2018. Alle sette del mattino Valerio Morucci e Franco Bonisoli avevano fatto colazione nell'"ufficio", come le Br chiamavano le due stanze e cucina di via Chiabrera, covo dell'ultima notte. Poi avevano indossato le divise azzurre da aviere che Adriana Faranda aveva comperato da quindici giorni per 42 mila lire da Cardia, un negozio specializzato in via Firenze 57. Mentre Raffaele Fiore si calava in testa il berretto blu con la visiera uscendo in maglione e camicia bianca dalla ca...
Queste ore tristissime. Di Moro nessuna traccia. Messaggi delle Brigate Rosse preannunciano l’invio di una foto del rapito. Il governo darà più poteri alla polizia per interrogatori, fermi e perquisizioni di EUGENIO SCALFARI 16 marzo 2018. 18 marzo 1978 Quarantotto angosciose e tristissime ore sono passate dal massacro di Monte Mario e dal rapimento di Aldo Moro, durante le quali l’analisi delle conseguenze politiche di quel fatto ha ceduto il campo all’emozione, agli appelli alla concordia nazionale, alla necessità di una ferma reazione nei confronti degli eversori d’ogni risma, calibro e specie. Ma la politica, dopo un sia pur breve intervallo spunta di nuovo e chiede il suo spazio. E spunta s...
L’Amaca di Michele Serra (17/03/2018). Dalle rievocazioni del caso Moro si esce con la netta sensazione che quei tempi fossero peggiori di questi. Più violenti, e si sapeva; ma soprattutto più tenebrosi, con una democrazia più fragile, e poteri maligni che la torcevano ai loro scopi. Dell’orrenda P2, consorteria di nuovi mestatori e di vecchi fascisti, ci si è dimenticati troppo in fretta. Si stava peggio quando si stava peggio. Alla luce di quelle stragi nere favorite da traditori stipendiati d...
Stato, parenti e povera gente intorno alle vittime delle Br di GIAMPAOLO PANSA 17 marzo 2018. 19 Marzo 1978 ROMA - Ed eccoci all'ultima scena della strage di via Fani. Dinanzi all'altare nella basilica patriarcale di San Lorenzo al Verano, lo schieramento è il seguente. A destra la bara del capo-scorta di Moro, il maresciallo Leonardi (sette pallottole). Poi il vice-brigadiere Zizzi (tre pallottole). L'appuntato Ricci (sette pallottole). La guardia Rivera (almeno sette pallottole). Infine la guardia Jozzino (cinque pallottole). Raffaele Jozzino era il…
Controlli casa per casa, identificato il negozio che ha venduto le divise ai terroristi. Setacciato il quartiere della strage. Ritrovata un'altra auto adoperata dal commando. L'utile collaborazione dei testimoni ha consentito di tracciare gli identi-kit di due terroristi. Oggi i funerali delle cinque vittime di GIORGIO BATTISTINI 18 marzo 2018. 18 marzo 1978 ROMA - Sul rapimento Moro e sulla strage dei cinque agenti di scorta, la notizia del giorno è che mancano notizie ufficiali. La questura tace e rinvia al Viminale, il Ministero degli Interni tace e rinvia ogni notizia alla questura. Dunque i casi sono due: o gli inquirenti pe rora brancolano nel buio, affidandosi alla massa di segnalazioni che il comprensibile clima di "caccia al terrorista" ha favorito, oppure sanno già molto ma preferiscono far...
Moro è vivo, ecco la foto. Le Brigate Rosse lo vogliono processare. Il documento fotografico e il proclama trovati da un redattore del "Messaggero". Non si chiede la liberazione dei brigatisti di Torino. Imponenti funerali ai cinque agenti assassinati dal commando delle Br. A Torino, dove domani riprende il processo a Curcio, ordine di cattura contro una giovane accusata dell'omicidio del maresciallo Berardi di GIORGIO BATTISTINI 19 marzo 2018. 19 marzo 1978 ROMA. E' vivo. I terroristi hanno rotto l'angoscia del silenzio, hanno inviato una foto di Aldo Moro a un giornale romano, "il Messaggero". Per la prima volta, ufficialmente, le Brigate Rosse hanno rivendicato l'agguato, il massacro, il rapimento del leader democristiano. Nessuna richiesta, per ora, nessuna contropartita. I terroristi si sono serviti dell'ostaggio e del clima di tensione nel Paese per dare la massima diffusione a un ennesimo proclama....
Rapimento Moro: “È nelle nostre mani” urla Curcio dietro le sbarre. Al processo di Torino contro le Br, accanito scontro verbale tra il pubblico ministero e i brigatisti che volevano leggere un comunicato. Gli imputati ripetono le loro minacce: "Il processo si farà a tutto lo Stato e sarà molto serio". Un incidente procedurale per il divieto d'ingresso ai foto-operatori, poi revocato. Oggi lo scoglio dell'autodifesa di GUIDO PASSALACQUA 21 marzo 2018. 21 marzo 1978 TORINO. Il processo alle Br si muove faticosamente attraverso formalità procedurali, interferenze del potere esecutivo nei confronti di quello giudiziario, scatti di nervi del pubblico ministero e blandizie diplomatiche del presidente della Corte Giudo Barbato. Oggi, quinta udienza di questa terza tornata, tutti si aspettavano di sentire la rivendicazione del rapimento Moro, chissà, forse una proposta di scambio. Sulla Olivetti portatile di Curcio i brigatisti h...
Silenzio stampa sul “processo” a Moro? La Dc chiede cautela a giornali e Rai. Un problema scottante che il vertice democristiano sta ora discutendo di GIAMPAOLO PANSA 21 marzo 2018. 21 marzo 1978 Roma - Le due del pomeriggio sono suonate da un pezzo e alla fine, dopo tanto aspettare, ecco Zaccagnini che esce dal suo ufficio, al secondo piano di piazza del Gesù. Lo precede la moglie, silenziosa. Anche lui tace e si avvia rapido all'ascensore. Gli chiedo: ci sono novità? Zac non risponde, preme il pulsante e rimane lì in attesa, con la faccia quasi schiacciata contro il muro. Ripeto la domanda e Zac seguita a tacere, il volto sempre più vi...
Sequestro Moro, Torino è una città divisa tra paura e reazione. Chi sono i cittadini protagonisti della mobilitazione contro il terrorismo. Il racconto di Giorgio Bocca dalle cronache di Repubblica del '78 nei tragici giorni del rapimento e del processo alle Brigate Rosse in città di GIORGIO BOCCA 22 marzo 2018. 22 Marzo 1978 TORINO - La paura si dice è una consigliera e la paura a Torino c'è: paura del terrorismo, ma anche di tutto ciò che al terrorismo può appendersi. La sera del rapimento di Moro, quartieri "fuorilegge" come la Falchera e le Vallette, si sono messi da soli in stato di assedio, di coprifuoco, porte e persiane chiuse, per paura di tutto e di tutti, di quelli che rubano e di quelli che scappano, paura di un prossimo infido e vi...
Il “prigioniero” Moro forse è già lontano da Roma. Le ricerche si spostano sul litorale laziale e nell'Italia centrale di GIORGIO BATTISTINI 22 marzo 2018. 22 marzo 1978 Roma - "Non abbiamo quasi niente in mano. Molte notizie io stesso le apprendo dalla stampa, non solo dai rapporti di polizia". Sono parole di Giovanni De Matteso, procuratore capo della Repubblica a Roma, il massimo magistrato che conduce le indagini sull'affare-Moro. Del rapimento al sesto giorno dall'agguato di vita Fani ancora non si sa. Dal giorno del sequestro le uniche notizie "ufficiali" sono state il volantino delle Br, l'annuncio...
Sequestro Moro: l'attacco al cuore dello Stato. "Ho capito chi siete", dice il presidente della Dc alle Brigate Rosse. Si trova ormai in via Montalcini, al buio, nel covo mascherato da appartamento borghese dei suoi rapitori, che lo fotografano vestito da prigioniero. Anche il Paese inizia a capire. A Montecitorio, si decide di accelerare il voto di fiducia al nuovo governo Andreotti di EZIO MAURO 22 marzo 2018. "Presidente, ha capito chi siamo"? Aldo Moro è in piedi, bendato, nello studio del "covo" di via Montalcini, mascherato da appartamento borghese di una giovane coppia senza figli. Anna Laura Braghetti, la padrona di casa, dopo aver visto in televisione la scena insanguinata di via Fani era scesa in strada quando vide arrivare la sua automobile - una "Citroen Ami" familiare - guidata da Mario Moretti e le aprì la porta del garage. Poi salì di...
Il caso di coscienza che turba i giornalisti italiani di EUGENIO SCALFARI 22 marzo 2018. 22 marzo 1978 I guasti morali e politici che il terrorismo e la violenza armata possono produrre vanno molto al di là dei fatti specifici e a mano a mano che passano le ore ciascuno li va misurando sulla propria esperienza quotidiana. Nascono irrefrenabili fenomeni imitativi: in una società di massa, nella quale operano mezzi di comunicazione di massa, questo pericolo è sempre latente. Purtroppo esso non si scongiura sognando un'impossibile regressione verso...
Sciascia: “Quella tragica foto di Moro...” di ALBERTO STABILE 23 marzo 2018. 23 marzo 1978 Palermo - Del suo silenzio dopo il rapimento di Aldo Moro s'è detto che "fa rumore" e ne è nata una polemica. Chiediamo a Leonardo Sciascia di darcene l'interpretazione autentica. "Innanzitutto, questo mio silenzio durava da un po'. Io ho scritto il contesto e ho scritto Todo Modo. Quando mi sono presentato candidato al consiglio comunale nella lista del partito comunista ho detto che non mi sarei rimangiato una virgola del...
Moro nelle mani delle Br, le misure eccezionali. Da oggi in poi la polizia può fermare qualsiasi cittadino e trattenendo per 24 ore, interrogare i fermati senza la presenza di magistrati o avvocati, effettuare intercettazioni telefoniche praticamente fuori dal controllo dei magistrati e senza limiti di tempo. Che si può volere di più? Di STEFANO RODOTÀ 23 marzo 2018. 23 marzo 1978 Credo che sia utile dire, subito e con chiarezza, che le misure legislative sull’ordine pubblico approvate dal Consiglio dei ministri hanno certamente carattere eccezionale, per il loro contenuto e per il modo in cui sono state prese. Bisogna dirlo per diversi motivi. Primo: proprio nelle situazioni di emergenza è indispensabile ritrovare l’onestà di chiamare le cose con il loro nome, senza velare la realtà dietro giri di frase. S...
Quando Moro tornerà. Granelli parla dello stato del partito. Prima intervista a un leader Dc sette giorni dopo il rapimento di FAUSTO DE LUCA 24 marzo 2018. 24 marzo 1978 ROMA - La Dc in attesa di Moro, la Dc che può anche perdere tragicamente il suo leader, il problema eventuale di una successione personale e politica: temi difficili, angosciosi, ma che pur bisogna affrontare. Ne parliamo con Luigi Granelli, membro della direzione dc, personalità assai vicina a Moro da diversi anni, intelligenza per molti versi congeniale a quella del "prigioniero" delle Brigate rosse. E' la prima intervista di un dirige...
I giorni del sequestro Moro: bandiere rosse, bandiere bianche di ENZO FORCELLA 24 marzo 2018. 24 MARZO 1978 Uno Stato moderno, è risaputo, non si può più reggere sulla sola forza bruta. E in uno Stato democratico, che fonda la sua legittimazione sul suffragio universale, il consenso è molto più importante della forza, è il pilastro essenziale. Il consenso, a sua volta, comporta che sia organizzato. È ingenuo sperare, come ritengono alcuni giovani teorici della nuova sinistra, che nel futuro, quando lo Stato socialista si…
Sequestro Moro: un nappista ha parlato, adesso si cercano i covi di GIORGIO BATTISTINI 25 marzo 2018. 25 Marzo 1978 Il "giallo" politico del rapimento di Aldo Moro riserva le prime notizie sicure. E' accertato: due brigatisti sono rimasti feriti nel corso della sparatoria che ha fulminato i cinque uomini della scorta del presidente dc. L'ha chiarito la perizia ematologica, consegnata ieri dagli esperti che ha stabilito l'appartenenza, a persone diverse delle macchie di sangue trovate sulle auto abbandonate. Non è possibile stabilire se le ferite sono prod...
Nuovo agguato Br a Torino. Ferito a rivoltellate in pieno centro l'ex sindaco democristiano. Giovanni Picco affrontato da due killer mentre rincasa alle 13.05: gli sparano 13 colpi di pistola e lo feriscono alle gambe e a una spalla - l'attentato rivendicato con la consueta telefonata all'Ansa - il racconto del ferito di SALVATORE TROPEA 25 marzo 2018. 25 marzo 1978 Il terrorismo ha rivolto nuovamente le sue armi contro Torino. A quindici giorni dall'assassinio del maresciallo Rosario Berardi e a nove dei tragici fatti di Roma, le Brigate Rosse hanno preso di mira Giovanni Pico, ex sindaco democristiano, e oggi consigliere regionale. Un commando gli ha teso un agguato sotto casa, ferendolo in più parti del corpo. Subito dopo, con una telefonata all'Ansa, le Br hanno rivendicato la paternità dell'attentato....
Radiografia politica del documento di SANDRO VIOLA 26 marzo 2018. 26 MARZO 1978 L'elenco dei capi d'accusa di cui Aldo Moro "dovrà rendere conto al Tribunale del popolo", è completo. Esso può essere riassunto in questa frase del comunicato delle Br: "La sua presenza (di Moro), a volte palese, a volte strisciante, negli organi di direzione del regime". Segue il dettaglio, la lista degli incarichi di governo e di partito che l'"imputato" ha ricoperto dal '55 ad oggi. Il processo…
Le Br hanno cominciato il “processo” contro Moro di Ezio Mauro 26 marzo 2018. 26-27 marzo 1978 Dopo sei giorni di silenzio, le Brigate rosse si sono rifatte vive infestando l'Italia di copie dello stesso "comunicato numero 2". La prima è stata trovata in una cabina di Torino. La segnalazione telefonica è giunta alla "Gazzetta del popolo" poco dopo le 16. Un altro volantino è stato fatto pervenire, quasi contemporaneamente, all'Ansa. Poi, con la scadenza fissa di mezz'ora, è stata la volta di Ro...
Sequestro Moro, non era questo il processo voluto da Pasolini di GIORGIO GALLI 28 marzo 2018. 28 Marzo 1978 E' già stato rilevato che il secondo messaggio delle Brigate Rosse, riecheggia alcuni temi che sono stati propri dell'estrema sinistra italiana, dallo stalinismo degli anni '50 alle formulazioni del '68. Si può aggiungere che l'iniziativa specifica del cosiddetto "processo" al massimo leader della Dc riprenda un argomento che era stato dell'ultimo Pasolini. Questi non era congeniale al Pci stalinista (che lo aveva espulso) e ave...
Come risponde il Pci al comunicato delle Br, intervista con Emanuele Macaluso di Ezio Mauro 28 marzo 2018. "Solo gli avventurieri o degli sprovveduti possono pensare che sia possibile in Italia la via della rivoluzione attraverso il terrorismo". "Anche negli stessi gruppi di giovani che dissentono dal Pci c'è stato un netto rifiuto della violenza". "Banco di prova della nuova maggioranza sarà pure la risposta ai problemi del paese". 28 Marzo 1978 Di Giorgio Rossi ROMA - Senatore Macaluso, lei fa parte della direzione del Pci. E' d'accordo con la definizione che da molti è stata data del messaggio numero due dei brigatisti e cioè che si tratta di un'accozzaglia di argomenti più o meno deliranti? "Non c'è dubbio che questo documento, a parte il delirio, in effetti usi argomenti fra i più contraddittori. Da un canto esalta il terrorismo e la violenza…
La sanguinosa scalata a un paradiso disabitato di UMBERTO ECO 29 marzo 2018. 29 marzo 1978 L'attesa spasmodica di un nuovo comunicato delle Br e le concitate discussioni su come ci si sarebbe comportati in quel caso hanno portato la stampa a reagire in modo contraddittorio. C'è stato chi non ha riportato il comunicato, ma non ha potuto evitare di pubblicizzarlo con titoli a piena pagina; chi l'ha riportato, ma in caratteri così piccoli da privilegiare solo i lettori con dieci decimi di vista (discriminazione accettabile). Quanto al contenu...
Nelle Br la preoccupazione di rompere l’isolamento di Ezio Mauro 29 marzo 2018. 29 Marzo 1978 ROMA - Le indagini sul rapimento Moro sono praticamente ferme al punto in cui erano la sera successiva al sequestro, tredici giorni fa. Tracce della "colonna" delle Br che agì in via Mario Fani (alcuni elementi della quale terrebbero ora in detenzione il presidente della Dc) non ce ne sono. Sul piano strettamente operativo, quindi, bisogna ammettere che in questa prima, lunga fase le Br sono riuscite a contenere la pressione delle forze di polizia, e a sventar...
“Moro nel carcere del popolo” di Ezio Mauro 29 marzo 2018. Il presidente della Democrazia cristiana passa la prima notte in cella. I brigatisti, reduci dalla strage di Via Fani siedono in cucina. Uno di loro batte a macchina parole come "gerarca", "imperialista", "processo". È il comunicato numero uno. Che si abbatte su un Paese in cui qualcuno incomincia a dire "né con lo Stato né con le Br". "E' stato un macello. Noi stiamo tutti bene, ma è stato un macello". Valerio Morucci è appena rientrato nell'"ufficio" di via Chiabrera, dall'agguato di via Fani, dopo aver lasciato l'ostaggio sull'auto guidata da Moretti verso la "base", perché nessun brigatista oltre ai quattro carcerieri deve conoscere il luogo della prigione. La televisione mostra la scena fissa del massacro, l'"Alfetta" dell...
Sequestro Moro, quelle parole non sono le sue, di Ezio Mauro 30 marzo 2018. 30 Marzo 1978 Se la lettera a Cossiga, diffusa dai brigatisti, è stata veramente scritta da Aldo Moro, come ritengono gli inquirenti, essa acuisce ancora i sentimenti di angoscia e preoccupazione sulla sorte del presidente della Dc. Se il fatto di aver scritto la lettera testimonia che Moro è vivo, lo stile e il contenuto del messaggio fanno ritenere che Aldo Moro sia soggetto a pressioni di natura tale che la parola tortura, sia pure intesa come condizionamento psicologico o...
La grafia di Moro durante il sequestro, scrive Evi Crotti, Sabato 05/05/2018, su "Il Giornale". Fui incaricata dall’allora ministro degli interni Cossiga di analizzare gli scritti pervenuti dopo il sequestro di Aldo Moro e di confrontarli con quelli precedenti il rapimento.
PRIMA DEL SEQUESTRO. Dall’analisi della grafia dell’onorevole Aldo Moro prima del sequestro emerge un gesto veloce, con degli stiracchiamenti nelle lettere che indicano impazienza e sveltezza di mente e d’azione. Il pensiero era profondo ma vissuto più interiormente che non espresso all’esterno. La firma, con le iniziali molto grandi, mette in risalto quanto per Moro fosse importante la scalata sociale, mantenendo sempre un’eleganza composta che si rifletteva in un comportamento controllato e raffinato.
DURANTE I 55 GIORNI DI PRIGIONIA. Innanzi tutto, occorre dire ai tempi del sequestro ho eseguito una perizia grafotecnica per dimostrare che, nonostante le differenze apparenti tra le due scritture, si trattava della stessa persona: identici alcuni gesti fuggitivi (vedi forma delle “g”), uguale il legamento dinamico tra alcune lettere (vedi legamenti con gesto orario) e sovrapponibili alcune parole (vedi “del”). Aldo Moro aveva corretto il suo modo di scrivere per rendesi leggibile a tutti, cosa che prima non gli interessava. Nelle lettere che Aldo Moro scrive dalla prigionia emerge una maggiore chiarezza e una lentezza che non faceva parte del suo patrimonio grafico, espressione della necessità di poter comunicare in modo comprensibile col mondo esterno. Anche la firma, più contenuta, conferma la sensazione di costrizione che lo statista stava vivendo.
ULTIMO SCRITTO PRIMA DI ESSERE UCCISO. Si nota immediatamente come la grafia torna ad essere quella precedente il sequestro, anche se si rileva un gesto meno tonico, uno spazio sul foglio mal occupato e la comparsa di un “riccio” prolungato orizzontalmente a fine parola (vedi “abbraccio” e “grazie”) quasi cercasse di dire al mondo: “Tutto è compiuto, non c’è più nulla da fare”. Non a caso conclude il suo messaggio con la frase: “Vedi che non si può fare previsioni?”
Moro scrive a Cossiga di Ezio Mauro 30 marzo 2018. In un messaggio chiaramente estorto il leader dc chiede al governo di trattare con le Brigate rosse. ROMA - Le Brigate rosse hanno recapitato il Comunicato n. 3. È un volantino di due cartelle, accompagnato da una lettera manoscritta di Aldo Moro, indirizzata al ministro degli Interni, Francesco Cossiga. Erano le 21 e 10: quando sono squillati contemporaneamente i telefoni dell'Ansa e della Gazzetta del Popolo a Torino, del Secolo XIX e del Corriere della Sera a Milano. I brigatisti hanno comunicato i luoghi in cui si trovavano i messaggi. A Roma, il comunicato delle Br è ...
Sequestro Moro: senza pietà e senza giustizia di Ezio Mauro 31 marzo 2018. 31 marzo 1978 La fantasia degli italiani si sta esercitando in queste ore su un dilemma: Moro ha scritto la lettera a Cossiga in "piena coscienza" o costretto? In questa seconda ipotesi quali sono i mezzi di coercizione usati dai suoi carcerieri? Le tesi sono molteplici. Nel nostro numero di ieri abbiamo messo in rilievo alcune frasi della lettera che sembrano non appartenere al linguaggio del leader democristiano: oggi diamo conto di altre autorevoli interpretazioni, propense in...
Sequestro Moro, la lettera doveva restare segreta di SANDRO VIOLA 31 marzo 2018. 31 marzo 1978 Quando i familiari di Aldo Moro hanno avuto tra le mani, mercoledì sera, la lettera scritta dal loro congiunto a Francesco Cossiga, per prima cosa hanno tirato un respiro di sollievo. Guardavano e riguardavano la calligrafia, si soffermavano sulla forma di certe lettere, studiavano la lunghezza e l'inclinazione delle righe. E a poco a poco l'ansia con cui si erano gettati sulla lettera si stemperava, e al suo posto emergeva, come s'è detto, un senso d...
Caso Moro, che cosa possono chiedere i terroristi di SANDRO VIOLA 1 aprile 2018. 1 aprile 1978 ROMA – Dopo l’arrivo delle due lettere di Moro (una alla famiglia – questa è l’ultima notizia -, l’altra a Cossiga), il quadro va perdendo una parte delle ombre che lo velavano. E ora è più leggibile, nel senso che durante le ultime quarantott’ore si è delineato un traliccio di posizioni e di «intenzioni»: le posizioni e le «intenzioni» delle Brigate rosse da un alto, quelle del governo e d...
Sequestro Moro, ventiquattr’ore terribili e alla fine i capi Dc hanno scelto la fermezza di GIAMPAOLO PANSA 1 aprile 2018. 1 aprile 1978 ROMA - Le venticinque righe senza titolo e senza firma pubblicate dal Popolo per rendere esplicito il rifiuto della Dc a trattare con i terroristi, sono il documento più drammatico fra i tanti prodotti dal partito di maggioranza in questi ultimi trent'anni. Fra quali tormenti è nato? E per quali ragioni la Dc, pur sapendo in gioco la vita di Moro, ha deciso di «ribadire con meditata convinzione che non è possibile accettare il ricatto posto in e...
Sequestro Moro, l’Europa guarda senza capire di BERNARDO VALLI 2 aprile 2018. 2 aprile 1978 PARIGI- L’anno scorso il sequestro del tedesco Schleyer, poi assassinato dalla «Rote Armee Fraktion» accese molto più passioni e polemiche nell’Europa occidentale. Nel dramma germanico alcuni intravidero «l’ombra di Weimar», la possibilità di una reazione autoritaria alla psicosi del disordine provocata dai terroristi. I fantasmi della storia riaffiorano nelle redazioni dei giornali e negli studi degli intellettuali. Uno ...
Sequestro Moro, ora si aspetta la nuova mossa di GIAMPAOLO PANSA 2 aprile 2018. 2 aprile 1978 ROMA – Che cosa raccontare sul «caso Moro» dopo diciassette giorni di buio? Talvolta il nostro mestiere ci obbliga a semplificazioni crudeli e impone di spogliare un dramma come questo di tutto il suo carico di sofferenze per tentar di capire a quale punto siamo. E allora immaginiamo una scacchiera. Su di un lato c’è il prigioniero con la banda terroristica che lo ha rapito, che lo nasconde, che lo distrugge con lentezza feroce. Sull’altro,...
Andreotti risponde in Parlamento sul caso Moro di GIORGIO ROSSI 4 aprile 2018. 4 aprile 1978 ROMA - Oggi a Montecitorio si svolge la discussione sulla strage di via Fani e il rapimento Moro. Sarà Andreotti a rispondere alle 25 interrogazioni che sono state rivolte da diverse parti politiche a lui stesso, al ministro Cossiga e ad altri membri del governo. Le interrogazioni riguardano un po' tutti gli elementi della drammatica vicenda: dalla ricostruzione ufficiale del sanguinoso agguato alle deficienze delle misure protettive, dalle lacune delle indagini ai...
Strategia del silenzio in Vaticano ma confermato l'impegno a trattare di LUIGI ACCATTOLI 4 aprile 2018. 4 aprile 1978 CITTÀ DEL VATICANO – Le fonti vaticane non aggiungo nulla all’appello lanciato domenica da Paolo VI agli «ignoti autori del terrificante disegno», perché diano «libertà al prigioniero». L’«Osservatore Romano» di ieri riporta con grande evidenza l’appello del Papa, ma non aggiunge alcun commento. Del resto le parole che Paolo VI ha pronunciato dalla finestra del suo studio, rivolto alla consueta ...
Sequestro Moro, il Parlamento risponde no al nuovo ricatto contro lo Stato di FAUSTO DE LUCA 5 aprile 2018. 5 aprile 1978 ROMA - Avevo in tasca la lettera dei brigatisti, a Montecitorio, qualche minuto prima di Cossiga. Il Transatlantico era deserto, tutti i deputati in aula ad ascoltare il dibattito sulle dichiarazioni di Andreotti. L'intesa con il direttore era precisa: aspettare il via di Cossiga per diffondere il testo. Ho pregato un commesso della Camera di avvertire Zaccagnini e Piccoli che era arrivato un importante messaggio di Moro. Passa il comunista Lucio Libertini, gli chied...
Moro chiede aiuto di Ezio Mauro 5 aprile 2018. Le Br costringono il leader dc a proporre uno scambio con i terroristi in carcere. 5 aprile 1978 Mentre Giulio Andreotti parlava alla Camera sulla vicenda di Aldo Moro, alle 17.30 è arrivato alla redazione milanese de "La Repubblica" un nuovo messaggio delle Brigate rosse, comprendente, come quelli precedentemente inviati, una premessa dell'organizzazione terroristica, una lettera del leader democristiano e un commento dei brigatisti. La Malfa porta in aula la drammatica lettera. Il Parlamento non modifica la sua linea: no al ricatto delle Brig...
Processo al prigioniero Aldo Moro di Ezio Mauro 5 aprile 2018. Nella cella dove la luce non si spegne mai, il leader della Dc diventa un imputato senza difesa. Le Br lo interrogano perché sveli i segreti italiani e dell’“imperialismo internazionale”. È questo, nella mente dei terroristi, il vero nucleo dell’operazione. Ma alle loro domande ideologiche ricevono risposte politiche che non sono in grado di comprendere. Gli hanno tolto la benda, ma è ancora come se fosse al buio. Nella cella la luce non si spegne mai, giorno e notte, e da stasera i carcerieri lasciano socchiusa anche la porta, quando la casa dorme. Si sono accorti che non possono tenere l'impianto di aerazione acceso la notte, fa troppo rumore, ma senza l'aria che arriva dal tubo la prigione non può restare chiusa. Gallinari è il responsabile della "base", tocca a lui risolvere il problema. Si infila i...
Sequestro Moro, il giorno più lungo a piazza del Gesù di LUCIO CARACCIOLO 6 aprile 2018. 6 aprile 1978 ROMA - E' stato un misterioso personaggio, giunto a Piazza del Gesù pochi minuti dopo mezzogiorno, a consegnare nelle mani di Zaccagnini il testo originale della drammatica lettera di Moro. Accanto al segretario sedevano in quel momento i sette leaders democristiani chiamati personalmente in causa da Moro nel suo ultimo messaggio: Andreotti, Cossiga, Fanfani, i vicesegretari Galloni e Gaspari, i capi-gruppo al Parlamento Piccoli e Bartolomei. Fra i destinatar...
Per salvare Moro la famiglia cerca un contatto con le Br di Ezio Mauro 6 aprile 2018. Ipotesi di una trattativa in Svizzera. Il Vaticano avrebbe scelto il territorio elvetico come la sede più adatta per avviare il negoziato. Governo e Dc smentiscono tuttavia ogni volontà di trattare con le Br. 6 Aprile 1978 ROMA - Il Viminale, e se non il Viminale una parte della Dc, gli amici di Moro, la famiglia hanno stabilito un contatto con le Br? La risposta è, almeno per il momento, no. Allo stato delle cose non è neppure certo che Moro sia vivo, né quando - esattamente quale giorno - abbia scritto la lettera a Zaccagnini recapitata dalle Br martedì sera. Ma questo buio impenetrabile, quest'incertezza non tolgono che sul versante governo Dc-famig...
"Crediamo sia ancora possibile riabbracciarlo" di Ezio Mauro 7 aprile 2018. 7 aprile 1978 MILANO - Eleonora Moro ha inviato una lettera al direttore del " Il Giorno": "Roma 6 aprile. Gentile Direttore, in questa situazione che non ci consente alcun contatto, mi avvalgo della cortesia del suo giornale, sul quale mio marito ha tante volte scritto, per rivolgermi a lui, se mia sarà possibile che egli ne sia informato, e rassicurarlo che tutti i componenti della famiglia sono uniti e in salute. Noi, purtroppo, non abbiamo alcun segno che conforti ...
Contrasto tra la Dc e la famiglia Moro di SANDRO VIOLA 7 aprile 2018. 7 aprile 1978 ROMA - Un colloquio dai toni tesi e commossi, poi duri, infine drammatici. È questo che è venuto fuori mercoledì (attorno alle tredici e trenta) dall’incontro tra Benigno Zaccagnini e la famiglia di Aldo Moro, quando il segretario della Dc – finito il vertice dei capi del partito a piazza del Gesù – è andato da Eleonora Moro e dai suoi figli a riferire che la Democrazia cristiana è ferma nel rifiuto di ogni trattativa...
La moglie di Moro aspetta la risposta dei brigatisti di SANDRO VIOLA 8 aprile 2018. 8 aprile 1978 ROMA – Era parso, sulle prime, uno dei tanti elementi della straordinaria vicenda che il paese vive da tre settimane: ma poi il dissidio tra la famiglia di Aldo Moro e la Dc è andato man mano crescendo, quindi si è drammatizzato, ed ora è una sorta di romanzo nel romanzo. Il primo scontro di una delle «grandi famiglie» democristiane con il partito, una discussione acre e violenta che a tratti, in questi ultimi due giorni, ha avuto le form...
Il caso Italia al vertice europeo di BARBARA SPINELLI 8 aprile 2018. 8 aprile 1978 COPENAGHEN – E’ un singolare vertice europeo, quello che si è aperto oggi pomeriggio al palazzo Christiansborg di Copenaghen: c’è un po’ meno pessimismo che in altre occasioni analoghe; tutti i campi di stato e di governo convocati per il summit appaiono in qualche modo consapevoli che l’ora delle decisioni è arrivata e che i classici rinvii non sarebbero più giustificabili di fronte a un’opinione pubblica europea...
La voce di Moro detta l’ultimatum delle Br di GIORGIO BATTISTINI 9 aprile 2018. 9 aprile 1978 ROMA – Nuovo messaggio di Aldo Moro. È contenuto in un nastro registrato, con la sua voce. Il tono è drammatico, ultimativo; quasi l’appello disperato di chi sa di avere i giorni contati. L’ha annunciato una telefonata, l’ennesima segnalazione beffarda d’un terrorista, verso le 18, al centralino della questura di Roma. «C’è un messaggio di Moro, l’ultimo», ha detto la voce prima di indicare il luogo. No...
Nel bunker della Dc si decide sul futuro del partito di EUGENIO SCALFARI 9 aprile 2018. 9 aprile 1978 ROMA - Lo stato maggiore di piazza del Gesù è compatto attorno al suo segretario, Benigno Zaccagnini. Nel "bunker" del secondo piano del vecchio palazzo Bolognetti, dove fino al 16 marzo batteva il cuore del potere democristiano, siedono praticamente in permanenza i capi del partito per fronteggiare le crescenti onde della crisi provocata dal rapimento di Moro: insieme a Zac, sempre più scavato nel volto, e sofferente nell'animo, Galloni, Pic...
Che cosa ha scritto Moro di MAURO BENE 10 aprile 2018. 10 aprile 1978 Una lettera di tre cartelle manoscritte, un atto d’accusa contro il partito che l’ha abbandonato, che rifiuta qualsiasi trattativa con i brigatisti: è l’ultimo messaggio di Moro. Queste le anticipazioni giunte ieri notte. Una notte drammatica, costellata di silenzi angosciosi, di caute ammissioni, di riunioni d’emergenza. È diffusa la sensazione, anzi la quasi certezza, che si stanno vivendo le ore decisive della tragedia-Moro. A sera si ...
Le 24 ore più difficili dal giorno del rapimento di Ezio Mauro 10 aprile 2018. 10 aprile 1978 Le ultime ventiquattr’ore sono state le più convulse del caso Moro, dopo l’eccidio e il rapimento del 16 marzo. Anche se il testo dell’ultima lettera inviata dal leader dc alla famiglia e intercettata dalla polizia il pomeriggio di sabato continua a restare rigorosamente segreto, c’è in tutti la sensazione che una svolta decisiva sia ormai prossima. Non si spiegherebbe altrimenti l’intrecciarsi d’una serie di fatti e di compor...
Sequestro Moro, una voce stravolta dal “carcere del popolo” di SANDRO VIOLA 11 aprile 2018. 11 aprile 1978 ROMA - Quel che il mondo democristiano aveva più temuto in queste pesanti settimane, si è ormai verificato. Dal chiuso del "carcere del popolo" con parole insieme vaghe e lucide, con una curiosa petulanza, Aldo Moro (o più esattamente lo Aldo Moro prigioniero, da venticinque giorni, delle Br) ha cominciato a attaccare uomini, correnti, fasi politiche della Dc. Il "processo" annunciato dalle Brigate Rosse va dunque avanti, e ieri sera...
L’interrogatorio di Moro di Ezio Mauro 11 aprile 2018. 11 aprile 1978 MILANO - La telefonata che preannunciava il quinto comunicato delle Brigate rosse dopo il rapimento dell'onorevole Moro è arrivata al centralino della nostra redazione milanese poco dopo le 17.30.Ilvolantino era nascosto in una busta delle nettezza urbana c'era una busta arancione con dieci fogli: otto di fotocopia del testo scritto a mano da Aldo Moro, e due di dattiloscritti con la stella a cinque punte. Altri comunicati sono arrivati a poca distanza di tempo...
Tre i messaggi segreti inviati da Moro alla famiglia di FRANCO COPPOLA 12 aprile 2018. 12 aprile 1978 ROMA - Le lettere segrete scritte da Moro alla famiglia sarebbero tre. La prima, scritta per rassicurare i congiunti delle sue condizioni di salute, venne recapitata mercoledì 29 marzo, contemporaneamente ai messaggi a Cossiga e al segretario particolare Nicola Rana. La seconda, quella della cui esistenza si è saputo solo ieri, sarebbe stata fatta arrivare in via del Forte Trionfale prima che la moglie di Moro, venerdì mattina, facesse pubbli...
Catturato un brigatista a Torino. Un agente lo ha ferito prima di cadere assassinato di GUIDO PASSALACQUA 12 aprile 2018. 12 aprile 1978 TORINO - L'uomo è disteso sul marciapiede del Lungodora Napoli. La faccia larga, da meridionale, è terrea. Il vestito grigio, fatto in serie, è inzuppato di sangue. Sotto la giacca sbottonata, la camicia azzurra di popeline, è bucata dai colpi di pistola. Sono le nove di mattina, è lì da un'ora e mezza. Vicino alla mano destra, rigata di sangue, c'è una 7,65 d'ordinanza con il caricatore vuoto. Sulla sini...
Le lettere di Aldo Moro di Ezio Mauro 12 aprile 2018. Dalla sua cella dove non può né camminare né vedere il sole il presidente della Dc capisce che ha un solo modo per salvarsi: usare la sua mente politica per una trattativa verso il mondo esterno. E per farlo ha un unico strumento: la scrittura. Così, dopo aver rassicurato la “mia carissima Noretta”, invia messaggi ai politici, agli amici, al partito perché “Iddio vi illumini”. Ma quelle che dovevano restare missive segrete vengono usate dalle Br per “smascherare la mafia democristiana”. E un dubbio si insinua nel Paese: può un uomo prigioniero che lotta per la vita non perdere la lucidità? Non aveva mai fatto ginnastica, solo qualche passeggiata mattutina con il maresciallo Leonardi al fianco, davanti allo Stadio dei Marmi al Foro Italico, quando aveva tempo tra la messa e il partito. O la domenica sul lungomare al sole, se andava a Terracina nella bella stagione. Adesso vorrebbe muoversi, camminare, sforzare un po’ il fisico, bloccato in quella gabbia rettangolare senza finestre e senza notizie, con la porta appena socchiusa sul mistero della casa, ma sbarrata su...
“Contro le Br”: il sindacato scende in campo. "Di fronte ai terroristi che hanno dichiarato guerra al sistema democratico Non sono tollerabili giustificazioni di alcun genere". "Aberrante lo slogan Né con lo Stato, né con le Br". Esaminati anche i rapporti con il governo, la politica salariale e le polemiche interne di VITTORIA SIVO 13 aprile 2018. 13 aprile 1978 Roma - "Di fronte ai terroristi che hanno dichiarato guerra allo Stato democratico non sono tollerabili giustificazionismi di alcun genere. All'aberrante slogan "né con lo Stato né con le Brigate rosse" dobbiamo opporre l'affermazione che la difesa delle istituzioni e il rinnovamento dello Stato nato dalla Resistenza sono due termini dello stesso problema e capisaldi della nostra strategia politica". La risposta del...
Il Pg Pascalino avoca l’inchiesta sul rapimento di Moro di GIORGIO BATTISTINI 13 aprile 2018. 13 aprile 1978 Roma - Il Procuratore generale della Repubblica di Roma Pietro Pascalino ha chiesto "in visione" tutti gli atti dell'inchiesta sul rapimento di Aldo Moro e il massacro della sua scorta. In pratica è l'avocazione dell'intero procedimento al massimo livello giudiziario. Sui motivi della decisione trapelata nel pomeriggio di ieri si possono fare varie ipotesi. Non ultima quella dell'estrema modestia dei risultati conseguiti fino a questo m...
Come si vive nel carcere delle Br di GUIDO PASSALACQUA 14 aprile 2018. 14 aprile 1978 TORINO - E' la mattina di lunedì 10 dicembre 1973 quando il cavalier Ettore Amerio, direttore del personale Fiat del gruppo auto, viene sequestrato da un commando delle Br. I brigatisti lo terranno in una "prigione del popolo" per otto giorni. E' il primo lungo e estenuante braccio di ferro tra le Brigate rosse e lo Stato. Oggi, alla diciannovesima udienza del processone alle Br, il cavaliere Ame...
Per Moro non si tratta, tutti d’accordo nella Dc di GIAMPAOLO PANSA 14 aprile 2018. 14 aprile 1978 Roma - La Dc tiene, non si fa ricattare dall'offensiva della paura messa in atto dalle Brigate Rosse e ripete: con i terroristi non si tratta. Lo ha detto ieri in direzione Zaccagnini, il primo bersaglio umano di questa battaglia di logoramento che dura ormai da ventinove giorni ed è condotta a colpi di messaggi, di foto, di lettere pubbliche e segrete, di "verbali" del "processo" a Moro. Il segretario democristiano ha parlato con sofferenza ma ...
“Torino è una città malata” di SALVATORE TROPEA 15 aprile 2018. 15 aprile 1978 TORINO - Una rivista americana ha descritto la Torino amministrata dalla giunta socialcomunista come una città nella quale "sequestri, bombe, omicidi e rapine a marno armata abbondano, e il semplice vandalismo, spesso commesso da bande di bambini sotto i dodici anni è dilagante". "Nelle strade di Torino, il terrore" titola il quotidiano francese "France Soir". E' dunque questa la città che si presenta agi occhi dei...
Pintor, “Lo stato, la vita di Moro e le colombe” di GIAMPAOLO PANSA 15 aprile 2018. 15 aprile1978 ROMA -Trattare o non trattare con le Brigate rosse? Cedere ai terroristi non comporta il pericolo di far saltare quel tanto di sistema democratico che siamo riusciti a tenere in piedi? E quanti vogliono trattare, ossia le "colombe", non rischiano di diventare, loro malgrado, dei "falchi"? La storia cominciata il 16 marzo ripropone ogni giorno domande sempre più aspre. E allora andiamo a sentire che cosa risponde, dopo le prime polemiche, una...
Moro condannato a morte di Ezio Mauro 16 aprile 2018. Le Br annunciano: «il processo è finito». Nessuna rivelazione sull’interrogatorio. 16 aprile 1978 "Aldo Moro è colpevole e pertanto viene condannato a morte". A trenta giorni dal sequestro e dalla strage di via Fani, le Brigate Rosse hanno concluso il "processo" al leader dc e questa è la loro "sentenza". I terroristi l'hanno diffusa con il solito sistema: un comunicato (il numero 6, datato 15 aprile), spedito ieri sera, fra le 20 e le 20.30, alla redazione milanese della "Repubblica" e ad altri giornali. È ...
Sequestro Moro, la spietata sentenza delle Br di Ezio Mauro 16 aprile 2018. A un mese dal rapimento di Moro si profila una tragica conclusione. Ecco il testo del comunicato n. 6 delle Brigate rosse che è stato annunciato alla nostra redazione milanese ed a quella di altri giornali. Il messaggio si trovava in un cestino di rifiuti, in via dell’Annunciata, a cinquanta metri dalla Questura centrale di Milano. 16 aprile 1978 "L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano, ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione imperialista nel nostro paese, riesaminare i vari momenti delle trame di potere, da quelle "pacifiche" a quelle più sanguinarie, con cui la borghesia ha tessuto la sua offensiva contro il movimento proletario, individuare attraverso le risposte di Moro ...
Sequestro Moro, un prezzo che lo Stato non deve pagare di Ezio Mauro 18 aprile 2018. 18 aprile 1978 Di fronte alla crudeltà della "condanna a morte" di Aldo Moro, la famiglia e la Dc hanno deciso di far intervenire le organizzazioni internazionali che per statuto si prendono cura dei prigionieri, del loro trattamento, della loro sorte: anzitutto "Amnesty International" e poi - se sarà necessario - la "Caritas" vaticana e la Croce Rossa Internazionale. Questa nuova linea di condotta pone due problemi: 1) Sarà sufficiente a ...
Ultimo S.O.S. per Moro. La richiesta è partita dalla famiglia in accordo con la Democrazia cristiana. Da Londra Amnesty International si rivolge alle Br per discutere la liberazione del leader rapito di BARBARA SPINELLI 18 aprile 2018. 18 aprile 1978 LONDRA - L'organizzazione "Amnesty International", nota per la sua strenua difesa dei prigionieri politici in tutto il mondo, ha lanciato oggi pomeriggio un pressante appello perché la vita di Moro sia risparmiata. In un comunicato diramato alle 18 ora italiana dalla segreteria generale che ha sede a Londra, l'organizzazione "offre i suoi buoni uffici" per la salvezza del leader Dc, condannato a morte sabato scorso dalle brigate rosse, e si...
Moro assassinato? Vane le ricerche di elicotteri e sommozzatori. Non si esclude l’ipotesi di una falsa pista di PAOLO GUZZANTI 19 aprile 2018. 19 aprile 1978 RIETI. Prima delle 19 le ricerche del corpo di Aldo Moro al lago della Duchessa sono state sospese. Le prime ricognizioni non hanno dato alcun risultato. È forte il sospetto che il contenuto del settimo messaggio delle brigate rosse sia falso. Se fosse invece vero, e il corpo del presidente della Democrazia Cristiana si trovasse realmente sepolto nelle gelide acque del laghetto si dovrebbe accettare una delle seguenti ipotesi: Aldo Moro è morto da diversi giorni...
Sequestro Moro, tragico 18 aprile a piazza del Gesù di GIAMPAOLO PANSA 19 aprile 2018. 19 aprile 1978 Roma - Doveva arrivare, questo 18 aprile a piazza del Gesù, ma nessuno lo immaginava così carico d'angoscia, così straziato fra notizie vere e notizie incerte, così' crudele nell'alternarsi dei messaggi di morte e dei lampi di speranza. La prima telefonata alle 10.30, è di Lettieri, sottosegretario all'Interno: c'è l'ultimo comunicato delle Brigate Rosse, Moro è stato assassinato. Zaccagnini ascolta con ...
Aldo Moro: parola d’ordine “fermezza”. Il no alla trattativa con le Brigate rosse trova concordi la Democrazia cristiana e il Partito comunista. "Garantire l'ordine democratico" è sin da subito la risposta di Enrico Berlinguer all'azione dei terroristi di EZIO MAURO 19 aprile 2018. A un certo punto il registratore Philips gira a vuoto, da solo, nessuno trascrive più le cassette, Maccari e Gallinari posano la penna, è inutile. Non si riesce a fare un uso politico della voce di Moro: eccola che esce dalla cella e arriva nello studio, pacata, lenta nelle grandi curve del discorso, solitaria perché nessuno vede il prigioniero durante l'interrogatorio, solo Mario Moretti attraverso quei due fori per gli occhi dentro il cappuccio di tela. Quando gli ...
Nel lago della Duchessa non c’è traccia del corpo di Moro di PAOLO GUZZANTI 20 aprile 2018. 20 aprile 1978 LA DUCHESSA - Giornata densa di tante novità tranne quella più tristemente attesa: il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Si parte sempre dalla stessa ipotesi di lavoro, finché da Roma è data per buona. E cioè che il comunicato numero 7 delle Br sia autentico. Poiché il Viminale - fino a questo momento - ha ribadito queste valutazioni, pur ammettendo che la macchina da scrivere e il dattilografo delle Br sono cambiati, le ricerch...
Aldo Moro, è morto o è vivo? Nuovi appelli per una trattativa con i terroristi di GIORGIO ROSSI 20 aprile 2018. 20 aprile 1978 L'ultima drammatica lettera di Moro alla moglie, con le accuse a Zaccagnini, al partito, agli amici, al Vaticano ("Che fa Zaccagnini? Che fa la Democrazia cristiana? Che cosa fa il cardinale Poletti?") e di cui riferiamo in altra parte del giornale, è probabilmente al centro dell'ultimo, clamoroso episodio dell'angosciosa vicenda: un solenne appello della presidenza della Conferenza episcopale in favore dell'apertura di trattative con i brigat...
Sequestro Moro: sacrificare un uomo o perdere lo Stato di Ezio Mauro 21 aprile 2018. 21 aprile 1978 Sapevamo tutti, fin dall’inizio di questa orribile vicenda, che sarebbe arrivato il momento dell’ultimatum. C’era un’alternativa: che Moro rivelasse infami segreti e crimini di Stato. Se lo avesse fatto – o perché quei crimini di Stato esistono oppure inventandoli pur d’aver salva la vita – i terroristi l’avrebbero certamente rilasciato, essendo la sua presenza da vivo assai più ingombrante che il suo cadaver...
Aldo Moro, Craxi si schiera per la trattativa. Lo scambio dei prigionieri è tecnicamente impossibile. Ma possono esserci altre vie d’uscita, e quelle vie bisogna esplorarle. Richiamato ad esempio il comportamento del governo tedesco di GIAMPAOLO PANSA 21 aprile 2018. 21 aprile 1978 ROMA - Non si può abbandonare Moro nelle mani delle Brigate rosse e farlo ammazzare. Bisogna cercare una soluzione. Una volta raggiunta la certezza che Moro è vivo, occorre individuare un canale con i terroristi e cominciare a vedere che cosa vogliono. Se chiedono cose ragionevoli si può trattare con loro. Lo scandalo dei prigionieri è tecnicamente impossibile e va escluso. Ma possono esserci altre vie d'uscita e quelle vie debbono essere esplo...
Amato: «Non trattare per Aldo Moro fu una scelta poco comprensibile». L’ex premier: per salvare la vita di un cittadino lo Stato può negoziare con chicchessia, ma lì c’era un ostacolo in più, e cioè la questione del riconoscimento politico che si sarebbe garantito ai terroristi. Intervista di Giovanni Bianconi del 8 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". La notizia l’apprese dalla televisione: «Mi trovavo a casa, e un giovane Bruno Vespa annunciò che l’uomo trovato morto nella Renault 4 rossa era Aldo Moro. Una conclusione terribile, che cinquantacinque giorni prima non avemmo la lucidità nemmeno di immaginare». Era il 9 maggio 1978. Cinquantacinque giorni prima, il 16 marzo, Giuliano Amato — oggi giudice costituzionale dopo essere stato più volte ministro e presidente del Consiglio, all’epoca direttore del Dipartimento di studi giuridici della facoltà di Scienze politiche, alla Sapienza — era andato all’università dov’erano in programma gli esami di laurea; di alcune tesi era relatore Aldo Moro, professore di Diritto penale: «Appena arrivarono le prime informazioni, prima di un incidente e poi del rapimento, dicemmo ai suoi studenti che le loro discussioni erano rinviate a quando Moro fosse tornato. Ma non lo vedemmo mai più».
Lei all’epoca militava nel Psi guidato da Bettino Craxi, che da un certo momento tentò la strada della trattativa con i brigatisti, per provare a far tornare Moro a casa. Cosa ricorda di quei giorni?
«Fui interpellato una sola volta da Craxi, insieme a Gino Giugno e Giuliano Vassalli. Ci chiese indicazioni sulla legittimità del negoziato, e io sostenni che per salvare la vita di un proprio cittadino lo Stato può negoziare con chicchessia. Ma lì c’era un ostacolo in più, e cioè la questione del riconoscimento politico che si sarebbe garantito ai terroristi, dando loro una patente di autorità e politicità quasi pari a quella dello Stato. Ricordo quell’incontro a quattro, noi tre e Craxi, ma poi il segretario non ci convocò più, e i tentativi proseguirono con il solo Vassalli».
Lei dunque era favorevole a una trattativa con i brigatisti?
«Allora, da estraneo qual ero alla vicenda, la vivevo pieno di dubbi. Ma ciò che più mi colpì fu il motivo per cui le istituzioni del tempo, rappresentate in particolare dalla Dc e dal Pci, decisero per la fermezza. A me sembrava che a richiederla fosse non la “statualità”, ma la debolezza che essi stessi sentivano nel nostro Stato. Uno Stato forte avrebbe reagito diversamente, trattando anche con il diavolo, salvo andare ad arrestarlo un attimo dopo. Basti guardare quello che ha sempre fatto e continua a fare Israele, anche con una controparte come Hamas, che considera terrorista; non si sente intaccato da uno scambio di prigionieri, se serve a salvare la vita di propri cittadini».
Era quello che cercava di spiegare Moro nelle lettere dalla «prigione del popolo».
«Certo, e non fu ascoltato. Allora c’è da chiedersi perché lo Stato si sentiva così debole. In quei giorni si avvertiva una sensazione di grande inadeguatezza, una situazione nella quale ciascuno si muoveva per conto proprio, con il presidente della Repubblica pronto a concedere la grazia a una brigatista che non si era macchiata di reati di sangue e altri che fecero di tutto per dissuaderlo. Non c’era unità d’intenti».
Tranne che nel ritenere inattendibile e troppo condizionato dai suoi carcerieri il Moro che lanciava appelli dalla prigionia. Lei che cosa pensò di quegli scritti?
«Non ho mai ritenuto che non fossero autentici, e capisco il risentimento della famiglia nei confronti di chi invece sostenne di non poter riconoscere Moro in quelle lettere. Probabilmente era una posizione necessaria a mantenere la linea della fermezza, che per il Pci poteva avere una ragione: forse quei “compagni che sbagliavano” avevano assonanze anche in casa sua, e qualunque interlocuzione con loro poteva ridurre le barriere immunitarie. Ma la Dc non aveva lo stesso problema, e dunque è meno comprensibile. Ripeto: non trattare può essere un’eccezione, non la regola. Del resto abbiamo esempi di trattative condotte per conto dello Stato italiano sia prima che dopo Moro: da Sossi a Cirillo, e con gli stessi terroristi palestinesi».
Quando conobbe Moro?
«Lo conobbi prima da politico che da professore, quando fu presidente del Consiglio nei governi di centrosinistra, dal 1963 al 1968. Io collaboravo col ministro del Bilancio socialista, e c’erano contrasti sulla ripartizione di poteri e competenze con il Tesoro tenuto dai democristiani; ricordo riunioni interminabili nelle quali Moro non imponeva soluzioni, ma portava gli altri a discutere e confrontarsi fino a convergere su quella che lui riteneva più congrua. Non era mai una sua decisione, lui si limitava a prendere atto del punto d’incontro e solo allora diceva: “Vedo che abbiamo concluso”. Era come se costringesse gli altri al dialogo per ottenere il risultato voluto».
Fu la sua caratteristica principale?
«Questa lo era senz’altro, ma io penso che Moro debba essere ricordato nei libri di storia sull’Italia unitaria non tanto per i suoi metodi o perché l’hanno ucciso, bensì come uno dei pochi statisti che hanno colto e affrontato il mal sottile dell’Italia unita: la parzialità del consenso sociale che costituisce la base delle nostre istituzioni. Lui capì che era troppo esigua, e che bisognava allargarla per rendere meno fragile lo Stato. Un primo passo era stato compiuto con l’integrazione dei cattolici nelle istituzioni, di cui lui era parte, poi proseguì con l’apertura prima al Psi e poi al Pci, con la cosiddetta terza fase. Non per qualche alchimia politica o per imporre matrimoni innaturali, ma per la sostanziale necessità di integrare i ceti sociali rappresentati da quei partiti. Era un modo, anzi il modo per rafforzare lo Stato debole».
Quello che non ebbe la forza di trattare con i brigatisti?
«Esattamente: lo Stato debole che non è riuscito a salvare Aldo Moro».
Ore contate per Moro, scrive Venerdì 11/05/2018 L’Adige. Dissero a Moro che lo avrebbero ucciso perché gli uomini, anzi di «amici» del suo partito non avevano voluto trattare lo scambio: tredici prigionieri legati alle Br, e alcuni di loro erano banditi politicizzati in carcere, liberi e trasferiti magari in Libia per Aldo Moro vivo. Gheddafi, il presidente della Libia, aveva convocato l’ambasciatore d’Italia a Tripoli e nell’incontro, ripreso dalla televisione, aveva dichiarato la propria condanna al terrorismo delle Br e la sua disponibilità ad ogni intervento, utile a salvare la vita dell’ostaggio. Si era detto disposto ad accogliere in Cirenaica le persone indicate dai brigatisti. Anche Castro si era dichiarato pronto ad accogliere a Cuba i brigatisti. Poi si era saputo che gli americani non avrebbero gradito la presenza di terroristi rossi italiani nell’isola della rivoluzione. Il capo delle Brigate Rosse Mario Moretti aveva già telefonato alla famiglia Moro spiegando con tono molto cortese che solo un intervento «immediato e chiarificatore» del leader della Dc Zaccagnini avrebbe impedito l’uccisione dell’ostaggio. C’era stato un colloquio decisamente drammatico tra Benigno Zaccagnini e i familiari del presidente rapito, quando il segretario della Dc, finito il vertice dei capi del partito a piazza del Gesù – un incontro tesissimo e duro – era andato da Eleonora Moro e dai suoi figli a riferire che la Democrazia Cristiana era ferma nel rifiuto di ogni trattativa con i terroristi. Ecco il momento della rottura totale tra la famiglia del leader da una parte e dall’altra il governo sostenuto dalla maggioranza del partito. Si parlò persino del funerale: la famiglia Moro disse di non volere quelli di Stato né la presenza di uomini della politica e nel partito, da tempo chiamato «balena bianca». Dal canto suo, Bettino Craxi leader del Partito Socialista aveva indicato a Zaccagnini i nomi di due detenuti che potevano essere graziati. La brigatista Paola Besuschio che a Trento, nella facoltà di Sociologia, aveva conosciuto Renato Curcio e Margherita Cagol e ferita in uno scontro a fuoco, era stata ricoverata nell’ospedale Santa Chiara e il nappista Alberto Buonoconto. Era in corso la campana elettorale per le amministrative, ma i comizi erano semideserti e forse cominciò in quei giorni del maggio di quarant’anni fa, il crescente distacco degli italiani dai partiti tradizionali. Gli uomini della politica – le donne erano numericamente una insignificante minoranza – non capirono l’andazzo e nella Dc l’atteggiamento della famiglia che, ovviamente, non voleva accettare il dettato di Zaccagnini, venne considerato una «mina vagante» mentre nel quadro della vicenda si radicò la convinzione che i familiari e gli amici di Moro – fra di loro Amintore Fanfani – avevano stabilito un contatto con i terroristi. Si capiva che il sequestro non poteva durare altro tempo; il giornale «la Repubblica» pubblica un articolo a tutta pagina dal titolo «Ultimo sos per Moro» e l’appello di Amnesty International scrivendo che «a Piazza del Gesù si ha la certezza che si stanno vivendo le ore decisive della tragedia Moro». Le notizie filtrano con difficoltà anche se i massimi esponenti del partito siedono in continua riunione alla quale partecipa anche Willy De Luca, all’epoca di massimo dirigente della Rai. L’antico palazzo Bolognetti, sede della Dc, è diventato un bunker presidiato dai Bersaglieri che imbracciano i mitragliatori. Ricordava Flaminio Piccoli che l’aria era «d’angoscia» e dopo quella parola si chiudeva nel silenzio. Insieme a Zaccagnini c’erano Galloni, De Mita, Andreotti, Cossiga, personaggi che nel corso degli anni si erano variamente disputati il potere e talvolta i loro dissidi si erano trasformati in scontri violenti e in alcune occasioni addirittura furibondi. Come scriveva Eugenio Scalfari aggiungendo: «Siedono l’uno accanto all’altro, accumunati dalla cattiva sorte; le vecchie correnti, tante volte date per morte sulla carta, sono state cancellate da un gigantesco colpo di spugna, perché questa volta la crisi è veramente tremenda, non consente lussi, divagazioni, margini, giochi personali». Scrive ancora «la Repubblica» quel titolo da brivido: «Ore contate per Moro». Anni davvero decisivi quelli dal 1969 al 1978, dalla strage di Piazza Fontana a quella di via Fani. Il Paese era infestato dal terrorismo mentre viveva la prima grande recessione dopo gli anni del boom; il Pci rischiava il sorpasso della Dc e il segretario comunista Enrico Berlinguer sosteneva di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato. Anche il 18 aprile del 1948 Palmiro Togliatti non se la prese troppo per la sconfitta del suo partito. Anche lui si sentiva più tranquillo sotto l’ombrello americano che all’ombra dei baffoni di Stalin. Intanto nel covo, i brigatisti preparavano il sesto omicidio. Poi qualcuno di loro disse che non voleva la morte di Moro.
Boniver: «Ci linciarono perchè Craxi provò a salvare Moro». Margherita Boniver racconta i giorni di prigionia di Aldo Moro, vissuti dalla sede del Psi, scrive il 10 Maggio 2018 "Il Dubbio". «Aldo Moro fu l’unico cittadino italiano per il quale lo Stato non trattò la liberazione. Noi socialisti fummo gli unici a mettere in campo un tentativo concreto per cercare di salvarlo e lo Stato ha molte colpe in questa tragedia». Margherita Boniver, presidente della fondazione Craxi e membro del Psi all’epoca del sequestro Moro, ricostruisce i lunghi giorni del sequestro e l’affanno di Bettino Craxi nel cercare una strada di dialogo tra Istituzioni e brigatisti.
Lei parlò con Bettino Craxi durante il sequestro Moro?
«Sì, perchè Craxi mi chiese di coinvolgere Amnesty International nel disperato tentativo di salvare la vita di Moro. All’epoca, infatti, ero presidente della sezione italiana dell’associazione, che avevo costituito nel 1973. Per farlo, mi recai più volte a Londra per parlare con l’allora segretario generale, Martin Ennals: Amnesty International si occupava di “prigionieri di coscienza” e prigionieri politici ma la sezione italiana per Statuto non avrebbe potuto occuparsi di casi italiani. Questa era la regola, per mantenere integra l’apartiticità e l’imparzialità di un’associazione molto rigorosa e molto attiva. Ennals non solo conosceva Moro, ma valutò la situazione talmente drammatica da decidere di diramare un fortissimo appello rivolto ai terroristi, affinchè liberassero senza condizioni e incolume lo statista».
Solo il segretario socialista le chiese di operare questa intermediazione?
«Non solo. Su questo argomento venni contattata diverse volte anche da Amintore Fanfani, l’unico democristiano che si mosse con determinazione per la liberazione, seppur tardivamente».
Ricorda il clima politico in Italia di quei 55 giorni?
«Furono giorni terribili e di contrapposizioni feroci. Da una parte c’era il cosiddetto “partito della fermezza” capitanato dal Pci, da buona parte della Dc, profondamente lacerata al suo interno e succube oltre che protagonista di quell’immane tragedia, nonchè dai giornali, con in prima linea la Repubblica di Eugenio Scalfari, che tutti i giorni tuonava contro ogni ipotesi, anche la più legale, di cedimento nei confronti dei terroristi. Dall’altra c’eravamo noi socialisti, insieme agli altri partiti laici minori: Bettino Craxi aveva costruito tutta un’azione politica per la liberazione di Moro, nominando un comitato di celebri costituzionalisti e avvocati, presieduto dal professor Giuliano Vassalli, leggendario giurista che aveva organizzato la fuga di Sandro Pertini dal carcere nel 1944».
Quanto era concreta l’ipotesi elaborata da questo comitato?
«Il comitato di Craxi aveva imbastito un tentativo di scambio di prigionieri coi terroristi, individuando anche i possibili detenuti da liberare. Si trattava di due brigatisti, entrambi mai coinvolti in fatti di sangue e uno dei quali era gravemente malato. Questa era la base di un ipotetico scambio, ma quella che oggi si chiamerebbe trattativa divenne impossibile a causa di un clima infame, costruito in particolare intorno al mio partito. Fummo definiti i capifila del cedimento e traditori della ragion di Stato, con attacchi feroci da parte della stampa, quasi tutta allineata sulla linea della fermezza di Scalfari. Al contrario, io credo che l’azione purtroppo inutile che fu coraggiosamente costruita dal Psi di Bettino Craxi rappresenti una delle pagine più belle della tradizione del Partito Socialista».
Il Psi era tutto schierato con Craxi?
«Sì, il partito era unanime dietro i tentativi del segretario, che visse quei giorni praticamente chiuso in una sorta di bunker, circondato dai giuristi, alla ricerca frenetica di una via d’uscita per lo statista democristiano. Dopo l’omicidio, Craxi fu l’unico politico ad essere invitato ai funerali privati di Moro voluti dalla famiglia, che era stata fortemente critica con lo Stato e la Dc. Ricordo che la vedova Moro gli fece anche dono della famosa auto blindata che era stata tardivamente consegnata alla famiglia giorni dopo il sequestro di via Fani».
A distanza di anni, lei crede che Moro si sarebbe potuto salvare?
«Il dubbio rimane, sicuramente l’azione svolta da Craxi e dal Psi aveva costruito un’ipotesi di scambio che avrebbe forse potuto risolvere la situazione. Quarant’anni dopo la sua morte, ciò che risulta incredibile è che Moro fu l’unico cittadino italiano sacrificato senza trattative. In anni successivi, sono innumerevoli i casi di cittadini italiani sequestrati da terroristi in molte parti del mondo per i quali i governi italiani hanno immediatamente aperto il fronte della trattativa coi terroristi, per salvare la vita dei loro concittadini sequestrati. Furono trattative più o meno segrete o palesi e io stessa, decenni dopo il 1978, ho partecipato con funzioni diplomatiche e politiche a missioni di liberazione di ostaggi che avevano alla base una robusta trattativa da parte degli organi dello Stato».
Quella del 1978, però, era un’Italia diversa?
«Certamente, e anche di un’interpretazione diversa di ciò che erano le Br, in particolare da parte del Pci: una frangia estremista e inaccettabile che nasceva alla sua sinistra e che doveva essere assolutamente sgominata».
Lei crede che per la morte di Moro anche le istituzioni di allora siano in parte colpevoli?
«C’è stata sicuramente responsabilità da parte dello Stato. Penso ai pasticci nelle ricerche, ai depistaggi e ai tanti misteri, ma ricordo soprattutto le incertezze eclatanti nell’azione dei nostri servizi e delle forze di polizia. C’è stato un evidente fallimento investigativo, ma la responsabilità ricade anche su quel fronte della fermezza, assolutamente incomprensibile nell’ottica di oggi».
Cosa resta, oggi, di questa pagina così atroce della nostra storia recente?
«La Dc dell’epoca riuscì a chiudere quella stagione del terrore senza promulgare leggi di emergenza, che avrebbero potuto ledere i diritti costituzionali dei cittadini in nome dell’antiterrorismo. Ci volle un decennio, ma fu una lezione bella seppur tardiva da parte del nostro Paese».
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Il sequestro Moro e il partito della famiglia di EUGENIO SCALFARI 30 aprile 2018. 30 aprile 1978 Le lettere di Moro dal carcere possono avere molti fini e prestarsi a molti usi, ma dopo l’ultima pubblicata ieri dal “Messaggero” una cosa è certa: la vita del leader dc, almeno per ora, non corre rischi sicché, da questo punto di vista, possiamo tirare un respiro di sollievo. Quando i suoi carcerieri emisero il comunicato con la condanna a morte e poi ribadirono, pochi giorni dopo, che l’esecuzione sarebbe stata immediata se il governo ...
Aldo Moro: quelle grida dal fondo della prigione di Ezio Mauro 3 maggio 2018. 3 maggio 1978 Qualcuno, con una rozzezza morale e politica sulla quale non c 'è bisogno di spender parole, cerca di riversare su coloro che difendono una linea di fermezza di fronte ai terroristi, la responsabilità dei loro assassinii. Sarebbe come dire che è colpa degli aggrediti il delitto perpetrato dagli aggressori. Vale la pena di polemizzare con chi stravolge la realtà fino a questo punto? L'ultima serie di lettere di Aldo Moro, arrivate tutt...
Aldo Moro, battaglia sul piano Craxi. Andreotti e Berlinguer ribadiscono la fermezza, la Dc incerta si rimette al governo. Le proposte del segretario del Psi riguardano la concessione della grazia o della libertà provvisoria ad alcuni detenuti delle Br e dei Nap. Sono state messe a punto dopo un lungo colloquio con Sereno Freato, portavoce della famiglia Moro. Ma Pci, Pri e Psdi hanno ribadito che non può essere fatta alcuna concessione ai brigatisti di MIRIAM MAFAI 3 maggio 2018. 3 maggio 1978 In quattro ore di riunione, dalle sette e mezzo di ieri sera fino a quasi mezzanotte, si sono affrontate, al secondo piano di Piazza del Gesù, la delegazione socialista e quella della Democrazia Cristiana. I socialisti erano capeggiati da Craxi, la camicia aperta sul collo, un fascicoletto di carte in mano con dentro i nomi dei terroristi per i quali si suggerisce la grazia. I democristiani erano capeggiati da Zaccagnini sulla cui faccia si fanno di giorno in giorno…
Eseguendo la sentenza. Le Br capiscono che non otterranno il riconoscimento politico che volevano. E che dopo 55 giorni l'unica via di uscita sembra essere quella prevista sin dall'inizio. L'Esecutivo decide di "giustiziare" il prigioniero e invia un comunicato con un verbo in sospeso. Ma anche l'ultima trattativa naufraga. Nella sua cella, lo statista scrive le ultime lettere alla famiglia e lascia un amaro testamento: "Questo bagno di sangue non andrà bene né per Andreotti, né per la Dc, né per il Paese, ciascuno porterà la sua responsabilità". L'ultimo atto di una tragedia italiana sta per compiersi di EZIO MAURO 3 maggio 2018. La porta della cella è chiusa da 35 giorni, e oggi l’uomo incappucciato non si presenta davanti al prigioniero per interrogarlo, dargli qualche scampolo di notizia sulle reazioni esterne al sequestro, leggere le lettere che lui ha scritto di notte. Mario Moretti è partito in treno per una riunione dell’Esecutivo Br, l’ultima, quella decisiva. Si incontra con Bonisoli, Azzolini, Micaletto, valutano gli ultimi segnali che arrivano dalla Dc e dal governo, lui rac...
Sequestro Moro, Andreotti non cede di FAUSTO DE LUCA 4 maggio 2018. 4 maggio 1978 La vicenda Moro passa dai partiti al governo, e dal governo passa al Parlamento. Si ritorna nell'ambito delle istituzioni. Finisce la finzione delle Camere che discutono di tutto tranne che dell'argomento che occupa la mente e il cuore degli italiani. E si va forse verso una ricomposizione, almeno formale, della maggioranza nata il giorno stesso del rapimento di Moro e divisa adesso da aspre polemiche. La delegazione dc, che ha deciso d'investire il governo di una...
Sequestro Moro: governo e Dc ripetono il no di MIRIAM MAFAI 4 maggio 2018. 4 maggio 1978 C'è stato un momento d'incertezza di vero e proprio, sbandamento nella delegazione democristiana, quando martedì sera, si è incontrata con quella socialista? A Piazza del Gesù lo negano: "La nostra posizione è rimasta sempre immutata. Non potevamo far nostra la proposta di Craxi di concedere la grazia ad alcuni terroristi, ma non potevamo nemmeno pregiudizialmente rifiutarci di assecondarla. Si tratta comunque di atti di governo...
Cossiga apre in Tv la campagna elettorale. “Caso Moro” al centro delle elezioni di Ezio Mauro 5 maggio 2018. ROMA - Un Cossiga calmo, padrone di sé, ha fatto ieri sera la sua prima apparizione in Tv dall'inizio della vicenda del sequestro Moro. Il ministro degli Interni apriva una serie di trasmissioni dedicate dalla Rai-Tv alle elezioni amministrative del 14 maggio: non proprio un turno di "Tribuna elettorale", ma comunque trasmissioni con cui il governo e i partiti politici introdurranno i telespettatori ai temi della prova elettorale. L'attesa era evidentemente centrata sulle dichiarazioni che Cossiga avrebbe potuto fare sul "caso Moro". Ma è stata un'attesa subito delusa dall'intervistatore Jader Jacobelli, che aprendo la trasmissione ha precisato che avrebbe rivolto al ministro degli Interni domande tecniche (distribuzione dell'elettorato, comunicazione dei risultati), e non politiche. E tuttavia, rispondendo all'ultima delle domande ("Lei crede", aveva chiesto Jacobelli, "che la vicenda Moro influirà sui risultati elettorali?"), Francesco Cossiga ha lasciato trapelare indirettamente l'intenzione di fermezza con cui il governo guarda alla sfida delle Br. "Non sono in grado di valutare", ha infatti risposto, "l'influenza che avranno sugli elettori l'eccidio di via Fani e il sequestro dell'on. Moro, il rivelarsi del terrorismo, i giudizi che il paese dà sulle sue origini, sul suo impianto e sui modi con cui viene combattuto. Ma resta che di fronte a questo che è certo l'attacco più grave e subdolo portato alla pace civile, il paese ha risposto con grande dignità e fermezza dimostrando come la vita sociale resista all'insidia dell'eversione. Penso quindi che sia per l'afflusso, sia per la qualità del voto, le elezioni costituiranno una risposta ferma al tentativo di rompere la legalità repubblicana, e suoneranno come una condanna del tentativo eversivo". In parte politica, in parte anch'essa legata alla vicenda del sequestro Moro, era stata anche la risposta precedente, dopo che Jacobelli aveva chiesto se il ministero degli Interni ha previsto misure di sicurezza particolari per il turno elettorale. "Saranno prese", ha detto Cossiga, "le identiche misure che sono state adottate in questi trent'anni di elezioni libere e civili. D'altra parte vediamo che la campagna elettorale si sta svolgendo con grande compostezza, a dimostrazione del senso di responsabilità con cui le forze politiche vivono questo momento particolare". Una risposta che conferma, dunque, il rifiuto del governo di adottare leggi o misure speciali per fronteggiare l'emergenza della minaccia terrorista. Cossiga aveva prima precisato che le elezioni del 14 maggio avviano una serie di consultazioni elettorali che si svolgeranno tra maggio e giugno. Le amministrative il 14, il 28 le comunali in alcune zone della Sicilia. L'11 giugno i referendum (o tutti e cinque, o quelli che resteranno dopo le nuove leggi che si stanno preparando in Parlamento), e il 25 le elezioni regionali del Friuli-Venezia Giulia e della Valle d'Aosta. Ma, certo, il test più significativo (perché viene dopo l'accordo della nuova maggioranza e dopo il "caso Moro") è quello del 14 maggio, che interessa 4 milioni di elettori, il dieci per cento dell'intero elettorato, un "campione" - come ha detto Cossiga - "grosso modo valido" per rilevare gli umori politici del paese.
“Tanti morti per troppa debolezza e ci accusano d’essere prussiani…” di GIAMPAOLO PANSA 5 maggio 2018. 5 maggio 1978 ROMA - "Non posso sapere come si concluderà questa storia terribile - dice La Malfa - Credo, però, di poter dire che il paese sta superando bene la prova. Adesso tocca a noi, tocca alla classe politica dimostrare di avere l'energia sufficiente per utilizzare la forza che i cittadini certamente hanno. Io non sono di quelli che dicono: ogni paese ha la classe politica che si merita. Il nostro paese è migliore della sua classe politica. E quello che ...
L’assassinio di Moro preannunciato dalle Br. "Concludiamo la battaglia eseguendo la sentenza" di Ezio Mauro 6 maggio 2018. 6 maggio 1978 La folle logica delle Br sembra purtroppo esser arrivata alla sua tragica conclusione. Il testo del comunicato numero 9, oltre all'annuncio che la condanna a morte di Moro è "in corso di esecuzione", contiene un appello all'insurrezione vera e propria: "...Estendere l'attività di combattimento, concentrare l'attacco armato contro i centri vitali dello Stato imperialista... questo bisogna fare per fermare gli assassini capeggiati da ...
Un'ultima ambiguità per acuire il dramma di SANDRO VIOLA 6 maggio 2018. 6 maggio 1978 Roma - Il dramma è dunque giunto "alla sua conclusione"? È quel che affermano i terroristi della stessa a cinque punte, la banda "Brigate Rosse", nel comunicato n. 9 giunto ieri pomeriggio alla redazione milanese di "Repubblica": "Concludiamo la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza cui Aldo Moro è stato condannato". Così ora, cinquantuno giorni dopo l'avvio di questa vicenda paurosa (cert...
Il “comunicato n. 9” dei terroristi: “Concludiamo la battaglia eseguendo la sentenza” di Ezio Mauro 6 maggio 2018. 6 maggio 1978 "Compagni la battaglia iniziata il 16 marzo con la cattura di Aldo Moro è arrivata alla sua conclusione". Così si apre il comunicato numero 9 delle Brigate rosse fatto avere ieri pomeriggio (undici giorni dopo il numero 8) alla nostra redazione di Milano, avvolto in una pagina del "Corriere mercantile". Il comunicato annuncia che avendo registrato " il chiaro rifiuto della Dc, del governo e dei complici che lo so...
Ma il piano eversivo è fallito di EUGENIO SCALFARI 7 maggio 2018. 7 maggio 1978 Mentre aspettiamo con angosciosa incertezza di saperne di più sulla vera sorte che i terroristi hanno riservato ad Aldo Moro, converrà riflettere sugli esiti che le loro fosche imprese hanno conseguito e sui mutamenti psicologici, politici e funzionali che hanno provocato nel paese. Il loro primo obbiettivo - che probabilmente speravano di realizzare lo stesso giorno del rapimento di Moro - fu di suscitare un soprassalto reazionario nel governo e nella mag...
Zaccagnini tra la sua gente nel primo comizio di NATALIA ASPESI 7 maggio 2018. 7 maggio 1978 NOVARA - "Il nostro è un vessillo bianco che non conosce la violenza. Se qualche macchia di sangue lo ha arrossato, è sangue non dei nostri avversari, ma dei nostri martiri". Benigno Zaccagnini grida queste parole quasi con violenza, nel piccolo teatro Faraggiana, stipato di gente, di bandiere e di striscioni. È il suo primo discorso in pubblico dal giorno della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro: il segretario della Dc…
Sequestro Moro: lo sfogo di Fanfani, incitamento o siluro? Di Ezio Mauro 8 maggio 2018. 9 maggio 1978 Dopo aver conservato il silenzio per molte settimane (e quali settimane!) il senatore Fanfani ha gettato il suo sasso nello stagno politico ed ha rotto l'unanimismo vigente nella Dc dal 16 marzo in poi. Ha attaccato il governo accusandolo d'inefficienza e di immobilismo e non ha neppure risparmiato critiche - sia pure caute e velate - alla gestione del partito. Se si tiene conto della delicatezza della situazione e dell'indiscussa autorevolezza del presidente del S...
A casa Moro è forse arrivato un segnale di speranza. Qualcosa si muove anche nel partito di SANDRO VIOLA 8 maggio 2018. 9 maggio 1978 I familiari di Moro hanno ricevuto lunedì' mattina un "segnale" che ha fatto loro comprendere che il presidente della dc è vivo? Questa voce circola insistente. In ogni caso, sia da venerdì' scorso (giorno in cui erano arrivati il comunicato delle Br e l'"ultima" lettera di Moro) l'atteggiamento della famiglia e degli amici appare, se non proprio ottimistico, certo più dinamico che disperato: come se a via del For...
Aldo Moro: l’ultimo viaggio nel buio. Via Caetani: una strada di Roma poco distante dalla sede del Pci e della Dc, che proprio questa mattina ha riunito la direzione con l'ormai unico ordine del giorno: la sorte del presidente del partito. Il cui corpo è qui, nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata tra il civico 32 e il 33. La scelta del luogo in cui si conclude la tragedia politica italiana è l'ultimo messaggio simbolico. Da quell'automobile si scatenano i demoni di un terrorismo avviatosi verso l'autodistruzione, di una classe dirigente stremata e di un Paese che si vede riflesso nel cadavere di una vittima sacrificale di EZIO MAURO 8 maggio 2018. Un uomo col cane è l'unico inconsapevole testimone che vede spuntare in via Montalcini la "R4" rossa appena uscita dal "covo", poco dopo le 7 del mattino. È targata Roma N56786, l'hanno rubata a marzo, hanno cambiato la targa, pochi giorni fa l'hanno scelta per l'ultima missione. La guida Mario Moretti, Germano Maccari è al suo fianco. Non sanno che nel bagagliaio, sotto la coperta, Moro sta ancora agonizzando, incosciente.
L’assassinio di Moro. Il cadavere ritrovato in un’auto a pochi metri dalle sedi della Dc e del Pci. Il paese reagisce compatto alla sfida delle Br di EUGENIO SCALFARI 9 maggio 2018. 10 maggio 1978 Il primo atto della tragedia si è concluso nel modo più atroce: un cadavere crivellato di proiettili, avvolto in un fagotto di coperte, abbandonato sul sedile d'un'auto a pochi metri dalle sedi della Democrazia cristiana e del Partito comunista. In questo modo dopo 55 giorni d'attesa e d'agonia, le Br hanno restituito il corpo di Aldo Moro. L'emozione di queste ore è immensa ed a rendere il dramma ancora più cupo c'è...
Aldo Moro, undici colpi al cuore. L’hanno ammazzato con una raffica di mitra forse 24 ore prima del ritrovamento di MIRIAM MAFAI 9 maggio 2018. 10 maggio 1978 Questo fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto parcheggiata in via Caetani è il corpo di Aldo Moro. È un fagotto informe, avvolto in una coperta di lana color cammello, con un bordo di raso, una coperta come ce ne sono in tutte le nostre case. Il sedile è leggermente inclinato verso l'avanti. La macchina ha gli sportelli aperti. A pochi metri ci sono il ministro Cossiga, i sottosegretari Darida e Lettieri, il procurato...
LA LETTERA CHE UCCISE MORO.
Da Issuu.com
La lettera che uccise Moro. Lo statista democristiano scrisse a Cossiga. Le Br resero tutto pubblico. Fu l’inizio della fine, scrive Paolo Delgado il 29 Marzo 2018 su "Il Dubbio". In un certo senso quello che comunemente definiamo il caso Moro cominciò davvero il 29 marzo 1978, 13 giorni dopo la strage di via Fani e il sequestro della scorta. Erano state due settimane quasi silenziose, scandite solo dal primo comunicato delle Brigate rosse, con la rivendicazione dell’attacco e da un secondo comunicato, diffuso il 25 marzo, nel quale l’organizzazione armata spiegava perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ricapitolando la carriera del leader democristiano, sottolineando la sua probabile imminente elezione a presidente della Repubblica e insistendo sul ruolo strategico di quella carica istituzionale nella costruzione dello Stato Imperialista. In qui 13 giorni veniva dato per certo, anzi per scontato che nella sanguinosa partita che si stava giocando sarebbero stati in campo solo due protagonisti: le Brigate Rosse, dalle quali ci si aspettava sin dal primo momento la richiesta di uno scambio di prigionieri e lo Stato, blindatosi dietro la linea detta "della fermezza" ancor prima che venissero avanzate richieste o ipotizzate trattative. Al sequestrato spettava il ruolo muto della vittima, l’oggetto inanimato per il quale si sarebbe certo chiesto un riscatto. I giornali lo dipingevano a priori come eroe e come martire. Quel 29 marzo cambiò tutto. Il prigioniero entrò in campo direttamente. Prese la parola. Provò a tessere la trama che avrebbe potuto salvargli la vita facendo ciò che sapeva fare meglio e che faceva da sempre: facendo politica. Scrisse una lettera meditata e calibrata in ogni singola parola e in ogni segno di punteggiatura. La fece recapitare al suo segretario particolare, Nicola Rana, perché la consegnasse al ministro degli Interni Cossiga raccomandando la massima discrezione: «La mia idea e speranza è che questo filo, che cerco di allacciare, resti segreto il più a lungo possibile, fuori da pericolose polemiche». Nella lettera a Cossiga il prigioniero di via Montalcini chiariva di essere «sotto un dominio pieno e incontrollato», escludendo così la possibilità di attivare rapporti con potenze straniere per risolvere la situazione. Specificava di essere ‘ processato’ per accuse che in realtà riguardavano l’intero gruppo dirigente della Dc. Ma soprattutto metteva sul piatto della bilancia la minaccia di rivelare segreti tali da mettere in pericolo la sicurezza dello Stato. Moro non adoperò in quell’occasione giri di parole: «Entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria, che pure non si può ignorare, la ragione di Stato… Sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni». Moro aveva probabilmente scelto di rivolgersi al ministro Cossiga, invece che al premier Andreotti o al segretario della Dc Zaccagnini, perché del primo non si fidava e del secondo conosceva la debolezza e perché sapeva che Cossiga era in quel momento la figura chiave anche nei rapporti con il Pci. Forse sperava anche nei rapporti personali tra l’inquilino del Viminale e il cugino segretario del Pci. In ogni caso Cossiga, slegato dai tipici giochi di corrente democristiani e con un ben noto senso dello Stato, era la figura che più di ogni altra avrebbe potuto in quel momento alterare gli equilibri a sfavore della ‘ fermezza’. Data la personalità di Cossiga, la leva utile poteva essere solo l’interesse superiore dello Stato. Si trattava di rovesciare la logica alla base della fermezza dimostrando che il senso dello Stato consigliava di salvare l’ostaggio a tutti i costi e non di sacrificarlo. Perché la strategia messa a punto da Moro avesse successo, era necessaria la segretezza. In caso contrario le «pericolose polemiche», in concreto il fuoco incrociato dei media e dei partiti più ostili a ogni ipotesi di trattativa, avrebbe gelato il germoglio prima che avesse il tempo, necessariamente lungo, di sbocciare. L’argomentazione scelta per spostare Cossiga, una volta resa pubblica, sarebbe suonata come minaccia ricattatoria e avrebbe reso ancora più difficile sgretolare il muro della fermezza. Senza avvertire il prigioniero, le Br decisero invece di rendere nota la lettera. «Ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana)… Gli è stato concesso ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume la rendiamo pubblica», spiegarono i brigatisti nel comunicato n. 3. Fu un errore clamoroso. E’ noto che Moro reagì con disappunto e delusione, probabilmente con disperazione, certo sentendosi tradito. Da parte delle Br fu uno sbaglio tremendo, dettato probabilmente dallo stesso errore di valutazione che le aveva spinte a sequestrare Moro senza neppure chiedersi come sarebbe stato poi politicamente un’operazione così deflagrante: la convinzione che, avendo in mano il capo del fronte nemico, lo Stato non avrebbe potuto in nessun caso fare a meno di trattare. Le conseguenze di quello sbaglio condizionarono da quel momento in poi tutto, e forse determinarono l’esito della vicenda. I giornali e la politica reagirono esattamente come aveva previsto Moro. Una raffica di titoli e dichiarazioni che ripetevano tutti la stessa affermazione: quello non è il vero Aldo Moro. Un coro unanime: «Messaggio chiaramente estorto», «Testo autografo ma stile diverso da quello dello statista». «Una lettera estorta a Moro», «Moro dice di scrivere costretto dalle Br». Moro non aveva e non doveva avere diritto di parola e di intervento nella partita che aveva per posta in gioco la sua pelle. Non lo si poteva prendere in considerazione perché le sue parole erano ‘ estorte’ e quando non fu più possibile attaccarsi a questo appiglio si passò a proclamarlo matto. Per lo Stato moro era morto il 16 marzo e le cose non sono cambiate. Dopo quarant’anni sull’Aldo Moro dei 55 giorni resta calata una cappa di piombo.
QUELLO CHE TORNA...
Tutti i falsi misteri del caso Moro. Sono passati quarant’anni dall’uccisione del presidente della DC e si continua a parlare di teorie del complotto: ma di “misteri” in realtà ce ne sono pochissimi, scrive Davide Maria De Luca su "Ilpost.it" mercoledì 9 maggio 2018. A 40 anni dalla morte di Aldo Moro, la verità sul suo sequestro e sul suo omicidio è stata largamente accertata. Il presidente della Democrazia Cristiana fu rapito dalle Brigate Rosse, un’organizzazione terroristica di estrema sinistra che voleva innescare una rivoluzione comunista. Fu tenuto prigioniero per 55 giorni in un appartamento in via Montalcini, a Roma. Il governo rifiutò qualsiasi ipotesi di trattativa con le BR e fu sostenuto nella sua scelta dalla maggioranza dei partiti, dei sindacati e dei grandi quotidiani. Quando le richieste dei sequestratori non furono esaudite, i brigatisti Mario Moretti e Germano Maccari uccisero Aldo Moro con undici colpi di arma da fuoco. Il corpo del presidente della DC venne ritrovato alle 13 del 9 maggio 1978 nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a pochi passi dalla sede del suo partito. Eppure, secondo una credenza largamente condivisa, non è questo quello che accadde nei 55 giorni del sequestro: la cosiddetta “verità ufficiale” sarebbe come minimo incompleta e al peggio profondamente lacunosa. Le BR non avrebbero agito da sole e i “reali mandanti” del delitto non sarebbero ancora stati scoperti. Come ha scritto il giornalista Andrea Colombo nell’edizione aggiornata del suo libro Un affare di stato, «il rapimento Moro nasconde trame imperscrutabili che coinvolgono praticamente tutti gli attori in campo sul teatro italiano e mondiale: la CIA, la Stasi, i servizi segreti cecoslovacchi, il Mossad, la P2, i servizi italiani deviati, Gladio, lo IOR vaticano, un misterioso servizio supersegreto detto “anello”, la mafia, la ‘ndrangheta, la banda della Magliana e i palestinesi». Nei 40 anni trascorsi dal sequestro, dietrologi e teorici del complotto hanno percorso ogni sorta di pista o traccia, l’una in contraddizione con l’altra, uniti soltanto dalla certezza che la verità di quella vicenda sia ancora in larga parte celata. Ma come scrisse venticinque anni fa il giornalista Giorgio Bocca, «bisogna ignorare tutto delle BR per andare avanti con simili assurde supposizioni». Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, le dietrologie poggiano su falsi misteri, frutto di mancanza di approfondimento sui documenti dell’epoca, di racconti fantasiosi di testimoni inaffidabili o della volontà di vedere a tutti i costi qualcosa di strano in situazioni altrimenti normali. Dopo 40 anni di indagini è importante provare a smentire alcuni dei falsi misteri che si sono dimostrati più difficili da debellare.
La misteriosa doccia di via Gradoli. Nessun elemento del caso Moro ha attirato dietrologie come il covo dell’organizzatore del sequestro, il brigatista Mario Moretti, situato in via Gradoli. E nulla di ciò che accadde in quella strada nell’estrema periferia settentrionale di Roma ha prodotto tanti interrogativi come la fortunosa scoperta del covo, avvenuta il 18 aprile, un mese dall’inizio del sequestro, quando per un allagamento in bagno iniziò a far filtrare acqua nell’appartamento sottostante. I vicini chiamarono i vigili del fuoco che fecero irruzione e non faticarono a capire dov’erano finiti: armi, munizioni e materiale delle BR erano sparsi ovunque. I brigatisti raccontarono che la compagna di Moretti, Barbara Balzerani, era molto distratta e aveva dimenticato aperto il rubinetto della doccia. Una fessura nelle mattonelle del muro avrebbe fatto colare l’acqua fin al piano di sotto causando la scoperta del covo. Ma secondo la versione di questa storia che ancora oggi è più diffusa, l’allagamento non era il frutto di una casualità e la distrazione di Balzerani fu solo un’invenzione per coprire la verità: l’allagamento e quindi la scoperta del covo sarebbero stati organizzati appositamente dagli stessi brigatisti. La prova di questo complotto sarebbe il bizzarro stratagemma che secondo molte ricostruzioni avrebbe causato l’allagamento: una scopa era stata messa di traverso alla vasca da bagno, il manico della doccia agganciato al bastone e il getto puntato contro una fessura tra le mattonelle che coprivano il muro. È certamente possibile che un terrorista dimentichi una doccia aperta, ma non che metta insieme per caso una costruzione così complessa. Decine di giornalisti, magistrati e scrittori si sono interrogati su questo dettaglio: perché le BR decisero di far scoprire il loro covo usando questo complicato trucco? Che messaggio volevano comunicare? E a chi? Secondo alcuni, le BR sapevano di essere sorvegliate dai servizi segreti e facendo ritrovare il covo di via Gradoli vollero comunicare che se ne erano accorti. La conseguenza sarebbe che tra le BR e i servizi segreti c’era un qualche tipo di accordo segreto che suggerisce la presenza di ancor più oscuri e inconfessabili misteri. Altri ancora, invece, non si spingono a sostenere complesse teorie, ma indicano lo stratagemma come uno dei molti misteri ancora insoluti del caso Moro. Tutte queste teorie hanno un problema in comune: la storia della scopa e della doccia è falsa. A scoprirlo è stato Vladimiro Satta, archivista del Senato e per 13 anni assistente della Commissione di indagine parlamentare sulle stragi, una delle cinque commissioni che si sono occupate del caso Moro. La scoperta di Satta risale ai primi anni Duemila, quando stava raccogliendo materiale per quello che sarebbe diventato il suo primo libro sul caso Moro. Mentre consultava gli atti della prima Commissione Moro (che operò dal 1980 al 1983) si imbatté nelle fotografie originali scattate dai poliziotti che la mattina del 18 aprile entrarono nel covo di via Gradoli. Guardandole, ha raccontato Satta al Post: «Mi meravigliai. Fino ad allora, avevo preso per buona la tesi secondo cui la scoperta del covo di via Gradoli era stata provocata ad arte», ma le fotografie del bagno non mostravano affatto lo stratagemma della scopa e della doccia: «Il telefono della doccia era al suo posto, attaccato al gancio sul muro, mentre la scopa era da un’altra parte!». Satta a quel punto controllò anche gli altri documenti disponibili su quella giornata ed ebbe una seconda sorpresa: nessuno citava scope o docce sistemate in maniera inusuale, né i vigili del fuoco nei loro primi rapporti, né la polizia nei suoi. Il dettaglio non compariva nemmeno nei resoconti dei quotidiani pubblicati nei giorni successivi. L’unico riferimento allo stratagemma si trova in una frase ambigua, pronunciata dal maresciallo dei vigili del fuoco Giuseppe Leonardi nel corso di un interrogatorio da parte di un giudice avvenuto mesi dopo la perquisizione. «Abbiamo trovato il rubinetto della doccia aperto con getto forte», raccontò Leonardi. «Esso era appoggiato ad una scopa che si trovava nell’interno delle vasca». La frase è molto strana: sembra difficile che il “rubinetto” della doccia, cioè la parte con le manopole che serve a regolare il flusso d’acqua, possa essere “poggiata” su una scopa, visto che solitamente è un elemento fisso e attaccato al muro. Semmai la scopa può essere poggiata al rubinetto, come infatti sembrerebbe essere nelle fotografie. Per anni, però, alle parole di Leonardi è stata data un’altra interpretazione: “rubinetto” è stato letto come sinonimo di “soffione”, cioè la parte dalla doccia dalla quale esce l’acqua. In questa ricostruzione, quindi, il “soffione” è appoggiato al manico di scopa, dando origine alla bizzarra creazione così spesso raccontata. Ma per dare credito a questa teoria bisogna ignorare tutta la parte successiva della testimonianza di Leonardi, quella in cui spiega che il “soffione” della doccia si trovava nell’esatta posizione mostrata dalle foto scoperte da Satta, e cioè agganciato nella sua posizione normale. E bisogna ignorare anche le fotografie e le testimonianze del giorno della perquisizione, in cui nessuno notò alcunché di strano nel bagno dell’appartamento. Quando ritrovò le fotografie, Satta si stupì che nessuno le avesse notate fino a quel momento. «Se dunque per circa 20 anni tanti scrupolosi osservatori non si sono accorti che agli atti c’erano foto, documenti e dichiarazioni testimoniali che demolivano l’ipotesi di un allagamento intenzionale», ha raccontato al Post, «a maggior ragione si concederà che è ben possibile che la mattina del 18 aprile Barbara Balzerani non si sia accorta di avere lasciato un rubinetto aperto».
Altri misteri di via Gradoli. Quello dell’allagamento è soltanto uno dei molti “misteri” che circondano il covo di Mario Moretti. Satta se ne è occupato nei tre dettagliati volumi che ha dedicato a sfatare i falsi misteri del caso Moro. Oggi racconta di sentirsi come un fact-checker, un giornalista specializzato nello scovare le notizie false. Restando a via Gradoli, la più citata tra le notizie false in circolazione, dopo quella della doccia, è probabilmente la perquisizione del 18 marzo 1978, quando due giorni dopo il sequestro un gruppo di poliziotti arrivò proprio davanti all’interno dove abitavano Moretti e Balzerani, bussò alla porta con l’intento di perquisire l’abitazione e, non ricevendo risposta, se ne andò. Come mai gli agenti arrivarono a un passo da un importantissimo covo delle BR e all’ultimo istante decisero di non sfondare la porta? Secondo i dietrologi è un indizio del fatto che qualche forza oscura non voleva che il covo venisse scoperto. In realtà, come ha dimostrato Satta, sulla perquisizione del 18 marzo abbiamo tutte le informazioni che uno storico potrebbe desiderare: i rapporti scritti degli agenti che vi presero parte, le loro testimonianze, quelle dei loro superiori e quelle degli abitanti del palazzo che furono interrogati quel giorno. La prima cosa da chiarire è che quella del 18 marzo non era una perquisizione mirata e nessuno pensava di trovare qualcosa di specifico in via Gradoli. Era una delle migliaia di perquisizioni che si fecero a Roma e in tutta Italia nei giorni dopo il sequestro. Soltanto nella zona di via Gradoli, in quei giorni furono visitati dalla polizia 30-40 palazzi. Per quanto riguarda il mancato sfondamento della porta, la spiegazione del mistero è abbastanza semplice ed è stata riferita dagli stessi agenti che svolsero la perquisizione. È vero che all’epoca l’ordine era sfondare le porte in caso di mancata risposta da parte degli occupanti, ma questa disposizione non venne mai realmente messa in pratica. Sfondare una porta significava dover lasciare un agente a presidiare l’appartamento fino al ritorno degli occupanti (e rimborsare il danno, in caso non si fosse trovato nulla). L’allora questore di Roma spiegò che «se fossero stati aperti tutti gli appartamenti degli assenti, non si sarebbero avuti uomini sufficienti per poterli piantonare e difendere dai ladri». Un’altra notizia falsa che si sente spesso circolare su via Gradoli è quella in cui si parla di misteriosi appartamenti dei servizi segreti situati proprio nel palazzo che ospitava Moretti e Balzerani (secondo alcuni sarebbe stato addirittura il covo di Moretti ad essere di proprietà dei servizi, il che ovviamente è falso). In realtà la storia è profondamente diversa: nel 1979 e poi nel 1986, cioè dopo il sequestro Moro, il prefetto Vincenzo Parisi (che sarebbe divenuto vicedirettore del SISDE nel 1980) acquistò alcuni appartamenti nella via e li intestò alle figlie. Uno degli appartamenti del palazzo di Moretti, inoltre, era di prorietà di una società, la Gradoli Spa, che a sua volta era di proprietà di un’altra società immobiliare, la Fidrev, con cui il ministero dell’Interno aveva avuto rapporti. Ma la Fidrev non era una società del ministero: era una società che alcuni funzionari del ministero avevano utilizzato e di cui si fidavano. Non esiste alcuna prova di collaborazioni tra il ministero e la Fidrev o la Gradoli Spa per quel che riguarda via Gradoli. In altre parole, all’epoca del sequestro in via Gradoli non c’era alcuna base dei servizi segreti. E anche ci fosse stata, non è chiaro che vantaggio avrebbero avuto le BR o i servizi segreti a mettere vicine le proprie basi. Ad aggiungere altri misteri ancora ci hanno pensato negli anni parecchi personaggi, spesso già condannati per reati di mafia, che con dieci e a volte venti anni di ritardo hanno sostenuto che all’epoca conoscevano perfettamente l’ubicazione del covo di via Gradoli e di averne informato i loro confidenti negli organi di polizia. Nessuno di loro, però, ha mai fornito prove delle sue affermazioni né sono stati trovati ulteriori riscontri.
I superkiller di via Fani. Oltre a via Gradoli e ai suoi misteri, i dietrologi hanno appuntato le loro attenzioni su un altro episodio: l’agguato di via Fani, quello in cui il 16 marzo del 1978 venne rapito Aldo Moro e furono uccisi i cinque uomini della sua scorta. Secondo i dietrologi, le BR non avrebbero mai potuto avere la capacità militare di neutralizzare la scorta senza ferire Moro. Per questa ragione viene ipotizzata la presenza in via Fani di un “super killer”, inviato – a seconda della versione – dal KGB, dalla CIA o dai servizi segreti italiani. Sarebbe stato lui, con la sua elevata conoscenza delle armi, a garantire il successo di un’operazione così complicata. In realtà, queste obiezioni sembrano tutte provenire da persone che hanno una scarsissima competenza militare. Come hanno dimostrato le perizie, i brigatisti spararono a distanza estremamente ravvicinata e in alcuni casi erano così vicini alle auto della scorta da poterle toccare. A quella distanza è praticamente impossibile sbagliare, come raccontarono gli stessi brigatisti. Moro, inoltre, si trovava da solo sui sedili posteriori dell’auto di testa ed era quindi molto difficile colpirlo mentre si prendevano di mira gli agenti a un metro o poco più di distanza. I consulenti interpellati nel corso dei processi e dei lavori delle Commissioni conclusero che la preparazione tecnico-militare di chi aveva compiuto l’agguato «si può definire di livello medio, acquisibile con normali e non troppo frequenti esercitazioni».
Altri sequestri. Spesso gli stessi dietrologi fanno un passo indietro rispetto all’analisi delle minuzie delle indagini e del comportamento dei brigatisti. Il problema, sostengono alcuni, è a monte: qualcosa non torna nel modo in cui il governo avrebbe gestito il sequestro Moro al suo livello più alto. Sarebbe questa eccezionalità nello svolgimento del sequestro a giustificare le analisi dei dettagli più apparentemente irrilevanti alla ricerca di incongruenze nella versione ufficiale della storia. Ma per sapere se davvero il rapimento di Moro fu “sui generis” bisognerebbe confrontarlo con altri rapimenti simili avvenuti nello stesso periodo. Ed è proprio questo l’esercizio compiuto da Satta nel suo volume del 2006, Il caso Moro e i suoi falsi misteri. Passando in rassegna i sequestri che avvennero in quegli anni in Italia e all’estero, Satta ha dimostrato che in realtà nella gestione di quello di Moro non ci fu nulla di particolarmente strano. Secondo i dietrologi il problema è che la “linea della fermezza”, cioè la decisione del governo di non trattare con le BR, fu un elemento anomalo e inusuale del caso Moro. La ritrosia del governo a trattare, quindi, non può che essere giustificata dal fatto che “qualcuno” voleva Moro morto. In realtà un’identica “linea della fermezza” era stata adottata già quattro anni prima, quando le BR avevano sequestrato il magistrato Mario Sossi. Come Moro, anche Sossi scrisse delle lettere dalla sua prigionia in cui esprimeva la sua sfiducia negli investigatori e, sostanzialmente, chiedeva di accettare le richieste dei brigatisti. Il governo respinse ogni possibilità di accordo e quando sembrò che la magistratura fosse pronta a cedere al ricatto, liberando alcuni brigatisti detenuti, il ministro dell’Interno fece circondare il carcere dalla polizia per evitare qualsiasi scarcerazione. La “linea della fermezza” non era all’epoca un’esclusiva italiana. Quando, nel 1977, il gruppo terrorista di estrema sinistra RAF rapì il capo degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer in un’operazione del tutto simile a via Fani (ulteriore dimostrazione che per rapire qualcuno non servono super killer dei servizi segreti), il governo tedesco rifiutò ogni trattativa e Schleyer fu ucciso dai suoi rapitori. Certo, in Italia ci furono eccezioni. In molti sottolineano che tre anni dopo il sequestro Moro, nel 1981, il rapimento dell’assessore della Campania Ciro Cirillo finì con la liberazione dell’ostaggio in seguito al pagamento di un riscatto. Ma in realtà anche durante il sequestro Cirillo il governo adottò la linea della fermezza, almeno in pubblico. L’assessore fu liberato perché le BR accettarono in segreto il pagamento di un riscatto. Un tentativo simile era stato fatto anche durante il sequestro Moro, quando il Vaticano raccolse con la tacita approvazione del governo un miliardo e mezzo di lire per riscattare Moro. All’epoca, però, le BR preferirono rifiutarsi di trattare, poiché quel che gli interessava non era il denaro ma un riconoscimento politico.
Storie assurde e improbabili. La cosa che colpisce, studiando il caso Moro, è che nel corso degli anni non hanno ricevuto credito soltanto teorie superficialmente credili o almeno plausibili. La stampa, ma anche giudici e membri delle Commissioni di indagini, si sono occupati a lungo anche di storie così assurde che farebbero sorridere se non riguardassero una vicenda così tragica. Una delle più grottesche è quella di Antonino Arconte, pregiudicato per calunnia e traffico di stupefacenti, che sostiene di aver fatto parte di una misteriosa organizzazione segreta che tra le sue altre rocambolesche attività si occupò anche del sequestro Moro. Arconte, in particolare, sostiene che i servizi segreti sapessero in anticipo del sequestro Moro. La ragione per cui ha fatto questa affermazione così grave ha avuto una grande risonanza sui media, e ha ricevuto considerazione persino dalla famiglia Moro: per questo merita di essere racconta per esteso. Nei primi anni Duemila, cioè dopo 25 anni di silenzio, Arconte iniziò a sostenere che alcune settimane prima del sequestro Moro i servizi segreti gli affidarono un messaggio sigillato da consegnare al capo dell’intelligence italiana in Libano. Arconte decise di raggiungere il Libano in nave: non è chiaro perché visto che già all’epoca era molto più comodo farlo in aereo. Quando arrivò a destinazione il suo contatto dei servizi segreti, il tenente colonnello Mario Ferraro, lo raggiunse nella sua cabina e, davanti a lui, iniziò a leggere il messaggio. Nel mezzo della lettura però ebbe un’improvvisa esigenza fisiologica e, ha raccontato Arconte in uno dei suoi libri, «dovette correre al gabinetto». Per ingannare il tempo, Arconte tirò fuori da una custodia una cinepresa che aveva acquistato da poco e che aveva casualmente con sé. Racconta che provò lo zoom riprendendo varie parti della stanza e inquadrando tra gli altri i fogli lasciati sulla scrivania dal colonnello Ferraro. Quando il colonnello tornò, Arconte aveva già rimesso la cinepresa al suo posto. Soltanto molti anni dopo, sviluppando casualmente quei rullini, Arconte si sarebbe accorto di aver accidentalmente ripreso il contenuto del messaggio: era una richiesta ai servizi segreti di stanza in Libano di prendere contatti con i terroristi palestinesi in modo da aprire attraverso di loro una trattativa con le BR per liberare Aldo Moro. Ma questo, incredibilmente, veniva richiesto due settimane prima dell’effettivo rapimento di Aldo Moro. La storia di Arconte è stata ovviamente smentita. Il ministero della Difesa ha negato l’esistenza della struttura segreta di cui Arconte sostiene di far parte, così come quelli che avrebbero dovuto essere i suoi colleghi smentiscono di averlo mai conosciuto. Persino la descrizione fisica che Arconte dà del colonnello Ferraro è sbagliata. Nonostante questo, per molti Arconte resta un portatore di verità indicibili. Ancora più strana è la storia dell’ex carabiniere ed ex agente dei servizi segreti Pierluigi Ravasio, un altro dei sostenitori della teoria secondo cui le forze dell’ordine sapevano in anticipo del sequestro Moro. A dicembre del 1990, con più di dieci anni di ritardo sui fatti, Ravasio raccontò che all’epoca del sequestro lavorava in un gruppo segreto di investigatori agli ordini del colonnello Camillo Guglielmi (secondo Ravasio, il colonnello era morto da poco: una coincidenza provvidenziale, visto che non avrebbe potuto smentire il suo racconto). Il gruppo di investigatori, raccontò Ravasio, aveva scoperto che il rapimento di Moro era stato organizzato dalla Banda della Magliana e che, in cambio del servizio reso, i soliti “poteri occulti” avrebbero garantito copertura politica e giudiziaria ai criminali. Ma l’investigazione di Ravasio e dei suoi colleghi venne bloccata «per ordine di Cossiga e Andreotti» e i documenti e rapporti prodotti furono bruciati. Poco dopo le sue dichiarazioni, Ravasio fu convocato dai magistrati per fornire spiegazioni e si rimangiò tutto, forse perché conosceva la differenza tra il parlare alla stampa e parlare con un magistrato o forse perché nel frattempo aveva scoperto che il colonnello Guglielmi, in realtà, non era morto. Non tutti i misteri del caso Moro sono così sciocchi e superficiali e nella vicenda esistono ancora dettagli non del tutto chiariti. Per esempio non è ancora sicuro quanti fossero davvero i brigatisti che parteciparono alla strage di via Fani, mentre la loro rete di appoggi e complicità non è ancora emersa completamente. Non conosciamo tutti i dettagli la della storia del falso comunicato del lago della Duchessa, né sappiamo come e perché Romano Prodi venne a sapere nel corso di una “seduta spiritica” che il rapimento di Aldo Moro aveva qualcosa a che fare con la parola “Gradoli”. È molto difficile però che uno di questi elementi possa sconvolgere completamente la storiografia del caso Moro, che si basa oramai su una mole di testimonianze e documenti che hanno pochi rivali nella storia giudiziaria del nostro paese.
Una malattia italiana. “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro presidente della DC”. Così titolava a pagina tre il quotidiano Repubblica la mattina del 16 marzo 1978, il giorno del rapimento di Aldo Moro. Antelope Cobbler era il nome in codice di un politico italiano che nel 1968 aveva ricevuto tangenti dalla società produttrice di aerei Lockheed nel corso di quello che all’epoca era il più grave scandalo di corruzione nella storia italiana. Quando alle dieci di mattina uscì l’edizione straordinaria del quotidiano con la notizia del rapimento di Moro e del massacro della scorta, l’articolo era sparito e non se ne seppe più niente. Successivamente Moro fu dichiarato del tutto estraneo alla vicenda. In altre parole, ancora prima che iniziassero i 55 giorni della sua prigionia, Moro era già al centro di misteri che non hanno retto alla prova di un’attenta analisi. Nei quarant’anni successivi le indagini si sono moltiplicate e l’intera vicenda è stata sottoposta a uno scrutinio metodico che non ha tralasciato alcuna pista, per quanto ridicola e improbabile potesse sembrare. Del caso Moro si sono occupati direttamente o indirettamente dieci processi, cinque Commissioni parlamentari, decine di libri e centinaia di inchieste giornalistiche. È facile argomentare che nessun singolo episodio della storia italiana abbia mai attirato così tanta attenzione. È probabile che il minuzioso approfondimento svolto abbia pochi eguali in tutto il continente. Eppure la maggior parte dell’opinione pubblica continua a non essere soddisfatta. C’è sempre un’altra pista meritevole di approfondimento, una fonte non adeguatamente interrogata, un documento misteriosamente sparito. Ancora nel dicembre del 2017 la Commissione Moro-2 scriveva in una delle sue relazioni «nonostante i tanti anni trascorsi dai tragici avvenimenti [permane] una mancanza di verità rispetto a aspetti importanti della vicenda». Come però rilevano Satta e l’ex deputato del PD e membro della Commissione Fabio Lavagno nel loro libro Moro, l’inchiesta senza finale, la Commissione non è riuscita a trovare una singola prova o documento che possa testimoniare queste gravi “mancanze di verità”. Rimane quindi insoluto quello che forse è il mistero principale dell’intero caso Moro: perché la storia del suo rapimento si è trasformata in un’apparentemente inesauribile fonte di dietrologie. Storici e intellettuali ci hanno spesso visto qualcosa di legato in maniera peculiare alla società e alla cultura del nostro paese. All’inizio del loro volume, Satta e Lavagno citano una frase dell’intellettuale tedesco Hans Magnus Enzensberger: «L’Italia era preparata a credere a tutto ciò che accusava le classi dirigenti». Enzensberger si riferiva alle teorie del complotto che circondavano l’omicidio Montesi, un caso di cronaca degli anni Cinquanta nel quale si cercò sistematicamente di coinvolgere una serie di importanti personaggi della politica e dell’industria. Un’abitudine, quella di essere disposti a credere a qualsiasi accusa nei confronti delle classi dirigenti, che si è riproposta spesso anche in seguito. «All’indomani della strage di Piazza Fontana del 1969», ha raccontato Satta al Post, «si diffuse molto presto l’idea che si trattasse di una “strage di Stato”». Le indagini però hanno dimostrato che l’attacco, come altre stragi, fu compiuto dalla destra eversiva. Secondo Satta: «L’atteggiamento segnalato dall’intellettuale tedesco è ricorrente e, a mio parere, deriva da un pregiudizio negativo di molti italiani nei confronti dello Stato». La cosiddetta “trattativa Stato-mafia”sembra essere un’altra vicenda in cui dietrologie ed interpretazioni estensive delle sentenze della magistratura sono state dettate dal fatto che molti sono pronti a credere che lo Stato sia stato capace di compiere ogni sorta di crimine. Ma questa sfiducia non sembra estendersi al solo Stato: sono proprio l’Italia e gli italiani a non essere presi sul serio. Sembra questa infatti l’unica spiegazione alle numerose teorie che senza tirare in mezzo lo Stato italiano attribuiscono ai terroristi oscuri mandati stranieri, super killer sovietici o aiuti da parte del terrorismo internazionale. Già nei primi giorni del sequestro questa tendenza era oramai evidente. Come scrisse il 18 marzo il giornalista Alberto Ronchey: «La stessa efficienza spietata dei terroristi sarebbe prova che dietro c’è una mano straniera. Sono efficienti, dunque sono stranieri o diretti da stranieri. A questo è giunta la pubblica alienazione». Da parte sua, il capo del sequestro Mario Moretti commentò le teorie del complotto dicendo al giornalista Giorgio Bocca: «L’Italia ufficiale non si è mai rassegnata ad ammettere che l’azione era stata progettata e fatta da quattro operaiacci». Quarant’anni dopo quei fatti non ci sono più dubbi che furono proprio quei “quattro operaiacci” a rapire e uccidere Moro. Scegliere di non trattare con i terroristi fu una discutibile ma legittima decisione politica, che all’epoca era comune anche ad altri paesi, non un metodo per portare alla morte Moro e gli oscuri segreti di cui era custode. La fermezza fu una scelta difficile perché portò alla morte di un uomo innocente, ma fu presa in nome di un bene superiore: la resistenza dello Stato al ricatto dei terroristi.
I falsi “misteri” del sequestro Moro, scrive Davide Steccanella l'11 maggio 2018 su "Articolo21". L’ultimo in ordine di tempo a sbizzarrirsi è tale Ugo Mattei che firma oggi sul Fatto Quotidiano un articolo dal titolo “Due dubbi, una spiegazione” dove si ipotizza che Moro non sarebbe stato sequestrato in Via Fani e che sarebbe stato trattenuto nella base BR di Via Gradoli e non già nell’appartamento di Via Montalcini. Ultimo, perché in questi giorni siamo stati inondati di una marea di ricostruzioni “dietrologiche” del sequestro Moro finalizzate a ribadire che “dietro” alle Brigate rosse ci sarebbe stato necessariamente qualcun altro che l’avrebbe fatta franca. Ovviamente, non potendo neppure l’ennesima Commissione (SIC!) dare un nome a quel “qualcun altro”, si punta come sempre sugli asseriti “misteri” che inquinerebbero la ricostruzione fatta ai tempi da chi quel delitto ebbe invece effettivamente a commetterlo. E questo nonostante siano stati pubblicati in questi anni numerosi libri (vd. gli scritti di Satta, Armeni, Clementi, Persichetti ecc), che hanno puntualmente smentito, fino al più minuscolo dettaglio, la ridda del falsi misteri che tuttora vengono fatti passare per verità acquisite ma non importa. L’ondata italica della dietrologia è talmente forte da spazzare tutto quel che trova d’ostacolo sul proprio cammino. Molto in breve, e rimandando per l’approfondimento ai testi sopra citati, vediamo quali sarebbero, secondo la vulgata, i principali misteri, e perché sono dei giganteschi “falsi”.
1) La scelta del giorno 16 marzo sarebbe stata imposta dai nemici del compromesso storico perché quel giorno era previsto il voto di fiducia al monocolore Andreotti. Prima balla. Il sequestro di un alto esponente DC (individuato inizialmente nella terna Andreotti, Fanfani e Moro) era stato progettato da anni, tanto che ai primi pedinamenti romani partecipò anche Franceschini arrestato l’8 settembre 1974, come ci racconta lui stesso nel libro Mara Renato ed io, prima di trasformarsi nel più accanito dietrologo. Una volta individuato Moro per ragioni logistiche, era l’unico dei tre che non abitava in centro, il sequestro fu pianificato per processare lo Stato in risposta al processo al nucleo storico delle Brigate rosse che il 9 marzo era ripreso a Torino. E’ ulteriore balla che Moro avesse chiesto l’auto blindata perché temeva attentati da chi non voleva il compromesso storico ipotizzato da Berlinguer (ancora nel 1973 con i due articoli su Rinascita all’indomani del golpe cileno), perché Moro non voleva affatto “governare insieme al PCI”, ma voleva “sdoganarlo” come partito dell’arco democratico vista la situazione particolare delle piazze italiane nel 1977.
2) In Via Fani ci sarebbero stati anche altri soggetti non identificati oltre ai dieci brigatisti processati e condannati, visto che qualcuno da una moto sparò al parabrezza del teste Marini. Seconda balla. Il libro di Armeni, Questi fantasmi, smentisce con l’ausilio di foto e documenti d’archivio la testimonianza (falsa) di Marini, dimostrando che il suo parabrezza era già stato danneggiato prima di quel 16 marzo. Non occorrevano peraltro tiratori speciali, nè particolari esperti d’addestramento militare, per colpire a brevissima distanza delle persone intrappolate in un’auto e in ogni caso l’intera azione del 16 marzo, copiata da quella di qualche mese prima delle RAF tedesche per il sequestro Schleyler, è stata recentemente riprodotta e simulata su incarico dell’ultima Commissione, con tanto di mezzi laser, e ha confermato la validità della ricostruzione dei brigatisti.
3) Il luogo ove Moro fu tenuto prigioniero non sarebbe stato quello di Via Montalcini. Terza balla. Il tragitto da via Fani con l’ostaggio, puntualmente ricostruito con le due tappe intermedie per consentire i due cambi di auto e il trasferimento in una cassa di legno, e riscontrato in ogni minimo dettaglio dagli inquirenti, conduceva esattamente in quella zona, dove solo Moretti e Gallinari, tra i 10 brigatisti presenti in via Fani, conoscevano l’ubicazione dell’appartamento. L’appartamento infatti fu individuato dagli inquirenti solo 4 anni dopo grazie al pentimento di Savasta (neppure il grande pentito Peci sapeva dove fosse), il quale, arrestato in occasione della liberazione del generale Dozier, anche se pure lui non conosceva l’indirizzo, riferì che Moro era stato tenuto in una casa acquistata l’anno prima da Laura Braghetti (arrestata nel 1980), e così fu possibile risalire all’atto del 1977. Giunti in quell’appartamento, gli inquirenti rinvennero le tracce dell’intercapedine interna in cui fu ricavata la cella di Moro e che era stata smantellata 4 anni prima al termine del sequestro.
4) L’appartamento romano di Via Gradoli, dove durante il sequestro soggiornavano Moretti e Balzerani, era stato indicato ai carabinieri da Prodi ma i carabinieri furono mandati in un paese del viterbese. Quarta balla. L’appunto consegnato da Prodi, evidente frutto di una “soffiata” dato che la seduta spiritica era una scemenza, riportava effettivamente la parola Gradoli ma aggiunta alle parole Viterbo e Cascina indicata su un punto della strada nazionale che porta al paese di Gradoli, quindi è del tutto logico che si sia andati a cercare Moro lì, e non in una via di Roma.
5) Sempre l’appartamento di Via Gradoli, che fu la prima base romana affittata ancora nel 1975 dalle BR, fu fatto scoprire ad aprile dai brigatisti perché era stata lasciata a bella posta una doccia aperta della vasca su un manico di scopa appoggiato alla fessura del muro del bagno. Quinta balla, come chiunque può leggere sul rapporto redatto dai vigli del fuoco che ai tempi ebbero a fare l’intervento per la perdita d’acqua segnalata dalla vicina, come ha recentemente confermato uno di loro al giornalista Purgatori nel recente documentario di La 7, e peraltro quell’appartamento aveva già manifestato difetti segnalati tempo addietro all’amministratore. I brigatisti vennero a sapere della scoperta solo perché il TG mandò in onda il servizio e quindi evitarono di farvi ritorno. In ogni caso Moro non era mai stato in via Gradoli, e quindi anche il fatto, emerso al processo, secondo cui pochi giorni dopo il sequestro i carabinieri avrebbero controllato quello stabile senza abbattere la porta dell’appartamento dopo avere vanamente suonato il campanello, non avrebbe comunque consentito la liberazione dell’ostaggio.
6) Il falso comunicato numero 7, che secondo alcuni sarebbe stata la prova generale da parte dello Stato per verificare l’impatto sull’opinione pubblica in caso di uccisione di Moro e che indusse le ricerche sul lago ghiacciato della duchessa, fu fatto con diversa macchina da scrivere rispetto a quella usata dalle BR da un noto falsario romano, che non aveva nulla a che vedere con le Brigate rosse.
7) Il rinvenimento il 9 maggio della Renault rossa in via Caetani sarebbe avvenuto prima dell’orario ufficiale. Ennesima balla perché l’artificiere che a distanza di anni ha raccontato questa storia, Vitantonio Raso, è stato incriminato nel 2014 per calunnia dalla Procura di Roma, stesso reato per il quale l’anno prima era stato incriminato l’ex brigadiere GDF Giovanni Ladu per altro depistaggio.
8) Il mancato rinvenimento del 1978 nella base milanese di via Monte Nevoso di materiale riguardante il sequestro Moro, emerso nel 1990 dietro un calorifero, è dipeso dal fatto che i carabinieri non aprirono quel portello celato e del resto che mancasse qualcosa all’appello era stato segnalato dagli stessi brigatisti ad un processo, quando Maria Brioschi disse che in quella base c’era anche parecchio denaro (che qualcuno evidentemente si intascò).
9) La mancata indicazione iniziale agli inquirenti del terzo uomo di via Montalcini dipese dalla scelta, da parte di chi era già stato arrestato di preservare dalla galera Germano Maccari che fino al 1993 non era stato individuato come il possibile autore di quella firma di tale ing. Altobelli che compariva sul contratto di luce e gas. Ritenere che la mancata indicazione di un compagno dimostri che si sia voluta celare anche la partecipazione di apparati deviati dello stato è follia.
Va infine segnalato che: tutti i brigatisti hanno sempre escluso qualsiasi interferenza esterna, ivi compresi quelli che in seguito hanno deciso di dissociarsi, eccezion fatta che per Franceschini, ai tempi del sequestro Moro in galera da 4 anni, e che per sua stessa ammissione apprese la notizia del carcere di Torino, ancora oggi, dopo quasi 40 anni, l’organizzatore “manovrato” di quel sequestro, Mario Moretti, rientra tutte le sere nel carcere di Opera. Sarebbe questa la ricompensa per avere coperto i “poteri forti”? il fatto che “dietro” gli esecutori di quel sequestro non ci fossero misteriosi poteri occulti lo scrisse chiaramente e subito lo stesso Aldo Moro a Cossiga: “Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”. Detto questo, sono assolutamente certo che chi ancora dopo 40 anni non si rassegna all’assenza di gialli e complotti sarà del tutto disinteressato anche a leggere quel che ho scritto, ma mi pareva comunque giusto farlo.
“L'indicibile verità” sul caso Moro. Lo schema è sempre lo stesso: le acquisizioni processuali e l’indagine storica porterebbero a una soluzione che però non coincide con le peggiori supposizioni. Dunque la soluzione è apparente, se non falsa, scrive Massimo Bordin il 10 Maggio 2018 su "Il Foglio". A conferma di quello che qui si poteva leggere sul quarantennale dell’omicidio di Aldo Moro, sempre ieri, sul Tempo, è apparsa una intervista a Giuseppe Fioroni, presidente della ennesima commissione parlamentare sulla vicenda. L’intervista è servita al presidente Fioroni anche per annunciare l’imminente uscita di un libro, a sua firma insieme a quella della giornalista Maria Antonietta Calabrò, che fa il punto sulle acquisizioni della commissione. Il titolo è singolare: “Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta”. La verità si trova dunque nelle pagine del libro? La risposta di Fioroni è complessa. Da un lato, il presidente dell’ennesima – ma non ultima, visto che il caso non è chiuso – commissione, sostiene che essa ha comunque messo un punto fermo nella storia perché le sue relazioni sono state approvate all’unanimità. Dall’altro Fioroni parla di verità indicibili che non sono ancora state svelate. Si può in questa sede trascurare il possibile allargamento dell’antica contraddizione fra verità storica e verità giudiziaria a un nuovo tipo di verità, quella parlamentare. Conviene soffermarsi sull’uso particolare dell’aggettivo “indicibile” a proposito del quale il procuratore generale palermitano Roberto Maria Scarpinato dovrebbe cominciare a pretendere royalties, visto che ne è l’inventore. Lo schema in effetti è sempre lo stesso. Le acquisizioni processuali e l’indagine storica porterebbero pianamente a una soluzione che però non coincide con le peggiori supposizioni. Dunque la soluzione è apparente, se non falsa. E’ lo schema palermitano sulle stragi e sulla trattativa. Abbiamo imparato che funziona. Al di là dei fatti.
Il filo rosso tra la commissione Moro e la Trattativa. Le nuove rivelazioni di Paolo Persichetti a Franco Piperno aprono nuovi scenari sul rapimento del democristiano. Con un finale sorprendente, scrive Massimo Bordin il 28 Aprile 2018 su "Il Foglio". L’intervista di Paolo Persichetti a Franco Piperno pubblicata due giorni fa dal Dubbio getta un ulteriore fascio di luce sulla qualità dei lavori della ennesima commissione sul caso Moro. Gli onorevoli indagatori hanno a lungo fissato la loro attenzione su un palazzo di Via dei Massimi, una tranquilla strada del quartiere Balduina dove i brigatisti hanno abbandonato due auto utilizzate nell’attacco di via Fani. Nel palazzo poteva esserci una sede Br, questa la tesi. Siccome il palazzo dispone anche di un ampio terrazzo condominiale alla sua sommità e di un garage, qualcuno ha ipotizzato che Moro sia stato trasferito in elicottero. Ora l’intervista citata aggiunge un ulteriore particolare. Agli atti della commissione risulta un rapporto investigativo che parla della frequentazione di quel palazzo da parte di Franco Piperno che andava a trovare una giornalista tedesca dello Spiegel che vi abitava. Nel rapporto si ipotizza che il 16 marzo Piperno, non si sa se munito di cannocchiale, abbia seguito dal balcone di casa della giornalista l’agguato di Via Fani. La fonte citata è il portiere dello stabile. Anche gli onorevoli indagatori hanno esitato a valorizzare il rapporto investigativo. Se si compulsano gli atti della commissione Fioroni si trovano i nomi di chi ha investigato sul palazzo di Via dei Massimi e sulla giornalista tedesca. Si tratta del colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo e del sostituto procuratore della Procura nazionale antimafia, distaccato alla commissione Moro, Gianfranco Donadio. Investigatori che si ritrovano valorizzati dall’accusa nel processo Trattativa. Il mondo è piccolo.
Il caso Moro, antichi dubbi e zero prove. Un articolo sull’eccidio di Via Fani pubblicato dal Fatto e firmato dal professore Ugo Mattei riapre la tesi cospirazionista, scrive Massimo Bordin il 12 Maggio 2018 su "Il Foglio". A tutto c’è un limite, si usa dire, quando il limite viene superato. Più che di una prescrizione si tratta di una petizione di principio, come tale destinata a restare lettera morta. Per quanto il limite si sposti in avanti, accade che venga sistematicamente superato. Un po’ il contrario del paradosso di Achille e la tartaruga. Viene da pensarlo leggendo l’articolo sull’eccidio di Via Fani pubblicato ieri dal Fatto e firmato dal professore Ugo Mattei. Il professore per la verità mette subito le mani avanti, scontando in anticipo una prevista accusa di cospirazionismo ma non resiste alla tentazione di esplicitare un suo antico dubbio su come andarono davvero le cose. L’unica precauzione è un consulto preventivo, come racconta, con suo figlio, esperto di videogame. Le due domande da cui si parte sono antiche, coeve ai fatti. Come mai Moro non fu colpito? Perché nelle sue lettere non parlò mai della strage della sua scorta? Il professore ha sempre pensato a una risposta e ieri l’ha finalmente svelata. Moro fu rapito prima, mentre era a messa, da ignoti personaggi che, simulando una emergenza, l’avrebbero convinto a uscire da una porta secondaria. E la scorta? Ripartì senza Moro per poi cadere nell’imboscata, definita dal professore una “messinscena”, anche se i morti non si sono rialzati da terra. E Moro? Moro venne portato in Via Gradoli, dove viveva Moretti, poi sospettato, aggiunge maliziosamente il professore, come infiltrato da alcuni brigatisti, senza però mai prove. Come nessuna prova esiste che Moro sia stato tenuto a via Gradoli. Anche perché, pure volendo, non c’era proprio spazio. Non è vero che a tutto c’è un limite.
TUTTO QUELLO CHE NON TORNA.
Caso Moro, Francesco Pazienza e il suo Lodo: “Negli anni ’80 accordo con l’Olp. Gli aprivamo le porte del Vaticano”. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto una indiscrezione sulla testimonianza di Francesco Pazienza, ex agente segreto e faccendiere di grosso calibro, ascoltato come persona informata dei fatti dalla procura generale di Roma che ha aperto una nuova indagine sull’agguato di via Fani, scrive Stefania Limiti il 14 giugno 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Bocche cucite alla Procura generale di Roma dove è aperta una indagine sul caso Moro, in particolare sull’agguato di via Fani e sulla passeggiata mattutina del colonnello Camillo Guglielmi, ufficiale dei carabinieri e addestratore di Gladio, che si trovò in quel luogo preciso proprio mentre il commando brigatista scatenava l’inferno contro l’auto del presidente Dc e la sua scorta. Una parte dell’inchiesta riguarda traffici di armi e l’ombra di Stay Behind. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto una indiscrezione sulla testimonianza di Francesco Pazienza, ex agente segreto e faccendiere di grosso calibro, condannato per i depistaggi sulla strage di Bologna e per il crack del Banco Ambrosiano, ascoltato come persona informata dei fatti. Pazienza è recentemente salito alla ribalta delle cronache del processo bolognese per la strage del 2 agosto 1980 con un attacco frontale contro il generale Mario Mori. Una testimonianza, quella del faccendiere, che va oltre il caso Moro e che svela l’esistenza di un accordo, già battezzato Lodo Pazienza, che proseguì agli anni anni ‘80. La strategia di Aldo Moro nell’area del Mediterraneo e del suo Lodo, cioè l’accordo in base al quale l’Italia garantiva l’incolumità dei guerriglieri palestinesi in cambio dell’impegno a non usare mai il nostro territorio per azioni armate. Uno scambio con il quale il presidente Dc, che voleva ad ogni costo uno Stato palestinese indipendente, tendeva a ritagliare per l’Italia un posto di primo piano nell’area del Mare nostrum. Tornando a Pazienza, è noto che alla fine degli anni ‘70 e nel decennio successivo è stato protagonista indiretto (nel senso che non apparteneva a nessuna istituzione dello Stato ma agiva come se fosse lo Stato) dell’intelligence italiana, consulente del piduista capo del Sismi Giuseppe Santovito, e portatore dei suoi legami con personalità di spicco del mondo arabo e con quello dell’Oltretevere, oltre che di uomini dell’amministrazione americana. Aveva buoni contatti anche con il colonnello Stefano Giovannone, dominus dei nostri Servizi in Medioriente: una solida base di relazioni che gli permise di intavolare nuove trattative tra il gennaio e il marzo del 1981 con la direzione dell’Olp – come ha raccontato ai magistrati delegati della Procura generale di Roma – ottenendo la prosecuzione dei vecchi patti ma con una variante: voi lasciate fuori il nostro territorio dagli attacchi armati e noi vi apriamo le porte del Vaticano. Al tavolo ci sono Pazienza per conto dei Servizi italiani, Ibrahim Ayad, sacerdote del Patriarcato latino di Gerusalemme che fu tra i vecchi consiglieri del presidente palestinese Yasser Arafat, ed emissari del cardinale Achille Silvestrini. Il dialogo va avanti qualche mese, con la soddisfazione di tutte le parti in causa, e portò alla prima visita di Arafat in Vaticano risale al 15 settembre 1982. Tanto bastò a far esplodere l’ira di Israele contro la Chiesa cattolica: Menahem Begin, allora primo ministro, accusò il Papa di aver stretto “una mano sporca dio sangue di bambini ebrei innocenti”. Esponenti della Procura generale, interpellati, si trincerano dietro un no comment: “Stiamo lavorando”, dicono.
Le tante verità mancanti del caso Moro e le complicità internazionali svelate da Calabrò, scrive Roberto Arditti il 13/06/2018 su "Formiche". Maria Antonietta Calabrò, coautrice del libro "Moro, il caso non è chiuso", spiega come la ricostruzione ufficiale sul rapimento e sull'omicidio del presidente Dc non regga. E sul perché moltissimo di questa vicenda sta negli equilibri internazionali. Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro sono innanzitutto una tragica e monumentale vicenda di intrecci internazionali, drammaticamente emblematica dei fragili equilibri del secondo dopoguerra. Maria Antonietta Calabrò ha scritto con Giuseppe Fioroni un libro solido e assai utile (Moro, il caso non è chiuso, Lindau), facendo leva sull’immensa mole di documenti che l’apposita commissione parlamentare ha trovato nella legislatura appena conclusa. Non si tratta solo di storia, ma di stringente attualità, poiché le dinamiche internazionali sono tutt’oggi lì da osservare e i nostri tempi sono decisamente figli di quelli. L’Italia agisce nel contesto che c’è, oggi come allora. Moro governava e faceva politica, ben consapevole dei limiti (e dei rischi dell’esercizio).
Questo libro ha il pregio di mettere tutto in fila, con grande chiarezza ed assoluta onestà intellettuale. L’intera vicenda Moro mostra una immensa attività internazionale attorno a quella storia. Come possiamo riassumere questo scenario?
«In modo semplice, nel senso che i nuovi documenti desecretati a partire dal 2014, lavorati e studiati dalla Commissione Moro2, dimostrano che nel corso del sequestro (e poi anche negli anni successivi) si muovono per recuperare i documenti di Moro tutti i servizi segreti rilevanti ai fini della collocazione internazionale del nostro Paese. L’Italia è in Occidente e fa parte della Nato, però ha i suoi rapporti con l’est e con la Russia, così come li aveva al tempo con l’Unione Sovietica. Moro si è trovato in mezzo a uno scacchiere molto composito e non è riuscito a gestirne tutti gli aspetti. Questo ha creato probabilmente i presupposti del sequestro, attribuibile alle azioni di Br e Raf tedesche collegate alle frange più estreme del terrorismo palestinese e poi l’esito tragico del sequestro stesso».
Noi oggi possiamo dire quindi che le ragioni della morte di Aldo Moro vanno cercate più fuori che dentro l’Italia?
«Si è creato un gioco di specchi per cui alla fine quelli che sembravano gli amici, cioè le frange estreme palestinesi con cui l’Italia stava trattando per la liberazione di Aldo Moro, hanno condotto alla morte del prigioniero. D’altra parte è agghiacciante considerare che il lodo Moro, cioè l’accordo fatto dai nostri servizi segreti con i palestinesi per mettere al riparo il Paese da attentati terroristici è servito a tutti tranne che ad Aldo Moro. Cioè a Aldo Moro che è stato rapito nonostante il lodo Moro ed è morto nonostante il lodo Moro».
Ha senso parlare di uno Stato nello Stato, o, per dirla all’inglese, di un Deep State?
«Si che ha senso. Ve n’è traccia evidente nelle centinaia di documenti agli atti della Commissione Moro 2 che abbiamo esaminato nel libro. Cioè oltre allo Stato espressione delle elezioni, dei vari leader politici, dei rapporti tra i partiti, (penso al ruolo di Craxi durante i 55 giorni e poi naturalmente alla Dc e al Pci) ne esiste uno più profondo che gestisce anche la collocazione internazionale dell’Italia con i relativi accordi. Il tema forse più drammatico evidenziato nel libro è che il generale Dalla Chiesa scrive al ministro dell’Interno, già nel gennaio 1979, esprimendo tutto il suo allarme per il fatto che le Brigate Rosse a un certo punto iniziano a parlare di una struttura segreta della Nato, cioè Gladio. In effetti dal ministero della Difesa, durante il sequestro Moro, sono scomparsi documenti riguardanti i piani top secret della rete Nato Stay Behind in Europa, ed essi sono arrivati In mano alle Brigate Rosse e, con altissima probabilità, furono ritrovati nel loro covo di via Fracchia a Genova dai carabinieri dal Generale Dalla Chiesa».
Veniamo al rapimento di Aldo Moro. Cosa non torna nella versione ufficiale di quella maledetta giornata?
«Due elementi essenziali. Il primo. Dalla scena dell’agguato di via Fani scompaiono due terroristi della Raf. Questo ormai si può dire con certezza. Sono due persone a bordo di una moto tra cui una donna con lo chignon: ne parlano testimoni oculari mai ascoltati nelle istruttorie giudiziarie. Può sembrare pazzesco, poiché già allora si sapeva dei collegamenti tra le Br e Raf. Allora perché tanta cura nel non citare i terroristi tedeschi? Però nessuno parla di quei due, men che meno la versione ufficiale dei brigatisti consegnata nel 1990 a Cossiga. Il motivo è nel contesto internazionale del sequestro. Perché la Raf vuol dire Germania Est e vuol dire Stasi, cioè i servizi segreti gestiti da Markus Wolf. Non a caso le Br chiamano il sequestro “operazione Fritz”: un chiaro riferimento ad un contesto internazionale, altro che il ciuffo bianco nei capelli di Moro. Il secondo elemento è che le autovetture che si allontanano dalla scena di via Fani vengano ritrovate in via Licinio Calvo nell’arco di tre giorni. Cioè la 132 di Moro e le due 128 usate dai terroristi per fuggire da Via Fani vengono lasciate in quella via in sequenza, non nello stesso momento. Quindi c’è in zona un luogo “sicuro” che le ha custodite. Con altissima probabilità è il garage di via Massimi 91, forse anche la prigione di Aldo Moro, almeno per i primi dieci giorni. Ma forse anche per maggiore tempo. Lo stabile di via Massimi 91 aveva una proprietà molto particolare, cioè lo Ior, la banca vaticana».
E per quanto riguarda i 55 giorni di prigionia qual è l’elemento più importante che non torna?
«Un uomo tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni in una striscia di stanza di un metro per tre (com’era la prigione del popolo “ufficiale” di via Montalcini 8) senza la possibilità di lavarsi, di muoversi, di avere uno spazio idoneo per scrivere tutto quello che ha scritto Moro. Un uomo ridotto a passare tutta la giornata steso su una brandina non presenta il tono muscolare di Aldo Moro evidenziato dall’autopsia. L’uomo che arriva sul tavolo dell’obitorio è un uomo che ha potuto muoversi, camminare, sedersi a un tavolo. Un prigioniero detenuto così, soprattutto, non può avere la lucidità per interloquire indirettamente con il colonnello Giovannone come si dimostra nel libro, non può gestire la complessa trattativa che lo riguarda, dentro e fuori la Dc. Per questo la commissione Moro2 ha puntato il suo faro sul complesso di via Massimi 91, dove sull’attico della palazzina B era stato ricavato un vero e proprio mini appartamento. Un luogo su cui una fonte altamente qualificata della Guardia di Finanza aveva richiamato l’attenzione già dai primi giorni del sequestro. Io l’ho chiamato il checkpoint Charlie di Roma. Quell’edificio è la linea di confine di quegli anni tormentati. Arriviamo all’esecuzione del presidente della Dc. Anche qui la versione ufficiale non regge. I carabinieri hanno dimostrato che Moro non può essere stato ucciso nel garage di via Montalcini: quel garage è un box troppo piccolo per essere stato la scena del delitto. I primi colpi lo raggiungono quando lui è seduto probabilmente fuori della Renault Rossa e vede perfettamente chi gli sta sparando con la Scorpion. Poi, già ferito gravemente, Moro viene messo nel bagagliaio e nuovamente raggiunto da diversi colpi, l’ultimo dei quali è della pistola Walther calibro nove, cioè quella pistola che sarà recuperata dai carabinieri di Dalla Chiesa a Roma nel 1980 dopo che venne smantellato il covo di via Fracchia. Uno strano destino quello di quest’arma, che è sempre rimasta un po’ sullo sfondo del delitto (secondo i brigatisti non avrebbe mai sparlato perché si inceppò) tanto che solo dal 2016 sappiamo dai riscontri del Ris dei carabinieri che è una delle due armi che ha ucciso Moro».
L’omicidio del generale Dalla Chiesa è secondo te collegato al caso Moro?
«Questo hanno sostenuto diversi testimoni, come la signora Setti Carraro al processo di Palermo. Poi c’è l’assassinio di Carmine Pecorelli, che era molto informato sull’andamento del sequestro e soprattutto sul recupero delle carte. Già, perché è proprio Pecorelli che aiuta Dalla Chiesa a ritrovare i documenti di Aldo Moro nel carcere di Cuneo. Poi rimangono molti interrogativi sulla morte del generale Galvaligi ed anche su quella del falsario della Banda della Magliana Antonio Chichiarelli, che compie due grandi furti, alla banca Brink’s Securmark e a Villa Abalmelek. Il primo gli porta nelle tasche 35 miliardi delle vecchie lire, ma probabilmente anche molti documenti, facendo parte la banca della galassia Sindona. Il secondo nell’abitazione dell’ambasciatore russo, dove vengono trafugati quadri di un certo valore, ma che probabilmente non erano il primario oggetto di interesse. Pochi mesi dopo quei furti Chichiarelli muore».
"MORO, IL CASO NON E' CHIUSO". Moro ha guardato negli occhi chi gli sparava ed è morto dopo un'agonia molto lenta. Il box di via Montalcini una scatola troppo piccola per essere il luogo del delitto, scrive il 9 maggio 2018 su "Huffingtonpost.it" Maria Antonietta Calabrò. Oggi, 40 anni fa, veniva ucciso Aldo Moro. Dove? Come è stato ucciso? Chi lo ha ucciso? Quando è stato ucciso? Contrariamente a quanto si possa pensare l'assassinio di Moro è un delitto non ancora definitivamente risolto. Alla luce dei risultati delle nuove tecniche d'indagine scientifica è un vero e proprio cold case. Una riscrittura della scena e delle modalità del delitto è ormai necessaria dopo le molte novità emerse grazie alle nuove indagini affidate al RIS (Reparto di investigazioni scientifiche) dei Carabinieri dalla Commissione parlamentare d'inchiesta Moro-2, presieduta da Giuseppe Fioroni, che ha chiuso i suoi lavori il 28 febbraio 2018. Esse colmano un clamoroso vuoto di investigazione: sono accertamenti che nessun inquirente aveva mai ritenuto di effettuare prima del maggio 2017. Soprattutto, il delitto - così come è stato ricostruito su basi scientifiche a quarant'anni dai fatti - acquista i connotati di un assassinio feroce, veramente efferato. I brigatisti hanno sempre affermato che Moro morì sul colpo. Questo non è assolutamente vero. Sul bavero sinistro della giacca di Moro il RIS ha trovato quella che è stata definita dal suo Comandante, una "particolarità": lì c'è tutt'oggi traccia di un rigurgito di saliva, che la vittima ha espettorato ancora vivo. Già, secondo l'autopsia, eseguita il 9 maggio 1978, Moro sarebbe morto almeno quindici minuti dopo che gli hanno sparato. Alle 19 di sera del 9 maggio 1978 quando inizia l'esame necroscopico il rigor mortis non è ancora completo, il che vuol dire che, sia pur in modo molto approssimativo, non sono passate 12 ore dal decesso. Ma "un morto parla, se lo si lascia parlare", ebbe a dichiarare pochi giorni dopo l'assassinio un alto funzionario di Polizia, e il RIS, a seguito dei suoi ulteriori approfondimenti, è giunto alla conclusione che la morte è sopraggiunta sicuramente dopo un'agonia molto lenta. La narrativa della morte sul colpo non è solo un modo, diciamo così, per "ammorbidire" il delitto, con una bugia che potrebbe sembrare pietosa. Essa è servita a celare la verità su come siano andati realmente i fatti. I primi tre colpi colpiscono Moro a bruciapelo, vengono sparati contro una vittima vigile, a volto scoperto, non bendata né tanto meno avvolta dalla famosa coperta che coprì il cadavere nel bagagliaio della Renault 4. Moro dunque guarda in faccia i suoi assassini. Guarda negli occhi chi gli sta sparando. Muore per emorragia interna, avendo perso quasi un litro di sangue (900 cl). Sangue di cui c'è una grossa chiazza sul pianale del bagagliaio della Renault rossa, insieme ai liquidi organici rilasciati al momento della morte. Anche chi spara guarda Moro negli occhi, e la vittima alza la mano sinistra per difendersi istintivamente dalla mitraglietta. Soprattutto, oggi sappiamo che - quando inizia ad essere colpito - Moro non è disteso dentro il cofano della famosa Renault Rossa in cui fu trovato cadavere in via Caetani, perché - ormai è un fatto certo - i colpi arrivano non dall'alto verso il basso, come sarebbe avvenuto in quel caso, ma al contrario dal basso verso l'alto. Tanto da far pensare che l'esecuzione possa addirittura essere cominciata quando la vittima era in piedi. Un'esecuzione barbara e imprecisa che contrasta con "la geometrica potenza" dispiegata al momento del rapimento in via Fani, nel corso del quale Moro rimase praticamente illeso, dopo una sparatoria in cui sono stati esplosi 93 colpi.
Un'altra, insomma, è la mano che uccide. I dubbi dei magistrati. Le nuove attività di indagine della Commissione parlamentare Moro 2 - i cui risultati insieme al Presidente Fioroni ho raccolto in un libro - che sarà presentato domani al Salone del Libro di Torino - hanno preso le mosse dai dubbi espressi già dalla sentenza di primo grado del cosiddetto processo Moro-quinquies, l'ultimo in ordine di tempo dei processi penali istruiti dalla magistratura romana per la strage di via Fani Fani e l'assassinio di Moro. Proprio quella sentenza del 16 luglio 1996 - a proposito della verosimiglianza o meno del racconto del trasporto di Moro dalla prigione nella cesta e dell'esecuzione nel garage - affermava: "Non si comprende come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio, quando avrebbero potuto facilmente evitarlo, ad esempio uccidendo l'on. Moro nella sua stessa prigione e trasportandolo poi da morto; e incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune agli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono rumori apprezzabili, che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti". Sul luogo presunto del delitto - il garage di via Montalcini 8 - gli uomini del RIS hanno ripetuto gli spari, hanno fatto misurazioni, registrato rumori, scattato foto ed effettuato filmati video. E si è accertato che l'auto che è stata la prima bara di Aldo Moro, poteva solo con difficoltà entrare nel box di via Montalcini così come esso era nel 1978 (prima dei lavori di ampliamento e di rifacimento cui è stato sottoposto) per consentire l'esecuzione della condanna. La Renault rossa non poteva entrarci con il portellone posteriore aperto. O meglio, per entrarci doveva sporgere all'esterno di parecchio, e diventare visibile per qualunque condomino avesse avuto la necessità di uscire usando la propria vettura (comunque un rischio elevato, anche se l'orario indicato dai brigatisti, le 6.30 del mattino, fosse corretto). E in effetti un'inquilina del quinto piano sosterrà - già ai primi di luglio del 1978 - di aver visto Anna Laura Braghetti nel garage e una Renault rossa parcheggiata. Ma "qualche giorno prima" del 9 maggio testimonierà ai magistrati. Per non parlare del rumore che i colpi (anche silenziati) produrrebbero, se sparati in una palazzina come quella di via Montalcini, una palazzina di cortina, con grandi finestre a vetri e muri di modesto spessore, ben diverse da quelle del centro storico della capitale, dove i muri perimetrali sono di pietra piena (non di mattoni forati) e possono essere spessi anche oltre un metro. Un condominio posto per di più in una strada che costituisce uno degli accessi a una grande aerea verde, Villa Bonelli, in primavera rifugio di stormi di uccelli, che sicuramente si sarebbero spaventati all'udire molteplici colpi. Sulla base delle attività compiute dal RIS in relazione alla ricostruzione della dinamica del delitto, essa, oggi, può essere così riassunta.
Moro eretto, fuori dalla Renault, a sparare inizia la Skorpion. L'ipotesi ritenuta scientificamente più probabile è che in un primo momento la vittima sia stata colpita anteriormente al torace sinistro da almeno tre colpi sparati a bruciapelo con la mitraglietta Skorpion. L'inclinazione di tali traiettorie è pressoché ortogonale alla superficie del corpo e la postura della vittima è, verosimilmente, con il busto eretto e seduta, come dimostrato dalle colature di sangue sulla maglietta intima unitamente alle proiezioni e colature di fluido biologico sui pantaloni. E' probabile che, proprio in quel momento, la vittima sia stata ferita anche al pollice della mano sinistra, protesa in avanti in un istintivo gesto di autodifesa, e che il medesimo proiettile abbia poi proseguito la sua traiettoria raggiungendo il torace anteriormente. Tale fase iniziale della dinamica del delitto potrebbe essere avvenuta anche ipotizzando Aldo Moro seduto sul pianale del portabagagli della Renault 4, sopra la coperta, con il busto eretto e le spalle rivolte verso l'interno dell'abitacolo. Non si può tuttavia escludere che la vittima fosse seduta con il busto eretto in qualsiasi altro ambiente, compreso il sedile posteriore dell'auto. E - come ipotesi "in maniera residuale" - che fosse in piedi. Il colonnello Ripani, comandante del RIS, ha espresso - in un'audizione davanti alla Commissione Moro2 - la sua opinione di esperto, e cioè che i primi colpi abbiano raggiunto la vittima, seduta, probabilmente fuori dall'auto. Quest'ultima ipotesi giustificherebbe, sul piano logico, il ritrovamento durante l'ispezione cadaverica del 1978 di fazzoletti di carta - che per non sono più ormai tra i reperti, finiti chissà dove - inseriti tra la camicia e il gilet. Infatti essi potrebbero aver avuto lo scopo di tamponare le prime ferite al torace, durante il trasporto della vittima dal luogo dei primi colpi fin dentro il vano portabagagli. Inoltre, secondo i risultati degli accertamenti del RIS riferiti dal colonnello Luigi Ripani, "contrariamente a quanto riportato in atti", Moro è stato colpito da dodici proiettili: otto calibro 7,65 estratti dal cadavere durante l'autopsia; due calibro 7,65, ritrovati tra la maglia intima e la camicia; due fuoriusciti dal corpo, perforando la giacca e la coperta (dei quali uno solo repertato, sul pianale del portabagagli, il calibro 9).
Dodici colpi. Dodici colpi dunque, e non undici come dichiarato dai brigatisti, visto che altrimenti esiste una assoluta discrepanza tra i fori di ingresso e i proiettili usciti o ritenuti. Se ne deduce che il dodicesimo colpo potrebbe trovarsi ancora nel corpo di Moro. Lo si sarebbe potuto accertare subito, semplicemente con un esame radiografico che al tempo del delitto fu realizzato, ma che - non si sa perché - non risulta più agli atti. I reperti balistici rinvenuti sulla scena del crimine e dopo l'autopsia del 1978 sono questi: 9 bossoli e 11 proiettili. Mancano 3 bossoli e un proiettile. Secondo la ricostruzione del RIS, Moro già colpito, ma ancora vivo, viene spostato, disteso in posizione supina nel vano portabagagli, sopra la coperta stesa sul pianale della Renault, con il capo contro la parte sinistra dell'auto. Il tenente colonnello Paolo Fratini, ascoltato in Commissione Moro-2, ha osservato che parte della coperta doveva trovarsi sotto il corpo, mentre l'altra non poteva ricoprirlo completamente, altrimenti sarebbe stata perforata dai proiettili. C'è un altro importante dettaglio. Durante lo spostamento di Moro ancora vivo dentro il bagagliaio cadono evidenti macchie di sangue, ancora oggi visibili sul paraurti della Renault 4. E questo, insieme all'uso dei fazzoletti di carta, avvalora l'ipotesi che i primi colpi siano stati sparati fuori dall'auto. Magari vicino, ma fuori dall'auto. La pistola semiautomatica Walther quindi avrebbe sparato non all'inizio dell'azione come ha raccontato Germano Maccari, il cosiddetto quarto uomo di via Montalcini, (secondo il quale quella pistola si inceppò e lui allora passò la Skorpion a Mario Moretti), ma presumibilmente alla fine.
E' la Walther PPK che "firma" il delitto? Nel corso dell'autopsia è stata riscontrata una forma a stampo di una corona circolare sul gilet di Moro, verosimilmente riferibile alla pressione esercitata dalla parte superiore di un silenziatore sull'indumento, all'atto dello sparo di un colpo a bruciapelo. Ma quale silenziatore? Il colonnello Ripani ha specificato che l'unico silenziatore presente tra i reperti è uno realizzato in modo artigianale per la Skorpion, ma il punto è che esso non corrisponde al segno lasciato sugli indumenti di Moro da un colpo sparato a contatto con quel silenziatore montato. Confrontando la forma circolare con quella del silenziatore artigianale applicato alla Skorpion, non c'è compatibilità sia per le dimensioni del diametro, sia per la presenza di nastro isolante sporgente dalla parte superiore. Infatti quest'ultimo, in una ipotetica azione di pressione sull'indumento, avrebbe impedito la formazione "a stampo" di una corona circolare ben definita come quella osservata sul gilet della vittima. Di qui, due ipotesi possibili secondo il RIS: "O un silenziatore era montato anche sulla Walther al momento in cui tale pistola ha sparato il proiettile calibro 9 corto oppure la Skorpion ha sparato con un ulteriore silenziatore". Al riguardo va ricordato inoltre che gli accertamenti balistici comparativi non hanno consentito di stabilire se i proiettili calibro 7,65 trovati nella Renault 4 rossa siano stati sparati con o senza il silenziatore montato sulla Skorpion. In ogni caso l'abbondanza di residui dello sparo sugli indumenti di Aldo Moro indica un'estrema vicinanza della vittima all'arma o alle armi durante l'azione di fuoco. E' stato accertato che, impugnando la Skorpion in modo tale da orientare la bocchetta di espulsione verso destra con un angolo di 45 gradi, i bossoli esplosi vengono espulsi con una traiettoria parabolica di oltre 4 metri e ciò potrebbe giustificare il ritrovamento di almeno cinque di essi nella parte anteriore dell'abitacolo, senza che si debba necessariamente ipotizzare che la sparatoria sia avvenuta all'interno dell'auto. Il RIS, infatti, ritiene meno probabile l'ipotesi alternativa secondo la quale in un primo momento la vittima è stata colpita al torace quando era seduta all'interno della Renault 4, mentre lo sparatore (plausibilmente) occupava la posizione del passeggero anteriore. Riassumendo. Moro è seduto su una sedia, accanto alla Renault 4, o forse addirittura in un altro ambiente, guarda negli occhi chi gli spara. Il fuoco parte con tre colpi di Skorpion 7,65. La vittima si accascia. Viene spostata, sistemata nel portabagagli dell'auto ed è lì che vengono esplosi gli altri nove colpi (con Moro vivo e sempre a volto scoperto). Alla fine dell'azione omicida, Moro è ancora colpito a bruciapelo dalla Walther calibro 9 corto, anche denominata PPK, un'arma prodotta nel secondo dopoguerra nell'Europa dell'Est, come variante "corta" della più nota P38, in dotazione all'esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale.
Il cuore di Moro, non viene raggiunto da nessun proiettile. I proiettili 9 e 7,65 sono di piccolo calibro. I colpi non sono di per sé mortali, causano ferite che tuttavia, anche se multiple, provocano una morte molto lenta. Si può arrivare ad ipotizzare fino a 40 minuti di agonia. Chi ha compiuto un omicidio così crudele non può non ricordarlo con precisione. Non si può non ricordare con esattezza un evento così drammatico. Chi ha sparato non può dimenticare. E invece contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, i racconti del capo delle Br Mario Moretti, di Maccari e Prospero Gallinari (il carceriere di Moro), sull'esecuzione dell'omicidio sono imprecisi e contraddittori. Dei tre solo Moretti è ancora in vita. Maccari è morto a 48 anni, nella sua cella del carcere di Rebibbia, a fine agosto 2001. Il sabato precedente aveva incontrato i familiari, raccontando loro di un imminente permesso premio. Gallinari è morto il 14 gennaio del 2013 nel garage di casa sua a Reggio Emilia, dove da anni era agli arresti domiciliari visto che Moretti nel 1993 lo aveva discolpato dall'assassinio. Al termine, la vittima è stata sistemata a forza nel vano portabagagli con le gambe flesse all'indietro e anche facendole compiere una rotazione antioraria del busto. E' in questa posizione che il rigor mortis "fissa" il cadavere di Moro, quando arriva all'Istituto di medicina legale. Nel giugno 1980, nel covo romano di via Silvani venne ritrovata anche una pistola Walther calibro 9. Oggi sappiamo che quella pistola era proprio la PPK usata per uccidere Moro. Solo nel 2016, il proiettile e il bossolo calibro 9 trovati tra i reperti della Renault 4 rossa, abbandonata in via Caetani, sono stati oggetto di confronto con l'arma di via Silvani, da parte del RIS. Dagli accertamenti comparativi è risultata "una identità balistica", tra proiettile, bossolo e arma: quindi il proiettile calibro 9 è stato esploso proprio da quell'arma. Il covo di via Silvani fu individuato dai Carabinieri, dopo le operazioni in Piemonte, scaturite dalla collaborazione di Patrizio Peci, e l'irruzione nel covo in via Fracchia, a Genova, nel corso della quale morirono quattro brigatisti, tra i quali il capo militare della "colonna" , e braccio destro di Mario Moretti, Riccardo Dura.
Il box, una scatola troppo piccola. Proprio alla luce degli accertamenti condotti sulla dinamica dell'omicidio, sui colpi sparati e in quale sequenza, la Commissione Moro 2 ha richiesto di disporre di elementi di valutazione sulla reale praticabilità dell'omicidio di Moro nel garage di via Montalcini 8, secondo le dichiarazioni dei brigatisti. Il 4 maggio 2017 il RIS ha svolto delle prove d'ingombro di una Renault 4 nel box-garage di via Montalcini 8, e ha effettuato delle vere prove di sparo con le armi usate per l'esecuzione dell'omicidio (la pistola semiautomatica Walther calibro 9 corto e la mitraglietta Skorpion calibro 7,65 con relativo silenziatore), per verificare anche l'effettivo fragore dell'esplosione dei colpi. Per prima cosa il RIS ha verificato che il box nel corso del tempo ha subito importanti modifiche strutturali volte al suo ampliamento. E in secondo luogo, che nel 1978 la sua porta di ingresso non era a serranda come adesso, ma basculante. In base alle prove compiute, reali (collocando fisicamente una Renault 4 all'interno del box) e virtuali (elaborando i dati acquisiti con il Laser Scanner 3D), sono state formulate diverse conclusioni possibili. Se la porta basculante che esisteva nel 1978 fosse stata chiusa completamente, anche posizionando la Renault 4 in retromarcia fino a far toccare con la sua parte anteriore la parte interna della basculante, sarebbe risultato pressoché impossibile aprire/chiudere il portellone dell'auto, senza evitare che quest'ultimo urtasse sulla parete di fondo (a prescindere dal modo più o meno obliquo, con cui poteva esser parcheggiata in retromarcia l'auto nel box). Se invece la Renault 4 fosse stata parcheggiata in retromarcia nel box con il portellone posteriore già aperto, allora la porta basculante (dopo tale manovra) si sarebbe potuta chiudere completamente. Tuttavia, in tale caso, lo spazio di manovra dietro la Renault 4 sarebbe stato di poco superiore a 0,40 m. E cioè chi ha sparato avrebbe avuto a disposizione meno di mezzo metro per compiere l'esecuzione. Inoltre anche in questa ipotesi il portellone del cofano avrebbe urtato comunque la parete di fondo del box. Se invece la Renault 4 fosse stata parcheggiata nel box in retromarcia, a una distanza dalla parete di fondo superiore a 0,51 m, allora molto probabilmente (si legge nella perizia) "la sua parte anteriore sarebbe sporta oltre l'ingresso del box", e la porta basculante non si sarebbe potuta chiudere del tutto. E' solo in questa seconda ipotesi che il portellone posteriore si sarebbe potuto chiudere/aprire liberamente (cioè senza urtare sulla parete di fondo del box). Anche sul lato lungo del box lo spazio residuo non sarebbe stato molto ampio. Se la Renault 4 fosse stata parcheggiata in retromarcia accostandola al lato destro, lo spazio disponibile sull'altro lato sarebbe stato compreso all'incirca tra 1 m e 1,6 m. Se viceversa fosse stata parcheggiata in retromarcia accostandola al lato sinistro, lo spazio residuo su quello a destra poteva variare tra 1 e 1,5 m all'incirca. Quindi 50 centimetri al massimo di distanza dalla parete di fondo (con la porta basculante aperta) e circa un metro e mezzo di spazio sul lato lungo del box. Secondo i RIS e la Commissione d'inchiesta Moro 2, anche se "alcune delle ipotesi formulate sono astrattamente compatibili con l'esecuzione dell'omicidio nel box [di via Montalcini], nel complesso si rafforzano i dubbi che sul piano logico, si evidenziano rispetto alla praticabilità, in quel luogo, dell'azione omicidiaria".
Prove di sparo del RIS con la porta aperta per motivi di sicurezza. Il RIS ha anche condotto test reali di sparo con entrambe le armi usate per uccidere Moro, utilizzando il munizionamento del campionario di laboratorio.
Ma il fatto più importante è che, per garantire la sicurezza degli uomini del RIS, si è reso necessario esplodere i colpi d'arma da fuoco a una distanza dal retro della Renault 4 tale che tutta la sua parte anteriore sporgeva dal box. Cioè la saracinesca di chiusura, presente attualmente è dovuta rimanere completamente sollevata nel corso di tutti i test di sparo, consentendo così la propagazione delle onde sonore nello stabile. Dopo la sperimentazione effettuata il 4 maggio 2017 in via Montalcini a Roma, si può quindi concludere che "non si può in modo assoluto escludere - anche alla luce degli esami balistici - un'azione di fuoco nel box in questione contro Aldo Moro, anche se essa appare poco probabile sul piano dei rischi" cui avrebbe esposto il commando e della richiesta rapidità di azione, a motivo dell'esiguità degli spazi. Il rischio non solo di essere sentiti e scoperti, ma anche quello non trascurabile di mettere in pericolo l'incolumità di chi doveva sparare, come dimostra il fatto che il RIS non ha potuto effettuare i test con la porta del box chiusa per ragioni di sicurezza, volendo garantire cioè l'incolumità dei suoi operatori dai colpi di rimbalzo. La necessità di tenere la porta saracinesca aperta - nonostante l'uso del silenziatore - ha fatto avvertire, durante l'esperimento dei RIS, il rumore delle espulsioni, come era facile prevedere, "soprattutto nei locali più vicini, cioè quelli dell'androne e lo spazio esterno, e cioè i luoghi dove che, su un è maggiormente ipotizzabile il rischio di passaggio di inquilini", anche nell'orario indicato dai brigatisti, le 6.30 del mattino, in cui non sono pochi quelli che già escono da casa per arrivare in tempo sul posto di lavoro.
Via Montalcini, la prigione "ufficiale" (ed unica) di Moro. L'appartamento di via Montalcini venne a definirsi come "prigione ufficiale" di Moro, attraverso un complesso processo testimoniale che si sviluppò almeno per tutti gli anni '80 (il primo sopralluogo di Valerio Morucci e Adriana Faranda con i magistrati romani Rosario Priore e Ferdinando Imposimato avvenne il 17 giugno 1985). Il covo di via Montalcini divenne così una delle architravi del "perimetro" della "verità accettabile" e dicibile sul caso Moro prima della caduta del Muro di Berlino. Una "verità" che però ha lasciato aperti molti interrogativi, sui quali si è sviluppato il lavoro - che non è stato concluso a causa dell'interruzione anticipata della XVII legislatura - della Commissione Moro-2. L'opinione pubblica non sa che, contrariamente a quanto si possa pensare, la sua individuazione emerse progressivamente e con una certa lentezza, fino a essere "consacrata" nella sentenza della Corte d'Assise al processo Moro-ter, le cui motivazioni furono depositate il 12 ottobre 1988. Più di dieci anni dopo il sequestro. La sentenza riconosceva che "è una verità processuale quella che lo statista sia stato tenuto in cattività nell'appartamento di via Montalcini n. 8". Ma per l'identificazione i giudici hanno operato su un piano logico-deduttivo. Si trattava, come si legge nella stessa motivazione della sentenza, "di una ricostruzione ex post, sia pure sillogistica, ed è in fondo la ricostruzione che fanno Savasta, Libera, Morucci e Faranda anche attraverso notizie indirette e fatti oggetto di rivelazioni da parte della stessa Braghetti e di altri. Il sillogismo è il seguente: Gallinari e Braghetti convivono dal 1977. Gallinari e una donna gestiscono la "prigione del popolo" dove è custodito Moro ed il primo esegue anche la condanna a morte dello statista. Ergo, la casa dove è tenuto in cattività Moro è l 'appartamento di via Montalcini, preso in locazione per l'Organizzazione dalla Braghetti, estremamente compartimentato a tutti gli altri brigatisti che ne vengono a conoscenza soltanto dopo la scoperta". Lo stesso Morucci ha dichiarato di non essere stato mai in via Montalcini durante il sequestro Moro.
Aldo Moro fu davvero rapito in via Fani? Scrive l'11 maggio 2018 Rita Di Giovacchino, Giornalista e scrittrice, su "Il Fatto Quotidiano". Aldo Moro fu davvero rapito in via Fani? Prendo spunto da una lettera pubblicata oggi da Il Fatto Quotidiano per rispondere all’interrogativo posto da Ugo Mattei. Primo, basilare interrogativo dei tanti che ancora avvolgono i misteri sulla fine del presidente della Democrazia cristiana. Il professore pone “due quesiti e un dubbio”. Come mai Moro non è stato ucciso o perlomeno ferito dalla gragnuola di colpi sparati in via Fani contro la Fiat 130, come gli è stato possibile uscire illeso da quel volume di fuoco che è costato la vita ai suoi cinque agenti di scorta? E come mai, pur essendo legato da grande amicizia e affetto agli uomini che quotidianamente proteggevano la sua vita, nelle tante lettere pubbliche e private che ha scritto nei 55 giorni della sua prigionia, non parla mai del loro sacrificio cui pure avrebbe assistito prima di essere prelevato e portato via? La logica deduzione di Mattei è che Moro non era in via Fani e non è mai salito sulla 130 crivellata dai colpi, più semplicemente è stato rapito “prima”, fatto salire su un’altra vettura da “qualcuno” che lo aveva avvisato del pericolo imminente. Aggiungo, quel qualcuno che doveva avere il volto rassicurante di un uomo delle istituzioni. Diversamente da quanto afferma il professore la questione è stata posta più volte nel corso delle indagini, pur essendo talmente imbarazzante per le soluzioni che sottendeva da non essere mai stata troppo divulgata. Sono quesiti e dubbi che ho coltivato anche io, come cronista presente in via Fani il 16 marzo 1978 e negli approfondimenti successivi da me fatti in articoli e libri, senza arrivare ad alcuna certezza e tuttavia collezionando vari tasselli che ora cercherò di mettere in fila. Qualora fosse esatta l’ipotesi di Mattei, il “vero” rapimento di Aldo Moro non può che essere avvenuto nella chiesa di Santa Chiara dove attorno alle 8 quella mattina il presidente si era recato prima di dirigersi a Montecitorio per affrontare la prova più importante della sua vita politica: il varo di un governo con l’appoggio esterno del Pci che dava vita a quel “compromesso storico” che era stato (negli ultimi tempi) il suo obiettivo primario. La testimonianza (da me raccolta quel giorno) di una signora che – affacciata alla finestra della sua casa in via Fani – si disse convinta di aver visto Moro scendere dalla Fiat 130 mi impedisce di accettare in toto tale ipotesi, anche se non l’ho mai scartata del tutto ben sapendo quanto poco siano attendibili le testimonianze di persone che si trovano ad assistere ad eventi tanto devastanti. Ma nella chiesa di Santa Chiara qualcosa di molto importante quel giorno è successo, ne sono certa. Lo prova il fatto che il caposcorta – il maresciallo Oreste Lonardi – decise di imboccare proprio il percorso che conduceva in via Fani, che pure non era il più logico e neppure il più rapido per arrivare in centro, cadendo nel tranello di passare proprio dove l’agguato era stato preparato nei giorni precedenti e dove erano già ad attendere Moro una ventina o più di killer tra cui “anche” alcuni brigatisti, come ha scritto di recente la commissione di Giuseppe Fioroni nella relazione finale. Quel “anche” basta a far capire il ruolo subalterno dei terroristi delle Brigate rosse rispetto ad altre entità presenti sul posto. Ma ciò conferma anche che quel “qualcuno” – che potrebbe aver prelevato Moro nella chiesa di Santa Chiara e/o aver ordinato al maresciallo Lonardi di passare in via Fani – non poteva che essere un suo diretto superiore, ben conosciuto dal responsabile della scorta di Moro che non avrebbe mai consegnato il presidente a chi si fosse presentato con un semplice distintivo e neppure avrebbe mutato il percorso che come sempre decideva all’ultimo momento senza neppure anticiparlo ai suoi uomini. Ho molto elucubrato su quale argomento possa essere stato usato per convincere Lonardi e alla fine mi sono convinta che possa essere stato l’allarme lanciato da Radio Città futura pochi minuti prima con cui si annunciava la possibilità che Moro potesse essere rapito, spacciato dal “qualcuno” come conferma di voci raccolte in ambienti estremisti. Quel poco che sappiamo è che in via Fani c’era il colonnello Camillo Guglielmi, responsabile dei reparti di sbarco e assalto di Capo Marrargiu. Sappiamo anche che con tutta probabilità Lonardi era stato addestrato nella base sarda degli apparati Gladiodella Nato come altri sottufficiali destinati alla protezione di alte personalità politiche. Nessuna conferma ufficiale, soltanto dubbi e deduzioni. Il colonnello Guglielmi è morto prima della conclusione del primo processo. Una dipartita salutata con un gran funerale che ebbe molta risonanza, quasi a sottolineare l’estraneità dell’ufficiale agli eventi cui aveva accidentalmente assistito nonché la definitiva chiusura di una vicenda processuale oltremodo imbarazzante...A questi tasselli ne va aggiunto un ultimo che lungi dal chiarire la scena criminis del rapimento Moro allunga nuove, gravissime ombre. L’ultima perizia balistica sull’uccisione dei cinque agenti di scorta ordinata dalla commissione Fioroni sancisce che a tutti fu inflitto il colpo di grazia, quasi a scongiurare la loro sopravvivenza. Che interesse potevano avere i brigatisti rossi a un simile ulteriore massacro? Gli agenti erano tutti o morti o gravemente feriti, non più in grado di reagire aprendo il fuoco contro di loro. Il successivo dubbio è che quel “qualcuno” dovesse eliminare il rischio della sopravvivenza di un testimone in grado di raccontare cosa era davvero accaduto nella chiesa di Santa Chiara.
Caso Moro: la domanda più assordante, scrive Giovedì 03/05/2018 "Ladige.it". Dalla “prigione del popolo”, la lettera di Moro a Benigno Zaccagnini, lo “Zac – Zac” delle folle democristiane di quasi mezzo secolo fa, è la sintesi di una tragedia che si sta compiendo. “Siamo quasi all’ora zero: mancano più secondi che minuti, siamo al momento dell’eccidio”. Oggi sembra impossibile che fra il marzo e il maggio del 1978, nell’Italia del benessere dove quasi ogni famiglia aveva l’automobile, quasi tutte il frigorifero, il telefono, la lavatrice, ovviamente il televisore anche se comperato a rate, si era costretti a vivere nella sciagurata morsa del terrorismo politico crescita a dismisura dopo la strage di Piazza Fontana del dicembre del 1969. L’arcitaliano Giorgio Bocca aveva scritto, raccontando la guerra partigiana “la pietà è morta”; Moro scrisse: “Dev’essere chiaro che, politicamente, il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra, o guerriglia come si vuole, come si pratica dove si fa la guerra, dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente”. E ancora: “In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice penale come primo segno di autentica democratizzazione”. Poi il grido di dolore: “Zaccagnini, sei eletto dal Congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza”. All’indomani della strage di via Fani quasi tutti i direttori dei giornali invocando la mobilitazione dell’Esercito e sull’onda delle dichiarazioni del giornalista e senatore Mario Tedeschi del Movimento Sociale Italiano che chiedeva il ripristino della pena di morte appellandosi al codice militare, avevano accarezzato, se non invocato, quella tragica scelta, relegata il primo gennaio del 1948 nella soffitta della storia nazionale, per i brigatisti assassini. Solo Gianni Faustini, direttore del giornale “Alto Adige”, aveva scritto un fondo di grande equilibrio: “Le parole sono vane ma il più grave episodio di guerra civile dalla Liberazione ad oggi richiede che sentimenti e ragionamenti si affidino pur sempre alla parola, alla possibilità di dialogo”. Era appena arrivato, attraverso un documento di 25 righe senza titolo e senza firma pubblicato dal “Popolo”, l’organo ufficiale della Democrazia Cristiana, il rifiuto della Dc a trattare con i terroristi. Era quello il documento più drammatico tra i tanti prodotti dal partito dal giorno della sua fondazione: pur essendo in gioco la vita di Moro si era stabilito che non era possibile accettare il ricatto delle Brigate Rosse. Un dilemma politico e un dramma personale; Zaccagnini era da sempre amico di Moro e anche i più giovani – e fra di loro il giornalista e parlamentare trentino Luciano Azzolini – erano legati al presidente rapito da un fortissimo sentimento di stima, rispetto, amicizia. Aveva tentato di rompere il fronte del no Bettino Craxi, il segretario del Psi, il leader nascente della politica italiana. Aveva deciso di cercare un’alternativa proponendo a Zaccagnini l’ipotesi di graziare tre terroristi non condannati per reati di sangue e di eliminare le carceri speciali pur di riavere Moro vivo. È fra la fine di aprile e i primi giorni di maggio che diventa intenso il tentativo socialista di arrivare ad una mediazione. Lanfranco Pace a Franco Piperno, già militanti di Potere operaio, si incontrano più volte con due brigatisti, Adriana Faranda e Valerio Morucci, “postini” delle Br, cioè quei personaggi che, ricevuti gli scritti di Moro e i messaggi delle Br, li collocavano nei punti prestabiliti e poi telefonavano ai giornali per farli trovare. Molti anni dopo il senatore Giorgio Postal, che agli inizi degli anni Sessanta era stato segretario della Dc trentina, scriverà sul giornale l’Adige: “C’è un interrogativo che, quando penso al caso Moro, mi turba profondamente. E’ noto oggi che il Psi di Craxi e Claudio Signorile tentò di salvare la vita di Moro anche attraverso i massimi esponenti Autonomia operaia” appunto Piperno e Pace. “Ed è altrettanto noto che questi due ebbero, durante il periodo del sequestro, un certo numero di contatti e di colloqui con Morucci e Faranda. Ebbene non è terribile pensare che una semplice segnalazione agli organi di sicurezza avrebbe potuto portare all’individuazione di Morucci o di Faranda e, forse, alla scoperta del covo dove Moro era tenuto prigioniero”? È la domanda più assordante su alcuni misteri, invero molti presunti, che aleggiano su quei 55 giorni. Di certo solo Postal focalizza l’attenzione sugli incontri fra Piperno e Pace con Morucci e Faranda. Forse i due “postini” non sono mai entrati nell’appartamento dove era rinchiuso Moro. Ma qualcuno che era in quella casa incontrò uno o l’altro dei fiancheggiatori per consegnare lettere e documenti: sarebbe bastato un contatto e, forse, Moro poteva essere salvato.
Tutto quel che non torna del rapimento di Aldo Moro. 16 marzo 1978 – 9 maggio 1978. Quaranta anni fa sembra concludersi uno degli episodi più tragici nella storia della Repubblica. Viaggio in tre puntate nelle molte zone oscure di uno degli episodi più tragici della storia italiana. Il caso Moro. Ecco tutto quello che non torna nelle ricostruzioni ufficiali. Errori, omissioni. E bugie, scrive Luca Longo il 30 Aprile 2018 su "L’Inkiesta". Tragico non per il numero di morti: gli eventi di quegli anni ci hanno rapidamente portato a confrontarci con stragi a due cifre come gli 85 caduti per la bomba fascista di Bologna. Tragico perché quegli eventi fecero fallire il tentativo di avviare il Paese verso una vera democrazia dove due forze contrapposte potessero liberamente confrontarsi ed ambire a guidare l’Italia sulla base dei risultati delle urne e non del trattato di Yalta. Se avesse avuto successo il tentativo di quegli anni – Moro lo chiamava “democrazia operante”, Berlinguer “compromesso storico” - entrambi i maggiori partiti di allora avrebbero subito una evoluzione ideologica che li avrebbe portati oltre i vincoli delle rispettive alleanze (e dipendenze) dalle due superpotenze mondiali. L’Italia avrebbe rotto unilateralmente il trattato di Yalta, che prevedeva l’obbligo di mantenerla ancorata al di qua della cortina di ferro a prescindere dai risultati dalla volontà popolare. Il Paese sarebbe veramente passato dalla Prima Repubblica ad una seconda fase: chiamiamola Repubblica 2.0 per non confonderla con la Seconda Repubblica - niente altro che l’agonia della Prima. Per questo la regia, la conduzione e i depistaggi del caso Moro non sono stati mai portati alla luce nella loro interezza, nonostante sei processi, innumerevoli libri ed interviste dei protagonisti e una marea di sedute delle Commissioni Parlamentari sul caso Moro e sulle stragi degli anni di piombo. Forse proprio per questo, tanto gli ex brigatisti quanto molti membri delle Istituzioni si affannano da 40 anni a ripetere in coro che “sul caso Moro non c’è più nulla da scoprire.” Proviamo a elencare quello che, però, ancora non torna. Riavvolgiamo di 40 anni il nastro della Storia e organizziamo gli interrogativi in ordine cronologico. Torniamo indietro al 1978.
Il soggetto. I brigatisti diranno che scelgono di rapire Moro semplicemente perché Andreotti è troppo protetto. Circostanza smentita dallo stesso Andreotti che in quegli anni, tutte le mattine, molto presto e sempre alla stessa ora, va a messa da solo e a piedi passeggiando per il centro di Roma semideserto.
Il momento. I brigatisti sosterranno che è un caso che Moro sia rapito proprio mentre si reca alla Camera per dare la fiducia al quarto governo Andreotti sostenuto da una complessa maggioranza appoggiata per la prima volta anche dal PCI. Ma non è verosimile che l’appostamento in Via Fani si sia ripetuto più di una volta. Ad esempio perché soltanto la notte precedente 16 marzo le BR squarciarono tutte e quattro le gomme del Ford Transit del fioraio ambulante Antonio Spiriticchio. In questo modo, solo in quel preciso giorno gli impediscono di piazzarsi – come fa tutte le mattine – in via Fani proprio in prossimità dello stop all’incrocio con Via Stresa.
Il modo. La moglie del maresciallo Oreste Leonardi testimonierà che Moro va a passeggiare quasi tutte le mattine allo Stadio dei Marmi accompagnato dal solo caposcorta. E’ quindi inutile fermare due auto a tutta velocità e con cinque militari a bordo quando è più semplice prelevarlo nel parco semideserto vincendo la resistenza del solo Leonardi. Per non parlare dei molti fine settimana trascorsi da Moro nella casa di Terracina, spesso trascorsi a passeggio sul lungomare.
La vettura blindata. Agli atti si trovano numerose richieste del caposcorta e di Moro per la concessione di una vettura blindata. L’ultima commissione stragi il 6 dicembre 2017 ammetterà che sarebbe bastata un’auto blindata, In effetti, il 18 febbraio il colonnello Stefano Giovannone riferisce che il suo “abituale interlocutore Habbash” rappresentante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gli ha parlato di una operazione terroristica di notevole portata che sta per scattare in Italia. La segnalazione da Beirut con intestazione “Ufficio R, reparto D, 1626 segreto”, “fonte 2000” è agli atti.
Spinella troppo tardi. Il capo della DIGOS Domenico Spinella, contattato da Nicola Rana, collaboratore di Moro, la sera del 15 marzo si reca dal Presidente DC per concordare l’istituzione di un servizio di vigilanza presso lo studio di via Savoia. Spinella decide anche di attivare il servizio il 17 marzo. Ma la sua relazione al Questore di Roma (“relazione post-datata” la definirà il presidente della Commissione Moro, Sergio Fioroni) arriverà solo undici mesi dopo: il 22 febbraio 1979. Spinella questa volta arriva troppo tardi, ma il giorno dopo arriverà troppo presto e in un episodio precedente non arriva per niente. Ne parliamo fra poco.
Radio Città Futura. Renzo Rossellini, direttore di Radio Città Futura parla ai microfoni del sequestro di Aldo Moro circa tre quarti d’ora prima del rapimento: ma la magistratura viene informata della trasmissione solo il 27 settembre 1978, quando lo rivela Famiglia Cristiana. Il vice questore Umberto Improta conosce personalmente Rossellini: lo stesso Vittorio Fabrizio, allora funzionario della DIGOS, riferirà alla Commissione che c’era da tempo un “rapporto privilegiato”. Radio Città Futura e Radio Onda Rossa - le seguitissime emittenti del movimento antagonista romano – in quel periodo sono sistematicamente ascoltate da una struttura di monitoraggio informale della Polizia. Secondo la testimonianza del funzionario Riccardo Infelisi, cugino del magistrato, sentito della Commissione, lo stesso questore De Francesco è estremamente sensibile all’ascolto delle Radio. Ma proprio quella frase di Rossellini … scappò. Per Vittorio Fabrizio, è impossibile che non sia stata ascoltata e non sia “stata portata subito a conoscenza del dirigente dell’ufficio politico”. Cioè di Domenico Spinella, di cui riparleremo ancora più oltre.
La direzione di fuoco. I terroristi diranno sempre che il gruppo di fuoco sbuca da dietro le siepi del Bar Olivetti attaccando le due auto del presidente DC dal loro fianco sinistro all’incrocio fra via Fani e via Stresa. Ma l’agente Raffaele Iozzino esce dall’auto sul lato destro e viene ucciso da sei colpi provenienti sempre dal lato destro della strada.
I vestiti da personale di volo Alitalia. Dalle siepi del bar Olivetti sbucano quattro uomini vestiti con finte uniformi Alitalia. La maggior parte delle ricostruzioni frettolose parla di uniformi da avieri, il personale di terra dell’Aeronautica Militare, che sono ben diverse. I travestiti sono i brigatisti Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisioli. Sono loro ad aprire il fuoco con mitragliatrici e pistole. Le uniformi vengono viste da diversi testimoni e uno dei terroristi perde pure il berretto e lasciandolo a terra. Perché scegliere uniformi così appariscenti che li renderanno facilmente identificabili se qualcosa andrà storto? Una spiegazione ragionevole è che non tutti i terroristi si conoscano e abbiano scelto quelle uniformi proprio per non spararsi addosso.
L’aviere biondo. Armida Chamoun, residente in Via Gradoli 96 - dove si scoprirà il covo BR - testimonierà al magistrato Antonia Giammaria che in quell’appartamento in quei giorni c’è anche un uomo biondo "con gli occhi di ghiaccio". Il 16 marzo lo vede uscire vestito da aviere. Nessuno dei BR arrestati ha i capelli biondi e gli occhi azzurri. In via Gradoli verrà ritrovato l'elenco con gli acquisti fatti per ottenere i vestiti Alitalia. In testa all'appunto una intestazione: "Fritz". Anna Laura Braghetti sosterrà che “Fritz” era il nome in codice con cui identificavano Moro stesso.
Ne manca uno. Moretti affermerà di essere stato solo sulla 128 che taglia la strada alle auto di Moro, ma il testimone Alessandro Marini dichiara alla Polizia poche ore dopo di aver visto un secondo uomo scendere dal sedile del passeggero della 128 e fare fuoco sulla 130 di Moro da destra, cioè dalla parte opposta rispetto al gruppo di fuoco “ufficiale”.
I bossoli sul lato sbagliato della strada. I bossoli vengono raccolti anche sul Iato destro della strada, vicino alla 128 e tra questa e l’incrocio.
Morucci non convince. Nel 1987, al processo Moro ter, Morucci dice: "Poiché si erano inceppati i due mitra che dovevano sparare, usarono la pistola e probabilmente uno di questi girò intorno alla macchina portandosi quasi all'angolo con via Stresa" e sparando dal lato destro contro l'agente lozzino. Questa versione è ancora meno convincente. Sembra poco credibile che qualcuno aggiri l'AIfetta della scorta mentre è in pieno svolgimento l'azione per annientare i cinque militari correndo il rischio di incappare in una pallottola del proprio commando.
Le risultanze della perizia balistica. I periti incaricati, Jadevito, Ugolini e Lopez, nella perizia depositata il 19 gennaio 1979 scriveranno che le traiettorie dei proiettili dimostrano che a fare fuoco dalla parte dell’incrocio sono due killer, uno uscito dal lato sinistro ed uno da quello destro della 128 usata per bloccare le auto del presidente.
I Brigatisti negano. Tutti i brigatisti arrestati, soprattutto Moretti e Morucci, diranno più volte che non c’è nessuno sparatore sulla parte destra di Via Fani perché riceverebbe addosso i colpi dei quattro brigatisti che sparano dal lato sinistro dove si trova il Bar Olivetti. Ma il maresciallo Leonardi, sul sedile del passeggero anteriore della 130 di testa, si gira a sinistra per cercare di fare abbassare Moro e viene colpito più volte sul fianco destro. Dal lato dove non si troverebbe nessuno degli assassini.
Il gruppo di fuoco. Secondo le ricostruzioni e sulla base delle testimonianze confermate più volte dagli stessi protagonisti, partecipano all’agguato solo nove persone, di cui solo cinque fanno fuoco. Rita Algranati, piazzata all’inizio di Via Fani, solleva un mazzo di fiori per dare il segnale dell’arrivo del corteo e scappa su un ciclomotore uscendo di scena. Sull’incrocio con Via Stresa c’è Barbara Balzerani vestita da poliziotto con in mano una paletta per bloccare le auto in arrivo. Moretti ha accostato la Fiat 128 con targa diplomatica al marciapiede 200 metri prima dell’incrocio, sempre in Via Fani e prima di Via Sangemini. Quando vede il segnale nello specchietto esce di scatto, si pone davanti al corteo e inchioda davanti all’incrocio tagliando la strada alla Fiat 130 con a bordo il presidente. Morucci e Fiore mirano a questa con colpi singoli facendo attenzione a non colpire Moro. Intanto Gallinari e Bonisioli spararono a raffica sulla Alfetta di scorta che la segue. E quando i mitragliatori si inceppano, i due brigatisti tirarono fuori le pistole. Moretti esce dalla 128 e fa fuoco sulla 130. Intanto, alcuni passi indietro lungo Via Fani, Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono escono da una 128 bianca restano pronti a intervenire. Barbara Balzerani si trova in Via Stresa su una 128 blu, sull’altro lato di via Stresa c’è Bruno Seghetti su una Fiat 132 blu.
I proiettili. In via Fani vengono rinvenuti gli 89 bossoli dei brigatisti e i 2 esplosi in risposta dall’agente Iozzino, vengono uccisi tutti i membri della scorta ma Moro, al centro della strage, rimane illeso. Si scoprirà che le munizioni – con un trattamento superficiale protettivo e senza matricola – provengono da un arsenale militare come quelli in dotazione a Gladio: i “depositi Nasco”.
Le armi. In quei tre minuti - secondo la perizia effettuata nei giorni successivi - sparano sei armi: una pistola Smith&Wesson calibro 9, che esplode 8 colpi; una pistola Beretta M51 o M52, 4 colpi; una pistola-mitra FNA-B 1943, 22 colpi; una pistola-mitra Sten oppure FNA-B 1943, 49 colpi; una pistola mitra TZ-45, 5 colpi; una pistola-mitra Beretta M12 che spara solo 3 colpi.
Le armi (bis). La seconda perizia verrà condotta nel 1993 dagli ingegneri Domenico Salza e Pietro Benedetti e si rende necessaria perché nei giorni successivi l’agguato sarà rinvenuto piantato nel bagagliaio dell’Alfetta di scorta uno strano proiettile calibro 9 corto incompatibile con tutte le armi ipotizzate nella prima perizia. Si scopre che quei 49 colpi non vengono da uno ma da due mitra FNA-B 43. La seconda perizia esclude anche la presenza di una settima arma perché stabilirà che il proiettile 9 corto identificato in seguito viene esploso da una delle armi poi sequestrate - erroneamente caricata - che si inceppa al momento dello sparo del proiettile sbagliato. Questa nuova versione stabilisce che il primo mitra FNA-B spara 19 proiettili; il secondo FNA-B, 15; la Beretta M12, 1 proiettile; il TZ-45, 5; la Smith&Wesson, 5; la Beretta M51 o M52 solo 2. Il problema non è tanto la suddivisione dei colpi fra armi compatibili fra loro: comunque ricalcoliamo i bossoli ed i proiettili cercando di assegnarli alle varie armi, il conto proprio non torna.
Il caricatore del mitra FNA-B. Non è chiaro chi impugna il mitra FNA-B che spara 49 colpi. L’arma risalente alla seconda guerra mondiale può sparare 400 colpi al minuto ed è in teoria possibile che un esperto riesca a tirare tutti quei colpi prendendo la mira in direzioni diverse – su più agenti distribuiti su due auto – in poco più di una decina di secondi. C’è un problema. I suoi caricatori possono contenere 10, 20, 30 o 40 colpi, quindi per spararne 49 occorre un cambio di caricatore in piena azione. Di questa possibile sostituzione non parla nessuno dei brigatisti, ne’ dei testimoni.
Il killer professionista. 26 anni dopo, in un’intervista, il fondatore delle BR Alberto Franceschini dirà: “un’operazione di grande portata come quella del sequestro Moro non la fai se non hai qualcuno alle spalle che ti protegge. Ai miei tempi, noi militarmente eravamo impreparati. Io conosco quelli che hanno portato a compimento l’operazione: gli unici ad avere un minimo addestramento potevano essere Morucci e Moretti. Ma secondo me c’era una situazione generale di protezione, un contesto di cui erano consapevoli solo uno o due dell’intero commando”. E ancora: “Nel sequestro Moro furono utilizzate tecniche che non avevano nulla a che fare col nostro tipo di azione.”
I proiettili vaganti. L’Ing. Benedetti nel 2003 confermerà che per i 91 bossoli complessivamente recuperati, vengono ritrovate solo 68 pallottole. I colpi di un’arma automatica a canna lunga viaggiano a 380 m/s, ipotizzando che rimbalzino su un’auto o sulla strada, dopo il primo urto possono ancora volare lontano. In teoria, qualcuno dei colpi potrebbe essere finito disperso, ma la maggior parte dovrebbero trovarsi nelle vetture, nei corpi, sul muro di fronte al bar o nell’asfalto. Tutta l’area è stata setacciata più volte, ma sono sparite per sempre un quarto delle pallottole esplose in Via Fani.
Il colonnello Guglielmi. In Via Stresa all’incrocio con Via Fani - a pochi metri dall’agguato - si trova il colonnello Guglielmi del SISMI – la VII divisione che controlla Gladio – alle dirette dipendenze del generale Musmeci (P2, implicato per vari depistaggi e poi condannato per quello della Strage di Bologna). Giustifica la sua presenza in quel posto esatto “perché stavo andando a pranzo da un amico”. Erano passate da poco le nove di mattina.
Il Bar Olivetti. Nel 2015 alcuni testimoni dichiareranno che il bar non è affatto chiuso quel giorno, come invece hanno assunto tutte le indagini nel corso dei 37 anni successivi. Alcuni testi giurano di aver preso il caffè o di aver usato il telefono proprio nella mattina del 16. La possibilità che il bar sia aperto al pubblico il 16 marzo - nonostante fosse giuridicamente in liquidazione - introduce altri dubbi sulla dinamica dell'agguato descritta dai brigatisti. Questi sosterranno di aver atteso l'arrivo delle auto di Moro nascosti dietro le fioriere prospicienti il bar. Ma le fioriere possono offrire un riparo poco efficace a più persone destinate ad aspettare per un lasso di tempo non trascurabile, tanto più se vestite da personale Alitalia, con borse contenenti diverse armi e – soprattutto – avendo alle spalle le vetrine di un bar affollato. In tutte le immagini scattate da media e forze dell’ordine dopo l’attentato, il Bar Olivetti ha le saracinesche abbassate.
Olivetti e i Servizi. Tullio Olivetti, proprietario del bar, è già noto alla magistratura. Accusato di traffico internazionale di armi, rapporti con la criminalità organizzata, con la mafia e riciclaggio di 8 milioni di marchi tedeschi, è l’unico a uscire pulito da tutte le indagini. La Commissione Moro scrive "che la sua posizione sembrerebbe essere stata 'preservata' dagli inquirenti e che egli possa avere agito per conto di apparati istituzionali ovvero avere prestato collaborazione". Nella relazione si aggiunge che la sua posizione “impone ulteriori accertamenti sull’ipotesi che fosse un appartenente o un collaboratore di ancora non meglio definiti ambienti istituzionali; sarebbe, infatti, circostanza di assoluto rilievo verificare un’eventuale relazione tra i Servizi di sicurezza o forze dell’ordine e Tullio Olivetti, titolare del bar di via Fani, 109.”
La Morris nel posto giusto. Proprio all’incrocio, a soli sei metri dallo stop e a ben 80 cm dal marciapiede destro, è parcheggiata una Austin Morris targata RM T 50354. Proprio l’ingombro prodotto da quell’auto ha bloccato la manovra di svincolo più volte tentata da Ricci alla guida della 130 di Moro. Morucci riconoscerà al processo che “la presenza casuale della Morris fu fatale”. La Morris è stata acquistata un mese prima dalla società immobiliare Poggio delle Rose con sede a Roma in Piazza della Libertà, 10; lo stabile nel quale si trova l’Immobiliare Gradoli spa, proprietaria di alcuni appartamenti di Via Gradoli, 96 e gestita da fiduciari del Servizio Segreto civile. La presenza “casuale” della Morris risulta decisiva anche per coprire chi spara da destra almeno due raffiche dirette contro l’Alfetta e quindi dalla parte opposta al gruppo di fuoco principale. Non risulta sia mai stata analizzata nei processi.
La moto Honda. L’ingegner Alessandro Marini – che è fermo all’incrocio a pochi metri dall’agguato e accorre verso le auto - viene fermato da due giovani su una moto Honda blu. Il passeggero gli scarica addosso un piccolo mitra. Marini si salva perché cadde a terra mentre arrivava la raffica. Tre testimoni confermano le sue parole. L’ingegnere segnala l’episodio solo pochi minuti dopo la strage consegnando lo stesso caricatore caduto al passeggero della moto. A terra, quindi, rimangono anche i bossoli dell’ottava arma a fare fuoco in via Fani, dopo le sei “ufficiali” e quella di Iozzino. Questa non sarà mai identificata e il caricatore non è mai stato confrontato con i mitra successivamente trovati nei vari covi. Non è chiaro se la mitragliata su Marini abbia realmente rotto il parabrezza del ciclomotore su cui si trovava l’ingegnere.
Un’altra moto. La Commissione Moro nel 2015 ascolterà due testimoni oculari, mai sentiti in precedenza. Giovanni De Chiara abita in via Fani 106 e vede allontanarsi a sinistra, su via Stresa, una motocicletta con a bordo due persone, delle quali una ha appena sparato verso qualcuno. Eleonora Guglielmo - allora “ragazza alla pari” presso l’abitazione di De Chiara – sente grida “achtung, achtung” e vede una motocicletta di grossa cilindrata che parte, seguendo un’auto sulla quale era stato spinto a forza un uomo, dirigendosi da via Fani in direzione opposta verso via Stresa. La motocicletta ha a bordo due persone; il passeggero ha capelli scuri, con una pettinatura a chignon e un boccolo che scende, per questo la Guglielmo ritiene che sia una donna.
Alessio Casimirri e i due sulla Honda. Mentre all’incrocio si scatena la sparatoria, il tratto precedente di Via Fani è presidiato dai brigatisti Casimirri e Lojacono. Si trovano, quindi, proprio nei pressi della misteriosa Honda. Casimirri dopo l’agguato porta le armi a Raimondo Etro perché le nasconda e le custodisca. A tutt’oggi solo Etro, fra tutti gli ex BR, ha ammesso la presenza della moto. Mentre consegnava le armi, proprio Casimirri gli parla di «due in moto», non previsti, e li definisce «due cretini». Oltre al capo delle Br, chi potrebbe conoscere il segreto della moto è Casimirri, che però non sarà mai stato arrestato ed è latitante dal 1982 in Nicaragua. La commissione Moro recupererà un documento del 1982 da cui risulta che viene fermato dai carabinieri, ma stranamente rilasciato. Lo stesso Etro, che è suo amico e scapperà con lui, sospetterà sempre una fuga favorita dai servizi.
Anche Lojacono la farà franca. Nel processo Moro quater la giustizia italiana condannerà Lojacono all'ergastolo in contumacia per aver bloccato via Fani con Casimirri, intrappolando le auto di Moro (sentenza confermata nel 1997). Ma Lojacono, di madre svizzera, prende la residenza in Canton Ticino perché il diritto svizzero non prevede estradizione per i propri cittadini. I due brigatisti di copertura di Via Fani sono gli unici due brigatisti noti a non aver scontato nemmeno un giorno di carcere per i sei omicidi della vicenda Moro ma gli unici che, insieme all’irriducibile Moretti, potrebbero dirci qualcosa della Honda.
L’ispettore Rossi. Nel 2012 l’ex ispettore Enrico Rossi della DIGOS racconterà di una lettera anonima ricevuta nel 2009 da un quotidiano. Lo scrivente dirà di essere il passeggero della moto e di aver dato disposizione di spedire quella lettera sei mesi dopo la sua imminente morte per cancro. Sosterrà di essere stato alle dipendenze del colonnello Guglielmi insieme all’altro agente ai comandi della moto “proveniente da Torino”. Rossi dichiarerà di essere riuscito a identificare entrambi sulla base degli elementi concreti forniti dall’anonimo. “Sono riuscito a rintracciare nel 2011 gli uomini sulla Honda ma mi fermarono. E non sono riuscito ad interrogare quello che era alla guida”.
Le minacce telefoniche. Marini si trasferirà all’estero in seguito alle minacce di morte che gli arrivano a partire dalla sera stessa dell’agguato. Poco probabile che i brigatisti riescano ad individuare il numero di telefono di casa del testimone scomodo dopo solo poche ore e mentre sono impegnati a coprire la fuga e a occultare il prigioniero.
La ‘ndrangheta calabrese. Il primo a parlare di complici esterni è un super pentito della ’ndrangheta, Saverio Morabito, arrestato in Lombardia nei primi anni ’90. Le sue confessioni hanno permesso al PM milanese Alberto Nobili e alla Direzione investigativa antimafia di ottenere più di cento condanne nel maxi-processo “Nord-Sud”. Morabito, giudicato nelle sentenze «di assoluta attendibilità», rivelerà che un mafioso importante, Antonio Nirta, negli anni ’70 aveva legami inconfessabili con un carabiniere di origine calabrese, Francesco Delfino, poi diventato generale dei Servizi. Il pentito ne parlerà con paura e aggiungerà che il suo capo, Domenico Papalia, gli avrebbe rivelato che «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro Moro»: un segreto di mafia confermatogli anche dal boss Francesco Sergi.
Il trasferimento. Secondo una testimone, dopo la tempesta di fuoco, il trasferimento di Moro sull’auto dei brigatisti avviene con calma surreale. Gherardo Nucci, giornalista ASCA, fa a tempo ad affacciarsi sulla terrazza al 109 di Via Fani (sopra il Bar Olivetti) rientrare per prendere la macchina fotografica, uscire di nuovo e scattare dodici foto della scena.
Le foto di Nucci. Il rullino viene consegnato alla magistratura dalla moglie del giornalista. Non se ne troverà più traccia.
La ‘ndrangheta rimette tutto a posto. Nonostante si tratti di terrorismo politico di sinistra, e non di un fatto di mafia, la ndrangheta calabrese è molto interessata alle foto scattate da Nucci. Ecco uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sul telefono di Sereno Freato in contatto con l'On. Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro. Cazora: Un'altra questione, non so se posso dirtelo. - Freato: Si, si, capiamo. - Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo. - Freato: Quelle del posto, lì? - Cazora: Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù. - Freato: E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove - Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto preso sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro. - Freato: Capito. E' un po’ un problema adesso. - Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare? - Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire. - Cazora: Dire al ministro. - Freato: Saran tante! – Detto, fatto. Foto sparite. La ‘ndrangheta può stare tranquilla.
Le foto di Gualerzi. A metà di via Stresa e a 50 metri dall’incrocio con Via Fani, si affaccia il negozio dell’ottico Gennaro Gualerzi. Questi vede sfrecciargli davanti una 128 scura con a bordo persone che si stanno togliendo la giacca, sente delle grida, prende al volo una macchina fotografica ed esce di corsa scattando 11 fotografie entro le 09:15. L’esistenza delle foto è indicata per la prima volta in un rapporto del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Via Trionfale agli atti della Prima Commissione Moro. È un sommario del verbale rilasciato la mattina del 16 marzo dall’ottico (il nome indicato è sbagliato: “Gualersi”). Sono riportate 11 foto ma vengono corrette a penna in 16. Queste spariscono subito dopo la consegna ai Carabinieri e vengono ritrovate solo nel maggio 2017.
Il mafioso. Tra le foto di Gualerzi compare Giustino De Vuono lo "scotennato". Il volto su questa immagine inedita sembra perdersi tra la folla ma di seguito si può vedere il suo ingrandimento a confronto con le poche immagini ufficiali che lo riguardano, inclusa quella che lo raffigura su alcuni documenti del Paraguay nei quali compare il riferimento all'accusa per i reati di sequestro e omicidio della scorta di Moro.
Un altro mafioso. In un’altra foto di Gualerzi spunta - proprio davanti al Bar Olivetti - un altro noto mafioso: Antonio Nitra, detto “due nasi”.
Altri rullini scomparsi. La lista dei rullini scomparsi è inarrestabile: solo il 21 gennaio 2016 il Messaggero pubblica una foto inedita scovata fra i faldoni del processo per l’omicidio Pecorelli. Si parla anche di alcune foto a loro volta sparite dagli uffici della Procura che ritraggono parte del commando proprio durante l’azione, ma non è chiaro chi le abbia scattate o se siano mai esistite. Altri rullini vengono poi rinvenuti da una abitante della zona nel proprio giardino e da questa consegnate a un agente in borghese. C’è la testimonianza ma non se ne ha più traccia. Il giornalista Diego Cimara riferisce alla Commissione Moro dell’esistenza di altri rullini, poi scomparsi, ma anche su questo non ci sono altri elementi. Infine un’altra serie – inutile dirlo, scomparsa - di cui Antonio Ianni ha parlato alla stessa Commissione. Ianni è il primo fotografo arrivato sul posto. Scatta tre rullini quando i corpi non sono ancora stati coperti. La sera stessa, Ianni rientrando a casa trova la sua abitazione sottosopra, ma i rullini sono al sicuro: li aveva subito portati alla sede ANSA di Roma, dove lavora. Nei giorni successivi i rullini e alcune delle foto sviluppate da questi vengono trafugate direttamente dall’archivio fotografico dell’agenzia.
Spinella troppo presto. L’allarme viene diramato dalla questura di Roma alle ore 09:02. Ma Emidio Biancone, autista del capo della DIGOS Domenico Spinella, ha dichiarato in tre interrogatori separati che a quell’ora stava già correndo sul luogo dell’agguato con la Alfasud targata S88162 e Spinella a bordo. L’auto esce dalla Questura di Roma “poco dopo le 08:30”. Prima dell’allarme generale … ma quasi mezz’ora prima dell’agguato.
Le due borse. Eleonora Moro confermerà che suo marito non si separa mai da cinque borse: una con documenti riservati, una con medicinali e oggetti personali, tre con ritagli di giornale, libri, tesi di laurea dei suoi studenti. Nell’auto crivellata di colpi vengono ritrovate solo le ultime tre. Ma i testimoni non notano i terroristi trasferire anche le due borse “sensibili” insieme a Moro. Inoltre, quando Eleonora viene portata sul luogo dell’agguato, lei stessa mostra ai carabinieri che il lago di sangue che aveva inzuppato tutti i tappetini aveva risparmiato proprio due zone dove evidentemente erano appoggiate le due borse. Sparite, quindi, quando il sangue si era già rappreso e i brigatisti erano già lontani.
Ancora le borse. Bonisoli e Morucci si contraddiranno e dal confronto delle loro dichiarazioni non risulterà chiaro se e chi prelevi le due borse mancanti. Né spiegano con che criterio scelgono proprio le due borse giuste. La confusione è notevole se si pensa che dopo l’agguato vengono ritrovate nella 130 solo due delle tre borse abbandonate. La terza borsa scompare per sei giorni e poi viene fortuitamente ritrovata durante una nuova perquisizione nel bagagliaio della 130, dove prima nessuno l’aveva notata. In conclusione, due borse vengono subito ritrovate fra i sedili della 130, una sei giorni dopo nel bagagliaio e proprio le due con documenti riservati e oggetti personali scompaiono per sempre.
La pattuglia. Caricato Moro, i terroristi riescono a dileguarsi grazie ad un’altra sorprendente coincidenza: una volante della polizia staziona come ogni mattina in Via Bitossi per proteggere il giudice Walter Celentano. Proprio qui stanno arrivando le auto dei brigatisti in fuga; ma qualche istante prima, un allarme del Centro Operativo Telecomunicazioni) fa muovere la pattuglia.
Via Bitossi. Proprio accanto alla pattuglia in via Bitossi (è lunga in tutto 150 m) è parcheggiato il furgone Fiat 850T grigio chiaro (in alcune versioni è blu) con la cassa di legno pronta ad accogliere e nascondere Moro durante il trasferimento. I brigatisti lasciano il furgone nella via dove si trova la volante perché è a solo 2 km di strada dal punto dell’agguato. Ma avrebbero potuto scegliere molti altri luoghi più discreti. Il furgone non verrà ritrovato.
L’appunto. Tra i reperti sequestrati a Morucci dopo il suo arresto verrà scoperto un appunto recante il numero di telefono del commissario capo Antonio Esposito (P2), in servizio proprio la mattina del rapimento. Non c’è alcuna prova che sia stato Esposito a far togliere di mezzo la pattuglia in Via Bitossi.
La catena. Dopo aver prelevato Moro, i brigatisti fuggono sulla Fiat 132 blu guidata da Bruno Seghetti, che da Via Stresa è tornata in retromarcia su Via Fani per prelevare Moro trascinato da Raffale Fiore. Nascosto l’ostaggio con una coperta, anche Moretti scende dalla 128 dell’agguato e sale sulla 132 che parte subito in direzione di Via Trionfale. La Fiat 128 bianca di Casimirri e Lojacono, su cui sale anche Gallinari, la segue a ruota. Morucci preleva le borse dalla 132 e sale sulla 128 blu parcheggiata indietro lungo via Fani e su cui sono già saliti Balzerani e Bonisoli, poi segue le prime due a circa 50 m di distanza. La 128 blu deve aprire il corteo ma si ritrova in coda, supera le altre due ma viene bloccata in una curva stretta e ritorna in coda. Il commando ha pianificato di imboccare Via Casale De Bustis, una strada privata bloccata da una sbarra. Qui si fermano, e dalla 132 scende un brigatista con un tronchese per tagliare la catena, sollevare la sbarra e risalire in auto. Operazione poco credibile perché il tronchese dovrebbe essere pronto sulla 128 che avrebbe dovuto mantenersi in testa e perché la rottura della catena potrebbe richiamare l’attenzione. Inoltre il corteo potrebbe essere inseguito ed avere solo pochi secondi di vantaggio. Il superamento della sbarra richiede certamente molti preziosi secondi.
Il cambio. Secondo gli esecutori, il commando brigatista preleva un gruppo di nuovi mezzi in Via Bitossi ma tutte le auto usate vengono portate in Piazza Madonna del Cenacolo. In mezzo alla piazza Moro viene trasferito e chiuso in una cassa nel furgone Fiat 850T guidato da Moretti che parte seguito da una Dyane azzurra al cui volante è Morucci. I due mezzi scompaiono. Per portare a termine il sequestro del più importante uomo politico italiano - e fronteggiare eventuali posti di blocco - le BR diranno di aver usato solo un furgone e una utilitaria. Ma ad esempio per rapire Vittorio Vallarino Gancia nella tranquilla strada fra Canelli e Alessandria, le stesse Br ne avevano usate tre.
Via Licinio Calvo. La Fiat 132 blu, la Fiat 128 blu e la Fiat 128 bianca usate nella prima parte della fuga vengono portate tutte e tre a quasi un km dalla Piazza, in via Licinio Calvo, quindi abbandonate. Il problema è che vengono lasciate in tre momenti diversi: la 132 viene abbandonata al civico 1 alle 09:23, due testimoni vedono allontanarsene un uomo e una donna (se è vero, non è mai stata identificata: Barbara Balzerani era sulla 128 blu). L’auto viene identificata dalle forze dell’ordine a meno di mezz’ora dal rapimento. Alle 04:10 della notte fra il 16 ed il 17 marzo, la 128 bianca viene identificata sulla stessa via all’altezza del civico 23. Solo alle 21:00 del il 19 marzo viene individuata, sul lato sinistro all’altezza dei civici 23 e 25, la Fiat 128 blu, a pochi metri dal luogo in cui era stata trovata la 128 bianca due giorni prima. Le immagini del servizio RAI di Piero Badaloni dopo il ritrovamento della prima 128, dimostrano che l’altra 128 il 18 marzo non c’era ancora. E i verbali di Polizia dichiarano che tutte le auto in sosta nella via sono state ispezionate dopo ciascuno dei tre separati ritrovamenti.
Problemi di parcheggio. Via Licinio Calvo termina con una scalinata che, attraverso via Prisciano, la collega a Piazza Medaglie D’Oro dove si trovano le fermate di numerosi autobus. Per questo, molti romani parcheggiano abitualmente proprio in Via Calvo per prendere l’autobus. Trovare tre parcheggi liberi alle 9:30 di un giovedì mattina, in una strada sempre affollata – come mostrano anche le immagini della Polizia dopo i tre ritrovamenti - è un bel colpo di fortuna. Oppure, se realmente le auto giungono più o meno contemporaneamente come sosterranno i brigatisti, ad attenderle ci dovrebbero essere altrettante auto con altrettanti complici pronti a cedere il posto alle macchine dell’agguato. Del resto, il problema della mancata individuazione di fiancheggiatori, impiegati a guardia di auto e parcheggi, rimane un aspetto non chiarito di tutta la vicenda.
Fuga solitaria. Secondo i brigatisti, il furgone prosegue da solo con Moro nella cassa, a bordo Moretti, Morucci e Seghetti. E’ l’unica volta in cui brigatisti rossi in fuga con un ostaggio dopo un’azione rimangono solo in tre e su un singolo mezzo. Circostanza che impedirebbe loro di forzare posti di blocco o gestire eventuali problemi.
Dalla Banda della Magliana alla seduta spiritica: tutto quello che non torna nella detenzione di Aldo Moro. Viaggio in tre puntate nelle molte zone oscure di uno degli episodi più tragici della storia italiana. Il caso Moro. Ecco tutto quello che non torna nelle ricostruzioni ufficiali. Errori, omissioni. E bugie, scrive Luca Longo il 2 maggio 2018 su "L’Inkiesta".
Un altro luogo affollato. La cassa di Moro viene scaricata dal Fiat 850T e caricata su una Citroën Ami nel parcheggio sotterraneo della Standa di Via Colli Portuensi dove li aspetta Gallinari. Moretti e Gallinari diranno che ripartono sulla Citroën familiare per portare da soli la cassa di Moro nel covo di Via Montalcini mentre gli altri si disperdono. Il parcheggio di un supermercato attorno alle 10 di mattina è scelto proprio per trasferire una grossa e pesante cassa, col rischio che Moro gridi chiedendo aiuto capendo di trovarsi in un luogo affollato.
Via Montalcini, 8. Appartamento al piano terra, interno 1, 100 mq completo di giardino, garage e cantina di proprietà dei coniugi Altobelli: in realtà Anna Laura Braghetti (che lo acquista l’anno precedente con 50 milioni in contanti consegnati da Moretti) e Germano Maccari. Secondo tutti i brigatisti, Aldo Moro viene rinchiuso ininterrottamente dal 16 marzo al 9 maggio 1978 in un cubicolo 2,80 m per 1 m separato dallo studio con una parete insonorizzata e accessibile da una libreria che ruota su un cardine. Alla fine del sequestro le BR smantelleranno la parete ma Braghetti continuerà a vivere lì per ancora un anno, quando - convinta di essere seguita dalla Polizia - scapperà lasciando alla zia l’incarico di vendere “ma senza fare sconti”. La zia riesce a rivendere l’appartamento ancora per 50 milioni. Unico caso noto di un covo terrorista che non viene abbandonato ma rimane in uso per un altro anno e poi rivenduto per rientrare nelle spese.
Prigionia. Moretti sosterrà che Moro “scriveva sulle ginocchia su dei cuscini”. Per le pulizie personali “Quando occorre gli vengono portati dei catini”. “Non ha mai camminato. Si alza, si sgranchisce le gambe, ma non si è mai mosso da lì dentro”. L’autopsia accerterà l’assoluta assenza di atrofizzazione degli arti inferiori e che il corpo di Moro è in una condizione di igiene assoluta, che mal si concilia con l’affermazione di Moretti circa i catini che gli sarebbero stati concessi per le sue pulizie personali. Il Sisde, nel luglio 1979, con registrazione ambientale di una conversazione tra due brigatisti detenuti nel carcere dell’Asinara, ascolterà che Moro ottiene “tutto quello che (sic) aveva bisogno: si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva […], è stato trattato come un signore”.
Giovanni Ladu. Bersagliere di leva, nel 2008 e poi nel 2012 dichiarerà di essere stato, insieme a altri nove militari in borghese, piazzato in un appartamento adiacente all’Interno 1 per presidiare una stazione di controllo e prendere nota di chi entra e esce dall’appartamento di fronte. Curioso che si affidi una missione così delicata ad un soldato di leva. Ladu si giustifica dicendo di essere stato un membro di Gladio e prosegue dicendo che il 7 maggio arriverà l’ordine di smobilitare. Verrà indagato per calunnia dalla Procura di Roma.
E l’altra prigione? Una perizia sul leader democristiano dimostrerà che è stato tenuto prigioniero in almeno due posti diversi. È uno studio sui reperti sabbiosi rinvenuti sugli indumenti di Moro e sulle ruote della Renault rossa dove sarà trovato il corpo. Moretti sosterrà che sono collocati a bella posta nei vestiti e nelle scarpe dello statista allo scopo di depistare le indagini. Appare poco credibile che in pieno sequestro, con una città assediata e centinaia di posti di blocco, la Faranda e la Balzerani vadano a raccogliere sulle spiagge del litorale laziale “sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe” del sequestrato per precostituire un depistaggio che acquisterà validità solo dopo il ritrovamento del cadavere.
I vicini di casa. La banda della Magliana è come il prezzemolo: compare in tutte le vicende criminali ma anche in tutti i depistaggi. Lasciando da parte le congetture, è innegabile che numerosi esponenti abitino proprio nei pressi della prigione di Moro: Danilo Abbruciati con altri due malavitosi in via Fuggetta 59 (a 120 m dalla prigione; Danilo Sbarra e Francesco Picciotto, uomo di Pippo Calò, in via Domenico Luparelli 82, a 130 m (ma a 50 m se si passa dall’ingresso secondario); in via di Vigna Due Torri, 135 (a 150 m) abita Ernesto Diotallevi, compare di Calò. In via Montalcini 1 sorge villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra, di cui Pippo Calò si serve per riciclare il denaro proveniente da attività mafiose. Se davvero le BR tengono prigioniero Moro in un luogo sotto il controllo fisico della banda della Magliana, ci si chiede se Moretti, Gallinari e la Braghetti ignorino di essere letteralmente circondati dai capi della banda o conoscono questa circostanza e hanno scelto quel posto proprio perché sanno di poter contare su una benevola protezione?
La seduta spiritica. Questo rimane il mistero più famoso: nell’ultimo quarto di secolo è stato continuamente rilanciato solo per tirare fango addosso a uno dei dodici protagonisti. Secondo i professori bolognesi, il 2 aprile del ’78 a casa Clò il piattino indicò un mare di lettere senza significato e anche parole di senso compiuto, come Bolsena e Viterbo, poi uscì anche Gradoli. La Commissione Moro, acquisita la testimonianza di tutti i partecipanti, ha concluso che è abbastanza surreale la tesi che questo sia stato un modo per segnalare il covo di Via Gradoli preferendolo a un messaggio anonimo perché quest’ultimo si sarebbe perso fra le migliaia ricevuti in quei giorni dagli inquirenti. Se ambienti dell’Autonomia bolognese o altri simpatizzanti delle BR fossero venuti a conoscenza del covo, non avrebbero avuto alcun motivo per segnalarlo collaborando con le Istituzioni. La loro posizione era riassunta nel famoso slogan “Né con lo stato, né con le BR.” E se anche avessero avuto un po’ di senso civico, piuttosto che questa messinscena sarebbe stato più furbo recapitare un messaggio anonimo con circostanze precise a persone in grado di segnalarlo ai vertici del governo o della magistratura.
Via Gradoli 96, interno 11, secondo piano. È lì che abitano nella primavera del 1978, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Proprio in quel palazzo diversi appartamenti erano di proprietà dei servizi segreti, intestati a società di copertura ed occupati da personaggi vicini ai servizi, alle forze dell’ordine e a informatori di polizia e carabinieri. Ma tutta la zona vede una alta densità di appartenenti ai servizi. Ad esempio al numero 89 - proprio di fronte al 96 - prima e durante il sequestro Moro abita il sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani. E’ un agente del Sismi, proviene da Porto San Giorgio (quindi è un compaesano di Mario Moretti). Il regista del sequestro Moro ha trovato un posto ideale per la sua base.
La dirimpettaia. Lucia Mokbel è l’inquilina della porta accanto all’interno 11: l’appartamento numero 9, dove alloggia col convivente Gianni Diana, impiegato da un commercialista amministratore di immobili in cui figurano anche società in mano ai servizi segreti. Mokbel, di origine egiziana, figlia di un diplomatico legato ai Servizi del suo Paese e conoscente del commissario Elio Cioppa, riferirà alla polizia di strani ticchettii notturni, tipo alfabeto morse (che la Mokbel conosce), provenienti dall'appartamento brigatista.
La perquisizione. Secondo il giudice Luciano Infelisi, immediatamente dopo il sequestro le perquisizioni per individuare la prigione di Moro si concentrano su tutti i miniappartamenti ed i residence della zona. Anche Via Gradoli, 96 viene passata al setaccio solo due giorni dopo, ma all’interno 11 non risponde nessuno e gli agenti se ne vanno. «Non mi fu dato l’ordine di perquisire le case — riferirà in aula il sottufficiale Merola — Era solo un’operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l’autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L’interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi». Ma Lucia Mokbel - la signora in questione - aggiunge di aver dato il biglietto proprio ai poliziotti, perché lo consegnassero a Elio Cioppa (poi risultato iscritto alla P2). Quel biglietto non è mai stato ritrovato.
Gradoli (Viterbo). Fra le decine di migliaia di perquisizioni in tutta Italia, il 6 aprile viene effettuato anche un controllo mirato in alcune case coloniche nel comune di Gradoli (Viterbo), vicino al lago di Bolsena. L'operazione viene compiuta su segnalazione alla Direzione generale di Polizia tramite il Gabinetto del Ministro dell'Interno. Il biglietto autografo del 5 aprile, trasmesso al Capo della Polizia dal dottor Luigi Zanda Loi, capo ufficio stampa del Ministro Cossiga, contiene non parole smozzicate riferite da un piattino paranormale ma due precise indicazioni: "Casa Giovoni - Via Monreale, 11 - scala D int. 1 piano terreno - Milano" e "lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina". Le perquisizioni non daranno alcun frutto.
Il falso comunicato numero 7. Le BR durante il sequestro fanno trovare 9 comunicati. Il 18 aprile, proprio il trentennale delle prime elezioni politiche che consegnarono il Paese alla DC, in Piazza Indipendenza compare il presunto comunicato numero 7. Realizzato dal falsario Antonio Chichiarelli, della Banda della Magliana, neofascista e confidente dei Servizi segreti, il falso sostiene che Moro è stato ucciso e buttato nel Lago della Duchessa, fra Lazio e Abruzzo, dove viene cercato per due giorni dai sommozzatori anche se la superficie è completamente ghiacciata.
Le BR interpretano il comunicato taroccato come un falso di Stato e un rifiuto a trattare uno scambio di Moro coi brigatisti in carcere.
La doccia. Sempre il 18 aprile, le forze dell'ordine scoprono il covo di via Gradoli, 96. Questo avviene solo per una perdita d'acqua segnalata ai vigili del fuoco. È provocata da un rubinetto della doccia lasciato aperto, appoggiato su una scopa e con la cornetta rivolta verso un muro. Mario Moretti dirà di averne avuta notizia dai giornali, che la riportano subito. Perciò non vi fa ritorno e sfugge alla cattura. La polizia, durante la perquisizione, trova anche la targa originale della 128 bianca usata per il tamponamento di via Fani. Un souvenir.
Le lettere. Moro scrive 86 lettere durante la prigionia. Sono state esaminate per 40 anni. Leonardo Sciascia per primo ipotizzerà che nascoste nelle parole di Moro ci siano indicazioni su dove si trova. «Io sono qui in discreta salute» del 27 marzo, dove indica alla moglie di essere a Roma. «mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato» inviata a Cossiga, in cui - col senno di poi - sembra specificare che si trova in un piano basso sotto un condominio affollato ma mai controllato che potrebbe essere opportunamente perquisito, e in cui, sempre rivolto a Cossiga, avverte: «che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni.» A buon intenditor…
Via Gradoli 96, interno 11, secondo piano. È lì che abitano nella primavera del 1978, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Proprio in quel palazzo diversi appartamenti erano di proprietà dei servizi segreti, intestati a società di copertura ed occupati da personaggi vicini ai servizi, alle forze dell’ordine e a informatori di polizia e carabinieri. Ma tutta la zona vede una alta densità di appartenenti ai servizi.
Gli interrogatori. Ogni giorno Moretti esce da Via Gradoli per andare alla prigione e interrogare Moro. Gli interrogatori vengono registrati e poi sbobinati. Le bobine originali, secondo i brigatisti, vengono distrutte insieme agli originali degli scritti del prigioniero “perché non importanti”. Il presidente DC parla dell'organizzazione Gladio, del Piano Solo (il tentato colpo di Stato del Generale De Lorenzo, capo dei Carabinieri, nel 1964), della connivenza di parte della DC e dello Stato nella strategia della tensione, ma anche dello scandalo Italcasse e Caltagirone. Sono esattamente le rivelazioni che le BR cercano e che nei primi comunicati promettono di rendere pubbliche. Ma non manterranno mai la parola e sostengono di aver preferito distruggere tutto “perché non importante”.
I comitati di crisi. Il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga nomina già il 16 marzo il «comitato tecnico-politico-operativo», presieduto dallo stesso Cossiga e - in sua vece - dal sottosegretario Nicola Lettieri, di cui fanno parte i comandanti di polizia, carabinieri e guardia di finanza, oltre ai direttori del SISMI e del SISDE, al segretario generale del CESIS, al direttore dell'UCIGOS e al questore di Roma. Nomina anche il «comitato informazione», di cui fanno parte i responsabili dei vari servizi: CESIS, SISDE, SISMI e SIOS.
Viene creato anche un terzo comitato, non ufficiale, denominato «comitato di esperti». Della sua esistenza si saprà solo nel 1981, quando Cossiga stesso ne rivelerà l'esistenza alla Commissione Moro, senza indicarne le attività e le decisioni. Di questo organismo fanno parte, tra gli altri: Steve Pieczenik (funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano), il criminologo Franco Ferracuti, Stefano Silvestri, Vincenzo Cappelletti (direttore generale dell'Istituto per l'Enciclopedia italiana) e Giulia Conte Micheli. Si avranno le prove che la maggior parte dei membri dei tre comitati sia iscritta alla Loggia P2 di Licio Gelli. Di Pieczenik riparleremo dopo.
Moretti, gioventù di un brigatista particolare. Mario Moretti è il regista del rapimento Moro: partecipa al rapimento, agli interrogatori, all’eliminazione del presidente DC. Una figura particolare. I suoi studi giovanili vengono finanziati da una benestante famiglia nobile fascista, Camillo e Anna Casati Stampa di Soncino. Il 30 agosto 1970 Camillo ucciderà Anna e il suo amante, Massimo Minorenti, poi si toglierà la vita. La loro villa, ereditata dalla figlia Anna Maria, verrà poi venduta per 250 milioni (parliamo di 3500 mq, inclusa una pinacoteca con opere del ‘400 e del ‘500, una biblioteca con 10.000 volumi antichi, un parco immenso, scuderie e piscine) grazie alla decisiva intermediazione del pro-tutore della ricca ereditiera ancora minorenne: l’avvocato Cesare Previti. L’acquirente e “utilizzatore finale” di Villa San Martino è Silvio Berlusconi, ma questa è un’altra storia, torniamo a Moretti. Verrà assunto alla Sit-Siemens nel 1968 grazie ad una lettera di raccomandazione di Anna Casati. Lì conosce Corrado Alunni, Paola Besuschio, Giuliano Isa, futuro zoccolo duro delle Brigate Rosse, l’ala militarista osteggiata da Curcio e Franceschini, contrari alla lotta armata. Moretti il 30 giugno 1971, partecipa con Renato Curcio ad una rapina per autofinanziarsi a Pergine di Valsugana. E’ la sua prima azione all’interno delle Brigate Rosse, è sicuro di sé, pronto a tutto. Durante il fallito rapimento del politico democristiano Massimo De Carolis, le forze dell’ordine decapitano l’intera classe dirigente delle Br, ma proprio lui riesce a fuggire. Però all’interno del covo che avrebbe dovuto accogliere De Carolis, polizia e carabinieri trovano in una scatola di scarpe le fotografie di Curcio e altri scatti compromettenti. Quella scatola l’ha dimenticata Moretti, che pure assicura i compagni di averla bruciata. E inizia una latitanza obbligata. Nel 1974 vengono arrestati a Pinerolo Curcio e Franceschini, durante un incontro con Silvano Girotto, detto Frate Mitra, infiltrato dai carabinieri. Un incontro al quale avrebbe dovuto partecipare anche Mario Moretti, opportunamente avvertito da una telefonata anonima che gli permette di sfuggire all’arresto. La telefonata arriva ben quattro giorni prima, ma nel frattempo Moretti “non riesce” ad avvisare Curcio e Franceschini.
Moretti, la scalata di un brigatista particolare. Curcio e Franceschini sono fuori dai giochi e le BR virano decisamente verso la linea dura: lotta armata contro lo Stato. In uno scontro a fuoco con i carabinieri durante il rapimento dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia muore Mara Cagol, mentre Giorgio Semeria rimane gravemente ferito. Semeria dal carcere riuscirà a scrivere a Curcio per avvertirlo che Moretti è una spia e che Mara Cagol è stata ammazzata quando era già ammanettata e in ginocchio. Moretti è ormai il capo indiscusso delle Brigate Rosse, si trasferisce a Roma e si prepara a gestire la stagione di piombo che culminerà con il rapimento Moro.
Curcio intanto evade dal carcere di Casale Monferrato con una fuga rocambolesca e incontra i nuovi vertici delle BR. Moretti insiste per soggiornare nell’appartamento di Curcio, di cui non conosce ancora l’indirizzo. Solo due giorni dopo, la polizia fa irruzione nell’abitazione del vecchio leader, arrestandolo nuovamente. Confiderà in seguito Curcio a Franceschini “Sono convinto che Moretti sia una spia”.
Moretti, la fine di un brigatista particolare. Il pluriricercato Moretti negli anni successivi va più volte in Francia per incontrare compagni latitanti. Rivelerà questa circostanza durante il processo provocando lo stupore degli altri brigatisti coimputati che non ne sapevano nulla. Ne riparleremo più avanti alla voce Hyperion. Durante il sequestro Moro, viaggia ripetutamente tra Roma e Firenze, sfuggendo a qualsiasi controllo. Il 4 aprile 1981, dopo oltre dieci anni di latitanza, la primula rossa verrà arrestata e condannata a sei ergastoli. Dopo soli 16 anni, nel luglio del 1997, otterrà la semilibertà. Moretti non si è mai pentito, né si è mai dissociato e non ha collaborato con gli inquirenti.
Viaggio in tre puntate nelle molte zone oscure di uno degli episodi più tragici della storia italiana. Il caso Moro. Ecco tutto quello che non torna nelle ricostruzioni ufficiali. Errori, omissioni. E bugie, scrive Luca Longo il 5 maggio 2018 su "L’Inkiesta".
Via Caetani. Le BR telefonano al professor Tritto il 9 maggio alle 12:30 per indicare dove si trova il corpo di Moro. Negli interrogatori successivi diranno di aver lasciato la Renault 4 rossa col cadavere fra le 7:00 e le 8:00 della mattina. L’autopsia rivela che la morte si colloca tra le 9:00 e le 10:00 della mattina stessa. Non si capisce perché attendere oltre quattro ore tra l’abbandono dell’auto e la telefonata. Alcune testimonianze diranno di aver notato la Renault parcheggiata solo a partire dalle 12:30 e non prima.
Informatori e infiltrati. La Commissione Moro ha più volte constato che le BR sono state oggetto di un attento e prolungato monitoraggio da parte degli apparati di sicurezza. Lo confermano, fra le tante prove, la lettera scritta da Duccio Berio nel 1972 al suocero Alberto Malagugini in cui riferisce dei contatti con un appartenente al SID che gli propose di infiltrarsi nelle BR; la vicenda dell’infiltrato Silvano Girotto che nel 1974 fece scattare la trappola per Curcio e Franceschini; l’audizione del giudice Pietro Calogero, che conferma “resoconti periodici di informatori infiltrati” nelle Brigate Rosse e in altre formazioni dell’estremismo di sinistra. Anche se è ragionevole pensare che, dopo la cattura dei vertici delle BR grazie a Girotto, i brigatisti abbiano rafforzato le cautele per evitare ulteriori infiltrazioni, non può non sorprendere che il flusso informativo si sia inaridito proprio nella fase precedente il sequestro di Aldo Moro.
Via Montenevoso, Milano. Il 1 ottobre 1978 i carabinieri di Carlo Alberto Dalla Chiesa pedinano il brigatista Lauro Azzolini e trovano il covo di Via Monte Nevoso e vi scoprono alcune pagine del memoriale con le trascrizioni degli interrogatori. Il covo viene perquisito per cinque giorni e vi vengono posti i sigilli. Il Senatore Sergio Flamigni, parlando in carcere con Azzolini e Bonisoli, viene a sapere che nel covo avrebbe dovuto trovarsi la trascrizione completa degli interrogatori. Nel 1986 e nel 1988 Flamigni chiede al magistrato competente Ferdinando Pomarici di riaprire il covo e cercare meglio, ma viene rassicurato sul fatto che il covo è stato “scarnificato”.
Un’altra manina. Le carte di Moro ritrovate durante il blitz a Via Montenovoso vengono prelevate e fotocopiate prima della verbalizzazione da parte della Magistratura e poi riportate nel covo, per essere consegnate la sera stessa al generale dalla Chiesa. La seconda sezione civile della Corte d’Appello del Tribunale di Milano, ha stabilito che il colonnello Umberto Bonaventura del SISDE entra nel covo durante la perquisizione e porta via le carte, restituendole dopo qualche ora, visibilmente assottigliate.
Di nuovo in via Montenevoso. Il 9 ottobre 1990 il proprietario dell’appartamento incarica un muratore di ristrutturarlo. Si scopre che i sigilli posti nel 1978 sono stati rotti. Il muratore toglie sotto una finestra quattro chiodi e un pannello di cartongesso e scopre uno vano contenente un mitra Tokarev avvolto in un giornale del 1978, 60 milioni in contanti, pistole, detonatori e 229 pagine fotocopiate del memoriale Moro. Ma mancano ancora diverse pagine, fino ad ora mai ritrovate.
Carmine Pecorelli. Il fondatore dell’agenzia di stampa OP-Osservatore Politico, diventata rivista settimanale proprio nel marzo del 1978, deve la sua fama (e la sua morte) alle sibilline “profezie” che pubblica. Queste sono frutto di notizie provenienti dalla sua rete di contatti nella politica, nella loggia P2 (di cui fa parte), nei vertici dei Carabinieri e nei servizi segreti.
OP prima. Il 15 marzo, il giorno prima del sequestro, pubblica un articolo che - citando le Idi di marzo e collegandole con il giuramento del governo Andreotti - fa riferimento a un nuovo Bruto.
OP durante. Durante il sequestro è il primo a dichiarare la falsità del Comunicato n. 7. Rivela che all’interno delle BR ci sono due fazioni, i trattativisti e quelli che vogliono uccidere il Presidente DC ad ogni costo, che “gli autori della strage sono dei professionisti addestrati in scuole di guerra del massimo livello” e non sono gli stessi che tengono prigioniero Moro. E’ il primo a notare che in Via Gradoli tutte le prove che si tratta di un covo sono in bella vista per essere sicuri che non possano sfuggire anche al pompiere più distratto. Altri bersagli privilegiati di Pecorelli sono Giulio Andreotti, di cui descrive ad esempio i rapporti con cosa nostra, l’imprenditore Nino Rovelli o l’agente del SID Mario Giannettini, o il tentativo di corruzione proposto dal braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, per convincere lo stesso Pecorelli a tacere (30 milioni di lire, prestati da Caltagirone).
OP dopo. Dopo il sequestro, Pecorelli scrive che il "generale Amen" (il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) avrebbe informato il ministro dell'Interno Francesco Cossiga dell'ubicazione del covo in cui era prigioniero. Ma Cossiga non avrebbe "potuto" far nulla poiché obbligato verso qualcuno o qualcosa. Il generale Amen, sostenne Pecorelli nel 1978, sarà ucciso (profezia poi avveratasi nel 1982) proprio a causa dalle lettere di Moro. Pecorelli pubblica su OP anche alcuni documenti inediti sul sequestro, comprese tre lettere inviate alla famiglia e dimostra di conoscere l’esistenza del Memoriale mesi prima della prima parte del suo ritrovamento. Ha evidentemente scoperto alcune verità scottanti, tanto che profetizza anche il suo stesso assassinio. Anche questa profezia si avvera il 20 marzo 1979, esattamente un anno dopo il rapimento Moro e la prima uscita di OP. Ma esattamente il giorno stesso in cui Sandro Pertini avvalla la nascita del quinto governo Andreotti. Il pentito Buscetta dichiarerà che è stato ucciso dalla Mafia con la manovalanza della Banda della Magliana per “fare un favore ad Andreotti”, preoccupato per certe informazioni sul caso Moro.
Hyperion. Il primo a parlare di una centrale eversiva a Parigi è Giulio Andreotti su “Il Mondo” nel 1974: «Sono tutt’ora convinto che una centrale fondamentale, che dirige l’attività dei sequestri politici per finanziare i piani d’eversione e che coordina lo sviluppo terroristico su scala anche europea, si trova a Parigi». Proprio in quell’anno si sfalda il gruppo estremista guidato da Duccio Berio, Vanni Mulinaris, Corrado Simioni, Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti allo scopo di «contribuire alla crescita politica delle masse e alla trasformazione dello scontro in lotta sociale generalizzata». Gli ultimi tre entrano a fare parte delle Brigate Rosse, mentre i primi tre si spostano proprio a Parigi (la Francia riconosce facilmente lo status di rifugiato politico) e danno vita alla scuola di lingue Hyperion (in Quai de la Tournelle, 27). Alberto Franceschini in Commissione Stragi riferirà che i tre fondatori di Hyperion erano in disaccordo con l'impostazione dei leader storici delle BR guidati da Curcio e Franceschini. Questi consideravano troppo violento il gruppo originale della scuola parigina (soprannominato "Superclan", ovvero "superclandestino"). I vertici di Hyperion avrebbero mantenuto un legame speciale, invece, con Moretti che faceva parte del Superclan. Questo legame si rafforza proprio dopo l’8 settembre 1974, giorno della cattura dei capi brigatisti Curcio e Franceschini. A quel punto, l’oltranzista Moretti rimane l'unico tra i capi storici brigatisti in libertà. Durante i 55 giorni, Hyperion di Parigi era strettamente collegata con una scuola francese di lingue con sede a Roma in piazza Campitelli, a 150 metri da via Caetani, la via dove sarà rinvenuto il 9 maggio 1978 il corpo di Moro. Il mese precedente il sequestro Moro, Hyperion aveva aperto a Roma un ufficio di rappresentanza in via Nicotera 26 (nello stesso stabile dove si trovano alcune società coperte del SISMI); lo stesso ufficio viene chiuso subito dopo il sequestro.
Corrado Simioni. L’ambiguo fondatore di Hyperion non gode della fiducia di molti estremisti per una serie di comportamenti ambigui culminati proprio con l’arresto di Curcio e Franceschini. Simioni, dopo essere stato espulso da PSI nel 1965 per “condotta immorale”, si trasferisce a Monaco di Baviera ma nel 1967 ritorna a Milano dove lavora per la Mondadori, ma anche per l’USIS (United States Information Service), diretta emanazione della CIA. La sede romana dell’USIS si trova al numero 32 di via Caetani, quasi di fronte al punto in cui sarà parcheggiata la Renault rossa con il corpo di Moro. Fra le varie ambiguità che portano il nucleo storico e moderato delle BR a dubitare di Simoni c’è il fatto che nel settembre 1970 fornisce a Maria Elena Angeloni e Giorgio Christou Tsikouris esplosivo e timer per compiere un attentato all’ambasciata USA di Atene. L’ordigno esplode anzitempo e i due muoiono. L’esplosivo e il timer dell’attentato di Atene sono identici a quelli che nel 1972 uccidono Giangiacomo Feltrinelli, proprio mentre sta piazzando un ordigno su un traliccio dell’Enel nelle campagne di Segrate. Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione Stragi per 7 anni, scrive che Hyperion in realtà era il punto d'incontro tra i servizi segreti delle nazioni contrapposte nella Guerra Fredda, necessario nella logica di conservazione degli equilibri derivanti dagli accordi di Yalta. Hyperion quindi sarebbe stato un mezzo per azioni comuni contro eventuali sconvolgimenti dell'ordine stabilito a Yalta. Proprio la politica di apertura al PCI attuata da Moro, poteva considerarsi una minaccia degli stessi equilibri politici consolidatisi fino a quel momento.
Steve Pieczenik. Dopo via Fani Cossiga si fa affiancare da un esperto statunitense: Steve Pieczenik, assistente del Sottosegretario di Stato e Capo dell'Ufficio gestione del terrorismo internazionale del Dipartimento di Stato USA. Ventotto anni dopo, Pieczenik rivela di aver deciso di creare il falso comunicato n. 7, e di aver spinto le Brigate Rosse a uccidere Moro, con lo scopo di delegittimarle, quando ormai era chiaro che i vertici del governo non volevano fosse liberato. Il ruolo giocato nel sequestro e nell’omicidio, Pieczenik lo descrive benissimo da solo durante una intervista del 2006: «Capii subito quali erano le volontà degli attori in campo: la destra voleva la morte di Aldo Moro, le Brigate rosse lo volevano vivo, mentre il Partito Comunista, data la sua posizione di fermezza politica, non desiderava trattare. Francesco Cossiga, da parte sua, lo voleva sano e salvo, ma molte forze all'interno del paese avevano programmi nettamente diversi, il che creava un disturbo, un'interferenza molto forte nelle decisioni prese ai massimi vertici. [...] Bisognava evitare che i comunisti di Berlinguer entrassero nel governo e, contemporaneamente, porre fine alla capacità di nuocere delle forze reazionarie e antidemocratiche di destra. Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela, scongiurando il rischio che Moro venisse liberato prima del dovuto. Ma mi resi conto che, portando la mia strategia alle sue estreme conseguenze, mantenendo cioè Moro in vita il più a lungo possibile, questa volta forse avrei dovuto sacrificare l'ostaggio per la stabilità dell'Italia»… «Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d'accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate rosse per farlo uccidere.»
Conclusioni (?) In conclusione, non ho nuove risposte da proporre, o nuove originali tesi da discutere. Questo è solo un breve elenco delle principali lacune e contraddizioni che ancora lasciano nell’ombra quello che è veramente successo in quei 55 giorni che ex brigatisti e Istituzioni dichiarano completamente chiariti. Da Via Fani in poi, nella migliore tradizione italiana, i depistaggi ad opera di chi voleva nascondere la verità si sono mescolati inestricabilmente agli errori in buona fede, alla cialtroneria di apparati dello Stato, alle invenzioni di persone malate di protagonismo, alle fantasiose teorie dei complottisti per partito preso, pronti a giurare che sotto qualsiasi vicenda oscura ci sia lo zampino degli eterni cattivi del ‘900: i servizi segreti - deviati o stranieri - la P2, la mafia, la banda della Magliana e, naturalmente, Cossiga e Andreotti. Il guaio è che questo fu il momento cruciale che avrebbe potuto portare l’Italia a camminare sulle proprie gambe affrancandosi dai blocchi contrapposti della guerra fredda. Il cammino che avrebbe portato i cittadini a scegliere ogni volta tra due proposte politiche alternative ma entrambe fondate sull’identità nazionale, sul rispetto reciproco, sugli stessi valori e sui principi della Costituzione. Troppi avevano interesse a mandare fuori strada chi stava compiendo quel cammino, e fra questi è provato che ci furono anche gli eterni cattivi del ‘900: i servizi segreti - deviati e stranieri - la P2, la mafia, la banda della Magliana e, naturalmente, Cossiga e Andreotti.
QUELLO CHE NON DICONO.
Quando Aldo Moro salvò l’Italia, storia del luglio ’60. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Luglio 2020. Il luglio 1960 si è sviluppato come è stato descritto da Claudio Petruccioli e da Fausto Bertinotti. Si sarebbe però risolto in una tragedia peggiore (ci furono comunque manifestanti uccisi dalla polizia in varie città) se non ci fosse stato uno sbocco politico, quello offerto dal Psi con il centro-sinistra. Ciò è sottolineato nella ricostruzione di Petruccioli e in parte anche in quella di Bertinotti. Quello che non ricordano è che quello sbocco alle origini fu costruito non d’intesa, ma contro una parte cospicua del Pci e contro quella parte del Psi che poi ottusamente fece nel 1964 la scissione del Psiup, sulla quale torneremo. In quella vicenda un’autentica stranezza fu il comportamento assai contraddittorio del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Il vero artefice dell’elezione di Giovanni Gronchi contro il gruppo dirigente democristiano fu Pietro Nenni, che si mosse molto abilmente per aggiungere un tassello nella costruzione del centro-sinistra. Lo fece con una complessa manovra parlamentare che vide combinare insieme i voti di tutta la sinistra (Pci e Psi) e di una larga parte del centro-destra (destra democristiana antifanfaniana e missini). Tambroni era un uomo di Gronchi che gli diede l’incarico proprio nella logica di preparare il centro-sinistra. A loro volta sul terreno del gioco tattico e della manovra, la destra democristiana e quella missina non sbagliarono un colpo e ad un certo punto Tambroni, che era un mediocre avvocato di provincia, sfuggì sia alla gestione di Gronchi sia al controllo del gruppo dirigente democristiano che non voleva certo trovarsi in mezzo al decollo di una guerra civile. Ma Tambroni era stato per anni ministro degli Interni e in quel mondo opaco c’erano forze che in nome dell’anticomunismo, ideale che poi nel 1964 si tradusse in antisocialismo assai pratico, erano pronte. Tambroni sfuggì a tutti, non solo al suo originario sponsor Giovanni Gronchi, ma anche al gruppo dirigente democristiano. Sarebbero stati guai serissimi, con tutti quei morti per le strade ma anche con quella mobilitazione della polizia, se Moro non fosse stato in grado di proporre una soluzione di tregua che si fondava sul fatto che per il futuro era possibile una soluzione politica organica di stampo riformista, che era quella del centro-sinistra. Quello sbocco politico non ci sarebbe stato se a suo tempo, cioè dai tempi del rapporto segreto di Kruscev e specialmente dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, da un lato Pietro Nenni non avesse rotto con il Pci e ricostruito l’autonomia politica e culturale del Psi e dall’altro lato Riccardo Lombardi, su questo totalmente concorde con Nenni, non avesse costruito, insieme ad Antonio Giolitti, agli amici de Il Mondo e a Ugo La Malfa i punti programmatici dell’eventuale intesa con la Dc, che aveva come punti chiave la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma urbanistica, la riforma della federconsorzi, la riforma della scuola. L’autonomia socialista fu riconquistata non d’intesa, ma contro larga parte del Pci e anche contro un bel pezzo di Psi che non a caso al Congresso di Venezia del Psi nel 1957 impallinò Nenni nell’elezione del Comitato centrale. Fortunatamente prima del luglio del 1960 c’era stato il Congresso del Psi nel 1959 vinto da Nenni per cui lo sbocco politico dal 1960 in poi era possibile, altrimenti l’esplosione del movimento del luglio del ’60 si sarebbe trovato in un tragico cul de sac. Certamente di fronte all’autentica provocazione di un monocolore democristiano con l’appoggio determinante del Msi, ma specialmente all’autentica provocazione costituita dalla convocazione a Genova del Congresso del Msi, nella città ligure si scatenò di tutto: quel pezzo di resistenza partigiana, molto forte in Liguria, che si sentiva “tradita” dalle vicende successive al 1945, i “camalli del porto”, forti nuclei di classe operaia, un’inattesa ribellione giovanile, anche vaste aree di ceto medio intellettuale: tutto ciò – espresso poi in modo icastico dal comizio di Pertini e dalla battuta di Riccardo Lombardi («non c’è il rischio di guerra civile, la guerra civile c’è già») – fece capire al gruppo dirigente democristiano che la coppia Gronchi-Tambroni aveva provocato una situazione pericolosissima per tutti da cui bisognava uscire. Ma se il Psi non fosse stato quello affermatosi (grazie a Nenni, a Riccardo Lombardi, a Fernando Santi e a molti altri) dai Congressi di Venezia e Napoli, ma fosse rimasto quello del 1955, lo sbocco politico non ci sarebbe stato, la situazione si sarebbe presentata senza via d’uscita e l’avventurismo di Tambroni e di tutto un mondo che stava alle sue spalle avrebbe potuto fare anche in presenza di quel movimento danni devastanti. Per capirci, già nel 1955 nel suo Congresso di Torino il Psi aveva parlato di “dialogo con i cattolici”, ma lo aveva fatto mantenendo in piedi il frontismo col Pci e anche lo stalinismo ideologico con effetti politici molto scarsi. Quindi quando si esaminano vicende assai complesse come quelle imperniate sul luglio 1960 bisogna porre in essere quella che Palmiro Togliatti ha chiamato «l’analisi differenziata»: un metodo di analisi che, però, a suo tempo egli ha adottato in modo assai discontinuo, assai serio quando lo ha applicato ai fascisti («il corso sugli avversari», Lezioni sul fascismo), del tutto reticente o addirittura inconsistente quando si è occupato dell’Unione Sovietica. Ma questa ricostruzione deve riguardare non solo ciò che avvenne prima del 1960, ma anche ciò che avvenne dopo, perché la sinistra ha commesso gravissimi errori non solo dopo il 1989, ne ha commessi di gravissimi anche prima. A proposito del centro-sinistra, Bertinotti parla sia delle sue importanti realizzazioni, sia della sua involuzione moderata e del suo fallimento nell’obiettivo di trasformazione della società. A nostro avviso comunque in centro-sinistra per un verso ha salvato la democrazia nel nostro paese, per altro verso ha contribuito a modernizzarlo, per un altro verso ancora è stato segnato da un’involuzione moderata. Esso è stato certamente pieno di contraddizioni e per molti aspetti gli anni ’64-’68 non sono stati brillanti, anche se riforme assai importanti furono fatte nella fase Rumor-De Martino, ma, messi nel conto tutti gli errori del gruppo dirigente socialista nelle sue molteplici articolazioni (Nenni, De Martino, Mancini, Lombardi, Giolitti), dobbiamo anche parlare degli incredibili errori (mi riferisco al Pci) e di qualcosa di molto peggio (mi riferisco al gruppo dirigente del Psiup) posto in essere dai suoi critici e oppositori di sinistra. Rispetto al centro-sinistra all’inizio Togliatti fece una perfetta analisi differenziata: «il centro-sinistra è un nuovo e più avanzato terreno di lotta, il suo sbocco può essere di stampo riformista o risolversi in un’involuzione moderata». Come in tante altre cose (la Fiat, il ’68, il sindacato) Amendola, a nostro avviso, sul centro-sinistra assunse una posizione giusta: egli partiva dal giudizio di Togliatti per dislocare il Pc in uno stretto rapporto con il Psi, La Malfa, con il sindacalismo cattolico. Invece per Ingrao il centro-sinistra era un’operazione di modernizzazione neocapitalista dell’Italia, le sue riforme erano tutte intrinseche al sistema, per cui la contestazione del Pci doveva essere globale. L’analisi di Ingrao era del tutto ideologica e astratta anche per cogliere la dialettica e le contraddizioni reali del centro-sinistra. In questo quadro Ingrao fu del tutto favorevole alla scissione del Psiup. Nella sostanza, poi, quasi tutto il Pci, tranne Amendola, nel corso di quegli anni si spostò sulla linea della contestazione frontale del centro-sinistra nel timore che, se fosse decollato il suo riformismo, il Psi avrebbe potuto modificare a suo vantaggio i rapporti di forza nella sinistra italiana. Così, quando ancora la partita era del tutto aperta sulla caratterizzazione riformista o moderata del centro-sinistra, la sinistra del Psi (quella di Valori e Vecchietti, ma anche di Basso e Foa) fece la scissione e fondò il Psiup nel 1964. Anche a tanti anni di distanza non posso fare a meno di rilevare che si trattò o di un atto di totale ottusità politica o di criminalità politica pura. Per definirla basta ricordare chi la finanziò: il Kgb e l’Eni di Cefis su sollecitazione di Antonio Segni allora in ottimi rapporti personali con Lelio Basso. È evidente che il Kgb lo fece per indebolire il Psi e aiutare il Pci. Quanto a Segni e a Basso chi vide giusto fu certamente il primo. Allora Segni, oltre che presidente della Repubblica, era anche il leader dei dorotei e quindi collocato oltre gli orientamenti della corrente della Dc moderata (tant’è che poco dopo, di fronte al piano Solo, anche Scelba gli disse di non essere per niente d’accordo con lui). Giustamente Segni, attraverso la scissione, voleva indebolire i socialisti e smontare il centro-sinistra riformista. Non sorprendono Valori e Vecchietti, legati al Pcus più dello stesso Pci, sorprende invece Lelio Basso che ai tempi del Psi staliniano fu addirittura perseguitato dagli sgherri morandiani (l’ha raccontato lui stesso nelle sue memorie, dicendo che solo Pertini, Lombardi e Santi lo salutavano e che dovette a Pajetta e ad Amendola se non fu espulso dal Psi, ma comunque escluso dalla Direzione e dal Comitato Centrale lo fu: stiamo parlando di un uomo della storia e dalla storia di Lelio Basso). Probabilmente Lelio Basso era troppo suggestionato dalla storia della Rivoluzione russa: pensava di viaggiare verso la rivoluzione sul treno blindato dell’esercito tedesco e invece, in quella circostanza, fu utilizzato dal leader della destra democristiana per indebolire gli odiati riformisti (Nenni e Lombardi). Come si vede, se si adotta davvero non solo per un pezzo il metodo togliattiano dell’analisi differenziata si scopre che la storia italiana non sopporta proprio nessuno schema prefabbricato e neanche la mitologia.
Che abbaglio tirare in ballo Moro…Marco Follini il 10 gennaio 2020 su Il Dubbio. Moro lanciò una sfida e rivendicò una politica. Non chiese complicità. Quella volta, in difesa di Luigi Gui sull’affare Lockheed, Moro scrisse inizialmente un testo anodino, tutto in punta di diritto, senza concessioni di sorta alla controversia politica del tempo. Fu il suo portavoce, Corrado Guerzoni, che era un consigliere discreto e influente, a convincerlo a dare uno spessore assai più politico e assai più controverso alle sue parole. Così andò, e il giorno dopo, viste le reazioni di mezzo mondo, Moro ebbe il dubbio di avere reagito in modo troppo forte. Punto e a capo. Ora, però, converrebbe evitare che l’eco di quelle parole lontane riempisse il vuoto della nostra attualità politica. Infatti, si può liberamente decidere di affidare Salvini alle cure della magistratura, oppure fargli da scudo in nome di una immunità parlamentare che ha le sue ragioni. Liberamente, appunto. Magari senza confondere gli anni Settanta con i nostri giorni, e il fu presidente della Dc con il leader della Lega. Moro lanciò una sfida e rivendicò una politica. Non chiese complicità. Mentre oggi sembra piuttosto che la ricerca della complicità venga prima del ritrovamento della politica. Questione di tempi, e di uomini. Basterebbe non mescolarli per avere riguardo degli uni e degli altri.
Gli anni del Male: quando eravamo democristiani. Fulvio Abbate de Il Riformista l'8 Novembre 2019. Nella romana cornice di marmo già littorio dell’ex GIL, in largo Ascianghi, a ridosso del non meno rinomato cinema “Nuovo Sacher”, angolo estremo di Trastevere comprensivo di piazzola destinata al parcheggio, luogo di rissa per gli irriducibili spettatori ritardatari di Nanni Moretti, nei giorni scorsi, nella luce incerta di ciò che Pasolini chiamava “Dopostoria”, si è svolto un significativo e decisamente crudele incontro dedicato all’eredità del più fantasmagorico settimanale di satira che l’ormai malconcio Stivale abbia mai conosciuto, Il Male, l’indimenticato. Un dibattito a compendio di una mirabile mostra che testimonia, tra gigantografie di leggendarie “false” prime pagine, disegni e manufatti originali, la ricostruzione del locale della stessa redazione, memorabilia e ogni altro feticcio della satira passata ormai agli alberi pizzuti della repubblica, un momento di assoluta vitalità nella battaglia delle idee e del necessario sarcasmo da contrapporre alle bassezze altrove dominanti dell’informazione. I protagonisti? Da Vincino a Pino Zac, e ancora Angese, Giuliano, Cinzia Leone, Angelo Pasquini, Sergio Saviane in veste di “fiancheggiatore”, Riccardo Mannelli, Vauro, Jacopo Fo, Alain Denis, Roberto Perini, Mario Canale, Vincenzo Sparagna, Jiga Melik, Piero Lo Sardo, Giovanna Caronia, i disegnatori Tamburini e Liberatore, e lo stesso Andrea Pazienza, già allora alle prese con il suo Pertini, fino a Carlo Zaccagnini, figlio di Benigno, in arte, per pudore familiare, Carlo Cagni. Questi i volti contenuti nell’ideale quadreria-albo d’oro dell’avventura che adesso si rinnovella nell’omaggio intitolato Gli anni del Male 1978-1982. A fronteggiare ogni tavola illustrata del sarcasmo trascorso, sotto bassorilievi che ancora adesso innalzano la gloria italica fin dai giorni delle sanzioni, quando Mario Appellius ebbe modo di coniare l’epiteto “Dio stramaledica gli Inglesi!”, ecco ora, irresistibile, indomabile, Paolo Cirino Pomicino, pronto a far rivista di sé tra disegni e ancora tavole; a seguirlo, Beppe Attene, ex direttore dell’Istituto Luce (e già questa, contemplato il luogo già caro al Ventennio, appare come metafora), distintivo massonico fieramente portato all’occhiello; il non meno eponimo Duca Conte radicale Roberto Cicciomessere; Sergio Staino, volto e postura da antico senatore romano, da attesa dei barbari, così come ne prefigurano l’implacabile arrivo i versi di Kavafis; l’esperto di cose disegnate Luca Raffaelli a moderare l’intera matassa, a contestualizzare fatti, azioni ed espedienti perfino drammaturgici orditi, sempre allora, dalla comitiva del Male, infine Filippo Ceccarelli, romano profondo, collezionista di spigolature, uomo saggio e di mondo, pronto a mettere anche lui ordine nell’ordito di un’avventura editoriale che oggi appare antica e insieme struggente per vitalità, per irritualità, per volontà anarco-situazionista, per ascesa editoriale e infine tracollo e rovina, così nel clima trascorso del compromesso storico in attesa del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro da parte delle ottuse Brigate Rosse… Perfino per irriproducibilità. Evocando la falsa prima pagina che annunciava lo scioglimento della Dc Cicciomessere auspica il ritorno del Male che presto «si contrapponga a La Bestia di Salvini». Attene, nostalgia canaglia del Garofano, ricorda invece che «i socialisti avevano più senso dell’umorismo di tutti gli altri». Viene addirittura evocata, come possibile Belfagor dell’evo politico trapassato, la “signorina” Enea, leggendaria segretaria di Andreotti, la si rammenta “in ciabatte” negli uffici di piazza San Lorenzo in Lucina. Andreotti, diversamente dai comunisti, era tuttavia tra coloro che richiedevano le vignette agli autori, così da metterle tra i trofei, accanto alle foto con i capi di Stato. Altre facce e faccine della cosiddetta prima repubblica si ritrovano intanto chiamate in causa, e così affiancate alle attuali per uno spareggio impietoso. Staino, dal suo ideale trono, evoca il Don Basilio, giornale anticlericale post-bellico che visse poche stagioni, Staino, con faccia da Bobo ormai in pensione, racconta ancora di quando, militante nel più oscuro partito marxista-leninista che la nostra penisola extraparlamentare abbia mai conosciuto, il P.c.d’I., stretta osservanza filocinese e addirittura filoalbanese al tempo di Enver Hoxha, reduce da un dibattito politico, ospite, a Treviso, di una “compagna”, chiese a quest’ultima se avesse, per caso, una copia, metti, di Tex Willer, delizie di lettura cui dedicarsi prima di andare a letto, e la infame militante irreprensibile, denunciò la gravità della richiesta al comitato centrale dell’organizzazione. Sfilano gli invitati davanti alla prima pagina di “Paese Sera” che annuncia Tognazzi essere il capo delle Br, il “grande vecchio” per l’amarezza dell’ex socio Vianello che tuttavia concede: «È pazzo, ma lo perdono». Sfila Stefano Disegni davanti ai falsi gialli Mondadori che insinuano una “tisana assassina” per la dipartita di Papa Luciani. Solleva il capo Luca Sossella ascoltando il racconto della rabbia dei repubblicani per il modo in cui il giornale titolò la scomparsa di Ugo La Malfa: «In fondo era solo una tartaruga». Durante il funerale, i militanti dell’Edera bruciarono addirittura le copie del Male davanti alla bara del leader. Paolo Cirino Pomicino, ’O Ministro, monotipo, pezzo unico, a fronte di una richiesta esplicita degli astanti, non si sottrae dal mettersi in posa, lui, andreottiano, proconsole di quest’ultimo nella Campania Felix, eccolo ora accanto al busto di Andreotti, lo stesso che il collettivo del Male si apprestava a piazzare lassù al Pincio, accanto ai simulacri dei padri nobili della storia nazionale, l’irruzione della polizia, capitanata dal commissario Pompò, consentì il sequestro immediato del manufatto marmoreo. Ne seguì perfino una sventagliata di denunce, nella rete cadde anche Roberto Benigni, lì in veste di “madrina” della cerimonia. Quarant’anni dopo, davanti al busto ritrovato, custodito nel frattempo in casa di Vincino, c’è, sorridente, inaffondabile, magistrale, Paolo Cirino Pomicino, qualcuno, poco prima, auspicava la possibilità che “rinasca la Dc”, lui, l’ex ministro del bilancio, già antologizzato ne Il divo di Paolo Sorrentino, nell’immensa interpretazione di Carlo Buccirosso, è lieto anche di mostrarsi accanto alle altre false prime pagine de l’Unità e di Paese Sera. “Basta con la Dc!” e “La Dc abbandona!”, fa intanto eco la seconda. Sogni infranti. C’era una volta la satira, c’è ancora Cirino Pomicino.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
· I Nemici di Aldo Moro.
Caso Moro, non dimentichiamo cosa (non) fece Berlinguer. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 30 Giugno 2020. Sul Corriere della Sera del 20 giugno è comparsa un’intervista di Walter Veltroni a Claudio Signorile sul tentativo socialista di salvare Moro facendo compiere allo Stato “atti autonomi” che mettessero le Br in una condizione di difficoltà politica nell’eseguire la condanna a morte che esse avevano proclamato. L’intervista è molto bella per merito di entrambi, dell’intervistatore e dell’intervistato, e rompe un singolare silenzio dei media che aveva circondato l’azione socialista sulla trattativa. In seguito al valore positivo dell’intervista, interloquiamo con alcune affermazioni fatte da Signorile. Il dato di fondo che Signorile e Veltroni non affrontano è il seguente: Aldo Moro non era uno dei tanti dirigenti della Dc. Aldo Moro, dopo De Gasperi, è stato il più significativo esponente della Dc che ha guidato quel partito a fare unitariamente le sue due scelte politiche più importanti dopo quella centrista, cioè prima il centro-sinistra e poi la strategia dell’attenzione nei confronti del Pci con i governi Andreotti di unità nazionale. A un leader politico di quella caratura è stato riservato dallo Stato, dal governo, dagli apparati un trattamento inusitato: prima, ma, cosa ancor più grave, anche dopo l’uccisione di Moro, non c’è stato governo italiano che non abbia “trattato” in caso di rapimenti. Anche dopo Moro infatti, fino ai giorni nostri, lo Stato italiano ha sempre “trattato” spesso pagando riscatti. Addirittura, per preservare l’Italia da futuri atti terroristici, abbiamo liberato terroristi palestinesi che già avevano fatto azioni sul nostro territorio. Quello che provocò “la pazzia” di Moro durante la sua prigionia è stata la lucida consapevolezza che nel suo caso questo criterio non veniva seguito, anzi veniva rovesciato. Non a caso più volte nelle sue lettere egli chiese che venisse richiamato in Italia il colonnello Giovannone che aveva in diverse occasioni messo in atto l’opzione trattativista e che aveva rapporti con tutti i gruppi palestinesi che, insieme ai servizi cecoslovacchi (ricordiamo la battuta di Pertini), avevano rapporti con i brigatisti anche perché li rifornivano di armi. Moro, poi, non poteva sapere che dopo il suo assassinio questa linea della trattativa sarebbe stata interamente ripristinata in primo luogo dalla Dc, come dimostrò tutto quello che ha fatto per salvare Cirillo, un assessore regionale campano che faceva parte del sistema di potere di Antonio Gava. Sul piano internazionale, poi, molti Stati non seguono una linea rigida, ma sono molto pragmatici, come la Germania e Israele, a seconda delle circostanze e degli interlocutori. I più ipocriti sono tuttora gli Stati Uniti: negano in linea di principio come Stato qualunque trattativa e pagamento di riscatto, poi aggirano questi proclami attraverso le assicurazioni private e i contractor. Ma come mai a Moro, e solo a lui, è stato riservato questo trattamento? Sia Veltroni che Signorile tendono a evitare il nodo: fondamentale fu l’atteggiamento del Pci. Berlinguer e Pecchioli furono molto chiari in primo luogo con Andreotti presidente del Consiglio e con Zaccagnini e Galloni, segretario e vicesegretario della Dc: al primo accenno di trattativa il governo sarebbe saltato. Quindi Andreotti non ebbe l’atteggiamento notarile che Signorile gli attribuisce: no, Andreotti fu attivo nell’impedire o bloccare sul nascere ogni ipotesi di trattativa. Giustamente Veltroni ricorda che egli intervenne anche per infilare due parole nell’appello che Paolo VI rivolse ai brigatisti e che sostanzialmente lo vanificò: le due parole furono «senza condizioni». Invece Paolo VI, che dai tempi della Fuci negli anni ’30 aveva con Aldo Moro un rapporto profondissimo, fece di tutto per salvarlo e, disperato, morì qualche mese dopo. Quindi Andreotti remò contro raccogliendo in modo totale l’ultimatum di Berlinguer-Pecchioli (un autentico tandem in quella vicenda), mentre Cossiga, ha ragione Signorile, si mosse tenendo conto della posizione americana di cui, giorno per giorno, si faceva latore al ministero dell’Interno quell’inquietante professor Steve Pieczenik, ingaggiato come “esperto”: ma era un esperto o un controllore/supervisore forse dello stesso tipo di quello o di quelli che, sull’altro versante, diede ordini decisivi a Moretti? Come ricorda Signorile anche tutto il contesto internazionale era contro Moro, non per ragioni personali (è noto che a Kissinger Moro stava proprio antipatico), ma per il tipo di operazioni che egli stava portando avanti: l’ingresso del Pci nell’area di governo in un paese come l’Italia che allora (non è il caso attuale) rivestiva una grande importanza sia in Europa sia nel Mediterraneo. È agli atti la presenza alle lezioni di Moro di un singolare studente di nome Sokolov che attirò l’attenzione dello stesso Moro e del caposcorta Leonardi. Perché anche questo avvenne: Moro e Leonardi prima dell’attacco erano molto inquieti perché avvertirono pedinamenti e altro. Ma non ottennero (da Andreotti e da Cossiga) un’auto blindata mentre non possiamo non dire che la scorta era tecnicamente e quantitativamente inadeguata. Non a caso l’idea originaria dei brigatisti era quella di rapire Andreotti, ma dalle loro “inchieste” ricavarono il giudizio che il presidente del Consiglio era “blindato” e che invece il presidente della Dc era vulnerabile. La dottrina della fermezza impostata da Berlinguer-Pecchioli si tradusse nella prassi della sciatteria e dell’inerzia. Clamoroso il caso Gradoli. Prodi aveva avuto dal suo “piattino” (che probabilmente era il corrispettivo dell’autonomia bolognese di Piperno e di Pace) la “dritta” giusta: se le forze dell’ordine fossero allora arrivate a via Gradoli comunque il rapimento di Moro sarebbe finito molto prima, visto che lì alloggiavano Moretti e la Balzarani e di tanto in tanto passava anche la Faranda. Comunque, è chiaro che, dal lancio del documento apocrifo del lago della Duchessa, scesero in campo altri soggetti che interloquivano per loro conto con le Br. Ciò detto, sarei più cauto di Signorile nella descrizione dei rapporti di forza all’interno del Psi che allora erano molto bilanciati: nessuno, né Craxi né Signorile, aveva in tasca una maggioranza certa. Direi piuttosto che a influenzare molto la situazione interna del Psi sia stato il comportamento del Pci e quello che poi, nel 1980, accadde nella Dc. Pesò molto lo schematismo e il settarismo di Berlinguer. Non vorrei scandalizzare Veltroni, ma a mio avviso, paradossalmente, vista la linea politica che Berlinguer portava avanti nei confronti della Dc e del mondo cattolico, proprio lui avrebbe dovuto sostenere la linea scelta da Craxi per salvare Moro. Nel momento di maggiore difficoltà della Dc, Berlinguer avrebbe dovuto darle una sponda, non metterle il coltello alla gola come invece fece e come teorizzò nelle sue lettere Tatò. Berlinguer avrebbe dovuto anche fare i conti con un dato elementare: tutta la sua strategia si fondava sulla persona di Moro. Senza Moro, nella Dc non andava avanti nulla, a maggior ragione in una Dc prima costretta a rinchiudersi nella linea della fermezza, poi scioccata dall’uccisione del suo leader. Lo stesso schematismo fu adottato dal Pci nei confronti del Psi a partire dal comportamento sull’incarico di formare il governo dato a Craxi da Pertini nel 1979. Personalmente ho il ricordo nitido di un incontro che con Signorile avemmo con Barca e Chiaromonte: «proprio perché la Dc si sta esprimendo contro il tentativo di Craxi è auspicabile una vostra apertura che avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra il PSI e il PCI». Non cavammo un ragno dal buco anche perché Berlinguer su Craxi e su tutti noi aveva gli stessi garbati giudizi espressi da Tatò nei suoi appunti. In effetti proprio Berlinguer scelse di piegare la Dc ad una totale subalternità (ma la Dc non era Galloni) e di marcare il suo giudizio sul Psi guidato da Craxi (una banda di avventurieri della politica). In questo modo Berlinguer diede un contributo decisivo alla determinazione della fase politica successiva, quella del pentapartito e della rottura fra il Psi e il Pc.
Beppe Pisanu: «Per salvare Moro Zaccagnini incontrò Craxi. Come poterono le Br passare inosservate?» Walter Veltroni il 2 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. L’ex dc: «Uno Stato democratico più forte avrebbe accettato la trattativa e poi affrontato le Br». Signorile: «Convinsi Fanfani ad aprire alle Br per salvare Moro. Poi accadde qualcosa». L’onorevole Beppe Pisanu è stato, nel 1978, capo della segreteria politica di Benigno Zaccagnini. È quindi un testimone privilegiato di quei mesi di travaglio e dolore vissuti a Piazza del Gesù.
Che ricordo hai dei giorni del rapimento Moro?
«Li ho vissuti come un’unica interminabile giornata scandita da paure, incertezze, tribolazioni e qualche barlume di speranza».
Zaccagnini come attraversò quel periodo?
«Lo visse drammaticamente perché lacerato: da un lato il desiderio di salvare la vita del suo più grande amico, leader politico del suo partito e dall’altro l’esigenza di salvaguardare lo Stato e di rispondere adeguatamente alla sfida sanguinosa delle Brigate rosse. Un fenomeno che oggi forse abbiamo inquadrato dopo tanti anni di analisi e ricerche, ma che allora sembrava militarmente organizzato e capace di portare i suoi attacchi in tutta Italia, persino durante i cinquantacinque giorni. Era una forza sconosciuta, che aveva consensi evidenti nelle fabbriche, nel mondo della cultura, nei giornali...».
Il tuo 16 marzo? Dove eri, come sapesti la notizia?
«Stavo uscendo di casa per andare alla Camera, quando mi raggiunse la telefonata di una mia segretaria che mi diceva confusamente di una aggressione a Moro, che era stato sequestrato, che c’erano dei morti e di andare subito a Palazzo Chigi dove mi attendeva Zaccagnini. La voce era talmente alterata che mi apparve uno scherzo di cattivo gusto, mi sembrava quasi che la segretaria ridesse, invece stava piangendo».
Perché le Br scelsero il 16 marzo?
«Io credo perché eravamo alla consacrazione parlamentare del progetto politico di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer».
Tu credevi in quel progetto?
«Sì, ci credevo profondamente. Va ricordato che avevamo, col Pci, approcci diversi. Io ovviamente condividevo quello moroteo, la solidarietà nazionale. Berlinguer sottolineava invece l’importanza del compromesso storico come l’esito della riflessione sulla vicenda cilena di Allende, ed esplicitava un richiamo chiarissimo al primo storico compromesso, che era quello della Costituzione. E quel compromesso aveva affascinato Moro. Lui parlava della Costituente con una nostalgia da innamorato. Ricordava i confronti appassionanti, specialmente sui primi tre articoli, tra Dossetti, lui, La Pira da un lato e dall’altro Togliatti, Marchesi, Lelio Basso, Nilde Iotti. E lo ricordava come un periodo politicamente felice, di grandi architetti che diedero vita, nonostante la durezza estrema dei conflitti politici del tempo, alla bellissima Costituzione italiana».
Hai mai avuto la sensazione che ci fosse la reale possibilità che Moro fosse liberato?
«Più che la sensazione, la speranza. E il momento almeno per me più positivo, fu la lettera di Paolo VI agli uomini delle Brigate rosse. Mi illusi che, avendo ottenuto un’interlocuzione così alta, i brigatisti potessero considerare raggiunti gli scopi politico propagandistici della loro impresa e quindi desistere dall’andare oltre. Però al di fuori di quel momento, no, non ci fu mai nulla di così convincente da far sperare nella sua liberazione».
La prospettiva di Moro e quella di Berlinguer non piacevano né agli americani, né ai sovietici...
«Questo era un dato consolidato. Del resto Berlinguer e Moro avevano ricevuto entrambi pressioni veementi, persino minacce. L’uno da Mosca e l’altro da Washington e da almeno altre due capitali dell’alleanza atlantica. Quella operazione politica faceva saltare a gambe all’aria la logica di Yalta, che aveva retto fino ad allora gli equilibri mondiali. E quindi c’erano interessi fortissimi contro questa operazione: dal punto di vista di Mosca avrebbe accreditato l’eurocomunismo, o meglio l’idea berlingueriana del socialismo nella libertà, affrancando definitivamente da Mosca il più grande partito comunista dell’occidente mentre da parte americana si intravedeva il rischio che i comunisti si avvicinassero pericolosamente ai centri di decisione della Nato».
E da questo punto di vista il lago della Duchessa che segnale era?
«Sulle prime al lago della Duchessa ci credemmo un po’ tutti perché era ritenuto un esito possibile. Almeno noi a piazza del Gesù, altri non so».
E poi?
«E poi si scoprì che era un bluff, ma qui parliamo del senno di poi. Io sto cercando di parlare di quei momenti col senno di allora».
Però poi apparve abbastanza rapidamente che era una manovra...
«Era un’operazione orchestrata. È stata rivendicata come un espediente per stanare le Brigate rosse. Ma è lecito dubitare delle intenzioni e dell’efficacia».
Che impressione ti fa che il comitato che indagava attorno a Cossiga fosse composto per la stragrande maggioranza da iscritti alla P2 e che in quei giorni si aggirasse questo singolare consulente americano che sembrava avere a cuore solo il desiderio di vedere Moro morto?
«La scoperta successiva di questi due elementi a me ha provocato grande inquietudine, sapevo dell’ostilità diffusa che c’era in certi ambienti nei confronti della segreteria Zaccagnini e di Moro. Moro ci aveva trasmesso la percezione chiara che nel Paese c’era una destra profonda, annidata negli angoli bui della società e delle istituzioni, contraria ad ogni forma di rinnovamento e pronta ad intervenire con ogni mezzo. Cossiga era un amico di Moro e non aveva nulla da spartire con quel mondo. Certamente fece degli errori e fu lui il primo a riconoscerli quando si dimise da ministro dell’Interno e assumendosi la responsabilità politica di errori e limiti non suoi come quelli degli apparati di sicurezza. Ma da qui a gettare ombre sulla sua rettitudine, ne corre. E ben lo seppero i grandi elettori che, sette anni dopo, lo elessero presidente della Repubblica alla prima votazione».
Le lettere di Moro, fin dall’inizio, vengono fatte passare come totalmente estorte. Invece a leggerle c’è tutto il filo del modo di ragionare, della visione del mondo di Moro. Perché fu fatta questa operazione di cordone, di muro attorno a quelle lettere?
«Parlando sempre col senno di allora, noi avemmo la sensazione che fosse in corso un’azione subdola volta a screditare l’immagine morale e politica di Aldo Moro. Poi la rilettura critica fatta in sedi storiografiche degne di rispetto ha dimostrato che questa operazione le Brigate rosse la fecero veramente, mentendo ripetutamente a Moro e revisionando anche i testi. Questa era allora la nostra preoccupazione. Ma oggi penso che tra i disorientamenti di quei giorni, questo sia stato uno dei più dolorosi. Perché in realtà Moro, a parte i condizionamenti delle Brigate rosse, stava facendo vivere esattamente le idee che aveva sempre sostenuto sul primato della persona umana e sul suo irrinunziabile valore».
C’è una frase nelle lettere di Moro che mi ha molto colpito. In una delle lettere non consegnate e poi ritrovate a Monte Nevoso, ad un certo punto lui dice, te la cito testualmente: «Spero che l’ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi». E chi sono Giacovazzo e Giunchi? Erano i due medici che lui si era portato in America e che lo curarono dopo che lui ebbe quel drammatico incontro con Kissinger. Quindi è come se lui stesse dicendo alla moglie che quella era una chiave. È un’interpretazione corretta la mia?
«Non so se è corretta, però è degna di ascolto. I due non si intendevano. Kissinger manifestava rudemente l’insofferenza per Moro. E Moro lo considerava un maleducato. E per uno come lui, che era sempre sorvegliato e gentile, a me suona come un giudizio severissimo».
Lui ti raccontò mai quell’incontro?
«No. Però ne ho sentito parlare dai suoi stretti collaboratori. Corrado Guerzoni ha lasciato testimonianze scritte inequivocabili. Furono incontri duri, dai quali Moro uscì provato, soprattutto quello del G7 di Santo Domingo quando non solo gli americani, ma gli europei, soprattutto i tedeschi, gli fecero capire chiaramente che, con la solidarietà nazionale, sarebbe venuto meno il sostegno dell’Europa all’economia italiana. Il Paese era in gravissime difficoltà: il Pil a meno 4, l’inflazione che marciava verso il 20%, le strade insanguinate dal terrorismo. Gli fecero capire che gli aiuti sarebbero arrivati solo se lui avesse desistito dal progetto politico che stava coltivando. E Moro fu talmente impressionato che esortò i suoi collaboratori a far sapere che stava pensando seriamente di lasciare la politica».
Tu credi alla versione delle Br sull’assassinio di Moro in quel garage di via Montalcini?
«Io credo molto poco a tutto quello che hanno detto i brigatisti rossi. Ho sempre avuto, e ho ancora, l’impressione che abbiano concordato tra di loro una versione comune dell’intera vicenda tacendo più spesso e altre volte mentendo, ma dopo aver concordato silenzi e menzogne anche con loro referenti esterni».
Che quindi esistevano?
«Mi sovviene qui la mia esperienza politica complessiva. Come fa un fenomeno come quello delle Brigate rosse a passare inosservato agli occhi di Servizi segreti oculatissimi e presenti in Italia massicciamente fin dagli inizi della guerra fredda? Non ho nessun elemento concreto per accampare sospetti, penso però che non sia casuale il fatto che terroristi italiani potessero tranquillamente viaggiare da Roma a Parigi, da Parigi al Nordafrica e dal Nordafrica magari in Nicaragua. E che dire di quell’opaca dottrina Mitterrand che consentì a pluriassassini di passare tranquillamente per esuli politici in Francia? Come si fa ad ignorare tutte queste cose? Ripeto io non ho nessun elemento, ma proprio nessuno, per affermare, tanto per essere espliciti, che le Brigate rosse siano state pilotate dall’estero, però mi sembra molto difficile che non avessero collegamenti esterni. E mi spiego perfettamente il fatto che di questo si siano guardati bene dal parlare».
Moretti chiama casa Moro pochi giorni prima dell’assassinio e dice che per evitarlo è necessaria una posizione chiarificatrice di Zaccagnini. Quale fu la su reazione?
«Non si capiva in che cosa doveva consistere la posizione chiarificatrice, c’era molta vaghezza. Quando il Partito Socialista ruppe il fronte della fermezza emerse l’idea che era possibile una qualche forma di trattativa con le Brigate rosse. Quello che ricordo bene è che il 26 aprile Zaccagnini, nonostante i pareri dei capigruppo dc Piccoli e Bartolomei e di altri amici, decise di andare lui da Craxi per chiedergli che cosa esattamente si potesse proporre. Fu piuttosto deluso: Craxi ipotizzò solo la possibilità di concedere la grazia a tre terroristi che non si fossero macchiati le mani di sangue. Questo passo di Zaccagnini suscitò anche critiche da altre parti politiche, dal Partito repubblicano al Partito comunista, che temettero un’intesa tra Craxi e Zaccagnini. Era un tempo di sospetti politici che avvelenavano la ricerca di una soluzione: mentre Pci e Pri temevano una convergenza tra Dc e Psi in casa socialista si temeva invece che l’intesa sulla linea della fermezza tra Zaccagnini e Berlinguer potesse stringersi come una morsa politica sul Partito socialista italiano. Ci furono istanze umanitarie ed esigenze politiche che si intrecciarono ovviamente, talvolta però anche con giochi di più modesta portata».
Come si muoveva in questo labirinto un galantuomo come Zaccagnini?
«In questo intreccio di istanze politiche e umanitarie Zaccagnini tenne una linea rigorosa nel senso che umanamente pensò non bisognasse lasciare nulla di intentato — uso un’espressione che lui dettò a me personalmente — per restituire Aldo Moro alla famiglia e al suo partito. E al tempo stesso si attenne lealmente alle intese che si raggiunsero sulla linea della fermezza nella convinzione politica profonda che non ci fosse alternativa a questa linea. Siamo chiari: l’apertura di una qualche trattativa da parte della Dc avrebbe provocato la caduta immediata del governo e il probabile collasso delle istituzioni già fortemente debilitate. Lasciami aggiungere col senno di poi che uno stato democratico più forte e con una più solida maggioranza parlamentare forse avrebbe accettato la trattativa per la liberazione di Moro e poi avrebbe regolato a suo modo i conti con le Br».
È vero che Leone era disponibile a firmare?
«Per quel che mi risulta al ministero di Grazia e Giustizia si stava studiando il modo di formulare una proposta di grazia senza che ci fosse la richiesta. Si ipotizzava infatti un gesto unilaterale dello Stato, non conseguente ad una trattativa. Si cercò anche di individuare dei brigatisti detenuti che fossero in cattive condizioni di salute. Ed è vero che Leone disse “Ho la penna in mano”».
E la Dc era d’accordo su questo?
«Si lavorò a questa ipotesi ma non fu mai definita perché si percepiva che in tutto questo gran parlare di possibilità di salvezza di Moro, non c’era nulla di concreto. C’erano le sollecitazioni che arrivavano dalle Br e poi le notizie che di rimbalzo giungevano dal Partito Socialista che sembrava avere una sua linea di comunicazione con i brigatisti. Abbiamo appreso dopo che faceva capo a Pace e Piperno. Solo fumi, niente che ci potesse far immaginare a quale gesto avrebbe corrisposto davvero la liberazione di Moro».
Quella di Signorile sull’intenzione di Fanfani di prendere posizione nella riunione della direzione dc del 9 maggio è una ricostruzione che ti convince?
«Non ne sapevo nulla allora e non vorrei far polemiche adesso. Non so cosa Fanfani avrebbe detto in Direzione. La riunione si fece, ma purtroppo fu interrotta perché arrivò la notizia. Arrivò a me. Mi chiamarono al telefono e mi comunicarono che avevano trovato la Renault rossa a via Caetani. Rientrai subito nella sala della Direzione e balbettai qualcosa all’orecchio di Zaccagnini. (A questo punto Pisanu si ferma, commosso). Lui si alzò, pronunziò poche parole. Si fece silenzio e la riunione finì. Sono comunque certo che se Fanfani avesse indicato una via praticabile Zaccagnini lo avrebbe assecondato. Di questo ho la certezza morale».
Voi sapevate che Fanfani stava per fare un discorso di questo tipo?
«No, io almeno non lo sapevo. Può darsi lo sapesse Zaccagnini però negli anni successivi non me ne ha mai parlato. Per la verità era diventato difficilissimo parlare di quelle vicende tra di noi, perché la ferita faceva male davvero. In molti rimanemmo feriti, ma Zaccagnini fu ferito a morte».
Perché la sinistra Dc perde il Congresso dell’80?
«Essenzialmente perché non c’era più Moro. Noi morotei eravamo esattamente l’8,5 per cento della Dc, la corrente più piccola del Partito. Ma Moro era l’equilibratore supremo della vita interna della Democrazia cristiana. Con la sua morte noi zaccagniniani e anche le altre sinistre interne perdemmo la guida vera. La segreteria Zaccagnini era stata una geniale invenzione di Moro, con l’accordo di Fanfani. E tutta l’esperienza di Zaccagnini, fino a via Caetani, fu ispirata dal pensiero di Moro. Zaccagnini era il capo del popolo democristiano, Moro era il leader più prestigioso e aveva già lasciato segni indelebili lungo i primi trent’anni della storia repubblicana. Dalla costituente alla ricostruzione, dal centrismo al centrosinistra e infine alla solidarietà nazionale, Moro fu sempre, all’interno della Dc e nei rapporti con gli altri partiti, l’uomo del dialogo e del confronto. Ma innanzitutto fu un cattolico di profonda fede con un senso alto della laicità della politica e dello Stato. Era stato capace di far evolvere, Dio solo sa con quali resistenze, la politica italiana verso la prospettiva di una democrazia dell’alternanza. Per questo ha pagato. Nessuno può dimenticarlo».
È vero che nel 2006, quando il risultato delle elezioni era incerto, fosti sollecitato, come ministro dell’Interno, a dichiararle non valide?
«Diciamo che ci furono chiacchiere molto confuse da parte di gente che non sapeva che il ministro dell’Interno non aveva alcun potere per interferire sulle procedure elettorali, perché i risultati delle elezioni si proclamano soltanto nelle apposite sezioni delle Corti d’Appello. Non a caso il nostro ordinamento affida alla magistratura e non al ministero dell’Interno la gestione dei processi elettorali. Ci mancherebbe altro, se fosse così saremmo in una dittatura».
Ti chiedo infine di ricordare un momento vissuto con Zaccagnini.
«Un giorno gli chiesi perché mai nel testo di un discorso che doveva di lì a poco pronunciare avesse cancellato per tre volte la parola disoccupazione e l’avesse sostituita con la parola disoccupati. Mi rispose: “Perché disoccupazione evoca astrattamente una questione sociale, mentre disoccupati evoca un padre di famiglia che una sera torna a casa e dice a moglie e figli “ ho perso il posto di lavoro, da domani dobbiamo stringere la cinghia, finché non ne trovo un altro”. Era l’umanità della politica. Era Zaccagnini».
Claudio Signorile: «Convinsi Fanfani ad aprire alle Br per salvare Moro. Poi accadde qualcosa». Walter Veltroni il 20 giugno 2020 su Il Corriere della Sera. La ricostruzione dell’ex socialista: «Cossiga mi chiamò nel suo ufficio e poco dopo fu informato del ritrovamento del corpo. Mi sono chiesto perché io fossi lì, dei sospetti li ho». Claudio Signorile era, nel tempo del rapimento Moro, vicesegretario del Psi. È stato tra i più impegnati nella ricerca di una soluzione politica che salvasse la vita del presidente della Dc. Per questo incontrò più volte esponenti dell’autonomia romana. Qui racconta la sua convinzione, maturata negli anni. Qualcuno ha accelerato la fine di Moro perché consapevole che la mattina del 9 maggio, alla direzione Dc, Amintore Fanfani avrebbe fatto quell’apertura che le Br, in una telefonata di Moretti alla famiglia Moro, avevano richiesto come condizione per non eseguire l’assassinio dello statista. Signorile aveva convinto nei giorni precedenti Fanfani ed altri esponenti Dc a fare un passo. Con lui torniamo a quelle ore. «Quella che avevamo concordato non sarebbe stata una posizione isolata di Fanfani. Altri, come Donat Cattin, Bisaglia, Emo Danesi mi avevano garantito che avrebbero sostenuto quella linea. Ciò avrebbe prodotto una modifica degli orientamenti precedenti e avrebbe messo le Br in una condizione di difficoltà. E insieme un segno di attenzione per quello che stavano facendo i socialisti. Sarebbe stata una riunione importante, molto importante».
Chi avrebbe potuto sostenere la linea di Fanfani?
«I dorotei non erano amici di Moro, però Bisaglia era amico di un rapporto con i socialisti: in politica si intrecciano le convergenze più complesse. Un comportamento ispirato ad una preoccupazione umanitaria corrispondeva anche, in quel momento, ad una logica politica».
L’impressione che tu avesti dai colloqui con Piperno e Pace fu che questa posizione di Fanfani sarebbe stata sufficiente?
«In quel momento ero convinto di sì. Perché ti dico in quel momento? Perché in questi anni mi sono convinto che Piperno pensasse di sapere delle cose che probabilmente non sapeva. Cosa voglio dire? Che forse il tavolo sul quale si stavano giocando le carte era cambiato. Ecco perché io insisto molto sugli ultimi giorni del rapimento. Dopo il lago della Duchessa io comincio ad avere non dei dubbi sulla buona fede di Piperno che si comportò correttamente, ma sulla reale capacità di orientamento delle decisioni da parte del gruppo cosiddetto politico. Per questo è sbagliato, nel ricostruire le cose, affidare tutto al rapporto nostro con Piperno e Pace. Perché molto probabilmente già allora si era stabilito un intreccio fra il sistema dei Servizi e la realtà del brigatismo».
Stai dicendo una cosa importante...
«Faccio una riflessione: nell’estremismo italiano, all’inizio, noi abbiamo due componenti: il braccio armato delle Brigate rosse al cui interno c’è anche una dialettica e poi Autonomia operaia, Potere operaio, cioè le formazioni politiche. Ad un certo punto, prima del rapimento Moro, avviene una rottura. Autonomia operaia, Potere operaio o comunque il gruppo che si forma, di cui Piperno è uno dei portatori, ha una visione, un obiettivo politico, eversivo ma politico, mentre il braccio armato, le Br, coloro che scelgono la lotta armata, hanno bisogno di un alleato che sia in condizioni di dare loro armi e denaro. È quasi fatale, è una verità storica. Non mi metto neanche a discuterne, è fatale».
Quali Servizi?
«Lo dico per l’esperienza diretta di quegli anni. L’Italia era nel cuore di un sistema di Servizi che l’un l’altro si controllavano, si intersecavano, si combattevano. Ma era un sistema. L’Italia è troppo importante strategicamente. Lo è per il suo essere un Paese Nato, per la sua collocazione nel Mediterraneo, per la presenza di un partito comunista al trenta per cento. Io credo che già nel momento dell’organizzazione del rapimento ci sia stata una forma di sostegno, o di aiuto. Tutta la vicenda dei cinquantacinque giorni va letta con un doppio riferimento: i brigatisti che direttamente, fisicamente, compiono l’operazione — anche con una dialettica interna tra la componente più politica e quella militare — e le forze internazionali intenzionate ad assicurare una determinata evoluzione di quel passaggio storico. Quando avviene il depistaggio della Duchessa è chiaro che quel Sistema sta dando un segnale. È il segnale che è cambiata la gestione. L’ho pensato e poi mi è stato confermato. Un cambio di gestione. Da quel momento tutto scivola rapidamente verso l’assassinio».
E tu cosa fai?
«Cosa potevo fare? Vado avanti. Ho convinto Fanfani a fare il passo. Pensavo, forse ingenuamente, che avessimo, comunque, a che fare con un soggetto politico. Le Br avevano chiesto esplicitamente un gesto chiarificatore della Dc e quello si stava per determinare. Loro potevano anche pensare che comunque l’obiettivo fosse stato raggiunto. Dare un colpo alla solidarietà nazionale, ricevere una legittimazione e delegittimare Moro che, anche libero, sarebbe stato politicamente finito. Ma questo era un atteggiamento politico, invece scattarono altre logiche e altri interessi. In quelle ore pensavo ancora che una posizione della Dc, dopo la telefonata di Moretti a casa Moro, non poteva essere ignorata. Bisognava stringere i tempi. Io continuo a ritenere di essere stato intercettato, quando chiamai Craxi dal telefonino della macchina per raccontargli dell’incontro con Fanfani. Tutti noi eravamo seguiti e ascoltati. Forse, sapere che la Dc si stava muovendo, ha spinto chi lo voleva morto a stringere i tempi. È il grande quesito che mi porto dentro. Dopodiché qualcuno ha sparato».
Che idea ti sei fatto sulle ricostruzioni dell’assassinio in via Montalcini?
«Te lo dico onestamente, qualsiasi ricostruzione io abbia visto fino adesso non riesce ad essere convincente. La ricostruzione fatta dai brigatisti non convince, non è palesemente vera, risulta da tante cose. Ci può essere stato un intervento terzo».
Craxi ad un certo punto dice «È venuto qualcuno da fuori»...
«Un intervento terzo. Se sono vere le cose che ti sto dicendo, perché no? Si ha a che fare con figure tipo Moretti che sono assolutamente subalterne, borderline, forse anche più di borderline. È una situazione in cui i Servizi, diversi, conflittuali ma guardiani dell’equilibrio di Yalta, convergono nella volontà che la vicenda si concluda con la morte di Moro, considerato l’artefice della politica di solidarietà nazionale che nessuno dei due blocchi poteva accettare. Anche se, per esempio tra gli americani, esistevano due posizioni diverse, allora. Più contrario il Dipartimento di Stato, più favorevole, sembra incredibile, la Cia. Io ero andato negli Stati Uniti ad ottobre del ’77. Cerco lì di spiegare le cose: ripeto a tutti una frase apparentemente banale: “Il Partito Comunista Italiano, con Berlinguer, ha preso una posizione importante sulla Nato. Ed è il più grande partito comunista dell’occidente? È un bene o un male che questo avvenga?”. Loro ammettono: “Un bene”. Allora di cosa stiamo parlando?».
Perché secondo te tutti, compreso Maccari in punto di morte, sono rimasti su quella posizione? Cioè perché non c’è mai stata una smagliatura?
«Ti faccio una domanda: perché avrebbero dovuto? Con una smagliatura si riapre tutto. Senza quella smagliatura si chiude tutto. Io preferisco morire non lasciando strascichi dietro di me. Messa così si capisce meglio. Tutto si è chiuso, come una porta blindata. Oggi chi vuole la verità?».
Perché la polizia non ha seguito Piperno e Pace che evidentemente, dopo i colloqui con voi, riferivano a qualcuno il contenuto?
«Perché aveva avuto indicazione di non farlo».
Da Cossiga?
«Da chi poteva dargli queste indicazioni. Non lo so, quindi non mi permetto di fare illazioni. Certamente è incredibile che, sapendo che noi avevamo questi incontri, in quei giorni nessuno abbia predisposto pedinamenti... Eravamo sotto uno stretto controllo. Pensa che allora ci davano una pistola per difenderci...».
Rino Formica mi ha detto che «non è vero che non avessimo avvertito, Cossiga e Leone erano informati».
«Leone sì, con Cossiga non avevo un rapporto allora. Non gli parlai mai di queste cose perché non mi fidavo di lui. Leone, per aver dimostrato disponibilità a cercare strade per la liberazione di Moro, ha pagato un prezzo altissimo».
Parlami di Cossiga e Andreotti in questa vicenda. Andreotti sembra sempre defilato...
«È garante dello statu quo, non è defilato. Se si creano le condizioni per la liberazione di Moro lui non le ostacola, ma non fa niente per produrle».
Mette mano all’appello di Paolo VI per chiudere ogni spiraglio...
«Lui è presidente del Consiglio di un governo che non può andare in Parlamento perché non ha maggioranza parlamentare. Andreotti era leale verso gli alleati. In tutta la vicenda non fa nulla in favore di una soluzione. Non facilita, non ostacola. La posizione di Cossiga è diversa. Più che allievo di Moro, lui mi sembrava allievo di se stesso. Cossiga ha sempre avuto un rapporto con i Servizi. Forse era naturale che fosse così. Ma in quel periodo avviene un radicale mutamento degli assetti dei Servizi. È un fatto storico che gran parte dei vertici furono inquinati dalla P2. E non ho mai capito l’uso di quel consulente americano che ha sempre dichiarato esplicitamente di avere come unico obiettivo quello di assicurarsi che Moro non uscisse vivo dalla prigione Br. Cossiga in quel periodo sta costruendo il suo futuro politico. Se Andreotti è il garante dello statu quo, Cossiga è il garante del divenire, di quello che si sta preparando».
La morte di Moro è stato un demone che non lo ha mai lasciato, c’era in lui un dolore autentico...
«Era Presidente della Repubblica. Parlando una volta del 1978 mi capita di dire: “Poi bisogna andare a guardare in quelli che sono i santuari, perché esistono”. La mattina dopo arriva una telefonata del capo dello Stato. “Ti voglio dire subito che questa telefonata è intercettata”. Ho risposto: “Francesco è tuo diritto farlo, fallo, cosa c’è?”. “Volevo dirti che queste cose che tu hai detto non corrispondono a verità”. Ho replicato: “Guarda che tu non c’entri, non c’è nessun riferimento a te”. Insomma mi fa capire che lui allora avrebbe potuto tirare fuori delle altre intercettazioni del periodo dei nostri tentativi. Allora io chiudo: “Non pensavo a te, non ho nessuna intenzione di fare reati di lesa maestà nei confronti del Presidente. Quindi finiamola qui”. C’erano delle cose sulle quali lui era reattivo in maniera impressionante. C’è una circostanza che non finisce di turbarmi. Quando mi chiama da lui la mattina dell’assassinio, prima del momento in cui viene trovato Moro, perché lo fa? Io allora ho pensato che volesse commentare ciò che stava per accadere nella Dc quella mattina. Vado lì, ma lui non fa nessun cenno a questa cosa. Allora penso: forse lui ha la notizia che l’hanno liberato o lo stanno liberando. Se no perché mi ha chiamato? Fa in maniera che io sia lì quando si apprende di Via Caetani. Nel suo ufficio c’era una cicalina collegata con il Prefetto e il capo della Polizia. “È stata individuata un’automobile, andiamo a vedere”. Un attimo di silenzio e poi: ”È la nota personalità”. Cossiga diventa bianco, dice: “Mi devo dimettere”. “Devi farlo”, gli dico. Ci abbracciamo, me ne vado. Perché mi ha fatto andare lì quella mattina? Me lo chiedo ancora oggi».
Tu che spiegazione ti sei dato?
«Non me la sono voluta dare. Però il pensiero peggiore è che lui consapevole che la vicenda si stava concludendo volesse un testimone inattaccabile in grado di dare conto della sua sorpresa e del suo sgomento. Devo pensare questo. Non ne ho mai parlato, non ho mai aperto polemiche su questo. Ma Cossiga, in quel tempo, guardava “oltre”».
Quando Craxi parla del grande vecchio a chi si riferisce?
«Non a una persona, a un sistema. È il destino disgraziato di questo Paese di frontiera attraversato dagli interessi pesanti della Guerra fredda. Eravamo in piena Seconda Guerra fredda, alla fine degli anni Settanta. C’è Ustica due anni dopo, e gli euromissili...».
Cosa morì, politicamente, con l’uccisione di Moro?
«C’è stata sempre confusione su questo. La solidarietà nazionale non finisce subito dopo il 9 maggio. Resiste due anni. Perché Berlinguer, che non era un estremista irresponsabile, voleva chiudere il percorso iniziato in quella legislatura. Nel Psi il fatto che io avessi la maggioranza poteva scongiurare l’idea di un governo senza il Pci, suggestione che pure si faceva strada. Berlinguer voleva essere il leader del Pci che completava la legittimazione del suo partito, che apriva la strada alla praticabilità di quella democrazia dell’alternanza che era la sola formula possibile per la governabilità italiana. Non l’alternativa, non la semplice solidarietà nazionale, ma uno schema nel quale Dc e sinistra — che avrebbe regolato all’interno il tema dei rapporti di forza tra socialisti e comunisti — potevano tornare a competere. Un disegno lucido. Era quello di Moro, “la terza fase”. Per questo la storia del rapimento è finita in quel modo. Quel progetto, utile per la democrazia italiana, era incompatibile con gli equilibri della Seconda Guerra fredda».
E la Dc?
«Dc e Pci vanno alle elezioni, nel 1979, pensando che ne uscisse un risultato non dissimile da quello del 1976 e questo consentisse di continuare quel processo politico. Ma non fu così. Persero voti ambedue. A quel punto Berlinguer comincia a cambiare rotta ma, soprattutto, comincia a cambiare rotta Craxi. Io ho ancora la maggioranza nel partito, De Michelis non ha ancora fatto il passaggio con gli autonomisti. Dopo le elezioni c’è l’incarico a Craxi, il primo incarico. L’idea era Craxi presidente con la maggioranza di Moro. Io mi faccio il giro del mondo, visti i precedenti, per convincere. C’è il sì di tutti, meno della Dc. Il Pci non si oppone, forse pensando che la cosa sarebbe morta per l’opposizione democristiana. Nel 1980 il congresso della Dc si apre con la maggioranza di Moro. Nel senso che la relazione di Zaccagnini parla di emergenza senza alternative: voleva dire governo di solidarietà nazionale. La maggioranza sulla carta c’è: Zaccagnini, Andreotti, e i dorotei che portano a casa il segretario del partito, Piccoli. Galloni, che era vicesegretario uscente, convince invece i suoi ad andare da Zaccagnini per dire che la sinistra dopo la morte di Moro non poteva accettare un segretario che non fosse della sinistra, cioè lui. Si sfascia così la maggioranza. I dorotei capiscono l’aria, prendono armi e bagagli e fanno l’accordo con Donat Cattin e con Forlani. La stupidità fu non aver capito, cosa che a me era chiara, che i dorotei erano il punto di interlocuzione. Se il congresso della Dc si fosse chiuso come si era aperto, cioè con la maggioranza Andreotti, Zaccagnini, dorotei, probabilmente parleremmo di un’altra storia nazionale. Poi la domanda vera è: avrebbe retto la Dc senza un leader forte? Fatto sta che nasce, senza il Pci e con l’appoggio esterno del Psi, un governo Cossiga. Il garante dell’avvenire».
In una puntata della bellissima trasmissione di Zavoli «Notte della Repubblica» tu, parlando delle riunioni di quei giorni con la Dc, dici: «Mi fermo perché dovrei raccontare episodi imbarazzanti».
«In quell’incontro tra le due delegazioni, Zaccagnini non aprì bocca, disse solo a Craxi: “Vuoi bere qualcosa? Portate due bottiglie d’acqua”. Tutto qui, in una riunione di sette ore. Disse solo questo perché parlava sempre Galloni. Lui non profferì parola. Era una riunione inutile, nella quale loro si tenevano accuratamente lontani dal problema».
Come interpretasti il loro atteggiamento?
«Non potevano far nulla perché avevano, come priorità, il rapporto col Pci come rapporto dominante. Non rendendosi conto, così dicevo a Bisaglia, “che se i socialisti dicono di no, voi non potete fare niente con il Partito comunista, neanche andare a prendere un caffè. Senza il Psi non potete avere un rapporto con il Pci”».
Faccio a te, in conclusione, la stessa domanda che ho rivolto a Hollande. Il socialismo, egemone in Europa negli anni Novanta, è stato consumato dagli scenari del nuovo millennio?
«No, assolutamente. Abbiamo vissuto una lunga stagione di globalizzazione economica finanziaria in cui il mainstream culturale è stato il neoliberismo. Siamo stati tutti, in qualche modo, vittime o comunque partecipi di questo. Siamo entrati ora in una globalizzazione della sopravvivenza nella quale è il socialismo quasi necessariamente il punto di riferimento culturale ideologico. Quello che è morto è il socialismo classista, antagonista, autoreferenziale. Quello che sta crescendo è invece un socialismo umanitario, comunitario. È la globalizzazione per la sopravvivenza e non per il puro profitto. La globalizzazione comunitaria sul piano sanitario, sociale, ambientale. Un mondo nuovo».
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 22 Novembre 2019. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui. Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
Dagospia il 28 maggio 2020. (estratti dal libro “Moro, il caso, non è chiuso”, LINDAU , 2019, di M.Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni). La strage di via Fracchia, a Genova, che si svolse in piena notte il 28 marzo del 1980, rappresenta una delle vicende più complesse della storia delle Brigate Rosse e delle azioni che le contrastarono, lasciando molti interrogativi sul reale svolgimento dell’irruzione, divenuto poi un evento cui si riferì simbolicamente la lotta armata, con la costituzione di un gruppo milanese denominato appunto «XXVIII marzo». Fu la Brigata “XXVIII marzo” che uccise l’inviato del «Corriere della Sera», Walter Tobagi, proprio a due mesi dall’irruzione di Genova da parte degli uomini del generale Dalla Chiesa, il 28 maggio 1980. Domani, vent’anni fa. Il «Corriere della Sera», il 2 aprile 1980, negli articoli che illustravano l’irruzione in via Fracchia segnala che sarebbe stata trovata nel covo br una cartellina con un appunto «materiale da decentrare sotto terra». I giornalisti presenti erano Antonio Ferrari inviato a Genova dal direttore Franco Di Bella insieme a Giancarlo Pertegato e Tobagi, appunto, cattolico, socialista, vicino al segretario Bettino Craxi, che ebbe un ruolo nella «trattativa» milanese del segretario del Psi Bettino Craxi, durante il sequestro Moro, emersa solo negli ultimi anni grazie alle indagini della Commissione Moro2 che ha chiuso i battenti nel dicembre 2018. Facendo emergere tanti fatti e circostanze che illuminano gli ultimi anni della vita di Tobagi, e forse, anche della sua morte. Perchè la conoscenza di quegli anni è molto progredita, portando alla luce fatti sorprendenti. Lo dobbiamo alla memoria di Walter, un grande giornalista.
L’impegno di Walter Tobagi per salvare Moro. Umberto Giovine, iscritto al Psi sin da ragazzo, militando nella Federazione milanese, aveva avuto incarichi nell’ambito dell’Internazionale socialista ed era divenuto direttore di «Critica Sociale» alla fine degli anni ’60, ha dichiarato alla Commissione d’inchiesta Moro2 che: l’input per cercare d’intervenire nella vicenda Moro per salvare la vita del sequestrato avvenne qualche giorno dopo il sequestro, a Torino, durante il congresso del Psi. “Ebbi modo di parlare con Walter Tobagi che conoscevo da molti anni e mi disse che secondo lui avrei potuto e dovuto fare qualcosa attraverso «Critica Sociale» visto che lui personalmente, data la sua posizione al «Corriere della Sera» non poteva agire”. Questa attività milanese era speculare ad un’attività con le medesime finalità e medesimi contenuti, una vera trattativa, che era stata avviata a Roma dal segretario Craxi. “Craxi - continua Giovine - in ogni caso poteva contare sull’appoggio e il contributo del generale Dalla Chiesa che era responsabile nazionale delle carceri di massima sicurezza e che in tale veste poteva muoversi anche in modo indipendente e senza specifiche autorizzazioni del Governo. In quelle settimane non ebbi incontri personali con Craxi ma solo colloqui telefonici protetti in quanto lo chiamavo nel ristorante dove andava a pranzo o a cena”.
Il “tesoro” di Genova: tutte le carte di Moro. Massimo Caprara scriverà più volte, in date diverse: «Disse a caldo (dopo l’irruzione nel covo brigatista di via Fracchia, NdA) l’allora procuratore della Repubblica di Genova, Antonio Squadrito: “La verità è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi… Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al Paese”». I due articoli sono stati pubblicati anni dopo la barbara uccisione di Tobagi, nel numero 1 di «Pagina», del 25 febbraio 1982, e nel periodico «Illustrazione Italiana», n. 32, luglio 1986. La rivelazione di Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, è precisa e circostanziata. Ma di quelle trenta cartelle «meticolosamente scritte da Aldo Moro», indicate dal magistrato che nel 1980 era al vertice della Procura del capoluogo ligure, non è stata trovata alcuna traccia agli atti del processo. I lavori della Commissione Moro 2 sono partiti da qui. La quantità e l’importanza del materiale sequestrato in via Fracchia si desumono esaminando il verbale di perquisizione e sequestro (acquisito agli atti della Commissione) che reca un impressionante elenco di 753 reperti, che certamente dal punto di vista investigativo poteva essere considerato un «tesoro». Tenuto conto degli interrogativi che sono nati dai parziali ritrovamenti documentali avvenuti nel covo di via Monte Nevoso a Milano (nel 1978 e nel 1990) , la citata esternazione di Squadrito, è apparsa meritevole di serio approfondimento, anche alla luce delle indicazioni sul ruolo che la colonna genovese guidata da Riccardo Dura ha giocato, secondo la Commissione, nel sequestro Moro. Solo agli inizi degli Anni Duemila, sono cominciati ad emergere nuovi fatti. Nell’articolo intitolato “Via Fracchia, ricordi indelebili. Quella donna in giardino, l’uomo con il piccone, pubblicato venerdì 13 febbraio 2004, firmato da Simone Traverso sul Corriere Mercantile, storico quotidiano della città della Lanterna, vengono riportati i ricordi raccolti dalla «gente del civico 12», tra cui quello di «un uomo misterioso, forse Riccardo Dura , che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole». Testimonianza questa che descrive una caratteristica peculiare del covo: la presenza anche di un giardino di pertinenza, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, e che conduceva alla parte posteriore dell’edificio. «Un giardino che, incredibilmente – annota la Commissione Moro 2 – non trova esplicita menzione negli atti processuali, né viene evidenziato nella ricostruzione della planimetria dell’appartamento». Che sia stato effettuato uno scavo nel giardino pertinenziale è stato confermato ai consulenti della Commissione Moro 2 da Filippo Maffeo, intervenuto sul posto in qualità di pubblico ministero di turno. Il magistrato ha indicato con certezza il particolare che in giardino il terreno appariva smosso da poco tempo, precisando le rilevanti dimensioni dello scavo, corrispondente, a suo avviso, al volume di tre valigie di media grandezza. Uno scavo immediato e verosimilmente mirato non poteva che scaturire dalla disponibilità di indicazioni precise. Quell’operazione dovette durare ore ed ore e terminare, appunto, prima dell’arrivo del magistrato di turno. Anche lo scavo di un’ampia buca nel giardino del covo non fu riferito negli atti giudiziari del 1980, ma è stato esplicitamente rievocato solo il 15 marzo 2017 nel corso delle dichiarazioni a Palazzo San Macuto dal pm Maffeo.
L’agente tedesco nella palazzina di Tobagi, le carte “segrete” di Moro. Umberto Giovine (che ha illustrato da qualche anno il ruolo di Tobagi nella trattativa per Moro) ha anche parlato della opaca vicenda di Volker Weingraber (alias Karl Heinz Goldmann), un agente tedesco occidentale che operò in Italia durante il sequestro Moro.
6 informative del Sisde che lo riguardavano sono state desecretate dall’AISE (l’attuale servizio segreto estero) nel giugno 2017. In particolare, dagli atti del nostro servizio segreto – solo ora resi noti – risulta che Weingraber giunse a Milano nel febbraio 1978 e che si mise in contatto con diverse persone, tra cui il terrorista Oreste Strano e un gruppo che preparava il sequestro di un imprenditore svizzero. L’informativa del 6 novembre 1978 precisava inoltre che «la fonte infiltrata ha avuto contatti con Aldo Bonomi il quale gli avrebbe confermato di essere in grado di procurare armi e documenti falsi per sviluppare attività eversive». La fonte – continua la citazione – «ritiene che Bonomi sia un provocatore e un confidente della Polizia. Sarebbe stato isolato dalle Br perché ha sempre evitato di assumersi compiti rischiosi nell’ambito dell’organizzazione». Ma «la fonte infiltrata» – come risulta da un’altra lettera desecretata del 2 novembre 1990 inviata dall’ammiraglio Martini, capo del Sismi, al capo della Polizia, prefetto Vincenzo Parisi oggi desecretata – altri non era che proprio Weingraber, il quale lavorava in un’operazione congiunta del Sismi e dei servizi segreti tedesco e svizzero. Risulta inoltre che Weingraber – come confermato dal colonnello Giorgio Parisi al giudice Priore il 28 settembre 1990 – entrò in contatto, tramite Strano (che aveva una compagna tedesca), anche con Nadia Mantovani, cioè la persona che aveva avuto l’incarico di battere a macchina il Memoriale Moro, e che prima del suo arresto, a Novara frequentava una radio di sinistra extraparlamentare collegata alla Rote Armee Fraktion. Va pure segnalato che Weingraber alloggiò a partire dal 1978 in Italia nello stesso palazzo dove abitava Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980. Ma poi fu lo stesso Strano a denunciare Weingraber pubblicamente come un infiltrato, dopo che al valico del Brennero vennero sequestrati a quattro cittadini tedeschi 800 fogli di documenti: ciò accadde poche settimane prima della seconda scoperta di materiale proveniente dal sequestro Moro nel covo di via Monte Nevoso 8, a Milano, nel novembre 1990”. Moro per sempre, dunque. Il caso non è chiuso!
Aldo Moro e la pietas di Sciascia, medicina contro stalinisti e forcaioli. Filippo La Porta su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Il 9 maggio del 1978 veniva trovato il corpo senza vita di Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, abbandonata in via Caetani, a conclusione di 55 giorni di prigionia da parte delle Brigate Rosse: uno degli episodi cruciali e più drammatici della storia della nostra Repubblica. Riparliamo di Moro prendendo spunto da un interessante articolo di un blog e da un libro utile e accurato. Nel blog Minima & Moralia Virginia Fattori si occupa di uno dei testi più belli di Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, scritto nei giorni del sequestro. Dal punto di vista letterario si tratta di un felice ibrido tra pamphlet, diario in pubblico, reportage, meditazione morale. Un esempio unico di filologia morale, scritto con una lingua riflessiva e acuminata, memore del Manzoni della Colonna infame, dell’esprit volterriano e della prosa labirintica di Borges. Com’è noto Sciascia fu uno dei pochi a difendere la autenticità delle lettere di Moro dal carcere (ben 97), insieme ai familiari, sfidando gli anatemi di Scalfari e Amendola, o la linea ufficiale dei capi democristiani. Certo lettere “condizionate” (dal contesto), ma moralmente e intellettualmente autentiche. A ben vedere tutti i personaggi di Sciascia si progettano come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati. In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Fattori osserva che Sofri, benché schierato dalla parte di quel libro, definisce Sciascia e Moro intellettuali meridionali, dunque disincantati, «poco fiduciosi nell’agire umano contro l’immanenza della realtà». Poi chiosa: eppure «chi potrebbe negare ad Aldo Moro l’assoluta fiducia nel riformismo della sua In Amare il nostro tempo. Appunti sul giovane Moro (Domani d’Italia) Lucio D’Ubaldo, ex senatore della Margherita e nella Dc vicino ai morotei, ricostruisce il pensiero dello statista a partire dalla formazione giovanile, a metà degli anni ‘40: originalità nella lettura della società italiana, tensione costante tra utopia e realismo, riformulazione personale di certi apporti (l’“umanesimo integrale” di Maritain diventa “cristianesimo umano”) e di categorie nate in ambiti diversi (il “postfascismo di Carlo Rosselli”, fondatore del movimento “Giustizia e Libertà”, come radicale riforma, morale e politica, della società italiana), e soprattutto l’idea che la politica “non deve essere una tecnica arida del potere, ma un omaggio reso quotidianamente alla verità e alla bellezza della vita” (enunciata nel 1977, tuttavia impregnata della formazione giovanile di Moro). D’Ubaldo rivela la sua genuina vocazione di storico delle idee, totalmente a suo agio con la ricostruzione della filosofia cattolica che ispira gli orientamenti politici (ad esempio il ruolo di Del Noce e Rodano), ma anche con opere letterarie (sorprendentemente Il giovane Holden di Salinger), con Pasolini, con la teoria critica della società dei francofortesi e dell’epigono Marcuse. Indispensabile la meticolosa ricostruzione dell’atteggiamento dei cattolici e della Dc verso il ‘68, la comprensione delle sue istanze più radicali, il riferimento a un convegno delle Acli del 1967, con la critica della società opulenta che vi fu espressa. Ma non bisogna occultare la vera natura del libro di D’Ubaldo, il suo essere una proposta politica “militante” per l’oggi, un tentativo di rilancio del centrismo, a partire dal crollo della Dc dovuto a immobilismo e perdita di motivazioni ideali, e dal rifluire dei cattolici nell’“universo fluttuante della società civile”, tra volontariato e assistenza. E il centro si rilancia a partire da Moro (al di fuori di qualsiasi mitologia), dal suo appello (nel 1944) alla sensibilità di ogni cattolico, che “non può sopportare di convivere con l’ingiustizia”. Concludo sull’Affaire Moro di Sciascia (purtroppo non citato da D’Ubaldo). Un libro non solo letterariamente sperimentale (virtuosistico montaggio d’autore di materiali giornalistici) ma a suo modo “religioso”, intriso di pietas e conoscenza dell’animo umano, che volle denunciare lo “stalinismo” delle Brigate Rosse e anche del “partito della fermezza” e insieme difendere la dignità offesa di Moro. Sciascia volle mettersi dalla parte di Moro, e poi di Enzo Tortora, dalla parte degli inermi e degli indifesi, di chi ha paura e viene calunniato, in nome della parte di infermità e debolezza che è cristianamente in ogni essere umano.
ALDO MORO, L’ASSASSINIO 42 ANNI FA. “Ma la verità deve ancora venire a galla”. Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario il 9.05.2020. Aldo Moro venne ucciso oggi 42 anni fa: era il 9 maggio del 1978 e il suo corpo venne ritrovato in una Renault 4 in via Caetani a Roma. Quattro decadi di misteri, silenzi e omissioni. Il 9 maggio di 42 anni fa, era il 1978, veniva ucciso Aldo Moro, ex numero uno della Dc. Sono passati più di quattro decadi da quella giornata, considerata fra le pagine più buie della storia della Repubblica, ma la verità non è ancora venuta a galla in toto. Molti sono infatti quelli convinti che vi siano ancora diversi aspetti della vicenda da chiarire, a cominciare da Roberto Della Rocca (all’epoca dei fatti, direttore del personale di Fincantieri, oggi numero uno dell’Aiviter, l’Associazione italiana vittime del terrorismo), ferito in un agguato dalle Brigate Rosse due anni dopo la morte di Moro: «La morte di Aldo Moro – le sue parole riportate oggi dall’edizione online de La Stampa – fu uno spartiacque terribile per la lotta al terrorismo. La verità ancora non è dietro l’angolo e sinceramente non so se ci arriveremo mai: è passato troppo tempo, ci sono state cose che sembrano inverosimili. Ma dobbiamo capire, sapere se sia stato un fenomeno endogeno, esclusivamente italiano, o se non sia stato anche un qualcosa che veniva da fuori, in termini di possibili mandanti». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
ALDO MORO, 42 ANNI FA L’ASSASSINIO, IL SEQUESTRO, LA PRIGIONIA DI 55 GG, L’UCCISIONE. Esattamente oggi, 9 maggio, 42 anni fa, era il 1978, moriva Aldo Moro, segretario della Democrazia Cristiana. Venne rapito dalle Brigate Rosse poi ucciso, e il suo corpo venne ritrovato all’interno di una Renault 4 posteggiata in via Caetani a Roma. Fu una delle pagine di cronaca nera più toccanti e segnanti della storia moderna dell’Italia, con Moro che venne assassinato da un commando che l’aveva sequestrato in via Fani, dopo aver sterminato a colpi di mitra la sua scorta. Il sequestro era avvenuto 55 giorni prima, quasi due mesi di prigionia durante i quali l’allora leader della Dc, il partito numero uno in Italia, fu sottoposto ad una sorta di processo, perchè “colpevole”, stando ai brigatisti, di voler “unire” Dc e Pci. Nonostante trattative varie, alla fine non si riuscì ad ottenere la liberazione di Moro, e le Brigate Rosse decisero quindi di giustiziare l’onorevole, provocando una crisi politica senza precedenti. Per ricordare Moro, in Italia è stata istituita una giornata speciale dal 2008, in cui vengono appunto ricordate le vittime del terrorismo.
ALDO MORO, IL MESSAGGIO DI MATTARELLA: “BARBARIE BRIGATISTA GIUNSE ALL’APICE”. «Il 9 maggio è il giorno in cui Aldo Moro venne ucciso – la nota di oggi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel Giorno della memoria per le vittime del terrorismo – la barbarie brigatista giunse allora all’apice dell’aggressione allo Stato democratico. Lo straziante supplizio a cui Moro venne sottoposto resterà una ferita insanabile nella nostra storia democratica. Respinta la minaccia terroristica – ha aggiunto il Capo dello Stato – oggi ancor più sentiamo il dovere di liberare Moro e ogni altra vittima da un ricordo esclusivamente legato alle azioni criminali dei loro assassini». Raffaele Iozzino, fratello di uno degli agenti della scorta di Moro assassinati, ha invece commentato in maniera polemica: «Sono stati scritti libri, si è parlato tanto, eppure la verità è così lontana – afferma all’agenzia Adnkronos – il giorno della sua morte e quello del ritrovamento del corpo di Moro sono gli unici due giorni in cui ci chiamano. Mi piacerebbe che le Istituzioni si ricordassero di noi familiari, non che ci riservassero un canale preferenziale, per carità. All’epoca siamo stati aiutati, oggi ho ancora due ragazzi a casa che con questa crisi non lavorano. Spero si aggiustino le cose, per tutti i ragazzi che qui rischiano di finire in mano alla malavita». Questa mattina, come si evince dal video che trovate più in basso, i Corazzieri dei carabinieri, con rigorosa mascherina, hanno posto una corona di fiori della Presidenza della Repubblica in via Caetani.
ALDO MORO. E la lettera a Craxi che svela il disegno perverso dell’ideologia italiana. Gianluigi Da Rold su Il Sussidiario il 09.05.2020. Il 9 maggio 1978 veniva ritrovato in via Caetani il cadavere di Aldo Moro. La posizione di Craxi non fu strumentale, quella della Dc, sì. La vicenda del delitto Moro, di cui oggi, 9 maggio 2020, ricorre il 42esimo anniversario del tragico epilogo, dell’esecuzione e del ritrovamento del cadavere, rappresenta sempre, nel ricordo che è stato fatto dalla maggioranza della cosiddetta “intelligencija” e dei “detective politicizzati per caso”, uno degli aspetti più perversi di quella che si può definire “ideologia italiana”. Commissioni di inchiesta di durata interminabile e conclusioni tutte approssimative e spesso mescolate ad altre realtà. Deposizioni surreali su presunti “pendolini” che lasciano esterrefatti. Quindi i processi e le rivelazioni improvvise, promosse subito a “verità storiche”, dettagli ripescati qua e là, ma mai, ripetiamo mai, un quadro sufficientemente chiaro e complessivo della ricostruzione dettagliata, delle cause, della ragione autentica, del perché di tutta quella tragedia italiana. Non è ancora ben chiaro, dopo tutti questi anni, in quanti parteciparono all’azione del rapimento e della strage della scorta di Moro il 16 marzo 1978 in via Mario Fani, e neppure chi veramente sparò al leader della Dc, prima che fosse ritrovato sulla Renault rossa in via Caetani il 9 maggio dopo 55 giorni, è stato identificato con sicurezza. Lasciamo poi perdere “le voci e le certezze” sull’appartamento-covo di via Montalcini, lo scambio piuttosto ambiguo tra via Gradoli a Roma e Gradoli paese, con l’escursione di forze dello Stato sul Lago della Duchessa. In questi 42 anni, accanto ai volumi editi, ai discorsi, ai ricordi “volgari” (quello della statua a Maglie dedicata al leader democristiano con l’Unità sotto il braccio, come se fosse un simpatizzante comunista), ci sono state le tesi depistanti confezionate in modo grossolano, quelle ideologiche appena più falsamente raffinate, quelle opportuniste, quelle dettate solo dalle mistificazioni cocciute e ripetute. Tutto questo, in fondo, è il nocciolo vero, appunto, dell’“ideologia italiana”: rimuovere, manipolare, improvvisare, creare dietrologie e tenersi sempre lontani dalla verità. Sembrerà paradossale, ma un passo avanti si è fatto con l’ammissione che furono le Brigate rosse a rapire e uccidere Aldo Moro. Per anni, infatti, famosi giornalisti hanno scritto su giornali importanti le “cosiddette Brigate rosse”, alludendo a manovre di servizi segreti, più o meno deviati. Più avanti, e ancora adesso, si fa una distinzione tra le prime Brigate rosse, quelle “pure” di Renato Curcio, Mara Cagol e Alberto Franceschini, da quelle, “meno pure” e magari “infiltrate”, di Mario Moretti, Prospero Gallinari, Adriana Faranda e Valerio Morucci. In realtà, come ha scritto nel trentesimo anniversario del delitto Moro su Critica sociale uno storico come Ugo Finetti, le due principali mistificazioni sarebbero queste: da un lato Moro sarebbe stato ucciso dalla Cia su istigazione di Henry Kissinger per evitare che portasse i comunisti nel cuore della Nato; dall’altro il leader Dc “sarebbe stato soppresso dal Kgb per evitare che destabilizzasse il sistema di potere dell’Urss portando al governo l’euro-comunista Berlinguer”. Sono due tesi senza fondamento, di comodo e di opportunismo politico da basso livello, formulate senza tenere conto della realtà. Nel 1978 Kissinger non aveva alcun potere, dopo la caduta di Nixon e il Watergate; alla Casa Bianca ci stava il democratico Jimmy Carter e il nuovo segretario di Stato era Cyrus Vance. Il Cremlino di Breznev era in tutte altre faccende affaccendato: con i problemi che aveva in casa sfoderava il suo aspetto imperiale, mettendosi all’offensiva in Africa e in Asia. Quanto ai rapporti tra Berlinguer e l’Unione Sovietica, dopo alcune distinzioni anche tollerate, nel 1977, in occasione del 60esimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre l’eurocomunismo era in crisi e stava letteralmente evaporando. A Mosca, il segretario comunista francese Georges Marchais non andò; allo spagnolo Santiago Carrillo non venne concessa la parola; Enrico Berlinguer parlò invece per 6 minuti e 32 secondi, per dire che intendeva difendere “tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose”. Dichiarazioni che nemmeno i sovietici potevano permettersi di contestare. Non ci sono più polemiche nel discorso di Berlinguer, ma un riavvicinamento sancito dall’onore che gli tributano i dirigenti sovietici con la successiva pubblicazione del suo intervento sulla Pravda. Due anni dopo, nel novembre del 1979, Berlinguer parlerà in pieno comitato centrale dell’attualità delle lezioni del leninismo e griderà furente a Giorgio Amendola “Non capisci nulla di marxismo–leninismo”. Ma se dal contesto internazionale si passava a quello italiano, la realtà era ancora più concitata. Moro aveva risposto duramente ai comunisti nel 1977, in occasione dello scandalo Lockheed: “Non ci faremo processare da voi nelle piazze”. Poi a novembre, il repubblicano Ugo La Malfa apre una crisi e invoca l’ingresso del Pci nella maggioranza di un nuovo governo. Moro trova una situazione di compromesso con un accordo con Craxi: un governo monocolore democristiano, con i comunisti in maggioranza, ma senza i “tecnici” che il Pci richiede e che provocano reazioni sia in Berlinguer che in Pajetta. Lo sfondo politico che porta al governo del 16 marzo 1978 è questo, ma viene sempre dimenticato, smarrito, confuso, Potenza dell’“ideologia italiana”, che in quel momento a tutti i livelli è innamorata del catto–comunismo. Capitano spesso queste sbandate a chi si è dimenticato persino il nome del capo della Resistenza. Chissà se i nostri valenti insegnanti di storia e i nostri studenti conoscono la figura di Alfredo Pizzoni, mai onorato in tutti i 25 aprile? Recentemente un “guitto” italo–bulgaro parlava in televisione di un’Italia liberata dal nazifascismo per la grande tenuta dell’Urss di Stalin contro Hitler, dimenticandosi ovviamente della V e dell’VIII armata anglo–americana che risalivano l’Italia e pagavano pure la diaria ai partigiani dopo i patti di Roma del novembre 1944 (Harold Macmillan, Diari di guerra 1943–1945, il Mulino). Ma la potenza della disinformazione dell’ideologia italiana è travolgente. Quando il 16 marzo 1978 Moro è “nella prigione del popolo”, scompare dalla terza pagina di Repubblica questo titolo: “Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro segretario della Dc”. Migliaia di copie del quotidiano progressista vengono mandate al macero, ma qualcuno ne mantiene copie per un ricordo indelebile della vergogna. Nella stessa mattinata Ugo Pecchioli, uomo del Pci che si è sempre occupato dei rapporti (anche della rete di radio clandestine) con l’Urss, si presenta nella sede della Dc e sentenzia: “Per noi è morto”. Traduzione: nessuna trattativa. Dal “carcere del popolo” Moro comincia a scrivere lettere che invocano una trattativa e poi lancia accuse ben precise. La risposta degli intellettuali di matrice cattolica compare con una lettera e un lungo elenco di firme e spiega: “Moro non è responsabile di quello che scrive”. Praticamente viene abbandonato e visto come una specie di pazzoide. Una vergogna infame. A questo punto la politica italiana si spacca. Bettino Craxi, il leader del Psi, suggerisce una trattativa. Si unisce a questa iniziativa anche Marco Pannella. Naturalmente la proposta di Craxi è vista come una manovra per rompere l’asse catto–comunista e guadagnare consensi, sparigliare un inevitabile processo di unità nazionale tra Pci e Dc. È un’altra mistificazione oscena. Moro ha scritto 51 lettere. Nella dodicesima, inviata il 12 aprile a Craxi, e recapitata nella sede del Psi in via del Corso a Roma, Moro è disperato: “Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentare che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare e anzi di accentuare la tua importante iniziativa”. Moro implora una trattativa. Scrive ancora: “Ogni ora che passa potrebbe renderla vana. E allora ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile nell’unica direzione giusta, che non è quella della declamazione”. Più avanti spiega: “Anche la Dc sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi subito. Non c’è un minuto da perdere”. Quando Craxi legge queste parole su un foglietto di quaderno a quadretti non trattiene le lacrime e ricomincia la sua battaglia. Ma contro di lui c’è il blocco del “fronte delle fermezza”, costituito dai maggiori partiti e da quelli laici, ma soprattutto dalla grande stampa. Si contendono il primato del “fronte della fermezza” il Corriere della Sera, che in quel momento era mantenuto e più o meno al servizio dal “maestro venerabile” Licio Gelli, e la rampante Repubblica dell’ex fascista Eugenio Scalfari, poi diventato azionista, forse radicale, quindi socialista e infine filo–berlingueriano. Un uomo di coerenza! Nella visione di Craxi non c’era un calcolo politico di smarcamento, ma soprattutto di un principio della nostra Costituzione, che non è “la più bella del mondo”, ma è almeno figlia del compromesso di Yalta. Fu proprio il giovane giurista Aldo Moro, ai tempi della Costituente, a difendere il principio che le persone vengono prima dello Stato, che la ragione di Stato non si baratta con una vita umana. Quello Stato del 1978 che alla fine si arrese all’esecuzione di Moro da parte delle Br senza trattare per non riconoscerle formalmente, venne ben descritto nel libro di Leonardo Sciascia L’affaire Moro, dove il grande scrittore paragonava quello Stato a una sorta di moribondo che sta in un letto di ospedale e all’improvviso impettisce, scende in strada e minaccia sfracelli, andando inevitabilmente verso il disastro annunciato.
PS: Chi scrive questo articolo non cambia idea da 42 anni. E ancora oggi è fiero di aver ritirato la firma dal Corriere per un anno, proprio per come era stato descritto il caso Moro. Quello che accadde si può vedere da un comunicato Ansa dell’epoca.
Servizi di sicurezza, a che servono se non ci sono problemi specifici incombenti? Frank Cimini de Il Riformista il 19 Marzo 2020. La preoccupazione maggiore dei nostri apparati di sicurezza sembra rivolta a una lettura diversa dei cosiddetti anni di piombo rispetto alla storiografia ufficiale che rischia di trovare consensi “nell’uditorio giovanile”. Usano proprio questo termine gli apparati nella loro relazione annuale al Parlamento presentata nei giorni scorsi con un po’ di ritardo e che è passata inosservata sui giornali soprattutto perché mancavano indicazioni su pericoli specifici incombenti. Ma è meglio lasciare direttamente la parola ai “servizi” prima di spiegare la ragione di queste povere righe. «L’attività di costante monitoraggio informativo assicurata dal comparto intelligence ha rilevato in linea di continuità con gli ultimi anni il proseguire dell’impegno divulgativo specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili”, volto a tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti. La propaganda si è in particolare rivolta in un’ottica di proselitismo a un uditorio giovanile con un occhio di riguardo alla composita area dell’antagonismo di sinistra sulla cui sensibilità risulta tarata una lettura trasversale in chiave rivoluzionaria dell’antifascismo dell‘antimilitarismo e dell’antiimperialismo nonché delle questioni correlate al disagio sociale dall’emergenza abitativa a quella migratoria passando per le criticità del mondo del lavoro». Bisogna ricordare che nel nostro paese esistono apparati costosissimi e spropositati rispetto alla bisogna dal momento che ormai da molto tempo quel po’ di conflitti sociali in essere non sembra in grado di costituire “un pericolo per la democrazia”. Ma di queste strutture e soprattutto dei loro costi appare pressoché impossibile parlare nel senso di suscitare un dibattito pubblico sui mezzi di informazione. Vige una sorta di segreto di stato di fatto che nessuno è disposto dentro il circuito istituzionale a mettere in discussione. Gli apparati al fine di giustificare sia loro esistenza sia il privilegio di disporre di quantità molto rilevanti di fondi scriverebbero qualsiasi cosa e sanno benissimo che il solo evocare il tentativo di rivoluzione, il più serio nel cuore del capitalismo occidentale, fallito quarant’anni fa li mette al riparo da qualsiasi osservazione critica. Succede tanto per fare un esempio che il raggruppamento speciale dei carabinieri arrivi a chiedere di investire l’attività del mitico Ris di Parma per rilevare il Dna di un gruppetto di ventenni responsabile di uno striscione pro-palestinesi davanti alla sede del Corriere della Sera. Nel caso specifico pare che la procura di Milano non abbia dato seguito all’iniziativa. E parliamo della procura che di recente ha in pratica azzerato le lotte per la casa con misure cautelari e reati associativi per un collettivo dì militanti pur specificando che il tutto non aveva scopo di lucro. Da tempo siamo in presenza di una repressione di tipo preventivo che ha il compito di ammazzare nella culla eventuali azioni “sovversive”. Di questo quadro si giocano i nostri apparati di sicurezza dove chi ne fa parte teme di veder finire la vita nella bambagia e di essere “mandato a lavorare”. Ma si tratta di rischi puramente teorici sia perché la politica è debole incapace di prendere decisioni forti sia perché gli uffici inquirenti le procure anche quando non danno seguito agli input degli apparati (con i quali dovrebbero avere nulla a che fare ma tutti sanno che non è così) però ne coprono le gesta perché tra poteri come dicono a Napoli “si apparano”. In tempi di spending review non sarebbe male avviare una discussione seria in merito. Ma ricordiamo che siamo nel paese in cui a quarant’anni dai fatti sono andati con il laser in via Fani per stabilire se a sparare alla scorta di Moro erano state solo le Br. L’esperimento portò a concludere che sì solo le Br. E tutto si chiuse con 18 righe sul Sole 24 ore. Quanti soldi nell’occasione buttati dal balcone? Impossibile saperlo dalla commissione parlamentare e dalla procura generale di Roma. Ma si sa che il procuratore generale di Roma poi è diventato il pg della Cassazione. Insomma se la cantano e se la suonano. Tutto in famiglia.
Scoop dei dietrologi: risolto il caso Moro, è stato ucciso da un barista. Frank Cimini de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. Abbiamo a che fare con le dietrologie incrociate sulle quali disserta frequentemente il Manette Daily alias Cappio Quotidiano. «Bologna, strage crocevia di due storie criminali» è il titolo dell’ultimo articolo sul tema. Le due storie legate tra loro dalla chiusura indagine sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 sono il crac del Banco Ambrosiano e il sequestro Moro. E con pezze di appoggio da far tremare i polsi e accapponare la pelle: «Sia i soldi mancanti della bancarotta dell’Ambrosiano sia il brigatista Alessio Casimirri che non ha scontato un giorno di carcere negli stessi anni trovarono il loro “paradiso sicuro” in Nicaragua». Un paese del quale il figlio di Licio Gelli (condannato sia per il crac sia per il depistaggio sulla strage) è da anni ambasciatore prima in Uruguay e poi in Canada. E solo oggi sappiamo, è la tesi del Fatto, perché esiste un documento desecretato dal governo nel 2014, che Tullio Olivetti, proprietario dell’insolito caffè di via Fani a lungo copertura di un grosso traffico di armi con mafia terrorismo interno e internazionale, era presente nel capoluogo emiliano il giorno della strage della stazione, ma non fu mai interrogato. Da sempre i dietrologi di mezzo mondo favoleggiano di questo famoso bar Olivetti raccontando che ci andavano i mafiosi a far colazione perché aveva i migliori maritozzi della capitale. “L’insolito caffè di via Fani”, comunque, la mattina del 16 marzo del 1978, come è stato infinitamente accertato, era chiuso… Ma i cultori del mistero legato al bar Olivetti non demordono. Sul caso Moro tutto vale, anche la panna dei maritozzi. Se l’informazione si è ridotta a questo non può meravigliare che chiedendo ai liceali di adesso chi mise la bomba in piazza Fontana arrivi la risposta inevitabile a sto punto: le Brigate Rosse. E ormai le Br sarebbero responsabili anche della strage di Bologna e pure della bancarotta dell’Ambrosiano. Alla confusione sul tema hanno dato un rilevante contributo le commissioni parlamentari di inchiesta sul caso Moro che tra l’altro ascoltarono, dandogli dignità di oracolo, Raimondo Etro “pentito” e dietrologo acquisito, balzato recentemente agli onori della cronaca perché cacciato dallo studio tv di Giletti. Un paese che rifiuta di fare i conti con il tentativo di rivoluzione fallito a cavallo degli anni 70 e 80 non può che continuare a dare spazio a una dietrologia troppo interessata a nascondere la verità e di cui la sinistra appare più responsabile di altre fazioni politiche. Insomma a sinistra non hanno ancora digerito che in pieno sequestro Moro, Rossana Rossanda gridò in faccia al Pci che le Brigate Rosse erano comuniste con due famosi articoli sull’album di famiglia. E oggi a sinistra si sollazzano leggendo il Manette Daily.
Il libro di Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni. Trovare Moro si poteva, ma nessuno lo cercò. Fabrizio Cicchitto de Il Riformista il— 29 Novembre 2019. La seconda edizione del libro di Maria Antonietta Calabrò, nota giornalista, e di Giuseppe Fioroni, presidente della seconda commissione Moro Il caso non è chiuso. La verità non detta aggiunge altri interrogativi assai inquietanti ad una vicenda, quella del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta, che ha segnato l’inizio della crisi della Dc e della Prima Repubblica. «Il mio sangue ricadrà su di voi» scrisse Moro in una delle sue ultime lettere rivolgendosi al gruppo dirigente della Dc. Partiamo, però, dalle origini della vicenda. Subito dopo il rapimento fu netta la sensazione che il gruppo dirigente del Pci, guidato con mano ferrea da Enrico Berlinguer, riteneva che ormai Moro era un uomo morto. Di rimbalzo, del tutto simile era l’orientamento del gruppo dirigente della Dc (il presidente del Consiglio Andreotti, il ministro degli Interni Cossiga, il segretario formale della Dc Zaccagnini, il segretario sostanziale l’onorevole Galloni). Berlinguer riteneva che le Brigate Rosse con molteplici legami internazionali, dai palestinesi ai cecoslovacchi, si muovevano non solo contro il compromesso storico, ma contro la strategia di fondo del Pci. Di conseguenza, non bisognava in alcun modo trattare con essi dando la sensazione di un qualche riconoscimento del “partito armato”. Berlinguer notificò subito alla Dc che il Pci avrebbe fatto cadere il governo al primo accenno di trattativa. Andreotti, Cossiga, Zaccagnini, Galloni, Gava per i dorotei, si uniformarono a questa scelta per due ragioni: salvare il governo e mantenere in piedi la politica di unità nazionale. Tutto ciò però si tradusse in modo paradossale per ciò che riguardava le indagini e la ricerca del luogo dove Moro era tenuto prigioniero, cioè nell’inerzia. In effetti, né fu fatta la trattativa né furono sviluppate indagini serie e reali, specie dopo le prime e polemiche lettere di Moro. Poi, sui tempi lunghi, dopo quasi due mesi, le Br dovevano chiudere una partita che durava già da troppo e l’unico modo era quello di consegnare Moro cadavere anche perché le Br non gradivano esser messe di fronte a mosse politiche che la complicavano sul piano politico e mediatico. Non a caso fecero trovare il cadavere di Moro a via Caetani quando seppero che alla direzione della Dc Fanfani avrebbe “aperto” sulla trattativa. Ben diversa sarebbe stata la partita se le Br si fossero trovate subito di fronte ad un’iniziativa dello Stato sulla trattativa. Ma lo Stato non agiva in modo incisivo e aggressivo neanche sul terreno delle indagini. Anzi da quel punto di vista avvennero cose incredibili: clamoroso fu l’errore commesso quando Prodi diede l’indicazione di Via Gradoli. Nessuno, anche a distanza di tempo, ha chiesto a Prodi di rivelare quale fu la fonte autentica che gli fece quella rivelazione perché non è credibile la storia della seduta spiritica. Comunque sia se le forze dell’ordine si fossero recate in via Gradoli, il caso Moro avrebbe avuto una svolta dopo pochi giorni: a via Gradoli c’era il covo segreto di Moretti e della Balzarani. Invece le forze dell’ordine ai recarono a Gradoli, un paese del viterbese. Ora, c’è un limite al grottesco anche perché esiste lo stradario. Evidentemente non lo si voleva trovare e di fronte ad una “mossa” esterna imprevista quale fu la rivelazione di Prodi gli apparati e chi li guidava non esitarono ad andare incontro ad una figura ridicola per altro non sottolineata da una stampa succube di un potere che andava dalla Dc al Pci. La seconda vicenda inesplicabile riguardò quello che accadde quando Craxi e il Psi si dichiararono a favore della trattativa. Non è questa l’occasione per riaprire il dibattito politico su quella iniziativa ma invece è interessante ricostruire ciò che accadde e ciò che non accadde. Bettino Craxi incaricò Claudio Signorile e Antonio Landolfi di prendere tutti i contatti possibili per accertare se le Br erano disponibili o meno ad una trattativa e a quali condizioni. Signorile e Landolfi fecero la cosa più ovvia di questo mondo: presero contatto con Lanfranco Pace e Franco Piperno, due personalità che provenivano da Potere Operaio e che erano borderline con il mondo dell’estremismo armato. Fecero subito centro: Pace e Piperno stabilirono il contatto con Valerio Morucci e la Faranda che erano i postini delle Br. Orbene, dei servizi degni di questo nome, avrebbero dovuto seguire da tempo, dall’inizio della vicenda, Pace e Piperno, e a maggior ragione avrebbero dovuto farlo da quando essi furono interpellati da Landolfi e Signorile che tenevano informato il governo di tutti i loro passi. Terza stranezza: quando Morucci e la Faranda ruppero con le Br perché erano contrari all’assassinio di Moro essi si rifugiarono a casa di Giuliana Conforto che era la figlia del decano degli agenti del Kgb in Italia, Giorgio Conforto che fu presente anche al momento del loro arresto, ma che fu subito “dimenticato”? Altra domanda: perché Giorgio Conforto si fece trovare lì, dove erano anche la scorpion e altre armi? Detto tutto ciò, per mettere ulteriormente in chiaro quello che avvenne nella realtà, bisogna ricordare che invece, in occasione del rapimento del generale Dozier da parte delle Br, gli apparati dello Stato (polizia carabinieri servizi) divennero dei fulmini di guerra. Anche se ciò è stato sempre negato allora fu usata anche la tortura: i brigatisti catturati dissero subito dove era Dozier, i Nocs intervennero e, senza spargimento di sangue, liberarono Dozier e arrestarono i rapitori: una operazione da manuale. Calabrò e Fioroni mettono in evidenza il retroterra di ciò che abbiamo descritto nelle sue manifestazioni più visibili. Questo retroterra era il cosiddetto lodo Moro che, a onor del vero, avrebbe dovuto essere chiamato “lodo Moro e Andreotti”. Dopo che l’Italia era stata colpita alcune volte da attentati, gli apparati italiani, con un dovuto consenso politico (appunto “lodo Moro e Andreotti”) fecero una intesa con le organizzazioni palestinesi (sia l’Olp di Yasser Arafat, sia il Fplp di George Habash) secondo la quale essi avevano libertà di transito (di uomini e armi) sul nostro territorio, ma non avrebbero più fatto attentati. Si è trattata di una sorta di patto con il Diavolo che era gestito dal colonnello Giovannone (il cui intervento non a caso fu invocato da Aldo Moro in una sua lettera). Le Br, però, avevano diretti rapporti con queste organizzazioni che le rifornivano di armi e, stando ad una battuta di Berlinguer a Sciascia, poi da lui smentita, anche coi servizi cecoslovacchi. Di conseguenza il lodo Moro-Andreotti evitò che i palestinesi continuassero a fare attentati sul nostro territorio ma non evitò che essi rifornissero di armi anche le Br che per parte loro sparavano a uomini politici, a magistrati, a esponenti delle forze dell’ordine, a imprenditori, a professori universitari. Cioè, indirettamente, per un tragico paradosso “il lodo Moro” consenti ai brigatisti di attrezzarsi per determinare il “caso Moro”. Le cose non si fermano qui. Stando a quello che è riportato nel libro di Calabrò e di Fioroni il giudice Armati, in una testimonianza resa davanti alla Commissione, ritenne assai probabile che il colonnello Giovannone rivelò a George Habash che i giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni si stavano recando a Beirut (1980) per indagare sul traffico d’armi fra l’Italia e il Libano. Da allora De Palo e Toni sono scomparsi. Secondo Armati, Giovannone avvertì Habash che la De Palo e Toni andavano a Beirut a rompere le scatole e Habash ne trasse le conseguenze. D’altra parte ricordiamo le proteste e le minacce dei dirigenti palestinesi quando per caso Daniele Pifano e alcuni militanti del Fplp furono arrestati perché su un’auto trasportavano addirittura un missile. Giovannone paventò ritorsioni. Non parliamo poi di tutti gli interrogativi ancora aperti sulla strage di Bologna che potrebbe essere stata determinata dall’esplosione fortuita di ordigni che venivano trasportati in una valigia avendo altra destinazione. Tanti sono gli interrogativi ancora aperti, tra cui quello assolutamente banale sul perché Moro non avesse una macchina blindata: non dimentichiamo che in un primo momento i brigatisti avevano scelto Andreotti come obiettivo, ma poi avevano desistito perché troppo protetto. Altro interrogativo è costituito dal fatto che dopo l’uccisione di Moro e le polemiche sviluppate dalla famiglia Moro. Ci fu una sorta di anticipazione di Mani pulite e Sereno Freato, l’uomo che si occupava dei finanziamenti della corrente morotea, fu colpito sul piano giudiziario e demonizzato. Lo stesso che avvenne a Baffi e a Sarcinelli quando non ottemperarono alle richieste di Andreotti e di Evangelisti per aiutare Sindona. Da tutto ciò emerge che la storia italiana dagli anni Cinquanta in poi è piena di interrogativi ai quali è difficile dare risposta perché quello che è avvenuto “sotto il tavolo” è stato talora più decisivo di quanto non è avvenuto “sopra il tavolo”, cioè alla luce del sole. Oggi solo gli scemi possono pensare che le cose vanno diversamente, solo che c’è una ulteriore modernizzazione tecnologica grazie all’uso del trojan e all’uso politico di internet attraverso il quale Putin sta smontando le democrazie occidentali.
Aldo Moro, il più lucido e il più autonomo Perciò «doveva morire», scrive il 16 Marzo 2018 Giuseppe De Tommaso su "La Gazzetta del Mezzogiorno". C’è chi dice che il delitto Moro (1978) stia all’Italia come il delitto Kennedy (1963) sta all’America. C’è chi dice che il delitto Moro stia all’Italia repubblicana come il delitto Matteotti (1924) sta all’Italia fascio-monarchica. Può essere. Tutti e tre i delitti sopra indicati hanno cambiato il corso della storia. Tutti e tre i delitti presentano zone d’ombra mai illuminate. Tutti e tre i delitti costituiscono i misteri più indecifrabili dell’ultimo secolo. Tutti e tre i delitti non hanno mandanti identificati per nome e cognome. Gli indiziati dell’uccisione di Dallas vanno dai boss mafiosi ai capi della rivoluzione cubana, dalla nomenklatura del Cremlino agli ultrà dei servizi segreti Usa. I sospettati dell’agguato mortale al deputato socialista vanno dal Duce alla monarchia (tesi quest’ultima della famiglia Matteotti), dai fascisti più irriducibili ai trafficanti di petrolio smascherati dalla vittima designata. Ecco. I complici sospettati della strage di via Fani e del successivo tragico epilogo in via Caetani sono ancora più numerosi, tanto che ad abbozzarne l’elenco si rischierebbe di dimenticarne qualcuno. Si può solo dire che la morte di Aldo Moro (1916-1978) faceva comodo pressoché a tutti, dentro e fuori l’Italia. Faceva comodo alle superpotenze internazionali, ciascuna delle quali considerava lo statista italiano in quota al nemico. Faceva comodo alle minipotenze nazionali, spaventate dal grado di autonomia e indipendenza del leader democristiano. Faceva comodo a poteri occulti e a poteri palesi, chi per una ragione chi per un’altra. Che la vita di Moro ai vertici delle istituzioni italiane non sarebbe stata una passeggiata, lo s’intuì sùbito, già prima che il Nostro s’insediasse a Palazzo Chigi sul finire del 1963, alla guida del primo vero governo di centrosinistra. L’ala conservatrice della Chiesta gli è ostile in modo plateale. L’arcivescovo di Genova, il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), invia a Moro lettere pesanti e ultimatum raggelanti. Si rischia il corto circuito tra Chiesa cattolica e Democrazia Cristiana. Provvede Giovanni XXIII (1881-1963) a disinnescare la miccia. Anche il neocancelliere tedesco Ludwig Erhard (1897-1977), artefice del miracolo economico teutonico, non va per il sottile. Alla vigilia dell’accordo di governo con i socialisti in Italia, Erhard chiama Moro e gli sottopone una proposta indecente: la rinuncia al centrosinistra in cambio di un grande programma di industrializzazione del Sud Italia finanziato dalla Germania. Moro ascolta quel do ut des osceno e scambista, e replica senza esitazioni: «Caro Cancelliere, non abbiamo ancora rinunciato ad essere italiani». Sta tutta qui, in questa frase, la cifra dell’uomo ucciso dalle Brigate Rosse. Solo dalle Brigate Rosse? Le conclusioni delle indagini promosse dall’ultima commissione Moro, sollevano dubbi inquietanti e aprono scenari agghiaccianti. Emerge un puzzle di colpe e responsabilità che pure un giallista del calibro di John Le Carrè avrebbe difficoltà a mettere assieme. Non a caso i primi a intuire la complessità del delitto Moro sono i letterati, i romanzieri, più che gli investigatori e gli inquirenti. Lo scrittore Alberto Moravia (1907-1990), riecheggiando Pier Paolo Pasolini (1922-1975), scrive nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere: «Lui doveva morire». Elias Canetti (1905-1994), in seguito citato spesso da Leonardo Sciascia (1921-1989), aggiunge sentenzioso: «Qualcuno doveva morire al momento giusto». La verità è che Moro non è difeso da nessuno, o quasi, nelle sue sfide impossibili. L’ondata di gelo nei suoi confronti proviene da lontano. La sinistra-sinistra lo scambia per un incantatore di serpenti e, come tale, lo ritiene più insidioso di un cacciatore acclarato. La destra vede in lui il cavallo di Troia del comunismo, come se Moro non avesse scritto mai nulla sull’incompatibilità tra filosofia collettivistica e pensiero cristiano. I riformisti lo giudicano un conservatore o, nell’accezione più velenosa, il più grande anestesista del secolo. I conservatori lo descrivono arrendevole e troppo incline al compromesso. L’America diffida di lui. L’Unione Sovietica lo segue con sospetto. La verità è che Moro è Moro. Uno che guida i processi politici, anziché subirli. Uno che guarda all’interesse del Paese, anziché ai calcoli del retrobottega. Uno che, nonostante la flemma mediatica, possiede una determinazione che tutt’al più sconfina nella pazienza (e viceversa). Ma di sicuro non è un pavido. Per informazioni rivolgersi ai protagonisti e agli studiosi dell’esperienza di governo tra Dc e Psi: vi racconteranno di un Moro tutt’altro che pieghevole. Agli alleati socialisti Amintore Fanfani (1908-1999) concede molto di più. Il Moro più autentico è il Moro studioso, è il Moro delle Lezioni di filosofia del Diritto. Quello è il Moro stratega. Il Moro politico è il Moro realista, che tiene conto della realtà così com’è e non di come si vorrebbe che fosse. Ma il Moro empirista tende sempre ad avvicinarsi, con le dovute accortezze, al Moro teorico. Moro non è un criptobolscevico, né è un agente segreto al servizio della Casa Bianca o di Sua Maestà Britannica. Moro apre al Pci perché ritiene che in un momento così drammatico, per il Paese, in piena bagarre terroristica e con l’inflazione a due cifre, non ci si può consentire il lusso di una spaccatura lacerante del tessuto sociale. Il suo traguardo, l’obiettivo di Moro, è la democrazia dell’alternanza, non la democrazia dell’inciucio. La Grande Coalizione è l’eccezione, non la regola, in una democrazia. Ma la Grande Coalizione non va confusa con la cultura della resa. E poi, il compromesso è nel Dna di ogni democrazia. Nessuna democrazia può vivere senza compromessi. Purtroppo, la coincidentia oppositorum, che in questo caso non sarebbe Dio, secondo la concezione filosofica del neoplatonico Nicola Cusano (1401-1464), bensì la convergenza fra gli interessi ostili, ha fatto in modo che la potenza militare delle Brigate Rosse prendesse di mira il più indifeso, il meno colpevole di tutti (Leonardo Sciascia), fra i capi della Prima Repubblica. Marco Damilano, nel giro - leggete il suo bel libro Un atomo di verità - tra i luoghi di Moro, dimostra che la politica-politica, in Italia, è morta con la fine dello statista di Maglie. Difficile dargli torto. Soprattutto oggi che all’Italia sempre più ingovernabile manca una guida, un faro come Aldo Moro, che sta al Belpaese come Virgilio sta a Dante Alighieri (1265-1321) nel viaggio attraverso due (Inferno e Purgatorio) dei tre regni dell’Oltretomba.
Caso Moro e il “Processo alla DC”: il “motivo” (di molti) di una strage (di pochi). Il “Processo alla DC” e la “Fermezza”: la “confusione delle lingue” fu radice dell’antidemocrazia, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri il 15 Marzo 2018 su "La Voce di New York". Il "Processo alla DC" avviato con via Fani può essere considerato il "motivo" di quella strage. Non a caso, proprio la parola "processo" fu evocata, da Moro, nel suo discorso in difesa del ministro Luigi Gui, quando censurò chiunque volesse fare un processo politico e morale "nelle piazze". Poi, quel processo andò in scena in via Fani, e nel modo più efferato. Ci sono molti modi di guardare, oggi, al “Processo alla DC”, voluto dalle Brigate Rosse. Avviato con la Strage di Via Fani, il sequestro di Aldo Moro, e di cui, in questi giorni, ricorre il quarantennale. A parte certa superstizione pseudostoriografica, inappagata evocatrice di “verità nascoste”, il modo più diffuso, e più longevo, è stato quello che potremmo chiamare della “alterità”. L’unico capace di serissime propagazioni: noi, gli italiani, una cosa; loro, i brigatisti, un’altra. E tuttavia, Sciascia, già in quei giorni, aveva ammonito: “E diciamola francamente: non fosse stato per quei cinque morti, per quei cinque che “si guadagnavano il pane”, facendo scorta all’onorevole Moro, l’opinione sarebbe stata univoca: ma per tutt’altro verso. E’ terribile, lo so: ma va detto. Per capire” (Lettera di Sciascia a Luigi Compagnone, su La Stampa, marzo 1978). Ogni azione, anche la più efferata e, anzi, proprio la più efferata, dunque, ha un motivo. E il motivo, ciò che muove, essendo sentimento del reale, può accomunare: talvolta, più di quanto piaccia ammettere. Come si presenta un motivo, come riconoscerlo? Dalle parole in cui si incarna. Strage e sequestro, furono l’azione; “Il Processo”, il motivo. L’una, di pochi, l’altro, di molti. Di quanti? Di molti. Di moltissimi. Le parola “Processo”, come “motivo”, anche delle BR, sembra quasi vaticinata dallo stesso Moro: in un famoso discorso parlamentare: non a caso, diffusamente rievocato proprio in relazione ai “55 giorni”. Fu il discorso tenuto in difesa del ministro Luigi Gui, per la vicenda Lockeed, nel marzo 1977. Si era levato contro “chiunque voglia fare un processo morale e politico…nelle piazze. Parlando, e solennemente, in nome di una radice umana, personale: “Intorno al rifiuto dell’accusa che, in noi, tutti e tutto sia da condannare, noi facciamo quadrato davvero”. E aggiungendo: “Quello che non accettiamo è che la nostra esperienza complessiva sia bollata con marchio d’infamia”. Ma se ne era registrata una resa unicamente partitica, di consorteria potente, che rivendica di essere al di sopra della legge: “E’ un discorso di estrema arroganza”, scrisse Camilla Cederna: sciorinando una moltitudinaria e presuntuosa sciatteria di giornata, sul volto di un uomo che interpretava una profonda complessità storico-politica (“Giovanni Leone”, Feltrinelli: curiosamente, questo volume, scritto ovviamente in precedenza, andò in libreria negli stessi giorni di Via Fani). E’ noto che quella massificata parola-motivo, “Processo alla DC”, era stata pure avallata da una complessa anima di artista e di letterato, che l’assunse anzi, tre anni prima, come Opera propria: Pasolini. Un’ingombrantissima continuità, questa: fra “Il Processo” di Pasolini, che anche Sciascia aveva voluto fosse suo, e quello delle B.R. Per attenuare, per spiegare il conflitto di coscienza, il proprio e quello collettivo, sorto il 16 marzo (aveva già detto, a Le Nouvelle Observateur, nel Giugno 1978: “la sua morte ci mette tutti sotto accusa”), Sciascia, proprio in apertura del suo “L’affaire Moro” (finito di scrivere nell’Agosto 1978), richiama ancora una locuzione di Pasolini: “il meno implicato”. Moro, il “meno implicato” con quella che venne detta “la stagione delle stragi”. Con gli “altri” D.C. Eppure, ugualmente ritenuto (come da molti italiani) in una “enigmatica correlazione” con costoro. Quale, l’enigma? Proprio la radice umana: quella che nei momenti “estremi”, prevale su ogni altro profilo. A quella radice Moro si era richiamato in difesa di Gui. Alla stessa radice si aggrapperà durante il suo rapimento. Ciò che, ai suoi occhi, rende “estremo” il momento è la pretesa, in Parlamento come nella Prigione del Popolo, di essere eliminati, in quanto uomini che agiscono politicamente: e dunque, per Moro, in quanto “cristiani”. Non un enigma, allora, stringe Moro alla D.C., ma il suo essere cristiano: nella famiglia e nella dimensione personalistica. E che sempre in lui prevalse sull’astratta istituzione, sull’astratta legalità, come esplicitamente scrive a Cossiga il 29 Marzo, dalla “Prigione del Popolo”. Qualche anno dopo, Micromega e affini, perpetuando la “sintonia con gli umori del popolo” già espressa da Cederna, tradurranno quella dimensione personalistica con “familismo amorale”. Durante il sequestro, ad un certo punto, Moro definisce il suo annunciato eccidio “strage di Stato”. Con la “Fermezza”, scrive alla moglie, “si avalla il peggior rigore comunista, ed al servizio dell’unicità del comunismo. E’ incredibile a quale punto sia giunta la confusione delle lingue”. “La linea della fermezza” è ideata dal P.C.I.: “il nuovo inquilino del potere”, secondo un’altra feconda immagine di Pasolini (riferita a Berlinguer e meno ricordata di quella sul “Processo”, o del suo “Io so”) che, in questo modo, inventa uno Stato: ma è un’invenzione sterilizzante. Questo Nuovo Stato, questa nuova-vecchia idea, si insinua nella D.C., snaturandola, e rendendola colpevole del suo stesso snaturamento: la “confusione delle lingue”, che abbandona la difesa della vita umana in favore dell’astrattezza legalistica. La Ragion di questo Stato, sorta nella impietosa durezza, diverrà “statolatria”. E stabile ragione del nuovo Potere: il Potere inquisitorio. Il potere inquisitorio, però, una volta istituito, è insaziabile. Sciascia coglie le inquietudini suscitate dalla “fermezza”: sebbene sparute, in ogni tempo. E avverte che, opporre violenza di Stato a violenza contro lo Stato, è una strada senza sbocco: si può fare, ma solo “fino a quando, come rimedio, come salvezza, e salutata come salvezza da un popolo stanco e nauseato, non interverrà la fine della libertà” (La Sicilia, Agosto 1978). E’ la sua ragionata prefigurazione di Tangentopoli, e dei suoi inevitabili frutti politici di massa. Il seguito, lo vedremo.
Sequestro Moro: tutte le fake news del “Memoriale” di Morucci, il brigatista elegante poi al soldo dei servizi. Per molti anni è stata la verità ufficiale, ma oggi sappiamo che su diversi punti il documento firmato dall'ex responsabile logistico del gruppo armato confondono le acque: sul covo-prigione, sui componenti del commando, sulle auto impiegate. Negli anni successivi, i rapporti con il Sisde. Sullo sfondo, una trattativa parallela e oscura, scrive Stefania Limiti il 16 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Valerio Morucci si presentò al suo primo incontro con i capi brigatisti, in viale Zara a Milano, a bordo di una Mini Cooper gialla con tetto nero e una ragazza bionda. Era molto elegante: giacca blu con bottoni d’oro, camicia di seta, cravatta, occhiali Ray-Ban. Chiese di entrare nelle Br, ma l’incontro non andò bene perché “sembrava un fascistello sanbabilino”, ha poi scritto Alberto Franceschini che, insieme a Mario Moretti, era arrivato su una Fiat 850 grigio sbiadito e un enorme portabagagli sul tetto. Le cose andarono come è noto: Morucci divenne responsabile logistico delle Brigate rosse e uno degli uomini-chiave dell’operazione Moro che lo ha rivelato alle cronache come il brigatista della mediazione, il “buono” che vuole salvare l’ostaggio, contro il duro e spietato Moretti. La faccenda è un po’ più complessa dello schema che si è impresso nell’immaginario collettivo. Del resto, tutto il caso Moro è diventato un luogo simbolico dove gli eventi sono più rappresentati che raccontati nella loro essenzialità – anche il figlio di Moro, Giovanni, in genere schivo, dice a Ezio Mauro che “la questione non è affatto chiusa, non amo le spy story, ma è ammissione comune che ci siano zone d’ombra, questioni non chiarite, contraddizioni e spiegazioni non ragionevoli”. Perciò la ricerca storico-giudiziaria non è affatto chiusa e due inchieste sono in corso alla Procura di Roma e alla Procura generale. Dopo 40 anni, in effetti, siamo qui a ripercorrere gli eventi, ma ciò che è stampato nelle nostre menti è in gran parte una sceneggiatura, non la verità. Il regista dell’opera di aggiustamento del racconto è stato, nel fronte brigatista, proprio lui, Valerio Morucci che ha sbattuto sul tavolo della grande mediazione il suo Memoriale: 285 pagine – di cui solo 110 dedicate ai particolari del caso Moro – nelle quali l’informazione che convince di più, forse, è il costo complessivo a carico delle Br di tutta l’operazione: 700mila lire, un dato che appare sottolineare il minimalismo e l’approccio militante della sua preparazione. Il Memoriale sembra risolvere il quesito principe, quello della prigione di Moro: in realtà, il brigatista ammette di essere all’oscuro della questione perché non ha mai saputo nulla in modo diretto, per via della rigida compartimentazione, anche se impone la cancellazione di alternative: “Escludo in modo assoluto che Moro sia stato tenuto prigioniero in via Gradoli o nella base di Velletri… o fosse stato portato in luogo coperto da immunità diplomatica o in qualche sede di partito o in qualsiasi altro luogo che fosse estraneo all’organizzazione”. O sa o non sa, in ogni caso la sua versione sulla prigione di via Montalcini diventa verità processuale e poi, diremmo, luogo comune. Sul numero dei partecipanti alla strage di via Fani Morucci nel 1984, data d’inizio della lunga stesura del testo, sostiene che il commando era composto da nove persone, ma nel 1997 ne aggiungerà una decima, Rita Algranati, che prima «aveva dimenticato». Sostiene poi che il commando sparò solo da sinistra, mentre sappiamo, perché ce lo conferma la perizia richiesta dal presidente del processo Moro-quater, che diversi colpi partirono anche dal lato destro della strada. Il particolare è cruciale ma la questione si chiude lì. Morucci descrive poi il percorso fatto dalle auto del commando da via Fani in poi: non dice che fine fanno la Dyane guidata da lui con a bordo Bruno Seghetti e l’autofurgone 850 sul quale viene fatto salire Moro in Piazza Madonna del Cenacolo, dove avviene il primo trasbordo dell’ostaggio. Tutte le altre auto della fuga, dice, vengono riportate e abbandonate in una stessa strada, via Licinio Calvo: che bisogno c’era di riportarle tutte lì? Come se l’assassino tornasse sul luogo del delitto. In realtà, oggi, grazie al lavoro della Commissione Moro 2, è anche noto che le auto della fuga vennero ritrovate a distanza di giorni l’una dalle altre ed è stato anche accertato che la 132 sulla quale venne fatto salire Moro in via Fani fu ritrovata tra le 9,15 3 le 9,23: non è possibile che quell’auto abbia portato l’ostaggio fino a Piazza Madonna del Cenacolo. Sostiene sempre Morucci che il furgone con l’ostaggio va poi verso il parcheggio della Standa di Viale Portuense. Qui il racconto non si incrocia mai con quello degli altri: Moretti dice che alla Standa c’erano Laura Braghetti e Prospero Gallinari; Morucci dice che quest’ultimo si era subito allontanato da via Fani per recarsi verso la prigione; il guazzabuglio assume i contorni di un imbroglio se si considera che Braghetti comincia il suo libro proprio dicendo di essere rimasta a casa ad aspettare il ritorno dei suoi compagni e dell’ostaggio. Insomma, il Memoriale, che ha avuto il ‘visto’ del libro intervista di Mario Moretti, è approssimativo e arrangiato, natura descritta in una indimenticabile risposta che Morucci diede alla domanda dell’onorevole Luciano Violante nel 1983, durante una audizione della prima Commissione Moro: “Nella strage di via Fani sono stati impegnati più di dodici brigatisti?”. “Secondo me sì, ma non eccessivamente di più”. Oggi sono stabiliti (Terza Relazione Commissione Moro 2) “l’incongruenza delle ricostruzioni di Morucci su punti non secondari” e il dato che diversi soggetti parteciparono alla costruzione della verità giudiziaria offerta da quel testo: al tavolo c’erano il Sisde, il servizio segreto civile, uomini politici e delle istituzioni, in particolare Remigio Cavedon, personaggio autorevole della Dc, vicedirettore de Il Popolo, e i buoni servigi di una suora tuttofare, Teresilla, un po’ spia e un po’ religiosa, molto legata a Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro. Morucci più che testimone ha una più ampia e opaca funzione di consulente di una trattativa che venne sempre nascosta all’opinione pubblica. Il brigatista “buono”, che aveva nel portafogli l’indirizzo e il telefono dell’Università Pro Deo diretta dal religioso nonché agente della Cia padre Felix Morlion, dialoga con i Servizi segreti, fornisce loro note critiche su diverse questioni e si pone come punto di riferimento della politica carceraria. Tra il 1986 e il 1987 il rapporto Morucci/Sisde è “continuativo” e il suo parziale disconoscimento della paternità del Memoriale – ha detto di ricordare di averne scritto una parte – appare in effetti verosimile perché le caratteristiche formali e compositive del testo fanno scrivere alla Commissione Moro 2 che si tratta di “un elaborato interno agli apparati di sicurezza”. Il Memoriale ha stabilito la purezza rivoluzionaria dell’azione di via Fani e la responsabilità unica del gruppo brigatista. Perché la Democrazia cristiana si è seduta al tavolo della trattativa? Perché doveva autoassolversi dall’accusa più grave: non aver salvato l’uomo che rappresentava la sua storia e, in quel momento, il suo futuro. La stabilizzazione di una verità parziale è stata funzionale alla chiusura di una stagione. Operazione riuscita fino a oggi ma a caro prezzo: quello di sacrificare la piena comprensione del caso Moro e la consapevolezza delle forze che hanno interferito durante i 55 giorni, determinandone il loro esito tragico.
“Aldo Moro, i terroristi parte di un gioco più grande di loro”. Così le potenze Nato volevano sbarazzarsene. Prima delle Br. Nel libro di Giovanni Fasanella, "Il Puzzle Moro", l'analisi di documenti inglesi e americano oggi desecretati. Raccontano che non erano le Brigate rosse le sole nemiche del presidente della Dc sequestrato il 16 marzo 1978 e ucciso 55 giorni dopo. Usa, Uk, Francia e Germania erano preoccupate dal rischio di un Pci al governo e dalla sua apertura verso il mondo arabo. Nei vertici al massimo livello l'ipotesi di intervenire anche con "metodi per noi ripugnanti", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 16 marzo 2018. Non è questione di dietrologia e complotti. Sono i documenti a parlare. E i documenti mostrano che non erano solo le Brigate rosse a vedere in Aldo Moro un nemico. E’ il filo conduttore del libro di Giovanni Fasanella Il puzzle Moro (Chiarelettere, 368 pagine, 17,60 euro), basato su testimonianze e documenti inglesi e americani oggi desecretati. Negli anni Sessanta e Settanta Londra, Washington, Parigi e Berlino temono innanzitutto che in Italia il Partito comunista italiano più forte d’Europa possa andare al potere, sia pur legittimamente attraverso il voto, sconfiggendo una Dc minata da scandali e clientele. E neppure gradiscono le aperture del nostro Paese verso il mondo arabo, Libia e Palestina incluse. Moro era il volto che meglio incarnava questi pericoli, come dimostra il brano tratto dal libro che pubblichiamo di seguito per gentile concessione di Chiarelettere. Questo non significa che le potenze straniere siano state partecipi del sequestro e dell’assassinio del presidente della Democrazia cristiana, avvenuti quarant’anni fa a Roma. Ma, scrive Fasanella, i brigatisti sono rimasti ancora oggi “convinti di essere stati il motore esclusivo di avvenimenti che sono invece più grandi di loro”, pur non ammettere il loro ruolo da “utili idioti”. Lasciati fare, in quei 55 giorni, in nome di altri interessi. E se l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta ha concluso che quella accumulata finora dai processi è solo “la verità dicibile”, i documenti desecretati illuminano quella indicibile: “Ciò che non si poteva dire”, scrive ancora l’autore, “era che l’assassinio di Moro fu un vero e proprio atto di guerra contro l’Italia anche da parte di Stati amici e alleati, un attacco alla sovranità di una nazione e alle sue libertà politiche portato da interessi stranieri con la complicità di quinte colonne interne”. Ecco un estratto dal libro. Il «direttorio politico» dei «Quattro», nato su iniziativa americana per decidere che fare per risolvere una volta per tutte il caso italiano, si riunì la prima volta a Helsinki il 31 luglio 1975. Subito dopo le elezioni amministrative che, in giugno, avevano decretato un clamoroso successo del Pci e una secca sconfitta della Dc, travolta da scandali a ripetizione. Nella capitale finlandese era in corso la conferenza sulla sicurezza europea. E in quell’occasione, i rappresentanti di Usa, Gran Bretagna, Francia e Germania approfittarono di una pausa per appartarsi e discutere lontani da occhi indiscreti. Si videro a pranzo nella sede dell’ambasciata inglese. Ma senza alcun risultato utile. Tutti erano d’accordo sui rischi che avrebbe corso l’Alleanza atlantica nel caso in cui il Pci si fosse avvicinato al governo. Tutti pensavano che si dovesse fare qualcosa. Ma quando cominciarono a esaminare le varie opzioni, la discussione si arenò. Prevalse un atteggiamento di prudenza fra gli europei, ancora molto «sensibili riguardo alla macchia di un’ingerenza così vicino a casa», come emerge dai documenti americani pubblicati dalla storica Lucrezia Cominelli. Così, l’unica decisione presa fu quella di tornare a incontrarsi un paio di mesi dopo, a New York. L’appuntamento negli Usa fu fissato per il 5 settembre 1975. E anche quella volta i «Quattro» si videro nella sede diplomatica britannica. C’erano, oltre a Kissinger, i ministri degli Esteri inglese, James Callaghan, francese, Jean Sauvagnargues, e tedesco, Hans-Dietrich Genscher. In quel secondo incontro, le rispettive posizioni cominciarono a delinearsi con più chiarezza. Il padrone di casa, Callaghan, prospettò un quadro drammatico della situazione. L’intera Europa meridionale rischiava di finire sotto l’influenza comunista, disse. Ma non per colpa dell’Urss, che «non sembra avere tutta questa fretta di aggiudicarsi altri costosi clienti», si affrettò a precisare. Anzi, secondo lui il Cremlino avrebbe accettato «una dottrina Brežnev rovesciata», in base alla quale l’Alleanza atlantica era autorizzata a intervenire con la mano pesante in un paese a rischio del proprio campo; così come il Patto di Varsavia aveva fatto in Cecoslovacchia in base al principio della «sovranità limitata» teorizzato da Leonid Brežnev per i satelliti dell’Urss. In ogni caso, per il ministro degli Esteri inglese, era necessario escogitare qualcosa che fosse «a metà strada fra metodi per noi ripugnanti e la necessità di scoraggiare l’influenza sovietica». Insomma, anche se dal Cremlino non arrivavano incoraggiamenti al Pci, un intervento era comunque necessario per frenare eventuali, future tentazioni. Per Callaghan la situazione italiana era tale da non giustificare ulteriori esitazioni. Durante l’estate aveva incontrato Rumor (trasferitosi alla Farnesina dopo che Moro ne aveva preso il posto a Palazzo Chigi) e dal colloquio ne era uscito con l’impressione che non ci fosse niente, fra i metodi democratici, che potesse «fermare la presa del potere da parte dei comunisti». E allora, come impedirlo? Il ministro britannico non si sbilanciò. Probabilmente voleva che fossero gli altri a scoprirsi, per capire fino a che punto fossero disposti a spingersi. Sul tavolo, una delle opzioni per bloccare l’avanzata comunista era costringere la Dc a rinnovare la propria classe dirigente, troppo chiacchierata per la sua disinvolta gestione del potere. Ma Kissinger non nutriva molte speranze in proposito: «Mi sento bloccato, non ho alcuna idea brillante per riformare la Dc» disse. «Ci vorrebbe un partito che spazzasse via tutta la spazzatura» commentò Callaghan con un moto di sconforto. Una radicale riforma morale della Democrazia cristiana, ai «Quattro» doveva sembrare un’impresa davvero titanica, che richiedeva troppo tempo. Ma il tempo a disposizione si stava paurosamente consumando. E quell’opzione, benché auspicabile, non era certo la più efficace per una situazione che si era trasformata ormai in un’emergenza internazionale. (…) L’ultima delle tre riunioni, quella del gennaio 1976, si tenne nel quartier generale della Nato, a Bruxelles. C’erano tutti i ministri degli Esteri, tranne il tedesco Genscher, che questa volta inviò a rappresentarlo un funzionario, Günther van Well. Il clima era ancora più cupo. Il Psi di Francesco De Martino, con una mossa a sorpresa, aveva appena provocato la crisi di governo, e Moro si era dimesso. La decisione socialista, in effetti, aveva complicato ancora di più le cose. De Martino si sentiva schiacciato nella morsa del dialogo a distanza tra Moro e Berlinguer. Non era più disposto ad accettare che, a sinistra, fosse solo il suo partito a pagare il prezzo elettorale per una politica economica di sacrifici. La rabbia dei ceti più deboli si stava scaricando sul Psi che, pur non avendo propri ministri nel governo Moro, lo aveva comunque appoggiato dall’esterno. Insomma, De Martino non intendeva più dissanguarsi a vantaggio del Pci, che continuava a guadagnare consensi nell’opinione pubblica. Perciò fece sapere che non avrebbe più fatto parte di una maggioranza se anche i comunisti non si fossero assunti delle responsabilità dirette. La sua decisione gettò tutti nel panico. E fu giudicata intempestiva anche da Berlinguer. Il quale, ben conscio dei condizionamenti internazionali e dei rischi che correva l’Italia, aveva tarato la sua strategia su tempi molto più lunghi, quindi non fremeva certo dal desiderio di vedere i comunisti nel governo. Né Moro, d’altra parte, ce li voleva. Ma De Martino era irremovibile. E l’Italia stava andando a passi veloci verso elezioni anticipate. Al tavolo dei «Quattro», a Bruxelles, ora si stava materializzando lo scenario più drammatico che potessero immaginare: quello di una disfatta della Dc e, per la prima volta nella storia repubblicana, il sorpasso comunista, pronosticato ormai da tutti gli osservatori. Se il Pci fosse diventato il primo partito italiano, sarebbe stato impossibile escluderlo dal governo senza ricorrere a una soluzione alla cilena. Di qui il senso di impotenza e di frustrazione, come riferisce Lucrezia Cominelli. (…) A Kissinger non interessava quanto Berlinguer fosse autonomo da Mosca, ma soltanto il grado di pericolosità della sua politica per Usa e Urss. Quanto agli inglesi, la preoccupazione principale, molto ben mimetizzata dietro la loro continua, sistematica esasperazione della minaccia comunista, era che la scena politica italiana continuasse a essere dominata dalla figura di Aldo Moro. E lo fecero capire ancora più chiaramente alla vigilia delle elezioni italiane. I «Quattro» stavano valutando la possibilità di un nuovo vertice segreto. Prevaleva l’idea di tenerlo subito dopo il voto. Ma per Callaghan sarebbe stato troppo tardi. Disse al cancelliere tedesco Schmidt: «Se vogliamo cercare di avere una qualche influenza dovremmo farlo prima. In caso contrario avremmo il vecchio Moro seduto e mezzo addormentato per tutto il tempo come un primo ministro con la spina dorsale spezzata e i comunisti che hanno ottenuto un grande successo». Ecco perché, fra i «Quattro», la Gran Bretagna spingeva con più forza. Voleva che gli alleati l’aiutassero a sbarazzarsi di Moro. (da Il Puzzle Moro, di Giovanni Fasanella, Chiarelettere)
Aldo Moro e le Brigate Rosse, la verità 40 anni dopo. Cosa diceva Cossiga: "La colpa di tutto fu di Berlinguer e Pci", scrive il 16 Marzo 2018 Renato Farina su "Libero Quotidiano". Quaranta anni fa, come oggi, veniva sequestrato Aldo Moro e sterminata la sua scorta in via Mario Fani a Roma. Da quel giorno del 1978, quando si evocano questi fatti, inevitabile ecco sentir pronunciare il nome di Francesco Cossiga. Di solito per associarlo a dei sospetti. L'ultimo a farlo, in ordine di tempo, è stato Giovanni Moro, figlio minore dello statista. In una intervista a Repubblica rilancia l'accusa: «Perché lo Stato non fece nulla per salvarlo?... Andreotti era il capo del governo, il responsabile politico ... E Cossiga? In qualsiasi paese, un ministro dell'Interno a cui fosse capitata una disgrazia del genere, sarebbe finito a coltivare rose... lui invece divenne due volte presidente del Consiglio e una volta capo dello Stato». Ho potuto ascoltare (e registrare) per ore - nel luglio del 2008 - il presidente emerito della Repubblica esprimersi su quelle vicende e sul peso che si è portato dietro. Era amico intimo dello statista poi assassinato il 9 maggio. Ho trascritto le parti essenziali della sua testimonianza nel libro Cossiga mi ha detto (Marsilio). Una cosa mi colpisce. La domanda che allora si pose con me Cossiga, ed era la prima volta, a proposito delle ripetute accuse contro di lui e Andreotti dei Moro, è stata: «Perché hanno sempre accusato noi due, e mai Enrico Berlinguer ed il Pci, che in nessun modo si adoperarono per salvare Aldo?». Qui, credo possa essere utile trascrivere alcune pagine da quelle "confessioni", certificate da registrazioni già messe a disposizione della magistratura.
Dice Cossiga: "Lo scorso 4 luglio 2008, la festa dell'Indipendenza, mentre all'ambasciata americana partecipavo al ricevimento, era verso sera, una ragazza mi si avvicina. «Senatore Cossiga». Non sapevo chi fosse, non la conoscevo, forse un tratto del volto però, qualcosa di familiare e amico «Sono la nipote di Aldo ed Eleonora Moro, sono la figlia di Agnese». Se ne andò subito via. Mi ricordo qualcosa, un sorriso, non so, devo averle dato la mano, non ricordo bene. Dopo trent' anni dalla morte di Aldo Moro è la prima volta che qualcuno della sua famiglia si rivolge a me parlandomi, chiamandomi per nome. L' ho sentito come una carezza dall' aldilà. Forse Aldo comincia a capirmi. Io ero e sono diverso da lui. Molto più piccolo di lui. Profetizzò che per molto tempo avrei patito di quella mia scelta. Ha ragione, e ne soffro ancora, è la mia croce. Ma ho imparato a distinguere tra rimorso psicologico e rimorso morale. Quello morale non l'ho. () La coscienza mi ha imposto quelle scelte. E io le ritengo tuttora giuste. Lui vede, sa. Avevamo una diversa concezione dello Stato. Per me era essenziale, per lui alla fine lo Stato non esisteva. Esistono gli uomini, lo Stato no".
LE LETTERE. Le sue lettere - l'ho capito dopo - sono oneste e coraggiose, non ha cambiato idea per salvarsi la vita. Rispecchiano perfettamente la sua concezione della Democrazia cristiana. Non è mai stato liberale, Aldo Moro. Lo ricordo da vivo. Non mi ha abbracciato in alcuna occasione per tutto il tempo in cui sono stato a lui vicino. Andreotti una volta, per sbaglio, lo fece. Aldo Moro mai. Eppure mi ha voluto bene. Per questo so che mai ha pensato a un mio calcolo, a una cattiveria. Ha addebitato tutto a una mia concezione dello Stato che lui riteneva sbagliata e che mi avrebbe certo fatto correggere solo se avesse potuto parlarmi a quattr' occhi. Non ha pensato mai un istante che fossi sleale o gli mancassi d' affetto, ma attribuì la mia scelta alla fragilità. A qualcosa che non c' entrava né con la ragione né con i sentimenti, bensì con il mio essere prigioniero di Andreotti, ma soprattutto di Berlinguer. Mi fermo un attimo e lo vedo. È prigioniero, in condizioni di cattività. Ha davanti a sé sin dal primo momento la prospettiva dell'ultima ora per mano violenta. Eppure egli ha una tale indipendenza di coscienza, come uno Spartaco che ha le catene ai piedi ma la testa libera, da vedere in me un povero suo figlio traviato non moralmente ma da un altro tipo di prigionia, più sottile e più forte.
IL WHISKY. Ci chiamavamo per nome, mi faceva sedere e mi offriva whisky. Uno dei ricordi che mi torna spesso alla mente è di lui nel suo studio privato di via Savoia a Roma. Io che entro, è tarda sera, mi siedo, e mi domanda: «Francesco cosa posso offrirti?». Rispondo: «Aldo, un dito di whisky». E lui costernato: «Francesco, mi spiace, non ce l'ho». Il giorno dopo senza che lo chiedessi mi porse contento il bicchiere. Mi raccontò poi il suo fido collaboratore Nicola Rana che la mattina stessa era arrivato con un involto di giornali, e c'era, avvoltolata dentro, la bottiglia. Svolse i fogli e disse: «Tenetela per Francesco, è per lui». Non credetti all' autenticità delle sue lettere, lui non credette all' autenticità delle mie disposizioni, non si capacitava potessi pensare in piena coscienza che le lettere non fossero davvero sue. Ora lui sa che le mie convinzioni erano autentiche e io che le sue lo furono altrettanto. Ci divideva proprio il giudizio sulle cose. La gerarchia delle cose importanti. ()
GLI ASSASSINI. Sono sempre stato considerato da tutti i Moro, per ogni istante di questi trent' anni dal 9 maggio 1978, come l'assassino del loro marito, padre, nonno. L'ho condannato a morte, è vero. L'ho fatto in piena coscienza. Le mie convinzioni, di me cattolico liberale, che crede nello Stato e nelle ragioni dello Stato per il bene comune, hanno prevalso. L'ho condannato a morte, insieme con Andreotti, Zaccagnini e Berlinguer. Io non sono l'assassino però! Lo furono le Brigate Rosse. Devo dirla questa banale verità. Ci si dimentica sempre di questo: che gli assassini sono i brigatisti. E che tra coloro che hanno deciso la condanna a morte c' è, e in una posizione decisiva, di intransigenza estrema, Enrico Berlinguer con il suo Partito comunista. Perché gli assassini di Moro, secondo i suoi familiari, siamo io, Zaccagnini e Andreotti? Perché essi non hanno mai detto una parola contro i comunisti? Hai mai sentito uno della famiglia Moro dire che la linea della fermezza era voluta innanzitutto da Berlinguer e dai suoi? La mia risposta è: perché i comunisti fanno ancora paura. Perché facciano ancora paura non me lo spiego. Oppure hanno questa magia per cui qualunque cosa facciano non sono giudicabili, quasi fossero superuomini. Nel suo ultimo libro, quel matto di Giovanni Moro indica queste persone come gli assassini del padre: Paolo VI, Andreotti, io e Zaccagnini. Ancora una volta Berlinguer lo lascia fuori. Nessuno della famiglia l' ha mai lontanamente indicato anche solo come appena appena responsabile. O i comunisti sanno su di loro cose per cui li minacciano oppure la realtà è metafisica e fanno paura in sé. Se non ci sono altri pasticci che non so, basterebbe leggessero in mia compagnia, una sera, quanto ha scritto di me Aldo. Nel verbale del processo cui è stato sottoposto dalle Br, Aldo mi dedica un capitolo. È la risposta a un interrogatorio. () «Di derivazione sarda e imparentato con Berlinguer, ha la sua base elettorale e psicologica in Sardegna, dove spesso vivono i familiari. Conosce naturalmente a Roma ai più alti livelli, ma non è, come Andreotti, un romano e non ne ha oltretutto la mentalità. Se dovessi esporre con una certa riservatezza il mio pensiero, direi che in questa vicenda mi è parso fuori di posto, come ipnotizzato. Da chi? Da Berlinguer o da Andreotti? Se posso avanzare una ipotesi, era ipnotizzato da Berlinguer piuttosto che da Andreotti con il quale lega a prezzo di qualche difficoltà ()».
LO SCAMBIO. Supponeva fossi plagiato, di più, "ipnotizzato" da Enrico Berlinguer. Me lo lasciò intendere anche in una lettera scrittami tra il 5 e l'8 aprile dal carcere delle Brigate Rosse. C' è questa frase: «Se mai potessi parlarti, ti spiegherei meglio e ti persuaderei. Ti chiedo di avere fiducia». Non l'ho avuta, questa fiducia in lui. In quel momento ero ancora convinto fosse non lui ma un altro a scrivere con la sua testa e le sue mani. Ma non mi avrebbe convinto egualmente. Quando ripenso a quella frase, aggiungo sempre «Francesco». E sento la sua voce. «Se mai potessi parlarti, Francesco». Ma non mi avrebbe convinto. Sullo scambio di prigionieri in quel momento no. Lo Stato si sarebbe liquefatto moralmente. Sarebbe finito il compromesso storico per mano delle Brigate Rosse, ottenendo così la loro massima vittoria. Renato Farina
Renato Farina. Cossiga mi ha detto. Il testamento politico di un protagonista della storia italiana del Novecento. Marsilio Editori, pagg.240, Euro 18,00. Da Archivio storico.
IL LIBRO – “Cossiga era il massimo esperto del globo sulle questioni relative all'intelligence e agli 007 di ogni Paese. Subito dopo l'11 settembre si mise in contatto con Feltri. Gli disse che Berlusconi stava per scegliere dei vertici del Sismi e del Sisde disastrosi. Occorreva forzare la mano. Era disposto Feltri a ospitare dei suoi testi? Feltri disse di sì e affidò a me l'opera di trasformare un meraviglioso enigmatico testo in qualcosa di masticabile per i lettori. Era d'accordo Cossiga? Di più: entusiasta. Lavorammo insieme, e uscì un articolo in cui Franco Mauri (lui!) fucilava come traditori gli altri candidati e promuoveva a pieni voti e con la garanzia di salvezza per l'Italia i generali Nicolò Pollari per il Sismi e Mario Mori per il Sisde. Cossiga mi invitò a brindare: la nostra accoppiata aveva vinto per il bene dell'Italia. Questa storia portò bene all'Italia, meno bene a me. Ma mi regalò un'amicizia cementata nella pugna (ironia, ma neanche tanto). Da allora ci sentimmo quasi tutti i giorni, scrivemmo insieme, registrammo materiale per un libro biografico traslocando a Lugano o in Toscana per settimane intere. Il libro è mio e le parole sono sue. Sono quelle che ho udito da lui, quelle delle carte da lui tirate fuori dai cassetti.” (Renato Farina)
DAL TESTO – “Io sono un cattolico liberale. Ma resto convinto che il latino è la lingua della Chiesa. Mi fa specie che il beato Pio IX, preparandosi a scappare a Gaeta, abbia avuto il tempo prima della fuga di confermare sette condanne a morte. Ma la Chiesa così un po' mi piacerebbe. Se si accendesse qualche rogo, si piazzasse di nuovo la ruota, si riaprissero le segrete del Vaticano, qualche cardinale progressista smembrato... “In piazza Duomo, smembrato, cioè prese, con corde e ganci, testa, braccia e gambe, davanti alla gente che tripudia e salmodia... e poi francescani e domenicani oranti e un gesuita che gli dice: «Ringrazia Iddio perché con questa morte ti salvi dai tuoi peccati». Coppie di cavalli, crac, per terra, in piazza Duomo, e le campane che suonano. Che goduria anche solo l'immaginarlo. A un pazzo sarà concessa questa licenza cattogiustizialista. O no? “Di questa intransigenza fino alle tenaglie contro gli eretici, so che non mi pentirò neanche in punto di morte. Mi consola Bruce Marshall. Racconta: prima di andare all'assalto nella Prima guerra mondiale, dove poi morirà, un ufficiale scavezzacollo va a confessarsi di tutte le donne avute. Crede che il pentimento consista nel rinnegare che ha avuto momenti piacevoli. Ma non può farlo, sarebbe una menzogna. Allora il prete gli chiede: «Figliuolo, ti penti di non pentirti?». «Certo.» «Allora io ti assolvo dai tuoi peccati» e muore. Ecco vorrei morire così.”
L’AUTORE – Renato Farina (Desio, 1954), giornalista, scrittore. Fra il 1987 e il 1999 riveste il ruolo di mediatore diplomatico informale di alto profilo in vari contesti geopolitici. Nel luglio del 2000 fonda con Vittorio Feltri il quotidiano «Libero» dalle cui pagine, nel 2001, collabora con Francesco Cossiga alla campagna che porterà il generale Nicolò Pollari alla guida dell'intelligence italiana. Accusato di favoreggiamento dei generali Pollari e Mancini per la vicenda del sequestro di Abu Omar, nel 2006 è radiato dall'Ordine dei giornalisti, e direttori come Feltri e Sallusti che hanno ospitato i suoi articoli sono stati inseguiti da provvedimenti di sospensione. Contro queste sentenze intende appellarsi alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Dal 2008, eletto nelle file del Pdl, è deputato e consigliere politico dei ministri Gelmini e Frattini.
INDICE DELL’OPERA - Premessa. La storia di un libro - Cossiga mi ha detto - Verrà la morte, e io la bacerò - Interludio I. A Lugano, parlando di sesso e pm - Foto di gruppo a Sassari con maestra e cuginetti - Interludio II. A Cortona Gatto Mammone colpisce ancora - Gli amori e la sposa perduta - Interludio III. A Roma, Telecom e altre spiate - Perché un bravo ragazzo come me prese in mano due bombe - Papi, latino e champagne - Francesco, ti sei confessato per l'omicidio di Moro? - Le valige delle stragi: palestinesi e americane - Confesso, sono il capo dei gladiatori - Falcone, Mani Pulite, Abu Omar. Tre storie parallele - Mescolanze e aforismi di politica e di cultura - Commiato di un pazzo in attesa di cielo – Cronologia - Indice dei nomi
Ecco la Mani Pulite che nessuno racconta: gli indagati di Di Pietro intercettati da tre anni. Renato Farina racconta in un libro: "Antonio Di Pietro ha ammesso di aver incastrato Chiesa con le intercettazioni. E su diversi blog hanno usato questa sua autodenuncia per sostenerne l’utilità. Ma non furono mai esibite in nessun processo, e se ci furono erano illegali", scrive Stefano Zurlo, Martedì 12/07/2011, su "Il Giornale". La prosa è sempre vivacissima, come nello stile che i lettori del Giornale conoscono bene. Renato Farina, per lunghi anni vicedirettore del quotidiano di via Negri e poi di Libero, torna indietro nel tempo, fino agli anni cruciali di Mani pulite e del Pool. E ci consegna aneddoti, giudizi, ritratti, episodi inediti sul confine scivoloso fra la politica e la giustizia. Ce n’è per tutti, anche perché Farina sfrutta una guida d’eccezione: lo scomparso presidente Francesco Cossiga. «Cossiga mi ha detto»: questo è il titolo del libro in uscita da Marsilio. Un testo è che è un rotolare di sorprese. E un susseguirsi di dettagli che lasciano a bocca aperta. Anche se non sempre Farina svela le sue fonti: «Qui rivelo un episodio inedito». E il giornalista, oggi deputato del Pdl, allunga il passo: «Durante un interrogatorio, per far vedere con chi aveva a che fare, Primo Greganti, il mitico Compagno G, picchiò Di Pietro». Possibile? Farina incalza: «Gli balzò addosso. Proprio come facevano alcuni impavidi partigiani con gli ufficiali della Gestapo. Quelli - è la chiusa ironica - però venivano fucilati. Greganti è, per sua fortuna, tornato fra noi». Non c’è il tempo per controllare la notizia: Farina è già oltre. E sparge dubbi sull’incipit della Rivoluzione giudiziaria. Domanda: chi diede a Di Pietro il combustibile per far girare la macchina degli arresti? «In realtà - è la risposta - quando presero con i soldi nel cesso il Mario Chiesa alla Baggina di Milano, febbraio ’92, erano già tre anni che lavoravano con le intercettazioni». Addirittura? Tre anni? «Antonio Di Pietro - prosegue Farina - ha ammesso di aver incastrato Chiesa con le intercettazioni. E su diversi blog hanno usato questa sua autodenuncia per sostenerne l’utilità. Ma non furono mai esibite in nessun processo, e se ci furono erano illegali. Mi domando: grazie a chi furono effettuate? C’entrano i servizi segreti deviati? O magari gli americani? I quali vedevano male sia Craxi sia Andreotti per le loro posizioni filoarabe e avevano anche dei riflessi di vendetta per Sigonella». Certi argomenti sono tabù. E restano, come dire, nel backstage delle grandi inchieste: Farina ha una scrittura partigiana e non ha paura di esporsi, di offrire il fianco alle critiche, di prendere posizioni eretiche, da iconoclasta. Del resto in un’altra vita, parallela a quella in redazione, Renato è stato l’agente Betulla e questa sua consuetudine con i Servizi segreti gli è costata cara. Molto cara. Un patteggiamento nell’inchiesta sul sequestro di Abu Omar e la radiazione dall’Ordine dei giornalisti, annullata solo pochi giorni fa dalla Cassazione. Lui spariglia, cita e dissacra appoggiandosi alle intuizioni e alle narrazioni di quel monumento nazionale chiamato Cossiga. Che il 7 gennaio 2004 gli scrive una letterina pepata a proposito di Francesco Saverio Borrelli: «Anni fa, l’allora procuratore Borrelli mi chiamò al mattino presto nella mia abitazione: più che chiedere mi intimò per telefono di smentire che egli - come in un’intervista avevo riferito - fosse socialista, dicendo anzi che era di famiglia monarchica... Avendo egli insistito, io allora gli dissi -come effettivamente feci - che avrei eseguito, ma non mi chiedesse di smentire in futuro quel che io sapevo con certezza e cognizione dei fatti e cioè che la sua nomina a Procuratore era avvenuta con l’opposizione della Dc e su pressione del Partito socialista, guidato da Bettino Craxi».
Farina, un libro bufala. L'ex agente Betulla, oggi parlamentare Pdl, ha appena sfornato un volume intitolato "Cossiga mi ha detto". Ma Cossiga non gli ha detto niente, avendo interrotto ogni rapporto con lui due anni prima di morire. E non voleva saperne più nulla. Colloquio con Pasquale Chessa di Malcom Pagani del 22 luglio 2011 su “L’Espresso". Francesco Cossiga "ha smesso di parlare alcuni mesi prima di decidere di smettere di vivere. Ma quando interruppe ogni rapporto con Renato Farina era lucido e stava ancora bene". In una casa di mezzo tra le oscurità di Regina Coeli e le luminose ombre dell'Accademia dei Lincei, in faccia a una piccola collezione di antichi libri sardi, Pasquale Chessa, giornalista, storico, biografo di Cossiga, riflette sulle ultime incredibili picconate postume. Tirate brutali, analisi perfide, giudizi pesanti su protagonisti dell'attualità e della politica, ricostruzioni insinuanti fatte scivolare in un volume intervista ("Cossiga mi ha detto") appena pubblicato da Marsilio. Lo firma, con tutto quel che ne consegue, Renato Farina. Dentro balla una narrazione che l'ex presidente non avrebbe voluto vedere pubblicata. Provò a bloccarla. Come raccontano le sue carte lasciate all'attenzione della famiglia e alla cura scientifica di Pasquale Chessa. "L'operazione di Farina è sospetta. Come mai non ha fatto uscire il libro, già pronto, con Cossiga ancora in vita?".
Perché Chessa?
"Sapeva che sarebbe scoppiato un inferno. Cossiga già nel 2008, quasi due anni prima dell'aggravarsi della sua salute, aveva spedito una lettera di rinuncia all'editore di Farina, all'epoca Piemme, restituendo i 12.500 euro dell'anticipo e diffidando dal mandare in stampa alcunché. Chiuse ogni contatto, da un giorno all'altro, come ferocemente gli capitava".
Farina fa coincidere il rifiuto di Cossiga con l'avanzare della malattia.
"Mente. Sapendolo. Profitta delle parole di un uomo che non può più smentirlo. Cossiga era capace di stabilire con i suoi intervistatori uno speciale rapporto di fiducia. Sapeva come forzare i toni e persino i fatti per fare notizia, ma sapeva anche di poter contare sulla loro complicità professionale, sul controllo del racconto, sull'esattezza di date e nomi e sul senso generale. Gli premeva fosse il suo. Ecco la falsificazione operata da Farina. Lasciando le parole di Cossiga nude e crude, ne altera il senso. Spostando in avanti le date suggerisce che fu la malattia a impedire la revisione del testo. Non è così. Fu una scelta ragionata e consapevole".
Farina si arrese?
"Insistette con la famiglia. Con garbo, Giuseppe Cossiga, il figlio, ricostruisce i tempi confermando la scelta del padre. Non pubblicare il libro. Ma Farina avanza, nonostante dai documenti e dalla lettera emerga come il presidente "avesse deciso di ritirare ogni suo contributo di appoggio al progetto"".
Cossiga lasciò Farina al suo destino.
"Mi parve il segno che, da qualche parte, il fango fosse tracimato. Farina potrà anche esibire stralci di conversazione, ma non c'è bisogno di scomodare gli psicanalisti per sapere che le parole non sempre rispondono alla verità".
Farina e Cossiga si conoscevano. Quando si rafforzò il rapporto?
"Il contatto ravvicinato fu stabilito quando Cossiga, sotto pseudonimo, iniziò a scrivere per "Libero" su richiesta di Feltri. La vanità del potere lo portava a fidarsi. Era curioso e possedeva un'innata capacità di mimesi. Colpiva la competenza culturale con cui maneggiava materie così diverse tra loro. Se incontrava un musulmano si faceva imam, se discuteva con un prete diventava teologo, se si trovava di fronte a una spia, si trasformava nel capo delle spie".
E Farina lo era a tutti gli effetti?
"Me lo disse lui stesso, all'hotel Senato di Milano, in coincidenza con la scoperta dei media del suo doppio ruolo. Giornalista e agente Betulla. È la tesi che sostiene nel libro: "Sono entrato nei servizi su ordine del presidente per favorire l'ascesa del generale Pollari". Mi sembrò una chiamata di correo".
La turbò?
"Non capivo perché ne parlasse a me, ma vissi la rivelazione come una potenziale minaccia nei confronti di Cossiga. Non avevo particolari motivi per amare Farina. Diverse culture, diverse frequentazioni. Per dire: nella mia infanzia sono stato scout. Mi è rimasta una sottile idiosincrasia per un certo sentore di sagrestia. Le mani sudate, il parlare obliquo, la cantilena lamentosa. Mi interessava però il suo punto di vista ultracattolico".
Apprezzato anche da altri?
"Godeva di grande credito culturale, fino al punto di essere massimo consulente di una trasmissione simbolo del centrosinistra come l'Infedele di Gad Lerner. Infedele appunto: quando si scoprì che Farina era una vera e propria spia, furono in molti a rimanerci male. E allora perché mi chiedo, ha deciso di mettere in piazza le registrazioni di Cossiga?".
Si è fatto un'idea?
"Il suo libro serve a un solo scopo. Dimostrare che il suo burattinaio è Cossiga e non Pio Pompa (ndr l'agente che smistava informative e collezionava dossier)".
Come finì l'incontro all'Hotel Senato?
"Arrivò Cossiga e iniziò ad apostrofare Farina da lontano, a gran voce: "Renato diglielo che sei un eroe, che hai servito la patria, che sei andato da Milosevic su mandato di Lamberto Dini. Devi recarti alla Procura della Repubblica, raccontare tutto". Mi sembrò inutilmente enfatico ma poi capii. Era un modo, tipicamente cossighiano, di parare il colpo in anticipo. Se all'orizzonte apparivano difficoltà, Cossiga dava il meglio di sé. E infatti, attenzione alle date: la guerra in Serbia è del 1999, il ministro degli Esteri era Lamberto Dini, il presidente del Consiglio D'Alema. Pollari viene nominato capo del Sismi a fine 2001".
Anche sullo spionaggio Cossiga nutriva una certa competenza.
"Di carattere legislativo e istituzionale. Nell'età democristiana, che è una categoria più significativa di quella di Prima Repubblica, rappresentava l'uomo di Stato molto più che il quadro di partito. E il segreto è qualcosa che ha a che vedere col potere dello Stato. Per questo, non senza malizia, gli piaceva citare Bobbio".
Tutto qui?
"Se capitava in un tavolo in cui nel raccontare i risvolti più indicibili della quotidianità politica si era andati oltre, concludeva, dopo uno dei suoi rari silenzi con un motto affilato e definitivo: "Se non aveste stupidi preconcetti morali, sareste delle ottime spie".
Farina non li aveva?
"Certamente no. Cossiga diceva sempre: "Quello ha i cassetti pieni". Dava un grande valore alla funzione istituzionale dei servizi segreti. E quando ne parlavamo irrideva ogni mio dubbio, per così dire etico, democratico. Ma fissava un limite alle azioni segrete: dovevano rimanere tali. Allora mi toccava giocare sul tasto dell'ironia, ricordando che Farina veniva intercettato dal pm Spataro proprio nel momento in cui Pio Pompa gli dava istruzioni per cercare di carpire notizie riservate con la scusa di un'innocente intervista".
Accadde davvero?
"Andò ad intervistarlo mentre Spataro e Pomarici intercettavano lui il suo suggeritore, conoscendo in anticipo il contenuto di ciò che gli avrebbero chiesto. Come in un racconto di Simenon, quando il lettore ne sa di più della spia. E chi è andato per suonare, esce suonato" (ride).
La diverte?
"Con Cossiga allora mi piaceva immaginare la faccia di Feltri e di Sallusti, scoperto che gli scoop di Farina erano farina del sacco di Pompa. Se uno non è in grado di fare la spia, facevo cadere distrattamente provocando il presidente, sarebbe meglio scegliesse un'altra direzione".
Dove cigola tragicamente il libro di Farina?
"Ci sono nomi inventati, date confuse, dialetti sardi straziati. A Farina si può perdonare tutto, ma Saltabranca no! Il nome dello storico direttore antifascista della Nuova Sardegna nel dopoguerra, è Arnaldo Satta Branca. Ecco: gli errori di Farina funzionano come lapsus. Rivelano un'approssimazione in cui nuota un disprezzo per la sostanza delle cose".
Esempi?
"Cossiga amava citare un piccolo testo del grande scrittore americano William Styron, il famoso autore della "Scelta di Sophie". Un libello luminoso sulle nebbie della depressione: "Un'oscurità trasparente". Nella trascrizione di Farina Styron diventa Jostein Gaarder, autore di un volume divulgativo intitolato "Il mondo di Sofia". Andiamo al succo: Farina non ha capito la citazione. E ha inventato aiutandosi con Wikipedia. Tutto vero quindi. Ma tutto falso".
Sembra arrabbiato?
"Ai tempi di Zeus, Cossiga l'avrebbe fulminato".
Non lo avrebbe fatto per l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Farina: Cossiga non mi ha certamente usato per diffondere falsità post mortem su Moro, scrive Renato Farina su ItaliaOggi Numero 224 pag. 8 del 21/09/2011. L'articolo che Italia Oggi di martedì 20 ha pubblicato sul mio libro «Cossiga mi ha detto» è importante: spezza l'omertà che lo ha finora circondato, entrando nel merito dei contenuti, che in alcune pagine sono tremendi, e talvolta profetici. Sulla profezia ne cito una sola: è incredibile come, nel luglio del 2008, Cossiga vedesse in Maroni il pericolo prossimo per il governo Berlusconi insieme ad indagini «di Milano e di Napoli». Ma le profezie, anche quelle azzeccate, non possono essergli imputate come menzogne, al massimo sono indovinate o no (e lui ci azzecca), invece il racconto di fatti dei quali è stato testimone diretto, sì. E Italia Oggi lo fa. Piero Laporta, autore dell'accusa, è studioso di fatti di terrorismo tra i più preparati, ed è uomo retto, incapace di annacquare il suo vino per opportunismi vari. A partire dalle sue convinzioni forti, direi marmoree, giudica che Cossiga abbia riferito bugie sul caso Moro (Laporta ci vede la mano sovietica e una qualche complicità omissiva di Cossiga), sull'assassinio di Giorgiana Masi nonché sul patto tra Moro e i palestinesi (per il presidente emerito equivaleva a una immunità sul territorio italiano per i fedayn; per Laporta solo a un sostegno politico). Su tutte queste vicende io non voglio né posso mettermi a fare da arbitro tra i due, come un perito del Tribunale della Storia: non ho la patente. Di alcune cose sono però certo, e queste riguardano la sfera più intima che ci sia, quella dell'amicizia. Sulla base di questa sicurezza affettiva, e percependo il dolore intenso, fisico e insieme come una strozza all'anima, che Cossiga mi trasmetteva parlandomi di Moro, posso dire che non mi ha ingannato, né usato per diffondere post-mortem delle falsità. Per questo ritengo che il vino dell'amico Laporta sia, a proposito dei sentimenti di Cossiga, invecchiato male e diventato dopo tanti anni aceto. Cossiga è un uomo che ha stracciato la tessera di giornalista quando fui radiato (ora la sentenza è stata annullata definitivamente dalla Cassazione). Mi fece chiamare dai suoi carabinieri di scorta poco prima di morire (non parlava più al telefono) per ringraziarmi dei miei messaggi e per domandare il nome di mia moglie. Sono prove (e le sento come carezze di un padre moribondo) del fatto che non mi ha usato come un pupazzo tonto... Perché allora, a un certo punto, improvvisamente, dopo aver lodato il libro, Cossiga si è chiuso nel silenzio? Ipotesi ne ho, nessuna però che c'entri con l'inganno. Approfitto dello spazio concessomi per riferire ai tuoi lettori di un'altra recensione che mi è stata dedicata da Pasquale Chessa sull'Espresso. Dice, in forma di intervista, che questo libro è una bufala ed io ho agito come burattino di Pio Pompa. Bum! Mi ha colpito un fatto. Cossiga, poco prima di morire, mi ha spedito due scatole con i ritagli degli insulti che gli ha dedicato il kombinat debenedettiano di Repubblica-Espresso per anni e anni. E dire che - lo rivela sempre Cossiga nel mio libro (fatto di 27 ore di conversazioni registrate) - il presidente alla Casa Bianca difese per amor di patria l'Olivetti dell'ingegner De Benedetti dall'accusa gravissima di essere fornitrice di tecnologia sensibile all'Urss. Cosa – ritiene Cossiga – invece vera e documentabile. Interessante che Chessa (biografo di Cossiga e candidato alla custodia del suo archivio) si allei ora all'Espresso. Ancora più tragica e interessante la menzogna di Chessa ospitata dall'Espresso, secondo cui Cossiga avrebbe «deciso» di morire. La storia della morte di Cossiga la racconto nel mio libro, inconfutabile, ed è diversa, molto diversa. Sulla verità rivelata da Cossiga sul caso Abu Omar, mi aspetto un altro vostro articolo.
«Sul caso Moro hanno mentito tutti». Il 16 marzo di quarant’anni fa veniva rapito il segretario della Democrazia Cristiana. Antonio Ferrari, storico giornalista del “Corriere”, ne ha scritto un libro nell’81, che vede la luce solo oggi. Un romanzo che mette in fila tutte le incongruenze della pagina più nera della nostra repubblica, scrive Francesco Cancellato il 16 Marzo 2018 su “L’Inkiesta”. «Aldo Moro? Voleva emancipare l’Italia dall’abbraccio soffocante degli americani. Così come Berlinguer voleva emancipare il Pci dall’abbraccio soffocante di Mosca. Per questo il leader della Dc è stato rapito e ucciso». Antonio Ferrari non è l’ultimo dei cospirazionisti. Settant’anni, storica penna del Corriere, di cui è stato a lungo inviato in Medio Oriente, il 16 marzo del 1978, era un giovane cronista che si occupava di terrorismo e di lotta armata. Tre anni dopo quel giorno, il giorno in cui fu rapito Moro - poi ucciso 55 giorni dopo - il suo giornale gli chiese di scriverne un libro. Un romanzo, scelse lui, «60% verità, 20% finzione e 20% zona grigia», avvertendo però «che tante cose che scriverò non vi piaceranno». Risultato? Rizzoli non pubblicò mai “Il Segreto”, che ha visto la luce solo lo scorso anno per Chiarelettere, intatto nel testo, con la sola aggiunta di una postfazione, in cui Ferrari racconta la genesi turbolenta del libro: «Il giornale mi chiese di scrivere di Moro per lavarsi la coscienza dopo lo scandalo P2 che per il Corriere fu devastante: tutti, dal presidente all’amministratore delegato, sino al direttore a non so quanti giornalisti facevano parte di una loggia di criminali».
Un attimo, Ferrari: che c’entra la P2 col rapimento di Aldo Moro?
«Sono sempre più convinto che avesse ragione Tina Anselmi: per capire il caso moro bisogna partire dalla P2.
Perché?
«La P2 era un’organizzazione che voleva creare un sovrastato che doveva controllare tutto, eventualmente creare le precondizioni per un colpo di Stato».
Come mai tutta questa smania di fare un colpo di Stato in Italia?
«Dobbiamo fare un salto indietro al 1964, in questo caso, quando va in crisi il primo governo di centrosinistra guidato proprio da Aldo Moro. È in quel contesto che il generale Giovanni de Lorenzo, comandante dell’Arma dei Carabinieri, decide di elaborare un piano per prendere il potere, si dice con la complicità del presidente della Repubblica Antonio Segni».
Ancora: perché?
«Perché Moro aveva uno scopo che non piaceva alla destra del suo partito, e nemmeno ad americani e britannici. Noi siamo stati governati per cinquant’anni dallo stesso partito. È una condizione quasi unica al mondo, nei paesi democratici. Moro voleva si sfidassero una grande forza di sinistra progressista e una forza di destra moderata, o quantomeno allargare l’area di governo ai comunisti, che allora avevano superato il 30% dei consensi».
E questo non piaceva agli americani?
«No, e nemmeno ai russi. Jimmy Carter, molti anni dopo, mi disse che loro avevano avuto molto a cuore il caso Moro. Ma negli Usa c’era chi non ci voleva liberi dell’abbraccio molto ingombrante di Usa e Gran Bretagna sul nostro Paese. L’Italia era Paese di frontiera tra blocco Nato e comunismo».
Non avevano tutti i torti, però. Noi avevamo un partito comunista, non socialista, che fino a Berlinguer, almeno, prendeva ordini da Mosca...
«Però con Berlinguer si stava staccando dall’Unione Sovietica. E per Moro andava favorito questo distacco del Pci da Mosca, così come voleva emancipare la Democrazia Cristiana da Washington. Ma così come c’era un pezzo del Pci che non voleva mollare Mosca, c’era un pezzo di Democrazia Cristiana - e di establishment del Paese - che non voleva un’Italia emancipata. Il piano Solo, il tentato golpe del 1964, fu il primo tentativo eversivo per andare contro al disegno di Moro, approfittando della crisi del suo primo governo di centrosinistra. Il presidente Segni arrivò addirittura a consultare il generale De Lorenzo, capo dei golpisti, per la formazione di un nuovo governo. Siamo stati a un passo dalla dittatura militare: già allora il piano era quello di deportare in Sardegna 270 tra politici e dirigenti statali. E di uccidere Moro».
Addirittura ucciderlo?
«Fu Mino Pecorelli a denunciarlo, tre anni dopo, in un articolo apparso su “Il nuovo mondo d’oggi”. A ucciderlo avrebbe dovuto essere il tenente colonnello dei paracadutisti Roberto Podestà».
Insomma, Moro è sopravvissuto per quattordici anni, prima di morire davvero per Mano delle Brigate Rosse…
«Non solo. Secondo la figlia Maria Fidia era il padre era il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus del 1975. Salito proprio su quel treno sul treno alla stazione Termini per raggiungere la famiglia in villeggiatura in Trentino venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare».
Ma come mai questo accanimento contro un politico solo?
«Andreotti, in un’intervista ha rivelato che nel 1974, Moro subì una vera e propria aggressione da Henry Kissinger, con minacce pesantissime. Moro era un problema anche per la sua politica filo araba in Medio Oriente, che proseguiva l’azione del suo grande amico Enrico Mattei. Una politica che non piaceva alle sette sorelle del petrolio, all’America e pure al Regno Unito, che aveva interessi in Iraq e in generale in tutto il mondo arabo».
Andreotti. Il sequestro Moro avvenne il giorno del giuramento del suo governo. Che ruolo ebbe, secondo lei, il presidente del consiglio in carica nella gestione di quei 55 giorni?
«Quando ho scritto il libro, trentasette anni fa, pensavo che Andreotti fosse l’anima nera di tutta la vicenda. Sbagliavo. Il personaggio più ambiguo di tutti, nel caso Moro, è stato Francesco Cossiga, allora ministro dell’interno. La moglie di Moro ha raccontato che non l’ha mai più cercata dopo la morte di suo marito, nonostante fossero amici. Diciamo che l’ambiguità di Cossiga rafforza la tesi dell’eterodirezione della vicenda Moro».
Non è ambigua anche la posizione di Berlinguer? Perché il segretario del Pci si schierò per la linea della fermezza, contro ogni trattativa per salvare Moro?
«Berlinguer era per la linea della fermezza e faceva bene. Era convinto che non sarebbe mai stato liberato. E che legittimare le Brigate Rosse sarebbe stato pericoloso. Io credo avesse ragione lui, e che avesse ragione Sciascia. Sciascia dice che Moro era favorevole a prendere tempo, non a trattare. La linea della trattativa di Craxi è un atto di generosità e furbizia politica di Craxi, che capisce che deve smarcarsi da tutti, per dar corpo alle sue ambizioni. Ma Craxi, peraltro, era amico del fondatore di Hyperion, Corrado Simoni».
Hyperion, ecco. Secondo molti è la chiave che spiega l’eterodirezione del rapimento di Moro…
«È una strana scuola di lingue fondata da brigatisti a Parigi, piena zeppa di spie. L’ex brigatista Enrico Franceschini la definisce “una specie di Parlamento degli 007”. Questa scuola nasce uno o due anni prima del sequestro, sembra creata apposta. Man mano che si avvicinano i giorni del sequestro Moro, compaiono tante piccole Hyperion a Roma, Milano, Como, Parigi, Londra. E chi nelle Br teneva i rapporti con Hyperion, andando su e giù da Roma a Parigi è quello che molti ritengono essere l’infiltrato della Brigate Rosse, Mario Moretti. L’uomo che prelevò Moro, quello che lo interrogò, quello che si dice abbia ucciso».
Cosa le fa pensare che Moretti fosse infiltrato?
«Tante cose. Innanzitutto, che le Br erano piene di infiltrati. Franceschini dice che quando hanno scelto di abbracciare la lotta armata, nelle Br c’erano da uno a tre infiltrati. E che a un certo punto erano più gli infiltrati dei brigatisti».
Però dice anche che definire Moretti una spia fosse riduttivo…
«Non nega. Dice che è riduttivo. Faccio un esempio: nel 1990 Andreotti scoperchiò la storia di Gladio un'organizzazione paramilitare clandestina italiana organizzata dalla Nato e dalla Cia. Di quell’organizzazione, Moro parlò nel suo memoriale dalla prigionia, denunciandone l’esistenza. Perché le Br non rivelarono mai, durante la prigionia, quelle pagine del memoriale? Sarebbe stato uno scandalo clamoroso. A domanda precisa di un giudice, Moretti disse che avevano sottovalutato quella rivelazione».
Parliamo anche della seduta spiritica dei sette professori, cui partecipò anche Romano Prodi. Quella in cui uscì il nome di Gradoli….
«Sul caso Moro hanno mentito tutti, dal primo all’ultimo. Quei professori si dice organizzarono la seduta spiritica per far emergere un nome che, si dice, Beniamino Andreatta aveva ascoltato all’università di Cosenza da Franco Piperno, capo di Autonomia Operaia, amico dei brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, e, al pari di Andreatta, professore nell’università calabrese. Comunque, esce questo nome, Gradoli, e le forze dell’ordine vanno a cercare Moro in una località con quel nome. La vedova Moro, a quel punto, va da Cossiga, chiedendogli se esistesse una via Gradoli a Roma. Cossiga la liquida sbrigativo, dice che non risulta dalle Pagine Gialle. Il problema è che via Gradoli a Roma non solo esiste, ma è pure in una zona in cui i servizi avevano un mare di appartamenti. Strano che il ministro degli interni non lo sapesse. Comunque in via Gradoli, al numero 96, c’era veramente un covo delle Br, uno dei più importanti, e in quel covo ci stavano, guarda caso, Mario Moretti e Barbara Balzarani».
È la vicenda più paradossale del caso Moro, quella di Gradoli?
«No, c’è pure quella del lago della Duchessa. Nello stesso giorno in cui fu scoperto il covo di via Gradoli, siamo ad aprile, un falso comunicato delle Brigate Rosse dice di cercare il cadavere di Moro in questo lago. Si dice che a realizzare quel comunicato fu il falsario d'arte Tony Chichiarelli, legato alla Banda della Magliana. Io sono convinto che quella storia fu inventata dai servizi segreti, con un obiettivo: convincere le Brigate Rosse a fare in fretta ad ammazzare Moro, che per loro era già morto».
Lei fra l’altro dice nel libro che Moro non fu materialmente ammazzato dalle Brigate Rosse. Cos’è? Il 60% di verità, il 20% di finzione o il 20% di zona grigia?
«Io continuo a pensare che il presidente della Democrazia Cristiana sia stato liberato e ucciso successivamente. La maggioranza delle Brigate rosse voleva liberare Moro, una minoranza, i brigatisti vicini a Hyperion, no. Sono convinto di questo e diversi magistrati me l’hanno confermato».
La verità su Aldo Moro: in via Fani, con le Br, malavitosi e servizi segreti. Quarant'anni dopo: intervista a Gero Grassi, membro della seconda Commissione parlamentare d'inchiesta su rapimento e morte dello statista Dc, scrive Valentina Barresi su "La Voce di New York" il 15 Marzo 2018. Gero Grassi: “Il caso Moro è un intrigo internazionale con la partecipazione di Cia, Mossad, Kgb, servizi segreti inglesi e francesi. Chi in senso attivo, chi in senso omissivo, ha partecipato. In tutto questo ci sono anche responsabilità di pezzi della magistratura italiana, delle forze dell’ordine e della cupola maggiore che è la P2". La fine di un uomo, l’annientamento di uno statista e della sua visione: sono trascorsi 40 anni dalla strage di via Fani, da quella mattina del 16 marzo 1978 in cui il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, venne rapito, e i cinque uomini della sua scorta uccisi, fino al ritrovamento del suo cadavere, avvenuto il 9 maggio in via Caetani a Roma. Per troppo tempo la verità ufficiale ha sostenuto che la mano principale dietro al rapimento e alla morte del fautore del “compromesso storico” fosse quella delle Brigate Rosse. Buona parte del dramma che paralizzò l’Italia e che si consumò in quei 55 giorni che separano via Fani da via Caetani rimane tuttora avvolto nell’ombra. Un caso contenuto in ben 8 processi Moro, quattro commissioni terrorismo e stragi, due commissioni Moro, una commissione Mitrokhin e una commissione P2, che però non sono bastati a far piena luce su una delle pagine più grigie e inquietanti del Belpaese. Un tassello alla volta, la seconda Commissione d’inchiesta su Aldo Moro è riuscita però a fare emergere elementi nuovi, smontando pezzo per pezzo la versione conosciuta negli ultimi quarant’anni. Ad animarne il lavoro, in prima linea, Gero Grassi, vicepresidente del gruppo Pd della Camera, autore del libro “Aldo Moro: le verità negate”. Verità che Grassi non ha mai smesso di cercare in tutti questi anni, che passano per depistaggi, cospirazioni, morti sospette e menzogne, parte di un intrigo internazionale capace di tenere assieme tutti i poteri forti – politica, massoneria, servizi segreti, chiesa, criminalità organizzata – presenze costanti che si intersecano e si celano dietro ai più grandi misteri irrisolti della storia italiana recente.
Onorevole Grassi, quali sono le sostanziali novità e discrepanze che emergono dal vostro lavoro rispetto alla precedente Commissione Moro?
“Anzitutto, la certezza che in via Fani con le Brigate Rosse, e sottolineo con le Brigate Rosse, ci fossero soggetti terzi della malavita romana, della Banda della Magliana e i servizi segreti italiani e stranieri. Poi, la certezza che il Bar Olivetti non fosse chiuso al momento della strage, come si è scritto invece per 38 anni, ma fu l’epicentro del rapimento Moro, la centrale operativa, frequentata da brigatisti, Nar, uomini della ‘ndrangheta, Frank Coppola (mafia-siculo americana), Tano Badalamenti (mafia siciliana), e Camillo Guglielmi, vice comandante generale di Gladio. Le altre due grandi novità riguardano poi la prigione di Aldo Moro e la sua morte. Prigione che non dovrebbe essere quella di via Montalcini, ma in via Massimi 91 (alla Balduina, poco distante da via Fani, ndr.) dove peraltro è stato ospitato il brigatista Prospero Gallinari e dove aveva sede il palazzo dello Ior, in un complesso che godeva dunque della extraterritorialità. E poi la ricostruzione della morte di Moro che, così come i brigatisti Germano Maccari e Mario Moretti la descrivono, per il numero dei proiettili, per i proiettili silenziati, per il tempo, per il luogo, oggi non regge rispetto alle ultime prove. Loro dicono che è morto sul colpo e invece Moro è morto dopo 30 minuti di agonia. Loro parlano di 8-9 colpi e i colpi invece sono 12. Loro dicono che Moro era steso nella Renault e noi riteniamo che Moro fosse appoggiato alla Renault, che stesse fuori dalla vettura. Tutto questo ci induce a dire che in via Fani c’erano anche le Brigate Rosse, e che sul luogo della morte invece mancavano le Brigate Rosse. Anche perché ci sono due testimoni: don Fabio Fabbri, assistente del cappellano don Curioni, che descrive l’omicida senza però fare il nome. E poi c’è un professore che addirittura fa il nome. E c’è Cossiga che in un’intervista televisiva dice: ‘Io ho conosciuto chi ha rapito e custodito Moro, non ho conosciuto chi l’ha ucciso’, e aggiunge: “E’ morto poco tempo fa”. Lui ha conosciuto tutti i brigatisti. Mettendo a confronto l’intervista con la rilevazione sulla morte di Moro viene fuori che questa persona potrebbe essere Giustino De Vuono, ‘ndranghetista calabrese”.
Qual è la portata del ruolo della ‘ndrangheta e della mafia nel caso Moro?
“La ‘ndrangheta frequentava il bar Olivetti, riciclava armi giocattolo che poi diventano armi che sparavano. Ci sono delle intercettazioni telefoniche del tempo rispetto alle quali il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e procuratore nazionale antimafia ha evidenziato in commissione che la ‘ndrangheta seguiva il caso Moro e partecipava – non sappiamo in che misura – alla vicenda. Ci sono ad esempio i viaggi sospettissimi, nei 55 giorni, di Moretti in Calabria e in Sicilia. La ‘ndrangheta, come la mafia e la camorra entrano nel caso Moro. Certamente non sono stati loro a organizzare il rapimento”.
A oggi quali sono le responsabilità accertate dietro al rapimento e all’uccisione del presidente?
“Il caso Moro è un intrigo internazionale che vede la partecipazione di Cia, Mossad, Kgb, servizi segreti inglesi e francesi. Chi in senso attivo, chi in senso omissivo, ha partecipato alla vicenda del rapimento e dell’omicidio. In tutto questo ci sono anche responsabilità di pezzi della magistratura italiana, pezzi delle forze dell’ordine, mentre la cupola maggiore è la P2, che poi è il governo di tutti questi fenomeni criminali”.
Sono trascorsi quarant’anni e dalla scena mancano, tra i tanti, due personaggi chiave, su cui permangono ombre e interrogativi: uno è l’allora ministro degli interni Francesco Cossiga, di cui si sostenne una responsabilità morale dell’omicidio Moro, l’altro è il presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Quale il ruolo di entrambi, quali le colpe?
“Cossiga riunisce un comitato di emergenza formato da 40 piduisti (comitato dal quale, sosterrà Steve Pieczenik, funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano, avvennero fughe di notizie, ndr.). Potrebbe fare delle cose che non fa per cercare Moro, lui spera che lo salvino. Non è stato lui ad ucciderlo, come pure Cossiga stesso dice, però certamente non ha fatto nulla per evitare che lo uccidessero. E in questo ha agito in perfetta intesa con un altro parlamentare, con il quale costituiva una coppia di fatto, l’onorevole Ugo Pecchioli, del Partito comunista italiano. Quanto a Giulio Andreotti, lui era il presidente del Consiglio e dagli atti risulta che il suo governo non si è impegnato per la liberazione di Aldo Moro. Ha fatto “confusione”, per così dire. Andreotti ha le sue responsabilità. La vicenda Moro è stata gestita da Cossiga d’intesa con Andreotti e con Pecchioli dall’altro lato”.
Sul caso Moro sono decine i nodi irrisolti. Tra i tanti, quello relativo al brigatista Alessio Casimirri, oggi libero in Nicaragua…
“Casimirri fu arrestato dai carabinieri, individuato in via della Conciliazione a Roma su segnalazione del dottor Cherubini, padre del cantante Jovanotti e amico del padre di Casimirri che era cittadino vaticano. Ma poco dopo l’arresto venne inspiegabilmente rilasciato. La cosa più grave è che lo Stato italiano non ha mai chiesto la sua estradizione, se non attraverso il ministro degli Esteri Gentiloni quando in commissione l’abbiamo domandata nel 2016. Dal 1981 al 2016 nessuno l’aveva mai fatto”.
Alla luce del lavoro svolto e dei punti chiave sollevati dalle vostre indagini, lei pensa che un nuovo governo potrebbe dare impulso alla ricerca della verità?
“D’impulso non credo che ci sarà più un’altra Commissione Moro. Innanzitutto perché il mio partito non mi ha ricandidato. Se dopo 500 manifestazioni, non mi ricandida significa che non crede alla possibilità di continuare. Quindi non credo proprio che quelli che arriveranno possano impegnarsi a trovare i pezzi mancanti sul caso Moro”.
Come si collocano gli Stati Uniti in questo intrigo internazionale che lei ha tratteggiato?
“E’ emblematica la frase che Henry Kissinger rivolse ad Aldo Moro il 25 settembre del 1974: ‘Presidente, lei deve smettere di perseguire sul piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. O la smette, o la pagherà cara’. Questo fu l’avvertimento ufficiale. Gli Stati Uniti non volevano né l’Europa dei popoli, che era l’obiettivo di Moro, né la democrazia compiuta in Italia. Ovviamente anche per gli Stati Uniti non si può generalizzare. Parliamo di Henry Kissinger, del quale noi abbiamo chiesto la rogatoria internazionale ma che non ci è stata concessa”.
Nella sua ricostruzione dei fatti e della figura di Aldo Moro lei ha anche accostato il presidente della Dc a John Fitzgerald Kennedy…
“Per la storia Kennedy e Moro sono le uniche due persone che hanno battuto moneta non passando per le banche centrali: Kennedy per i due dollari nel 1961 non passò dalla Federal Reserve, e Moro per le 500 lire del 1966 non passò dalla Banca d’Italia. Ricordo poi un episodio, quello del 14 marzo 1978, due giorni prima del rapimento: Moro era all’università a Roma e il suo assistente, Francesco Tritto, gli disse: “Presidente, si ricorda che dopodomani ci sarà la sua ultima seduta di laurea?”. “Perché l’ultima?”, gli chiese Moro. “Perché lei a giorni sarà eletto presidente della Repubblica”. E Moro rispose: “La ringrazio, lei è affettuoso ma ingenuo. Io non farò mai il presidente della Repubblica. Mi faranno fare la stessa fine di John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre del 1963”.
La trattativa dimenticata tentata da Craxi, scrive Francesco Forte, Lunedì 19/03/2018, su "Il Giornale". Nel dibattito sull'eccidio di via Fani e sulla uccisione di Moro, dominato da intellettuali di sinistra fermi ai loro stereotipi, s'è dimenticata la trattativa per Moro, condotta da Craxi, dall'hotel Raphael. Il Psi il giorno prima della sua uccisione aveva approvato lo scambio umanitario. La Dc il giorno della fine di Moro si riunì per deliberare se associarsi al Psi o sceglier la linea della fermezza del Pci, gradita a Mosca. Il ministro dell'Interno ombra del Pci, Pecchioli, legato a Mosca aveva detto «per noi Moro è praticamente morto. Non si tratta con le Br, perché non possono esser riconosciute come soggetto politico». Moro sosteneva una linea catto-comunista d'alleanza col Pci, che somigliava a quella dei comunisti del dissenso di Praga, soppressa dai carri armati sovietici. Il compromesso storico di Berlinguer, sponsorizzato da Andreotti e altri Dc comportava apertura all'Unione Sovietica in cambio dell'austerità, con un modello neo corporativo con le contro parti industriali. A Craxi e a me suo consigliere non piaceva la linea di Berlinguer, l'opposto del socialismo liberale craxiano e del mio liberal socialismo né quella di Moro, che comportava un nuovo comunitarismo cattolico dirigista. Ma a Craxi, che nel suo burbero decisionismo era in realtà un buono, l'idea di sacrificare Moro alla ragion di stato in contrasto col socialismo umanitario pareva mostruosa. Ma aveva bisogno di convincersi che salvare Moro con una trattativa non era una concessione all'obbiettivo di metter in difficoltà i comunisti e a un buonismo contrario alla legalità. Nelle lettere che Moro indirizzava ai democristiani, li implorava di non compiere «il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità». Craxi si rivolse a me, per documentarsi sulle teorie sul tema. Io gli diedi il libro del filosofo Giuliano Pontara «Se il fine giustifica i mezzi» basato sul principio «prima l'uomo, poi lo Stato», che giustificava la trattativa. E ne scrissi su Critica sociale aggiungendo la teoria dell'escalation per cui il sangue chiama sangue. Nella trattativa con gli emissari delle Brigate rosse, che mandavano messaggi al Raphael, che il ministro dell'Interno Cossiga lasciava passare, Moro veniva scambiato con una terrorista definita malata terminale. Oltre a una parte delle Br, che cinicamente voleva un riconoscimento come nuova sinistra, era per lo scambio Lotta Continua, che non voleva più uccidere. Moro aveva scritto ai fautori della fermezza «Il mio sangue ricadrà su di voi». Il comando Br gli sparò. Il compromesso storico cadde. Ma ci fu anche un'altra ragione per la sua fine. Il Pci non voleva votare lo Sme, padre della moneta unica europea. Il Psi di Craxi optò per l'astensione. Esso fu approvato e iniziò l'era Psi-Dc degli anni '80.
Caro Prodi, ora devi dirci chi ti ha detto “Gradoli”, scrive Fabrizio Cicchitto il 16 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Quarant’anni di misteri sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Sull’Affaire Moro pongo una serie di interrogativi. Ho fatto l’errore di non partecipare alla Commissione presieduta da Fioroni per cui è possibile che la cosa mi sia sfuggita, ma non mi risulta che abbia invitato il presidente Prodi a riferire. Nessuna persona può ancora credere che fu una seduta spiritica quella che diede il nome di Gradoli: a tanti anni di distanza Prodi potrebbe dire chi gli diede quell’indicazione. Caso Moro: il gelido Andreotti, l’irresoluto Zaccagnini, il colto Galloni Leonardo Sciascia fu profetico due volte: in Todo modo anticipò che l’Italia sarebbe stata teatro di assassini politici, in L’Affare Moro affermò che l’assassinio di Moro sarebbe stato l’inizio della decerebralizzazione della Dc che infatti si srotolò in modo inesorabile nel corso degli anni 80 per cui il partito arrivò del tutto impreparato al crollo del comunismo russo e di quello dell’Europa dell’Est. Andreotti, Forlani, Fanfani, i dorotei, lo stesso De Mita tramutarono le loro correnti in gruppi di potere che risucchiarono in questa involuzione anche Bettino Craxi che nel 1991 non ebbe il coraggio politico di provocare elezioni anticipate e così espose sé stesso, i partiti laici, il centro- destra della Dc all’attacco del circo mediatico- giudiziario che risparmiò la sinistra Dc e che fu utilizzato dal Pds di Occhetto e di D’Alema. L’unico leader della Dc che in qualche modo intuì che il crollo del comunismo avrebbe creato enormi problemi anche alla Dc fu Francesco Cossiga, che da un certo momento in poi si difese svolgendo in prima persona il ruolo di contestatore del suo partito originario con il quale entrò in rotta di collisione. Aldo Moro – il cui retroterra culturale era di grande spessore, risaliva alla Fuci (l’organizzazione degli universitari cattolici), ai rapporti con Monsignor Montini, alle riflessioni filosofiche di Maritain e a quelle politico - giuridiche di Giuseppe Dossetti e che svolse un ruolo di rilievo già nell’assemblea Costituente – combinò insieme il realismo politico, la sapienza tattica, lo sforzo di analisi della società italiana fino alla sua ricerca sul ’ 68 e la contestazione giovanile. In ogni caso la sua convinzione di fondo era che la politica è per larga parte mediazione. Non a caso quando nel 1959 i dorotei disarcionarono Fanfani da presidente del Consiglio e da segretario della Dc essi elessero come segretario Aldo Moro per evitare che l’operazione apparisse una pura e semplice operazione di potere. Così Moro fu il protagonista di entrambe le “aperture” sul terreno delle alleanze operate dalla Dc, il centro- sinistra con il Psi e l’unità nazionale con il Pci: in entrambe le occasioni tracciò le prospettive culturali e programmatiche dell’operazione, ma lavorò sempre con grande attenzione per salvaguardare gli aspetti fondamentali del sistema di potere della Dc. Fu contro un uomo di questo rilievo che le Br sferrarono il loro colpo e non sbagliarono certo il bersaglio: come scrisse lo stesso Moro in una delle sue drammatiche lettere, il suo sangue si riversò proprio sul gruppo dirigente del partito che non fece nulla per salvarlo. Come è noto il primo bersaglio preso in considerazione dai brigatisti fu Giulio Andreotti, ma lo trovarono così “blindato” che rinunciarono. Perché Moro non era altrettanto “blindato” e aveva una scorta numerosa ma non dotata nemmeno di una macchina blindata? Perché nelle settimane precedenti al sequestro, Moro e il suo caposcorta Leonardi furono assai inquieti, misero sotto osservazione un giovane russo che d’improvviso aveva iniziato a frequentare le sue lezioni all’Università e che poi si volatilizzò tornando nel suo paese, e perché non furono prese misure più adeguate?
Questo è il primo interrogativo da porsi. Ciò detto è inutile tergiversare: qualche ora dopo che Moro era stato rapito e la sua scorta massacrata il gruppo dirigente del Pci al completo, il gelido Andreotti, l’irresoluto Zaccagnini, il coltissimo Giovanni Galloni lo diedero per morto e si attestarono tutti sulla linea della più assoluta fermezza. Ma la teoria della fermezza coprì una prassi fondata sull’inerzia. Questa inerzia è tanto più evidente se si fa il paragone con quello che fu fatto successivamente per liberare il generale Dozier: con il permesso del governo si ricorse alla tortura e tramite stringenti interrogatori fu indentificato il covo, e i Nocs intervennero senza spargimenti di sangue. Nulla di tutto ciò avvenne durante la detenzione di Moro. Però quello che non si aspettavano il gruppo dirigente del Pci, il gelido Andreotti, il ministro degli Interni Cossiga, i dirigenti morotei della Dc era che Moro rompesse il silenzio e cercasse disperatamente di salvarsi inviando lettere di straordinaria forza politica e morale. Fu di fronte all’appello sconvolgente contenuto in quelle lettere che Craxi decise di muoversi e di rompere l’omertà del ceto politico dell’arco costituzionale. Craxi consultò uno per uno tutti i dirigenti del Psi per conoscere il loro parere: tutti dissero di sì all’iniziativa per salvare Moro, tranne Pietro Nenni che avanzò qualche riserva. Così Craxi lanciò un primo messaggio. Ancora mi vengono i brividi nella schiena quando Craxi mi chiamò nella sua stanza e mi fece leggere la prima lettera di Moro che ringraziava i socialisti: il nostro colloquio fu breve e quando ci alzammo in piedi Bettino mi abbracciò e in preda ad una fortissima emozione mi disse: «Noi non siamo comunisti, faremo di tutto per salvarlo». Ma Bettino era un gigante della politica: dopo di lui ho conosciuto molti nani, qualche ballerina, un autentico mascalzone che prima ha fatto il magistrato e poi è sceso in politica, quindi un altro personaggio fuori dal comune come Berlusconi. Ciò detto pongo una serie di interrogativi senza risposta. Ho fatto l’errore di non partecipare alla Commissione presieduta da Fioroni per cui è possibile che la cosa mi sia sfuggita, ma non mi risulta che essa abbia mai invitato il presidente Prodi a riferire. Nessuna persona di buon senso può ancora credere che fu una seduta spiritica quella che diede il nome esattissimo di Gradoli: a tanti anni di distanza Prodi potrebbe finalmente dire chi gli diede quell’indicazione. La cosa più incredibile però fu l’uso, o meglio il non uso di quella indicazione che avrebbe consentito di intervenire fin dall’inizio su un covo di straordinaria importanza. Invece tutto l’apparato poliziesco si precipitò in un paesino del viterbese: idiozia o volontà di guardare da un’altra parte?
Secondo interrogativo. Quando Claudio Signorile e Antonio Landolfi si mossero su mandato di Craxi per trovare un aggancio che arrivasse fino ai brigatisti, fecero la cosa più ovvia: si rivolsero a due personaggi “borderline” fra il mondo dell’autonomia e quello brigatista quali Franco Piperno e Lanfranco Pace. La mossa si rivelò giusta tant’è che attraverso di essi fu stabilito un contatto indiretto con Morucci e con la Faranda. Ma dei servizi segreti degni di questo nome non avrebbero dovuto da subito controllare Pace e Piperno per la stessa ragione per cui Landolfi e Signorile li cercarono? Terzo interrogativo determinato da un colloquio con Misasi, uno degli esponenti della sinistra di base della Dc più seri e intelligenti, molto amico di Ciriaco De Mita. «Io», mi disse Misasi, «mi convinsi che bisognava che la Dc prendesse un’iniziativa per liberare Moro: tu mi conosci, non è che andai a dirlo ai quattro venti. Ne parlai con tre dei massimi dirigenti della Dc per cui ti puoi immaginare quale fu la mia sorpresa e la mia angoscia quando Moro inviò una lettera nella quale mi chiedeva di convocare il Consiglio nazionale della Dc ed esporre lì le mie convinzioni». Una parte dell’interrogativo che deriva da questo ricordo dell’onorevole Misasi è di facile soluzione: probabilmente uno dei dirigenti della Dc interpellati da Misasi parlò con la famiglia di Moro. Evidentemente, però, esisteva un canale finora non emerso fra la famiglia e i brigatisti.
Ultima questione: mi sembra evidente che la direzione delle Br temesse di essere posta di fronte ad una iniziativa ufficiale e pubblica che avanzasse una proposta (per esempio la liberazione della Besuschio) volta ad avere come contropartita la salvezza di Moro. I brigatisti non volevano essere posti di fronte a una iniziativa politica (quelle investigative- militari non ci furono) che li avrebbe messi in difficoltà e divisi. La controprova di ciò è che essi uccisero Moro prima che, alla direzione della Dc, Fanfani ponesse il problema dell’iniziativa da parte della Dc per salvare il suo presidente. Ma essi sapevano in anticipo quello che Claudio Signorile mi disse in gran segreto e cioè che Fanfani avrebbe parlato in modo chiaro e netto in direzione dopo i pasticci combinati da Bartolomei (fanfaniano, presidente dei senatori Dc). Un’ultima osservazione di merito: può essere un caso ma Morucci e la Faranda furono arrestati a casa di Giuliana Conforto che era figlia di Giorgio Conforto (nome in codice Dario) che era da molti anni la principale spia del Kgb in Italia, che fu presente all’arresto e fu fatto sgusciare via.
Un’impressione finale sul piano politico. Il gruppo dirigente del Pci fu monolitico nel considerare Moro morto fin dall’inizio. La loro chiusura a testuggine derivò dal fatto che essi ritenevano che le Br, autonome o pilotate, erano un gruppo che operava in primo luogo contro il Pci e la strategia del compromesso storico usando materiale ideologico e operativo tratto dall’album di famiglia, di cui parlò Rossana Rossanda. Nella Dc chi non ebbe mai un’esitazione furono Andreotti e Cossiga. Il primo fu gelido e disumano nel corso di tutta la vicenda: il problema per lui era solo quello di salvare il suo governo. Cossiga fu dominato dalla ragion di stato, ma almeno lo fece parlando, confrontandosi con molti, combinando pasticci, talora disperandosi. Rispetto a tutto ciò Bettino Craxi espresse un’alternativa in primo luogo culturale e ideale e si affermò come un grande leader, capace di andare controcorrente.
ALBERTO FRANCESCHINI E LA VERITA' ACCETTABILE.
Bari, bufera sul convegno con fondatore delle Br: «Via patrocinio Puglia». L'incontro, previsto il 14 marzo, è incentrato sulla figura di Aldo Moro, con la partecipazione di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, scrive il 09 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Un incontro sulla figura di Aldo Moro, con la partecipazione di Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse, fa esplodere la polemica a Bari. «È vero che il diritto di parola non deve essere negato a nessuno perché è quello che eleva il nostro stato di esseri umani. Ma è anche vero che non può essere dato in questa maniera a chi è stato uno degli artefici di quello che è il periodo più buio della nostra Italia, soprattutto se ci saranno dei ragazzi di fronte a lui», il messaggio di protesta di Potito Perruggini, nipote di Giuseppe Ciotta, brigadiere di polizia ucciso nel 1977 da Prima Linea. Al convegno, promosso dal consiglio regionale della Puglia, è in programma giovedì 14 marzo, parteciperanno anche il presidente del consiglio, Mario Loizzo, e Gero Grassi, componente della commissione d’inchiesta Moro 2». In chiusura dell’incontro la discussa intervista all’ex capo delle Br. «Cosa aspetta la regione Puglia a ricordare invece i nomi e i volti di tutti quei pugliesi che sono stati uccisi dai killer degli anni di piombo? - si chiede Perruggini, presidente anche di «Anni di piombo», osservatorio nazionale per la verità storica -. Chiedo anche come cittadino italiano che le istituzioni che ci rappresentano monitorino queste situazioni e le blocchino sul nascere così come fece il ministro Salvini tempestivamente a febbraio scorso a Settimo Milanese». Intanto scoppia la polemica politica. «Come può un’istituzione promuovere un convegno in memoria di una vittima e invitare anche il fondatore dell’associazione criminale che l’ha ucciso?», si domanda il capogruppo di FI al Consiglio regionale, Nino Marmo, che chiede conto al presidente del Consiglio regionale della Puglia, Mario Loizzo, «di questa notizia incresciosa, odiosa e inaccettabile» e chiede che Loizzo "tolga il patrocinio del Consiglio regionale». «Si tratta - accusa Marmo - di uno scempio irrispettoso dei familiari di Moro e dei familiari delle tante vittime delle barbarie brigatiste». Per Marcello Gemmato, deputato di FdI, «è inopportuno, fuori luogo e disdicevole, che in un convegno di commemorazione di Aldo Moro, vi sia Franceschini. Altrettanto disdicevole che a patrocinare l’evento vi sia la massima istituzione regionale». "Invito il presidente del Consiglio - dice - a ritirare immediatamente il patrocinino dando così un tardivo contributo di gratitudine e di verità». All’incontro, oltre al presidente del consiglio Loizzo, è annunciata la partecipazione di Gero Grassi, componente della commissione d’inchiesta Moro 2.
Dal “Corriere della Sera” del 10 marzo 2019. A febbraio la presentazione di un libro sulle Br a Settimo Milanese fu annullata fra le polemiche. Stavolta Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Brigate Rosse, parteciperà all' incontro promosso dal Consiglio regionale della Puglia su Aldo Moro. Le proteste di Potito Perruggini, nipote del brigadiere Giuseppe Ciotta ucciso nel '77 da Prima Linea, non hanno fatto cambiare idea agli organizzatori. Il convegno di giovedì, promosso in collaborazione col Miur, prevede la partecipazione di docenti delle superiori e circa 400 studenti. Tra i relatori ci saranno anche il presidente del Consiglio Mario Loizzo (Pd) e l'ex parlamentare Gero Grassi, componente della commissione d' inchiesta «Moro 2». In chiusura è in programma una intervista all' ex Br. «Cosa aspetta la regione Puglia a ricordare tutti i pugliesi che sono stati uccisi dai killer degli anni di piombo?» chiede Perruggini. Dalla Regione vanno avanti: «Capisco il dolore delle vittime del terrorismo - dice Loizzo -, domani le ricorderemo in una mostra fotografica, ma Franceschini ha pagato il suo debito scontando 18 anni e non ha mai ucciso. Incontrarlo vuole essere la testimonianza di un periodo buio e un messaggio alle nuove generazioni, perché costruiscano il futuro senza violenza».
Polemica convegno Moro a Bari, Grassi: «Franceschini, ex brigatista, viene a chiedere scusa». Così Gero Grassi, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro: «Franceschini non ha mai ucciso nessuno», scrive l'11 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. «Alberto Franceschini, brigatista che non ha mai ucciso nessuno, viene a dire 'scusate, abbiamo sbagliato, non copiateci'». Così Gero Grassi, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, risponde alle polemiche dei giorni scorsi sulla partecipazione dell’ex brigatista ad uno degli eventi organizzati dal Consiglio regionale della Puglia per ricordare lo statista pugliese, in programma il prossimo 14 marzo. Grassi ne ha parlato con i giornalisti a margine della inaugurazione della mostra dedicata ad Aldo Moro nella nuova sede del Consiglio regionale. «Non c'è un incontro del 14, c'è un progetto 'Moro educatore' - precisa Grassi - nel quale per due anni magistrati, procuratori nazionali antimafia, professori universitari spiegano ai docenti di Puglia che cos'è il caso Moro. Una di queste puntate è con Alberto Franceschini, uno che dice che in via Fani non c'erano solo le Brigate rosse, dice che le Brigate rosse sono state utilizzate da servizi segreti italiani e stranieri per uccidere Moro, quindi credo che sia una voce autorevole in un campo nel quale noi abbiamo bisogno di recuperare la verità». «Rispetto alla conclusione della commissione di inchiesta, nessuno si indigna - continua Grassi - che esiste un filmato che ci dice chi ha rubato la borsa di moro in via Fani. Quel filmato dice che la borsa l’ha presa un ufficiale dei carabinieri, che era scortato da due generali dell’Esercito». «Credo - conclude - che l’indignazione del Paese debba essere di gran lunga superiore rispetto a polemiche strumentali». «Voglio un incontro ma deve essere prima di tutto un confronto dove dicano le verità ai familiari delle vittime e a chi ha indagato e vissuto quegli anni sulla propria pelle. Sono pronto a guardare negli occhi non solo Franceschini ma addirittura Enrico Galmozzi, il killer di mio zio, perché finora comunque non ho mai visto nessuno andare a chiedere perdono davanti a una delle tombe delle persone da loro brutalmente uccise». Così Potito Perruggini, nipote di Giuseppe Ciotta, poliziotto ucciso nel 1977 da Prima Linea, risponde a Gero Grassi che è intervenuto sulla polemica nata in seguito all’invito di Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Br, ad un convegno su Aldo Moro a Bari. «Domani è l’anniversario dell’omicidio Ciotta - continua -, aspetto Enrico Galmozzi al cimitero di Ascoli Satriano dove mio zio riposa da 42 anni». Perruggini si dice poi disposto ad "incatenarsi per non consentire l’accesso al teatro dove di terrà l’evento», giovedì prossimo.
LA MOSTRA - In 84 pannelli allestiti nell’agorà della nuova sede del Consiglio regionale della Puglia è raccontata la cronaca dei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro e quello che ne seguì. L’esposizione dal titolo «Aldo Moro: per ricordare», con una pagina del Corriere della Sera e gli altri 83 pannelli che riproducono le pagine ingiallite della Gazzetta del Mezzogiorno di quei giorni, sarà aperta fino alla prima decade di maggio. Alla cerimonia di inaugurazione della mostra hanno partecipato circa 300 studenti di sei scuole superiori della provincia di Bari. «A distanza di quarant'anni, il sacrificio di Moro, coi suoi terrificanti segreti non ancora svelati, ci ha consentito di leggere negli occhi degli studenti l'incredulità e lo sgomento di chi viene a conoscenza, per la prima volta, di quel periodo tragico» ha detto il presidente del Consiglio regionale pugliese, Mario Loizzo.
Per Gero Grassi, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, lo statista pugliese rappresenta un "patrimonio dell’umanità che il Consiglio regionale della Puglia sta riattualizzando ed esportando nel mondo scolastico, in quello associativo, in quello delle biblioteche, in Puglia e in Italia». Il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Giuseppe De Tomaso, ha ricordato come la figura di Moro abbia «inciso non soltanto sulla storia del Paese, della Dc e del Sud ma anche della Gazzetta del Mezzogiorno, perché in un’altra circostanza in cui il giornale si trovava a vivere un momento molto difficile, Moro riuscì a trovare una soluzione», auspicando che «la lezione di Moro serva di aiuto morale ma anche come formula per uscire dalle secche societarie in cui ci troviamo oggi». Per il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale, Anna Cammalleri, «la verità è libertà e per questo cerchiamo di diffondere tra gli studenti la conoscenza di quegli eventi». La cerimonia si è conclusa con la consegna di premi, su iniziativa dell’Associazione Consiglieri regionali, a sei componenti del Consiglio regionale della prima legislatura costituente (1970-75) e a tutti i presidenti di Giunte e Consigli regionali, dall’istituzione alla nona legislatura. È stato ricordato anche il poliziotto Francesco Zizzi di Fasano, agente della scorta di Moro, ucciso in via Fani, il 16 marzo 1978.
M5S: PATROCINIO CONSIGLIO INOPPORTUNO - I consiglieri regionali pugliesi del M5S annunciano una interrogazione al presidente Emiliano e all’assessore Nunziante sul ruolo di Gero Grassi nelle iniziative dedicate ad Aldo Moro e ritengono «inopportuno» il patrocinio del Consiglio regionale ad un evento con l’ex brigatista Alberto Franceschini. «Siamo assolutamente favorevoli a tutte le iniziative per ricordare Aldo Moro - dicono in una nota i consiglieri regionali pentastellati - ma ci chiediamo se sia opportuno affidare tutti i progetti del Consiglio Regionale dedicati allo statista, a Gero Grassi (ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ndr), dopo che Maria Fida Moro lo ha diffidato dal 'parlare pubblicamente, in modo inopportuno e blasfemo, della terribile agonia e della mortè di suo padre». "Ci chiediamo come mai a iniziative così importanti - continuano - non prenda parte anche Maria Fida Moro, che più volte ha chiesto di essere ricevuta dal Presidente Emiliano, senza ricevere alcuna risposta. Così come ci sembra quantomeno inopportuno che il Consiglio dia il patrocinio ad un incontro con la partecipazione di Alberto Franceschini, il fondatore delle Brigate Rosse, organizzato per il 14 marzo nell’ambito del progetto 'Moro: Educatorè». Il M5S pugliese evidenzia, inoltre che «il link con la locandina dell’evento è stato cancellato dal sito del Consiglio regionale ma di certo questo non basta. Se il presidente Loizzo è convinto della bontà dell’incontro che senso ha farlo sparire dal sito?».
COMUNE DI TERLIZZI DISERTA - Il Comune di Terlizzi non ha partecipato questa mattina alla cerimonia di inaugurazione della mostra «Aldo Moro: per ricordare», annunciando che non prenderà parte anche ai prossimi eventi dedicati allo statista pugliese organizzati dal Consiglio regionale. «Una forma di dissenso - è spiegato in una nota - legata alla scelta, sempre da parte del Consiglio regionale pugliese, di promuovere altri due eventi dedicati alla figura di Aldo Moro che si terranno il prossimo 14 marzo, entrambi con la presenza di Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse». «I grandi uomini del nostro tempo si ricordano attraverso lo studio della storia e il racconto delle loro azioni, - dice il sindaco, Ninni Gemmato - non certo facendo salire sul palco e facendo entrare in un’aula di scuola personaggi discutibili fautori di una stagione di terrore che seminò sangue nel nostro Paese». «Chiedo a tutte le autorità istituzionali regionali - dice il sindaco - di rivedere l’organizzazione di questi eventi per non offendere la memoria delle vittime delle Brigate Rosse e il dolore delle loro famiglie».
La Regione Puglia sceglie le Brigate Rosse per celebrare Aldo Moro. Il co-fondatore delle Br, Alberto Franceschini, chiamato a parlare della storia brigatista agli studenti in occasione delle commemorazioni per la strage di via Fani, scrive Giuseppe D. Vernaleone, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Le Brigate rosse un esempio? Assolutamente no ma per il consiglio regionale pugliese è più utile la parola di uno dei fondatori del terrorismo anziché far ascoltare chi ha patito la violenza rossa o chi l’ha combattuta. L’aggravante è costituita anche dalla composizione della platea che il 14 udirà il mea culpa del brigatista: centinaia di studenti. Cosa diversa se venisse a relazionare "del fallimento umano e politico delle Br" al cospetto di profondi conoscitori, quali storici-giornalisti od investigatori, con capacità di conoscenze già acquisite al fine di valutare ulteriormente quelle pagine oscure in cui la battaglia politica si trasformò in orribile violenza criminale. Invece no e per il Consiglio Regionale pugliese, per l'Ufficio scolastico regionale, per l'Istituto per la storia dell'antifascismo e della storia del Risorgimento e per la Società Italiana per le Scienze Umani e Sociali un buon maestro e buon educatore, per coloro che saranno i futuri gruppi dirigenti di questo Paese, è colui che ha scontato di 18 anni di carcere per esser stato uno dei protagonisti della organizzazione che fece, dell’azione omicida, un metodo di lotta. Per l’ex componente della commissione di inchiesta sul Caso Moro di Montecitorio, l’ex deputato pd Gero Grassi il tutto appare plausibile per il sol fatto che Alberto Franceschini, si legge in un comunicato inviato a fine gennaio dal Consiglio Regionale, venga a parlare del "fallimento umano e politico delle Br... e verrà a dire agli studenti: abbiamo sbagliato". Insorgono le opposizioni ed in primis il presidente del gruppo regionale di Forza Italia, Nino Marmo: "Come può un'istituzione promuovere un convegno in memoria di una vittima e invitare anche il fondatore dell'associazione criminale che l'ha ucciso?". Non è il solo a sollevare un interrogativo simile, della stessa idea tutti gli esponenti dell'opposizione a Michele Emiliano da Fratelli d'Italia alla Lega, pur nel silenzio delle altre forze che governano, da centrosinistra, la Regione di origine del leader dc ucciso assieme alla sua scorta. Alla base dell’indignazione non la libertà di parola per chi si è pentito della propria storia collaborando anche con la giustizia ma l'esempio che questo possa rappresentare su una platea non abbastanza informata sul clima degli anni Settanta. Cosa penserebbero i familiari degli agenti di scorta, e dello stesso Aldo Moro, ad ascoltare una lezione di politica terroristico/giudiziaria da parte di chi fu uno dei principali ideologi dell’organizzazione criminale di tanti omicidi? La Puglia chiede di togliere il patrocino da parte dell’Istituzione ed evitare che Franceschini venga visto, dalle scolaresche, come un simbolo di pentimento dopo anni di violenze. Titolo dell’incontro: "Moro educatore. Le Brigate rosse e il loro fallimento storico sociale e politicò" ma a Bari scelgono come educatore colui che, secondo Potito Perruggini, presidente dell’Associazione Anni di Piombo e nipote di Giuseppe Ciotta brigadiere di Polizia ucciso nel 1977, hanno una responsabilità diretta di tante violenze. Per Perruggini la Regione Puglia avrebbe fatto meglio a "ricordare nomi e volti di tutti quei pugliesi che sono stati uccisi dai killer degli anni di piombo. Il fallimento del terrorismo è di qualcosa che nasce già deviato e malvagio. Questo messaggio non può essere oscurato dalla parola “fallimento” che potrebbe implicare anche il negativo esito di qualcosa che nasce da giusti ideali e da uomini giusti. Infatti anche lo stesso Napolitano nel 2007 esortò a non renderli protagonisti rischiando di dare falsi insegnamenti storici soprattutto ai giovani". Ma in Puglia il pentimento di qualcosa di errato lascia intendere che le originarie motivazioni ideali possano essere considerate positivamente se a relazionare non siano studiosi degli eventi ma i promotori delle azioni rivoluzionarie poi sfociate in criminali omicidi.
L'inconfessabile verità sul delitto Moro nascosta dietro Mani Pulite e Cinquestelle. La regia di quel delitto? La stessa che tiene in pugno l'Italia da 40 anni, scrive Paolo Guzzanti, Mercoledì 09/05/2018, su "Il Giornale". Quarant'anni fa come oggi eravamo tutti in via Caetani, a metà strada fra piazza del Gesù sede della Democrazia Cristiana e le Botteghe Oscure allora sede faraonica del Partito comunista. Il cadavere smagrito nell'angoscia di Aldo Moro era nel bagagliaio della famosa Renault rossa. Aveva il pollice fracassato da uno dei colpi sparati, nel tentativo disperato di coprirsi il volto. I carnefici non ebbero nemmeno la pietà di coprirgli il volto prima di tirare il grilletto. Moro fu assassinato per impedire che il Partito comunista si sganciasse dall'Unione Sovietica, come tutto l'Occidente sperava. Per impedire questo risultato avevano già tentato di far fuori il segretario comunista Enrico Berlinguer in Bulgaria investendolo con un camion che uccise il suo autista. Moro fu catturato, spremuto e liquidato secondo un copione che poi tutti si sono dati da fare per insabbiare per far credere che un gruppo di sconsiderati boyscout comunisti le sedicenti Brigate rosse lo avesse catturato per fargli un processo del popolo. Una contraffazione ridicola, ma buona da dare a bere alle folle, allora come oggi. La storia di quel delitto è la storia di mille insabbiamenti. Francesco Cossiga che era stato il braccio destro di Aldo Moro e poi uno dei fautori del sacrificio umano sotto l'etichetta del «partito della fermezza» - a cose fatte andò a visitare tutti i brigatisti in galera con cui strinse un accordo: sarebbero stati rimessi tutti in libertà, purché tenessero la bocca chiusa. Quando io andai, come presidente di una Commissione bicamerale d'inchiesta e sotto copertura diplomatica a Budapest nel 2005 per un incontro formale con la Procura ungherese, fu mostrata a me e agli altri membri della commissione una grande valigia di cuoio verde con tutti i documenti che certificavano l'arruolamento dei principali brigatisti rossi nei servizi segreti sovietici e della Stasi tedesca. Al momento della consegna di quei documenti che ci erano stati promessi in pompa magna, intervenne il veto diplomatico russo. Ma per me, per noi, bastava e avanzava. Moro aveva accettato di svolgere il ruolo di garante dell'ingresso dei comunisti in area democratica, purché tagliassero il loro legame con Mosca. Per questo sarebbe dovuto diventare presidente della Repubblica e per questo una terrificante campagna di stampa aveva costretto alle dimissioni l'innocente presidente Giovanni Leone trascinato nel fango dalle falsificazioni della potente centrale che guidava l'operazione. Alla potente centrale si opponeva l'altra potente centrale che alla fine vinse, liquidando il garante. La liquidazione di Moro mandò all'aria il progetto. E questa è la storia negata e insabbiata. L'operazione che avevano preparato gli americani vedi L'Italia vista dalla Cia di Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari, con tutti i documenti originali del corteggiamento americano al Partito comunista guidato da Enrico Berlinguer consisteva allora nel tentativo di far fuori una parte della Dc sgradita. Operazione che riuscì perfettamente qualche anno più tardi con l'eliminazione programmata di tutta la classe politica democratica italiana con l'operazione Clean Hands, Mani Pulite come ben documentato in The Italian Guillotine di Luca Mantovani e Stanton H. Burnett, libro mai tradotto in Italia, per eloquente prudenza. Queste circostanze sono note e stampate ma mantenute accuratamente nell'ombra affinché il comune sentire della pancia italiana non avesse a soffrirne. Ma meritano di essere ricordate perché oggi, sotto l'inesistente vessillo della inesistente Terza Repubblica, è in atto una nuova purga della classe politica italiana, stavolta sotto forma di liquidazione del nucleo liberale e moderato rappresentato da Forza Italia e dal suo leader Silvio Berlusconi. L'intransigenza razzista mostrata da Luigi Di Maio nel rifiutarsi di prender atto dell'esistenza politica di Berlusconi e del suo partito non è una capricciosa impuntatura, ma l'esecuzione dei desiderata di una grande lobby internazionale che sta dietro i danti causa del Movimento Cinque Stelle. La storia della contraffazione italiana continua, il grande giornalismo dei divi della comunicazione democratica tace e incassa dividendi di notorietà a costo zero, mentre agli italiani viene risparmiato oggi come quaranta anni fa il disturbo di sapere, di discutere, di dubitare. Moro da vivo era stato odiato dai comunisti che lo avevano sempre deriso e attaccato, ma che oggi lo santificano come se fosse un loro martire. Moro era odiato da Eugenio Scalfari, così come Giovanni Falcone era odiato dai comunisti e degradato da vivo, ma poi assunto nell'Olimpo dei martiri resi innocui. Quanto a Moro, sapeva che si stava stringendo il cappio al suo collo e che quel cappio era stato preparato da ben altri che non i quattro mascalzoncelli sanguinari dei brigatisti «duri e puri». Nulla era duro, nulla era ed è puro. La democrazia repubblicana è da decenni sotto attacco, fragile, infetta e sempre sotto tutela. La macabra sorpresa nella Renault rossa di via Caetani quaranta anni fa rappresentò l'apice della viltà e della malvagità, ma il delitto più grave è che malgrado le decine di migliaia di pagine e di udienze, agli italiani è stato propinato, allora come oggi, un pappone imbottito di sonnifero ed edulcoranti, affinché non pensassero troppo. È la vecchia tecnica dei signori tedeschi durante il feudalesimo, che sceglievano personalmente la moglie per i loro contadini e, affinché non avessero a faticare, gliela davano già gravida. Oggi l'antico delitto seguita a perpetrarsi ogni giorno e ad ogni anniversario attraverso la manipolazione e la disinformazione sorvegliata e gestita da molti finti eroi. Moro è morto e anche la verità ha fatto la stessa fine, mentre maturano nuovi accurati delitti politici, complice il populismo allevato in batteria come i polli e spacciato come ruspante.
Il rapimento e la morte di Aldo Moro. Moro, 40 anni dopo. Possiamo provare a capire? Scrive Piero Sansonetti l'8 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Domani è il quarantesimo anniversario dell’uccisione di Aldo Moro. Fu abbattuto a colpi di mitraglietta la mattina del 9 maggio del 1978 da Mario Moretti e forse da un altro esponente delle Br. Aveva 61 anni. Il patibolo fu il portabagagli di una Renault 4 di colore rosso. La R4 è un’utilitaria francese, piccola ma con una struttura da station wagon, che in quegli anni era molto diffusa. L’esecuzione avvenne la mattina presto nel garage della palazzina di via Montalcini, a Monteverde, dove Moro era stato tenuto prigioniero per 55 giorni. Spararono con il silenziatore. Poi Moretti chiuse il portellone posteriore e si mise alla guida della Renault; al suo fianco era seduto Germano Maccari, un altro dei carcerieri di Moro (morto d’infarto una decina di anni fa). Guidò fino a piazza Venezia, dove incrociò un’altra auto, una Simca 1000 guidata da un terzo brigatista, probabilmente Bruno Seghetti. Sul sedile a fianco al guidatore c’era Valerio Morucci. La Simca fece da staffetta fino a via Caetani dove lo stesso Seghetti aveva parcheggiato, le sera prima, un’altra automobile. Seghetti scese dalla Simca, salì a bordo dell’auto parcheggiata e se ne andò. Moretti parcheggiò la Renault 4 al posto rimasto vuoto, poi salì sulla Simca, ancora in moto, e sparì anche lui. Alle 12 e 30, Valerio Morucci, da un telefono pubblico vicino alla stazione Termini, chiamò il professor Francesco Tritto e lo avvertì che il cadavere di Moro stava in via Caetani. Gli disse che doveva informare la famiglia, la signora Eleonora, doveva dirle che Moro era morto e il cadavere era in via Caetani. Tritto era spaventatissimo, cercò di sottrarsi. Ma non c’era niente da fare. Allora chiamò la polizia Dopo dieci minuti la polizia circondò la Renault 4. Arrivò il ministro dell’Interno, Cossiga, arrivò Ugo Pecchioli (una specie di ministro ombra del Pci) arrivarono i vertici dei servizi segreti (tra i quali il generale Mori). Si aprì il portellone del portabagagli e Moro stava lì, rannicchiato, senza vita da qualche ora. Non era morto sul colpo, perché nessuno proiettili aveva colpito il cuore. Perse conoscenza, dopo la prima raffica, e morì per le emorragie, dopo più o meno un quarto d’ora. Via Caetani è un luogo simbolico. Perché è esattamente equidistante da Botteghe Oscure e da piazza del Gesù. Botteghe Oscure era la sede del Pci, Piazza del Gesù la sede della Dc. Le Brigate Rosse volevano dire quello: abbiamo ucciso il capo del compromesso storico, dell’operazione- regime, dell’alleanza tra Dc e Pci. Moro era stato un uomo politico grandioso. In tutte le fasi della sua carriera. Era stato un moderato, un progressista, un doroteo, uno degli artefici del centrosinistra, l’uomo dell’apertura ai giovani nel ‘ 68, e infine, insieme a Berlinguer, aveva guidato l’operazione politica più difficile: l’ingresso dei comunisti in maggioranza in un grande paese europeo. Quest’ultima operazione gli costò la vita. Mario Moretti fu catturato nel 1981, Da allora è detenuto. Ha scontato, sin qui, 37 anni di prigione. Ora è in regime di semilibertà, ma è sempre detenuto. Qualche anno fa tenne un incontro con gli studenti milanesi, in un corso organizzato dalla Provincia e condotto dal giornalista Enrico Fedocci. E poi scrisse a Fedocci la lettera che pubblichiamo qui a fianco e che fino ad oggi non era stata resa pubblica. Ognuno può leggere la lettera e commentare come vuole. A me ha colpito – in positivo e in negativo – la serenità del giudizio di Moretti. Lui dice: Le Brigate Rosse sono un pezzo molto complesso della storia italiana, e sono una specie di specchio, per tutti. Soprattutto per chi ha vissuto quegli anni. Io capisco perfettamente la posizione di un protagonista – anzi del leader – di una formazione che ha praticato la lotta armata, o se preferite il terrorismo, e che oggi vuole collocare nella Storia e non solo nella storia giudiziaria, quella esperienza che è stata tragica per tutti. Non solo, ma io credo che noi dovremmo, quarant’anni dopo, trovare la forza e la lucidità per esaminare effettivamente in modo freddo quelle vicende, cercando di capirne il senso, le motivazioni, gli effetti, le conseguenze, senza spirito di rivalsa, senza ossessioni complottiste. Non ci fu nessun complotto, fu un fenomeno molto più complesso. La generazione del baby boom (cioè quella nata tra il 1945 e il 1955) in quasi tutto l’occidente è stata protagonista di fenomeni, più o meno marginali, di lotta armata. Non solo nei paesi dove regnavano regimi autoritari di destra, come la Spagna, o dove esplodevano questioni nazionali antiche (Irlanda) ma anche nei grandi paesi della democrazia, come gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, e l’Italia. In Italia il fenomeno fu più clamoroso, e più vasto, perché si accompagnò con una rivolta giovanile e sociale amplissima, che coinvolse una parte molto consistente, e la più attiva, di quella generazione. A me sembra che quasi mezzo secolo dopo quegli avvenimenti sarebbe ragionevole, anche da parte della politica, avviare una riconsiderazione serena su quello che successe in quel decennio. Cosa osta? Due elementi. Uno, è evidente, è il giustizialismo, che tende a trasformare in revanche e in vicenda giudiziaria tutti i fenomeni violenti e illegali. Senza se e ma. L’altro elemento però è la reticenza dei protagonisti. Non la reticenza giudiziaria, per carità: non credo ci sia più niente da scoprire sul terrorismo rosso, casomai bisognerebbe scoprire tante cose legate al terrorismo nero e a quello di Stato (le stragi, gli attentati) ma questo è un altro discorso. La reticenza che i protagonisti della lotta armata dovrebbero superare è quella umana. Voglio dire che è difficile discutere con delle persone che quarant’anni dopo non hanno la forza per condannare alcune loro azioni. E’ chiaro che fucilare Moro è stato un gesto incomprensibile e inumano, che non può essere spiegato da nessuna strategia politica perché è in contrasto con qualunque strategia politica. Ora è molto ragionevole discutere di quante responsabilità per la sua morte ricadano sulle spalle di quel pezzo di società politica che rifiutò la trattativa. Benissimo. Ma come si fa a farlo se prima non si mettono dei punti fermi sulla colpa degli esecutori? Da Moretti e dagli altri capi delle Br è questo che ci si aspetta. La volontà di “esporsi” ad una discussione a tutto campo. Che può avvenire solo se loro compiono un passo di chiarezza. Che non ha niente a che fare con la legislazione sui pentiti, con i benefici di legge, con gli sconti di pena. Ha a che fare solo con la politica. Così come solo con la politica ha a che fare l’ipotesi della cosiddetta soluzione politica della questione lotta- armata. Attualmente – ce lo ha svelato ieri Milena Gabanelli – ci sono una cinquantina di ex della lotta armata ancora in carcere. Forse un provvedimento di amnistia non sarebbe irragionevole. E sicuramente ci aiuterebbe ad aprire una discussione vera sulla lotta armata.
Moro, il fallimento della Grosse Koalition all'italiana e l'inizio della fine del terrorismo. Sono passati 40 anni dal rapimento dello statista democristiano, che voleva condurre il paese verso il bipolarismo, rispettando le alleanze occidentali, scrive "Il Foglio" il 16 Marzo 2018. A quarant’anni dal rapimento di Aldo Moro e dall’eccidio della sua scorta, preludio all’assassinio del presidente della Democrazia cristiana, 55 giorni dopo, è ancora difficile elaborare una visione storicamente compiuta di quella vicenda che segnò indelebilmente la vita della democrazia italiana. Nelle versioni giornalistiche ancora si fatica a rintracciare una lettura convincente dei due fenomeni – i governi di compromesso storico e l’apice dell’offensiva terroristica – che caratterizzarono quella fase cruciale. L’assassinio di Moro condusse al fallimento dell’idea di una maggioranza stabile con il Partito comunista e avviò al contempo la lenta ma inesorabile reazione dello stato che portò all’eliminazione del terrorismo rosso. Oggi Moro viene per lo più descritto come il tessitore di una prospettiva di alleanza tra Dc e Pci, ma in realtà il suo disegno era quello – di fronte a un esito elettorale con due vincitori, ambedue però privi della possibilità di agglutinare una maggioranza autosufficiente – di promuovere una transizione che permettesse di arrivare a un confronto bipolare in condizioni di sicurezza per la democrazia interna e per il sistema di alleanze occidentali. Si trascura spesso il contesto internazionale, segnato dalla diffidenza, espressa da un esplicito altolà pronunciato dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt nei confronti di quel disegno, audace e comunque non politicamente infondato. Chi ne tiene conto, peraltro, inclina a teorie complottistiche che descrivono la Brigate rosse come mandatarie di non meglio identificati interessi stranieri. In realtà una delle ragioni che spinsero la Dc ad accettare la lettura morotea del compromesso era la convinzione che l’associazione del Pci alla maggioranza avrebbe ridotto le potenzialità del terrorismo: l’assassinio di Moro fu la dimostrazione di quanto errato fosse questo calcolo e spinse, nel giro di un anno e mezzo ad abbandonare quella politica. Vista in una prospettiva più ampia, la vicenda della “Grosse Koalition” all’italiana si dimostrò un generoso fallimento. Da lì in poi i due protagonisti, la Dc e il Pci, vivono processi degenerativi: la prima costretta a cedere la guida del governo prima a Giovanni Spadolini e poi a Bettino Craxi, il secondo a una ritirata nel ridotto moralistico dell’isolamento politico. Fu l’aggressione terroristica, la pressione internazionale o una debolezza intrinseca a provocare quel fallimento? A questa domanda è difficile rispondere, ma probabilmente uno degli elementi decisivi fu il carattere statico e paralizzante del compromesso a condannarlo. Mentre la società e l’economia cercavano nuove strade, dalle telecomunicazioni private ai fondi di investimento alle agenzie di collocamento non pubbliche, il compromesso era basato su una difesa a oltranza dei monopoli pubblici ormai obsoleti. Il suo obiettivo era stringere la società e l’economia in vincoli ancora più stretti, come dimostra l’unica riforma rilevante di quella fase, l’equo canone. Con Moro si avvia alla conclusione una fase che era stata caratterizzata dall’onnipotenza dei partiti, che aveva creato le strutture di intervento pubblico nell’economia, dalla proprietà statale delle grandi banche e dal ruolo invasivo delle partecipazioni statali (ereditate dal fascismo), alle illusioni di programmazione dello sviluppo del meridione affidate alla Cassa del Mezzogiorno. Quei giorni tragici non segnarono l’avvio di una nuova fase della Repubblica, ma la fine, o almeno l’inizio della fine, di quella precedente.
Terrorismo, dove sono oggi i brigatisti del sequestro Moro, scrivono Giovanni Bianconi e Milena Gabanelli il 9 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Sono passati 40 anni esatti da quella telefonata «parlo a nome delle Brigate Rosse, deve comunicare alla famiglia che il corpo dell’on Aldo Moro si trova in Via Caetani, che è la seconda traversa a destra di Via delle Botteghe Oscure, dentro ad una Renault 4 rossa». I 14 brigatisti coinvolti nel sequestro furono nel tempo tutti arrestati e processati. Dove sono oggi?
Rita Algranati. Aveva segnalato al commando con un mazzo di fiori l’arrivo dell’auto con Moro in via Fani. Fuggita in Nicaragua, poi in Algeria, estradata nel 2004, sta scontando l’ergastolo ma è ammessa ai benefici esterni.
Barbara Balzerani. Partecipò al sequestro. Condannata all’ergastolo, ha ottenuto la liberazione condizionale.
Anna Laura Braghetti e Germano Maccari. Anna Laura Braghetti durante il sequestro era l’intestataria e l’inquilina dell’appartamento dove è stato sequestrato Moro in Montalcini a Roma, insieme a Germano Maccari. Lei è stata condannata all’ergastolo e oggi è in libertà condizionale, lui è morto nel carcere di Rebibbia mentre scontava una pena a 23 anni di reclusione.
Alessio Casimirri e Alvaro Lojacono. Alessio Casimirri presidiava la parte alta di via Fani insieme a Alvaro Lojacono: Casimiri è fuggito in Nicaragua, dove gestisce un ristorante. Lojacono in Svizzera, che non ha mai concesso la sua estradizione in Italia.
Raimondo Etro. Fu il custode delle armi usate nella strage. Condannato a 24 anni e 6 mesi, poi ridotti a 20. Si è pentito e ha collaborato con i magistrati, oggi è in libertà.
Adriana Faranda. È stata la «postina» del sequestro Moro, arrestata nel 1979. In carcere si dissocia dalla lotta armata ed è tornata in libertà dopo 15 anni di carcere.
Quelli che spararono alla scorta: Bonisoli, Fiore, Morucci, Gallinari. Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Valerio Morucci, Prospero Gallinari, spararono sulla scorta di Moro in via Fani. Bonisoli in carcere si è dissociato dalla lotta armata, ha ottenuto i benefici di legge e oggi è libero. Raffaele Fiore fu condannato all’ergastolo, ha ottenuto la liberazione condizionale. Valerio Morucci fu condannato a 30 anni, dopo la dissociazione dalla lotta armata. Scarcerato nel 1994, oggi è in libertà. Prospero Gallinari, Condannato all’ergastolo ha avuto la pena sospesa per motivi di salute. Deceduto nel 2013.
Mario Moretti. La mente del sequestro. Era alla guida dell’auto che ha bloccato il convoglio di Moro e della scorta, e ha condotto gli interrogatori nella «prigione del popolo». Si è dichiarato esecutore materiale dell’omicidio di Moro. Condannato a 6 ergastoli, oggi è in semilibertà e la sera rientra in carcere.
Bruno Seghetti. Era alla guida dell’auto con la quale Moro venne portato via dopo l’agguato. Condannato all’ergastolo, ha ottenuto prima la semilibertà, revocata per un periodo, e oggi è in libertà condizionale.
Il caso Lioce e i sepolti vivi del 41 bis: quando il carcere è inumano. La feroce brigatista è sottoposta a un regime di isolamento psicologico. E ora torna a processo perché ha protestato. Anche per le vedove D'Antona e Biagi, sue vittime, è troppo, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 2 maggio 2018 su "Panorama". Torna alla sbarra Nadia Desdemona Lioce, l'irriducibile brigatista rossa condannata per gli omicidi dei giuslavoristi Massimo D'Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri. Ma stavolta la lotta armata non c'entra. La Lioce è accusata di turbamento della quiete carceraria, perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante schiamazzi o rumori, provocati sbattendo ripetutamente una bottiglia di plastica contro le inferriate della propria cella, disturbava le occupazioni o il riposo delle persone detenute nel reparto 41 bis della casa circondariale di L'Aquila", dove la Lioce, unica detenuta "politica" assieme a quattro mafiose, è rinchiusa, in isolamento, dal 2006.
Perché la Lioce protesta dal carcere. La Lioce, mai pentita né dissociata, non ha perso l'animo ribelle né l'occasione per protestare. Le sue contestazioni contro le presunte vessazioni di cui sarebbe vittima le sono costate oltre settanta provvedimenti disciplinari. Che non sono serviti a mitigare la sua condotta. Per mesi, ogni mattina, per trenta minuti, la Lioce ha messo in atto una delle tipiche forme di protesta esercitate nelle carceri: la "battitura". Da qui la denuncia e il processo al tribunale dell'Aquila, seguito con turbolenta partecipazione da numerosi antagonisti. Dal dibattimento però, oltre alle sue intemperanze, stanno emergendo gli episodi che hanno portato l'ex leader delle Br Pcc (Brigate rosse - Partito comunista combattente) ad armarsi di bottiglietta e portare avanti la sua ultima battaglia. A cominciare dal divieto di tenere in cella più di tre libri per volta e di non poterne acquistare liberamente, nemmeno da biblioteche convenzionate, o di riceverne dall'esterno. Una limitazione motivata dal fatto che l'amministrazione penitenziaria non ha il personale sufficiente per verificare che ogni pagina di un testo, per esempio Guerra e pace, sia stata scritta da Tolstoj e non da un rivoluzionario che possa aver inserito messaggi segreti.
Un isolamento psicologico che le impedisce di parlare a lungo. Altro tema oggetto di discussione è quello della socialità, il tempo cioè che ogni detenuto può trascorrere in compagnia. Il regolamento del 41 bis prevede che si possa godere delle due ore d'aria in compagnia di una sola detenuta, sempre la stessa, scelta dall'istituto. Ma quella assegnata alla Lioce è da tempo malata e non esce dalla cella. Così la brigatista, per oltre un anno, ha trascorso il tempo riservato alla socialità in rigorosa solitudine. E siccome ha diritto a un'ora di colloquio al mese con i familiari e, in caso di bisogno, a due ore al mese con i propri avvocati, è emerso che in un anno solare ha potuto dialogare con qualcuno soltanto per quindici ore in totale. Questa situazione le ha provocato uno stato di isolamento psicologico che le impedisce di poter discorrere normalmente più di qualche minuto quando riceve la visita della madre o della sorella. Altro motivo di attrito sono le frequenti perquisizioni della sua cella, per poter effettuare le quali gli agenti di polizia penitenziaria hanno dovuto sequestrarle la mole di documenti, lettere e giornali che la Lioce aveva raccolto e ordinato per mesi. Arrivando a portarle via anche un laccetto porta occhiali ottenuto da una striscia di stoffa non previsto dal regolamento. Panorama ha provato a chiedere direttamente alla Lioce quali fossero le condizioni della sua detenzione, ma la direzione del carcere non le ha consegnato la lettera con le nostre domande "perché le condizioni detentive dei soggetti in 41 bis possono essere valutate tramite atti ufficiali". E questo nonostante il nuovo regolamento sul 41 bis emanato dal ministero della Giustizia lo scorso ottobre sancisca che "al detenuto è consentito inoltrare e ricevere la corrispondenza a mezzo posta", sia pure dopo il visto della censura. D'altra parte sembra che, soprattutto per ragioni organizzative, molti articoli del nuovo regolamento siano ancora ben lungi dall'essere applicati, come per esempio quelli che concernono il numero di libri, riviste e quotidiani che si possono acquistare. Alla Lioce sarebbe insomma impedito di leggere, studiare, scrivere e persino parlare. Molte associazioni che si occupano di carceri e carcerati parlano di violazioni dei diritti umani e di "tortura psicofisica".
Le vedove D'Antona e Biagi contro l'inumanità del carcere. Ma uno Stato democratico che ha saputo sconfiggere il terrorismo può permettersi di esporsi a queste accuse? Olga Di Serio, la mattina del 20 maggio 1999, aveva appena salutato il marito, il professor Massimo D'Antona, consulente del ministro del Lavoro Antonio Bassolino nel governo D'Alema, quando, in via Salaria, a Roma, il commando della Lioce glielo ha ucciso scaricandogli addosso un intero caricatore di pistola.
La vedova D'Antona conosce bene le strutture carcerarie per averle visitate da parlamentare. E, pur preferendo non intervenire sul caso specifico di Nadia Lioce, riconosce che "in molte carceri ci sono situazioni di difficoltà e tanti aspetti dovrebbero essere migliorati, perché tra quello che è possibile e quello che sarebbe giusto c'è una grossa differenza". E "sarebbe auspicabile che le carceri fossero in grado di adempiere a quello che è il loro compito, e cioè la rieducazione e il reinserimento del detenuto". La professoressa Marina Orlandi, vedova di Marco Biagi, accademico e consulente dei ministeri del Lavoro e del Welfare, ucciso a Bologna dalle Br Pcc mentre rincasava in bici la sera del 19 marzo 2002, ascolta con attenzione le circostanze che hanno portato a un nuovo processo la brigatista. E ritiene "che la Lioce abbia il diritto di poter leggere i libri che desidera. Basta un po' di fantasia per ovviare alle difficoltà burocratiche, ad esempio facendo arrivare in cella i libri da biblioteche sempre diverse e distanti geograficamente". Anche l'impossibilità per la Lioce di parlare con una detenuta perché questa è malata appare un problema risolvibile. "Si tratta di diritti umani che sono previsti anche per chi è in regime di 41 bis" ci dice la vedova Biagi "e bisogna fare in modo che sia possibile esercitarli; se c'è una legge deve essere rispettata e non si può rendere ancora più restrittivo il regime del carcere duro. A volte basta il buon senso e un po' di elasticità". (Articolo pubblicato sul n° 19 di Panorama in edicola dal 26 aprile 2018 con il titolo "Dei relitti e delle pene").
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse: «Sul sequestro Moro c’è una verità accettabile: ci sono cose che non possono venir dette». Alberto Franceschini, oggi 71 anni, ripercorre le tappe del sequestro Moro 40 anni dopo il rapimento e l’uccisione del leader democristiano. - Antonio Ferrari /Corriere TV 17 aprile 2018. Metà aprile di 40 anni fa. Il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro è da un mese prigioniero delle Brigate Rosse, che il 16 marzo lo hanno rapito, dopo aver ammazzato cinque uomini armati: la scorta e l’autista del leader politico, in via Fani, a Roma. Mentre tutti cercano (a parole) Moro, si stanno per realizzare, in poche ore, due episodi inquietanti: il falso comunicato brigatista, con l’annuncio che il cadavere del leader è in fondo al lago della Duchessa (nell’entroterra), e l’indicazione casuale del covo di via Gradoli che, come si scoprirà, era la base dei brigatisti più pericolosi, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Quarant’ anni sono passati, e abbiamo voluto ripercorrere la storia delle Brigate Rosse intervistando uno dei due fondatori del gruppo terroristico: Alberto Franceschini, reggiano, che oggi ha quasi 71 anni, e che appartiene alla squadra di coloro che si ritenevano custodi dell’eredità dei comunisti duri e puri. L’altro fondatore delle BR è infatti il cattolico di ultrasinistra Renato Curcio. Le due componenti si incontrarono in un hotel ligure di Chiavari, e decisero di definire il programma. L’hotel si chiama Stella Maris, e da quel nome nacque l’idea del simbolo con la stella a cinque punte, le ultime due allungate. Alberto Franceschini, che non ha mai ucciso nessuno, ha accettato di raccontare la storia e soprattutto gli errori mostruosi e le nefandezze del gruppo terrorista, da cui si è dissociato. Ha pagato il suo conto con la giustizia, e ora dice che sulla vicenda Moro, che seguì dal carcere, si è cercata «una verità accettabile», perché vi erano cose che non potevano essere dette. Il fondatore in realtà è l’unico che parla dicendo cose concrete, mentre gli altri (tutti, compreso Curcio) o tacciono o raccontano soltanto parte della verità confessabile, condendola di silenzi, forse frutto di patteggiamenti, e di menzogne. Ecco perchè questo documento audio-video, di cui trasmettiamo la prima di tre puntate, è importante. E’ stata l’ossatura originaria dei lavori della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro, costretta a chiudere nel dicembre scorso per la fine della legislatura. La Commissione ha concluso con una sentenza lapidaria: «In via Fani c’erano anche le Brigate Rosse». Terribile sentenza!
Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse: «L’interrogatorio di Moro? Non credo l’abbia fatto Moretti (che si credeva Lenin). E incontrammo il Mossad». Alberto Franceschini, oggi 71 anni, ripercorre le tappe del sequestro Moro 40 anni dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della Dc. «La lotta armata», riconosce oggi, «fu un errore gravissimo». CorriereTV 28 aprile 2018. Mancano pochi giorni al feroce epilogo di una delle più grandi tragedie italiane, che si consumò 40anni fa, con la strage di via Fani (16 marzo) e con l’assassinio di Aldo Moro (9 maggio). Il cofondatore delle Brigate rosse Alberto Franceschini, apertamente dissociato e oggi lontano anni luce dall’organizzazione terroristica, ripercorre, anche in questa seconda puntata dell’intervista al Corriere della Sera, le tappe di una storia di errori e di orrore (qui trovate la prima puntata). Sono passati alcuni giorni dall’anniversario di due eventi che moltiplicarono l’angoscia diffusa in Italia e nel mondo: il falso comunicato del Lago della Duchessa, compilato dai servizi segreti, con l’annuncio della morte di Moro, affondato nelle viscere del profondo specchio d’acqua nel cuore del nostro Paese. Fu il primo segnale, per dimostrare che a quel punto l’ostaggio doveva morire. E poi la scoperta, tragica e assieme ridicola, del covo di via Gradoli, dove due capi delle BR, indisturbati, avevano ordito la trama assassina. Franceschini, come è noto, era in prigione, arrestato anni prima assieme al gruppo originario delle BR. E ora ripercorre i tanti punti oscuri di questa storia esemplare di fatti, porcherie, deviazioni, manipolazioni e silenzi, forse risultato di irriferibili scambi sottobanco, Mario Moretti, il capo militare delle BR, è — a suo avviso — un capo per modo di dire. Lo è nominalmente, ma di lui, delle sue ardite giravolte, dei suoi continui viaggi in Francia, per tanto tempo si è saputo quasi niente. L’uomo che si credeva Lenin, vittima di un ego smisurato, culturalmente non certo in grado di tenere testa ad Aldo Moro, probabilmente è soltanto il postino delle domande compilate da altri, nella cosiddetta prigione del popolo. Forse il suggeritore era il professor Giovanni Senzani, autore di numerose nefandezze terroristiche, che la Commissione parlamentare sul sequestro e l’assassinio di Moro ha individuato come collegato ai nostri servizi segreti. Senza tentennamenti, Alberto Franceschini denuncia il ruolo della scuola parigina «Hyperion» e del suo conduttore Corrado Simioni. Poi attacca le manovre francesi, i sospetti di quelle inglesi, e la certezza —sono le sue parole — che «le BR hanno avuto rapporti con il Mossad, il servizio segreto israeliano». Circostanza non nuova, se ne parlò anche ai tempi di Carlo Fioroni. In sostanza, mentre nessuno sapeva ufficialmente dove si trovassero, il Mossad raggiunse le BR in tutte le fasi delle loro scorribande terroristiche. Patrizio Peci, il pentito più noto, ne parlò a lungo con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Franceschini conferma e aggiunge: «Non ci chiesero di uccidere, ma di fare ciò che volevamo. Offrivano armi e assistenza. Il loro obiettivo dichiarato era destabilizzare l’Italia».
Alberto Franceschini, co-fondatore Br: «Perché sono diventato brigatista: volevamo la guerra allo Stato. Un fallimento reale». A 40 anni dall’uccisione dello statista democristiano Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, le parole e il pentimento di uno dei fondatori dell’organizzazione terroristica, scrive Antonio Ferrari l'8 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Siamo all’epilogo della tragedia che ha vissuto l’Italia con il sequestro e l’assassinio del presidente della DC Aldo Moro, tragedia che si concluse il 9 maggio di 40 anni fa quando il cadavere fu restituito in via Caetani, a Roma, in una simbolica metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista, quasi a dimostrare simbolicamente le responsabilità di entrambi. Quaranta anni dopo il mistero dei misteri - e cioè chi ha pianificato, organizzato, gestito e concluso il crimine più odioso della storia della Repubblica, che per noi equivale a quello che per gli americani è stato l’11 Settembre 2001 -, è ancora un fitto enigma e forse lo rimarrà per sempre. Personalmente mi colpiscono le conclusioni della seconda Commissione Parlamentare sul caso Moro, che in qualche misura confermano le intuizioni del mio libro «Il Segreto». I parlamentari hanno detto che «in via Fani c’erano anche le Brigate Rosse», lasciando intendere che altre forze partecipavano all’operazione, e il vicepresidente del Pd e in sostanza della Commissione, Gero Grassi, ha dichiarato: «Non abbiamo una completa ricostruzione di quanto accaduto. Sappiamo però che tutto quello che ci avevano raccontato non sta in piedi, non è vero». Tanto basta per spiegare che la verità venduta per 40 anni è un opportuno calmante per placare l’opinione pubblica turbata da quella tragedia. Sapremo mai la verità? Credo proprio di no. Lo sostiene con convinzione l’Ambasciatore Sergio Romano, illustre editorialista del Corriere, e ritengo abbia pienamente ragione. Tutto ciò che ha circondato il caso Moro sembra opaco, o meglio melmoso, inquinato da sospetti e manipolazioni. Si conclude, con la terza puntata sul Corriere Tv, l’intervista ad Alberto Franceschini, cofondatore delle Brigate rosse, dissociato dall’organizzazione e tuttora alla ricerca di colmare i tanti buchi neri della storia del terrorismo italiano. «Fare luce» è il suo mantra. Ecco perché si domanda il perché del silenzio di Renato Curcio, che con lui fu protagonista della prima stagione delle BR, quando I terroristi non uccidevano ancora; ed ecco perché ammette con onestà la catena di errori commessi. «Con la lotta armata abbiamo favorito quelli che volevamo combattere». Franceschini confessa le ubriacature dei miti e della propaganda. «Ci convincevamo, studiando Lenin, che non ci fosse poi grande differenza tra la democrazia e la dittatura. Errore mortale, che abbiamo pagato sulla nostra pelle». Sono passati 40 anni dal delitto Moro. Ma oggi uno spiraglio di luce s’intravede. Luce assai fioca, però meglio del buio totale. E di questo bisogna ringraziare la Commissione Parlamentare, che ha dovuto chiudere i lavoro con la fine della legislatura nello scorso dicembre. Le conclusioni, approvate dal Parlamento, confermano la distanza tra verità giudiziaria e verità storica. Ma confermano soprattutto che è stato fatto troppo poco per avvicinarsi davvero alla verità giudiziaria. Chissà! Forse ne sapremo qualche frammento in più fra 10 anni, per il cinquantenario.
INTERVISTA VIDEO A UNO DEI DUE FONDATORI DELLE BRIGATE ROSSE. Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse: «Sul sequestro Moro c’è una verità accettabile: ci sono cose che non possono venir dette». Alberto Franceschini, oggi 71 anni, ripercorre le tappe del sequestro Moro 40 anni dopo il rapimento e l’uccisione del leader democristiano, scrive Antonio Ferrari il 17 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Metà aprile di 40 anni fa. Il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro è da un mese prigioniero delle Brigate Rosse, che il 16 marzo lo hanno rapito, dopo aver ammazzato cinque uomini armati: la scorta e l’autista del leader politico, in via Fani, a Roma. Mentre tutti cercano (a parole) Moro, si stanno per realizzare, in poche ore, due episodi inquietanti: il falso comunicato brigatista, con l’annuncio che il cadavere del leader è in fondo al lago della Duchessa (nell’entroterra), e l’indicazione casuale del covo di via Gradoli che, come si scoprirà, era la base dei brigatisti più pericolosi, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Quarant’ anni sono passati, e abbiamo voluto ripercorrere la storia delle Brigate Rosse intervistando uno dei due fondatori del gruppo terroristico: Alberto Franceschini, reggiano, che oggi ha quasi 71 anni, e che appartiene alla squadra di coloro che si ritenevano custodi dell’eredità dei comunisti duri e puri. L’altro fondatore delle BR è infatti il cattolico di ultrasinistra Renato Curcio. Le due componenti si incontrarono in un hotel ligure di Chiavari, e decisero di definire il programma. L’hotel si chiama Stella Maris, e da quel nome nacque l’idea del simbolo con la stella a cinque punte, le ultime due allungate. Alberto Franceschini, che non ha mai ucciso nessuno, ha accettato di raccontare la storia e soprattutto gli errori mostruosi e le nefandezze del gruppo terrorista, da cui si è dissociato. Ha pagato il suo conto con la giustizia, e ora dice che sulla vicenda Moro, che seguì dal carcere, si è cercata «una verità accettabile», perché vi erano cose che non potevano essere dette. Il fondatore in realtà è l’unico che parla dicendo cose concrete, mentre gli altri (tutti, compreso Curcio) o tacciono o raccontano soltanto parte della verità confessabile, condendola di silenzi, forse frutto di patteggiamenti, e di menzogne. Ecco perchè questo documento audio-video, di cui trasmettiamo la prima di tre puntate, è importante. E’ stata l’ossatura originaria dei lavori della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro, costretta a chiudere nel dicembre scorso per la fine della legislatura. La Commissione ha concluso con una sentenza lapidaria: «In via Fani c’erano anche le Brigate Rosse». Terribile sentenza!
Antonio Ferrari: Esattamente quarant’anni fa c’è stata la strage di via Fani con il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e l’assassinio di 5 uomini armati: tre di scorta e due autisti. Lei era in prigione come cofondatore delle Brigate Rosse. Quale è stata la vostra reazione?
Alberto Franceschini: Noi l’abbiamo appresa, ora non mi ricordo, la mattina, verso le nove, dieci, nove e un quarto.
Antonio Ferrari: Quindi subito?
Alberto Franceschini: Subito. Da una radiolina che…perché nonostante, appunto, il carcere, potevamo avere delle piccole radioline per ascoltare. Appunto, arrivò all’improvviso questa notizia del sequestro e l’uccisione degli uomini della scorta e di Moro sequestrato. Immediatamente, la reazione prima fu quella di quasi incredulità. Cioè, come dire, ma forse è sbagliata, non è vero. Poi, invece, poi ci siamo resi conto che era vera. Verissimo. Che era successo davvero questo fatto. E la prima sensazione, appunto, fu di gelo. Cioè, nessuno di noi eravamo in tre in cella insieme e ci guardavamo e non dicevamo nulla.
Antonio Ferrari: Gelo vuol dire che avevate paura che lo Stato reagisse con voi?
Alberto Franceschini: avevamo paura anche, sì avevamo certamente anche questa paura, perché, ad esempio, in Germania rispetto ai membri della Raf che erano in carcere furono uccisi. Almeno così fu la versione ufficiale. E quindi noi temevamo che in qualche modo ci sarebbe stata una ritorsione nei nostri confronti. Anche perché La Malfa, allora, aveva fatto su il fondo de “Il Corriere della Sera” un fondo dove sosteneva che se appunto Moro veniva ucciso. Comunque se erano stati uccisi della scorta dovevano…noi dovevamo pagare un prezzo.
Antonio Ferrari: Come si ritiene, Franceschini, un pentito, un dissociato, uno che comprende che avete fatto dei tragici errori, o no?
Alberto Franceschini: Vede, potrei riconoscermi in tutti e quattro, vedendo il valore che possono avere le singole affermazioni. Però dico la...indubbiamente, dal punto di vista giuridico, mi riconos…sono un dissociato. Questo è…che vuol dire che facevo parte di una associazione dalla quale mi sono separato. Dalle Brigate Rosse la separazione, ecc.
Antonio Ferrari: Voi odiavate, voi combattevate, persino, la nostra democrazia. Combattevate il nostro Stato. Però mi dica questo. In fondo lo Stato democraticamente si è comportato in maniera corretta con voi, con l’organizzazione della quale lei è cofondatore. Però non credo che l’organizzazione con quelli che stavano fuori lei non ha mai ucciso nessuno e questo lo so e questo va detto. Beh non avete agito di conseguenza. Voi avete ucciso. Voi, l’organizzazione ha ucciso, mentre voi avete pagato il vostro prezzo ma nessuno di voi vi ha toccato. Avete sbagliato ad attaccare la democrazia? Lo dica chiaro e tondo. La prego, anche in confronto dei giovani che l’ascoltano.
Alberto Franceschini: Intanto, non per giustificare, ma bisogna tornare un attimo al contesto di quegli anni. Dove c’era uno slogan determinante, che valeva per tutti, che era quello che lo Stato si abbatte e non si cambia. Questo era lo slogan che dovevamo anche…nei cortei. Quindi il discorso che facevamo allora, non solo come BR, ma era un discorso più generale di quello che fu il movimento che nasce dal ’68 in avanti, ecc., era esattamente quest’idea precisa: che bisognava organizzarci che dallo Stato, in quanto Stato democratico, non ci sarebbe stato nessun cambiamento importante delle cose, quindi bisognava attrezzarci per distruggerlo.
Antonio Ferrari: Francescini, però, sostenere che lo Stato va abbattuto, è stato, credo, un gravissimo errore e che avete pagato anche caro, o no?
Alberto Franceschini: Certo. Per me è una contraddizione che rivivo dentro e che mi sono vissuto dentro e che mi vivo ancora dentro. E’ proprio questa, cioè…le Brigate Rosse hanno ammazzato l’ostaggio che loro tenevano in galera…avevano arrestato, diciamo così. Moro e lo hanno ammazzato. Noi eravamo stati arrestati da questo Stato. Eravamo in galera...no…però nessuno ci ha mai ammazzato. Quindi da questo punto di vista io vivevo questa contraddizione. Fuori di dubbio che lo Stato…lo Stato democratico si era dimostrato più generoso, ma anche più corretto dal punto di vista politico, di quanto non lo eravamo noi.
Antonio Ferrari: Franceschi, lei ha partecipato al sequestro del giudice Mario Sossi a Genova e Mario Sossi, che a Genova era un personaggio molto discusso, che, però, era un magistrato di questo Stato. L’avete tenuto prigioniero per parecchi giorni e poi lei lo ha salvato. Perché una parte delle Brigate Rosse voleva ammazzarlo e lei disse di no. Ecco chi era che lo voleva ammazzare e perché lei disse di no?
Alberto Franceschini: In realtà la discussione all’interno nostro fu molto complicata. Perché da una parte noi avevamo detto che: o liberavano…venivano liberati alcuni compagni in galera da anni, oppure noi avremmo ammazzato Sossi. Quindi questa forma di ricatto. Quindi se uno la doveva ragionare dal punto di vista formale, doveva…diceva che abbiamo detto che lo uccidiamo se non liberano i compagni, se non liberano i compagni, noi ovviamente lo uccideremo. Questa era l’impostazione all’interno del dibattito nostro. Però, ovviamente, era complicata la cosa. Non era sempl…almeno per me personalmente c’era anche un fattore emotivo di ammazzare…di uccidere una persona che tu avevi tenuto…gli avevi dato da mangiare, lo avevi quasi allevato per trentacinque giorni. Quindi non era così facile togliere la vita…
Antonio Ferrari: Ma chi vuole ammazzarlo davvero, chi voleva…
Alberto Franceschini: Quello che dicevo prima. Una parte dell’organizzazione era dell’idea del fatto che fosse fondamentale mantenere una coerenza da un punto di vista rivoluzionario. Che poi quello, credo in qualche modo, si sia riverificato nel sequestro Moro.
Antonio Ferrari: E’ vero che quello che premeva di più per abbattere Mario Sossi, ammazzarlo fosse un certo Francesco Marra, che non era neanche uno dei vostri, ma era un infiltrato?
Alberto Franceschini: Sì. Lui era uno di quelli che dicevano che andava ammazzato.
Antonio Ferrari: E chi era questo Marra?
Alberto Franceschini: Ma…era un pescivendolo milanese. Era un compagno…che ritenevamo immediatamente un compagno che era entrato nell’organizzazione e poi, invece, anni e anni dopo scoprimmo che era…scoprii io che era un uomo degli affari riservati.
Antonio Ferrari: …e quindi dei Servizi Segreti. Franceschini, lei è l’unico, per quanto mi risulti che ha accettato di parlare. Che parla francamente senza nascondere nulla. Come mai i suoi compagni, anche quelli, diciamo della prima fase, quelli del nucleo storico che hanno pagato tutti un prezzo molto pesante, giusto secondo me, a questa società, come mai non vogliono parlare e come mai anche loro raccontano bugie?
Alberto Franceschini: Mah…c’è, potemmo dire, una verità accettabile, oppure una verità di regime. Su tutte ste vicende, soprattutto in particolare sul sequestro Moro ci sono stati una serie di movimenti, diciamo così, dal punto di vista sia giudiziario, sia dal punto di vista politico, per chiudere la partita in un certo modo. Perché, chiaramente, è talmente deflagrante il sequestro e l’uccisione, poi, di Moro, che in qualche modo, appunto, uno Stato democratico fa fatica ad accettare.
Antonio Ferrari: Sì certo, però, voglio dire, con Moro si ripropone una chiave nuova esattamente come quello che era successo con Sossi e cioè, c’erano alcuni che avrebbero voluto chiuderla subito e lei ha detto, credo alla Commissione Parlamentare sul caso Moro, lei ha detto in fondo noi non l’abbiamo ucciso, cioè noi…quelli che stavano fuori, che avevano in mano Aldo Moro, non l’avevano ucciso subito, perché il problema non era creare una vittima…era smontare psicologicamente una persona, un uomo. Ma questo lo volevano le Brigate Rosse, secondo lei, o lo volevano i Servizi Segreti? La Commissione stessa dice: “in via Fani c’erano, anche, le Brigate Rosse”. Mi sembra una dichiarazione pesante.
Alberto Franceschini: Sì, la dichiarazione è pesante perché è un’affermazione che arriva da una struttura istituzionale come la Commissione. Ci sono alcune cose che vengono…che vengono…che possono essere dette, quindi accettabili, ed altre cose che non possono essere accettabili, quindi non vengono e non possono venir dette.
Antonio Ferrari: Non so…c’è un ministro che aveva detto: “abbiamo sul tavolo determinate cose che tutti posso più o meno sapere. Poi abbiamo altre sotto il tavolo che è bene non si sappiano mai. Che cos’è che non si deve sapere mai Franceschini? Qual è il grande segreto? L’eterodirezione delle Brigate Rosse, cioè le Brigate Rosse che prendevano ordini da fuori come mi sembra che lei stia sospettando, oppure c’è qualcos’altro? Complicità all’interno dello Stato? O cose di questo genere? Lei in sintesi come la vede?
Alberto Franceschini: La vedo che, certamente, ci sono state una serie, forse, di complicità o forse di mosse giocate sulla scacchiera, diciamo, dei sequestri, di tutte le sue conseguenze. Indubbiamente c’era chi spingeva affinchè l’ipotesi dell’uccisione fosse realizzata o comunque si opponeva alla liberazione per varie motivazioni. Altre situazioni, invece, che, in qualche modo, cercavano di salvare Moro. Per esempio tutta la sinistra democristiana, gli amici di Moro che però, la stessa parte… un’altra parte, per questo il gioco è complesso, un’altra parte della DC, ovviamente, non voleva che questa parte, la sinistra democristiana, raggiungesse l’obbiettivo: la liberazione di Moro. Per cui ci sono state certamente una serie di interventi. Per esempio la…da cui sono documentati, come un americano “Pisnick”, che lui stesso dichiara, un anno fa, poco tempo fa, ha dichiarato che era stato mandato dagli Stati Uniti, richiesto da Cossiga, allora Ministro degli Interni, e il suo compito era che Moro fosse ucciso o che Moro non doveva salvarsi.
Antonio Ferrari: Ma secondo lei, Franceschini, Moro era condannato a morte nel momento in cui viene rapito oppure viene deciso dopo di condannarlo a morte?
Alberto Franceschini: Io ho il sospetto che era condannato a morte sin dall’inizio, che difficilmente sarebbe…avrebbe dovuto salvarsi, anche se lui ha fatto di tutto…è stato un abile politico nel difendersi, nel cercare di salvarsi. E’ stato bravissimo da questo punto di vista. Però non poteva purtroppo vincere la partita perché c’erano forze ben più importanti che…
Antonio Ferrari: Italiani o internazionali?
Alberto Franceschini: Italiani e internazionali, che non tanto si ponevano…volevano eliminare Moro, anche questo, ma volevano soprattutto eliminare Moro, non tanto…non semplicemente fisicamente, ma come progetto politico. Ciò che andava distrutto, in qualche modo, era l’impianto generale di Moro. Quindi bisognava distruggere la persona di Moro. Se Moro fosse uscito vivo dalla situazione, lui sarebbe stato un problema: sia per quelli che lo volevano morto, sia per quelli che, invece, lo volevano vivo.
Antonio Ferrari: Lei...facciamo un’ipotesi per fortuna realistica. Immaginiamo che lei fosse ancora, durante il caso Moro, il responsabile politico delle Brigate Rosse, lei cosa avrebbe fatto: lo avrebbe liberato o lo avrebbe ucciso, avrebbe accettato di ucciderlo, lei che non ha mai ucciso nessuno?
Alberto Franceschini: Se devo dire una follia pura, lo avrei proprio portato in Parlamento. Cioè l’avrei portato nei pressi…con tutti i brigatisti dietro, di modo che la partita si chiude e vediamo di trovare una soluzione politica in tutte le vicende del terrorismo di quegli anni.
Antonio Ferrari: Un sogno…
Alberto Franceschini: Sì, un assoluto sogno…
Antonio Ferrari: Quindi come Brigate Rosse avete fallito.
Alberto Franceschini: Assolutamente. Certo gli obbiettivi che noi avevamo come punto di partenza si sono dimostrati assolutamente sbagliati!
INTERVISTA AD ALBERTO FRANCESCHINI, CO-FONDATORE E CAPO STORICO DELLE BRIGATE ROSSE di giovedì 27 settembre 2007 di Massimiliano Vitelli su "Les Enfants Terribles" e postato da René Querin.
Prima domanda, semplice. Chi è Alberto Franceschini oggi?
La domanda è semplice, la risposta è difficile. Alberto Franceschini oggi spero sia una persona normale. Ecco, diciamo che la mia più grande ambizione oggi è essere una persona normale.
Si sente un po’ un miracolato? Una persona a cui la vita ha dato una seconda possibilità?
Si. Diciamo che può essere paradossale dire che mi sento fortunato. Però è così, nel senso che avrei potuto, in quegli anni, subire ferite gravissime, morire. In realtà ne sono uscito tutto sommato abbastanza integro quindi, certamente, posso dire di si.
Le Brigate Rosse nascono da un’ideologia. Questa ideologia, con il tempo, quanto ha influito con la scelta del passaggio alla lotta armata?
L’ideologia delle Brigate Rosse ha una sua storia. L’ho scritto anche in diverse occasioni, il discorso della resistenza tradita, la storia del filo rosso. Nel libro Mara Renato ed io questo discorso viene sviluppato in maniera abbastanza esauriente. Posso dire che questo tipo di cultura, che viene dalla resistenza, dalla lotta armata contro il fascismo ed il nazismo, per certi aspetti si pensava non dovesse terminare come in effetti è terminata. Probabilmente non si sarebbe trasformata in attività pratica se non ci fosse stata la rottura storica rappresentata dal sessantotto/sessantanove. Quegli anni erano anni che hanno rimesso in discussione qualunque cosa.
L’utopia, quindi il raggiungimento di un obiettivo considerato personalmente giusto, può travalicare i mezzi per raggiungerlo? Il fine giustifica i mezzi? O almeno, per voi li giustificava?
All’epoca si, per noi li giustificava. Il fine giustificava i mezzi. Adesso sono assolutamente convinto invece che i mezzi sono i fini. Non puoi separare una certa finalità da un certo mezzo. Se tu pensi che il mondo, il mondo del futuro deve essere un posto di pace non puoi tentare di realizzarlo usando strumenti di guerra.
Quindi la sua opinione adesso è maturata in maniera diversa?
Si, assolutamente.
Il suo salto nella clandestinità e nella lotta armata possono avere avuto, in parte, una spinta dal conflitto generazionale? Suo padre avrebbe preferito che lei restasse nel P.C. per combatterlo dall’interno…
Si. Certamente c’è stato anche un conflitto generazionale che però è un conflitto caratteristico di quegli anni. Una delle chiavi di lettura del sessantotto è anche questo. La rivolta dei figli contro i padri.
Suo nonno era di un’idea più vicina alla sua, c’è stato il famoso salto di generazione?
Esatto. Ma quella credo sia una caratteristica dello sviluppo umano…
Avete mai pensato, durante gli anni di piombo, che stavate facendo qualcosa che era più grande di voi?
Si. Questa è la sensazione che abbiamo avuto da un certo momento in poi. Soprattutto dal sequestro del magistrato Sossi. Lì ci siamo resi conto che, da come reagivano i giornali, da tutta una serie di elementi, da come si era mosso lo Stato nei nostri confronti, eravamo diventati un soggetto importante, pesante. Questo personalmente mi produceva dei problemi. Perché, potrà apparire anche strano ora, l’inizio per noi è stato abbastanza ludico, uso questa parola. Un inizio dove non ci sono fatti di sangue…
Poi gli eventi hanno preso un po’ la mano sulle vostre azioni/intenzioni?
Si, in un certo senso. Ad un certo punto gli eventi ti trascinano…come un sasso.
C’era più in voi un senso di gratificazione, quello di riuscire a muovere degli elementi così importanti, o più un senso di timore, la paura di stare andando “oltre”?
Beh… l’elemento di gratificazione era forte perché altrimenti avremmo lasciato stare subito. Ad esempio, durante il sequestro del magistrato Sossi la televisione parlava non tanto di noi come persone ma dei fatti che noi compivamo. Chiaramente questo tipo di dimensione è indubbio che ci gratificasse, nel senso che ci faceva ritenere allo stesso livello, alla stessa altezza, di chi comandava il Paese. Eravamo il “contro potere”.
Quando le capita adesso di sentir parlare delle B.R. cosa pensa? Quali sono i suoi sentimenti?
In realtà il mio sentire è contraddittorio. Da una parte c’è certamente un tentativo di allontanarmi ma, contemporaneamente, dall’altra mi sento anche una grande responsabilità sulle spalle. Una responsabilità a cui non mi posso sottrarre.
C’è qualcosa nelle ultime B.R. che riprende un po’ le vostre idee?
Per quello che ho visto leggendo dai giornali, perché le informazioni sono tutte mediate dai giornali, io non ci vedo molto di simile, quasi nulla. Anche perché il mondo è talmente cambiato negli ultimi 30/40 anni che veramente non ha nessun senso rifarsi ad una esperienza così vecchia, ormai datata, come la nostra.
E nelle B.R. degli omicidi Biagi e D’Antona?
Assolutamente no. Dal punto di vista politico c’è una distanza abissale rispetto al nostro modo di agire.
Tutti questi “no” portano dritti ad una domanda. Si sente un po’ defraudato, essendone stato l’ideatore, di quel simbolo e di quel nome?
In parte si. Infatti, scherzando, tante volte dico che se noi, io e Renato (Curcio), avessimo depositato il marchio a questo punto saremmo ricchissimi. Seriamente, invece, il vero problema è che ora viene usato in un modo totalmente diverso da quello che noi, all’epoca, credevamo giusto.
Sequestro Moro. Lo Stato cosa avrebbe dovuto ammettere o concedere per farvi ritenere soddisfatti e salvare la vita di Aldo Moro?
Questa è una domanda a cui non è semplice rispondere. È il punto centrale di tutta la gestione del sequestro. Probabilmente se lo Stato avesse liberato qualcuno,… qualcuno che era malato, non posso oggi garantire che questo avrebbe potuto salvare Moro, ma certamente avrebbe messo in grave difficoltà chi gestiva il caso. Era questa infatti, secondo me, l’unica possibilità che avrebbe potuto salvare la vita di Aldo Moro.
Cosa ha pensato quando ha saputo della notizia della sua uccisione?
Ce l’aspettavamo. Visto da una parte l’atteggiamento dei due grandi partiti politici dell’epoca, D.C. e P.C., di chiusura netta e dall’altra l’incapacità dei nostri compagni fuori di rompere questo muro così potente che si era creato. Era inevitabile che si giungesse purtroppo a quell’evento.
Secondo lei è uscita tutta la verità o ci sono ancora delle zone d’ombra?
Di zone d’ombra ce ne sono tantissime. Sono state fatte diverse commissioni parlamentari, ed anche in queste, ci sono zone d’ombra. Appaiono delle inadempienze dello Stato che sono gravissime ed è impossibile accettare che ci fosse uno Stato così inefficiente. Questo porta a pensare che più che di inefficienza dello Stato, c’era un’inefficienza “voluta” e come tale, di fatto, una complicità.
Il caso Moro gestito da Mario Moretti. Nel vostro arresto, suo e di Renato Curcio, la posizione di Moretti è un po’ al limite…
Si. C’è questa ambiguità del suo comportamento che può essere giustificato, non necessariamente con una volontà di non aiutarci scappare, a sottrarci all’arresto, ma con una sua sostanziale incapacità in certe situazioni.
Poi però Moretti diventa il capo delle Brigate Rosse…
Si. Certo, la cosa fa un po’ pensare. Ci sono tutta una serie di arresti, che avvengono nel giro di un anno e mezzo, l’uccisione di Mara, il secondo arresto di Renato, che di fatto portano a far si che le Brigate Rosse finiscano nelle mani di Moretti che, di fatto, è il personaggio più importante rimasto fuori. Oltretutto lui da questi arresti si salva spesso per il rotto della cuffia, da ricostruzioni fatte dai carabinieri e da lui stesso. Quindi resta il dubbio che, in qualche modo, qualcuno lo abbia favorito. Indipendentemente poi dal fatto che lui ne fosse a consapevole o meno.
All’epoca, com’erano i vostri rapporti con le altre organizzazioni europee di estrema sinistra, in particolare la Raf di Baader e della Meinhof?
Con la Baader-Meinhof i nostri rapporti si interrompono nel 1972 quando vengono arrestati. Noi, i rapporti più stretti con i movimenti tedeschi, almeno fino al mio arresto, li tenevamo con un gruppo di Berlino, un gruppo che attuò il sequestro di un dirigente democristiano tedesco, Lorenz. Era un gruppo meno militarista di quanto fosse la Raf. Più simile a noi.
In quegli anni, in Italia, da una parte c’eravate voi, dall’altra c’erano i N.A.R., Valerio Fioravanti. Qual era la vostra idea sulle posizioni “al di la del fiume”?
Noi ritenevamo che la destra fosse strettamente legata a doppio filo a settori dello Stato, del potere. Il famoso discorso della strategia del colpo di Stato. In particolare questi gruppi, Ordine Nero, Ordine Nuovo, erano assolutamente funzionali a questo progetto. Al progetto delle forze armate in particolare che cercavano una soluzione, come si diceva allora, alla greca o alla cilena della crisi italiana. Questa, mi sembra, fosse la funzione di questi gruppi.
Quindi non avete mai pensato all’estrema destra, come ad un possibile alleato contro lo Stato?
Assolutamente no. Proprio perché la pensavamo come complice dello Stato.
Attualità. Come ha vissuto il cambiamento del nome del P.C.? Da P.C. a P.D.S. a D.S. ed a breve, Partito Democratico. Vede un po’ il compimento della teoria berlingueriana?
Certamente. Era indubbio che i partiti comunisti con la crisi dell’Unione Sovietica, con il crollo del muro di Berlino, implodessero. Diciamo che l’intelligenza politica di Berlinguer e dei comunisti italiani è stata quella di prevederlo, di capire che il mondo cosiddetto orientale era in crisi fortissima e quindi di cercare in qualche modo di costruirsi un’alternativa. Per cui quando c’è stato il crollo del muro di Berlino all’interno del Partito Comunista c’era già un gruppo dirigente che cercava nuove strade.
Com’erano i rapporti tra B.R. e P.C.?
Era un rapporto conflittuale perché una parte del P.C., minoritaria, in qualche modo ci era vicina mentre la parte maggioritaria, quella che noi chiamavamo berlingueriana, non voleva modificare più di tanto lo Stato. Quello Stato.e le sue regole democratiche gli andavano bene.
Per chiudere, come si sente oggi nei confronti della lotta armata?
Assolutamente estraneo. Mi sembra poi che chi pensa di fare la lotta armata oggi sia così fuori dal mondo…Viviamo in un’epoca talmente diversa che, di quell’esperienza, di quegli anni nostri, si può parlare solo in termini di ricordi storici.
C’è qualcosa che invidia Alberto Franceschini oggi all’Alberto Franceschini degli inizi?
Beh… posso invidiare il fatto che allora avevo 20 anni oggi ne ho 60. Ma, tutto sommato, come si diceva all’inizio mi ritengo fortunato e quindi... non ho niente da invidiare.
E l’Alberto Franceschini di 20 anni invidierebbe qualcosa a quello di oggi?
Non lo so. Tante volte mi sono posto le domande: “Se il 68 fosse venuto un anno o due dopo? Se io fossi nato leggermente prima? Sarebbe bastato forse un anno prima…Probabilmente mi sarei laureato, avrei fatto l’ingegnere, me ne sarei andato in giro per il mondo…Probabilmente avrei fatto tutta un’altra vita.
Caso Moro, l'ex br Franceschini: "Moretti una spia? Riduttivo, si sentiva Lenin". Il fondatore br alla Commissione Moro: "Hyperion 'parlamento' degli 007 internazionali". "Dalla Chiesa fu fermato a un passo dalla sconfitta dei brigatisti". "All'Asinara temevamo di essere uccisi". Fioroni: "Strano il salto di capacità militare e culturale dopo il suo arresto", scrive Alberto Custodero il 27 ottobre 2016 su “La Repubblica”. "Spia? Una definizione troppo riduttiva per Mario Moretti. Io sono convinto che abbia giocato le sue carte in un certo modo, c'è un livello psicologico da tenere presente, lui crede di essere Lenin, lui era per alcuni compromessi su cui io non ero d'accordo". In tre ore di audizione, Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse che fece poi autocritica, autore, tra l'altro, del libro "Mara, Renato e io" di Franco Giustolisi e Pier Vittorio Buffa (in carcere all'Asinara durante il caso Moro), parla così dell'ex tecnico della Sit-Siemens a capo delle Br che hanno gestito il sequestro dello statista democristiano. La sua audizione lascia agli atti della Commissione parlamentare d'inchiesta Moro presieduta da Giuseppe Fioroni nuovi dubbi su Hyperion, la scuola di lingue francese fondata da Simioni, Berio e Mulinaris, dopo la rottura con le Br, nella prima metà degli anni '70. Franceschini avverte: "I dietrologismi non mi interessano, io faccio una critica politica a Moretti, deve ancora giustificare il fatto che ha distrutto un'ipotesi politica, in base a una linea politica sballata". "Senza copertura dei servizi esteri si regge la storia dei 55 giorni?", gli chiedono i parlamentari della Commissione. "Sono pensieri che ho, ma è importante la riflessione politica della nostra esperienza", risponde. L'ipotesi che ci fossero altri personaggi, rispetto a quelli conosciuti e processati, a gestire l'operazione militare di via Fani e, soprattutto, l'interrogatorio di Aldo Moro, durante i 55 giorni resta forte. Franceschini, in particolare, ricorda come seppe dal generale Inzerilli, uomo di Gladio, del "ruolo chiave che svolgeva Hyperion, (scuola fondata da brigatisti fuoriusciti a Parigi, nel '77, ndr) una specie di parlamento degli 007, che poneva ai palestinesi le regole dei servizi internazionali, dai francesi ai tedeschi". Poi un riferimento al Mossad: "Gli israeliani ci cercarono chiedendoci cosa ci servisse, 'a noi interessa che voi ci siate, non vogliamo indicare obiettivi, ci dissero. Ma noi rifiutammo". "I servizi potrebbero aver condizionato il supercla - sottolinea il fondatore delle Br -. Noi nel '76 siamo finiti, a seguito delle operazioni del generale Dalla Chiesa. Ma va rilevato come proprio a Dalla Chiesa" a un passo dalla sconfitta definitiva del brigatismo "gli tolgono il gruppo speciale. Nel giugno del '76 viene sciolto quel gruppo che teneva insieme magistratura, intelligence e carabinieri e dava fastidio a tanta gente". "Dal '76 al '78-79 non avviene un arresto. Poi Dalla Chiesa viene richiamato in servizio da Rognoni, da ottobre del '78 e in due mesi riarresta un sacco di gente. Il generale non 'chiuse gli infiltrati nel periodo in cui era stato estromesso, evidentemente", dice ancora Franceschini. Parlando del fondatore di Hyperion, Corrado Simioni, Franceschini dice che "era personaggio interessante intellettualmente, uno degli esponenti di punta del Psi a Milano, espulso per indegnità morale, amico di Craxi. Per anni a Monaco di Baviera a lavorare a radio libertà, con noi parlava in latino". "Nel '68 aveva fondato comitati di base del giornalismo, girava il movimento proponendo di fare un quotidiano del movimento - ricorda Franceschini - facendo capire che i soldi li aveva. Loro erano borghesi, rampolli della borghesia di destra e sinistra, noi venivamo dalle fabbriche, invece". Franceschini ricorda ancora come "alcuni di loro giravano con tesserini delle questure locali e se venivano fermati non avevano problemi". Il fondatore delle Br dice poi che loro sapevano "degli strani rapporti di Corrado, lui diceva per esempio che aveva soldi in banca nella Grecia dei colonnelli, per fare la rivoluzione dovete fare compromessi, ci diceva". "Nel novembre del '70 ci fu la rottura con noi - aggiunge Franceschini - lui e altri scomparvero" creando una rete, la Dip, diffusione italiana periodici, che si occupava di giornali della polizia. "Dopo la rottura con lui andarono Ivan Maletti, Prospero Gallinari e tanti altri". Franceschini ricorda che dopo la morte di Feltrinelli "rimaniamo come gattini ciechi, perché lui gestiva i rapporti con l'esterno. Ci saltarono le relazioni, mentre i rapporti ora li coltivavano Simioni e gli altri di Hyperion". E si torna a Moretti, che inizialmente andò con Simioni: "Lui e Corrado avevano rapporto anche conflittuale, ma Simioni lo stimava capace, penso fosse un suo uomo". Altro episodio oscuro l'arresto di Curcio e Franceschini l'8 settembre del '74. "Il giovedì arrivò una telefonata che avvertiva dell'imminente arresto di Curcio, organizzato per domenica. Levati avverte Moretti, che da giovedì a domenica, non avverte della soffiata, bastava piazzarsi lì vicino e fermare la nostra macchina - sottolinea Franceschini - E lui non l'ha fatto". Franceschini poi parla di Valerio Morucci e di Giovanni Senzani. Per il primo, che disse che sapeva come Franceschini lo volesse morto dice: "A Nuoro abbiamo fatto insieme la rivolta in carcere, se volevamo ucciderlo era l'occasione e non l'abbiamo fatto. Sa che le ha fatto sporche e teme sempre vendette, rispetto alla verità le sue affermazioni sono sempre molto 'complesse'". Loro cattura, con Faranda nel '79, una autoconsegna? "Morucci fuggì con 80 milioni delle br romane, lui temeva per la sua vita, nessuno di noi ha mai rubato".
"Altro personaggio interessante è Senzani - dice parlando del criminologo forlivese - che per me era un perfetto sconosciuto, viene 'immesso nelle Br, sono personaggi che fanno riferimento a certe reti". Sulla vicenda della trattativa per la liberazione di Moro, Franceschini spiega come "noi eravamo per la trattativa, Renato (Curcio, ndr) per tenersi fuori, ma sapevamo che se ammazzavano Moro avrebbero ucciso anche noi in carcere, per questo ruotavamo in cella con Curcio, poiché per noi era il primo che avrebbe fatto quella fine". Franceschini ricorda come fu lo stesso Ugo la Malfa a dichiarare che 'se Moro moriva, sarebbe giusto fare come i tedeschi Stammheim (con alcuni dei capi della Raf, trovati sucidati in carcere, il giorno dopo l'assassinio del presidente degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer, ndr). "Noi volevamo la chiusura dell'Asinara, come punto di partenza per trattare la liberazione. Volevamo lo stesso schema del sequestro Sossi, che per noi era stata una vittoria politica", spiega Franceschini a San Macuto. Sulla dinamica di Via Fani restano i dubbi: "Per fare operazione Sossi, che era senza scorta e viaggiava da solo, impiegammo 18 compagni. A via Fani erano in nove, come dice Morucci, di cui 4 sparatori, affrontarono una scorta che non credo fosse incapace di difendere Moro. Allora ci si domanda come hanno fatto? I compagni mi dissero 'l'abbiamo fatta noi, addestrandoci nel cortile di casa, diceva Gallinari". Il commento di Fioroni. "Sottolineo il richiamo di Franceschini a non semplificare la complessità del fenomeno eversivo di cui fu fondatore - ha commentato il presidente della Commissione, Fioroni - ma ad osservarlo all’interno del contesto geo-politico che ne ha influenzato le scelte. Inoltre, trovo utili le riflessioni sull’utilizzo degli infiltrati e sul ruolo del gruppo Hyperion, come l’analisi sulla rapida trasformazione del gruppo brigatista che, nel volgere di pochi anni, dal '74, anno dell’arresto di Franceschini, al ’78, acquisisce una sorprendente capacità militare ed anche culturale, se si pensa agli interrogatori cui fu sottoposto Aldo Moro. Franceschini ci fa capire esplicitamente che le persone che aveva conosciuto durante la sua militanza, in sostanza, non avevano quei livelli di operatività”.
I dubbi di Grassi. "Di estremo interesse - sottolinea Gero Grassi, componente della Commissione - il racconto della nascita del gruppo brigatista e il passaggio oscuro alla gestione morettiana. Resta una domanda che certamente non può essere rivolta a lui: perchè gli toccò scontare 18 anni di galera, 21 a Renato Curcio? Erano accusati di banda armata, non avevano reati di sangue. I brigatisti condannati come responsabili dell'uccisione di Aldo Moro e della strage di via Fani se la sono cavata con molto meno". Il parere dello storico. "Non mi sembra che Franceschini faccia rivelazioni inedite - è il parere dello storico Federico Imperato, autore di due libri su Aldo Moro, ricercatore in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali - Di Hyperion, Franceschini aveva già parlato in una audizione in Commissione stragi, nel 1999. Hyperion era ufficialmente una scuola di lingue a Parigi, in realtà un centro di collegamento tra gruppi del terrorismo internazionale, ritenuta in contatto anche con i servizi segreti. Hyperion fu fondata nel 1970 da tre esponenti della sinistra extraparlamentare italiana: Corrado Simioni, Vanni Mulinaris e Duccio Berio. I tre ebbero un ruolo agli albori della storia delle Br. Parteciparono, infatti, nel 1969, ad un convegno del Collettivo Politico Metropolitano, che decise il passaggio alla lotta armata e la nascita ufficiale delle Brigate Rosse. Secondo Franceschini, Simioni, Mulinaris e Berio, staccatisi dalle Br, fondarono prima il Superclan, di cui avrebbero fatto parte Mario Moretti e Prospero Gallinari, e poi, nel 1970, in Francia, l'Hyperion. Secondo Franceschini, ancora, il padre di Berio era un famoso medico milanese, legato ai servizi israeliani. "Il nome di Simioni fatto da Craxi". "Corrado Simioni - spiega Imperato - è un personaggio interessante. Il suo nome viene fatto per la prima volta da Craxi a Montecitorio, forse nel 1980: "Non cercate i terroristi sulla luna, guardatevi intorno, magari tra i vostri compagni di scuola". E ancora: "Quando si parla del "Grande Vecchio" bisognerebbe riandare indietro con la memoria, pensare a quei personaggi che avevano cominciato a far politica con noi e che poi improvvisamente sono scomparsi". Simioni, infatti, aveva militato, negli anni Cinquanta e Sessanta, nel Psi, faceva parte della corrente autonomista, ed era in stretti rapporti di collaborazione con Craxi e Silvano Larini. Poi viene espulso dal Psi, nel 1965; si trasferisce a Monaco di Baviera, dove collabora con Radio Free Europe. Quindi il ritorno in Italia e l'impegno nella sinistra extraparlamentare di cui ho già detto. In quegli ambienti, tuttavia, inizia presto a farsi la fama di doppiogiochista. Secondo Lotta Continua è un confidente della polizia, mentre in una scheda ritrovata nell'archivio segreto di Avanguardia operaia si legge: 'Entra tra i primi in clandestinità anche se all'epoca non ha alcun mandato di cattura a suo carico (...) era un pezzo grosso a livello di Curcio. Espulso come poliziotto, probabilmente è del Sid. Secondo Dalla Chiesa 'È un'intelligenza a monte delle Brigate Rosse'".
"Senzani gestì la regia del sequestro". "Anche Giovanni Senzani è un personaggio interessante - continua Imperato - . Criminologo, docente dell'Università di Firenze. Secondo Giovanni Pellegrino sarebbe stato lui, da Firenze, a gestire la regia politica dei 55 giorni del rapimento Moro. Pellegrino cita anche documenti che confermerebbero i legami tra Senzani e apparati di sicurezza italiani e stranieri. In particolare, un documento, anonimo, quindi inutilizzabile nel corso delle indagini, consegnato dal generale Lee Winter al giornalista Ennio Remondino, secondo cui la stazione di Roma (della Cia, ndr) ha dato assicurazione al Sops (Special Operation Planning Staff) che il nuovo collegamento con Parigi, Giovanni Senzani, è sotto contratto. Probabilmente a lui si riferisce Morucci, in Commissione Stragi, quando accenna agli irregolari: Bisogna chiedersi se c'era un anfitrione o no, chi era il padrone di casa, chi era l'irregolare, chi batteva a macchina i comunicati del comitato esecutivo, che poi erano distribuiti in tutta Italia, sul caso Moro. Certo, ritengo che siano cose che non cambino radicalmente la questione, ma penso che andrebbero dette".
I misteri infiniti delle Br. Davanti alla Commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro il fondatore delle Brigate Rosse, Alberto Franceschini, parla della scuola di lingue Hyperion di Parigi, del rapporto tra gruppo storico e morettiani e delle figure di Valerio Morucci e Giovanni Senzani, scrive Salvatore Ventruto il 23 febbraio 2017 su "Lintellettualedissidente.it". Quando un componente della Commissione d’inchiesta sul caso Moro gli chiede quale sia stato il motivo che nel 1972 portò le Brigate Rosse a respingere la richiesta di adesione di Valerio Morucci, a quei tempi esponente di spicco di Potere Operaio, Alberto Franceschini non lascia molto spazio alla fantasia: “C’erano vari motivi. Il primo è che a me e altri Morucci non piaceva. Il secondo è che Morucci faceva traffico di armi tra la Svizzera e l’Italia, armi che poi distribuiva al movimento. Fu scoperto, insieme a un altro o ad altre due persone. Sta di fatto che uno o due di loro si fecero sei mesi di galera, Morucci sì e no venti giorni e uscì”.
E’ un Franceschini collaborativo quello che un paio di settimane fa si è approcciato di nuovo con i commissari, dopo l’audizione dello scorso 27 ottobre. Ancora una volta ha evidenziato come le BR, per lui che le aveva fondate, fossero finite già nel 1976, quando il capo incontrastato era Mario Moretti. Cresciuto in una famiglia comunista, con il padre e il nonno protagonisti della Resistenza antifascista, Franceschini ha sempre sostenuto nei suoi libri, interviste e incontri che la militanza brigatista fosse per lui il naturale seguito della lotta partigiana. Arrestato nel 1974 a Pinerolo mentre era in macchina con Renato Curcio, altro esponente di spicco del gruppo storico brigatista, Franceschini ha rappresentato tra la fine degli anni novanta e gli inizi del nuovo secolo colui che più di ogni altro ha affrontato alcuni elementi poco chiari o del tutto sconosciuti del brigatismo italiano e del sequestro Moro.
Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse assieme a Renato Curcio. Viene arrestato nel 1974 a Pinerolo. In alcuni suoi libri, ad esempio “Che cosa sono le BR”, affronta e approfondisce alcuni elementi ancora oscuri sulla nascita delle BR e il sequestro Moro. Recentemente alla domanda se esistesse o meno un piano di messa in sicurezza delle Brigate Rosse ha risposto: “Mi verrebbe da dire l’Hyperion”. Il “ragazzo dell’appartamento”, ha fatto dimenticare ai commissari i mi avvalgo della facoltà di non rispondere e i non gradisco che avevano caratterizzato, qualche settimana prima, la testimonianza di Valerio Morucci, ex leader della colonna romana delle BR, protagonista dell’azione militare che portò la mattina del 16 marzo 1978 al rapimento di Moro in via Fani. Personaggio particolare Morucci, da maneggiare con estrema cura. Prima responsabile del servizio d’ordine di Potere Operaio, poi brigatista dal 1976. Partecipò all’agguato di via Fani, ma fu, secondo le ricostruzioni ufficiali, contrario assieme ad Adriana Faranda, sua compagna, all’esecuzione di Aldo Moro, incarnando quell’ala “trattativista” che sarebbe diventata interlocutrice degli “autonomi” Lanfranco Pace e Franco Piperno nell’ambito dei ripetuti tentativi messi in atto dal Partito Socialista per salvare il Presidente della DC. Sul suo famoso “Memoriale” di 300 pagine, poi clamorosamente sconfessato dalle ultime indagini e da più approfonditi riscontri, si è basata per anni la ricostruzione dettagliata dell’operazione militare che portò al rapimento di Moro e all’uccisione della sua scorta. Rimane ancora un mistero la telefonata che Morucci fece la mattina del 9 maggio 1978 alle ore 12.15 a Francesco Tritto, stretto collaboratore di Moro, per annunciare la morte del Presidente della DC. Ancor più alla luce di quanto è stato riscontrato dall’attuale commissione d’inchiesta e cioè che Francesco Cossiga, allora Ministro dell’Interno, ricevette già alle ore 11 la telefonata del Prefetto di Roma che annunciava la morte di Moro. Perché Morucci telefona un’ora e quindici minuti dopo il Prefetto? Quella telefonata può essere considerata come un depistaggio che sancisce l’inizio della collaborazione di Morucci con lo Stato, al punto da far redigere a quest’ultimo un falso memoriale sull’agguato di via Fani?
Quando Morucci, dopo la morte di Moro, esce assieme alla Faranda dalle BR, decide di portarsi via tutte le armi che aveva portato all’interno del gruppo: mitra, munizioni, pistole rinvenute il 29 maggio 1979, giorno del loro arresto, nell’appartamento di Viale Giulio Cesare, 47. In quell’appartamento viene trovato anche un elenco di 90 brigatisti e anarchici. Alla domanda del Presidente Fioroni se i due volessero vendere l’elenco “per fare la stessa fine di Casimirri” (ultimo grande latitante dell’operazione Moro, da 30 anni in Nicaragua), Franceschini dice: “può essere, anche se non conosco esattamente gli atti”. Comincia nel 1982 al Foro Italico il processo per l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Nella foto, due dei maggiori imputati, Valerio Morucci e Adriana Faranda. “Solo a Giovanni Senzani – continua Franceschini – ritrovarono un elenco di nomi all’interno di un panino mentre era detenuto nel carcere di Rebibbia. Quel panino e quell’elenco furono intercettati e molti compagni furono arrestati”- aggiunge, precisando come anche Senzani, leader del comitato rivoluzionario toscano delle BR, sia stato per lui una figura difficile da capire. Senzani fu oggetto di un dossier da parte della Commissione Stragi presieduta negli anni ‘90 dal Senatore Giovanni Pellegrino in cui si precisava che la sua figura “potrebbe aver avuto un coinvolgimento pieno e determinante nella vicenda Moro, non solo attraverso l’organizzazione a Firenze delle riunioni del comitato esecutivo delle BR durante i 55 giorni del rapimento, ma anche svolgendo, grazie alla sua statura intellettuale e alla grande esperienza politica e giuridica, il ruolo di grande inquisitore nel corso delle controverse fasi del processo al quale venne sottoposto lo stesso Moro”.
Giovanni Senzani. Negli anni ’70 insegna all’Università di Firenze ed è consulente del Ministero della Giustizia. Contemporaneamente fa parte della direzione strategica delle Brigate Rosse. Dopo 23 anni di carcere non si è mai pentito. Dopo aver confermato che “l’attenzione sulle Brigate Rosse da parte dello Stato è sin dalla nascita”, Franceschini ha parlato anche di Corrado Simioni e del ruolo ambiguo di Hyperion, la scuola di lingue fondata a Parigi nel 1976 dallo stesso Simioni, Duccio Berio e Vanni Mulinaris. Nel 1970 i tre si “staccarono” dal gruppo originario di Sinistra Proletaria, che poco dopo avrebbe dato vita alle Brigate Rosse, e formarono il Superclan. Quando i commissari gli chiedono di fare un’analisi storica della figura ambigua di Simioni e della scuola parigina, capace di aprire due sedi di rappresentanza a Roma nelle settimane del sequestro Moro e rivelatasi successivamente una centrale del terrorismo internazionale infiltrata dai servizi segreti di tutto il mondo, Franceschini è come se ammettesse la “sconfitta” del gruppo storico. “Se devo fare una riflessione onesta e sincera – dice – è che noi abbiamo sbagliato tutto e loro hanno capito tutto. Chi andò a Parigi, chi stabilì certe relazioni, certi rapporti aveva capito una serie di cose”. All’Hyperion e ai personaggi che le ruotavano attorno, che secondo Franceschini “operarono a livello geopolitico alto, utilizzando i residui della politica bassa”, sono legati gran parte dei misteri ancora irrisolti della galassia brigatista. Fu il giudice istruttore del Tribunale di Venezia Carlo Mastelloni ad azzardare per primo, nel 1984, l’ipotesi che l’Hyperion avesse avuto un ruolo di mediazione nelle forniture di armi che l’Olp garantì ai brigatisti. Oggi, dopo più di trent’anni, i rapporti tra le BR e le organizzazioni palestinesi tornano sotto la lente d’ingrandimento del caso Moro, grazie a una lettera che il 21 giugno 1978 il colonnello Stefano Giovannone scrisse da Beirut. Nella missiva, l’ex ufficiale del Sismi, di stanza in Libano, riferiva della possibile consegna, da parte delle Brigate Rosse, al leader palestinese George Habbash di una parte dei verbali degli interrogatori subiti dal Presidente DC durante la prigionia, al fine di ristabilire il rapporto di collaborazione interrotto da due anni. Un documento, quindi, che farebbe presagire relazioni tra le Brigate Rosse e palestinesi anche prima dell’operazione Moro, diversamente da quanto dichiarato in più occasioni da Mario Moretti.
“L’ipotesi che io mi sono sempre fatto è che certamente i cosiddetti brigatisti, morettiani o non morettiani, avevano dei rapporti con i palestinesi”. Franceschini torna poi sui contatti tra lui e Curcio, in carcere, e i “compagni” che pianificarono e gestirono l’operazione Moro. “Io e Renato dal 1976 in avanti siamo molto critici con quelli fuori perché secondo noi avevano abbandonato il terreno del movimento dicendo che bisognava prendere le armi. Ricordo che ciò che ci fece infuriare di più fu il ritrovamento degli interrogatori di Moro nelle carte di via Monte Nevoso perché i compagni fuori ci avevano sempre detto che lui non aveva mai detto niente, nonostante nei primi giorni avessero affermato invece che stava parlando e che tutto andava bene”. Rapporti che secondo Franceschini si chiusero definitivamente dal giorno della scoperta del covo di via Gradoli e del depistaggio del Lago della Duchessa. “Da lì cambia radicalmente la posizione di quelli fuori che fanno sapere a noi dentro che non potevano tirarci più fuori”, dice Franceschini. A dimostrazione, forse, che gli interessi estranei al movimento brigatista avevano ormai preso il sopravvento nella vicenda.
Il carabiniere e il brigatista. I ricordi del generale Mori e dell'ex brigatista Franceschini, per una volta d'accordo: "Quella stagione è ormai finita", scrive Gianluca Ferraris il 23 settembre 2014 su "Panorama". Verso la fine di quella che poteva sembrare una chiacchierata tra due combattenti su meteo e acciacchi, una bottiglietta d’acqua cade a terra con un tonfo rumoroso. Trascorre forse mezzo secondo di pupille allargate e teste roteanti da parte di pubblico e malcelati bodyguard destati dal loro pomeriggio di sorveglianza discreta, finché uno dei due signori, che si chiama Mario Mori, prorompe serafico: «Tranquilli, non è mica una bomba». E il suo dirimpettaio, che si chiama Alberto Franceschini, abbozza: «Non è più stagione». Sorridono, senza concedersi alla risata, e tornano a guardarsi negli occhi. È la prima volta che lo fanno da 40 anni esatti. Era l’8 settembre 1974 quando Mori, allora capitano agli ordini del Nucleo speciale antiterrorismo dei carabinieri comandato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, pianificò l’operazione che portò all’arresto di Franceschini, cofondatore delle Brigate rosse. Dopo, i due non si sono mai più rivisti né parlati. Lo hanno fatto venerdì 12 settembre alla biblioteca civica di Verona, durante uno degli incontri della quattro giorni di «Panorama d’Italia» (vedere anche a pag. 96). Moderati da Giovanni Fasanella, l’unico giornalista a potersi vantare di essere stato coautore di entrambi, Mori e Franceschini (Stato e antistato) hanno rievocato quei giorni in cui «guerra civile», per l’Italia, non era una frase scritta sui libri di scuola ma qualcosa che si respirava ogni giorno, lasciandoti lo stomaco pesante come un blocco di ghisa e la testa carica di domande, alcune delle quali ancora oggi senza risposta. A cominciare dalla prima: quel «c’era qualcuno dietro le Br?» che ha alimentato centinaia di libri, documentari e dibattiti. «Non c’era nessuno dietro di noi, almeno fino a quando io ho fatto parte dell’organizzazione» dice Franceschini, col tono rassegnato di chi ha già parato il colpo mille volte. Poi però concede al pubblico un anelito complottista: «Di certo le nostre azioni facevano comodo a qualcuno. In quegli anni erano in molti a vedere con favore un’escalation di violenza in Italia».
Il grande vecchio. Pochi attimi e si plana sui classici: il «Grande vecchio», il Mossad israeliano, i servizi segreti deviati, la destra extraparlamentare, la criminalità comune. «Ci sono state senza dubbio connivenze, omissioni e cointeressenze ma non complicità o coperture, né da parte di pezzi dello Stato né da fantomatiche piste estere» puntualizza Mori. Il riferimento è a un altro pallino dell’ex brigatista, il cosiddetto Superclan: una sorta di Spectre ospitata dalla scuola Hyperion di Parigi, che riuniva vecchi fascisti, ex guerriglieri, intellettuali di sinistra e protohacker, tutti capaci, secondo i retroscenisti, di orchestrare tanto lo stragismo nero quanto il terrorismo rosso con l’obiettivo di smantellare l’Italia. «Abbiamo investigato a lungo su Parigi» dice l’ex generale dei carabinieri «ma abbiamo sempre avuto l’impressione che quel gruppo non c’entrasse. Certo, attorno alla Francia si muovevano personaggi equivoci e fuggiaschi di ogni colore, ma li abbiamo sempre stanati tutti. Molti anni dopo, quando ero a capo del Sisde, avevo un aereo pronto per prelevare Cesare Battisti, e restai a lungo in attesa di un via libera politico all’arresto che non arrivò mai. Se avessi avuto la possibilità di decapitare il vertice delle Br in un’epoca in cui ci era concessa molta più libertà, vi pare che mi sarei lasciato pregare?». Franceschini non sembra convinto: «Ci sono un sacco di cose che non ci avete mai spiegato, come il blitz nel quale morì Mara (Cagol, compagna di Renato Curcio, uccisa nel 1975 in uno scontro a fuoco, ndr) e l’agguato di via Fani» osserva. «Abbiamo chiesto ai tuoi compagni che c’erano di chiarircele, ma non hanno mai cambiato versione. I dubbi, però, talvolta sono rimasti anche a me» replica Mori.
Toni bassi. Tra i due reduci i toni non si alzano mai. Non è un impasto di Pietà l’è morta e di La mia generazione ha perso, ma semplice rispetto, cresciuto dal tempo e da consapevolezze come quella che arriva a metà serata: «Forse la nostra nascita e la nostra azione erano necessarie» dice Franceschini; «Forse anche le nostre. Come se avessimo bisogno di esistere l’uno per l’altro» ribatte Mori. Che di quegli anni ricorda i continui cambi di direzione investigativa, la fatica, l’idea di avere a che fare con un nemico nuovo che andasse affrontato con armi nuove: «Volete che ve lo dica in una parola? Eravamo incazzati. Davamo la caccia a un gruppo di persone di cui non sapevamo nulla, se non che erano simpatiche a molti, mentre la politica esitava a schierarsi con noi». Non fa sconti alla coscienza, invece, Franceschini, che pur essendosi dissociato nel 1983 dei suoi primi, caotici anni di clandestinità rievoca «la frenesia, la necessità che sentivamo dentro di sovvertire un certo ordine, la convinzione che studenti e operai, soprattutto i secondi, sarebbero stati dalla nostra parte. Io sono nato a Reggio Emilia, vivevo nel mito negativo della Resistenza tradita. L’idea di rifare la rivoluzione per me aveva un suo fondamento politico».
Br e vecchi partigiani. Proprio alla Resistenza è legato uno dei ricordi più cari di Franceschini. «Andai a trovare un vecchio partigiano riparato in Cecoslovacchia. Mi disse: “So che partirai. Vorrei venire con te ma ormai sono vecchio. Una cosa, però, te la voglio dare”». La cosa era una pistola Luger, rubata a un ufficiale delle SS ucciso sull’Appennino. Ricomparirà, stretta nel pugno di Franceschini, nella Polaroid brigatista che ritrae Michele Mincuzzi, capo dell’ufficio del personale dell’Alfa, vittima di un sequestro lampo nel 1973. Era la fase della propaganda armata, i morti arrivarono solo a partire dall’anno successivo, ma era come se fossero stati messi in conto da sempre. «Un giorno, sarà stato il luglio del 1974, Moretti disse: “Siamo così carichi di odio che le nostre pistole sparano da sole”. Curcio gli rispose: “Sì, però per il momento ci spariamo sui piedi. Abbiamo bisogno di lui”». Lui era Silvano Girotto, detto «Frate Mitra», un ex guerrigliero ingaggiato come istruttore militare che si rivelò il primo infiltrato di Dalla Chiesa ai piani alti delle Br.
Dalla Chiesa, il ricordo. Proprio sulla figura del generale, ucciso dalla mafia nel 1982, si sofferma a lungo Mori. «Carlo era un uomo dalle straordinarie intuizioni investigative» racconta Mori. «Il nostro metodo, mantenuto anche in seguito nella caccia ai boss mafiosi latitanti, si potrebbe sintetizzare con il motto “Meglio un pollaio domani che una gallina oggi”». Che poi altro non è che la sublimazione dello sbirro vecchia scuola, ancora più fondamentale quando si ha a che fare con gruppi ermetici: pedinamenti, suole consumate, riscontri. Si parte da una traccia sottile e si arriva chissà dove, chissà quando: «La colonna romana delle Br la stroncammo seguendo alcuni militanti di Potere operaio. Erano solo simpatizzanti, ma un giorno li fotografammo sulla spiaggia di Ostia con Barbara Balzerani: per noi era una sconosciuta, ma dagli ingrandimenti risultò avere una pistola nella borsetta. Potevamo prenderla subito, invece continuammo a seguirla; così finimmo per arrestare 34 persone». Alla fine chi voleva portare l’attacco al cuore dello Stato e chi in quegli anni lo Stato rappresentava e proteggeva, si stringono la mano. Senza eccessivo calore, ma sempre con rispetto. «Penso che avremmo potuto continuare a chiacchierare per altre due ore» dice Mori. «Anche di più» commenta Franceschini.
Brigate rosse. Il grottesco incontro tra Moretti, Franceschini e Morucci, scrive Spazio 70 il 5 ottobre 2016.
– Valerio Morucci, romano classe 1949, studente universitario, fanatico di armi e capo della struttura militare di Potere operaio, prova a entrare nelle Brigate rosse fin dai primissimi anni Settanta: a vagliare la richiesta di Morucci, Alberto Franceschini e Mario Moretti. I tre si incontrano a Milano nel 1971.
– Alberto Franceschini: «Stavamo riorganizzando le Br dopo la prima ondata di arresti e Valerio Morucci ci aveva fatto sapere più volte che voleva parlarci. Era il capo del servizio militare di Potere operaio e lo conoscevamo di nome anche perché era considerato un esperto di armi. Lo incontrammo io e Moretti a Milano, in viale Sarca. Arrivò in Mini-minor, una giacca blu con i bottoni d’oro, camicia di seta, cravatta, occhiali Ray-ban: sembrava un fascistello sanbabilino. Parlò soprattutto lui, e di armi: voleva farci vedere che le conosceva bene, che uno come lui sarebbe stato indispensabile per la nostra organizzazione. Ci chiese di entrare nelle Br, ma nessuno di noi fu d’accordo nell’accogliere Valerio. La nostra diffidenza per quelli di Potere operaio era congenita. Li consideravamo dei mezzi aristocratici che volevano giocare alla rivoluzione. Mi fu sufficiente raccontare ai compagni come si era presentato all’appuntamento con noi perché la richiesta di Valerio venisse respinta. Si decise soltanto di continuare a tenere con lui il rapporto che già avevamo, di tipo esclusivamente logistico, e di cui venne incaricato Moretti, l’unico che aveva cercato di difendere, sia pur timidamente, la causa di Morucci».
– Valerio Morucci: «Mi diedero appuntamento in viale Zara. Io andai su a Milano con la mia Mini Cooper gialla e nera e con la bionda, per approfittare del viaggio. Già da subito vedo che Moretti e Franceschini mi guardano storto. Io infatti indosso il mio blazer e una camicia azzurra incravattata sotto un bel cappotto blu. Inoltre mi ero presentato con un macchina e una bionda piuttosto appariscenti. Mi guardano come se fossi stato un libertino gaudente appena uscito da un night dopo essermi strafatto di troie e cocaina. Quello con gli occhialetti, Franceschini, mostra il sorrisetto storto del bambino sadico che dà pizzicotti alla sorella. Le labbra di Moretti superano a fatica la smorfia di ripugnanza e supponenza con cui sembra essere nato. Mi dicono: “Da Roma hanno detto che puoi procurarci delle armi”. “Sì”, dico io sorridente, “che vi serve?”. “Tutto: mitra, pistole, munizioni…”.”Ci proverò”, faccio io, “ma se vi servono urgenti bisognerà prenderle al prezzo che si trova”».
– Morucci su Moretti: «Ogni tanto, tra il serio e il faceto, gli scappava di dire che era il capo e che lasciava impronte dappertutto perché i giornali all’epoca non lo nominavano mai e temeva che la polizia volesse giocarlo come spia. Alcuni come Moretti interpretavano il riposo del guerriero come avere una donna in ogni città e anche più di una all’occorrenza. Mi assoggettai anche io alla sicurezza e ai vantaggi delle regole».
– Ancora Morucci: «Comprai una moto Norton Commando con cui scorazzavo per la città come un pazzo. Mi compravo bei vestiti e ogni sera mangiavo al ristorante. Allora con le donne ero una bestia. Ma con lei mi ero messo per ripicca, per toglierla da sotto al naso a quelli del gruppo che pensavano più alla fica che alla rivoluzione».
– Morucci, Faranda e i ristoranti: «Nei giorni tra l’appello di Paolo VI e la diffusione del comunicato numero 8, che è del 24 aprile 1978, si presentò Lanfranco Pace in uno dei ristoranti in cui io e Faranda eravamo soliti pranzare da anni, quello sito in via dei Genovesi o via dei Salumi, dietro piazza in Piscinula. Si tratta di un ristorante siciliano con le pareti riccamente addobbate con oggetti provenienti dalla Sicilia. Il Pace ci disse che da alcuni giorni girava per ristoranti da noi frequentati abitualmente per rintracciarci e chiederci se effettivamente le Brigate rosse, dopo i comunicati n.6 e n.7, avessero intenzione di uccidere Moro. Pace conosceva quel ristorante perché prima del periodo in cui ebbe contatti con le Br – tra l’autunno del 1977 e i primi giorni del 1978 – egli lo aveva saltuariamente frequentato assieme a noi».
– Morucci aveva raccontato al magistrato che con la Faranda impiegavano intere giornate per cercare il luogo più adatto dove lasciare i comunicati delle Br o le lettere di Moro, tentando di far credere di avere adottato tutte le possibili precauzioni, fino a ricorrere a metodi quasi scientifici, per impedire di essere individuati e pedinati dalla forze dell’ordine. Adesso invece sostiene che due dei brigatisti più ricercati d’Italia, come lui e Faranda, andavano a pranzo in ristoranti che frequentavano da anni, assieme ad altri militanti dell’estrema sinistra, col risultato di essere facilmente rintracciati da un ex militante delle Br che meno di un mese prima era stato fermato dalla Polizia.
– Alfredo Bonavita: «Per quanto concerne la nascita della colonna romana, anche a Roma c’era fin dal 1971 un nucleo di compagni vicini alle Br che militavano nell’area di Potere operaio. Ricordo che si parlava della zona di Cinecittà, ove erano avvenute azioni contro i fascisti. Alcuni compagni di Roma andavano a Milano e tenevano i contatti con Franceschini e a volte anche con Curcio. Si trattava di compagni di quartiere, non inseriti in alcuna realtà di fabbrica o di scuola. Da noi erano considerati un poco come barboni, anche perché facevano dei furti per sopravvivere. Una volta rubarono la testa di una mummia o di una statua che poi rivendettero per meno di 200 mila lire. Un’altra volta rubarono, sempre a Roma, una collezione di francobolli. Questo primo tentativo di costituire un nucleo Br a Roma fallì nella primavera del 1972, quando a Milano e a Torino decidemmo il passaggio alla clandestinità. Tale decisione fu determinata da una serie di elementi di carattere politico-organizzativo, a partire dalla riflessione sugli arresti dei primi di maggio 1972, determinati sia dalle indagini di polizia e magistratura sia dalle rivelazioni fatte da Marco Pisetta dopo il suo arresto. A seguito delle rivelazioni si accelerò il processo di clandestinizzazione degli uomini e delle strutture. Tale scelta non fu condivisa da molti compagni romani che si staccarono dalla organizzazione».
– Anna Laura Braghetti: «Esiste un racconto molto significativo sul primo incontro fra i milanesi e i romani. La leggenda vuole che tramite intermediari fosse stato fissato un abboccamento fra Morucci, Franceschini e Moretti. Franceschini e Mario arrivarono su una vecchia Fiat, con addosso scarpacce pesanti e orridi cappotti sformati. Valerio invece era smagliante: una bella macchinetta, occhiali neri alla moda, giacca blu doppiopetto, stivali. Immagino si siano guardati e si siano fatti reciprocamente schifo. I brigatisti avevano fatto della sobrietà nordica e dello stile di vita operaio un dogma e tenevano una minuziosa contabilità ritenendo di avere rapinato le banche in nome e per conto del proletariato. Ma Valerio non vedeva francamente la ragione di tanto moralismo e veniva pur sempre da un’area politica – quella della Autonomia operaia – che negli anni successivi avrebbe prodotto dirigenti capaci di dire ai ragazzi: “Guai se trovo uno di voi cretini che distrugge un’automobile di lusso. Le belle macchine si rubano, e poi ci si fa tutti un giro”. Giorgio Bocca, nel suo bellissimo libro ‘Noi terroristi’ fa raccontare a Morucci quel meeting: “Quando li ho conosciuti nel 71 erano tipi tristissimi e anonimi, mimetizzati sul fondo di grigiore di una città operaia, sempre atteggiati ai modi che loro pensavano consoni a dei rivoluzionari professionisti. Io ero arrivato all’appuntamento su una Mini cooper gialla con tetto nero e con una ragazza bionda. Loro vennero all’appuntamento con una 850 grigio sbiadito e un enorme portabagagli sul tetto. Franceschini con gli occhiali, senza baffi, ingobbito come sempre, cinereo in faccia e nei vestiti. Moretti un po’ più aitante, con indosso un assurdo tre-quarti spigato grigio e marrone, con le spighe enormi”. I tre quindi non si piacquero e le Br non si mossero dal Nord finché non decisero che era ora di andarsi a cercare il cuore dello Stato. E lo Stato significava Roma».
– Alberto Franceschini sui compagni romani: «Erano faciloni e chiacchieroni. Le regole di compartimentazione con loro erano inutili. Ogni tanto ti arrivavano a casa con la testa di una statua rubata in una chiesa per chiederti di piazzarla presso un antiquario di Milano. Quello di rubare pezzi di statue era il loro modo preferito di finanziarsi. A me i rapporti con loro lasciavano un cattivo sapore di borbonesco e di sottoproletariato. Ripetevo in continuazione che una forza rivoluzionaria non può vivere alla maniera dei tombaroli, che i soldi bisognava andarseli a prendere nelle banche. Mi guardavano con quella loro aria sempre stanca e tranquilla, per poi rispondermi invariabilmente: ‘Hai ragione, compagno, ma intanto vedi di piazzare questa zucchetta».
Sequestro Moro, intervista al brigatista Alberto Franceschini: "Sbagliammo". I viaggi a Parigi di Moretti. Le avance del Mossad. I "nemici" della trattativa. Il fondatore delle Brigate rosse ripercorre una delle stagioni più controverse della storia italiana. La Balzerani? "Farebbe meglio a tacere". E ai giovani di oggi dice: "Non fate come noi", scrive Raffaella Fanelli l'11 maggio 2018 su "Panorama". "Le Brigate Rosse hanno sbagliato, mi sembra talmente chiaro. E ai ragazzi che oggi si chiedono il perché di tanta violenza, che cercano una spiegazione a episodi così gravi come il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, dico di fare cose diverse da quelle che ho fatto io, e persone come me, all’epoca". Alberto Franceschini, co-fondatore e, insieme a Renato Curcio, capo storico delle Brigate Rosse, confessa che la lotta armata fu un errore. Che i brigatisti "sbagliarono". Lo ammette senza reticenze. A dispetto di chi ancora si aggrappa a un passato di sangue, di chi, come Barbara Balzerani o Raffaele Fiore, continua a provocare e a mentire trincerandosi dietro al falso memoriale Morucci-Faranda. "Le persone fanno fatica a cambiare rispetto alle loro ragioni di vita. È difficile per questi ex compagni dichiarare di aver sbagliato. Anche se dovrebbe essere da persone intelligenti ammettere un errore palese come il nostro". Errore, sbaglio. Franceschini lo ripete, con una voce ferma che ha la stessa aria di calma determinazione che porta in volto. Lo incontriamo a Milano, in un giardino pubblico chiuso tra i palazzi di piazza Wagner. Gli chiedo di Barbara Balzerani, che non contenta del clamore suscitato da un suo post ironico sull’anniversario del sequestro Moro ("Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?"), ha rincarato la dose con una battutaccia sul "mestiere di vittima" che ha suscitato l’indignazione dei familiari delle vittime, e non solo. "Farebbe bene a tacere", taglia corto Franceschini, uomo spigoloso e riservato. Qui parla di quello ha visto e di quello che ha capito e sentito nei suoi anni di carcere.
Quindi adesso condanna la lotta armata?
"Sì, assolutamente.
Fiore, membro del commando che rapì Moro e uccise la scorta, disse che in via Fani c’erano persone che non conosceva... che erano altri a gestire.
"L’ho incontrato in carcere. Nel periodo in cui negava addirittura di aver partecipato all’agguato. Fu Patrizio Peci a tirarlo in ballo. Che al sequestro Moro abbiano partecipato altre persone è ormai assodato... Valerio Morucci e Mario Moretti avevano rapporti con 'altri'. Rapporti mai chiariti".
Durante i 55 giorni di prigionia, Moro fu sottoposto a lunghi interrogatori da parte di Moretti. Chi preparò quelle domande?
"Moretti non aveva grandi doti di analisi politica e di scrittura. Andava spesso a Parigi, anche durante il sequestro Moro. Non è escluso che l’interrogatorio sia stato preparato altrove. Moretti e Morucci hanno avuto un ruolo determinante nella vicenda Moro. Tra loro c’è stato un accordo sulle cose da dire. Non so se l’accordo c’è stato anche sulle cose da non dire".
Ha mai incontrato Francesco Delfino (generale dei carabinieri e ufficiale del Sismi) o Alessio Casimirri (l’unico brigatista del commando di via Fani che è ancora latitante, vive in Nicaragua)?
"No".
Le Brigate rosse hanno mai avuto contatti con i servizi segreti italiani o stranieri?
"I servizi segreti israeliani ci hanno cercato nel ‘74. Ci furono due o tre incontri ma rifiutammo di avere rapporti stretti con loro, volevamo conservare la nostra autonomia. Ci avrebbero dato soldi e informazioni importanti. Ma abbiamo rifiutato. È probabile che abbiano cercato un nuovo aggancio dopo il mio arresto e quello di Renato (Curcio, ndr)".
Cosa avrebbe dovuto fare lo Stato per salvare Moro?
"Liberare almeno una persona. In questo modo avrebbero messo in difficoltà i brigatisti... tanto che hanno fatto di tutto per non liberare nessuno".
Bettino Craxi indicò a Benigno Zaccagnini i nomi di due detenuti da graziare, la brigatista Paola Besuschio e il nappista Alberto Buonoconto. Fu Giulio Andreotti a bocciare qualsiasi ipotesi di mediazione. Le Br avrebbero potuto sequestrare anche Andreotti... Perché presero Moro?
"Qualcun altro voleva Moro morto. Aldo Moro era pericoloso per una serie di soggetti... Il famoso lodo Moro dava fastidio a certe forze internazionali di destra. Per loro e anche per gli americani, Moro era pericoloso. E per eliminarlo si sono mosse una serie di pedine".
Cioè lei crede che le Br da lei fondate siano state strumentalizzate?
"Certo. C’era qualcuno dietro, a muovere le fila... La nostra storia è durata 20 anni, e ha avuto una serie di relazioni a livello europeo, impossibile che non sia stata monitorata da nostri Servizi e dai Servizi segreti europei. Il nostro gruppo era quello più radicato socialmente e ci sono state operazioni diverse e di diverso tipo da parte di soggetti, diciamo così, extra istituzionali".
Cosa intende per "operazioni"?
"Contatti".
Per impedire l’omicidio di Moro sarebbe bastato liberare un detenuto. Anche lei era in carcere in quel periodo...
"Ero detenuto a Torino. Dall’esterno mi arrivarono dei messaggi attraverso gli avvocati e da altre persone che erano in contatto con i compagni fuori. Noi eravamo per la trattativa. E ci aspettavamo anche una vendetta. Pensavamo che se avessero ammazzato Moro avrebbero ucciso anche noi in carcere. Lo ritenevamo molto probabile. C’erano già state le uccisioni dei compagni della Raf in Germania, in carcere a Stammheim (alcuni capi della Raf si suicidarono il giorno dopo l’assassinio del presidente degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer in circostanze non del tutto chiare, ndr) e Ugo La Malfa lo diceva espressamente: con Moro morto lo Stato avrebbe dovuto restituire cadaveri".
Perché le verità di Moro su Gladio, sui finanziamenti della Cia alla Dc non furono rese pubbliche dai brigatisti?
"Hanno raccontato una loro verità di comodo, accettano di passare per ignoranti, di aver visto ma di non aver capito il valore di quelle dichiarazioni. Davanti ai magistrati si sono definiti dei cretini... ed è assurdo pensare che un evento tragico di tale portata che ha segnato la storia mondiale, e non solo di questo Paese, fosse in mano a dei cretini". (Articolo pubblicato sul n° 20 di Panorama, in edicola dal 3 maggio 2018 con il titolo "Eravamo nel torto e ci hanno anche manovrato").
Mario Moretti: «Le Br sono uno specchio per tutti». La lettera dell’ex leader delle Br al giornalista Enrico Fedocci, scrive il 10 Maggio 2018 "Il Dubbio". Tempo fa Mario Moretti, che negli anni 70 fu il leader delle Brigate Rosse, è stato invitato a parlare agli studenti di un corso tenuto dal giornalista Enrico Fedocci. Successivamente gli studenti hanno scritto dei commenti sull’incontro. I commenti sono stati mostrati a Moretti, che ha risposto inviando questa lettera a Enrico Fedocci che viene resa nota solo oggi. Ciao Enrico, grazie per avermi fatto leggere quello che i ragazzi del corso hanno scritto sull’incontro. Molto interessante. In un modo o nell’altro la vicenda delle BR è di quelle che fungono da specchio a chi le guarda. A volte uno specchio sociale, altre più semplicemente riflettono il modo individuale con cui ci si pone di fronte ai grandi eventi, alla riflessione sulla vita, la morte, i valori fondanti la propria esistenza. Si interroga me e la risposta che viene colta è soltanto quella più vicina al sentire consolidato di chi ha posto la domanda. Ti faccio un esempio, non è domanda e risposta ma il più innocuo degli argomenti e il più scivoloso per chi scrive, la descrizione del personaggio: qualcuno mi descrive come uno che “ ha un sorriso aperto e l’aria di chi ne ha passate tante nella vita“, un altro “ volto tirato, scavato dalle rughe… racconta senza tradire la minima emozione”, o al contrario “ la voce si incrina, gli occhi si fanno lucidi e lo restano per buona parte della conversazione“, per un altro “…con un sorriso piuttosto commosso, gli tremano le mani, suda visibilmente, deglutisce come avesse un nodo alla gola“, ancora “ ha l’aspetto del professore qualunque”, “un uomo consunto”, “abbigliamento semplice e atteggiamento cordiale e disponibile”, e così via. È chiaro che Moretti è un po’ tutte queste cose messe insieme, ma volevo sottolineare che, se guardando la medesima persona ognuno può “vedere” cose così contrastanti (e si ripeterà ancor più per ogni argomento della conversazione), Moretti è soltanto un pretesto, un accidente in una vicenda, quella delle Brigate Rosse, che rimanda a qualcosa di inestricabile dal proprio essere sociale: se si parla delle BR chiunque ci mette di suo, sempre, non importa quanto egli sia lontano per età o per indole da quella vicenda. Peccato che se ne parli così poco e malamente. Se ti capita ringrazia i tuoi allievi da parte mia, tutti, anche quelli che pensano come un carabiniere, parlano come un carabiniere e fortunatamente, non avendo l’equilibrio di un carabiniere, non sono armati come un carabiniere. Se hai difficoltà con la duplicazione della registrazione filmata io posso esserti d’aiuto, sono un informatico non dimenticarlo. Aspetto di sentirti e grazie di nuovo MARIO MORETTI
LA VERITA’ DICIBILE.
GERO GRASSI: IO ESCLUSO PER IL LAVORO SU ALDO MORO, scrive Antonio Procacci il 4 febbraio 2018. L'on. Gero Grassi non è stato ricandidato dal Pd alle elezioni del 4 marzo. Antonio Procacci lo ha intervistato per la puntata de "Il Graffio" (Telenorba) proprio dedicata alle liste elettorali (2 febbraio 2018).
Gero Grassi fuori dai giochi per il “Caso Moro”. Io non ci sto! Scrive Nico il 29 gennaio 2018 su Baratta su "La Gazzetta Meridionale". «Non ci sto a questa ennesima carognata di Renzi. L'esclusione di Gero Grassi delle liste parlamentari è l'ennesimo attentato alla democrazia che lavora per la verità, legalità e giustizia Se il “Caso Moro” ha colpito ancora, e lo ha fatto, vuol dire che la Seconda Commissione parlamentare d’Inchiesta” sul predetto caso ha lavorato più che bene, scoperchiando quel vaso di Pandora che si vuol tenere saldamente chiuso. Sono fiero di Gero, di essere suo amico, e orgoglioso, col mio lavoro di giornalista, per aver contribuito a ricercare, scrivere, informare e comunicare, verità di Stato nascoste al Popolo Italiano, un tempo Sovrano. Gero è forte e perseverante e ritornerà». Con questo post, che ho pubblicato sul mio profilo di Facebook, di Twitter e Google +, ho voluto esternare tutta la mia disapprovazione per la non candidatura di dell’On. Gero Grassi alla XVIII Legislatura che il 4 marzo prossimo vedrà eleggere i nuovi parlamentari. Chiedo scusa se il presente è scritto in prima persona, come se fosse un editoriale, che non lo è, ma contro ogni forma deontologica giornalistica ritengo che ogni tanto si debba valicare quel confine che spesso fa sembrare impersonale un articolo. Gero Grassi purtroppo è fuori da tutti i giochi. «Da parte loro slealtà e scorrettezza» l’amaro e comprensibile commento che l’amico Gero ha fornito alla stampa. «La presentazione delle liste per le politiche del 4 marzo 2018 pone fine alla mia presenza in Parlamento dopo 3 legislature» ha proseguito Grassi nella sua spiegazione, ad un torto grande quanto un tradimento, non solo politico, bensì umano e verso chi in tutti questi anni lo ha seguito nella sua indefessa e certosina ricerca della verità sulla morte del Presidente Aldo Moro. È l’amaro epilogo di un lavoro svolto quotidianamente a beneficio della verità, di quella legalità e giustizia che soprattutto le scolaresche hanno voluto testimoniare invitando Gero nei loro istituti per conoscere i particolari del Caso Moro e soprattutto chi era il Pres. Aldo Moro e cosa aveva fatto. Con circa 500 incontri tenuti in tutta Italia (e che stanno ancora continuando, Parlamento sciolto), Gero Grassi ha fatto conoscere il lavoro svolto dalla Commissione, presieduta dall’On. Fioroni, aprendo incartamenti, mostrando foto e video, tutte testimonianze ora accessibili sulla pagina web di Grassi. Infatti chi volesse approfondire l’attività della Commissione parlamentare sul Caso Moro può visitare il web sitewww.gerograssi.it, dove troverà documenti interessanti e inediti. Ma non solo: Gero nei suoi incontri ha raccontato aneddoti inediti e confidenze avute dalla famiglia Moro, grazie alla fiducia conferita dai familiari del Pres. Moro, in primis la figlia Maria Fida. Difatti l'archivio sul caso Moro è passato dalla famiglia, per loro volontà, a Gero Grassi che attraverso tutte le interrogazioni della Seconda Commissione parlamentare sul caso sono a disposizione online. La mancata ricandidatura di Gero pare essere l’ennesimo prezzo, molto caro, che, chiunque si avvicina alla torbida verità di un caso che invece dovrebbe essere limpidamente detto, deve pagare sulla propria pelle. Ricordo a tutti che questa non ricandidatura fa il paio con un’altra, inseguito descritta, che molti o se lo sono dimenticato o non vogliono ricordarlo. Avvicinarsi a una verità celata dallo stesso Stato è sempre stato pericoloso. Nel mio piccolo, da giornalista, ho seguito quotidianamente il lavoro svolto dalla Commissione, grazie anche al contatto diretto con Gero, che lo ringrazio pubblicamente. Un lavoro che intuitivamente era a un passo dalla verità, che attendeva la certificazione della stessa Commissione per pubblicare altre verità, non solo quelle approvate a fine anno 2017 dalla Camera dei Deputati per fine naturale della XVII Legislatura. Verità che sono state pubblicate e che il sottoscritto più volte ha riportato in tanti articoli, incontrando attriti di ogni tipo, anche di editori e direttori di giornali, web e cartacei, indegni del loro ruolo, e a volte subendo anche da altri soggetti "inviti", meschini e intimidatori, a farmi i fatti miei. Ciò denota palesemente cosa stava accadendo scoperchiando quel vaso di Pandora, che oggi sbugiarda la menzognera scelta del “capo partito PD” per l’uscita forzata di Gero Grassi dalle scene politiche parlamentari. 2250 documenti acquisiti e 440 operazioni investigative della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Caso Moro non sono bruscolini. Come non lo sono le molteplici foto, video, bibliografie e pubblicazioni varie, oggi preziosamente custodite dall’On. Gero Grassi e messe pubblicamente a disposizione sul suo sito web. Ma la verità, quella buia di uno Stato che non vuol far sapere, fa tremare i polsi finanche a chi li oggi li ha ammanettati. Quando si parla di Brigatisti Rossi pentiti che ritrattano le loro deposizioni per poi infangare altri, depistando inquirenti a caccia di ulteriori prove, o di una brigatista rispondente al nome di Faranda Adriana che parla di “Gero Grassi ossessionato”, quando si rendono pubbliche liste, come quella trovata a viale Giulio Cesare il 29 maggio del 1979, contenenti molti nomi di brigatisti, oltre 90, quando la reticenza diventa mezzo d’oblio come ha fatto il brigatista Valerio Morucci, quando Maria Fida Moro, primogenita del Pres. Aldo Moro, svela sulle “intrusioni” del “Movimento Febbraio 74” subite in casa durante i 55 giorni del sequestro di suo padre, quando si parla di agenti dei servizi deviati e di “Gladio”, di interferenze della Banda della Magliana, di poliziotti e carabinieri intimoriti ed alcuni pagati per mentire, quando si nomina Paul Casimir Marcinkus e lo IOR con tanto di documenti alla mano, di Servizi Segreti Italiani, anche deviati, quando si nominano massoni e logge come la P2, quando si dice che nel complotto sul rapimento del Presidente Aldo Moro quel giorno in Via Fani a Roma erano presenti, oltre agli italiani, anche agenti della CIA, del KGB e del Mossad, quando di svela chi davvero ha fisicamente ucciso Moro, vuol dire che la verità è a un passo. E Gero lo ha detto, ed io l’ho scritto, come del resto hanno fatto alcuni miei colleghi. Tanto per far comprendere a tutti voi quanto si era vicini alla “vera verità” sul Caso Moro, basterebbe leggere le carte presenti sul sito predetto: è pubblico e Gero, ed io e chi lo ha seguito, sostenuto, ascoltato, incoraggiato, lo sa e lo dirà sempre. A corroborare questa “vera verità” basterebbe anche ascoltare l’intervista che Gero Grassi ha rilasciato a Tele Sveva nel programma “Spazio Città”: ecco il titolo del video che immortala questa “vera verità”, SPAZIO CITTÀ - Intervista all'onorevole Gero Grassi (14-12-2017), cliccando sopra potrete vederla e ascoltarla. Vi riporto un stralcio della “vera verità” detta dall’On. Gero Grassi: «In via Fani non c'erano solo le Brigate Rosse. C'erano uomini dei Servizi Segreti stranieri e italiani. C'erano i tedeschi. Al complotto Moro hanno partecipato la CIA, il KGB, il Mossad, una grande partecipazione della P2 che è stata determinante. Ciò che dico è tutto provato nei documenti della Commissione cui faccio parte. La novità è lo IOR di Marcinkus, che sta tutto dentro il Caso Moro. La prima prigione di Moro, cosa inaudita, nuovissima come notizia, è in via Massimi 91 a Roma, palazzine dello IOR, gestite da Marcinkus. La cosa altrettanto strana è che nelle palazzine dello IOR vivevano dei brigatisti, uomini della finanza palestinese, uomini di una società americana di copertura della CIA. Chi ha ucciso Moro non era un brigatista, era un uomo della 'Ndrangheta calabrese, defunto prima della fine degli anni '90, sepolto in Calabria, stava in carcere quando morì, e quindi questo dimostra che le Brigate rosse sono state comprimarie nel rapimento Moro, come ha detto Abu Bassam Sharif in Commissione, che era il braccio destro di Arafat, quando ha detto che le Brigate Rosse dopo Francheschini, Curcio e Cadol, erano state infiltrate dalla CIA e dai Servizi Segreti». Provate a dirle voi queste cose, e a scriverle come me, e poi ditemi se i polsi non vi tremano. Ecco, queste “vere verità”, come ha ben detto l’amico Gero sono state le cause della sua esclusione a questa tornata elettorale «Io escluso. Il Caso Moro colpisce ancora» lo sfogo di Gero, che accosta questo sua uscita a quella precedente che vide il Sen. Vittorio Cervone non ricandidato dall’allora DC perché proponente della Prima Commissione parlamentare sul Caso Moro che operò dal 1979 al 1983. Un caso? No! Un’amara verità, allorquando davanti al tavolo della Commissione finiscono nomi e sigle eccellenti. Per chi crede che Gero si fermerà, sbaglia. Lui continuerà nella sua opera per la “vera verità”. Certo non lo farà da parlamentare, ma le giovani coscienze possono essere edotte ed educate con incontri, conferenze, seminari, tavoli maieutici scolastici e universitari. Per chi invece crede che tre legislature son tante ed è ora di riposarsi, lo conforto rispondendo che per Gero Grassi la politica non è un lavoro bensì una passione, perciò non lo stanca se la si fa per ridare verità. L’Italia va avanti anche senza di lui ma azzoppata in una parte che la rende stabile, verità, legalità, giustizia. Del resto siamo in democrazia e rispetto chi non vorrebbe più Gero in Transatlantico, ma non lo condivido, e per certe persone che preferiscono “pulirsi” la faccia adulando il binomio Renzi-Emiliano per le scelte partitiche per gli attuali candidati, lo aborro. Non è questione di legislature, ma di portare avanti un lavoro che avrebbe ridato vita a ciò che altri hanno ucciso e condannato all’oblio. Così facendo si rimanda nella tomba il Pres. Aldo Moro. Il 16 marzo del 2018 ricadrà l’anniversario, il quarantesimo, della strage di via Fani e perciò, poi, dell’omicidio del Pres. Aldo Moro. Già ci sono contestazioni in essere e sempre da chi vuol celare la verità, da parte di chi vorrebbe una democrazia propria, rendendola incompiuta richiudendo il “Caso Moro”. Almeno in quest’occasione non permettiamo a costoro di oscurare le giovani menti. Gero ci sarà e poi ritornerà, certo che ritornerà in quel Parlamento, Renzi o senza Renzi, che di questo passo terminerà di essere il capo di un partito, non un segretario. Mi congedo con un pensiero che lo stesso Gero Grassi ha voluto esternare sul suo profilo social, citando Brecht: "Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi erano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare." Bertolt Brecht.
Grassi, tour elettorale col santino di Moro, scrive il 13 aprile 2017 Francesco Greco su "Il Giornale di Puglia". Si può “usare” un cadavere eccellente per disboscare la giungla della politica post-ideologica e “liquida” per avere una candidatura, anzi, una ricandidatura, nel tentativo di dare smalto a una carriera da mediano, avara di soddisfazioni? Si può andare in tour elettorale come i Rolling Stones a Cuba annunciando addirittura “la verità” sulle tante ombre del caso-Moro, e poi risolvere il tutto con una sagra della banalità (e delle vanità) da copia e incolla, sfondando porte aperte, ripetendo cose note come da bambini mandavamo a memoria “T’amo pio bove” e “La donzelletta vien dalla campagna”? E’ etico usare un corpo citazione della “Pietà” di Michelangelo, quello dello statista della Dc rapito a Roma dalle Brigate Rosse il 16 marzo 1978 e assassinato il 9 maggio? L’eredita di Moro è ingombrante e tentare di accreditarsela segno di supponenza. Ognuno si dà la visibilità che vuole e la tattica più efficace quando va in cerca di consensi, di un posto al sole, ma è l’impresa che sta compiendo il parlamentare pugliese Gero Grassi, Pd (già Margherita, moroteo d’annata) componente della commissione del caso-Moro, da un angolo all’altro dell’Apulia, da Vieste (Foggia) a Vignacastrisi (Lecce), e altre date inzeppano l’agenda: lo spettacolo è ambito da retroscenisti e complottisti nel paese dove a pensar male fai peccato ma quasi sempre c’azzecchi. “Non sarò ricandidato…”, sospira Grassi alla fine della performance fumando l’ennesima sigaretta dopo una lezioncina di due ore, tradendo freudianamente la ragione della fatica. Ma dai toni da campagna elettorale (mancano solo i “santini”) tutti avevano capito: rivelatore anche uno schizzo di veleno su Maurizio Gasparri che gli siede accanto in una commissione di cui “Il Fatto quotidiano” il 6 maggio 20’16 ha scritto che è “sommersa dalle bufale”. Un uomo così audace, sprezzante del pericolo, capace di andare a mezzanotte a Ostia Lido, il luogo dove la notte dei Morti del 1975 fu ucciso Pier Paolo Pasolini, dopo aver avvisato il figlio, per incontrare un caporedattore della Rai che dopo 40 anni si ricorda qualcosa sul bar “Olivetti” di via Fani, è segno che rincorre i mitomani. Tutti i luoghi comuni ripercorsi, i depistaggi sovrapposti, con gli attori (molti defunti) che recitano più parti in commedia: servitori dello Stato la mattina, nei servizi, ovviamente deviati, la sera. Ma la narrazione di Grassi si rivela tuttavia densa di omissis. Non una parola sui due della motocicletta sul luogo del rapimento il 16 marzo. Chi erano e cosa facevano? Non un cenno alla borsa di Moro “ravanata” chissà da chi e mostrata a “Il fatto” (Rai1) da Enzo Biagi. Non su chi può aver indotto chi era arrivato sul pianerottolo del covo di via Gradoli a fare retromarcia. Anzi, Grassi ha messo una “taglia” di 500 euro per cercare le Pagine Gialle di quegli anni, come se una via potesse essere inghiottita dal buco nero. Non un riferimento al “partito della fermezza”, Dc-Pci, guarda caso i partiti che avrebbero dovuto governare se lo statista di Maglie (ma qualcuno dice che è nato a Galatina) quel mattino fosse riuscito a giungere in Parlamento. Nulla sulla stessa Dc che tre anni dopo (aprile 1981) non è più inflessibile e va a trattare con la camorra per liberare Ciro Cirillo, politico dc. Doppia morale un sacco italian-style. E se quello di Moro fu un assassinio politico come aveva intuito Leonardo Sciascia, il canovaccio dipinto da Grassi, al contrario, tiene i politici sullo sfondo, li accredita quasi di folklore, calcando invece la mano su potenze straniere, i soliti servizi deviati, la P2 (ma anche Moro era massone) e le mafie, che probabilmente sono state esecutrici di volontà politiche maturate all’ombra dei palazzi e dello Stato. Se ci fosse stato un minimo di dibattito, e non un comizio a manetta, alla “così è se vi pare”, avremmo voluto chiedergli se ci sono ancora in vita politici che ebbero un qualche ruolo in una tragedia che ha segnato e condizionato la storia patria e che, all’italiana, offrì snodi farseschi (la seduta spiritica del 3 aprile): politici alla Prodi che chiedono lumi a un piattino (Othelma ancora era un garzoncello) su un tavolino a tre gambe sono buoni per i b-movie di Alvaro Vitali, Renzo Montagnani ed Edwige Fenech alle grandi manovre. In cambio dobbiamo credere, per fede, che le Br di Alberto Franceschini non hanno mai ucciso nessuno: sottinteso, gli assassini sono venuti dopo, con gli infiltrati. Che i governi sinora non hanno mai chiesto al Nicaragua l’estradizione di Alessio Casimirri, cittadino nicaraguense. E che la povera Emanuela Orlandi, sparita a 15 anni, “era incinta, non è stata rapita, e mi fermo qui…”. Qualcuno parlò di pedofilia oltretevere. Il padre, commesso alla Santa Sede, è morto nel 2004 a 74 anni credendo al rapimento, come ci crede ancora il fratello Pietro, ormai 50enne. Caro Grassi, stia sereno, continui a distribuire “santini” e la ricandidatura arriverà: ormai non è come in prima repubblica, le liste sono zeppe di società civile. Viviamo nella società dello spettacolo, dei talent, che ha leggi ferree, quasi scientifiche, ma non è con lo show che si arriva a una qualche verità sul coacervo di interessi coagenti che portarono all’omicidio di Moro. Ma serve a farsi mettere nel listino in posizione utile.
Gero Grassi “rompe le palle” sul caso Moro, scrive Nicola Teofilo Giovedì 25 Gennaio su "Turi Web". L’onorevole ospite a Turi, insultato sulla pagina Facebook perché ha dimostrato la verità. Il convegno su Aldo Moro tenutosi sabato scorso a "Mamma Rosa" a Turi, coincide nella settimana delle polemiche scatenate dal post scioccante della ex terrorista delle Brigate Rosse, Barbara Balzarani. “Chi mi ospita oltreconfine per i fasti del 40ennale?” ha scritto la Primula Rossa, ironizzando sul quarantennale che ricorre dal sequestro di Aldo Moro e dall’eccidio della sua scorta, il 16 marzo del 1978 in Via Fani. Lei partecipò a quella strage bloccando il traffico con una paletta della polizia. Ma non fu l’unica dei protagonisti noti di quell’attentato. Perché – insiste Gero Grassi – "le Br non agirono da sole". Per questo, a margine di quel post, l’on. Grassi (componente della Commissione d’Inchiesta sul caso Moro) è stato insultato, accusato di “rompere le palle” sul caso Moro. Grassi è stato ospite sabato scorso al convegno di Turi. Sono intervenuti: il sindaco Coppi, Nicola De Grisantis (presidente Centro Studi ‘Aldo Moro’), Vitangelo Scisci (presidente Centro Studi di Storia e Cultura di Turi), Pierangelo Antonio Pugliese (presidente del Lions Club Turi ‘Matteo Pugliese’) e tra il pubblico l’immancabile Simeone Maggiolini, grande amico di Moro. “Nel novembre del 2014 – dichiara Grassi – il Procuratore alla Repubblica di Roma Ciampoli ha scritto che è ormai certo che in Via Fani, insieme alle Brigate Rosse, vi fossero elementi dei servizi segreti deviati dello Stato, uomini della mafia romana (Banda della Magliana) e uomini dei servizi segreti europei che avevano interesse per lo meno a creare caos in Italia. Oltre a questo è emerso che in via Fani vi erano almeno due persone che parlavano in tedesco, è stato, infatti, più volte ripetuto il termine “Achtung””. Ma non è tutto. Sono state rilevate “incongruenze anche a riguardo dell’esecuzione materiale del sequestro. I brigatisti hanno più volte affermato che si sarebbe sparato solo da sinistra. La Commissione ha accertato che si è sparato anche da destra. Tutto ciò ci induce a ritenere che in via Fani vi fossero “anche” le Brigate Rosse”.
GERO GRASSI: “ALDO MORO: LA VERITA’ NEGATA”, scrive Vito De Leo su "Corato Live" giovedì 25 gennaio 2018. Dopo oltre 500 interessantissime conferenze tenute in molteplici città italiane sul tema “Chi e perché ha ucciso Aldo Moro”, a partire dal 1 novembre 2014 (Terlizzi), effettuate nel suo ruolo di vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, istituita su sua proposta, con la legge n. 82 del 31 maggio 2014, nel mese di gennaio 2018, l’amico on. le Gero Grassi, ha pubblicato cinquemila copie del suo ultimo libro intitolato “ALDO MORO: LA VERITA’ NEGATA” edito dal Centro Stampa di Terlizzi. Essendo stato uno dei tantissimi amici destinatari di questa importantissima pubblicazione, nella mia veste di referente del Centro Studi Politici “Aldo Moro” di Corato, non posso esimermi dall’esprimere pubblicamente la mia gratitudine e l’ammirazione per questo tenace, instancabile professionista della ricerca della verità effettuata anche nel suo ruolo di vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta presieduta dall’on. Giuseppe Fioroni, che ha relazionato sull’attività svolta dalla Commissione nella seduta del 6 dicembre 2017. “In questo, come in altri ambiti, - si legge nella relazione della Commissione trasmessa alla presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini e al presidente del Senato Pietro Grasso – la Commissione ha potuto compiere passi avanti in quanto ha potuto acquisire un’ingente documentazione e ha potuto individuare fonti dimenticate o occultate, che sono state lette alla luce delle audizioni e delle attività d’indagine delegate ai collaboratori e alle forze di polizia”. Il libro di 233 pagine ha le prefazioni di Maria Fida Moro – primogenita di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni – presidente Commissione Moro 2, Alberto Franceschini – fondatore delle Brigate rosse, Ettore Rosato – presidente Gruppo PD Camera Deputati. Per farne comprendere il vario, utile e importante contenuto sulla tragica vicenda, ritengo di fare cosa utile riportare l’ultimo capitolo del libro. “E’ quasi finita. Scrivo queste ultime righe del libro il giorno di Natale 2017. Dopodomani il libro va in stampa. Ripercorro con la mente quattro anni di lunghissimo e duro lavoro in tutta Italia, ma anche i quaranta anni che intercorrono dal 16 marzo 1978 ad oggi. Tanti sacrifici, tante rinunce, tante emozioni, tanto lavoro. 500 manifestazioni sul tema "Chi e perché ha ucciso Aldo Moro", dappertutto in Italia. Accolto sempre benissimo da amici del Partito Democratico, ma anche da tanti sindaci di altro schieramento e da uomini e donne in rappresentanza di associazioni culturali. Nelle piccole e grandi città. Senza il Gruppo del Partito Democratico alla Camera nulla sarebbe stato possibile. Alla fiducia avuta ho risposto dando quattro anni della mia vita. Ogni giorno. Stupendo il ricordo delle tante scuole visitate e dei tantissimi giovani che mantengono un rapporto epistolare con me su Aldo Moro. Grazie ai tantissimi Dirigenti Scolastici e ai tanti professori che hanno studiato, approfondito e parlato di Aldo Moro. Sono la dimostrazione di una scuola, quella italiana, che è migliore di come viene rappresentata, in alcuni casi, dagli stessi operatori. La scuola che affronta il dramma Moro è una scuola che guarda al futuro e che non ha paura della verità. Grazie alle migliaia di cittadini che mi hanno ascoltato con una partecipazione emotiva impressionante. Rivedo Aldo Moro quando ero bambino. Lui frequentava le piazze di Puglia da Presidente del Consiglio. Un Uomo buono. Quando lo uccidono, Moro ha poco meno di 62 anni. Il prossimo aprile io ne avrò 60. Tantissimi rispetto al bambino che conosce Moro il 24 aprile 1963 a Terlizzi. Non avrei mai pensato di sedere sui banchi che lui frequenta alla Camera dei Deputati dal 1946 al 1978. Mai avrei immaginato, come lui, di essere Vicepresidente di un Gruppo Parlamentare. Piccole responsabilità le mie, rispetto alle grandissime sue. Giustamente. Sono felice di esserci stato. La XVII legislatura è finita. Così come finirono la XV e la XVI che mi videro Parlamentare della Repubblica. Un grandissimo onore per me. Non so cosa mi riserva il futuro. Il mio ultimo intervento alla Camera lo ricorderò sempre, come il primo. Sono intervenuto in rappresentanza del Gruppo PD, il 13 dicembre 2017, per la dichiarazione di voto sull’approvazione della Terza Relazione Moro, votata dal Parlamento all’unanimità, con un solo astenuto. Mai avrei immaginato, in un Parlamento diviso su tutto, tale coralità. Evidentemente, quando vuole, la classe politica sa dare il meglio di sé. Come il Paese. Voglio ringraziare tutti coloro i quali mi hanno aiutato ed anche quelli che mi hanno ostacolato. Ai primi il grazie per la collaborazione, ai secondi il grazie perché hanno rafforzato in me la convinzione che bisognava rincorrere la verità. Renato Dell’Andro, il giorno in cui sostengo l’esame di Diritto Penale all’Università di Bari, mi dice: “Aldo Moro non morirà mai. Nella vita e nella morte è stato un Maestro. Moro si è distinto per la centralità che ha sempre dato ad ogni persona”. Rino Formica, più volte Ministro socialista, barese, il 29 gennaio 1992, scrive: “Il mistero della cattura, della prigionia e della morte di Aldo Moro è il grande buco nero della storia repubblicana. Gli archivi da aprire sono numerosi, le sincere confessioni forse non sono mai cominciate, ma ciò che si consolida è la convinzione che subito maturò in noi: il sequestro Moro fu possibile perché l’ordine internazionale difendeva disperatamente equilibri sempre più precari avvalendosi di forze e apparati nazionali ossequiosi e marci. Se questa tragedia, purtroppo, rivive con l’uso abile e spregiudicato di veri o falsi annunci è perché tanti hanno avuto paura di andare sino in fondo”. L’obiettivo della verità sulla strage dei cinque uomini della scorta ed il rapimento di Aldo Moro in via Fani resta attuale, come attuale è la verità sulla morte di Moro. La Commissione Moro-2 ha dato un grandissimo contributo facendo emergere novità sinora sconosciute. Chi non vuole ammetterlo, commette un grave errore ed è poco trasparente, se non in malafede. Io sono felice di aver parlato di Moro in ogni parte d’Italia. Il mio omaggio ad uno statista e ai cinque uomini della scorta, barbaramente assassinati: Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Forse oggi possono riposare in pace. Sono lieto di aver contribuito a tutto questo e di aver donato il massimo dell’impegno. Per Aldo Moro, il Paese, la verità e la giustizia ne è valsa la pena. E’ stato bello. Grazie a tutti”. Vito De Leo.
Caso Moro e omicidio Dalla Chiesa, spunta un boss di Taranto, scrive il 23 gennaio 2018 su "La Ringhiera" Michele Tursi. E’ un intreccio fitto e inestricabile. Verità ufficiali, verità paralelle, verità nascoste. Omissioni e depistaggi. Dopo quarant’anni il caso Moro è ancora in cima ai misteri della Repubblica italiana. Il buio e le nebbie sono stati in parte rischiarati e oggi c’è una relazione approvata dal Parlamento che, come dice l’on. Gero Grassi, ci consegna il 90 per cento della verità su una vicenda che tutti gli italiani dovrebbero conoscere in cui ci sono state “anche le Brigate Rosse”. Serata ad alta tensione quella proposta dalla Bcc San Marzano di San Giuseppe, con il patrocinio del Dipartimento Jonico in Sistemi Giuridici ed Economici del Mediterraneo, svoltasi nella sala conferenze dell’Università, nella città vecchia di Taranto. Protagonisti sono Antonio Ferrari, giornalista del Corriere della Sera, autore del libro “Il Segreto” (ChiareLettere) che propone una versione romanzata del caso Moro e l’on. Gero Grassi (Pd), componente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul rapimento e sul delitto di Aldo Moro. Un viaggio nelle trame che hanno segnato la storia d’Italia in cui compare anche un malavitoso della provincia di Taranto. Si tratta di Alberto Lorusso di Montemesola (di cui abbiamo già scritto), detenuto con Totò Riina nel carcere di Opera a Milano. A lui il “capo dei capi” affida una confidenza sull’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Ci hanno chiesto un favore. Lo abbiamo ucciso per fottergli le carte di Moro”. L’on. Grassi ricostruisce l’intreccio tra le colonne dell’ex caserma Rossarol, citando a memoria date, nomi e frasi. 485 incontri e 170 audizioni ne fanno uno tra i massimi esperti di un delitto intorno al quale nel 1978 convergono interessi nazionali ed internazionali. Una scacchiera su cui si muovono la Cia, il Kgb, il Mossad, la loggia P2, la camorra, la ‘ndrangheta e la mafia. Un caso su cui ancora oggi, dice Ferrari “ci sono troppe cose che non quadrano”. Un mistero su cui molti vorrebbero definitivamente stendere una coltre di silenzio perchè, come ammonisce il giornalista del Corsera “la memoria dà molto fastidio”.
Dalla cella di Totò Riina i segreti di un traffico di droga tra Taranto e Varese, scrive il 16 novembre 2017 "La Ringhiera". A settembre era riuscito a sfuggire alla cattura dileguandosi tra le campagne intorno alla propria abitazione a Villa Castelli (Brindisi). Aveva poi lasciato l’Italia rifugiandosi in Romania. Da qui, grazie all’appoggio di alcuni complici, era rimpatriato utilizzando documenti falsi, travestimenti e parrucche. Infine aveva trovato rifugio a Erchie, ospite di Emanuele Valentino Fazzi, 34 anni, personaggio noto alle forze dell’ordine. Ma il ritorno in Italia è costato caro a Giancarlo Matichecchia, 48 anni, nato a Cosenza, ma residente in provincia di Taranto. I due sono stati bloccati ad Erchie a bordo di una Fiat Punto in uso a Fazzi. Matichecchia si preparava a lasciare nuovamente il territorio nazionale per raggiungere la Germania. Nell’auto i carabinieri del Ros (reparto operativo speciale) hanno rinvenuto apparati telefonici dedicati, documenti falsi, uno scanner e denaro in contanti. Per entrambi sono scattate le manette. Fazzi dovrà rispondere di favoreggiamento personale, Matichecchia di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione illegale di armi da fuoco. Nei suoi confronti pendeva, infatti, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del Tribunale di Lecce, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Entrambi sono rinchiusi nella casa circondariale di Brindisi. A settembre, quando Matichecchia scappò, erano stati arrestati Pierluigi Cafforio, 38 anni, di Grottaglie (Taranto) e Salvatore Margherita, 49 anni di Taranto. L’operazione fu eseguita dai carabinieri del ROS coadiuvati dai comandi provinciali di Taranto e Varese ed era scaturita da un’indagine condotta nei confronti di alcuni esponenti del clan Lorusso, operante nel comprensorio di Grottaglie, ritenuti responsabili di traffico di sostanze stupefacenti. L’inchiesta è partita da un’attività delegata al Ros dalla Procura di Caltanissetta a seguito del coinvolgimento di Alberto Lorusso, esponente di rilievo dell’omonimo sodalizio, nelle minacce rivolte dai vertici di cosa nostra ai magistrati della Procura di Palermo Antonino Di Matteo e Francesco Del Bene. Nel 2013 la Procura nissena aveva delegato il Ros allo svolgimento di indagini su Lorusso che in quel periodo era detenuto insieme a Totò Riina nel carcere di Milano-Opera. L’attenzione degli investigatori era concentrata sull’effettiva disponibilità di un “arsenale militare” di cui avevano parlato Lorusso e il boss mafioso. Lorusso, infatti, in più occasioni aveva ricevuto le confidenze di Riina inerenti i propositi di vendetta nutriti da quest’ultimo nei confronti dei responsabili dei disagi connessi al regime del carcere duro cui era sottoposto. Lorusso avrebbe ascoltato anche le considerazioni riguardanti gli auspicati attentati al pm Di Matteo a seguito delle iniziative giudiziarie che avevano fatto scaturire il processo ai soggetti coinvolti nella “trattativa”. Le attività investigative avevano preso il via con il monitoraggio del nucleo familiare e dei soggetti vicini a Lorusso, tra i quali Matichecchia e Margherita, quest’ultimo residente in provincia di Varese, sul conto dei quali aveva già riferito, alla fine degli anni ’90, il collaboratore di giustizia Ciro Carriere. Gli sviluppi dell’indagine hanno permesso di accertare il coinvolgimento degli indagati nel traffico di sostanze stupefacenti gestito da Matichecchia che vantava un consolidato rapporto con esponenti della ‘ndrangheta di Rosarno (Reggio Calabria). In particolare, venivano documentati diversi incontri, a Grottaglie, con esponenti criminali reggini per pianificare l’importazione di sostanze stupefacenti da commercializzare nelle provincie di Taranto e Varese. Le indagini hanno permesso di individuare nelle rapine ai portavalori ad agli istituti di credito, un’altra delle fonti illecite di guadagno degli indagati.
Moro: Fioroni, se protetto altra piega, scrive il 12 dicembre 2017, "Ansa". "Emerge con chiarezza che la storia avrebbe preso una piega ben diversa se Aldo Moro fosse stato protetto". Lo afferma in Aula, a Montecitorio, Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione parlamentare di indagine sul rapimento e la morte di Moro, presentando la terza relazione dell'organismo parlamentare. Fioroni conferma quanto ha potuto chiarire la Commissione, riferendosi alle segnalazioni fatte prima del sequestro da fonti palestinesi, arrivate in Italia e lasciate senza seguito. Fioroni ha ricordato come la vicenda "vada vista nell'analisi del contesto mediterraneo, in particolare nella connessione con i rapporti Italia-Medio-Oriente".
Aldo Moro, a premere il grilletto fu uno ‘ndranghetista calabrese. Questi gli esiti del lavoro svolto dalla commissione parlamentare. Brigate rosse ma non solo, per il rapimento e l'assassinio dello statista pugliese, scrive il 14 dicembre 2017 "Noi Notizie". Giustino Di Buono, calabrese ‘ndranghetista. Fu lui a premere il grilletto e ad ammazzare Aldo Moro. Queste le conclusioni alle quali giunge la commissione parlamentare presieduta dal parlamentare pugliese Gero Grassi. Quasi in chiusura della legislatura, presentati gli esiti del lavoro di quella commissione che, è detto con chiarezza dai commissari, porta a dire: non solo brigate rosse. Magistratura che omise, una trattativa fra pezzi dello Stato e criminalità negli anni Ottanta, un affaire ben più ampio della stella a cinque punte.
La strage di via Fani e la caccia alla ‘ndrangheta e ai servizi segreti. La commissione Moro è finita nel nulla, senza scoprire complotti. E alla fine i Ris e il Dna confermano quel che sappiamo sul sequestro Moro. Non c'è singolo passaggio dei "55 giorni" che non sia stato rivisitato, nel quadro di un'ottica dietrologica e complottista: la commissione ha perlustrato una quantità enorme di piste e ipotesi. Alla resa dei conti, però, tutte le ipotesi investigative scandagliate non hanno prodotto risultati tali da consentire una sintesi coerente. E così la Commissione non trarrà conclusioni, scrive Ugo Maria Tassinari, giornalista e studioso, su "Notizie tiscali" il 14 dicembre 2017. Ancora una volta, una commissione parlamentare d’inchiesta che si è occupata della vicenda Moro finisce i suoi lavori senza giungere a conclusioni. Stamattina, in una conferenza stampa, il presidente Fioroni presenterà il terzo report provvisorio, un volumone di quasi 300 pagine che documenta un lavoro imponente ma impotente. Era già successo sedici anni fa con quella presieduta dal senatore Pellegrino. In quel caso, però, la bozza di relazione proposta dal parlamentare diessino lasciò traccia, orientando saggistica e cronaca giornalistica sul terrorismo italiano verso una maggiore attenzione al contesto internazionale e ai giochi politici e militari delle potenze, più o meno grandi, attive nello scacchiere mediterraneo.
La I Commissione e Leonardo Sciascia. Solo la prima Commissione Moro c’è riuscita, nonostante la chiusura anticipata di un anno della legislatura, nel 1983. Anzi mise capo a due relazioni conclusive contrapposte, una di maggioranza approvata da Dc, Pci, repubblicani e socialdemocratici, l'altra, opera prevalente di Leonardo Sciascia, votata da uno schieramento trasversale che andava dal Msi ai socialisti, cioè le forze che per distinte ragioni dissentivano dalle posizioni e dalla ricostruzione storica di quello che era stato il "partito della fermezza", l'ampia coalizione che rifiutò ogni trattativa con le Brigate rosse durante il sequestro di Aldo Moro.
Tante le piste finite nel nulla. Molte e roboanti le anticipazioni su clamorose svolte investigative annunciate dal presidente Fioroni e dal più attivo dei commissari, Gero Grassi, che si è impegnato in un faticosissimo e meritorio tour in decine di scuole per raccontare a migliaia di studenti una pagina a loro spesso ignota della recente storia italiana. Non c'è singolo passaggio dei "55 giorni" che non sia stato rivisitato, nel quadro di un'ottica dietrologica e complottista: dal numero dei brigatisti attivi a via Fani alle "presenze inquinanti" sulla scena del rapimento ('ndranghetisti, uomini dei servizi segreti, terroristi tedeschi, motociclisti di supporto), dalle prigioni di Moro alla visita di un sacerdote nel covo, dalle influenze internazionali alle modalità dell'omicidio del leader dc, la commissione ha perlustrato una quantità enorme di piste e ipotesi. Alla resa dei conti, però, tutte le tracce investigative scandagliate non hanno prodotto risultati tali da consentire una sintesi coerente. In molto casi sono stati inviati gli atti alla magistratura romana delegandole il compito di fare chiarezza e tirare le somme. Un'ammissione di resa per una commissione d’inchiesta dotata di poteri giudiziari.
Le nuove tecnologie confermano le sentenze. Gli accertamenti svolti applicando nuove tecnologie hanno confermato nella sostanza le conclusioni processuali. Non risulta traccia del Dna di Aldo Moro nel covo di via Gradoli, dove abitavano i capi delle Br, Mario Moretti e Barbara Balzerani. L'analisi balistica con tecnica tridimensionale non smentisce la ricostruzione dei brigatisti sulla dinamica della sparatoria di via Fani. Anche la fase drammatica dell'esecuzione del presidente della Dc, confutata da un agguerrito pool di cultori del "mistero Moro", ha retto alla verifica dei Ris: le prove di ingombro, di sparo e acustiche hanno confermato la compatibilità sostanziale del racconto brigatista. Moro è colpito da una raffica appena si siede nel pianale posteriore della R4 poi si accascia, seguono altre due raffiche e il colpo di pistola. A sparare sono stati in due, con il "quarto uomo" Germano Maccari che subentra a Mario Moretti, emotivamente scosso. Una dinamica che ha qualche evidente contraddizione e che difficilmente potrà essere chiarita in futuro, visto che il primo brigatista, reo confesso, è morto da tempo e il secondo si è sempre rifiutato di fornire precisazioni sui particolari.
Quelle strane presenze in Via Fani. In qualche caso sono stati gli stessi supertestimoni a venire meno: l'ingegnere Marini, presente sulla scena del rapimento, dopo aver alimentato un appassionato dibattito sulla presenza di una moto Honda a supporto del commando brigatista, alla fine, ha ammesso che nessuno aveva sparato contro il suo parabrezza ma che questo si era rotto nei giorni precedenti il 16 marzo. E questa, paradossalmente, è una delle poche smentite delle sentenze passate in giudicato: perché tra le condanne per reati "minori" dei brigatisti presenti a via Fani c'è anche il tentato omicidio dello stesso Marini. Della testimonianza di tale Nirta, nipote di un boss nella 'ndrangheta e identificato tra i presenti sulla scena del crimine in un giovane riccioluto assai somigliante a Ninetto Davoli, la Commissione ha deciso di fare a meno così come di altre tracce investigative sui collegamenti tra Brigate rosse e terrorismo internazionale. Tracce e materiali che sicuramente arricchiranno il dibattito e le inchieste giornalistiche nei prossimi mesi.
Commissione Moro, approvata dopo 40 anni la relazione che riscrive la verità sull'omicidio dello statista della Dc. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta, scrive il 13/12/2017 Maria Antonietta Calabrò, Giornalista dell'Huffingtonpost.it. Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quasi quarant'anni anni) del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima Relazione, approvata il 6 dicembre e depositata per l'approvazione dell'Aula alla Camera, oggi, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di Via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei Carabinieri, quell'auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che veramente il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita perché la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma dalle fonti palestinesi del colonnello Giovannone, un mese prima del sequestro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta.
Gallinari latitante nella palazzina dello Ior. La Relazione spiega ancora che Moro ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Dimostra che in un modo o nell'altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda. A cominciare dall'individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina, di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus. Dove aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell'Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate rosse. "Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato - si legge nel documento - per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista". La Relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che Prospero Gallinari (il carceriere di Moro) e le armi usate dalle Br a via Fani, sono stati nascosti per alcuni mesi, nell'autunno 1978, nello stesso stabile di Via Massimi 91, in cui si ipotizza essere stato il covo-prigione.
Una narrativa confezionata a tavolino. Ma soprattutto la Commissione ha accertato - grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell'ordine seguita alla cosiddetta "direttiva Renzi", - che la "narrativa" ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una "versione ufficiale e di Stato" del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga. L'unica verità "dicibile" per chiudere l'epoca del terrorismo. Una verità di comodo messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell'ordine e naturalmente dai brigatisti. Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, come si chiamava allora il servizio segreto interno.
Echi di Guerra fredda: una società americana e il Kgb. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Giuliana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia "del più importante agente del Kgb in Italia", come l'ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro "L'Archivio Microchip"), "è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di Viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l'arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato". "Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell'eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale". Ancora: "Al di là dell'accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell'azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell'omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse". Al riguardo Fioroni parla di "martirio laico" di Moro. Un martirio avvenuto ai tempi della Guerra fredda.
Il figlio del capitano Corelli. Un capitolo particolare è dedicato alle "protezioni" che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l'ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l'estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani. "Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano - ha raccontato il vicepresidente della Commissione Vero Grassi - riconobbe Casimirri, già latitante, per strada e corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo". Negli scorsi giorni proprio il cantante aveva raccontato a Vanity Fair di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni '70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, ricordando come lui, bambino, restava affascinato dai racconti che Luciano e Ermanzia Casimirri facevano del figlio, già ai tempi provetto sub e pescatore subacqueo, fino al giorno in cui lo stesso Alessio gli mostrò i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano è a sua volta un personaggio leggendario. Responsabile della Sala stampa vaticana sotto tre papi - Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI -, dunque per circa trent'anni, è stato un ufficiale italiano durante la Seconda Guerra Mondiale sopravvissuto all'eccidio della Divisione Aqui a Cefalonia, e secondo le parole del suo stesso figlio, alla sua figura si è ispirato il romanzo dello scrittore britannico Louis De Bernières "Il mandolino del capitano Corelli", e l'omonimo film interpretato da Nicholas Cage e Penelope Cruz.
L’ultimo latitante del caso Moro. Il mistero dell’arresto fantasma. Trovato dalla commissione parlamentare d’inchiesta un documento nell’archivio dei carabinieri. L’ex br Alessio Casimirri è rifugiato in Nicaragua dal 1983, scrive il 18 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera". La vita avventurosa dell’ex brigatista rosso Alessio Casimirri — uno dei dieci componenti del commando che rapì Aldo Moro in via Fani, 1l 16 marzo 1978, oggi sessantaseienne cittadino nicaraguense — s’è dipanata tra i giardini vaticani dove giocava da bambino, la lotta armata praticata negli anni Settanta e il rifugio centro-americano dove vive dal 1983. Mai passato da una prigione; unico tra i sequestratori del presidente della Democrazia cristiana ad aver evitato l’arresto. Una inafferrabile «primula rossa», intorno alla quale si sono costruite ipotesi più o meno fondate, e persino leggende. Alimentate prima dall’essere figlio e nipote di alti funzionari della Santa Sede, con tanto di prima comunione ricevuta dalle mani di Paolo VI, e poi dalle presunte protezioni garantite dal governo sandinista in Nicaragua.
Nome già noto. Oggi però, dagli archivi del Comando provinciale dei carabinieri di Roma, spunta un documento che rappresenta un mistero autentico, e ripropone gli interrogativi sull’ex terrorista ancora uccel di bosco. È un cartellino fotodattiloscopico utilizzato per identificare le persone, saltato fuori dalle ricerche ordinate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio Moro. La data dell’avvenuto accertamento è il 4 maggio 1982, quando a carico di Casimirri pendevano due mandati di cattura per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, accusa debitamente annotata sul cartellino. E alla voce «motivo del segnalamento» il compilatore tuttora anonimo (c’è una firma illeggibile) scrisse «arresto». Ufficio segnalatore: una serie di abbreviazioni che stanno a significare «Reparto operativo carabinieri Roma». Logica vorrebbe che per Alessio Casimirri — un nome all’epoca già iscritto sulla rubrica delle frontiere, come persona da fermare in caso di tentativo di espatrio — quel giorno si fossero aperte le porte del carcere. Invece così non è stato. Non risulta che l’allora militante delle Br dal nome di battaglia «Camillo» (altro particolare segnalato sul cartellino) abbia mai messo piede in una cella. Perché? Com’è possibile che un ricercato venga fermato e fotosegnalato, ma poi liberato?
Dubbi e anomalie. Dell’operazione non c’è traccia in nessun altro documento giudiziario, e alla data del 4 maggio ’82 non si hanno notizie del suo fermo né di altri terroristi. Un arresto fantasma, insomma; certificato da un documento apparentemente autentico, senza che si sia mai realmente verificato. L’apparenza dell’autenticità deriva dal fatto che il cartellino è di quelli effettivamente in uso, nel 1982, alle forze di polizia, ma nella compilazione ci sono alcune anomalie. La più evidente sta nella foto: non è di quelle normalmente scattate negli uffici investigativi, su tre lati (di fronte, fianco destro e fianco sinistro, accanto al misuratore di centimetri che stabilisce l’altezza) bensì è un’unica fototessera, trovata probabilmente a casa di Casimirri durante una perquisizione (senza esito, lui non c’era) effettuata durante i giorni del sequestro Moro, il 3 aprile ’78. Perché? L’indicazione del falso nome «Camillo» è di provenienza ignota, e le dieci impronte digitali delle due mani impresse su entrambe i lati non si sa di chi siano: per procedere a un confronto la commissione Moro ha chiesto alle autorità nicaraguensi, tramite canali diplomatici, il recupero di quelle autentiche, ma la risposta (chissà quanto credibile) è che non le hanno. Nello spazio riservato alla firma della persona segnalata, il carabiniere compilatore scrisse «si rifiuta», e dunque non c’è nemmeno la possibilità di perizie calligrafiche.
La lettera di Fioroni. Tutto questo alimenta il mistero: si trattò di un’operazione interrotta (dopo il fermo qualcuno intervenne per lasciare andare Casimirri), di cui qualche zelante militare volle comunque dare atto lasciando una traccia rimasta sepolta in un archivio per 35 anni? Oppure è un falso costruito apposta? Ma da chi, quando e con quali finalità? Sono domande che autorizzano a riproporre i molti enigmi maturati intorno all’ultimo latitante del «caso Moro»; compreso quello, rimasto senza riscontri, a cui accennò l’ex pubblico ministero Antonio Marini alla commissione stragi nel 1995, quando riferì la voce secondo cui l’ex br sarebbe stato un informatore di un ex capitano dei carabinieri (poi identificato nel generale Antonio Delfino, morto nel 2014) che l’avrebbe passato al Sismi, il servizio segreto militare. Teorie mai verificate, che tornano d’attualità con la prova dell’arresto fantasma.
Per adesso il presidente della commissione Moro, Giuseppe Fioroni, si è limitato a scrivere una lettera al presidente del Consiglio Gentiloni, e ai ministri Alfano, Minniti e Orlando, per sottoporre nuovamente al governo la necessità di «promuovere l’estradizione del latitante Alessio Casimirri». Fioroni ricostruisce la sua carriera di estremista e brigatista, avanza «ampi dubbi sulle protezioni di cui egli poté eventualmente godere», e cita il mistero del fermo per sostenere che «poté sottrarsi alla giustizia grazie al concorso di una rete di complicità che la Commissione sta cercando di ricostruire».
Caso Moro, spunta un documento sul brigatista Casimirri: “Fu arrestato in Italia nel 1982. Ora estradizione”. Dopo il caso Battisti, Fioroni scrive al presidente del Consiglio e chiede stesso impegno per estradizione dell'ex primula nera del brigatismo rosso. “La latitanza è una offesa alle vittime e alla giustizia”, scrive Stefania Limiti il 18 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Dalla grande nebulosa del caso Moro, qui e là, viene sempre fuori qualcosa di inedito. La Commissione parlamentare d’inchiesta ha scoperto che Alessio Casimirri, la primula nera del brigatismo rosso, fu arrestato nel maggio del 1982 e nessuno lo aveva mai saputo. Significa che rimase in Italia più a lungo di quanto non si supponesse fino ad ora, ed anche che le ricerche furono fatte proprio male, e poi anche che potè contare su una rete di complicità importante. Dalle recenti indagini è inoltre emerso che diversi documenti e un’agendina telefonica che gli vennero sequestrati il 3 aprile 1978, durante una perquisizione disposta nell’ambito delle indagini sul rapimento Moro, non sono mai stati oggetto di indagine. Giuseppe Fioroni, presidente dell’organismo parlamentare, lo ha reso noto oggi diffondendo una sua lettera al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ai ministri Minniti, Orlando e Alfano, nella quale chiede al Governo lo stesso impegno profuso per mettere all’angolo Cesare Battisti, l’ex militante dei Pac riparato in Brasile, anche per ottenere risultati dalle autorità di Managua. Casimirri, infatti, vive in Nicaragua da molti anni e di quel Paese è cittadino a tutti gli effetti, motivo che rende l’iter burocratico assai complicato – l’Italia chiese invano per la prima volta la sua estradizione nel settembre del 1988. Fioroni scrive cautamente che le modalità con cui Casimirri lasciò l’Italia non sono mai state chiarite: in realtà, si è scritto molto in questi anni e autorevoli osservatori hanno sostenuto che scappò con comodo grazie ad un regolare passaporto falso messogli a disposizione dai servizi segreti. Scappò in Francia con un compagno brigatista, Raimondo Etro, ma questi ne perse le tracce per una settimana. Poi lo rivide pronto alla partenza per l’oltreoceano, Etro rimase in Francia ed ebbe altra sorte. Figlio di un funzionario dello Stato Vaticano, Casimirri fu un dirigente di spiccò della colonna brigatista romana costituita attorno al 76-77 e che fu centrale dell’Operazione Frezza, il rapimento e il sequestro di Aldo Moro. Alessio è componente del commando di Via Fani, dove viene preso il presidente della Democrazia cristiana, miracolosamente o misteriosamente illeso, e trucidati tutti gli agenti della sua scorta. Oltre all’ergastolo per il caso Moro, pendono sulla sua testa anche altre pesanti condanne per l’omicidio dei magistrati Palma e Tartaglione e degli agenti di Polizia Mea e Ollanu, colpiti durante l’assalto di Piazza Nicosia alla sede della D.C. Secondo Fioroni “Lo sforzo di ricerca della verità sulla vicenda Moro non può prescindere da un ulteriore tentativo di porre termine a una latitanza che è offensiva per le vittime e per la giustizia”. Ma c’è anche un altro piano di interesse: la fuga di Casimirri, e la tenuta della sua latitanza, infatti, sono sempre state oggetto di riflessione per gli straordinari contatti che le hanno consentite e che gettano una lunga ombra non solo sulla sua figura ma anche sul delitto Moro i cui misteri ruotano intorno alla esistenza e alla natura delle interferenze di soggetti e forze estranei al mondo brigatista o criminale. Come ilfattoquotidiano.it scrisse tre anni fa, nel 2006 Casimirri è uscito indenne da un tentativo di esfiltrazione organizzato già nei minimi dettagli ma sospeso da non si sa quale scala gerarchica e, in precedenza, nel ’98, fallì nel tentativo di ascoltarlo anche il magistrato milanese Meroni, che cercava riscontri ad alcune testimonianze che collegavano Valerio Morucci all’omicidio Calabresi. Insomma, è una latitanza che pesa più di altre, se è possibile una gerarchia: sono in tutto 34, secondo i dati del ministero della Giustizia, i ricercati all’estero per fatti di terrorismo nazionale. Paradosso della nostra strana storia: non c’è il nome del neofascista Delfo Zorzi perché nessun tribunale riuscì ad incastrarlo.
Biografia di Alessio Casimirri di Giorgio Dell'Arti.
Roma 1951. Terrorista. L’ultimo brigatista latitante del commando che rapì Aldo Moro. Dopo essere stato a Cuba e in Libia, dall’83 vive in Nicaragua.
Figlio di Luciano Casimirri, capo dell’ufficio stampa e portavoce di tre pontefici, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. «Fu Paolo VI in persona a celebrare la sua prima comunione. Chissà se avrebbe mai potuto immaginare che quel bambino sarebbe poi diventato uno dei rapitori di Aldo Moro... Per il quale il papa rivolse agli uomini delle Brigate Rosse un accorato appello per ottenerne la liberazione (Aldo Grandi) [L’ultimo brigatista, Rizzoli 2007].
«A parlare di Casimirri come componente del commando di via Fani furono Valerio Morucci e Adriana Faranda: i due br dissidenti decisero di dissociarsi con un documento in cui per la prima volta indicavano solo con le sigle i nomi di 2 terroristi mai comparsi prima, cioè A.C. (Alessio Casimirri) e A.L. (Alvaro Loiacono). Ha avuto rapporti proficui con i servizi segreti. Con quelli dell’Est, a suo tempo, tra l’81 e l’82, essendo fuggito in Centroamerica dall’Italia passando per Parigi e poi Mosca. Si favoleggia anche di una sosta a Cuba prima di essere fraternamente accolto dal rivoluzionario Daniel Ortega a Managua. Ma l’ex terrorista ha stretto un qualche accordo anche con i nostri servizi. Era il 1993 quando due agenti del Sisde, Mario Fabbri e Carlo Parolisi, lo contattarono nel suo ristorante “Magica Roma”, locale alla moda nel centro della capitale nicaraguense. Il risultato si vide qualche mese dopo: quando la magistratura romana poté impiantare il cosiddetto Moro quinquies, il quinto processo sul delitto Moro, a carico di due soli imputati. Si chiamavano Germano Maccari e Raimondo Etro. I nomi li aveva fatti Casimirri» (Sta).
La versione di Grandi sostiene che il lignaggio ne avrebbe facilitato la fuga: «Nel giugno 1987, sul tavolo di un dirigente del Sisde, Riccardo Malpica, arrivò un appunto riservato: “Fonte confidenziale solitamente attendibile ha riferito che i brigatisti latitanti Casimirri Alessio e Algranati Rita si troverebbero presso una missione cattolica dell’Africa centrale. Il loro espatrio sarebbe stato favorito dall’intervento di un soggetto che opera in Vaticano, probabilmente legato da vincoli di parentela al Casimirri”» (Aldo Grandi, cit.).
«Ha avuto rapporti proficui con i servizi segreti. Con quelli dell’Est, a suo tempo, tra l’81 e l’82, essendo fuggito in Centroamerica dall’Italia passando per Parigi e poi Mosca. Si favoleggia anche di una sosta a Cuba prima di essere fraternamente accolto dal rivoluzionario Daniel Ortega a Managua. Ma l’ex terrorista ha stretto un qualche accordo anche con i nostri servizi. Era il 1993 quando due agenti del Sisde, Mario Fabbri e Carlo Parolisi, lo contattarono nel suo ristorante “Magica Roma”, locale alla moda nel centro della capitale nicaraguense. Il risultato si vide qualche mese dopo: quando la magistratura romana poté impiantare il cosiddetto Moro quinquies, il quinto processo sul delitto Moro, a carico di due soli imputati. Si chiamavano Germano Maccari e Raimondo Etro. I nomi li aveva fatti Casimirri» (Sta).
Condannato all’ergastolo (estradizione non concessa). Oltre al rapimento Moro, prese parte, il 10 ottobre 1978, anche all’omicidio del magistrato Girolamo Tartaglione. «Per questo su di lui pendono sei ergastoli (mai un giorno di galera), emessi nel processo Moro-ter. Prima di darsi alla latitanza fece parte del servizio d’ordine di Autonomia operaia e gestì insieme alla moglie un’armeria vicino piazza San Giovanni di Dio, a Roma. Adesso fa il ristoratore, sospeso tra il suo locale storico a Managua, La Cueva del Buzo, e le battute di caccia subacquea a San Juan Del Sur, dove ha aperto il suo secondo ristorante, il Doña Ines» (Andrea Colombari, Rafhael Zanotti) [Sta 8/3/2010].
Già sposato con Rita Algranati (vedi), in Nicaragua ha sposato, senza divorziare dalla Algranati, una Raquel García da cui ha avuto due figli.
Casimirri, Br “protetto”. Ma il padre di Jovanotti stava per catturarlo…, scrive Robert Perdicchi martedì 12 dicembre 2017 su "Il Secolo d’Italia". Coperto, protetto, aiutato a scappare. Solo adesso, grazie al lavoro della Commissione d’Inchiesta sull’uccisione di Aldo Moro, emerge il ruolo degli apparati segreti dello Stato, presumibilmente legati alla sinistra, che favorirono la fuga di Alessio Casimirri, Brigatista rosso, figlio del capo ufficio stampa del Vaticano ai tempi di Paolo VI, sempre sfuggito alla cattura. Il presidente Fioroni, nel suo intervento in Aula, durante la presentazione della relazione della commissione Moro, si è soffermato a lungo “sulla latitanza di Casimirri, che indisturbato vive tuttora in Nicaragua”. “Di lui abbiamo trovato una foto segnaletica e più volte venne segnalato, vivendo però, fino al luglio dell”83, in Italia”, sottolinea Fioroni. “Casimirri riuscì poi ad espatriare con un passaporto grossolanamente contraffatto – ricorda il presidente della Commissione –. Poi ci fu un fallimentare tentavo nel ’93 per arrivare all’estradizione”. “A salvarlo – conclude Fioroni – non sono stati solo i rapporti con i sandinisti, ma anche coperture di cui ha goduto in Italia”. La primula rossa delle Br, Alessio Casimirri, prima della latitanza in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, figlio di un notabile vaticano, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani. “Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano – racconta all’AdnKronos, Gero Grassi – riconobbe Casimirri, già latitante, per strada e corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo”. Negli scorsi giorni proprio il cantante aveva raccontato di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ’70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, ricordando come lui, bambino, restava affascinato dai racconti che Luciano e Ermanzia Casimirri facevano del figlio, ai tempi provetto sub e pescatore subacqueo, fino al giorno in cui lo stesso Alessio gli mostrò i suoi trofei di pesca.
Jovanotti: "Quando il mio amico diventò brigatista". Jovanotti in esclusiva su Vanity Fair racconta la sua infanzia in concomitanza con l'uscita del suo nuovo album, scrive Luisa De Montis, Mercoledì 08/11/2017, su "Il Giornale". Un'intervista senza filtri che anticipa l'uscita del nuovo album Oh, vita!, che uscirà il primo dicembre. L'amico nelle brigate rosse. "In Vaticano mio padre aveva un collega, un suo superiore, Luciano Casimirri. Nei fine settimana, con una moglie dal nome indimenticabile, Ermanzia, ci invitava nella casa di campagna di Monterotondo, io avevo otto-dieci anni e loro ci raccontavano con ammirazione del figlio Alessio". E ancora: "Era molto più adulto di me e, a detta dei suoi, era un sub provetto. Io me l’immaginavo subito come una specie di Jacques Costeau e fantasticavo su questo lupo di mare (…). Una di quelle domeniche Alessio si manifestò e mi portò nella sua stanza per mostrarmi pesci bellissimi di ogni dimensione, tutti catturati e catalogati da lui, tra cui spiccava la foto di una micidiale murena": spiega il cantante a Vanity Fair. Peccato che quel ragazzo poi intraprese strade tortuose e criminose: "Venni a sapere, anni dopo, che era entrato a far parte delle Brigate Rosse partecipando al rapimento di Aldo Moro e al massacro della sua scorta in Via Fani per poi scappare in Nicaragua" ammette Jovanotti. Un dettaglio della sua infanzia mai rivelato prima.
Jovanotti, retroscena sull’assassinio di Aldo Moro: “Che amara scoperta…”. A tre settimane da "Oh, vai", torna a raccontarsi Jovanotti. E svela un inedito retroscena sull'infanzia, scrive Manuel Magarini l'8 novembre 2017 su "Ultimenews.net". L’Italia, si sa, pullula di grandi artisti. Alcuni ribelli, altri un po’ spocchiosi. In pochi emanano però un intenso calore umano come Jovanotti. Perché, al di là dell’indiscutibile estro, ciò che lo denota è una “normalità” quasi insolita nel suo ambiente. Ed anche per questo fan e addetti ai lavori lo ricoprono d’affetto. In fremente attesa per “Oh, vita!”, il quattordicesimo album – negli store tra tre settimane – di Lorenzo Cherubini, che a Vanity Fair svela il suo coloratissimo mondo interiore.
Jovanotti: l’ingresso nella musica. “Il mio ingresso nella vita sociale risale all’estate del 1982 – racconta Jovanotti -. Quella del Mondiale vinto dall’Italia. L’estate più importante di sempre, quella in cui scoprii la musica. Iniziai a mettere dischi in radio e poi in una discoteca di Cortona. La mia prima paga da dj, 5.000 lire, me la ricordo ancora”. Una stagione memorabile “perché coincise con l’esatto momento in cui capii cosa volessi fare nella vita. Senza neanche l’ombra di un dubbio. Fu un istante di illuminazione totale, quasi mistica”.
Jovanotti: come sbarcava il lunario. Jovanotti conobbe di lì a poco il primo mentore: “Mio fratello Umberto – lo ringrazierò per sempre – aveva un amico che faceva un programma di dediche a Radio Foxes. Mi portò con lui, entrai in questo studiolo, con le scatole di uova alle pareti per insonorizzare la stanza in maniera rudimentale e pensai: “Cazzo, ma questo è il posto più bello del mondo”. Poco tempo dopo mi ritrovai in onda. Dalle 14 alle 16, a titolo gratuito. All’epoca la radio era un passatempo e non c’era uno di noi che venisse pagato”. Ma i soldi “si trovavano”. Con quali lavori? “Il cameriere alle sagre, e lì si prendevan le mance che era un piacere e il barista nel bar di mio zio. Poi lo sverniciatore”.
Jovanotti: triste ricordo. Nel corso della chiacchierata c’è anche spazio per un retroscena inedito. E doloroso. “In Vaticano, dove lavorò per mezzo secolo, mio padre aveva un collega, un suo superiore, Luciano Casimirri – ricorda Jovanotti -. Nei fine settimana, con una moglie dal nome indimenticabile, Ermanzia, ci invitava nella casa di campagna di Monterotondo, io avevo 8 o 10 anni e loro ci raccontavano con ammirazione del figlio Alessio. Era molto più adulto di me e, a detta dei suoi, era un sub provetto. Io me l’immaginavo subito come una specie di Jacques Cousteau e fantasticavo su questo lupo di mare con il fucile in mano e il cappellino rosso calato sulla testa. Una di quelle domeniche Alessio si manifestò e mi portò nella sua stanza per mostrarmi pesci bellissimi di ogni dimensione, tutti catturati e catalogati da lui, tra cui spiccava la foto di una micidiale murena. Venni a sapere, anni dopo, che era entrato a far parte delle Brigate Rosse partecipando al rapimento di Aldo Moro e al massacro della sua scorta in via Fani, per poi scappare in Nicaragua. Non ci possiamo fare mai un’idea definita su niente e nessuno. Ci si immerge e non si sa mai cosa si può incontrare, le murene per esempio, attraenti e pericolosissime”.
Caso Moro, parla l’ex Br che fu sospettato di essere il passeggero della moto in via Fani. Raimondo Etro uscì ben presto da quell'ipotesi investigativa. Arrestato nel '94 eseguì alcuni sopralluoghi alla Chiesa di Santa Chiara frequentata dal presidente Dc. Racconta: "Alessio Casimirri (uno degli autisti delle Br presenti in via Fani, ndr) mi disse che era successo qualcosa di imprevisto che potrebbe riguardare una moto e chi la guidava", scrive Stefania Limiti (autrice del libro Doppio livello, edito da Chiarelettere) su "Il Fatto Quotidiano il 23 marzo 2014. All’inizio si sospettò che proprio lui, Raimondo Etro, l’uomo delle Brigate rosse finito il carcere nel 1994, fosse uno dei passeggeri della moto Honda notata il 16 marzo del 1978 in via Fani dall’ingegner Alessandro Marini durante il sequestro del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. La stessa moto su cui ora s’ipotizza ci fossero due uomini dei servizi segreti per proteggere l’azione dei brigatisti. Il particolare, tutto da confermare, viene raccontato da un ex agente dell’antiterrorismo di Torino che svela l’esistenza di una lettera scritta da uno dei due motociclisti. Etro, intanto, uscì subito da quella storia. Non era lui l’uomo sulla Honda. Però, oggi, ricorda un passaggio del suo vecchio interrogatorio che alla luce dei nuovi scenari diventa altrettanto clamoroso. “Alessio Casimirri (uno degli autisti delle Br presenti in via Fani, ndr) mi disse che era successo qualcosa di imprevisto (durante l’attentato) che potrebbe riguardare una moto e chi la guidava”. Il ruolo di Etro nell’affare Moro fu chiarito dopo il suo arresto. All’epoca aveva 37 anni. Prospero Gallinari gli chiese, infatti, di fare un accurato sopralluogo nella chiesa di Santa Chiara, dove Aldo Moro era solito andare a pregare la mattina presto: svolse con cura il suo lavoro, andando ogni giorno in chiesa e facendosi passare con il parroco per un ragazzo in cerca di sé stesso. Fece una cartina millimetrica del luogo ma alla fine non se ne fece nulla perché, spiegò durante il processo Moro Quinques, “non sarebbe stato facile immobilizzare la scorta di Moro fuori dalla Chiesa”. Questi gli iniziali propositi brigatisti. Il ruolo di Etro finì lì. Si era anche pensato di organizzare un avvistamento via radio dell’auto di Moro: Raimondo avrebbe dovuto dare il segnale ma le prove non andarono bene e non se ne fece nulla. Tuttavia conobbe durante quei tentativi il capo brigatista Mario Moretti e Barbara Balzerani: si incontravano in via Stresa per provare e riprovare. Iniziato al gioco dell’eversione da Alessio Casimirri e Rita Algranati, i suoi compagni lo ritenevano comunque uno con i nervi fragili. Durante l’attentato al giudice Palma, nel febbraio del ’78, non riesce a premere il grilletto: nel commando c’è Gallinari che porta a termine l’agguato. Impossibile, perciò, dargli altro lavoro nell’Operazione Frezza, come le Br chiamarono il progetto di rapire Aldo Moro. Fu avvisato dal suo amico Casimirri, due giorni prima del 16 marzo, che stava per compiersi l’azione del secolo. Oggi Raimondo Etro è un uomo che porta i segni delle sue scelte. Le novità sul caso Moro, le stringenti rivelazioni di un ufficiale di polizia sull’identità dei due uomini sulla Honda, agenti legati al colonnello del Sismi Camillo Guglielmi (che ha sempre ammesso la sua presenza a via Fani la mattina del 16 marzo) lo colpiscono come un fulmine e ammette di essere sconvolto. “Se fosse vero – dice – tutto sarebbe da riscrivere”. Ricorda che nel 1996 ebbe i primi barlumi di consapevolezza che la vicenda che lo vide protagonista era troppo grande per poter essere stata gestita tutta dai suoi compagni ma, allo stesso tempo, Etro si è sempre rifiutato di pensare che esistesse una doppia mano nella vicenda che segnò la storia delle Brigate rosse e del paese. Continua: “Se fosse confermata questa nuova versione, significa che in via Fani c’era anche lo Stato. Ma molti di noi non ne sapevano niente. E non ne abbiamo mai saputo niente dopo. Anche se”. Cosa? “Non ho mai capito come Alessio Casimirri e Rita Algrani riuscirono a scappare in Nicaragua: erano insieme in Francia, Antonio Savasta stava collaborando e dovevamo cercare riparo. Per una settimana sparirono e poi vengo a sapere che sono fuggiti in America Latina. E poi ancora: perché Casimirri è ancora libero e Rita Algranati, che lasciò il Nicaragua alla volta dell’Algeria, fu poi ‘venduta’ e catturata durante il governo Berlusconi (l’operazione fu condotta dal colonnello Mario Mori che ottenne un accordo di cooperazione con l’Egitto per arrestare l’ex moglie di Casimirri, ndr). Sarà forse perché il padre di Casimirri era molto amico del generale Santovito? Certamente non quadrano molte cose, la sua latitanza fa davvero pensare a quella assicurata a Delfo Zorzi”. Perché sceglieste proprio Aldo Moro? “Gallinari disse che era l’uomo sopra le parti, che non era un capo corrente e che per lui la Dc avrebbe trattato. Un capo corrente lo avrebbero lasciato a se stesso. Negli anni mi sono reso conto che in realtà era l’uomo più in conflitto con gli Stati Uniti mentre noi aveva di lui l’idea ben altra idea. Sbagliammo”, chiosa Etro che non vuole aggiungere altre riflessioni e chiede tempo. Stefania Limiti (autrice del libro Doppio livello, edito da Chiarelettere)
Da chi si finge morto a chi apre un ristorante. Ecco chi sono i 34 assassini ancora in libertà. Di molti si sa dove sono ma non si riesce a portarli a casa. Con qualche eccezione, scrive Stefano Zurlo, Domenica 15/10/2017 su "Il Giornale". É la lista ufficiale dei fuggitivi. Quella che circola negli uffici dell'Interpol. Trentaquattro nomi di ricercati che col tempo sono diventati imprendibili: quasi tutti terroristi rossi legati alla Spoon River degli anni Settanta e Ottanta. Qualcuno probabilmente è morto, di altri si sono perse le tracce, ma molti sono, teoricamente, a portata di mano. Si sa dove abitano ma non si riesce a riportarli in Italia anche se sono passati decenni da quei delitti e da quelle pagine di sangue. É il caso appunto di Cesare Battisti, inseguito, come ha raccontato al Giornale il sottosegretario Cosimo Ferri, dal lontano 2003: prima in Francia, dove aveva provato a stanarlo l'allora Guardasigilli Roberto Castelli, e ora in Brasile. In Francia risiede anche Giorgio Pietrostefani, dirigente di Lotta continua, ritenuto con Adriano Sofri il mandante dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto a Milano il 17 maggio 1972, il prologo degli anni di piombo. Gli ex brigatisti e i reduci delle altre formazioni della galassia terroristica hanno trovato rifugio e protezione un po' ovunque, aiutati qualche volta dal passaporto di un altro Paese o da un matrimonio all'altro capo del mondo. Cosi alcuni nomi, pesi massimi della storia dell'eversione, sono diventati bersagli virtuali. Si sa benissimo che, a parte improbabili colpi di scena, non verranno più acciuffati anche se sulle spalle hanno una condanna che non va mai in prescrizione: l'ergastolo. É la situazione in cui si trovano Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri, due membri del commando che il 16 marzo 1978 in via Fani a Roma rapi Aldo Moro e sterminò la sua scorta. Lojacono è diventato cittadino svizzero per via della madre ed è inavvicinabile; stesso discorso per Casimirri che si è sposato in Nicaragua, ha ottenuto la cittadinanza, oggi ha un ristorante a Managua. In Sudamerica, più precisamente in Perù, erano arrivati ormai molti anni fa Oscar Tagliaferri e Maurizio Baldasseroni, protagonisti di uno degli episodi più feroci e, se possibile, insensati, di quell'interminabile mattanza: la strage di via Adige a Milano, il 1 dicembre 1978. Tre morti, ammazzati a fucilate. Un massacro compiuto non in nome dell'ideologia, ma dettato da futili motivi, tanto che i due furono buttati fuori da Prima linea cui avevano chiesto invano una copertura e la rivendicazione del gesto, ma aiutati ad espatriare. Ora,a distanza di tanto tempo, Baldasseroni è stato dichiarato morto, Tagliaferri è invece sempre presente negli archivi dell'Interpol e dell'intelligence. É invece considerato un irriducibile Claudio Lavazza, il cui percorso coincide per un tratto con quello di Cesare Battisti. I due vengono condannati al carcere a vita per i quattro omicidi compiuti dai Pac, i Proletari armati per il comunismo, una meteora nella storia dell'eversione. Poi però prendono strade diverse: Battisti comincia la partita al gatto e al topo con la giustizia italiana, Lavazza entra nell'orbita dell'anarchia e viene arrestato in Spagna nel 1996 dopo una rapina ad una banca. Ventuno anni dopo è ancora in prigione e dalla sua cella lancia proclami contro il Fies, l'equivalente spagnolo del 41 bis. Ma il destino di Lavazza è segnato: conclusa la detenzione in Spagna, lo attendono le carceri italiane e quelle francesi con condanne severissime e un fine pena lontanissimo sul calendario. Gli anni di piombo non passano mai.
I misteri infiniti delle Br. Davanti alla Commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro il fondatore delle Brigate Rosse, Alberto Franceschini, parla della scuola di lingue Hyperion di Parigi, del rapporto tra gruppo storico e morettiani e delle figure di Valerio Morucci e Giovanni Senzani, scrive Salvatore Ventruto il 23 febbraio 2017 "L'Intellettuale Dissidente". Quando un componente della Commissione d’inchiesta sul caso Moro gli chiede quale sia stato il motivo che nel 1972 portò le Brigate Rosse a respingere la richiesta di adesione di Valerio Morucci, a quei tempi esponente di spicco di Potere Operaio, Alberto Franceschini non lascia molto spazio alla fantasia: “C’erano vari motivi. Il primo è che a me e altri Morucci non piaceva. Il secondo è che Morucci faceva traffico di armi tra la Svizzera e l’Italia, armi che poi distribuiva al movimento. Fu scoperto, insieme a un altro o ad altre due persone. Sta di fatto che uno o due di loro si fecero sei mesi di galera, Morucci sì e no venti giorni e uscì”. E’ un Franceschini collaborativo quello che un paio di settimane fa si è approcciato di nuovo con i commissari, dopo l’audizione dello scorso 27 ottobre. Ancora una volta ha evidenziato come le BR, per lui che le aveva fondate, fossero finite già nel 1976, quando il capo incontrastato era Mario Moretti. Cresciuto in una famiglia comunista, con il padre e il nonno protagonisti della Resistenza antifascista, Franceschini ha sempre sostenuto nei suoi libri, interviste e incontri che la militanza brigatista fosse per lui il naturale seguito della lotta partigiana. Arrestato nel 1974 a Pinerolo mentre era in macchina con Renato Curcio, altro esponente di spicco del gruppo storico brigatista, Franceschini ha rappresentato tra la fine degli anni novanta e gli inizi del nuovo secolo colui che più di ogni altro ha affrontato alcuni elementi poco chiari o del tutto sconosciuti del brigatismo italiano e del sequestro Moro. Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse assieme a Renato Curcio. Viene arrestato nel 1974 a Pinerolo. In alcuni suoi libri, ad esempio “Che cosa sono le BR”, affronta e approfondisce alcuni elementi ancora oscuri sulla nascita delle BR e il sequestro Moro. Recentemente alla domanda se esistesse o meno un piano di messa in sicurezza delle Brigate Rosse ha risposto: “Mi verrebbe da dire l’Hyperion”. Il “ragazzo dell’appartamento”, ha fatto dimenticare ai commissari i mi avvalgo della facoltà di non rispondere e i non gradisco che avevano caratterizzato, qualche settimana prima, la testimonianza di Valerio Morucci, ex leader della colonna romana delle BR, protagonista dell’azione militare che portò la mattina del 16 marzo 1978 al rapimento di Moro in via Fani. Personaggio particolare Morucci, da maneggiare con estrema cura. Prima responsabile del servizio d’ordine di Potere Operaio, poi brigatista dal 1976. Partecipò all’agguato di via Fani, ma fu, secondo le ricostruzioni ufficiali, contrario assieme ad Adriana Faranda, sua compagna, all’esecuzione di Aldo Moro, incarnando quell’ala “trattativista” che sarebbe diventata interlocutrice degli “autonomi” Lanfranco Pace e Franco Piperno nell’ambito dei ripetuti tentativi messi in atto dal Partito Socialista per salvare il Presidente della DC. Sul suo famoso “Memoriale” di 300 pagine, poi clamorosamente sconfessato dalle ultime indagini e da più approfonditi riscontri, si è basata per anni la ricostruzione dettagliata dell’operazione militare che portò al rapimento di Moro e all’uccisione della sua scorta. Rimane ancora un mistero la telefonata che Morucci fece la mattina del 9 maggio 1978 alle ore 12.15 a Francesco Tritto, stretto collaboratore di Moro, per annunciare la morte del Presidente della DC. Ancor più alla luce di quanto è stato riscontrato dall’attuale commissione d’inchiesta e cioè che Francesco Cossiga, allora Ministro dell’Interno, ricevette già alle ore 11 la telefonata del Prefetto di Roma che annunciava la morte di Moro. Perché Morucci telefona un’ora e quindici minuti dopo il Prefetto? Quella telefonata può essere considerata come un depistaggio che sancisce l’inizio della collaborazione di Morucci con lo Stato, al punto da far redigere a quest’ultimo un falso memoriale sull’agguato di via Fani? Quando Morucci, dopo la morte di Moro, esce assieme alla Faranda dalle BR, decide di portarsi via tutte le armi che aveva portato all’interno del gruppo: mitra, munizioni, pistole rinvenute il 29 maggio 1979, giorno del loro arresto, nell’appartamento di Viale Giulio Cesare, 47. In quell’appartamento viene trovato anche un elenco di 90 brigatisti e anarchici. Alla domanda del Presidente Fioroni se i due volessero vendere l’elenco “per fare la stessa fine di Casimirri” (ultimo grande latitante dell’operazione Moro, da 30 anni in Nicaragua), Franceschini dice: “può essere anche se non conosco esattamente gli atti”.
Comincia nel 1982 al Foro Italico il processo per l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Nella foto, due dei maggiori imputati, Valerio Morucci e Adriana Faranda. “Solo a Giovanni Senzani – continua Franceschini – ritrovarono un elenco di nomi all’interno di un panino mentre era detenuto nel carcere di Rebibbia. Quel panino e quell’elenco furono intercettati e molti compagni furono arrestati” - aggiunge, precisando come anche Senzani, leader del comitato rivoluzionario toscano delle BR, sia stato per lui una figura difficile da capire. Senzani fu oggetto di un dossier da parte della Commissione Stragi presieduta negli anni ‘90 dal Senatore Giovanni Pellegrino in cui si precisava che la sua figura “potrebbe aver avuto un coinvolgimento pieno e determinante nella vicenda Moro, non solo attraverso l’organizzazione a Firenze delle riunioni del comitato esecutivo delle BR durante i 55 giorni del rapimento, ma anche svolgendo, grazie alla sua statura intellettuale e alla grande esperienza politica e giuridica, il ruolo di grande inquisitore nel corso delle controverse fasi del processo al quale venne sottoposto lo stesso Moro”.
Giovanni Senzani. Negli anni ’70 insegna all’Università di Firenze ed è consulente del Ministero della Giustizia. Contemporaneamente fa parte della direzione strategica delle Brigate Rosse. Dopo 23 anni di carcere non si è mai pentito. Dopo aver confermato che “l’attenzione sulle Brigate Rosse da parte dello Stato è sin dalla nascita”, Franceschini ha parlato anche di Corrado Simioni e del ruolo ambiguo di Hyperion, la scuola di lingue fondata a Parigi nel 1976 dallo stesso Simioni, Duccio Berio e Vanni Mulinaris. Nel 1970 i tre si “staccarono” dal gruppo originario di Sinistra Proletaria, che poco dopo avrebbe dato vita alle Brigate Rosse, e formarono il Superclan. Quando i commissari gli chiedono di fare un’analisi storica della figura ambigua di Simioni e della scuola parigina, capace di aprire due sedi di rappresentanza a Roma nelle settimane del sequestro Moro e rivelatasi successivamente una centrale del terrorismo internazionale infiltrata dai servizi segreti di tutto il mondo, Franceschini è come se ammettesse la “sconfitta” del gruppo storico. “Se devo fare una riflessione onesta e sincera – dice – è che noi abbiamo sbagliato tutto e loro hanno capito tutto. Chi andò a Parigi, chi stabilì certe relazioni, certi rapporti aveva capito una serie di cose”. All’Hyperion e ai personaggi che le ruotavano attorno, che secondo Franceschini “operarono a livello geopolitico alto, utilizzando i residui della politica bassa”, sono legati gran parte dei misteri ancora irrisolti della galassia brigatista. Fu il giudice istruttore del Tribunale di Venezia Carlo Mastelloni ad azzardare per primo, nel 1984, l’ipotesi che l’Hyperion avesse avuto un ruolo di mediazione nelle forniture di armi che l’Olp garantì ai brigatisti. Oggi, dopo più di trent’anni, i rapporti tra le BR e le organizzazioni palestinesi tornano sotto la lente d’ingrandimento del caso Moro, grazie a una lettera che il 21 giugno 1978 il colonnello Stefano Giovannone scrisse da Beirut. Nella missiva, l’ex ufficiale del Sismi, di stanza in Libano, riferiva della possibile consegna, da parte delle Brigate Rosse, al leader palestinese George Habbash di una parte dei verbali degli interrogatori subiti dal Presidente DC durante la prigionia, al fine di ristabilire il rapporto di collaborazione interrotto da due anni. Un documento, quindi, che farebbe presagire relazioni tra le Brigate Rosse e palestinesi anche prima dell’operazione Moro, diversamente da quanto dichiarato in più occasioni da Mario Moretti. “L’ipotesi che io mi sono sempre fatto è che certamente i cosiddetti brigatisti, morettiani o non morettiani, avevano dei rapporti con i palestinesi”. Franceschini torna poi sui contatti tra lui e Curcio, in carcere, e i “compagni” che pianificarono e gestirono l’operazione Moro. “Io e Renato dal 1976 in avanti siamo molto critici con quelli fuori perché secondo noi avevano abbandonato il terreno del movimento dicendo che bisognava prendere le armi. Ricordo che ciò che ci fece infuriare di più fu il ritrovamento degli interrogatori di Moro nelle carte di via Monte Nevoso perché i compagni fuori ci avevano sempre detto che lui non aveva mai detto niente, nonostante nei primi giorni avessero affermato invece che stava parlando e che tutto andava bene”. Rapporti che secondo Franceschini si chiusero definitivamente dal giorno della scoperta del covo di via Gradoli e del depistaggio del Lago della Duchessa. “Da lì cambia radicalmente la posizione di quelli fuori che fanno sapere a noi dentro che non potevano tirarci più fuori”, dice Franceschini. A dimostrazione, forse, che gli interessi estranei al movimento brigatista avevano ormai preso il sopravvento nella vicenda.
CASO MORO, 40 ANNI DI INDAGINI ED UNA VERITÀ “DICIBILE”. Commissione Moro: “Ciò che abbiamo saputo finora è una verità dicibile: servì a chiudere la stagione del terrorismo”. La commissione d'inchiesta presieduta dal deputato Pd è alla terza relazione. E stabilisce un punto fermo: intorno alla figura dell'ex brigatista Morucci è stata creata una "operazione di sdoganamento" di una versione dei fatti falsa: "Fu quasi una trattativa". Una verità "di comodo" alla quale hanno contribuito diversi soggetti, secondo la commissione: dai giudici Imposimato e Priore al Sisde fino a politici e religiosi come suor Teresilla, "in quota Cossiga", scrive Stefania Limiti su "Il Fatto Quotidiano" il 12 dicembre 2017. Caso Moro. Quaranta anni di indagini fatte male e veri e propri depistaggi. Ma arrivata alla terza relazione la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro fornisce ora un punto fermo: quel che abbiamo saputo fino ad ora del rapimento, dell’omicidio e delle indagini del presidente della Democrazia Cristiana è frutto di una “verità dicibile”, come la definisce il presidente della commissione Giuseppe Fioroni. Una verità “dicibile”, di comodo, alla quale hanno contribuito i soggetti “che operarono attorno al percorso dissociativo di Valerio Morucci: i giudici istruttori Imposimato e Priore, il Sisde, alcune figure di rilievo della politica e delle istituzioni, suor Teresilla Barillà”, la religiosa mandata da Francesco Cossiga nelle carceri più come spia che per dare conforto ai detenuti. La terza relazione della commissione Moro è oggi in calendario in Aula alla Camera. Non è quella conclusiva, anche se non è certo se si arriverà a una sintesi anche perché le attività d’indagine possono proseguire fino allo scioglimento della legislatura, peraltro sempre più prossimo. Dopo 164 sedute plenarie in 4 anni il materiale raccolto è molto. In parte è ancora sotto segreto perché consegnato alla Procura di Roma che ha un fascicolo aperto, altro alla Procura generale della Capitale che segue alcuni specifici filoni soprattutto sulla strage di via Fani. La verità “dicibile”, dunque, come pagina inversa rispetto alle “verità indicibili” cui ha spesso fatto riferimento procuratore alla corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Si legge nella relazione che lo spazio di dialogo tra Morucci e le istituzioni “di per sé non implica che le dichiarazioni processuali di Morucci siano viziate. È però innegabile che, con il concorso di forze diverse, si venne a creare una posizione processuale particolarmente garantita, nella quale il ruolo testimoniale scoloriva in una più ampia e opaca funzione consulenziale del Morucci, quasi realizzando concretamente una trattativa che veniva pubblicamente negata”. Nel caso Moro, dunque, secondo la relazione della commissione, attorno alla figura di Morucci, ex brigatista responsabile logistico delle Brigate Rosse, è stata creata una grande operazione di sdoganamento di una versione dei fatti falsa. Dall’agguato di via Fani alla prigione di via Montalcini, dalla dinamica della fuga ai contatti con il mondo politico esterno alla prigione, la circolazione degli scritti di Moro e la loro misteriosa scomparsa, tutto è stato raccontato secondo una modalità concordata, lungo un processo di “stabilizzazione della verità parziale, funzionale a una operazione di chiusura della stagione del terrorismo che ne espungesse gli aspetti più controversi, dalle responsabilità politiche e istituzionali al ruolo di quell’ampio partito armato, ben radicato nell’estremismo politico, di cui le Br costituirono una delle espressioni più significative del terrorismo”. Parole che trovano dettaglio nelle molte pagine della relazione che spiegano passo dopo passo la costruzione del Memoriale Moro e un suggello nelle attività di consulenza avviate da Morucci con l’intelligence: già nel 1984 il direttore del Sisde Vincenzo Parisi trasmetteva al Cecis (l’organo di coordinamento dei Servizi) una lettera (12 aprile ’84) nella quale Morucci esponeva il “personale programma di politica carceraria, finalizzato ad un uso del carcere in funzione “controemergenziale” e a una ricerca di ‘soluzione politica’”. L’anno successivo, nel 1985, sempre il Sisde considerava Morucci “una fonte da cautelare in assoluto”. Tra il 1986 e il 1987 il rapporto Morucci-Sisde appare continuativo e presenta diversi aspetti di tipi consulenziale, anche in una fase in cui Morucci rendeva dichiarazioni nei processi Metropoli e Moro-ter, fortemente segnati dalla sua collaborazione. Certo è che nel luglio 1988 una copia del “Memoriale” identica a quella che sarà resa nota nel 1990 era già stata acquisita dal Sisde, tanto da poter affermare che quel documento, su cui sono stati imbastiti processi e scritti libri, più che un Memoriale sia piuttosto un dossier dei servizi, servito sul piatto d’argento ad una classe politica e giudiziaria impegnata principalmente a conservare il proprio ruolo. Già in sede di pubblicistica il Memoriale era stato buttato giù dal piedistallo, ora c’è molto materiale che dimostra puntualmente la grande operazione di imbrigliamento della verità. E non è poco, insieme a tanto altro: a proposito di depistaggi, lo stabile di via Massimi 91, quello nel quale avviene con quasi certezza lo scambio delle auto usate dai brigatisti, è l’unico della zona “sensibile” di via via Fani che non fu perquisito: forse per un milieu abbastanza elevato di cui facevano parte cardinali e prelati, “come il cardinal Egidio Vagnozzi, già delegato apostolico negli Stati Uniti e, dal 1968, Presidente della Prefettura per gli affari economici della Santa Sede, e il cardinal Alfredo Ottaviani. Risulta inoltre, da alcune testimonianze, un’assidua frequentazione del complesso da parte di monsignor Paul Marcinkus. Alcune testimonianze indicano anche una frequentazione dei prelati in questioni da parte di Moro e dell’onorevole Piccoli”. All’interno del complesso si riscontrano tuttavia anche presenze di altro genere, che potrebbero aver avuto una funzione specifica in relazione al sequestro Moro. Lì abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno. Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta. Oltre ad una serie di personaggi legati alla finanza e a traffici tra Italia, Libia e Medio Oriente va sottolineata la presenza di una società statunitense, la Tumco, compagnia americana che nel 1969 forniva assistenza alla presenza Nato e Usa in Turchia e attività di intelligence a beneficio dell’organo informativo militare statunitense la cui sede era in edificio di Via Veneto a Roma, noto come The Annexe, “l’annesso”, l’edificio supplementare. ra le altre presenze significative nel complesso c’è poi quella di Omar Yahia(1931-2003), finanziere libico, legato all’intelligence libica e statunitense, il cui ruolo è ampiamente trattato nella sentenza-ordinanza “Abu Ayad”. Di certo lì, in via Massimi 91, nell’autunno del ’78 per diverse settimane venne ospitato Prospero Gallinari: riservati i nomi dei suoi due ospiti per tutelare le indagini ancora in corso. Ma è nebbia, dunque, sulla prigione di Moro, mentre si infittisce il materiale che offre spunti di indagine e di ricostruzione letteraria – nuovi elementi sulle protezioni di Alessio Casimirri, una confessione in punto di morte del maresciallo Angelo Incandela sulle carte trovate dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, una inedita dichiarazione del pentito Michele Galati sul sacerdote che andò nella prigione a confessare Moro. Forse con più ordine metodologico si poteva ottenere di più, ma c’è tanto per riflettere e discutere. Chissà se la politica se ne occuperà.
Aldo Moro, il testimone mai ascoltato svela nuovi dettagli sull'omicidio. Il film “Mario Mori un’Italia a testa alta” a 40 anni dalla morte di Aldo Moro, scrive Patrizio J. Macci, Mercoledì, 6 dicembre 2017, su "Affari Italiani". Ugo Pecchioli “ministro degli interni” dell’allora Pci insieme a Francesco Cossiga gestì l’apertura della Renault 4 nel quale fu ritrovato il corpo di Aldo Moro la mattina del 9 maggio 1978. Lo racconta per la prima volta in una lunga intervista il Generale dei Carabinieri Mario Mori. La dinamica degli eventi che seguì al ritrovamento del corpo di Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana ucciso dalle Brigate Rosse, in via Michelangelo Caetani nel cuore del centro storico romano a poche centinaia di metri dalle sedi della Dc e del Pci è dunque ancora incerta e tutta da scrivere. I fatti. Mori il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro, venne nominato comandante della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo di Roma, cominciando un lungo periodo che lo vedrà protagonista nella lotta al Terrorismo. Con queste testuali parole ricostruisce per la prima volta quei momenti: “Cossiga era vestito di grigio, Pecchioli mantenne un atteggiamento freddo, fu lui a gestire operativamente l’apertura della portiera e la vicenda connessa alla Renault 4. Pecchioli (“ministro dell’interno del PCI”) era lì insieme a Cossiga, poi quando Cossiga capì che quel cadavere era quello di Aldo Moro si allontanò. Fece qualche passo, andò a finire sugli scalini di Palazzo Antici. Si appoggiò al muro e cominciò a piangere. Pecchioli rimase freddo, impassibile, assunse la direzione delle operazioni da uomo delle istituzioni come ritengo e ritenevo che fosse”. Nell’intervista rilasciata a Giovanni Negri non vi è nessuna indicazione precisa che possa mettere in discussione la scansione temporale di quella mattinata “infernale”: l’ora esatta in cui accadono gli eventi raccontati dal Generale rimane indefinita. Mori non è mai stato ascoltato dalle commissioni istituite nel corso degli anni per cercare di sbrogliare la matassa del Caso Moro. Perché questa amnesia? Frugando tra le migliaia di pagine del Caso prodotte dalle varie commissioni negli anni, non c’è traccia di questa ricostruzione dei fatti. Cossiga divenuto poi presidente della Repubblica (dopo i cinquantacinque giorni che fecero tremare la Repubblica si mostrò al pubblico con i capelli improvvisamente divenuti bianchi) è morto, così come il senatore Pecchioli scomparso all’inizio degli Anni Novanta. Ma una commissione d’inchiesta è ancora attiva e sta alacremente svolgendo un lavoro d’indagine sotto la guida del Senatore Beppe Fioroni, democristiano come lo è stato Aldo Moro, e terminerà i suoi lavori con questa legislatura. Mori è dunque uno degli ultimi testimoni viventi del Caso, uno dei pochi che potrebbe gettare una nuova luce sul puzzle di un delitto del quale ancora troppe sono le tessere mancanti. Il film “Generale Mori. Un’Italia a testa alta” del regista Ambrogio Crespi Prodotto dalla Index Production dedicato alla ricostruzione della vita di Mori che nel film viene definito uno degli “uomini più potenti d’Italia”, nel quale è contenuta la rivelazione, è stato presentato nella Biblioteca della Camera dei Deputati e uscirà nelle sale a gennaio.
Caso Moro, quella zampata sovietica dietro il sequestro, scrive Elisa Calessi il 13 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano". La verità sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro va riscritta. Da cima a fondo. È questa la conclusione a cui arriva l'immane lavoro fatto dalla commissione di inchiesta parlamentare presieduta da Beppe Fioroni e che proprio ieri ha presentato la relazione finale in Parlamento: 700mila pagine di documentazione, riassunte in un testo finale che accende i riflettori su diversi aspetti finora non emersi. Primo: il ruolo dell'Unione sovietica, in particolare di un suo agente, noto ai Servizi italiani. Secondo: i rapporti con l'Olp. Terzo: la casa dello Ior dove visse Prospero Gallinari, uno dei carcerieri di Aldo Moro. E ancora: la latitanza di Alessio Casimirri in Nicaragua, il ruolo di ambienti criminali o border-line, l'azione di Bettino Craxi e di ambienti milanesi nel tentativo di salvare la vita dello statista democristiano. Sono questi, per sommi i casi, gli «elementi nuovi» emersi nel lavoro della commissione. Novità che, come ha precisato Fioroni, «sono state immediatamente trasmesse alla procura di Roma». Non è detto, quindi, che non ci siano sviluppi imprevisti, come la riapertura dell'inchiesta. Intanto la commissione, grazie non solo alle migliaia di audizioni fatte, ma anche alla possibilità di acquisire documenti finora coperti dal segreto, offre una prima verità sui 55 giorni di quel 1978. Diversa da quella finora data per certa. Il primo elemento riguarda la casa dove Valerio Morucci e Adriana Faranda, due dei brigatisti che organizzarono rapimento e sequestro, furono arrestati il 29 maggio 1979. Finora si era sempre detto che l'arresto avvenne grazie ai gestori di un concessionario che vendeva auto, da cui Faranda comprò due vetture. Invece ci fu un altro canale, attivato dalla Digos. E aveva a che fare con il proprietario di quella casa. L' appartamento di via Giulio Cesare, dove furono trovati Morucci e Faranda, era di proprietà di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio, agente dell'Unione sovietica, uomo del Kgb, ma anche confidente degli 007 italiani. Sarebbe stato lui a «negoziare» con i Servizi italiani l'arresto dei due brigatisti per salvare la figlia, che infatti ebbe un trattamento piuttosto morbido. Il suo ruolo è accennato in una nota del Sismi che però, misteriosamente, viene tenuta nascosta ai magistrati che allora indagano sulla vicenda. Altra novità inquietante è che Moro poteva essere salvato. «Una semplice lettura combinata dei documenti programmatici delle Brigate rosse e delle informative che provenivano dal Medio Oriente», si legge nella relazione, «avrebbe consentito di individuare una specifica necessità di tutelare la persona dell'onorevole Moro». Viene riscritta la dinamica dell'attentato in via Fani. C' è poi il ruolo dello Ior, la cosiddetta Banca Vaticana: era di proprietà dell'Istituto, infatti, il «complesso» che «ospitò nella seconda metà del 1978 Prospero Gallinari e che era caratterizzato dalla presenza di prelati, società Usa, esponenti tedeschi dell'autonomia, finanzieri libici e di due persone contigue alle Brigate rosse». Quella casa potrebbe essere stata utilizzata «per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». Altro elemento che emerge «con chiarezza» è che non c' è stata una «regia unica» nella vicenda Moro. In conclusione, il rapimento e l'omicidio dello statista democristiano non sono solo opera di quattro brigatisti, non è un affare solo interno alla sinistra, «ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale».
Via Fani, come fu occultato il filo rosso delle munizioni che dal Medio Oriente portava alle Br. Nell’ultima relazione della commissione d’inchiesta su Moro si ricostruiscono molti rapporti tra terroristi rossi e gruppi palestinesi, scrive Francesco Grignetti il 13/12/2017 su "La Stampa". I proiettili che furono usati dai brigatisti rossi per sterminare la scorta di Aldo Moro venivano dall’estero. Più esattamente dal Medio Oriente. Erano stati fabbricati dalla ditta Fiocchi di Lecco, presumibilmente prima del 1973, ed erano destinati all’esportazione. Si trattava di una partita di munizioni per armi da guerra destinate all’Egitto, ma che probabilmente prese un’altra strada, forse qualche gruppo palestinese di fede marxista, e che rientrò in Italia per finire negli arsenali delle Br. Quanto a una pistola mitragliatrice Beretta M12 utilizzata nell’eccidio, successivamente sequestrata a un brigatista, si scoprì che faceva parte di una partita di armi destinata all’Arabia Saudita. La storia delle armi e delle pallottole di via Fani è una delle tante scoperte che la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Aldo Moro ha affidato alla sua ultima relazione, ora a disposizione del Parlamento e dell’opinione pubblica. Importante scoperta. Che si trattasse di munizioni «egiziane», i giornali lo avevano scritto subito. Viene citato un articolo de La Stampa a firma di Vincenzo Tessandori, del 13 agosto 1978 («Caso Moro. Torna la pista del Cairo. Identificato un “br” di via Gradoli»). Lo scriveva anche la povera Graziella De Palo (inghiottita assieme a Italo Toni dal Libano dilaniato dalla guerra civile) su «L’Astrolabio» il 14 giugno. Ma questa era una pista che evidentemente qualcuno riteneva pericolosa e da smontare. Così capitò che i periti del primo processo Moro sostennero semplicemente che quello stock di munizioni non faceva parte delle dotazioni standard, ma lasciavano aperta la possibilità che fossero dotazioni delle forze speciali. Gli investigatori della Digos di Roma, successivamente, annusarono che in ambienti giornalistici e politici si vociferava che «dagli esami compiuti dai periti su alcuni bossoli rinvenuti in questa via Fani, risulterebbe che le munizioni usate provengono da un deposito dell’Italia settentrionale le cui chiavi sono in possesso di sole sei persone». In tutta evidenza ci si indirizzava verso i nostri 007. E magari s’alludeva alla Gladio, che era ancora un segreto gelosamente custodito. Puntualmente la notizia finì sui giornali e nelle interrogazioni parlamentari. Ne nacque un caso. Diventò una «vulgata» infrangibile. Da quel momento in poi fu abbastanza ovvio interrogarsi se dietro la strage non vi fosse l’eterodirezione dei nostri 007 (ma quantomeno pasticcioni, se lasciavano tracce così evidenti). Ci dice ora la commissione presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni, Pd: «Tali armi e munizioni potrebbero essere state esportate in Medio Oriente in virtù di traffici la cui segretezza era da tutelare a ogni costo, sia perché fondati su accordi politici internazionali sconosciuti all’opinione pubblica sia perché coinvolgevano specifiche responsabilità». Sarebbero stati gli stessi 007 a indirizzare i sospetti su di loro per nascondere le tracce del Lodo Moro? L’avrebbero fatto per tutelare comunque e dovunque i palestinesi, rapporto che era fondamentale per molteplici scopi? C’è poi una questione subordinata. I brigatisti di via Fani si nascosero dietro le fioriere di un bar. Il bar Olivetti. Il titolare di quel bar si è scoperto solo ora che era al centro di mille traffici sospetti, a metà strada tra ’ndrangheta calabrese e clan libanesi. Era suo socio un tal Luigi Guardigli, molto vicino alla sinistra extraparlamentare, dedito all’import–export di armi, «a suo dire autorizzate» verso diversi paesi del Nord Africa e del Medio Oriente quali, in particolare, Egitto, Arabia Saudita, Libano ed Algeria. Su Olivetti e Guardigli non si è mai indagato in relazione alla strage. «La necessità di tutelare la riservatezza di questi traffici potrebbe spiegare il lungo oblio sul bar Olivetti e sulla figura del suo titolare. Accendere i riflettori su questo locale avrebbe infatti fatto riemergere una vicenda di traffico di armi, che coinvolgeva soggetti appartenenti alla ’ndrangheta e partite di armi assemblabili, che, secondo quanto riferito anche dal generale Cornacchia in audizione presso la Commissione, erano utilizzabili sia dalla criminalità organizzata che dalle Brigate rosse».
IL SEGRETO…
"Il segreto" di Antonio Ferrari, Editore: Chiarelettere. Descrizione. Un thriller travolgente che ha anticipato verità che 35 anni fa non potevano essere dette e che ora, finalmente, sono emerse grazie alle commissioni d’indagine e a nuove testimonianze. Le avventure dell’agente segreto americano Ron J. Stewart, tra Praga, Parigi, Berlino... È il 1978. L’Italia si trova al centro del più grosso complotto internazionale del dopoguerra. Il romanzo che nessun editore ha voluto pubblicare e che dopo 35 anni vede finalmente la luce! Dopo aver indagato sulle Br ed essere stato minacciato più volte e scortato, l’autore, inviato del “Corriere della Sera”, amico di Walter Tobagi, ai tempi della scoperta della P2 fu incaricato dalla direzione del giornale di scrivere un romanzo-verità su quegli anni. Ferrari lo scrisse raccontando quello che sapeva ma non poteva essere detto. Fu così che nessuno glielo pubblicò e non solo: ci fu anche chi si adoperò in tutti i modi perché il libro rimanesse segreto. Il segreto: “Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta La verità è sempre illuminante Ci aiuta a essere coraggiosi” (Aldo Moro) Marzo 1978: l’Italia si trova al centro di uno dei più grossi complotti internazionali del dopoguerra Il romanzo sul rapimento Moro che per 35 anni nessuno ha voluto pubblicare Troppo vero e troppo imbarazzante Per tutti | Tutto ha inizio al “Marriott hotel” di Washington Nessuno dei convocati sa qual è veramente la posta in gioco e il ruolo che ciascuno di loro avrà nel più grosso complotto internazionale degli ultimi decenni Non lo sa nemmeno Ron J Stewart, agente segreto americano, pronto a tutto, una vita segnata da missioni impossibili Ma questa che sta per essergli affidata è la più mefitica e delicata in assoluto In gioco c’è il futuro politico dell’Italia e i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica Fermare l’entrata al governo del PCI usando qualsiasi mezzo, anche le Brigate rosse: questo l’obiettivo Tra Praga, Parigi, la Berlino attraversata dal Muro, Milano, Genova, in accordo con altri agenti segreti dell’Est e dell’Ovest, al di fuori dei canali ufficiali, Stewart dovrà infiltrarsi e aiutare i terroristi nella loro azione eversiva e destabilizzante.
Un caso editoriale. Il romanzo-verità sull’Italia dei giorni del rapimento Moro, per anni tenuto nascosto. Tutto ha inizio al “Marriott hotel” di Washington. Nessuno dei convocati sa qual è veramente la posta in gioco e il ruolo che ciascuno di loro avrà nel più grosso complotto internazionale degli ultimi decenni. Non lo sa nemmeno Ron J. Stewart, agente segreto americano, pronto a tutto, una vita segnata da missioni impossibili. Ma questa che sta per essergli affidata è la più mefitica e delicata in assoluto. In gioco c’è il futuro politico dell’Italia e i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Fermare l’entrata al governo del PCI usando qualsiasi mezzo, anche le Brigate rosse: questo l’obiettivo. Tra Praga, Parigi, la Berlino attraversata dal Muro, Milano, Genova, in accordo con altri agenti segreti dell’Est e dell’Ovest, al di fuori dei canali ufficiali, Stewart dovrà infiltrarsi e aiutare i terroristi nella loro azione eversiva e destabilizzante. A farne le spese, l’uomo politico italiano più famoso. Un agente segreto francese, scoprendo la trama che si stava tessendo, cercherà invano di salvare il leader democristiano. Invano, perché “lui” doveva morire. Commissionato a Ferrari con non poche pressioni dal “Corriere della Sera” devastato dallo scandalo P2, tenuto nel cassetto per anni, questo romanzo avvincente e coraggioso anticipava quanto poi in parte confermato da nuove testimonianze e dalle commissioni d’indagine sul delitto Moro. Un vero caso editoriale. “Tanti ‘dettagli’ che sembravano indimostrabili e figli della dietrologia – sostiene oggi l’autore – purtroppo o per fortuna si sono dimostrati veri. Fu davvero un orrendo complotto, che oggi non fa più paura raccontare, o forse ne fa molta meno”.
Br, la fabbrica del complotto non riposa mai, scrive Paolo Delgado il 22 Settembre 2017 su "Il Dubbio". E anche sul caso Moro spuntano i Servizi segreti. Valerio Morucci un uomo del Sisde? L’inquietante domanda arriva da Giuseppe Fioroni, il presidente della commissione bicamerale che riindaga sulla strage di via Fani. La nuova ondata di interrogativi partorita dalla commissione non si discosta dalla tante che si sono susseguite. Valerio Morucci un uomo del Sisde? Ma non era Mario Moretti il fellone al soldo non si sa di chi ma in questi casi i servizi “deviati” si sa che c’entrano sempre? I due, lo sa chiunque abbia anche solo sfiorato il caso Moro, erano in conflitto frontale. Vorrà dire che dietro il fattaccio che seppellì la vera prima Repubblica si davano da fare non uno ma due pupari impegnati in cinica tenzone sulla pelle del presidente della Dc? Il dubbio, l’inquietante domanda, la vertigine che deriva giocoforza da questo proliferare di ipotesi contraddittorie spunta quando il presidente della commissione bicamerale che ri- indaga sulla strage di via Fani, 16 marzo 1978, e sui successivi 55 giorni chiede ad Adriana Faranda, all’epoca del sequestro compagna di Morucci, se è al corrente della collaborazione del medesimo “Pecos”, come soprannominato un tempo, col Sisde nel 1990, quando i due ex Br non facevano peraltro più coppia fissa da un bel po’. Faranda cade dalle nuvole. Balbetta qualcosa come un classico «Non so.. Non credo… Sarà stata una consulenza». In realtà nel mistero numero centomila di misterioso non c’è nulla. Uscito da poco di galera, riciclatosi da esperto d’armi in tecnico informatico, squattrinato, Morucci cercava lavoro a destra e manca, bussava a ogni porta inclusa quella del Sisde, col quale aveva avuto inevitabili contatti negli anni della collaborazione, sia pure in veste di dissociato e non di pentito, con investigatori e inquirenti. La nuova ondata di interrogativi partorita dalla nuova commissione Moro non si discosta dalla tante che si sono susseguite nel corso dei decenni. Monta ipotesi e dicerie promuovendole a fatti. Scarta a priori l’eventualità della pura coincidenza. Trasforma il sospetto in indizio. Uno sguardo ai più scottanti tra i neo- misteri aiuta a capire. E’ tornata in auge l’idea che dietro alla strage di via Fani ci sia la ‘ ndrangheta, che va da sé avrebbe comunque lavorato in conto terzi. La prova è una foto nella quale, tra la folla addensata nella via dopo il massacro, compare un uomo che potrebbe somigliare al nipote omonimo di un boss calabrese: Antonio Nirta. Forse si tratta davvero di lui, forse no. Le risultanze dicono che «non si può escludere» ma alcuni militanti romani dicono invece di aver riconosciuto un compagno del Movimento di allora. Quand’anche si trattasse davvero del Nirta junior in questione, la presenza nella folla sarebbe magari un po’ poco per concludere che le ‘ ndrine avevano pianificato e magari anche eseguito la mattanza. Niente da fare: dietro il sequestro c’è “l’ombra della ‘ ndrangheta”, e chi ne dubita o è tonto o cospira a propria volta. E’ inoltre data per appurato, anche in seguito all’audizione di uno dei leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Abu Sharif, che il capo dei servizi segreti in Medio Oriente nonché uomo di fiducia di Moro Stefano Giovannone, si trasferì a Roma, si adoperò come poteva, coinvolse i vertici dell’Olp che volentieri collaborarono. In realtà Sharif ha detto che quella collaborazione non ci fu e né fu chiesta, pur assicurando, parola sua, che le Br erano infiltratissime dagli americani. Ma che Giovannone si sia dato da fare è comunque certo, anche perché era stato lo stesso Moro a chiedere il suo intervento, nella prima lettera dal carcere. E’ probabile che qualcosa i palestinesi abbiano davvero provato a fare, nonostante le assicurazioni in senso opposto di Sharif. Perché il fatto dovrebbe suscitare scalpore però resta in effetti misterioso, fatto salvo il particolare dei rapporti tra Olp e Br che in effetti l’Olp per primo ha tutto l’interesse a negare per sin troppo ovvi motivi. La cosa ha una sua rilevanza, che però con la morte di Aldo Moro non c’azzecca. Più diretto sarebbe stato l’intervento di non meglio identificati “tedeschi”, eventualità suffragata soprattutto dal fatto che una testimone avrebbe sentito gridare in via Fani “Achtung, Achtung”. Sembra una barzelletta. Non lo è. Ma sulla credibilità dei testimoni capitati in mezzo a una sparatoria velocissima e comprensibilmente frastornati è d’uopo ricordare che per decenni interi castelli di ipotesi azzardate sono state costruite sulle dichiarazioni del superteste Alessandro Marini, quello sul quale avrebbero aperto il fuoco i due sconosciuti sull’ormai famigerata Honda crivellando il parabrezza. Solo l’anno scorso un giovane ricercatore ha rintracciato le foto scattate in via Fani dopo l’agguato. Il parabrezza di Marini è intatto. Il caso estremo è quello del Bar Olivetti, proprio di fronte al luogo dell’attacco in via Fani. Il 16 marzo 1978 era chiuso da un bel po’. Capita però che qualcuno si ricordi di averci preso il caffè proprio quella mattina. La commissione ipotizza che il bar fosse aperto, con ciò stabilendo che per oltre 35 anni le indagini erano state affidate all’ispettore Clouseau (cfr. La pantera rosa). Essendo piuttosto facile certificare che il locale era effettivamente chiuso, sorge il dubbio che però all’interno ci fosse qualcuno, evidentemente appostato dietro le saracinesche calate, e chissà perché l’idea balzana debba apparire più realistica che non uno scherzo della memoria di quanti, sempre dopo 35 anni e oltre, si sono ritrovati in bocca il sapore del caffè degustato quel giorno. Naturalmente il gioco perverso ma gustosissimo delle coincidenza non si ferma qui. Il proprietario del bar, Tullio Olivetti, era infatti stato coinvolto in una storiaccia di traffico d’armi, uscendone però pulito. Il che sembrerebbe significare che non c’entrava niente, ma solo per gli ingenuotti. Rivela invece le alte coperture di cui il reprobo potrebbe aver goduto, a ulteriore conferma della trama fitta dietro il sequestro. Del resto, ciliegina sulla torta, Olivetti era a Bologna il 2 agosto 1980, giorno della strage. Gatta ci cova e “tutto si tiene”, secondo il motto che orienta gli incubi dei paranoici ovunque nel mondo.
“IL SEGRETO” DI ANTONIO FERRARI CON LE SOLITE DIETROLOGIE SUL RAPIMENTO MORO, scrive Pasquale Hamel il 23 settembre 2017. Leggere le pagine de “Il segreto” di Antonio Ferrari edito dalla “Chiarelettere” è un rituffarsi negli intrighi e nel complottismo che ha segnato un passaggio fondamentale della storia nazionale, quello che vede l’ultima stagione dei partiti che avevano dominato la scena italiana dal secondo dopoguerra in poi e il lento ma inarrestabile sgretolarsi dell’impero sovietico con la conseguenza della fine dell’equilibrio bipolare che aveva fino ad allora governato il mondo. Attraverso l’artificio letterario, un corposo romanzo che non ha nulla da invidiare ai tanti spy story americani, l’autore ricostruisce, a suo modo, la drammatica vicenda del rapimento e del successivo assassinio dell’on. Aldo Moro, uno degli storici protagonisti della storia politica del nostro Paese noto, soprattutto, per la grande capacità di tessere trame politiche, di elaborare formule nuove, di sfiancare i propri avversari con un paziente e certosino lavoro di mediazione. Antonio Ferrari, giornalista e gran conoscitore delle vicende internazionali ma altrettanto informato sul terrorismo italiano, raccontando la sua storia romanzata sposa, senza mezzi termini, la tesi del complotto teso ad eliminare l’uomo del “compromesso storico”. Moro, “l’importante uomo politico italiano” nel mirino dei complottisti, viene individuato come l’obiettivo da eliminare per bloccare alcuni processi allora in atto che spingevano al superamento dei tradizionale equilibri politici del Paese. La strategia di Moro infatti, condivisa dal suo interlocutore, il segretario del partito comunista italiano Enrico Berlinguer, significava la rottura del compromesso che era stato raggiunto a Yalta con la divisione delle aree di influenza. Un fatto che preoccupava i protagonisti di quel difficile compromesso. Ma il disegno politico di Moro non poteva non preoccupare chi aveva puntato sulla strategia terroristica nel velleitario obiettivo di rianimare lo spirito rivoluzionario delle masse negli ultimi tempi molto decaduto. Eliminare Moro, l’uomo degli “equilibri più avanzati” sembrava dunque la strada giusta da percorrere per fermare i processi in atto e, magari, far tornare indietro l’orologio della storia. Tutto chiaro, tutto semplice, si potrebbe dire “il complotto è servito!” parafrasando il titolo di una nota trasmissione televisiva. Tralasciando la parte letteraria del libro, apprezzata e apprezzabile visto che la scrittura di Ferrari, con la sua grande abilità a ricostruire la cornice ambientale in cui si svolgono i fatti, è capace di legare il lettore dalla prima all’ultima pagina alla stregua del migliore Dan Brown, resta la riflessione sulla vicenda raccontata. Certo, luci ed ombre si sono addensate su quella triste vicenda ma sono più fatti casuali che, e non solo a nostro avviso, soltanto la vocazione alla dietrologia, sport nazionale italiano, è riuscita a cucire insieme facendone un emblematico e scandaloso caso politico. Vero è infatti che, le strategie, di Moro non piacevano agli americani e che soprattutto non piacevano ai sovietici e ai regimi dei loro satelliti, vero è che molte perplessità e perfino ostilità si manifestavano nel partito democristiano, ma da questo ad affermare, come ad esempio fa ad esempio qualche sacerdote del complottismo, che Moro sia stato sacrificato dai suoi compagni di partito, da un Giulio Andreotti o da un Francesco Cossiga per citare i più noti, ce ne vuole. Per convincersi che “l’affaire Moro” è stata una creazione intellettuale alimentata da speculazioni politiche, basta infatti leggere un testo di uno storico serio come Massimo Mastrogregori, il quale ha dedicato alla biografia del presidente della Dc un corposo volume, per rendersi conto che forse è il tempo di uscire dalle fantastorie e restituire all’intelligenza collettiva la verità su quelle vicende anche a rischio di scontentare qualcuno. Mastrogregori, con estrema puntualità evidenzia i pregi e i difetti del cosiddetto statista, ne esamina la storia politica fino al tragico evento che chiude la sua vita terrena, per concludere che “l’idea di un Moro demiurgo della politica italiana, abile regista eliminato col sequestro e l’assassinio dopo per deviare sviluppi politici ben definiti e avviati, ancorché molto diffusa, non è per niente realistica.” Ed allora, concludendo, l’invito è di leggere il libro apprezzando le qualità letterarie del suo autore ma guardandosi bene di ricavare da quelle pagine una verità che va oltre la realtà.
Caso Moro, «Il mio romanzo in libreria 35 anni dopo essere stato scritto», scrive il 22 settembre 2017 "Il Corriere TV". Antonio Ferrari, modenese, è al «Corriere della Sera» dal 1973. È stato inviato speciale e ora è editorialista. Negli anni Settanta e Ottanta si è occupato di terrorismo nero e rosso. Il 14 settembre 2017 è uscito per Chiarelettere il romanzo «Il segreto», dedicato al caso Moro. Ferrari lo scrisse nel 1981, ma la pubblicazione fu sospesa. In questo video ripercorre i misteri del sequestro e dell’uccisione del leader democristiano e la vicenda editoriale de «Il segreto». Il 26 settembre alle 18 il libro sarà presentato in un incontro organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera nella Sala Buzzati del «Corriere».
Caso Moro, il romanzo segreto. Antonio Ferrari lo scrisse nel 1981, ma la pubblicazione fu sospesa. Il 14 settembre uscirà per Chiarelettere: un’opera di fantasia che vale come un’inchiesta. - Il lettore capirà tutto. Ve la sentite? Un brano dalla postfazione di Antonio Ferrari. Perché il libro ha aspettato 35 anni prima di uscire: la postfazione di Antonio Ferrari, scrive Francesco Cevasco il 10 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Antonio Ferrari, modenese, è al «Corriere della Sera» dal 1973. È stato inviato speciale e ora è editorialista. Negli anni Settanta e Ottanta si è occupato di terrorismo nero e rosso.
«Un rompiscatole della memoria». L’intrigante definizione è dell’ambasciatore Sergio Romano. E si attaglia perfettamente ad Antonio Ferrari, l’autore di Il segreto, questo libro ostinato e contrario in cui l’editorialista del «Corriere della Sera» racconta la verità sul delitto Moro. Ostinato, dicevamo non a caso. Perché questo libro per trentacinque anni è rimasto sepolto nei labirinti delle case editrici. E nei labirinti che «il potere» ha abilmente costruito per nascondere tutto ciò che è scomodo. Contrario, dicevamo non a vanvera. Perché questo libro racconta una verità che è contraria a quella che ci hanno voluto raccontare, per decenni, quasi per una quarantina d’anni.
La verità cercata è quella sul caso Moro, sul delitto Moro. Bene, Aldo Moro «tira dentro», anche soltanto con l’astensione, pure «i comunisti» nella maggioranza di governo. Correva l’anno 1978. Insopportabile. Per i padroni del mondo occidentale d’allora, per i custodi degli accordi di Yalta e anche per i rivoluzionari delle Brigate rosse. Per i primi c’era il pericolo del vento dell’Est, una sorta di pacifica ma pur sempre «invasione rossa». Per i secondi il pericolo che venisse incrinato l’equilibrio su cui si fondava il potere dei protagonisti della guerra fredda. Per i terzi il pericolo che il «compromesso storico» sfaldasse definitivamente, in Italia, lo spirito rivoluzionario che, nella classe operaia, tirava ancora qualche asfittico respiro. Fatto sta che Moro viene eliminato. Ma prima di essere eliminato dal gioco della politica e dalla sua stessa vita passano cinquantacinque giorni. Di prigionia, di trattative, di ricatti, di imbrogli, di febbrili lavori — puliti e, soprattutto, sporchi, di tanti servizi segreti di tanti Paesi del mondo — fino al sospiro di sollievo che accompagna la sua morte. Contenti i sostenitori della fermezza della Stato italiano. Contenti gli americani (una parte) che tramavano affinché la verginità dell’Italia non venisse violata dai comunisti. Contenti i francesi che «in queste cose bisogna aver prudenza». Contenti gli israeliani che «noi osserviamo tutto ma lasciamo fare». Contenti quelli della Cecoslovacchia e di qualche altro satellite sovietico che «i conti tornano: certe cose non si possono cambiare superficialmente». Tutti contenti. E Aldo Moro è, inutilmente, morto. Anche il Papa di allora, Paolo VI, che non era certo una tempra di rivoluzionario, ha lottato contro una morte ingiusta. Il suo appello agli «Uomini delle Brigate rosse» è rimasto inascoltato. Moro è morto. Doveva morire. Ecco il libro di Ferrari. Perché e chi? Perché uccidere Moro? E chi c’è dietro quell’orrendo complotto? C’era una volta un albergo di Washington, il Marriott. Lì si trovarono, una sera, un grappolo di personaggi ambigui. Non tutti sapevano perché erano lì. Ma a reggere i fili che avrebbero mosso le marionette c’era il dottor Alfred Greninger (questo è un nome di fantasia). Jimmy Carter era presidente degli Usa. Ma a mister Greninger e alla sua Organizzazione quel presidente, «un venditore di noccioline», non piaceva proprio. Quelli del suo entourage (di Carter) che si occupavano di politica estera non avevano chiuso la porta in faccia a quel miserabile di Moro. Avevano detto un mezzo ok ai comunisti: nel governo no ma nella maggioranza... A Greninger, e alla sua Organizzazione, non bastava, bisognava fare in modo che «liberali, radicali e tutto quel marciume intellettuale che qui, in America, ascoltano tanto fossero zittiti. E i comunisti italiani? Dei pazzi intrattabili. Credono che si possano inquinare gli equilibri del mondo con teorie ridicole. Che cos’è il marxismo-leninismo libertario? Oppure il neocapitalismo comunista?».
Zittire, cancellare, sopprimere, con tutti i mezzi possibili. E il complotto parte annodandosi ad altri interessi che, comunque, portano sempre allo stesso obbiettivo. I personaggi del libro di Ferrari hanno (quasi) tutti un nome di fantasia. Ma, come ammette anche l’autore, è molto facile smascherarli. A cominciare da Ron J. Stewart che corrisponde a Ronald Stark agente di «un» servizio segreto americano che frequentò l’Italia ed entrò in contatto con i vertici delle Brigate rosse. È facile identificare Valerio Morucci e seguire le sue mosse di rigoroso capo dell’organizzazione che però celano inquietanti ambiguità. Come rivedere nel personaggio di Giusto Semprini uno di quei giovani disillusi del Pci e illusi dalle Br che credevano veramente in una possibile e giusta rivoluzione finché... O imbattersi in magistrati e poliziotti per bene che ci hanno rimesso la vita o la carriera. E in intellettuali contorti come Toni Negri. E in circoli culturali e politici (Kyrie nel libro, Hyperion nella realtà) che diventarono crogiuolo di esperienze diverse: convegni contro la repressione ma anche luogo d’incontro di spie di tutto il mondo, palestra del pensiero rivoluzionario ma anche zona franca per allestire complotti politici. La ricostruzione del sequestro e del delitto Moro si sposta da Roma a Milano: giusto quanto basta per dire che questo libro è un romanzo e non un’inchiesta. Che poi romanzo, questo libro, lo è davvero. Una lunga storia dove la suspense non cede mai. Fino alle ultime otto righe, quando il lettore sperava di aver trovato un po’ di quiete, di aver appagato almeno in parte i suoi sentimenti di giustizia e invece...
La storia di come nasce Il segreto è un romanzo nel romanzo. La racconta bene Ferrari nella postfazione. C’è da sapere che l’autore, prima di essere inviato e poi editorialista di politica estera, negli anni Settanta e primi Ottanta si è occupato di terrorismo rosso e nero, due anni ha vissuto con la scorta. Si presume che certe vicende le conoscesse bene quando nel 1981, seduto alla scrivania che fu di Dino Buzzati, ricevette una telefonata dal sopravvissuto manager, Salvatore Di Paola, allo scandalo P2 che s’era abbattuto sul «Corriere». Più o meno gli disse: tu che sei persona per bene scrivi un libro, in questo momento può essere utile far vedere ai lettori che, nonostante tutto, siamo puliti. Per farla breve, Ferrari scrisse il suo libro, questo di cui stiamo parlando. Per farla breve, quando lo consegnò cominciò un gioco a nascondino tra i responsabili della casa editrice: rinvii e rinvii spesso immotivati. Per farla lunga, sono passati trentacinque anni da allora. In tutti questi anni Ferrari ha ricevuto minacce, più o meno esplicite, che in qualche modo si ricollegavano alle cose che sapeva e che aveva avuto il coraggio di scrivere e il coraggio di volerle pubblicare. Bene, ora la storia è finita. Il libro è stampato. Quell’Araba Fenice che è la commissione parlamentare sul delitto Moro, che ogni tanto risorge com’è successo da poco, oggi ha fatto proprie alcune tesi di Ferrari. E, forse, Il segreto è un po’ meno segreto.
«Il segreto» di Antonio Ferrari sul caso Moro: la postfazione. Perché il romanzo è uscito trentacinque anni dopo essere stato scritto, scrive Antonio Ferrari il 22 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La telefonata arrivò a metà pomeriggio di una calda giornata di inizio luglio del 1981. «Ciao Ferrari, sono Salvatore Di Paola. Ti spiace fare un salto nel mio ufficio? Ti devo parlare con urgenza.» Guardai, sorpreso, i miei due colleghi inviati, Nicola D’Amico e Fabio Felicetti. Insieme condividevamo l’onore di occupare l’ufficio che fu di Dino Buzzati, al pianterreno del «Corriere della Sera», in via Solferino, dove forse nacque un suo capolavoro, Il deserto dei Tartari. Libro straordinario e fenomenale metafora sui tempi lunghi e le attese infinite che logoravano la nostra impazienza e condizionavano – noi pensavamo – la vita e la salute del giornale. «Chissà cosa vorrà l’azienda. Vado e poi vi racconto.» Salutai i colleghi, mi infilai la giacca estiva e salii le scale. Di Paola, con il quale ero da tempo in confidenza, era un dirigente curioso, che amava il «Corriere» e non pensava soltanto ai lauti compensi della pletora di super manager dei nostri giorni. Era il numero tre del gruppo editoriale, ma praticamente era rimasto il più alto in grado, visto che l’editore, Angelo Rizzoli, e il direttore generale, Bruno Tassan Din, erano stati di fatto esautorati dopo l’esplosione dello scandalo P2. Mi aspettava sulla porta del suo ufficio. «Vieni, Antonio, siediti. Devo dirti subito una cosa: siamo nella merda.» Lo disse senza preamboli, con brutale franchezza, strappandomi un sorriso di piena condivisione. «Lo scandalo della P2 è devastante. Abbiamo bisogno di dare alla gente, ai nostri lettori, inequivocabili segnali di pulizia. Tu hai coraggio, ti occupi di terrorismo. Hai rischiato la pelle. Vivi con la scorta. Ecco, dovresti scrivere un saggio su questi anni devastanti». A volte, forse per temporanea pigrizia mentale, vengo travolto dal desiderio di rifiutare sempre e comunque, anche se caratterialmente sono l’esatto contrario. «No, Salvatore. Non me la sento. Non sono pronto. È una responsabilità che va oltre le mie forze». «Antonio, se ho pensato di chiamarti è perché so quanto ami e quanto sei legato al nostro “Corriere della Sera”. Il “Corriere”, adesso, ha bisogno di te... Non cercare scuse. Fatti venire un’idea». Per prendere tempo, risposi: «Ci penso qualche giorno». Di Paola, determinatissimo: «Qualche giorno? Non hai capito. Tu andrai a firmare il contratto in Rizzoli domattina. Scrivi quello che vuoi». Alla fine, lo so, la fantasia e il gusto del rischio mi hanno sempre soccorso. Anzi, quando mi lanciano il guanto della sfida, non riesco a sottrarmi. Guardai Salvatore Di Paola. «Quello che posso fare è un romanzo, dove racconterei tutto ciò che non ho potuto scrivere perché non ne ho le prove assolute». «Perfetto. Non voglio neppure conoscere i dettagli». «Fermati, Salvatore. Mi devi ascoltare. Racconterò alcuni segreti che si nascondono dietro l’assassinio di un leader politico. Immagini già chi è. Non farò nomi, neppure di lui. Altererò i tempi, il luogo della strage, le decisioni delle Brigate rosse. Non è pura fantasia: intreccerò alcune confidenze che ho ricevuto da amici magistrati, preziose notizie ignorate dai giornali e indiscrezioni davvero piccanti, con una trama parallela. Ti avviso che chi leggerà capirà tutto. Te la senti? Ve la sentite? Sei sicuro?». «Te l’ho detto e te lo ripeto. Carta bianca. Ti prendo l’appuntamento per domattina». Credo che qualsiasi autore sarebbe stato felice di tanta generosità e di tanta fiducia. Impiegai mezz’ora per illustrare il progetto al dirigente della Rizzoli Libri, che si chiamava Piero Gelli (un caso di imbarazzante e sofferta omonimia). Firmai il contratto, che prevedeva la consegna del testo entro sei mesi. Tre giorni dopo ricevetti l’anticipo e cominciai a lavorare per rispettare i tempi. Sei mesi più tardi: consegna del libro e un sudario di silenzio. Silenzio di tomba dalla casa editrice. Nessuno chiamava. Sergio Pautasso, il responsabile della narrativa, taceva. Quando parlavo con il suo ufficio, rispondevano che si stava valutando. Ma valutando cosa? Eppure continuavo a essere ingenuamente ottimista. Alla fine quel romanzo, che ha più di trentacinque anni, non è mai stato pubblicato, come avevano previsto gli amici ai quali l’avevo fatto leggere. Persone di cui mi fidavo, e che erano state generose: alcune di informazioni davvero scottanti, altre di preziosi consigli. «Antonio – mi dissero –, ci vogliono molto coraggio, una dose smisurata di anticonformismo e la determinazione di colpire i vari poteri per pubblicare questo libro». Eccomi qui, trentacinque anni dopo, con i capelli bianchi ma l’intatto desiderio di condividere con i lettori (in primo luogo i giovani, che di quegli anni sanno poco o niente, ma anche i «diversamente giovani», che invece ricordano quasi tutto) una storia che oggi non fa più scandalo, come la nuova Commissione Moro, voluta da Matteo Renzi, sta ricostruendo tra mille difficoltà. La storia che non si poteva scrivere, oggi, è persino meno traumatica di quanto sta emergendo dai lavori della commissione parlamentare. Il delitto Moro fu una grande porcheria internazionale.
Devo fare un passo indietro. Anzi ne devo fare due. Il primo passo riporta all’aprile del 1979, quando il direttore del «Corriere della Sera», Franco Di Bella, mi chiese di partire subito per Padova, dove mi avrebbero poi raggiunto i colleghi Giancarlo Pertegato e Walter Tobagi. C’era stata una serie di clamorosi arresti nel mondo dell’Autonomia operaia organizzata, a cominciare dalla quasi totalità dei docenti della facoltà di Scienze politiche, a partire dal barone Toni Negri. Erano stati scoperti legami con le Brigate rosse, e si sospettavano responsabilità dirette per il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, avvenuto l’anno prima. Il 28 aprile, a oltre venti giorni dalla retata, il sostituto procuratore della Repubblica Pietro Calogero mi ricevette, assieme ad altri colleghi. Fece il punto sull’inchiesta. Spiegò le connessioni che erano state scoperte a Parigi, presso l’istituto di ricerca Hyperion. Ci confidò che i servizi segreti francesi avevano collaborato fruttuosamente all’indagine, anche se avevano fatto sapere che la collaborazione doveva ritenersi sospesa, perché gravemente compromessa. Calogero mi guardò dritto negli occhi: «Ferrari, purtroppo il suo giornale, il “Corriere della Sera”, ci ha tradito». Mi sembrava un’accusa infamante, incomprensibile e profondamente ingiusta. Ma prima che potessi esternare la mia reazione di corrierista doc, il giudice precisò: «Non lei, Ferrari, naturalmente. Ha letto la prima pagina del “Corriere” di quattro giorni fa? La rilegga, e ricordi quanto le ho detto». Rammentavo il titolo, clamoroso, Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Brigate rosse, e l’articolo. Ricordavo che la rivelazione dell’«uomo dei servizi» era stata raccolta da un collega che stimavo e stimo. Mi chiesi, in pochi secondi, che cosa avrei fatto io se avessi avuto quella notizia, quello scoop. «Capisco il suo turbamento» mi disse Calogero. «Apprezzo sempre il lavoro di voi giornalisti. Ma sappiate che anche voi potete essere strumenti inconsapevoli di giochi orrendi. Se foste “consapevoli”, sarebbe davvero una tragedia per la libertà di questo paese». Quella conversazione si sedimentò nella mia mente, ed è logico che, da quel giorno, cercai di ragionare molto più attentamente su tutto ciò che accadeva, anche su dettagli che parevano marginali. Per esempio fui molto colpito da una notizia. La scarcerazione e la scomparsa di un ricco americano, che era stato arrestato a Bologna per traffico di droga nel 1975, e che era tornato misteriosamente in libertà. In carcere si era infiltrato nelle Br e, come poi si seppe, era un uomo legato alla Cia. Si chiamava Ronald Hadley Stark. Anni dopo, nel 1985, venni a sapere anche che Stark era morto nelle Antille, in circostanze davvero particolari.
È chiaro che molte fiaccole si erano accese nella mia mente. All’inizio del 1981, un collega de «L’Espresso» che stimavo moltissimo, Franco Giustolisi, compagno di tante missioni giornalistiche in giro per l’Italia, rientrando a Milano da Padova mi fece una strana confidenza. «Hai fegato, Antonio. Ma attento. Tu scrivi spesso che la loggia P2 si staglia dietro molte storie di terrorismo. Ho sentito che il tuo giornale non ne è estraneo». Ricordo che reagii con insofferenza. «Anche tu, Franco! Ce l’avete proprio tutti con il “Corriere”. Non crederò mai a una cosa del genere.» Giustolisi mi sorrise, enigmatico. Cambiammo discorso. La sera del 20 maggio 1981 ero al giornale. Credo che aspettassi due amici della redazione per un pokerino notturno. Chiacchieravamo di calcio quando, in sala Albertini, entrò un fattorino. Aveva in mano un telex. Il capo del servizio politico sbiancò. «L’elenco! Arriva l’elenco della P2.» Pokerino svanito. Tutti in fila davanti al telex, mentre la macchina vomitava, con il suo ritmo scandito da ogni lettera. Quasi mille nomi. Eravamo diventati tutti guardoni. «Hai visto chi c’è?» «Incredibile.» La lista era come una frustata. Non so quanti possano immaginare che cosa abbia voluto dire, per un amante del «Corriere», scoprire che i vertici del suo giornale erano dentro. Quasi tutti. Fu chiamato a casa il direttore, che arrivò trafelato. Vide l’elenco. Quattro parole: «Bene, si pubblichi tutto». Al centralino del «Corriere» fioccavano telefonate notturne, nervosissime. Chi compilò quella pagina, che aveva un titolo imbarazzato, La presunta lista della Loggia P2, fece molto più degli straordinari. Molti volevano smentire subito: chi sdegnosamente, chi con rabbia, chi si affidava al giudizio della gente, chi minacciava querele. Ricordo due cose di quella notte di tregenda. La fatica dei colleghi della redazione per inserire le smentite, che suonavano ridicole, talvolta patetiche, talora grottesche. Poi l’autentica fitta di dolore per colleghi professionisti, compreso un giovanissimo talento che consideravo quasi un allievo, i quali erano andati a inginocchiarsi davanti a quel brutto ceffo di Licio Gelli. Un lercio burattinaio con disegni delinquenziali e golpisti, in Italia come in Argentina, in Uruguay e altrove. Non mi aveva sconvolto la presenza nella lista dei politici, dei generali, di tutti i capi dei servizi segreti, di alcuni magistrati. L’intero codazzo istituzionale di questo bellissimo ma slabbrato paese, abitato da troppi camerieri del potere. Lo davo per scontato. Fui fulminato dalla presenza del cantante Claudio Villa (sì, caro Reuccio, la vanità e la piaggeria fanno brutti scherzi!) e da quella del grande imitatore Alighiero Noschese, che conoscevo personalmente. Povero Alighiero, forse Gelli lo aveva utilizzato per telefonate ricattatorie. L’artista – dissero – non resse alla vergogna e si tolse la vita. Magari era vero che soffrisse di depressione. Avendo poi seguito, a Torino, numerose udienze del processo alle Br, e avendo ammirato l’equilibrio del presidente della corte d’assise Guido Barbaro, un educato garantista che era il beniamino di noi inviati speciali, rimasi raggelato nel vedere anche il suo nome nella lista della P2. In quei momenti, mentre si spiegavano carriere fulminanti, tessevamo collegamenti inquietanti. Quella notte non dormii. Meno di due mesi più tardi, quando fui chiamato da Salvatore Di Paola, ero ancora sotto choc, anche se nella vita ci si abitua a tutto. Il mio «Corriere» ferito era come una pugnalata alla schiena di ciascuno di noi.
Anni dopo, quando un collega tentò di far pubblicare sul nostro magazine un’intervista a Licio Gelli, mi consultai con il supervisore del settimanale, il mio migliore amico Francesco Cevasco, collega bravo e limpidissimo, che già aveva deciso di impedirne la pubblicazione senza consultare nessuno. In quanto delegato sindacale degli inviati speciali, convocai un’assemblea. «Se esce l’intervista, cari colleghi, propongo uno sciopero immediato, senza trattative e senza compromessi. A muso duro.» Ferruccio de Bortoli, all’epoca capo dell’Economia, si mise la giacca e, passando davanti all’ufficio di direzione, disse: «Se esce l’intervista, il giornale ve lo fate da soli». Il direttore Paolo Mieli fu d’accordo con noi. L’intervista non fu pubblicata. Ma torniamo al libro. Il tempo passava e la Rizzoli non mi dava notizie. Si erano lamentati per la lunghezza del testo. Pautasso compiva salti mortali (o quasi) per spiegarmi che c’erano «cose che non andavano». Scuse pietose. Cambiò il direttore della divisione libri. Arrivò Valerio Riva, ruvido galantuomo. Mi fece una telefonata di fuoco: «Cazzo! La scuola di Parigi. Perché non esce questo libro?». Mi venne da ridere: «Non chiederlo a me». Riva si impegnò, ma poco dopo fu allontanato. Arrivò Oreste Del Buono, che mi disse chiaramente: «Non ce la sentiamo. Mi spiace». Decisi di ritirare il mio Il Segreto. Chiesi solo l’ultima rata dell’anticipo. Una causa? Al «Corriere della Sera» e alla casa editrice Rizzoli non l’avrei mai fatta. Provai allora con altri editori. Devo però essere sincero. Da una parte mi urtava questa tremebonda cortina da prima Repubblica, dove certe libertà non erano previste; dall’altra comprendevo le resistenze, e in qualche caso le condividevo. In realtà, con questo romanzo, ero andato – per quei tempi – ben oltre i binari della mia autonomia e del mio ruolo professionale. Ero insofferente ed ero giunto a una conclusione: non volete il libro? Me ne farò una ragione.
Cominciai la mia seconda vita professionale: inviato speciale all’estero. Due episodi. Ero stato incaricato di partire, ancora una volta, per Parigi. Dovevo raccontare la vita da esuli dei ricercati italiani per terrorismo. Il mio direttore, Piero Ostellino, presuntuoso ma schietto e sicuramente per bene, mi disse: «Lo so, lo so che Negri non ti ama. Dice che sei una specie di carabiniere». Risposi con una battuta: «Be’, direttore, quanto onore! Meglio somigliare a un carabiniere che a Toni Negri». Tornato a casa, mi consultai con la mia compagna di allora, Agnes Spaak. Reagì con istinto protettivo: «Non mi piace, Antonio. Torna subito al giornale». E mi suggerì: «Chiedi al direttore cosa volesse dire. Insomma da dove veniva quella battuta». Tornai da Ostellino. Mi spiegò che era arrivata una lettera di Toni Negri dalla Francia. Era indirizzata a «Fabio Barbieri, caporedattore del “Corriere della Sera”». Informazione assolutamente inesatta. Sbagliata, falsa, anche se in realtà il collega de «il mattino di Padova» e poi inviato de «la Repubblica» era stato in corsa per essere assunto nel nostro «Corriere», e qualche giornale vi aveva accennato. Un membro della segreteria di redazione, Inigo Scarpa, aveva privilegiato la carica e non il nome del destinatario e aveva aperto la lettera. Ostellino mi spiegò che era formalmente un «corpo di reato». Arrivava da un ricercato, anzi da un condannato a trent’anni di prigione. L’azienda, mi disse, «l’ha fatta consegnare al magistrato».
Domandai: «Che cosa si dice nella lettera?».
Ostellino mi rispose: «Fanfaronate. Alla fine Negri si rivolge a Barbieri per chiedergli in sostanza di non utilizzarti su questi argomenti, in nome dell’antica amicizia». Barbieri era stato infatti in Potere operaio, proprio come il professore padovano.
«Direttore, quando è arrivata la lettera?».
«Mi sembra un mese fa».
«E tu non mi hai informato?».
«Ma no, Antonio. Non c’erano minacce dirette a te».
«Piero, mi hai esposto al rischio di finire stritolato da qualche fogliaccio calunniatore...».
«Secondo me esageri».
«Al punto che domani andrò anch’io dallo stesso magistrato. Farò una dichiarazione a futura memoria.» Così feci, e chiesi che fosse messa agli atti.
Chi non ha vissuto l’atmosfera di quegli anni velenosi non può immaginare, neppur lontanamente, come si viveva e come vivevano coloro che seguivano per il proprio giornale le vicende del terrorismo. C’erano le minacce, le tensioni, le paure personali e i timori familiari, le calunnie esplicite e quelle fabbricate con le allusioni. Nel 1980 il mio collega Walter Tobagi, che con me raccontava i mali del nostro paese, era stato ucciso da un commando di praticanti terroristi, dopo essere stato sepolto di insinuazioni. Potete quindi immaginare quanto fosse delicata una lettera di un personaggio come Toni Negri, magari ripresa e commentata dai fogli che raccoglievano pettegolezzi e spazzatura. Forse amplificata da coloro – non sapete quanti! – che allora erano estremisti dell’ultrasinistra e poi sono entrati con le fanfare nelle stanze del potere. Soprattutto di destra. Ero turbato e sconcertato dalla gravità di quell’episodio. Due giorni dopo partii per Parigi. Incontrai Oreste Scalzone e altri espatriati sfuggiti alla giustizia italiana. Nessuno di loro amava Negri. Una sera rientrai in albergo, al Montalembert, e il portiere mi consegnò un pacco. Dentro, una pila di fotocopie e un bigliettino anonimo in francese. Lessi: «Sappiamo la disavventura che ha avuto con il suo libro Il Segreto. Vogliamo farle sapere che cosa sta per pubblicare la Rizzoli. Titolo: Il treno di Finlandia, autore: Toni Negri. Trova qui le fotocopie del testo». Ero allibito e, direi, scandalizzato. Ne scrissi tranquillamente in un paio di articoli, contando sul fatto che nessuno sarebbe intervenuto per chiedermene ragione. Ostellino è sempre stato un vero liberale. Ovviamente, svelato il segreto, scoppiò un piccolo scandalo in casa editrice, e il libro di Negri fu scartato. Uscì, in grave ritardo rispetto ai tempi previsti, con un piccolo editore. Mi capitò, molti anni dopo, di incontrare Fabio Barbieri a Davos per il World Economic Forum. Stavamo cenando con i colleghi al ristorante Morosani. Si parlava di amicizia. Dissi: «Fabio, tu sei mio amico da anni, ma con me non ti sei comportato da amico. So che sei stato contattato dal nostro direttore generale di allora, Luigi Guastamacchia». Rispose: «Sì, è vero. Ci conosciamo e frequentiamo da tempo. Lo incontrai, mi parlò della lettera di Negri e mi chiese notizie e valutazioni sul tuo conto». Lo incalzai. «E tu, amico mio, non mi dicesti nulla? Vergognati.» I colleghi presenti nel ristorante di Davos impallidirono. Il nostro Danilo Taino, eccellente giornalista, grande corrispondente, analista e soprattutto uomo verticale, tornando in albergo mi prese sottobraccio e disse: «Antonio, quel che ho sentito è davvero sconvolgente». Fabio, senza riferirsi direttamente a quell’episodio, si mostrava pentito e dispiaciuto. Qualche tempo prima di morire (era malato e lo avevo saputo), venne a Gerusalemme con la moglie. Gli stetti vicino in questo suo pellegrinaggio in Terrasanta.
Questo è il passato. Oggi, come vedete, Il Segreto è uscito. L’ho riletto tre volte, per riprendere confidenza con una vicenda che ha segnato la mia vita. L’ostinazione ha vinto. «Guastafeste della memoria» mi ha definito con amicizia e simpatia l’ambasciatore Sergio Romano. Ne sono fiero. Ma c’è di più. Finirà che dovrò ringraziare chi, trentacinque anni fa, rifiutò di pubblicarlo. Oggi il mio romanzo quasi combacia con la realtà.
Antonio Ferrari: “Ecco il romanzo-verità sul caso Moro che 35 anni fa nessuno volle pubblicare”, scrive Antonio Sanfrancesco il 17.09.2017. Antonio Ferrari, a lungo inviato del “Corriere della Sera”, lo scrisse nel 1981, ma qualcuno ne impedì la pubblicazione perché, spiega, "metteva in discussione quello che si doveva credere". Ora esce per Chiarelettere. Ed è destinato a far discutere. L'intervista a tutto campo al grande giornalista, che ai giovani aspiranti tali consiglia di "crederci. Questo resta il mestiere più bello del mondo. Se cerchi soldi, meglio lasciar perdere. Se cerchi le emozioni, allora devi insistere..." Questa è la storia di un libro che doveva uscire trentacinque anni fa, ma qualcuno lo impedì. È la storia, ancora senza finale, del mistero dei misteri d’Italia: il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. È la storia di un romanzo-inchiesta, Il Segreto, scritto da un cronista di razza, Antonio Ferrari, per trent’anni inviato speciale del Corriere della Sera, che ama sentire l’odore delle cose, vedere di persona e sa coniugare quello che ha visto con il ragionamento e l’analisi. Negli anni Settanta e Ottanta Ferrari si è occupato di terrorismo rosso e nero, dello scandalo della P2, che travolse anche il Corriere, e per due anni ha avuto pure la scorta. Poi, dal 1982, da inviato in Medio Oriente, ha intervistato i principali leader dell’area: Arafat, Sharon, il presidente libico Gheddafi, l’ex re di Giordania Hussein e l’attuale Abdullah, il presidente siriano Bashar el Assad e l’egiziano Mubarak. Fino alla principessa Rania di Giordania di cui è amico personale. Ha raccontato la guerra in Libano, che l’ha particolarmente segnato, tanto da conservare un cimelio che, rivela, “porto sempre sul cuore”. L’intervista si svolge al Rigolo, il ristorante a due passi da via Solferino, storico ritrovo dei giornalisti del Corriere come ricorda Ferrari con aria compiaciuta. È un attimo. Poi l’espressione del volto si fa di nuovo seria ed emerge l’istinto dell’intervistatore: “Ha letto la postfazione? Non le sono venuti i brividi?”. Il Segreto, pubblicato da Chiarelettere, si legge tutto d’un fiato, ha il ritmo incalzante di un thriller ma vale un’inchiesta.
Non rischia di alimentare la dietrologia sul caso Moro?
“Io non sono un fanatico della dietrologia, ma non mi sono mai accontentato delle veline e delle dichiarazioni ufficiali. Sono abituato, grazie al più grande direttore che ho avuto, Piero Ottone, ad andare e cercare di scavare anche l’impossibile pur di tentare di scrostare le bugie attorno alla verità. Non sono un ingenuo, so che arrivare alla verità pura è una chimera. Eliminare le bugie, però, è un primo passo verso la verità”.
Nel romanzo, Aldo Moro viene liberato dai brigatisti e ucciso subito dopo. È questa la verità?
“Io continuo a pensare che il presidente della Democrazia Cristiana sia stato liberato e ucciso successivamente. Due mesi, dal rapimento al ritrovamento del cadavere, sono tanti. La maggioranza delle Brigate rosse voleva liberare Moro, una minoranza, inquinata dalla scuola francese Hyperion (Kyrie nel libro, ndr) no. Sono convinto di questo e alcuni magistrati me l’hanno confermato”.
Perché Moro doveva morire?
“Il leader democristiano, insieme ad Enrico Berlinguer, stava lottando per far uscire l’Italia da un’impasse politica e istituzionale. Due uomini diversi, un cattolico e un comunista, entrambi concentrati sul progetto di rompere il ‘fattore K’ e tirare dentro nella maggioranza di governo anche il Partito comunista italiano. Un progetto che faceva paura a molti”.
A chi?
“In America c’era il presidente Jimmy Carter e in Russia Leonid Breznev. L’accordo tra Moro e Berlinguer metteva in crisi gli uni e gli altri: gli americani perché vedevano un partito comunista entrare nell’area di governo e i russi perché un partito comunista si permetteva di entrare in una maggioranza di governo sia pure con la formula dell’astensione. In tutti i Paesi ci sono sempre poteri paralleli agli Stati che si muovono e tramano nell’ombra. Nel caso Moro ci fu una convergenza tra questi poteri”.
A muovere i fili di questa trama, nel romanzo, è il dottor Alfred Greninger.
“Un personaggio di fantasia. Nella realtà, esponente di un’organizzazione nazionalista e intransigente americana che aveva l’equivalente in Russia. Anche l’Italia giocò una partita poco limpida. La mia impressione è che non sia stato fatto tutto il possibile per liberare Moro. Cossiga (all’epoca ministro dell’Interno, ndr) giocò un ruolo ambiguo”.
Poi c’è Ron J. Stewart, un agente segreto americano facilmente identificabile…
“È Ronald Stark, un americano infiltrato che entrò in contatto con i vertici delle Brigate Rosse. Poi si scoprì che morì in circostanze poco chiare nelle Antille. Fu una cosa tacitata dai giornali e ancora oggi mi chiedo perché”.
Chi voleva che il suo libro non fosse pubblicato?
“Molti, perché metteva in discussione quello che si doveva credere, cioè che le Br erano pure e rosse, che non c’erano possibilità d’infiltrazioni e che tutto il resto era dietrologia spicciola di serie B. Quello che ho raccontato nella postfazione è tutto vero. Il Corriere, tramite il manager Salvatore Di Paola, sopravvissuto allo scandalo P2, voleva che scrivessi un saggio. Proposi di raccontare in chiave romanzata quello che non ho mai potuto provare. Credevo che fosse il momento di denunciare tutto. Mi sbagliavo. Forse ero presuntuoso. Però i giochi di potere erano molto forti e quegli erano difficili. Ricevevo continuamente minacce, più o meno velate. Il libro nacque così. Dopo averlo scritto, cominciò un calvario di rimpalli, rinvii, ‘vediamo, stiamo valutando’. Alla fine capii che la Rizzoli non l’avrebbe mai pubblicato”.
Se fosse uscito prima sarebbe stato un riacquisto di credibilità per il Corriere che usciva con le ossa rotte dallo scandalo della loggia P2?
“Ci ho pensato più volte. Mi sono risposto di sì, però forse è la mia presunzione. Certo, ho avuto coraggio a dire, da dentro, che alcune cose le avevo capite e non ero uno sciocco. Proprio in questo ristorante ebbi un incontro con una grande regista tedesca, Margarethe von Trotta, la quale mi chiese se il giornale mi avesse mai condizionato. Le dissi di no. Lei voleva fare un film e propose di far interpretare il mio ruolo da Gian Maria Volontè. La ringraziai ma le dissi di non poter accusare nessuno, neanche il direttore Franco Di Bella che non mi ha mai censurato un pezzo quando scrivevo della P2 nonostante lui stesso fosse tra gli iscritti”.
La verità sul caso Moro oggi fa meno paura?
“Forse sì perché la mia è una verità romanzata ma che si raccorda con le ultime scoperte della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro voluta da Renzi che su questo, va detto, ha avuto un grande coraggio nel voler tirar fuori le porcherie di regime”.
Nella sua carriera ha seguito il terrorismo, ha vissuto sotto scorta per alcuni anni, poi è andato in Medio Oriente a raccontare la guerra. Che differenza c’è?
“Enorme. Io non ho mai avuto paura in Medio Oriente ma l’ho avuta, e tanta, in Italia. Il terrorismo era cieco, poteva colpirti senza darti alcun segnale. La guerra è palese, tu sai che ogni giorno corri il pericolo di morire. Sul cuore porto sempre questo (lo estrae dalla tasca del gilet, ndr): è un frammento del Corano dove si riconosce la verginità di Maria. Me lo regalò il mio autista Sami. Un giorno a Beirut a metà degli anni Ottanta mi ha salvato da un sequestro perché avevo visto e fotografato cose che non avrei dovuto vedere e fotografare. C’era appena stata una strage di palestinesi uccisi dagli sciiti a Shatila. La religione non è violenza, porta sempre un messaggio di pace, lo dico da laico”.
Lei crede?
“Non lo so. Il cuore dice sì, la ragione dice no. Sento però che c’è qualcosa che mi guida e mi aiuta. Che sia il caso, lo Spirito, Dio, non lo so. Aver vissuto a lungo a Gerusalemme mi ha molto colpito e cambiato. Nel 1999, alla vigilia del Giubileo, feci un reportage sulle orme di Gesù Cristo”.
Che giudizio ne ha tratto?
“Non so se è il figlio di Dio. Era un profugo, veniva da Nazareth, considerata dai dottori della Legge di Gerusalemme la feccia come i luoghi d’origine dei profughi di oggi. Gesù era un rivoluzionario e anche un gran rompiballe: caccia i mercanti dal Tempio, predica contro i dottori della Legge. Un po’ come papa Francesco oggi, mi arrabbio molto quando lo attaccano”.
L’ha conosciuto?
“L’anno scorso ad Assisi. Il mio sogno è passare una giornata con lui e poi raccontarla in un libro”.
Che consigli vorrebbe dare ai giovani che si affacciano a questa professione?
“Crederci. Questo resta il mestiere più bello del mondo. Se cerchi soldi, meglio lasciar perdere. Se cerchi le emozioni, allora devi insistere. Noi siamo collezionisti di emozioni, questa è la nostra forza. Quando non riesco a dormire la sera penso a tutto quello che mi ha regalato questo mestiere: ho incontrato le persone più incredibili, ho vissuto le situazioni più strane, ho visto gente piangere e ridere, ho conosciuto leader e gente comune, poveri e ricchi, re e regine. Però ciascuno mi ha lasciato qualcosa, nel bene e nel male. Questo lo ritengo un dono che mi è stato fatto. Sono molto grato. Quest’anno ho guardato Sanremo e mi sono innamorato della canzone di Fiorella Mannoia. Sì, davvero la vita è perfetta. Le sono grato, anche se alla fine, tra gioie e sofferenze, il conto è pari. Ho avuto un’infanzia disperata, ho vissuto la tragedia di restare orfano di padre a 9 anni. Poi mi sono rialzato e sono andato avanti”.
Il suo prossimo libro?
“Un romanzo su Auschwitz e sulla controversa figura del prete slovacco Josef Tiso, che voleva vendere gli ebrei ai nazisti e fu fermato da Pio XII”.
ALDO MORO ED I SALTIMBANCHI DELLA DIETROLOGIA.
L'ultima su Moro: «A via Fani c'era la ndrangheta». Scrive Paolo Delgado il 15 luglio 2016 su "Il Dubbio". Sul rapimento del presidente democristiano si sono accumulati misteri, sempre presunti, fantasie, sempre sbrigliate, rivelazioni clamorose, sempre inconsistenti, decine di volumi, quasi sempre sconfinanti nel delirio…«Possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani cera l’esponente della ndrangheta Antonio Nirta». Parola di Beppe Fioroni, presidente della commissione d’inchiesta bicamerale che indaga per la millesima volta sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La butta lì come se nulla fosse, anche se a prenderla sul serio la fragorosa "ragionevole certezza" rovescerebbe come un guanto vecchio la storia italiana recente. Gli stessi media, solitamente pronti a saltellare come cani di Pavlov di fronte alle "rivelazioni clamorose", procedono stavolta con i piedi di piombo. Come si dice in gergo, "la danno bassa". Consapevoli, persino loro, di quanto poco misteriosi si siano rivelati, alla prova di uno sguardo meno superficiale, i misteri del caso Moro. Stavolta la montatura è più vistosa del solito. La certezza di Fioroni si basa sull’analisi fatta dai Ris di una foto scattata in via Fani non durante la mattanza ma un’oretta più tardi. Hanno concluso che tra il boss della ndrangheta e uno dei curiosi accorsi sul luogo della strage «cè unanalogia sufficiente a far dire, in termini tecnici, che c’è assenza di elementi di netta dissomiglianza». Sarà sufficiente per considerare accertata la presenza del banditone in via Fani, non solo a strage perpetrata ma anche un’ora prima, col mitra fumante in mano? Fioroni però non si accontenta. E bulimico. Un bandito non basta, sospetta la presenza di un secondo uomo delle ‘ndrine, Giustino De Vuono: «C’è una perizia analoga sul volto di un altro personaggio legato alla malavita e che comparve tra le foto segnaletiche dei possibili terroristi il giorno dopo il 16 marzo». Roba forte. I nomi di Nirta e De Vuono non sono una novità per il manipolo di perversi che da decenni si aggira nel labirinto dei falsi misteri del caso Moro. Nirta era stato indicato già nel 1993 dal boss della ndrangheta Saverio Morabito come infiltrato nelle Br dal generale dei carabinieri Delfino. Si rivelò una fandonia e difficilmente le cose cambieranno sulla base della "non netta dissomiglianza". Il caso di De Vuono è più interessante. Nella saga fantasy del sequestro Moro incarna infatti una leggenda longeva, pietra angolare delle costruzioni più azzardate. Un testimone, Pietro Lalli, dichiarò di aver notato nel corso dell’attacco un brigatista molto più esperto degli altri. Mitragliava a raffica, saltava all’indietro per allargare il raggio di tiro, solo dalla sua arma sarebbero usciti 49 dei 91 proiettili sparati dai brigatisti. E chi era, Pecos Bill? Probabilmente sì, essendo appunto questo il soprannome di Valerio Morucci nel Movimento romano, in virtù della sua dimestichezza con le armi. In un saggio appena pubblicato dalla casa editrice "Les Flaneurs", Cronaca di un delitto politico, il giovane ricercatore Nicola Lofoco si è preso la briga di confrontare il testo della deposizione di Lalli con la ricostruzione fatta dallo stesso Morucci, dimostrando che i racconti coincidono e che i movimenti di "Pecos" corrispondono a quelli registrati da Lalli. Quanto alla massa di colpi sparati da un solo mitra, Lofoco fa notare che per la verità raggiunsero tutti una sola vittima, l’agente Iozzino, oppure andarono a vuoto. Superkiller sì, ma fino a un certo punto. La commissione presieduta Fioroni è la seconda a occuparsi esclusivamente del fattaccio, dopo quella istituita nel 1979 che esaurì il mandato nel 1983. I 55 giorni del 1978 sono però stati centrali nella lunghissima attività della commissione Stragi, dal 1988 al 2001. Se ne è poi occupata la commissione d’inchiesta sulla P2 e anche, più di striscio, quella sul dossier Mitrokhin. Tra una cosa e l’altra, trattasi dunque della quinta indagine parlamentare sulla strage di via Fani. Tante commissioni quanto i processi propriamente detti. Nel frattempo si sono accumulati misteri, sempre presunti, fantasie, sempre sbrigliate, rivelazioni clamorose, sempre inconsistenti, decine di volumi, quasi sempre sconfinanti nel delirio. Questa montagna di ipotesi confuse, farraginose e contraddittorie, basate sul criterio del "mi sa tanto" e poi supportate da elementi concreti che dire tirati per i capelli è niente, ha di fatto sostituito nell’immaginario la realtà storica. L’ultima ondata di misteri, che vede sulla schiumosa cresta la commissione parlamentare, appare a occhio nudo anche più sgangherata delle precedenti. Hanno trovato credito sui media testimonianze meno credibili dell’invasione Ufo, come quella secondo cui Cossiga in persona si sarebbe aggirato intorno alla Renault col corpo non ancor scoperto di Moro in via Caetani, la mattina del 9 maggio 1978, o come quella che raccontava di nuclei speciali pronti a irrompere nella "prigione del popolo" di via Montalcini e fermati in extremis da un telefonata. La stessa commissione, impavida, ha sostenuto che il bar Olivetti, dietro le cui siepi erano appostati i 4 br travestiti da avieri, non fosse chiuso da tempo come universalmente sostenuto ma aperto e che in via Fani fossero assiepati ben 20 brigatisti, che tanto valeva andarsi a prendere il povero Moro in corteo. Anche una pseudoscienza infima come la dietrologia ha un apogeo e una mesta decadenza. La prima ondata misteriologica rispondeva a un logica politica: assolvere il Pci dal fallimento storico dell’unità nazionale, cancellarne l’imbarazzante presenza nell’album di famiglia del terrorismo rosso, coprire le responsabilità dirette dello stesso Pci nella scelta di sacrificare l’ostaggio pur di non trattare con un’organizzazione "concorrente". La seconda ondata, negli anni 90, mirava a rovesciare le accuse con una narrazione uguale e contraria, nella quale al posto degli americani cerano, nei panni dei burattinai, i russi. Quest’ultima messe di scoperte ancor più farneticanti dimostra che la dietrologia sul caso Moro è ormai un territorio franco a disposizione di chiunque: politici in cerca d’autore, autori in cerca di editore, picchiatelli in cerca di un pubblico da perseguitare con le proprie paranoie.
Il caso Moro, la dietrologia e quel sospetto di Giovanni Leone, scrive Francesco Damato il 9 Aprile 2017 su "Il Dubbio". A 39 anni di distanza dalla tragica fine di Aldo Moro, il lavoro della Commissione bilaterale riaccende il dibattito sul sequestro e l’uccisione dell’esponente Dc. A 39 anni ormai di distanza dalla tragica fine di Aldo Moro, e dopo una lunga serie di inchieste giudiziarie e parlamentari, per non parlare dei numerosi e inutili tentativi compiuti in ogni sede di fare uscire i responsabili superstiti di quell’operazione condotta con “geometrica potenza” contro “il cuore dello Stato” dalla sin troppo sfacciata reticenza delle loro deposizioni, e persino memoriali, capisco la diffidenza dell’ottimo Paolo Delgado. Che ha avvertito o temuto la presenza dei soliti “saltimbanchi della dietrologia” nella ricostruzione che del sequestro e dell’uccisione di Moro sta facendo la commissione bicamerale presieduta dall’ex ministro Giuseppe Fioroni, del Pd. Le relazioni sui primi due anni di lavoro sono già state approvate all’unanimità – cosa non frequente nelle commissioni d’inchiesta parlamentare – a dimostrazione del clima unitario in cui si è lavorato, pur in un contesto politico generale di tutt’altro segno. E nella previsione, oltre che auspicio, di una relazione conclusiva largamente condivisa alla fine della legislatura, ordinaria o anticipata che sia destinata a rivelarsi. Fra i nuovi temi sollevati dalla commissione Fioroni, rispetto alle precedenti indagini, Delgado ha trovato curioso e – temo – irrilevante quello del bar d’angolo fra via Fani e via Stresa, dietro le cui fioriere si nascosero i brigatisti rossi travestiti da avieri, con le loro armi, in attesa che arrivasse l’auto blu che portava Moro dalla sua vicina abitazione di via di Forte Trionfale a Montecitorio, preceduta da una vettura più piccola della scorta. Che, costretta apposta ad una brusca frenata, fu tamponata dalla macchina contro la quale i terroristi spararono uccidendo gli agenti che sedevano davanti e risparmiando il presidente della Dc per sequestrarlo, prelevandolo a forza dai sedili posteriori. ‘ Lasciatemi stare’, furono le uniche parole uscitegli dalla bocca. Quel bar molto spazioso, che gli agenti di scorta di Moro avevano frequentato per un po’ fino a che non si insospettirono di qualcosa e smisero di andarvi, esortando la figlia di Moro, Maria Fida, che lo frequentava anche lei, a starsene lontana, la mattina del sequestro – il 16 marzo – doveva essere chiuso. E non per turno o altro. Era stato chiuso da un bel po’ per fallimento della società proprietaria. Un socio della quale risultò poi coinvolto in un oscuro e inquietante traffico d’armi e di moneta, oggetto di una indagine giudiziaria dalla gestione a dir poco bizzarra. Ebbene, quel bar la mattina del 16 marzo fu trovato aperto da cronisti e operatori televisivi accorsi sul posto della tragedia. E che vi si rifugiarono per fare le loro telefonate di lavoro. Così anche altri, fra i quali un uomo alto che parlava tedesco. Tedesco come la lingua usata durante l’eccidio della scorta di Moro da uno sconosciuto – forse lo stesso – che correva per la strada gridando ai passanti di fermarsi e di stare attenti. Tedesco come la montagna di marchi cambiati dal socio del bar fallito per una partita forse di armi. Tedesca come una terrorista catturata dopo qualche tempo in Germania e trovata in possesso di una carta d’identità italiana falsificata, risultata poi proveniente da una partita trafugata in un comune del Comasco: la stessa dei documenti ancora intonsi trovati il mese dopo il sequestro di Moro nel covo brigatista di via Gradoli, una traversa della via Cassia. Un covo che la colonna romana delle brigate rosse aveva messo a disposizione di Mario Moretti, mandato nella Capitale dalla direzione strategica ad organizzare e condurre l’operazione contro il presidente della Dc.
Si tratta dello stesso covo nella cui palazzina fu curiosamente eseguito un sopralluogo infruttuoso della Polizia pochi giorni dopo il sequestro di Moro. Si arrivò alla sua scoperta dopo un mese per un allagamento dalla casualità assai sospetta, dopo che il nome Gradoli, raccolto da Romano Prodi in una incredibile seduta spiritica vicino a Bologna, era stato scambiato dalla Polizia per l’omonima località del Reatino, con relativo, inutile dispiego di forze e perdita di tempo. C’era insomma qualcuno dall’altra parte della barricata che voleva mandare al posto giusto, per catturare Moretti, forze dell’ordine che non riuscivano invece ad arrivarci. Quel qualcuno, forse provvisto delle chiavi, fu alla fine costretto a ricorrere ad una doccia da lasciare aperta. Ma ormai era troppo tardi per beccare il capo dell’operazione. Si riuscì solo a far prendere documenti, come quelle carte d’identità rubate, da cui sperare di dare nuovi e utili impulsi alle indagini.
Ma torniamo a quel maledetto bar d’angolo fra via Fani e via Stresa. Siamo proprio sicuri di poter liquidare come ininfluente, occasionale, dietrologica della peggiore specie, la questione del perché e del come quella maledetta mattina fosse stato ad un certo punto aperto? Dopo le altre circostanze che ho ricordato prendendole dalla prima relazione della commissione Fioroni, non me la sento di fare spallucce. Spero altresì di trovare nella relazione finale qualche risposta non ad mio interrogativo capriccioso, ma alla domanda che angosciò il povero Giovanni Leone sino alla morte. E che ebbi la ventura di raccogliere dalla sua viva voce in una intervista per Il Foglio nel ventesimo anniversario del sequestro di Moro, che so finita tra le carte esaminate dalla commissione Fioroni. Leone, nella sua casa alle Rughe, sulla Cassia, mi raccontò alla presenza della moglie che il 9 maggio 1978 aveva dato appuntamento al Quirinale verso mezzogiorno al ministro della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, suo ex allievo, per firmare di propria iniziativa, senza che l’interessata glielo avesse chiesto, e quindi in deroga alla legge allora in vigore, la grazia a Paola Besuschio, condannata in via definitiva per reati di terrorismo, ma non di sangue. Presente nell’elenco dei 13 prigionieri con i quali le brigate rosse avevano chiesto di scambiare il povero Moro, la Besuschio era stata scelta dall’allora presidente della Repubblica, d’intesa col giurista e amico Giuliano Vassalli e con l’ex capo di Gabinetto di Moro, il consigliere di Stato Giuseppe Manzari, a causa delle sue cattive condizioni di salute. L’unica copertura che Leone, consapevole di forzare la linea della cosiddetta fermezza adottata dal governo e dalla maggioranza di solidarietà nazionale, estesa sino al Pci di Enrico Berlinguer, si era premurato di chiedere era quella dell’amico di partito e presidente del Senato Amintore Fanfani. Che proprio quella mattina aveva appena preso la parola alla direzione della Dc per affidarsi alle autonome valutazioni del capo dello Stato quando fu interrotto, drammaticamente zittito dall’annuncio del ritrovamento del cadavere di Moro. Che i terroristi avevano preferito ammazzare di prima mattina, piuttosto che dividersi nella valutazione della grazia alla sola Besuschio. Per dirla in parole povere, Leone morì nel sospetto che in quella disgraziata vicenda, costatagli probabilmente anche il posto con quelle dimissioni reclamate e ottenute sei mesi prima della scadenza del mandato con altre motivazioni di opportunità politica e persino morale, di cui si sarebbero tutti scusati troppo tardi, fosse stato un infiltrato di troppo: o uno infedele dei servizi segreti nelle brigate rosse o uno, purtroppo fedelissimo, delle brigate rosse nei servizi segreti. Che peraltro in quel momento stavano attraversando una difficile transizione per una riforma appena intervenuta.
Il caso Moro e gli strani affari di Lucia Mokbel. Nel ’78 abitava in via Gradoli, accanto al covo Br. La Mokbel al primo processo sullo statista Dc raccontò la storia di un bigliettino, poi sparito, in cui lei sostenne di aver sentito alle tre di notte il ticchettio di una trasmissione in Morse provenire dall'appartamento adiacente, il nascondiglio brigatista, scrive Giovanna Vitale il 29 marzo 2012 su “La Repubblica”. È una vecchia conoscenza della cronaca nera, Lucia Mokbel. Iscritta nel registro degli indagati insieme al marito per gli strani affari sul Punto verde qualità del Parco Feronia, deve la sua notorietà non solo alla parentela con Gennaro suo fratello, l'imprenditore dell'estrema destra romana finito in carcere nell'ambito dell'inchiesta "Broker". Per uno strano gioco del destino, la signora dagli ingombranti legami, di sangue e d'amicizia, è stata infatti una delle protagoniste (involontarie?) del mistero di via Gradoli, il covo delle Br dove il leader della Dc Aldo Moro fu imprigionato dopo il sanguinoso agguato di via Fani. Era lì, nel condominio al civico 96, che nella primavera del 1978 Lucia Mockbel abitava con il compagno: interno 11, secondo piano. Proprio affianco ai sequestratori, in affitto all'interno 9: era lei l'inquilina della porta accanto, dove in quei giorni alloggiavano i brigatisti Mauro Moretti e Barbara Balzerani. Lucia allora viveva con Gianni Diana, impiegato da un commercialista che amministrava immobili, tra cui alcune società in mano ai servizi segreti. Gli stessi servizi che in via Gradoli avevano appartamenti intestati a società di copertura. La Mokbel al primo processo Moro raccontò la storia di un bigliettino, poi sparito, in cui lei sostenne di aver sentito alle tre di notte il ticchettio di una trasmissione in Morse provenire dall'appartamento adiacente, il covo delle Br. Un biglietto consegnato agli agenti di polizia che il 18 marzo effettuarono un sopralluogo, su precisa segnalazione, e indirizzato al commissario Elio Cioppa (poi risultato iscritto alla P2). "Non mi fu dato l'ordine di perquisire le case - riferì in aula il brigadiere Merola - Era solo un'operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l'autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L'interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che lì viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi". Ma Lucia Mokbel - la signora in questione - spiegò al processo di aver dato ai poliziotti un biglietto in cui scrisse di aver sentito la sera prima segnali in Morse venire dall'appartamento accanto. Ma di quel biglietto non s'è mai trovata traccia.
CONTINUIAMO A RICORDARE (CIO’ CHE SI CERCA DI SCORDARE).
Il giustizialismo, caro Scalfari, ha avvelenato la tua Repubblica, scrive Francesco Damato il 26 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Riflessioni dopo lo scontro tra Scalfari e De Benedetti. Al debutto di Repubblica nelle edicole, il 14 gennaio del 1976, Indro Montanelli ci esortò, al Giornale che in edicola ci stava già da più di un anno e mezzo, a non temerne la concorrenza. Eppure il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari aveva assunto il nome di una giovane testata portoghese socialista distintasi per anticomunismo. Che era anche la cifra, per quanto non proprio di sinistra, del giornale fatto nascere da Montanelli dopo essere uscito dal Corriere della Sera, diretto da Piero Ottone. Le preoccupazioni più forti per la concorrenza che ci poteva fare Scalfari venivano da Enzo Bettiza, ma erano condivise anche da Cesare Zappulli, Gianfranco Piazzesi, Renzo Trionfera, Danilo Granchi e alcuni collaboratori esterni, fra i quali lo storico Rosario Romeo. “Tranquilli, Scalfari non ci procurerà danni. Ne procurerà solo a Paese Sera e all’Unità, dove non a caso ha pescato di più per mettere su la sua redazione”, ci disse Montanelli. E così in effetti avvenne perché Repubblica, a dispetto del modello portoghese attribuitogli all’esordio, si rivolse ben presto ad un pubblico che già votava o era tentato di votare per il Pci guidato da Enrico Berlinguer. Cui Scalfari si rivolgeva con spirito per niente di antitesi, ma di dialogo, di incoraggiamento sulla strada evolutiva che quel partito aveva imboccato ma stentava a percorrere con la velocità da lui desiderata. Il pur fulminante avvio del nuovo giornale, per quanti danni avesse subito apportato a Paese sera e all’Unità, come Montanelli aveva previsto, stentò poi a tenere botta nelle edicole con ricavi proporzionati alle sue spese. Gli diede una grossa mano involontariamente Aldo Moro, durante il cui sequestro, fra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, quando anche lo statista democristiano fu ucciso dalle brigate rosse, come la scorta 55 giorni prima, Repubblica guidò vistosamente la linea della fermezza, ancor meglio del governo monocolore dc di Giulio Andreotti sostenuto esternamente dai comunisti. Ne fummo condizionati anche noi al Giornale, dove non ero il solo – vi assicuro – a chiedermi se valesse la pena lasciare uccidere Moro non tanto per difendere, come si diceva, la saldezza dello Stato, quanto per garantire la sopravvivenza di una maggioranza – quella di “solidarietà nazionale”- cui i comunisti non potevano comprensibilmente lasciare spazi di manovra in quella tragedia. Essi avrebbero perduto diversamente la credibilità di forza di governo, visto che i terroristi rossi appartenevano a quello che Rossana Rossanda, allora cinquantaquattrenne, aveva impietosamente definito “album di famiglia” sul Manifesto. Ma non fu solo nella drammatica vicenda di Moro che al Giornale fummo condizionati dalla concorrenza e dalla cultura di Scalfari e della sua Repubblica. Ne ebbi una prova personale e clamorosa cinque anni dopo, nel 1983, quando abbandonai Montanelli per il rifiuto opposto alla pubblicazione di un editoriale che avevo scritto per difendere il segretario socialista Bettino Craxi dalle accuse di prepotenza e di lottizzazione. Che gli erano state rivolte da comunisti e sinistra democristiana per alcuni avvicendamenti ai vertici dell’Eni. La lottizzazione, come poi si sarebbe accertato anche col finanziamento irregolare della politica, non era – e non è tuttora – un fenomeno addebitabile a un solo partito e relativo leader. Ebbene, quando discutemmo al telefono di quell’editoriale bloccato sulla sua scrivania, e forse anche già cestinato, Montanelli mi disse, fra l’altro: “Franceschino, non possiamo lasciare a Scalfari l’esclusiva delle critiche per lottizzazione a Bettino”. Anche lui chiamava per nome Craxi, ma gli davano fastidio il carattere e un po’ anche la concorrenza elettorale che il segretario socialista faceva pure a quella Dc per la quale il direttore del Giornale da anni invitava i lettori a votare “turandosi il naso”, pur di non farla sorpassare dal Pci. Successivamente alla nostra separazione professionale, quando dirigevo Il Giorno, non mi sorprese più di tanto vedere il mio ex Giornale appiattito sulla Procura di Milano, come Repubblica, in quel grande e demolitorio processo ai partiti di governo – ma solo ad essi – della cosiddetta prima Repubblica: quella vera, non di carta. Che infatti crollò impietosamente, con la collaborazione – debbo anche dire – delle vittime. Le quali, anziché difendersi collettivamente, come tentò di fare Craxi per conto di tutti in un discorso alla Camera che nessuno dei suoi avversari osò interrompere, si divisero fra loro, ed anche al proprio interno. Ciascuno cercò di salvarsi per proprio conto, ai danni magari del vicino di banco, nello stesso gruppo parlamentare. Più che una guerra, come piacque dipingerla a certi magistrati che si erano assunti il compito della rigenerazione o rifondazione della politica, fu una tonnara. Il giustizialismo, preferito ad un garantismo scambiato sbrigativamente per complicità col malaffare, divenne una malattia infettiva, anche nel campo mediatico. Repubblica lo cavalcò con astuzia ed efficacia superiori ad ogni altro giornale, dandogli con l’autorevolezza dei suoi collaboratori esterni quasi una dignità etica e culturale, elevandolo dall’opportunismo politico dei partiti che lo usavano per liberarsi degli avversari. E lo fece con una potenza di fuoco enorme, che portò il quotidiano di Scalfari in testa alle graduatorie nelle edicole, senza alcuna discontinuità tra l’epilogo della prima Repubblica, sempre quella vera e non di carta, e tutto l’accidentato corso della seconda. Ci fu una sola, vistosa eccezione, che io ricordi bene. Essa risale al 2012, quando Scalfari, ormai soltanto fondatore ma pur sempre anima del suo giornale, spiazzando mezza redazione, forse anche il direttore Ezio Mauro, e un bel nugolo di autorevoli collaboratori, a cominciare dal presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, prese le difese dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano in uno scontro durissimo con la Procura di Palermo. Gli inquirenti siciliani avevano intercettato “incidentalmente” il capo dello Stato al telefono con l’indagato Nicola Mancino, già ministro democristiano dell’Interno, presidente del Senato e suo vice al Consiglio Superiore della Magistratura. Essi si ostinarono a conservarne le registrazioni, anziché distruggerle, come reclamavano al Quirinale. Dove si facevano giustamente forti anche del fatto che gli stessi magistrati d’accusa avevano definito quelle intercettazioni ininfluenti ai fini delle indagini e del relativo processo – tuttora incredibilmente in corso – sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi del 1992- 93. Ebbene, è stato proprio il giustizialismo, a mio modesto avviso, ad avvelenare anche i pozzi di Repubblica, sino a determinare il rovinoso scontro consumatosi fra Carlo De Benedetti e il suo ormai ex giornale, ma anche fra Carlo De Benedetti e i figli ai quali egli ne ha ceduto la proprietà, a cominciare naturalmente da Marco, che presiede la società editrice. Il quale ha rilasciato una lunga intervista a Repubblica per difenderla dalle critiche del padre ed esprimere tutto il suo comprensibile imbarazzo, pur evitando di addentrarsi nella ricerca delle ragioni dell’accaduto, o prendendosela solo col forte temperamento del genitore. Cui egli ha tuttavia assicurato che ne corrisponde un altro altrettanto forte, che è naturalmente il suo. Il che penso abbia rasserenato a tal punto Scalfari da avergli fatto riprendere, sia pure di lunedì, anziché di domenica questa volta, il suo abituale e impegnativo appuntamento con i lettori. Lo stesso Scalfari, in una intervista anche da lui rilasciata a Repubblica per difendersi da un’imbarazzante aggressione verbale dell’ex amico e sodale consumatasi in sua assenza nel salotto televisivo di Lilli Gruber, ha espresso la sensazione che possano avere contribuito a condizionare gli umori di Carlo De Benedetti le polemiche appena riesplose contro i pur modesti, relativamente, guadagni di 600 mila euro realizzati tre anni fa acquistando titoli delle banche popolari. Di cui l’editore aveva appena saputo l’imminente riforma dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi dopo una colazione a Palazzo Chigi, nel frettoloso saluto di commiato sulla porta dell’ascensore, presente quindi il commesso di turno. La consistenza relativa – ripeto di quei guadagni in borsa, dove De Benedetti movimentava centinaia di milioni di euro, e gli accertamenti eseguiti dopo la trasmissione della pratica dalla Consob hanno indotto più di un anno e mezzo fa la Procura di Roma a chiedere al giudice competente, e tuttora silente, l’archiviazione del fascicolo, peraltro ridotto a carico soltanto dell’operatore incaricato dell’investimento dal finanziere. Carlo De Benedetti si aspettava – secondo me giustamente – una difesa da parte di Repubblica. Che invece ha voluto prendere le distanze con un breve editoriale dettato dall’esigenza, dichiarata, di non esporre il giornale al sospetto o all’accusa dei lettori di “conflitto d’interessi”. E il presidente ora soltanto onorario della società editrice – pur avendo già liquidato con poche battute la faccenda dei 600 mila euro e parlando più in generale di Repubblica e di una sua presunta perdita d’identità nel già citato salotto ospitale di Lilli Gruber – si è doluto del mancato “coraggio” del giornale ora diretto da Mario Calabresi. Che egli ha un po’ paragonato al don Abbondio dei celebri Promessi Sposi manzoniani.
2017. L’ANNO DELLA GIUSTIZIA CALPESTATA E DELLA MEMORIA TRADITA, scrive il 30 dicembre 2017 Andrea Cinquegrani su "la Voce delle Voci". 2017, l’anno in cui la giustizia muore. E l’Italia perde sempre più memoria. L’anno dei buchi neri sempre più neri, dei misteri di Stato che pesano come insopportabili macigni, delle vittime senza lo straccio di una giustizia, uccise due volte, dei familiari oltraggiati nelle loro richieste regolarmente senza risposta. Come diceva spesso il grande Olivero Beha, “un Paese senza più memoria non è più un Paese”. E la nostra memoria resta affidata, di tanto in tanto, al blaterare di un Presidente dell’Ovvio, di un capo dello Stato ectoplasma che, alle rituali scadenze, chiede di far luce sulla strage di Ustica o su quella di Bologna. Mattarella, ma ci faccia il piacere. L’anno che ci lasciamo alle spalle ha il volto segnato dal dolore di Luciana Riccardi, la madre di Ilaria Alpi, trucidata 23 anni fa in Somalia con Miran Hrovatin. E il volto truce del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che mesi ebbe la faccia di bronzo di suggerire alla signora Alpi, “mi dica lei chi devo interrogare”. Un’atroce presa in giro per quella madre coraggio e per la memoria della figlia. Roma in questo modo torna ad essere quel porto delle nebbie che è sempre stato: la procura arriva a chiedere l’archiviazione del caso Alpi dopo che una sentenza a Perugia ha messo nero su bianco un chiaro “depistaggio”: basta ora andare a prendere mandanti e assassini, un gioco quasi da ragazzi dopo quella illuminante sentenza perugina. Invece niente, il buio più totale. L’inerzia più assoluta. Il depistaggio è entrato, come un cancro, nei processi Borsellino, siamo arrivati al quater – incredibile ma vero – e nessuno osa far pagare il conto a quei magistrati con tanto di nomi, cognomi e indirizzi, i quali hanno inventato a tavolino il pentito Scarantino per depistare meglio ed evitare che luce venisse fatta su quel chiaro omicidio di Stato, come fu anche quello di via Capaci. Perchè quei due magistrati “dovevano morire”. Come “Doveva morire” Aldo Moro, secondo il profetico libro scritto da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato: e adesso la commissione d’inchiesta, presieduta dall’ex Dc Beppe Fioroni, chiude i battenti senza aver prodotto neanche l’ombra di un topolino. Come del resto capita, storicamente, a tutte le commissioni parlamentari d’inchiesta, autentiche sceneggiate e prese per i fondelli dei cittadini. Il porto delle nuove nebbie, la procura di Roma, produce altri aborti. Come la manifesta non volontà di far luce sul caso di Emanuela Orlandi, proprio quando – come per Ilaria Alpi – ci sarebbero tutti gli elementi giusti per arrivare ad una conclusione. E’ venuto infatti alla luce, un paio di mesi fa, che Emanuela aveva alloggiato a Londra, in un collegio femminile, per circa un anno: e le spese vennero sostenute dal Vaticano. Che quindi sapeva ed era perfettamente a conoscenza delle trame. Perchè mai, ora, la procura di Roma non vede, non parla, non sente, non alza un dito e non fa il becco di un’indagine? Stesso copione per il giallo Pasolini. Esattamente un anno fa il legale della famiglia presenta delle inoppugnabili prove del DNA, che attestano come sulla scena del crimine ci fosse almeno un altro ‘protagonista’, un Ignoto 2 (e forse anche un Ignoto 3). Mentre appare ormai chiaro anche ai non vedenti che il motivo di quell’assassinio di Stato aveva una matrice ben precisa: i buchi neri dell’Eni, quel Petrolio bollente che avrebbe rischiato di mandare in tilt la nomenklatura di allora. E la procura di Roma, oggi, a oltre un anno di distanza da quelle prove schiaccianti, resta solo a guardare. Come sta a guardare, da quasi un anno e mezzo, la procura di Napoli, che ha un fascicolo aperto (sic) sul caso di Marco Pantani, al quale la camorra sottrasse il Giro d’Italia 1999, comprandolo a suon di minacce e corruzioni, facendo alterare il suo campione di sangue. La Direzione distrettuale antimafia partenopea da agosto 2016 dovrebbe far luce e, invece, fino ad oggi non ha prodotto neanche lo straccio di un documento: eppure le verbalizzazioni di parecchi pentiti sono lì, sul tavolo delle prove, a sostenere che quel Giro d’Italia venne taroccato. Cosa si aspetta, l’intervento di San Gennaro? Da un suicidio-omicidio all’altro il passo è breve, ed eccoci a Siena. Dove la Procura per ben due volte, nonostante la mole di prove dica esattamente il contrario, ha chiesto l’archiviazione per la morte di David Rossi, il responsabile per la comunicazione del Monte dei Paschi di Siena volato giù dal quarto piano di palazzo Salimbeni. Solo il coraggio della moglie di David e della famiglia fa sperare ancora in qualcosa. Per le toghe di casa nostra, invece, tutto chiaro: suicidio. Per saperne di più, leggete l’illuminante “Morte dei Paschi”, appena uscito in libreria e firmato da Elio Lannutti e Franco Fracassi. Anche per capire come i Bankster uccidono i risparmiatori. Calpestata quest’anno, ancora una volta, la memoria delle vittime di Ustica: mandanti mai. Ora spunta un marinaio della Navy a stelle strisce, smemorato per quarant’anni. E magistrati sempre sotto coperta, a non vedere ed esaminare neanche un documento choc filmato e firmato Canal Plus di mesi fa, che ricostruisce quell’atroce scenario di guerra, con una portaerei francese (Foche o Clemanceau) protagonista. Perchè nessuno indaga, pur con una pista così precisa? I soliti misteri della (non) giustizia di casa nostra. L’anno che arriva potrà portare ad una sentenza-sentenza, autentica, in grado di far giustizia dopo oltre vent’anni per la strage del sangue infetto? C’è solo da sperarlo. Il processo, cominciato a Napoli nella primavera 2016, è andato avanti per tutto quest’anno, e il verdetto dovrebbe essere pronunciato tra febbraio e marzo 2018. Un strage di cui nessuno osa parlare, i media regolarmente tacciono (solo il Fattoha scritto alcuni articoli): una strage da 5 mila vittime e passa. Nessuno vuol disturbare lorsignori, i pezzi da novanta di Big Pharma, i vertici delle aziende che lavorano e commerciano sangue, come da noi il gruppo Marcucci, storico oligopolista nel settore fin dai tempi di Sua Sanità De Lorenzo e oggi ancor più in sella per l’amicizia di ferro tra uno dei rampolli di casa Marcucci, il senatore Andrea, col suo capo, l’ex premier Matteo Renzi. Con una magistratura così assonnata, sarebbe il caso di poter contare su un giornalismo che faccia il suo dovere, un vero giornalismo d’inchiesta, capace di svelare trame e connection, soprattutto sul versante degli storici – e sempreverdi – rapporti fra mafie, politica e imprese. Invece che succede? Il vero problema sono le Fake News! Si guarda la pagliuzza in rete e non la trave di un giornalismo carta e tivvù ormai omologato, cloroformizzato, genuflesso davanti al Potere. Per una serie di motivi, non ultimo quello della via giudiziaria alla normalizzazione dei media: le querele inventate di sana pianta, le citazioni milionarie utilizzate al solo scopo di intimidire – come un revolver puntato alla tempia – quel raro giornalista che voglia ancora fare il suo mestiere. Spesso un free lance. Ma chissenefrega. Lotta alle Fake news è il nuovo cavallo di battaglia in casa Pd, che ha da tempo ormai mandato in soffitta la libertà di stampa e il diritto dei cittadini ad essere informati. Ciliegina sulla torta, vera strenna natalizia, ora, la nuova normativa sulle intercettazioni e soprattutto sulla loro divulgazione: un vero, nuovo bavaglio come neanche Berlusconi si sarebbe mai sognato. Vero è che le intercettazioni, per i giornalisti, devono rappresentare uno strumento in più a corredo di inchieste che si basino su una corposa acquisizione di dati, notizie, documenti e informazioni. Ma non è possibile, come succede adesso, sotto il vigile sguardo del guardasigilli Andrea Orlando, che intende la lotta alle mafie come un esercizio da scout, mettere una simile pietra tombale sull’uso delle intercettazioni nei media. Chi decide cosa sia rilevante o meno? Cosa vuol dire mai che sono riproducibili solo alcuni ‘brani essenziali’? E via di questo passo, tanto per seppellire una volta per tutte quei pochi brandelli della libera informazione. Era proprio uno scout, il Venerabile Licio Gelli…
P.S. Il nostro abbraccio più forte va a due amici dei quali sentiamo una tremenda mancanza, Oliviero Beha e Sandro Provvisionato. Non solo due penne rare nel panorama del giornalismo italiano, ma due uomini di raro coraggio, capaci di lottare nella giungla dell’informazione sempre con la schiena dritta e con rara intelligenza. Ciao.
1978, l'anno degli assassinii eccellenti e dei diritti civili. L'omicidio di Aldo Moro, l'elezione di Sandro Pertini. La canzone di Lucio Dalla "Caro amico ti scrivo" e i referendum radicali. Anniversario di un momento storico per il nostro Paese, scrive Filippo Ceccarelli l'11 gennaio 2018 su "L'Espresso". Nel gran torneo degli anniversari ad alto impatto, il 1978 si affaccia senza dubbio come il più enigmatico e ingombrante. In bilico fra estreme collocazioni di comodo, gli anni di piombo e il riflusso, via Fani e febbre del sabato sera, fu un reattore di cambiamenti, un confine attraversato col cuore in gola e al dunque un momento destinato a segnare di sé un tortuoso prima, un tempestoso durante e un misterioso poi. Perché troppo in definitiva accadde in quei 12 mesi. Assassini eccellenti, conquiste civili come l'aborto e la legge anti-manicomi, sperimentazioni sociali, culturali e artistica all'ombra di un'inflazione che rasentava il 20 per cento: e poi i referendum, le dimissioni di Leone e l'ascesa di Pertini, la morte di due papi e l'inizio glorioso del pontificato di Wojtyla. E tuttavia, proprio la potenza di tutti questi eventi ottenebra il giudizio storico e il senso ultimo di quel periodo, facendo anzi di quell'anno un unicum che sfugge a celebrazioni di circostanza. Tutto questo per dire, si spera con maggiore semplicità, che forse conviene prenderla un po' di lato. E ricordare per esempio che un giorno imprecisato di quel 1978, in uno studio di registrazione dentro il castello di Carimate, Brianza, Lucio Dalla diede vita e forma definitiva a una canzone che comincia: “Caro amico ti scrivo”. E che non a caso da 40 anni, regolarmente, viene ripropinata agli italiani come una specie di augurio - quando per certi versi lo è davvero e per altri dice il contrario. Ora, è difficile dire di che cosa esattamente parli, oltretutto in forma epistolare, il brano in questione, incompreso o frainteso che sia. Ma certo come nessun altro “l'anno che verrà” è figlio di quel tempo, così come con la stessa stralunata e fiduciosa malinconia anticipa ciò che l'Italia sarebbe diventata. C'è un po' tutto, comunque, lì dentro: il terrorismo, la paura, il dissolversi dei vincoli collettivi, le nuove libertà individuali, dal sesso all'autoconsapevolezza, poi la solitudine, la religione che mutava i suoi riferimenti, la pietà e il suo contrario, fino al trionfo della manipolazione e della tecnologia del far credere. Lo stesso Dalla, come tanti artisti-rabdomanti, ne ha parlato nel corso degli anni in modo problematico definendola via via una canzone “importante”, “coraggiosa”, “disperata”, pur sforzandosi di farla risultare “ottimista”. Nelle teche Rai si trova un documento radiofonico in cui, rispondendo a una 24enne Serena Dandini, come fonte di quel brano indicava l'Italia di allora, “una terribile società di fuoco, però anche affascinante. Si stanno muovendo le cose – insisteva a caldo - quelle di oggi e le cose che verranno”. “Meno botti del solito a mezzanotte – annota nel suo diario l'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti alla data del primo gennaio 1978 – Sono grato ai silenziosi perché il mio anno si inizia con un mal di testa di prima classe”. Non gliene mancavano certo le ragioni. Più che aperta, ormai, la questione del Pci è incandescente. Non esiste più maggioranza, ma sui comunisti al governo la risposta americana è un pubblico e risolutissimo No (si saprà poi che in sede Nato è previsto anche un “Coup d'Etat or other subversive action”). Il 9 di febbraio il vecchio Nenni, patrono del socialismo italiano, compie 87 anni: “Solita pioggia di telegrammi” scrive anche lui nel diario: “Ma io mi sento sempre in debito con la società”. Non senza fatica, ma con energica spregiudicatezza il suo pupillo Craxi cerca di farsi largo nel Psi. Alleatosi a sorpresa con i furbi coetanei lombardiani, al congresso di Torino sostituisce falce martello sole e libro con un garofano e rottama in via definitiva i vecchi De Martino e Mancini. Nella Dc, ancora una volta, Moro prende tempo e tesse la tela districandosi fra gli impedimenti della Guerra fredda con l'obiettivo di portare l'intero scudo crociato all'accordo con Berlinguer, che anche umanamente stima (un giorno, per caso, l'ha visto giocare a palla con i figli al Foro Italico, ha fermato l'auto e l'ha voluto salutare). Classica figura di leader completo, ideologo stratega e tattico, complessa personalità superba e insieme umile, nel dirigersi nell'auletta dei Gruppi a Montecitorio, dove sta per pronunciare il suo ultimo discorso, probabilmente il più straordinario esempio di oratoria della Prima Repubblica, con la testa inclinata un rassegnato sorriso: “Eh – così saluta a voce bassa i giornalisti - andiamo un po' a sentire...”.
“Si esce poco la sera, perfino quando è festa...” Su quanto poi accadde – a lui e all'Italia - si sa già troppo e troppo poco ancora, come capita spesso dopo un rituale di passaggio, allorché il trauma si tira appresso una congerie di indizi, segni, simboli, presagi, coincidenze, slittamenti, equivoci e code di paglia con opportune puntate nei santuari di varie consorterie e qualche sosta nella psichiatria, nella grafologia e nell'enigmistica – mancando solo la fantascienza, per quanto nel covo br di via Gradoli siano stati trovati diversi numeri di Urania. “Quando non si vede bene cosa c'è 'davanti' – disse Norberto Bobbio rivolgendosi al ministro dell'Interno di allora, Cossiga – viene spontaneo chiedersi cosa c'è 'dietro'”. Così da 40 anni un intero paese si sente autorizzato a lasciarsi variamente influenzare da suggestioni per lo più occulte, quando non proprio occultistiche se solo si pensa alla seduta spiritica di Zappolino, alla chiromante del fumetto di Metropolis, ai veggenti consultati dalle forze dell'ordine o ai ciechi che la sera prima del rapimento vengono a sapere da sconosciuti ciò che sarebbe accaduto l'indomani. Con il che, di tutte le definizioni del caso Moro, la migliore rimane forse quella di un pensatore visionario come Guy Debord: “Un'opera mitologica a grandi macchinari scenici, in cui degli eroi terroristi a trasformazioni multiple sono volpi per prendere in trappola la preda, leoni per non temere nulla da nessuno per tutto il tempo che la tengono in custodia, e pecore per non trarre da questo colpo assolutamente niente che possa nuocere al regime che ostentano di sfidare”.
“C'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra...” Dopo 54 giorni la botta e la paura si sentono. Strilla la copertina di Time: “The caos in Italy”. Per scaricare paura e tensione si cerca un capro espiatorio: eletto male, vissuto come macchietta e per via di alcune frequentazioni sfiorato dall'affare Lochkeed, Giovanni Leone è una vittima perfetta. “E senza grandi disturbi qualcuno se ne andrà”: il risultati dei referendum (fermo di polizia e finanziamento pubblico ai partiti) accelerano la sua cacciata dal Quirinale, che avviene di notte, dopo una penosa apparizione in tv, sotto una pioggia scrosciante. Insieme con Marco Pannella, che pochi giorni prima s'è piazzato per 24 interminabili minuti con un bavaglio davanti alle telecamere di Tribuna politica, il nuovo e arzillissimo inquilino del Colle, Sandro Pertini, nemico del protocollo e amico dei colpi di teatro, accende ufficialmente i riflettori della politica spettacolo. Nel 1978 esce anche il primo numero di un iperbolico strumento di contraffazione satirica, Il Male. Intanto la Repubblica prende il via, e con breve scandalo Il Corriere della Sera mette l'amore e le corna in prima pagina. Nanni Moretti si presenta al pubblico con “Ecce Bombo”. Dalla rivoluzione alla ristorazione, Mauro Rostagnò apre “Macondo”. Nel frattempo l'eroina invade il mercato, a scapito di un'intera, sempre più disillusa generazione. Scorrono, a 40 anni di distanza, scampoli, spezzoni e lacerti di ricordi non sai bene se più sintomatici o irrilevanti: “L'anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va”. La “terza via” di Berlinguer. I “sacrifici” di nuovo richiesti da Lama. L'allarme di Cesare Romiti sull'11-12 per cento di operai che nei giorni in cui c'è la partita non vengono al lavoro. L'ascesa nel Palazzo di Licio Gelli: editoria, petrolio, partiti e forze armate. Sempre in quell'anno il Censis calcola che l'economia sommersa assorbe dai 4 ai 7 milioni di persone, tra il 15 e il 20 per cento delle attività in Italia.
“Ma la televisione ha detto che il nuovo anno...”. E già, non poteva mancare: proprio nei giorni del sequestro Moro nei sotterranei dell'hotel Jolly di Milano 2 il giovane costruttore Silvio Berlusconi dà il via a TeleMilano 58, embrione di Canale5 e della tv commerciale (chiuso il bilancio con una perdita di 300 milioni). “Ogni Cristo scenderà dalla croce...”. Muore Paolo VI e poi qualche settimana dopo rimuore anche il suo mansueto successore Giovanni Paolo I. Appunto di Andreotti: “Cadono anche i proverbi, tipo: 'A ogni morte di Papa'”. Entra in scena dalla Polonia un pontefice empatico ed atletico. “Se sbaglio – azzarda affacciandosi appena eletto - mi corrigerete”. Non accadrà così spesso. E di nuovo, sulle note lievi del fado e l'inconfondibile voce di Lucio Dalla, la memoria oscilla fra il troppo e il nulla. “Caro amico, ti scrivo...”. Documento storico, messaggio civile, preghiera e magari anche profezia.
1978, quell’anno cupo, triste e luttuoso che vide nascere il nostro mondo, scrive Paolo Delgado il 9 gennaio 2018. Dal caso Moro all’elezione di Wojtyla. Il 1968, anno incendiario e luminoso, ricco di rabbia e di speranza e dunque di rivolta, lo ricordiamo tutti. Celebrarlo è già da un pezzo liturgia. Del 1978, anno mesto e luttuoso, parliamo invece poco, e quasi solo in virtù di quel sequestro durato 55 giorni che condizionò in effetti la sorte della Repubblica italiana come nulla sino a quel momento e che è circondato ormai da tante di quelle favole e leggende e ridicoli sospetti da essere quasi avulso dalla storia: pane per i denti degli studiosi della piscopatologia di massa. Invece il mondo in cui viviamo è nato proprio il quel grigio e triste 1978, quando gli italiani combattevano con un’inflazione ben oltre il 20% e già da un paio d’anni erano abituati a usare bizzarri “miniassegni” emessi dalle banche al posto degli spicci, quando era lecito confondere il vento islamico che per la prima volta soffiava impetuoso in Medio Oriente con una promessa di riscatto, quando i lavoratori italiani scoprivano con un certo smarrimento che le loro rappresentanze sindacali e quelle politiche erano pronte a far pagare proprio a loro i prezzi della crisi, in quella svolta storica che fu definita allora “dell’Eur”, mentre quelli inglesi neppure immaginavano che un ciclone di proporzioni mai viste in precedenza, l’uragano Maggie, stesse per abbattersi sulle loro teste e sulle loro tasche per poi dilagare in tutto il mondo. Da noi, in Italia, non servivano doti profetiche per indovinare che sarebbe stato un anno difficile. Bastava ascoltare il discorso di fine anno del presidente Giovanni Leone, già assediato per un presunto e inesistente coinvolgimento nello scandalo Lockheed, per capire che la febbre era altissima. Come si fa a equivocare quando il capo dello Stato, che sarebbe di lì a poco stato costretto alle dimissioni da una campagna stampa tanto infondata quanto violenta, conclude il suo messaggio augurale affermando: «Non vi ho detto parole serene come avrei sperato e anzi in esse avrete trovato motivi di preoccupazione?» Forse il cupo pessimismo di Leone era anche un riflesso dei guai nei quali stava annegando. Dovette lasciare il Quirinale con sei mesi d’anticipo e al suo posto, in luglio, arrivò Sandro Pertini. Ma Leone aveva anche parecchi motivi oggettivi per stappare lo chamapagne senza troppi sorrisi. Le tensioni sociali erano oltre l’allarme rosso e le barricate dell’anno precedente a Roma, Milano e Bologna promettevano sfracelli. Il Palazzo era fragile come mai prima, con un governo tenuto in piedi solo dalla benevola astensione del partitone d’opposizione, il Pci di Enrico Berlinguer. Un numero non esiguo di giovani militanti cresciuti nel decennio rosso avevano deciso di passare “dalle armi della critica alla critica delle armi” e parecchi altri si apprestavano a farlo arruolandosi nelle Brigate Rosse, in Prima Linea o nella pletora di sigle minori che fiorivano ovunque. Il polso della situazione non perse tempo nel notificarsi. Scelse l’esecuzione di due militanti del Msi di fronte alla sezione romana Acca Larentia, la sera del 7 gennaio. Poche ore dopo una terza vittima: circostanze misteriose ufficialmente ma che la polizia spari sui militanti che protestano è certo. Però a denunciare i carabinieri nonostante il veto missino, della migliaia circa di neofascisti presenti ci va solo una ragazza: Francesca Mambro. Per i ragazzini di estrema destra Acca Larentia è una specie di “perdita dell’innocenza” come quella che aveva colpito i coetanei di sinistra quasi 10 anni prima in piazza Fontana. I Nar, destinati a diventare negli anni seguenti la più temuta banda armata di destra, nascono davvero in quella tragica serata e pochi giorni dopo cercano vendetta sbagliando bersaglio. Uccidono un poveraccio che la strage di Acca Larentia non c’entrava niente, Roberto Scialabba. Nemmeno due mesi dopo anche i Nar avranno la loro prima vittima, Franco Anselmi, colpito alle spalle dopo una rapina in un’armeria dal proprietario della stessa. Il crepitio delle pallottole, nonostante il terrorismo fornisca un prezioso terreno comune ai partiti della solidarietà nazionale, dunque essenzialmente a Dc e Pci, non basta a coprire gli scricchiolii dell’alleanza che permette al governo Andreotti di esistere nonostante difetti della maggioranza parlamentare. Al Pci la formula della “non sfiducia” non basta più. Il partito e la Cgil hanno accettato con la svolta dell’Eur di farsi carico, a spese del salario, del risanamento. In cambio promettono ai lavoratori aumenti dell’occupazione che però latitano. Il sostegno al governo e alle sue politiche economiche diventano ogni giorno meno comprensibili. Berlinguer deve portare a casa qualche risultato e reclama l’ingresso a pieno titolo nella maggioranza, modifiche sostanziali sia nella composizione che nelle politiche del governo. Ma convincere la Dc è impresa quasi impossibile. Aldo Moro, presidente del partito, ci riesce ma a prezzo carissimo: nessuna delle richieste del Pci verrà accettata. Nel governo resteranno i ministri messi all’indice dal bottegone e nessuno dei “tecnici d’area” indicato dai comunisti ne farà parte. Quando il nuovo governo è alla vigilia del decollo, i malumori dei leader comunisti tengono banco e occupano paginate sui giornali. C’è persino chi mette in dubbio il voto di fiducia, come il battagliero Giancarlo Pajetta. E’ una classica sceneggiata. Il sì del Pci è già certo. Dovrebbe arrivare dopo un serrato dibattito parlamentare, a partire dalla mattina del 16 marzo. Invece per una volta la tragedia vera, quella che costa sangue e cadaveri, incrocia la messa in scena di Montcitorio. Poco prima dell’inizio del dibattito in aula le Br attaccano, sterminano la scorta di Moro, rapiscono il presidente della Dc. Il Parlamento, sotto shock, vota la fiducia in quattro e quattr’otto. Il presidente della Camera, il leader della sinistra del Pci Pietro Ingrao, farà in modo che di fatto non torni più a riunirsi sino al termine del lunghissimo dramma. Durò 55 giorni, costellati dalle lettere sempre più disperate del prigioniero, dai comunicati più gelidi di quanto non fossero in realtà gli estensori dei sequestratori, dalle richieste sempre più stridule di fermezza da parte di un composito fronte che preferiva Moro morto a qualsiasi gesto potesse anche solo sembrare debole, dalla fellonia degli amici dell’ex potentissimo che non esitarono a rinnegarlo e a dichiararlo pazzo per evitare che le sue missive fossero prese sul serio, dal dolore composto e lancinante della famiglia, il solo elemento in quei giorni che ricordasse l’esistenza di sentimenti e logiche diverse dal gelido interesse politico che dominava invece tutti gli altri attori in campo. Il nove maggio il cadavere di Aldo Moro fu fatto ritrovare dalle Br in via Caetani a Roma, una strada vicina sia alla sede nazionale del Pci che a quella della Dc. Per le Br, anche se allora nessuno poteva immaginarlo, quello fu l’inizio della fine. Lo fu anche per la prima Repubblica. Il lungo ponte tra l’uccisione di Moro e tangentopoli fu in realtà qualcosa di sostanzialmente diverso dal trentennio precedente: un triumvirato che governava senza più progetto politico, con un Pci messo una volta per tutte alle corde. Quanto ai “programmi” il governo sostenuto ormai attivamente dai comunisti concesse qualcosa di importante sul fronte dei diritti civili in quel 1978, prima che la maggioranza si sfasciasse nel gennaio dell’anno seguente. In maggio vennero approvate prima la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, poi la legge sull’aborto. Quelle leggi resero l’Italia un Paese certamente più civile ma non bastarono a compensare la crisi di consensi che colpì il Pci in seguito alle politiche economiche di fatto anti- operaie dei governo di solidarietà nazionale. Nelle elezioni della primavera 1979 il Pci perse due milioni di voti e non si riprese mai più dal colpo. E’ appena il caso di notare che quell’esito era stato pianificato e previsto sia da Andreotti che dallo stesso Moro. Entrambi lo illustrarono all’ambasciatore americano Gardner, cercando di spiegargli perché il coinvolgimento del Pci nell’area di governo si sarebbe rivelato devastante per il Pci stesso. Forse l’uomo che soffrì di più per l’esito della tragedia Moro, dopo i familiari del leader Dc, fu Giovanni Battista Montini, da 15 anni pontefice: Paolo VI. Il papa aveva raccolto, d’accordo con Andreotti, una cifra enorme da offrire alla Br in cambio della vita di Aldo Moro, a cui era legatissimo. Gli toccò pronunciare la frase che sapeva essere una condanna a morte per il suo amico, «Liberatelo semplicemente, senza condizioni». Non si riprese dal colpo e seguì il presidente della Dc nella tomba dopo meno di tre mesi, il 6 agosto. Il successore, Albino Luciani, fu eletto abbastanza rapidamente e a sorpresa. Prese il nome di Giovanni Paolo I, stupì il mondo con uno stile all’epoca inusuale e dichiarando che «Dio è papà ma più ancora è madre». Trapassò dopo appena 33 giorni di pontificato, suscitando inevitabili sospetti su una fine così improvvisa. Il quotidiano Lotta continua, beffardo, uscì con uno dei suoi titoli migliori: «E’ rimorto il papa». In ottobre il conclave scelse come nuovo pontefice Karol Wojtyla, cardinale polacco, che assunse il nome di Giovanni Paolo II. Era il primo papa non italiano dai tempi di Adriano VI, dunque dal 1523. Ma per rintracciare una sorta di albero genealogico di Wojtyla si sarebbe dovuto guardare a un altro papa del XVI secolo: Giulio II, il papa guerriero. Giovanni Paolo II non era un politico abile nei giochi di curia, non era un intellettuale raffinato come Paolo VI e non era neppure un porporato con radici nel popolo come Giovanni XXIII. Era un combattente, un generale che prendeva sul serio la propria missione: sconfiggere il comunismo. Ci riuscì e nel crollo del Muro, 11 anni dopo l’ascesa al soglio di Pietro, pesò persino più degli altri due comandanti di quella crociata: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Anche se sul momento nessuno poteva saperlo, quel Muro, simbolo della Guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi a modo loro ordinati, avreva cominciato a sgretolarsi con la fumata bianca che nel pomeriggio del 16 ottobre annunciò l’esito del secondo Conclave riunito nel 1978. Wojtyla non era l’unico leader religioso capace di indossare la corazza, in quel sottovalutato 1978. In quello stesso autunno l’ayatollah Ruholla Khomeini, massima autorità dell’Islam sciita, sfidò dal suo esilio parigino lo scià Reza Pahlevi. Un composito fronte che vedeva i Mullah a fianco dei fedayin del popolo comunisti e delle stesse élites liberali iraniane riempì le piazze di Teheran e dell’intero Paese. Alla fine del 1978 la partita non era ancora finita ma l’esito era già evidente. Pahlevi si sarebbe dimesso il 16 gennaio del ‘ 79 ma l’illusione di poter conciliare conflitto sociale, democratizzazione e Repubblica islamica durò pochissimo. In dicembre, così come se nulla fosse, nacque anche l’Unione europea. Non si chiamava ancora così, ma lo Sme, il Sistema monetario europeo, ne era il consapevole presupposto, non un passo qualsiasi ma quello decisivo. Sarebbe stato proprio lo Sme a provocare quella rottura tra Dc e Pci per evitare la quale era stato sacrificato Aldo Moro. A bersagliare con lucida preveggenza l’Europa della moneta fu Giorgio Napolitano, nell’aula di Montecitorio. Peccato che quel discorso lo abbia poi dimenticato, o le sue posizioni sulla Ue sarebbero state nel XXI secolo ben diverse.
Moro, Tortora, Craxi: quando l’Italia andò in overdose da “Emergenza”. Con loro si racconta una sola storia, cominciata nel 1978 e proseguita fino al 2018. Il sequel però è ignoto, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri su "Lavocedinewyork.com" il 9 gennaio 2018. Storie parallele di Ragioni umane contro Ragioni di Stato. Ma quale “Stato”? La “fermezza” fu oscura e velenosa fecondazione; perché ne gemmarono “Le Emergenze Permanenti”: fu il loro fondamento teorico. E ciascuna di queste “Emergenze”, avrebbe avuto un duplice alimento: da un lato, un rinnegamento; dall’altro, un travisamento. “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e alternativa”. E’ la prima parte di una famosissima frase, scritta da Aldo Moro, mentre era sequestrato dalle Brigate Rosse. Si rivolgeva a Benigno Zaccagnini, Segretario del suo partito, in una lettera del 24 Aprile 1978; in realtà, suo tramite, si rivolgeva all’Italia intera. Alle generazioni passate, a quelle presenti e, soprattutto, a quelle future. Alcune parole si stagliano sulle altre: “ancora”, che tradisce una terribile previsione sulla sua possibile sorte; “irriducibile”, che segue “contestazione”: a confermare, quasi da una dimensione già eterna, la lucidità di quella cupezza; e ad incarnare, in sua difesa, una superiore opposizione al mediocre corso delle cose: nel nome di un’autentica ragione umana, negata da una pretesa Ragion di Stato. Ma quella frase si completava in una seconda parte, dove previsione, opposizione e difesa trovavano uno scopo, la loro sintesi: “per impedire che della D.C. si faccia quel che se ne fa oggi”. Ora, proviamo a sostituire idealmente quell’autore e quell’anno: Aldo Moro, 1978; con un altro nome e un altro anno; e a immaginare uno spazio bianco, al posto della sigla “D.C.”. Enzo Tortora, 1983, Bettino Craxi, 2000; e, dove c’è il bianco, leggiamo “libertà”, in un caso, “Repubblica Italiana”, nell’altro. Ed ecco il risultato: “Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e alternativa, per impedire che della libertà (1) / della Repubblica italiana (2), si faccia quel che se ne fa oggi”. Cosa avrebbero in comune queste frasi parallele? Intanto, si può subito notare che le due interpolazioni, “della libertà”, per Tortora, “della Repubblica Italiana”, per Craxi, in realtà, si possono leggere come se fossero una: “della libertà della Repubblica Italiana”: con la libertà di uno che è tale, solo se è libertà di tutti, e viceversa. Le frasi parallele, in primo luogo, hanno in comune di essere intessute alla morte. Due sono gli anni di morte, si potrebbe osservare: quello di Moro, e quello di Craxi; ma Tortora? Il 1983 fu l’anno del suo arresto, non della sua morte; “mi è scoppiata dentro una bomba al cobalto”, così, nella prima lettera dal carcere di Regina Coeli, il 17 giugno 1983. Perciò, poiché le bombe uccidono, anche per Tortora, quello fu un anno di morte. E la visione della morte, sappiamo, può elevare a visioni vastissime, profondissime. Poi, questi tre uomini, ebbero in comune la coartazione: ingiusta, impietosa, meticolosa; non una coartazione qualsiasi; ma una ricreata da una perturbazione ideologica. Prima delle BR, era stata seminata e sparsa, dai meno giovani, sul capo dei più giovani, quella perturbazione; dopo, da questi, a loro volta cresciuti, fu posta in attesa di riscuotere il frutto di promesse catastrofiche, di livide speranze. Occorreva però uno strumento adatto alla meta, e schiere organizzate: pretoriani che sapessero maneggiarlo. Prima e dopo di Moro, “Il processo alla DC” è stato un miraggio diffuso, sapientemente coltivato. Da ceti manovrieri: forti di penna e di rango e, per lunga e risalente tradizione, democraticamente irresponsabili. Si badi: “Il Processo”, non la critica, non l’opposizione; perchè l’unica opposizione era il Processo; ogni altra, solo complicità. Moro aveva capito: e sui rapporti fra magistratura e parlamentari e, in genere, la “politica”, aveva le idee piuttosto chiare. Un anno prima di essere altrimenti “processato”, il 10 marzo del 1977, si presentò in Parlamento: dove si discuteva di presunte tangenti in seno al c.d. scandalo Lockeed, e della messa in stato d’accusa di due ex Ministri della Difesa, il democristiano Luigi Gui ed il socialdemocratico Mario Tanassi. Disse: “…noi vi diciamo che non ci faremo processare nelle piazze”. Ma fu una difesa impotente. La semina era stata capillare: e il raccolto stava crescendo. Quella parola, così, “Processo”, non più però mosso ad un solo Soggetto, ma, escogitato come un Assoluto Politico, divenne lo strumento con cui la perturbazione ideologica assunse la “Coartazione” come la “Categoria Nuova” della vita comunitaria in Italia: gradatamente, “progressivamente”, ma ineluttabilmente. Resa il punto di confluenza dei benpensanti e delle plebi, affratellati dall’invidia, dalla frustrazione, dallo stordimento inebriante di una furia iconoclasta. Le squadracce delatorie (strumento dello strumento), pertanto, poterono celebrare il loro emblematico battesimo: su un uomo “famoso”, “liberale”, “antipatico”, quanto “inerme”, e in verità anche gentile; poi, così rodate, dilagarono sui “Grandi Colpevoli” (non tre, quattro, cinque, contro cinquecento, come avrebbero fatto, poco dopo, al Pool di Palermo: ma decine e decine contro uno, come avvenne prima e sarebbe avvenuto dopo; questa sproporzione le rende “squadracce delatorie”, e non “fonti di prova dichiarative”). Ragioni umane, contro Ragioni di Stato. Ma quale “Stato”? La “fermezza” fu oscura e velenosa fecondazione; perchè ne gemmarono “Le Emergenze Permanenti”: fu il loro fondamento teorico. E ciascuna di queste “Emergenze”, avrebbe avuto un duplice alimento: da un lato, un rinnegamento; dall’altro, un travisamento. Dal rinnegamento, metodologico e finalistico, dell’Antimafia di Falcone e Borsellino, sorse “l’Antimafia di mestiere”. Dal travisamento di un equilibrato redde rationem sul finanziamento irregolare dei partiti, sorse “il manipulitismo”: cioè, l’Anticorruzione carrieristica, liquidatoria: nata a conteggiare colpe altrui fra nascoste scatole di scarpe, finita a conteggiare appartamenti fra microfoni per una volta accesi. Quindici anni dopo, Craxi, sulla scia di quel Moro già impotente, e in un contesto “maturo” per un più sistematico “cambio di passo”, avrebbe parlato di “processi sommari”. A Craxi liquidato, fu emanato, fine del 1995, l’Editto Borrelliano, tuttora moralmente vigente: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali”. Fra Moro e Craxi, Tortora potè affermare: “Sto pensando di chiedere il cambio di cittadinanza, questo Paese non è più il mio”. Rimase, e ne morì. Ma, anche grazie a lui, l’Idea della libertà, vive. Ma per quanto?
Accuse sui contatti con la mafia, Le Monde si scusa con Berlusconi. Rettifica a due articoli degli scorsi anni anche su Fininvest, scrive il 10 gennaio 2018 "Il Corriere della Sera". Il quotidiano parigino Le Monde ha pubblicato una rettifica in merito a quanto aveva scritto su Silvio Berlusconi e sulla Fininvest in relazione a presunti contatti con la criminalità organizzata. La rettifica si riferisce a due articoli, del 4 agosto 2015 e del 10 luglio 2017, rispettivamente intitolati «Quando Berlusconi viene a patti con la Piovra» e «Quando Berlusconi trattava con Cosa nostra». Lo rende noto la Fininvest nel prendere atto della rettifica che martedì è comparsa non soltanto sull’edizione cartacea del quotidiano ma anche sul sito lemonde.fr. «Nella precisazione - si legge nella nota - si riconosce che in Italia sono stati avviati diversi procedimenti penali per verificare se Berlusconi e il suo gruppo Fininvest avessero utilizzato capitali di provenienza mafiosa, ma dopo approfondite indagini, finalizzate soprattutto ad analizzare le dichiarazioni dei pentiti e i flussi finanziari di Fininvest, questi procedimenti hanno portato a provvedimenti di non luogo a procedere o di assoluzione. In queste sentenze definitive, riconosce Le Monde nella rettifica, non c’è alcuna prova che Fininvest e Silvio Berlusconi abbiano potuto beneficiare di somme di origine mafiosa, o che si siano dedicati a riciclare tali somme». «Passo dopo passo i vecchi detrattori del presidente Silvio Berlusconi fanno marcia indietro, con tanto di pubbliche scuse, e la verità viene lentamente ripristinata dopo anni di insulti, di assurde accuse e di fantasiose ricostruzioni che di giornalistico avevano, a dire il vero, ben poco. Dopo l’Economist tocca a Le Monde cospargersi il capo di cenere e rettificare due articoli scritti nel 2015 e nel 2017 nei quali il nome del nostro leader veniva infangato e accostato a organizzazioni criminali del nostro Paese». Così Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia.
Le Monde: infondate le nostre accuse a Berlusconi. Il quotidiano francese ammette: sentenze definitive dimostrano che Fininvest e Berlusconi non hanno beneficiato di soldi di origine mafiosa, scrive il 9 gennaio 2018 Panorama. Non c’è soltanto la brusca retromarcia di Bill Emmott, l’ex direttore del settimanale Economist che nel 2001 fu autore di una famosa copertina intitolata "Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy" (Perché Berlusconi è inadatto a governare l’Italia), e venerdì scorso, al contrario, ha scritto un articolo per dichiarare al mondo che il Cavaliere è "uno statista" nonché il solo possibile "salvatore d'Italia" contro il populismo dilagante. Adesso anche Le Monde ha deciso di regalare un notevole assist al fondatore di Forza Italia. Perché proprio oggi si conclude con una clamorosa ammissione d’errore una dura campagna giornalistica condotta dal quotidiano francese nei confronti di Berlusconi e della Fininvest. In particolare, il 4 agosto 2015 e il 10 luglio 2017, Le Monde aveva pubblicato due articoli intitolati, rispettivamente, "Quando Berlusconi scende a patti con la Piovra" e "Quando Berlusconi patteggiava con Cosa nostra". Entrambi gli articoli erano firmati dal giornalista Daniel Psenny—il reporter che da due anni viene celebrato in Francia come un eroe per essere stato ferito durante l’attacco terroristico al teatro Bataclan—e presentavano ai lettori di Le Monde un documentario trasmesso su France 3, dedicato al tema "Berlusconi e la mafia, scandali all’italiana". Nel primo articolo, Psenny scriveva che "numerosi testimoni, magistrati, pentiti di mafia e collaboratori di Berlusconi raccontano come e perché l’ascesa dell’imprenditore non avrebbe potuto realizzarsi senza l’appoggio di Cosa nostra"; il giornalista aggiungeva che "i suoi legami con la mafia siciliana sono stati stabiliti con certezza dai numerosi giudici incaricati di indagare sui suoi affari". Nel secondo articolo, Le Monde confermava l’infamante accusa: scriveva che "i soldi sporchi aleggiano su tutto il percorso di Berlusconi" e che "le inchieste giudiziarie hanno mostrato che gli enormi investimenti nel complesso immobiliare Milano 2, realizzato alla fine degli anni Settanta nella periferia milanese, sono stati realizzati grazie al denaro nero della mafia". In realtà, se pure Berlusconi nella sua Odissea giudiziaria è stato più volte indagato per accuse di quel tipo, innescate dalle controverse dichiarazioni di pentiti di mafia poco credibili, è falso che sia mai stato condannato. Al contrario, il Cavaliere è stato sempre pienamente assolto, se non prosciolto già in istruttoria. Oggi, in una rettifica pubblicata sia sulla versione cartacea sia sul suo sito internet (lemonde.fr), Le Monde riconosce l’errore e ammette che le sue accuse erano del tutto infondate: "In Italia" scrive il quotidiano, "sono stati effettivamente avviati diversi procedimenti penali per verificare se Berlusconi e il suo gruppo Fininvest avessero utilizzato dei capitali di provenienza mafiosa. Ma dopo approfondite indagini, finalizzate soprattutto ad analizzare le dichiarazioni dei pentiti e i flussi finanziari di Fininvest, questi procedimenti si sono chiusi con provvedimenti di non luogo a procedere o di assoluzione". "In queste sentenze definitive", conclude il testo pubblicato oggi da Le Monde, si riconosce che "non c’è alcuna prova che Fininvest e Silvio Berlusconi abbiano potuto beneficiare di somme di origine mafiosa, o che si siano dedicati a riciclare tali somme". Insomma, considerando il dietro-front di Emmott, in pochi giorni il Cavaliere ottiene un clamoroso 2 a 0. Il risultato è un vero tonico per la campagna elettorale del leader di Forza Italia: tanto più che la seconda vittoria arriva da un quotidiano–simbolo della sinistra europea.
Roma: successo per la prima nazionale del docufilm “Generale Mori. Un’Italia a testa alta”, scrive Sonja Tambaro l'8 gennaio 2018 su "Agorà24". “Generale Mori. Un’Italia a testa alta” non è solo un docufilm che narra la storia degli ultimi 50 anni del nostro Paese raccontata dallo stesso Mario Mori. E’ la trilogia del regista Ambrogio Crespi che nella scelta dei suoi tre documentari sulla giustizia ha saputo captare storie incredibili, partendo da quella di Enzo Tortora per poi approdare al Festival di Venezia con la vita degli ergastolani ostativi in “Spes Contra Spem liberi dentro” lanciando un forte e chiaro messaggio contro la mafia. Prima di approdare allo schermo, visto l’appuntamento fissato per il prossimo 16 Marzo su Rete4, lo scorso 21 Dicembre 2017 a Roma al Capranichetta è stata presentata la sua ultima opera prodotta da Index Production. A moderare la prima nazionale il direttore de Il Tempo Gian Marco Chiocci che ha condotto una lunga intervista al Generale. Una sala gremita di autorità dell’Arma dei Carabinieri, di magistrati e giudici, esponenti della politica e del Governo come Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia e cittadini che hanno voluto assistere alla proiezione del film con la presenza del Generale, del regista e del Colonnello Giuseppe De Donno, uomo di fiducia di Mori e autore insieme a Crespi della pellicola. Tanti i momenti storici ripercorsi. Dalle Brigate Rosse alla mafia di Riina, da Falcone e Borsellino al Generale Dalla Chiesa, passando per il Ros e i servizi segreti. 70 minuti che scorrono rapidamente senza mai abbassare la suspence della storia. Luci e giochi di telecamere, immagini storiche che si sovrappongono a quelle girate dal regista. Prima e dopo che scatenano sentimenti ed emozioni. Un Mori senza veli, che al termine del film risponde a tutte le domande che Chiocci gli pone. Il Generale Mori, nonostante le vicende giudiziarie che ancora lo vedono coinvolto, ricorda la buona magistratura. Uomini al servizio della giustizia che svolgono egregiamente il loro lavoro, partendo dal procuratore di Nola Paolo Mancuso e dal pubblico Ministero del tribunale di Roma Giancarlo Capaldo protagonisti del film, ma anche il Procuratore aggiunto del Tribunale di Milano Ilda Boccassini, definita dallo stesso Mario Mori “un’eccellenza della magistratura italiana”, il sostituto procuratore di Milano Sergio Spadaro ed altri. D’altronde un uomo come lui che ha combattuto la vera mafia ed il terrorismo non può che essere stimato ed apprezzato dalla buona giustizia. Ma come dice il direttore Gian Marco Chiocci, se Mori fosse stato ammazzato dalla mafia oggi sarebbe stato un eroe.
Il film che ridà l’onore al generale Mori. Sarà proiettato oggi a Roma il documentario sulla sua carriera. Una vita a combattere boss e terroristi, ripagato dallo Stato con il fango, scrive Luca Rocca il 22 Dicembre 2017 su "Il Tempo". Mentre al processo sulla fantomatica "trattativa" Stato-mafia va in scena una requisitoria che descrive come l’artefice di tutti i mali, ieri alle 16, alla Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale (Piazza di Monte Citorio 131), c'è stata la proiezione della prima nazionale del docufilm di Ambrogio Crespi «Generale Mori. Un’Italia a testa alta», prodotto da Index Production e scritto dal colonnello Giuseppe De Donno, a lungo collaboratore di Mori, che si è avvalso della collaborazione di Giovanni Negri, presidente de "La Marianna" e già segretario del Partito Radicale. Un appuntamento organizzato in collaborazione con Il Tempo e che ha visto la partecipazione di centinaia di persone, fra cui lo stesso Mori, il regista Crespi, il colonnello De Donno e il nostro direttore Gian Marco Chiocci. Si tratta di un docufilm di ottima fattura, che ripercorre la carriera di Mori, i suoi successi e i suoi momenti bui, superati anche grazie a una rara tenacia. Dalla morte del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa (che ammirava Mori) al sequestro e l’uccisione di Aldo Moro; dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, fino alla cattura di Totò Riina e alla lotta contro il terrorismo (anche se Mori, lo si potrà vedere nel docufilm, parla sempre del rispetto, ricambiato, dovuto ai terroristi), la camorra e la ’ndrangheta. Una proiezione, dunque, che smentisce seccamente quanto sostenuto da alcuni magistrati sul conto di Mori (ci sono anche gli elogi all’ex Generale da parte dei procuratori con cui ha lavorato). Perché Mori, che i suoi uomini chiamavano "Comandante Unico", non è "l’uomo nero" che ha protetto Riina e Bernardo Provenzano, non è l’ufficiale che ha "trattato" con la mafia, non è il militare che ha "indirizzato" gli obiettivi dei corleonesi, come si va sostenendo in questo giorni nell’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo. Invece di premiarlo, Mori, di elogiarlo, di imparare da lui, lo hanno massacrato. Lo hanno portato sul banco degli imputa- ti come colui che, in nome della fantomatica "trattativa", avrebbe consentito ai sodali di Riina di svuotare il covo del capomafia dopo il suo arresto avvenuto il 15 gennaio 1993; eppure lo hanno assolto (la procura di Palermo non presentò nemmeno ricorso); lo hanno processato, di nuovo, come l’uomo che, sempre in nome della mai provata "trattativa", avrebbe protetto la latitanza di Provenzano, rimanendo inerte di fronte alla possibilità concreta di catturarlo; e anche in questo caso lo hanno assolto in primo grado, appello e Cassazione; lo stanno processando ancora, dopo tutte le assoluzioni, come l’autore materiale del presunto patto fra Co- sa nostra e pezzi delle Istituzioni, arrivando a dire (lo ha fatto il pm Di Matteo qualche giorno fa) che Mori avrebbe persino "confessato" di aver portato avanti una "trattativa" con don Vito Ciancimino. Eppure, sono state le stesse sentenze ad escluderlo, dando a quella parola, "trattativa", utilizzata da Mori di fronte ai giudici, un senso che nulla ha a che fare con quello inteso dai pm palermitani. Lo scopo di Mori, nessuno ormai lo può più negare, se non qualche pm palermitano, era quello di sempre: fare di tutto per consegnare alla giustizia i boss di Cosa nostra, anche attraverso i suoi contatti con Vito Ciancimino. E invece no! All’uomo del docu-film, l’uomo che ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l’uomo che ha assestato colpi fatali alla mafia e che ha dato la caccia ai terroristi, gli hanno voluto appioppare, ad ogni costo, l’etichetta di "trattativista"; come se fosse un traditore di Stato e non uno degli "eroi" che allo Stato ha dedicato quasi tutta la sua vita. Qualche giorno fa Il Tempo ha chiesto a De Donno chi fosse Mori, e la risposta non poteva che essere questa: «Mori è una persona a cui questo paese deve tanto. Degli anni trascorsi con lui ho un ricordo bellissimo, perché sono stati anni in cui abbiamo lavorato con persone straordinarie come Falcone e Borsellino. Mori è il comandante che tutti vorrebbero avere, per la sua umanità e perché, essendo stato anche lui un operativo, sa che significa lavorare senza poter contare sull’appoggio dei superiori». La verità, dicono, è destinata al trionfo, e finora, nei vari tribunali dove Mori si è difeso, è andata così. Di certo c’è che il docufilm proiettato ieri ci racconta, anche attraverso le sue parole, stimolate dalle domande di Giovanni Negri, l’unico Mori esistente, quello a cui non piace essere definito "eroe" ma che facciamo fatica a non definire tale.
MARIO MORI E IL DOCUFILM CHE SI FA BEFFE DELL’INCHIESTA SULLA TRATTATIVA, scrive Rocco Schiavone il 29 dicembre 2017 su “L’Opinione". Ci sono inchieste che non entrano nell’immaginario collettivo se non di chi ha tentato di farci una carriera politica sopra. Quella sulla fantomatica trattativa tra Stato e mafia è sicuramente una di esse. Per questo è arrivato come il cacio sui maccheroni un docufilm di Ambrogio Crespi per la “Index production” sulla figura del generale per anni a capo del Ros dei carabinieri, Mario Mori. L’uomo che ha catturato Totò Riina e che prima ancora aveva collaborato nella lotta al terrorismo con il compianto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. “Generale Mori - Un’Italia a testa alta” (prodotto anche da Giovanni Negri, che intervista Mori nel docufilm, e da “Il Tempo” diretto da Gianmarco Chiocci) è la classica testimonianza sottovoce di un eroe dello stato massacrato da calunnie a carriera finita. Destino condiviso, peraltro, con il colonnello Giuseppe De Donno. Altro “io narrante” del docufilm insieme allo stesso Mori. De Donno in effetti fu per anni a fianco di Mori, compreso il momento della cattura di Riina poi effettuata materialmente da Sergio De Caprio. Al secolo il capitano Ultimo, altro perseguitato della allegra comitiva dell’eroico Ros dei primi tempi. Il documentario di Crespi contiene anche una chicca. De Donno racconta infatti un particolare quasi smarrito nella pubblicistica conformista dei professionisti editoriali che fan parte del partito di coloro che vogliono credere per dogma in questa ‘trattativa’: “Riina quando fu arrestato aveva con se tutti i documenti e i pizzini in una busta e noi li sequestrammo e in seguito portarono a molti arresti”. Qualcuno però si ostina a scrivere che nella casa di via Bernini a Palermo ci fosse stata una cassaforte e altri documenti trafugati. Ma c’è un’altra “rivelazione” che De Donno fa nel film: quella di via Bernini a Palermo era la casa in cui erano ospitati temporaneamente i familiari di Riina, non il suo covo. E lui fu preso lì, con la cooperazione attiva del pentito Balduccio Di Maggio nel servizio di appostamento, solo perché si era recato in visita. Mentre il covo da cui sarebbero spariti chissà quali carte ancora deve essere semplicemente individuato. Tutta una storia da riscrivere, dunque, che il docufilm affronta senza intenti polemici. Facendo parlare i protagonisti dell’epoca e non i quaquaraquà odierni. Altra storia su cui si sofferma il racconto di Mori è il famoso rapporto del Ros dei carabinieri su “mafia e appalti”: la Procura di Palermo non gli diede mai troppo peso, né ai tempi di Giovanni Falcone né dopo la sua uccisione. Invece il magistrato eroe dietro cui si nascondono oggi tutti i carrieristi editoriali e in toga lo riteneva centrale e così pure il suo amico Paolo Borsellino. La morale da trarre? Mori, come prima di lui il suo maestro Carlo Alberto Dalla Chiesa, avevano capito sin troppo bene come si potesse battere la mafia. Che in effetti, almeno nel versante Cosa Nostra, fu battuta. Ironia della sorte il colpo di grazia ai boss ci fu proprio sotto il Governo Berlusconi due. Quanto a Dalla Chiesa e Mori, avendo capito troppo furono eliminati: il primo con il piombo, il secondo con la calunnia.
Scrive il 21.02.2017 Gianfranco La Grassa su “Conflitti e strategie". La morte di Pasquale Squitieri (cui rivolgo ancora un ricordo reverente) mi ha smosso pure un altro ricordo: una sua intervista a Malcolm Pagani (per il “Fatto quotidiano”, 17 settembre 2016, da me citata pochi giorni dopo in “Conflitti e strategie”), di cui riporto un pezzo, che m’ha intrigato perché confermava quello che sto dicendo da anni (direi da sempre in merito ad un certo evento): A dire la verità odio, rancore e povertà c’erano anche ieri. E lo dice a me? All’epoca in cui rapirono Aldo Moro, l’odio era nelle strade. Mario Cecchi Gori incaricò me e Nanni Balestrini di lavorare sul caso e nella ricerca della verità, io e Nanni ci spingemmo molto in là. Ero amico di Giovanni Leone, il Presidente della Repubblica. Il 10 maggio del ’78, il giorno dopo il ritrovamento di Moro nella R4 in Via Caetani, Leone mi convocò al Quirinale. Era stravolto: “Avevo firmato la grazia per alcuni brigatisti in cambio della libertà di Moro. Me l’hanno strappato di mano due persone. I nomi non te li dico. Fai il cinematografo, hai i figli, non voglio farti rischiare”. Raccontò questa vicenda già in Registi d’Italia di Barbara Palombelli. Ha mai saputo chi fossero le due persone in questione? "Uno era Benigno Zaccagnini e l’altra Enrico Berlinguer. Fermarono la Grazia concessa da Leone. Come mi disse il Presidente: “non sono persone pericolose, ma pericolosissime”. Immaginare due fautori del compromesso storico nel ruolo di aguzzini suona improbabile. "La pensi come vuole, l’ho sentito con le mie orecchie. Moro vivo non lo voleva nessuno. Erano tutti d’accordo. Gli americani decidevano, i politici di casa nostra eseguivano. i brigatisti fecero il lavoro sporco. L’organizzazione era infiltrata a ogni livello ed eterodiretta dai servizi segreti di mezza Europa. Leone fu reticente. Voleva proteggermi: “Maestro-gli dissi, le sembra che ne abbia bisogno?”. Allora mi rivelò disse i nomi dei due che gli strapparono la Grazia dalle mani: “Zaccagnini e Berlinguer”. Attendo smentite. Non arriveranno. La Democrazia Cristiana ha sempre ucciso i proprio figli. Come Crono, se li è mangiati uno dopo l’altro".
Da anni (ma tanti, tanti) ripeto che Moro fu magari ucciso materialmente dalle BR, ma se ciò accadde esse di fatto agirono come semplice “mano d’opera”. Dietro c’erano certi ambienti americani, da me definiti “di riserva” perché di fatto, mentre quelli “ufficiali” seguono una data linea politica, questi preparano eventuali cambiamenti se diventano necessari. Facciamo un esempio: tra il 1967 e il 1974 gli Stati Uniti appoggiarono apertamente i Colonnelli in Grecia. Tuttavia, i suddetti ambienti “di riserva”, come minimo a partire dal ’70-’71, tennero rapporti con chi avrebbe poi sostituito quel regime (che non dava sufficienti garanzie di stabilità), cioè Karamanlis (di “destra”), ma anche con la “sinistra” rappresentata dal PC dell’interno (eurocomunista e ormai lontano dall’URSS). Il partito leader degli eurocomunisti era il PCI (ormai in mano alla frazione berlingueriana, anche se il loro leader diventerà Segretario nel 1972, ma già da vicesegretario nel ’69 aveva il controllo dell’apparato, con l’appoggio della frazione “ingraiana” e perfino la simpatia dei “manifestaioli”, buttati fuori in quell’anno o nel ‘70). Sempre dal ’69 o ‘70, il PCI aveva iniziato discreti contatti con gli Stati Uniti, detto meglio con i suddetti “ambienti di riserva”. Nel settembre del ’73 ci fu l’incidente di Berlinguer a Sofia, che era con tutta probabilità un attentato. Mi permetto di sostenere che non si intendeva uccidere il Segretario piciista italiano; si voleva solo avvertirlo che le sue mene con gli USA erano note e che non si spingesse troppo oltre. La maggioranza del PCI non se ne diede per intesa e continuò nei suoi intrighi con gli americani; è ciò che non capisce il giornalista intervistatore di Squitieri. Leggete la sciocchezza che dice: è difficile pensare come aguzzini due fra i principali promotori del “compromesso storico”. Invece, proprio quel compromesso non era affatto un evento di esclusivo interesse nazionale; era una “carta d’imbarco” dei sedicenti comunisti italiani per i rapporti con l’oltreatlantico, processo in cui bisognava procedere con i piedi di piombo. Nel PCI, infatti, esistevano ancora importanti porzioni filosovietiche. Il “compromesso storico” non doveva perciò far entrare il partito nel governo; solo qualche passo per iniziare il “giusto rodaggio”. Perché bisognava che non si avvicinasse troppo alla conoscenza di quel po’ che il nostro governo DC-PSI sapeva della NATO e di ciò che questa faceva. Il “rodaggio” del PCI berlingueriano si ebbe ad es. con i fatti del Cile nel settembre 1973. Berlinguer scrisse tre articoli su “Rinascita”, in cui sostenne che i comunisti dovevano pur sempre tenere conto che l’Italia faceva parte del “sistema atlantico” ed era quindi essenziale non preoccupare i “padroni” di quel sistema (non si espresse così, ma il senso era questo). Allende sarebbe stato troppo imprudente; si tenga conto che fu invece molto incerto e “timido” (anche in tema di semplice riforma agraria), sollevando l’opposizione netta della sinistra “radicale” (il MIR). Nel giugno del 1976, in un’intervista a Pansa sul “Corriere”, Berlinguer compie un altro passo di quel “rodaggio”, dichiarando che era necessario accettare l’ombrello della NATO. Si accettava cioè quella “protezione” che era rivolta, in modo aggressivo, contro l’URSS. Successivamente, i piciisti (figlietti di Berlinguer) sostennero che, in base a documenti trovati in archivi sovietici, quella dichiarazione era conosciuta e anche approvata in URSS. Il che potrebbe corrispondere, ma solo in parte, a verità; nel senso che va riscritta pure la storia di quel paese durante il periodo della “cristallizzazione” brezneviana. E’ indubbio che quest’ultima fu dovuta alla presenza – pur dopo la defenestrazione di Krusciov (1964) in seguito alla mal condotta azione dei missili a Cuba (ottobre ’62) con l’iniziale accordo di Kennedy, poi saltato per intervento di dati settori USA – di due linee in contrasto, da cui poi infine emerse la vincitrice (1985) che mise alla segreteria Gorbaciov e condusse l’Unione Sovietica (con il “campo socialista”) allo sfacelo (1989 “crollo del muro” e agosto ’91 fine dell’URSS). Tornando in Italia negli anni ’70, il “compromesso storico” trovò ampie garanzie nella “sinistra” diccì (di cui era personaggio decisivo proprio Zaccagnini e poi De Mita, Andreatta, ecc.). Andreotti volle fare come al solito il “troppo furbo” e si mise “in mezzo”, cercando di garantire che il “compromesso” si facesse, ma senza procurare troppi danni alla DC; perché vi erano già brutti sospetti circa le reali intenzioni degli americani in merito a quella parte di PCI che si stava spostando verso di loro. Nessuno poteva predire – e all’epoca nemmeno lo pensavano gli “ambienti di riserva” USA – quello che sarebbe accaduto con l’avvento di Gorbaciov e la dissoluzione del “socialismo”. Tuttavia, la DC era divisa. Fanfani non era d’accordo circa i rapporti tra PCI e ambienti USA; in questo appoggiato dall’esterno dal socialista Craxi, che si rese almeno in buona parte conto del pericolo incombente anche per il suo partito. Moro era decisamente contrario, ma non lo disse apertamente (anzi piuttosto finse il contrario, in sede “pubblica”), sapendo che i contatti del PCI non erano con nuclei dirigenti americani di poco conto. Egli fu, inoltre, messo in difficoltà dall’andamento delle vicende cilene, che comportarono la sua sostanziale rottura con Eduardo Frei. Questi fu presidente del Cile prima di Allende, con ottimi rapporti appunto con Moro, da cui nacquero iniziative in comune, fra cui una non irrilevante “agenzia stampa”, che ebbe piuttosto fortuna in seguito come tale; ma che all’inizio forse non era una semplice agenzia stampa. Frei a quel tempo non era troppo legato agli Usa, anzi si permetteva “aneliti” di autonomia. Dai rapporti amichevoli tra lui e Moro nacquero buone occasioni di fruttuosi affari per l’imprenditoria italiana. E non vi era solo la questione economica, ma anche quella politica, una certa qual influenza di settori italiani in Sud America (dove di nostri emigrati italiani, di varie successive generazioni, ce ne sono molti). Non credo che gli Usa fossero del tutto contenti di simili rapporti, anche se certo non erano molto preoccupati di un minimo di penetrazione italiana nel loro “giardino di casa”. Con la vittoria di Allende nel 1970, Frei ebbe un forte “ripensamento”, si avvicinò in modo deciso agli ambienti americani; e proprio a quelli che andarono organizzando il successivo colpo di Stato di Pinochet. Fu un avvertimento per Moro; bisognava riconsiderare molte cose e non irritare troppo quegli ambienti statunitensi, che erano in definitiva in sella nel loro paese e premevano, in Italia, per il “compromesso storico”, un evento in grado di favorire l’ulteriore allontanamento dell’eurocomunismo dall’URSS, con qualche indebolimento dei settori dirigenziali sovietici che si opponevano all’ascesa di quelli poi emersi con Gorbaciov. Gli articoli di Berlinguer sul colpo di Stato in Cile pubblicati in “Rinascita” e soprattutto, dopo qualche anno (1976), l’intervista in cui accettava esplicitamente la funzione della NATO, non potevano non allarmare Moro. Non che potesse immaginare quel che accadde a 15 anni dalla sua morte; tuttavia, intuì che vi erano pericoli di una diminuzione dell’importanza attribuita dagli Stati Uniti alla DC. Immagino che anche l’altro “grande” di tale partito, Andreotti, se ne rese conto; tuttavia, credé di potersi comportare come al suo solito, con i suoi maneggi compromissori e “tutto facenti”; questa volta si trattava però di un “ossetto” duro da rosicchiare. Bene, si arriva così al 1978 e al finalmente realizzato passo decisivo per gli accordi tra PCI – sempre la parte che sappiamo, ormai nettamente maggioritaria anche per la mania dei suoi avversari di manovrare sotto sotto, senza mai appellarsi “alla base” chiarendo bene i motivi del dissenso e il cambio di campo che si approssimava – e gli ambienti statunitensi. Un importante dirigente piciista è invitato e si prepara al ben noto viaggio “culturale” negli USA. Moro è viepiù preoccupato ma, mi sbaglierò, tiene stretti alcuni documenti che possono intralciare le manovre in atto. Intendiamoci: non perché vi sia una qualsiasi minaccia di divulgarli (non lo si fa mai, in genere documenti di quel tipo sono dannosi anche per il prestigio di chi li possiede e che ha anche lui magari compiuto manovre sotterranee da non rivelare), ma servono pur sempre da deterrente perché possono comportare ricatti vari, minaccia di rivelarli ai nemici che ogni dirigente di partito ha perfino nello stesso suo gruppo d’appartenenza o in quelli di opposizione a quest’ultimo, ecc. Se simili documenti ci sono stati, non furono depositati né nella propria casa né al Ministero; meglio portarseli dietro, non separarsene. Solo che non era previsto l’attentato in via Fani e il rapimento, avvenuto pochi giorni prima che iniziasse quel bel viaggio “culturale” del piciista importante e per importanti contatti negli Usa (direi quelli decisivi). Della borsa, dove comunque dei documenti vi erano, non si è saputo gran che. Le “valorose” BR non mi sembra abbiano mai detto con chiarezza cosa vi fosse. Alcuni documenti furono ritrovati in seguito, se ben ricordo, ma non certo quelli veramente rilevanti. Nemmeno esisteranno più ormai. E comunque, non ha poi grande rilevanza sapere cosa vi fosse o meno. Resta il fatto che durante la prigionia di Moro, si mossero per salvarlo Fanfani e Craxi; PCI e sinistra DC erano per non trattare con i “delinquenti”, perché ciò avrebbe indebolito la fiducia dei cittadini nello Stato. Un esponente dei diccì di sinistra fece una seduta spiritica, in cui un “fantasma” rivelò un nome “fatale”: Gradoli. Questo poteva essere magari un segnale alle BR che dovevano sbrigarsi a liberarsi di Moro per evitare “grane”. Ma chi voleva invece salvarlo riuscì a dirottare le ricerche sul borgo antico con quel nome. Per inciso, dico di essere convintissimo che si sapeva bene dove si trovava Moro, ma qualsiasi tentativo improprio e affrettato di liberarlo l’avrebbe invece perduto, accelerando l’esecuzione. Insomma, la solita pantomima disgustosa dei “poteri costituiti”, in specie quando questi sono dipendenti e servi di un paese straniero (gli USA). E gli “ambienti” prevalenti in tale paese avevano deciso per gli accordi segreti con un partito che avrebbe avuto in seguito la sua rilevanza. Il “compromesso storico” era stato ormai realizzato; chi faceva finta d’essere d’accordo su tutto, ma aveva potere sufficiente (e informazioni) per frapporre intralci vari, era certo fastidioso. Tuttavia, debbo dire che non mi sembra egualmente fossero riunite tutte le condizioni per volere la soppressione violenta di Moro. Non credo avesse modo di infastidire troppo gli “ambienti” USA. Ci deve essere stato qualcosa d’altro – e forse di più intrinseco agli intrighi svolti specificamente in ambito italiano – che resta un punto interrogativo. Forse vi era modo, se Moro fosse uscito vivo dall’accadimento, di creare scompiglio nel PCI e mettere i bastoni fra le ruote di chi lo aveva ormai in mano e conduceva il gioco del progressivo riconoscimento (e “riconoscenza”) da parte americana. Concludiamo in ogni caso con una notazione molto evidente, ma solo per chi sa fare 2+2=4 (è facile no? Ma il popolo spesso non lo sa fare). Quindici anni dopo il “delitto Moro”, crollati il “socialismo reale” e l’URSS, venuto allo scoperto il falso (da ormai vent’anni e oltre) PCI, che aveva anche mutato il suo nome per essere ancora più esplicito nel suo cambio di campo a favore degli USA, si ha la liquidazione giudiziaria – favorita e spinta anche da oltre atlantico (con un magistrato, di cui si è anche un po’ discusso il come era entrato in Magistratura, che sembrava avere addentellati e “conoscenze” nei Servizi di quel paese) – della prima Repubblica. E, guarda caso, chi viene salvato dalla “bufera”? Il “fu PCI” (ormai totalmente in mano ai “figliastri” berlingueriani) e la sinistra DC. La povera Tiziana Parenti (magistrato addetto alle indagini sugli “affari” del PCI) viene impedita a compiere il suo lavoro e, mi sembra, anche rimossa infine. Il miliardo di Gardini, seguito fino al piano IV delle Botteghe Oscure (quello della Direzione del partito, almeno quando io vi andai nei primi anni ’70, spingendomi fino a trovare “qualcuno” al piano V, quello della segreteria), è infine dato per “disperso” e anche in quel caso l’indagine si arena. Ma insomma, era pur tuttavia arrivato al PCI; interessava solo la persona specifica? In definitiva, con la prima Repubblica finisce anche gran parte della DC e il PSI di Craxi, quelli che volevano salvare Moro; vengono “graziati”, anzi salgono sugli “altari”, i “fu piciisti” (quelli della parte maggioritaria, gli altri sono ormai in gran parte usciti per “rifondare” l’“irrifondabile”) e la “sinistra” DC, cioè quelli che volevano Moro “non più tanto adatto” a opporsi a ciò cui nessuno doveva più opporsi: il “compromesso storico”, come primo passo di accettazione del “fu partito filosovietico” nel campo atlantico, in attesa di vedere come utilizzarlo in seguito, cosa che fu subito chiara dopo il crollo dell’URSS. Dicevo prima: 2+2=4. E dopo un quarto di secolo ancora non si compie un’operazione tanto semplice. Che qualcuno si opponga al chiarimento? Anche per capire chi si può opporre aiuta sempre la precedente semplicissima operazioncina aritmetica. E i liquidatori di Moro – o meglio i loro successori – sono ancora qui a devastare questo povero paese nostro. Chi si deciderà a toglierli di mezzo come accadde a Moro? Non però con un assassinio mascherato da “azione rivoluzionaria”; con autentici processi, anche se spesso indiziari, e condanne esemplari.
UN GIORNO LEONE MI DISSE: «BERLINGUER E ZACCAGNINI VOGLIONO LA MORTE DI MORO». Intervista a Pasquale Squitieri. Il suo ultimo film, proprio come la curva che da settimane lo costringe all’immobilità, non si vede: “Si intitola L’ultimo Adamo, l’ho girato l’anno scorso e sto cercando qualcuno che lo distribuisca. Non ci sono ancora riuscito. Una cosa di una gravità insopportabile”. Fuori carreggiata, ai margini, Pasquale Squitieri è finito spesso. Il recente incidente stradale: “Evidentemente dormivo” gli ha lasciato in dote una gamba rotta e l’onorario di un dentista: “Ho sempre pagato tutti i debiti, pagherò anche questo”. Settantasei anni, un tumore ai polmoni: “Si può avere un portacenere?”, molti respiri anomali in una parabola che lo ha visto avvocato, impiegato, regista e senatore della Repubblica. Da qualche settimana, per una condanna definitiva figlia dei tempi in cui lavorava al Banco di Napoli, Squitieri non gode più del vitalizio destinato agli ex parlamentari. 2381 euro che Montecitorio gli ha tolto d’imperio: “Per un assegno di 25.000 lire. Lo feci incassare a un cliente nel ’65, era scoperto e 15 anni più tardi venni processato e arrestato per peculato”. Senza pensione da politico per caso e senza rimpianto, Squitieri non riconosce alla vicenda una luce letteraria: “Non c’è niente di kafkiano, non diamo a quest’elemosina un significato eccessivo. Per 40 anni ho vissuto senza vitalizio, non riceverlo più non mi spaventa”. Ma la racconta, dice, perché “quando la sfiga si presenta, riderle in faccia è il minimo che si possa pretendere da un uomo di spirito”.
Ritrovarsi più povero la rende allegro?
«Mi permette di ricordare: un lusso. La storia dell’assegno parte da lontano. Nel 1979 girai Razza Selvaggia, un film terribile sulla condizione dei meridionali a Torino. Volevo girare dentro alla Fiat e andai da Montezemolo con un finto copione in cui magnificavo la fabbrica di Agnelli. Ottenuti i permessi, mostrai che inferno fosse, cosa succedeva quando un operaio si faceva male e tante altre belle cose».
Corretto.
«Cosa vuole? Senza azzardo non ho mai saputo stare. Agnelli me la giurò. Assoldò un paio di investigatori privati, fece raccogliere un po’ di fango ad Aversa, avvertì chi di dovere e la vicenda dell’assegno uscì fuori. Stavo partendo per il Festival di Mosca nell’80 e sull’aereo mi si avvicinarono un paio di poliziotti: “Squitieri, ci risultano problemi con il suo passaporto, ci segua in Questura e la riportiamo qui in tempo utile per partire”. Era una balla. Mi trascinarono a Rebibbia. Cinque mesi di galera. Mi graziò Pertini».
Di Agnelli ha mai più avuto notizie?
«Tutto poteva immaginare, il signor Agnelli, ma non che sarei diventato senatore. Lo acchiappai in Senato. Lo chiusi in una stanza. “Secondo te il coltello in tasca ce l’ho o no?”.»
Vi davate del tu?
«I senatori si danno sempre del tu: “Secondo te la lama in tasca ce l’ho o no” gridavo. “Ti apro in due come un maiale”. Agnelli era sconvolto. Balbettava: “Ma che c’entra?”, cercava possibili vie di uscita. A un tratto, il terrore gli suggerì un pensiero intelligente e mi spiazzò».
Cosa disse?
«“Sei andato da Montezemolo e lo hai ingannato. Se giochi sporco non puoi aspettarti che gli altri giochino pulito”. Prima che mi potessi complimentare per la prontezza, arrivarono alle spalle di Agnelli e lo portarono via. È stato il mio peggior nemico, ma anche il più divertente».
Ne ha avuti molti?
«Ho sparato, picchiato e insultato, ma l’ho fatto sempre per difendere qualcuno e mai me stesso. Se vedo la mia vita in controluce e alla mia età iniziare a osservarla è quasi un obbligo, noto che tutti gli eventi negativi che mi hanno sfiorato erano slanci mascherati di generosità. Sono arrivato a 77 anni sbattendo porte in faccia agli arroganti. E sono orgoglioso di averlo fatto. Una volta, in Rai, rovesciai il tavolo addosso al direttore di Rai Tre. Si chiamava Giuseppe Rossini».
Perché gli rovesciò il tavolo addosso?
«Curavo una serie di ritratti monografici e avevo scelto Leopoldo Mastelloni. Rossini mi telefonò allarmato: “Vieni in Rai, abbiamo un problema”. Lo raggiunsi: “Qual è il problema?”. “Il problema è che Mastelloni è frocio”. Non ci vidi più. Gli scaricai addosso portapenne e foto di famiglia: “Anche Rock Hudson è frocio, stronzo”.»
Sempre avuto un brutto carattere, lei.
«Ho sempre avuto carattere, una cosa diversa. I miei colleghi l’hanno perso da un pezzo. Non si guardano intorno, non indagano, non si incazzano. Tutti a fare i film su Leopardi, sul Boccaccio o sull’eterno due camere e cucina in cui i familiari litigano tra loro. La poetica del tinello. Il cinema italiano non risorge. È spento. Non illumina più. Speravo che gli ultimi reduci fossero feroci. E invece è tutta una melassa, una predichetta, un monituccio piccolo borghese».
Il suo ultimo film, diceva, non si è visto.
«Forse non si vedrà mai, ma non importa. Mi interrogavo sull’intelligenza artificiale. Sulla rivoluzione tecnologica. Su un mondo che tra 10 anni avrà il 34 per cento di robotizzazione in più. Sull’estinzione del genere umano. Gli scienziati hanno avvertito: “Guardate che qui finisce male, ci saranno presto 2 miliardi di affamati in guerra tra loro”. Non c’è un solo intellettuale italiano che affronti temi simili. È pazzesco, ma che siano sordi al tema in fondo è anche normale».
Sa perché? Ce lo dica.
«Perché gli intellettuali italiani sono morti. Prenda Nanni Moretti. Una volta dissi che dei suoi film ci saremmo ricordati solo le battute. Adesso neanche quelle. Uno che comincia con Ecce Bombo e finisce con Mia madre si presenta da sé. “Dai Nanni, reagisci” vorrei dirgli: “Sei stato grande”.»
Ci ricordiamo di una sua dichiarazione: “Ho sempre pensato a Moretti come a un regista di estrema destra”.
«Chi? Nanni? Ma certo. Che c’entra la sinistra con Moretti? Ma stiamo scherzando? Nel mondo sinistra e destra hanno rappresentato categorie severe, durissime e spietate. In Italia destra e sinistra non sono mai esistite. Sono state due cialtronate. Due slogan. Due abiti da indossare a seconda delle convenienze e delle circostanze. Qui da noi abbiamo scambiato per fascisti, liberali e repubblicani e per comunisti, i rivoluzionari da salotto. Se penso a uno di destra penso a De Gaulle e un De Gaulle in Italia non lo vedo».
Lei è sempre stato considerato di destra?
«Sono un narratore. Mentre preparavo Claretta sono andato a frugare nelle fascisterie e mi sono sentito fascistissimo. Quando ho studiato i fratelli Cervi, comunistissimo. Il problema non sono io che devo essere libero per sentirmi vivo, il problema sono gli altri. Sono le etichette. I conformismi. La riflessione piatta, banale, apodittica».
In Italia si riflette male secondo lei?
«Se discuti in modo critico di certi aspetti positivi del ventennio mussoliniano, ti lapidano. Se provi a ricordare la figura di Craxi, ti sputano. Siamo tutti morti con Bettino. Craxi, per quanto carognone, contadino o arraffone, era tra quelli che avevano capito che le casse erano vuote e la festa conclusa. E non ce lo diceva mai. Atteggiamento adorabile. Finito il sabba socialista è finita la politica».
Qualcuno potrebbe eccepire e dirle che sbaglia.
«E io me ne strafotto. Ogni politico compie dei delitti, certamente. Ma a volte i delitti sono necessari, cambiano il volto del mondo. Pensi a quel che cazzo ha fatto Napoleone e mi dica se sinceramente possiamo considerarlo alla stregua di un filantropo. Non lo era, ma era un grande condottiero. I cattivi servono, anche e soprattutto alla coscienza di tutti quelli che recitano da buoni per contratto».
Lei è stato giovane in anni pieni di cattivi maestri.
«Erano anni difficili, infinitamente più interessanti dei contemporanei. Oggi, a iniziare dagli ideali, non abbiamo più un cazzo. Solo povertà, odio e rancore».
Ma odio, rancore e povertà c’erano anche ieri.
«E lo dice a me? All’epoca in cui rapirono Aldo Moro, l’odio era nelle strade. Mario Cecchi Gori incaricò me e Nanni Balestrini di lavorare sul caso e nella ricerca della verità, io e Nanni ci spingemmo molto in là. Ero amico di Giovanni Leone, il presidente della Repubblica. Il 10 maggio del ’78, il giorno dopo il ritrovamento di Moro nella R4 in Via Caetani, Leone mi convocò al Quirinale. Era stravolto: “Avevo firmato la grazia per alcuni brigatisti in cambio della libertà di Moro. Me l’hanno strappato di mano due persone. I nomi non te li dico. Fai il cinematografo, hai i figli, non voglio farti rischiare”.»
Raccontò questa vicenda già in Registi d’Italia di Barbara Palombelli. Ha mai saputo chi fossero le due persone in questione?
«Uno era Benigno Zaccagnini e l’altro Enrico Berlinguer. Fermarono la Grazia concessa da Leone. Come mi disse il Presidente: “Non sono persone pericolose, ma pericolosissime”.»
Immaginare due fautori del compromesso storico nel ruolo di aguzzini suona improbabile.
«La pensi come vuole, l’ho sentito con le mie orecchie. Moro vivo non lo voleva nessuno. Erano tutti d’accordo. Gli americani decidevano, i politici di casa nostra eseguivano, i brigatisti fecero il lavoro sporco. L’organizzazione era infiltrata a ogni livello ed eterodiretta dai servizi segreti di mezza Europa. Leone fu reticente. Voleva proteggermi: “Maestro – gli dissi – le sembra che ne abbia bisogno?”. Allora mi rivelò i nomi dei due che gli strapparono la Grazia dalle mani: “Zaccagnini e Berlinguer”. Attendo smentite. Non arriveranno. La Democrazia Cristiana ha sempre ucciso i propri figli. Come Crono, se li è mangiati uno dopo l’altro».
Oggi chi somiglia a Crono?
«Angela Merkel. Con lei siamo nei guai. Si parla solo di austerity, mai di ripresa. In certe questioni il riverbero psicologico è tutto e noi ancor prima di essere poveri, siamo depressi. Scoraggiati. Convinti che non esista altra via d’uscita che non sia pagare i debiti fino a morire. Si può essere straccioni illudendosi di essere signori o si può essere ugualmente straccioni intonando la litania del sacrificio e delle cambiali da estinguere. Filosoficamente, ho sempre preferito la prima opzione».
Non è quella scelta da Merkel.
«Viviamo nel sogno infantile della cancelliera tedesca, ma sarebbe meglio dire nell’incubo. Siamo i suoi burattini, i suoi bambolotti, i poveracci che devono ubbidire a questa bambina nazista».
Non le pare di esagerare?
«Mai un’opinione vera, un punto di vista, una frase vitale. Merkel è il niente».
Ora sta preparando un film su Vincenzo Gemito, grande scultore napoletano dell’800. Non ha pensato a un film sulla crisi contemporanea?
«Ci ho provato. Proprio ora, in questo scomposto sputare sulla Grecia, avrei voluto fare un film su Omero. Un Omero che passa tra carri armati, guerre e carestie recitando l’Iliade da solo. Non mi hanno dato una lira: “Che vuoi fare tu? Omero?” Si sono messi a ridere».
Chi le manca oggi?
«Gente come Ugo Pirro. Abbiamo avuto un rapporto bellissimo, avrei trascorso con Ugo mesi e anni, me lo sarei sposato».
Si è invece accompagnato per molti anni con Claudia Cardinale.
«Ci conoscemmo mentre preparavo I Guappi. Franco Cristaldi mi convocò alla Vides. Me la voleva imporre ad ogni costo e io non volevo saperne: un po’ perché gli attori famosi mi disturbavano, un po’ perché arrivava con la raccomandazione. Proposi di farle un provino e Cristaldi mi guardò come se avessi bestemmiato la Madonna: “Se proviniamo Cardinale, si rivolta Roma”. Non si rivoltò nessuno. Neanche lei. Quando andammo a vedere il risultato, lei si appollaiò dietro di me: “Mi ha ripreso male, Squitieri. Sembro grassa”. Mi girai di scatto: “Lei non sembra grassa, signora cara. Lei è grassa”. Non conoscevo ancora la sua determinazione. Si mise a dieta. Perse cinque chili in due giorni».
Poco dopo scappò con lei.
«Claudia era esasperata dal rapporto con Cristaldi e dal solito giretto. Si sentiva in gabbia. Lui che era tutt’altro che un santo, la manteneva versandole un cachet mensile. Se l’era comprata. Sfuggirgli equivaleva a conquistare libertà».
I vostri amici di allora?
«Mario Monicelli lo vedevamo spesso. Quando iniziò la storia con Claudia, Monicelli pensò che tutto il cinema italiano bigotto ci avrebbe abbandonati. Veniva la sera a casa a tirarci un po’ su. Complimentoso. Eccessivamente premuroso. Gli dicevo: “Mario, guarda che non abbiamo nessun bisogno di tutta questa allegria, siamo tranquilli, sereni. Mangiamo e poi andiamo a letto, non devi preoccuparti”. E lui, di rimando: “Lo faccio per amicizia, non c’è nulla di più importante dell’amicizia”. La realtà era diversa. In realtà Claudia se la volevano scopare tutti».
Anche Monicelli?
«Eeehhh, certo, certo. C’era chi c’era riuscito e chi no. Non l’ho mai saputo e non mi ha mai interessato. Sicuramente qualcuno me l’ha tirata. Avevo veramente tolto la fidanzata agli italiani. Ancora oggi, se ho un incidente come quello che ho avuto poco tempo fa, mi riesce impossibile non ricondurlo alle maledizioni di allora. Determinati influssi restano nell’aria».
Qualcuno raccontava che tra lei e Cardinale finisse spesso a schiaffi e che lei del manifesto machista “cazzo e cazzotto” fosse strenuo sostenitore.
«Qualche volta siamo finiti a fare a botte, ma era inevitabile. Ci lasciavamo, ci riprendevamo, l’ho amata molto come oggi amo Ottavia Fusco che ha 27 anni in meno di me. Due donne colte, eleganti, straordinarie».
È straordinaria anche la vecchiaia?
«Non ci crederà, ma è così vera, polverosa e piena di fuochi improvvisi che non potevo aspettarmi di meglio».
Pensa mai alla morte?
«Ci penso e le parlo. Da tanti anni. Cos’è la morte se non un momento bellissimo della vita e un incontro tra un me che va via e un me che rimane? Lasciarselo scappare sarebbe un delitto. Non li ho mai compiuti. Non ho mai ucciso nessuno, io». Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 2/8/2015
Cinema in lutto: è morto Pasquale Squitieri, l’anarcofascista, scrive Priscilla Del Ninno sabato 18 febbraio 2017, su "Il Secolo d'Italia". Alla fine si è arreso alla malattia. Al dolore. Alla morte: si è spento questa mattina a Roma, all’Ospedale Villa San Pietro, circondato dai suoi affetti familiari, il regista Pasquale Squitieri. A dare notizia del decesso il fratello Nicola, la seconda moglie Ottavia Fusco, la figlia Claudia. Aveva 78 anni: la maggior parte dei quali passati a muoversi “contro”. Addio a Pasquale Squitieri, un uomo contro. Controccorente. Contro gli stereotipi. Contro la corruzione e il malcostume. Contro l’inciucio e, soprattutto, sempre contro la banalità e la superficialità imperanti in questo anni per lui troppo vuoti e edonistici persino per essere raccontati dalla macchina da presa. Un uomo rigorosamente contro, Pasquale Squitieri, che della lotta al conformismo più bieco e sterile ha sempre fatto una regola di vita da applicare sul set e fuori dal set, nel privato come nell’impegno civico dimostrato sublimato nei suoi film, sviscerato nelle sue apparizioni (e esternazioni) pubbliche. Un uomo, insomma, che difficilmente avrebbe potuto non lasciare un segno in chi lo ha conosciuto, in chi con lui ha lavorato, in chi con lui ha condiviso anche il semplice spazio di una conversazione. Un uomo a cui hanno sempre invidiato l’amore e la lunga relazione con Claudia Cardinale, sua compagna di vita negli Anni Settanta e partner di tanti successi cinematografici. Un personaggio pubblico a cui in molti non hanno perdonato la sua scelta di campo a destra – esplicitata con l’elezione al Senato nel 1994 nelle liste di Alleanza Nazionale – e coronato sul grande schermo grazie a Claretta, il film ispirato e dedicato all’amante del Duce, da lui stesso definita «una donna innamorata del mito, morta per coerenza». Un regista che ammiccava al nazional popolare dall’alto del suo essere – come lui stesso si era definito – un «anarcofascista». Regista scomodo e rigorosamente disorganico, anti-politically correct già in epoca non sospetta, era nato a Napoli il 27 novembre del 1938 e aveva cominciato a farsi strada nel mondo della settima arte già sul finire degli anni Sessanta: e quando nel Belpaese ancora si era ebbri dei postumi del boom economico e ancora si ancheggiava con il twist – e mentre ci si preparava, prima, e si affrontavano poi, allo sconvolgimento e agli esiti della guerra civile che avrebbe imperversato negli anni di piombo – Squitieri sfidava stereotipi cinefili e luoghi comuni del sociale dirigendo pellicole del calibro di Django sfida Sartana (firmandosi William Redford), Camorra, Il prefetto di ferro e Corleone, solo per citare alcuni dei suoi più rinomati successi di pubblico e di critica. E allora, dalla mafia alla droga, dal terrorismo alle cosiddette “morti bianche”, fino all’immigrazione, è su questi temi – controversi e difficili, di sicuro assai poco seducenti dal punto di vista spettacolare – che il regista ha sfidato comune sentire e convinzioni ataviche, e sempre con quel suo approccio artigianale al cinema e all’immaginario collettivo che il grande schermo evoca e omaggia. Poliedrico, mai banale, il suo sguardo cinematografico ha strizzato l’occhio all’epopea degli spaghetti western come al kolossal storico, senza dimenticare i temi da sempre cari al sociale. Non solo: Squitieri è stato molto spesso anche sceneggiatore dei propri film, che scriveva e dirigeva, molti dei quali interpretati dalla prima moglie Claudia Cardinale – (nel 2013 aveva sposato l’attrice Ottavia Fusco) – con uno stile registico duro e diretto, che ha sempre rispecchiato il suo carattere ruvido di uomo amante della provocazione e di un certo estremismo retorico. Anche per questo, allora, la fama di Squitieri è dovuta soprattutto ai suoi film storico-politici, l’ultimo dei quali, Li chiamarono… briganti!, datato 1999 e incentrato sul brigantaggio postunitario, e che il regista sapeva, già in fase di sceneggiatura, destinato a sollevare non poche reazioni. Ma lui era tosto, un duro. Anzi, come ricordato in queste ore anche dallo scrittore, giornalista e storico Giordano Bruno Guerri – che da Squitieri è stato diretto in Stupor Mundi, un lungometraggio del 1998, tratto dal poema drammatico Ager sanguinis di Aurelio Pes – «era durissimo, sul set come nella vita»…
DOPO ALDO MORO. IN QUESTO MONDO DI LADRI.
In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.
Eh, in questo mondo di ladri
C' ancora un gruppo di amici
Che non si arrendono mai.
Eh, in questo mondo di santi
Il nostro cuore rapito
Da mille profeti e da quattro cantanti.
Noi, noi stiamo bene tra noi
E ci fidiamo di noi.
In questo mondo di ladri,
In questo mondo di eroi,
Non siamo molto importanti
Ma puoi venire con noi.
Eh, in questo mondo di debiti
Viviamo solo di scandali
E ci sposiamo le vergini.
Eh, e disprezziamo i politici,
E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,
Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.
Voi, vi divertite con noi
E vi rubate tra voi.
In questo mondo di ladri,
In questo mondo di eroi,
Voi siete molto importanti
Ma questa festa per noi.
Eh, ma questo mondo di santi
Se il nostro cuore rapito
Da mille profeti e da quattro cantanti.
Noi, noi stiamo bene tra noi
E ci fidiamo di noi.
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.
Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”
In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.
“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl
Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e proprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".
Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».
Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori».
«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.
Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?
«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».
Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.
«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».
Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?
«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».
Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.
Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.
Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.
Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.
SOCIETÀ INCIVILE E RINCOGLIONITA. Scrive Mario Vito Torosantucci su “L’Oservatore d’Italia” il 23/12/2015. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. A volte, sembra di sognare, e poi, quando ti svegli, sei invaso da una strana sensazione di disagio psicofisico che ti fa star male. Ti guardi intorno, e non riesci bene a realizzare se stai veramente nel tuo mondo, in quel mondo dove sei cresciuto, dove hai vissuto momenti indelebili, dove hai imparato dei valori sani della vita, dove si parlava con il prossimo, si discuteva anche animatamente, ci si divertiva e avevamo lo stimolo per ridere, essere ottimisti e credere nel futuro. Giri lo sguardo, sperando di vivere soltanto un brutto sogno, immerso nei pensieri più deprimenti e pessimisti, cercando di convincerti, che quello che vedi non è la tua realtà, e che si dissolverà nell’aria come una nuvola passeggera, dileguandosi, spinta da una folata di vento piena di positività. Quante illusioni! Basta uscire da casa, e ti accorgi subito, che la realtà è un’altra, rievocando la torre di Babele, ti immergi istantaneamente in un caos totale, di ignoranza, maleducazione, cattiveria, inciviltà, aggravata dall’invasione di popoli non per loro colpa, retrogradi, nel quale si ha l’impressione, non di iniziare un nuovo giorno con un certo ottimismo, bensì, con la consapevolezza di andare in guerra, usando un eufemismo appropriato. Salutare il prossimo, è un’opzione remota, del passato, non più di moda, anche se si abita nello stesso palazzo, o occupanti dello stesso parcheggio, però, in compenso ci si guarda in cagnesco, pronti a far esplodere la propria ira al primo indizio negativo. Il menefreghismo, che regna nella maggioranza della gente, oltre naturalmente, una forte dose di maleducazione, induce ad aggravare lo stato di degrado generale che notiamo per le strade. L’ impegno gravoso, per esempio, di pigiare con il piede il cassonetto, per gettare i rifiuti, spinge il cittadino comune, a lasciare il sacchetto per terra, oppure bisognerebbe allargare i fori per la plastica, perché, sempre il cittadino comune, non può perdere tempo a gettare le bottiglie singolarmente, cosicchè è costretto ad incastrare l’intero involucro delle sue bottiglie, lasciando il suo lavoro al prossimo imbecille, che se non vuole accollarsi il lavoro superfluo altrui, lascia il tutto tranquillamente per terra. Camminare sui marciapiedi, è diventato difficile, e per una mamma che spinge il carrozzino, l’impresa è ancora più ardua, perché non c’è lo spazio necessario. Infatti fra escrementi di cani, foglie cadute dagli alberi, particolarmente abbondanti in questo periodo, cespugli che crescono a vista d’occhio, e, dulcis in fundo, le auto parcheggiate con le ruote sui marciapiedi, la gimcana con il complementare pericolo, è d’obbligo per i poveri pedoni. Guai a reclamare con qualcuno, perché il minimo che può capitare è di finire in ospedale, e spesso si è offesi ed umiliati e si è costretti ad andare via, covando dentro di sé quella rabbia, che pian piano ci mangerà il fegato. Osservare le regole nel nostro amabile paese, è diventato un rischio, infatti se per esempio, in auto rispetti i limiti di velocità, fra l’altro, non si sa con quale criteri siano stati stabiliti, puoi essere tamponato e susseguentemente malmenato da chi ti è venuto addosso, per intralcio nel traffico, oppure decidi di accelerare, e così ti prendi una bella multa, per avere superato il limite di velocità. E’ soltanto una questione di scelte soggettive. Discutere con il prossimo, specialmente se è un extracomunitario, è pericolosissimo, perché le armi da taglio abbondano, se non si tira fuori anche qualche pistola, ma le forze dell’ordine, da capire, per una questione di privacy, non possono fermarli e perquisirli, perché li offenderebbero. Gloria ai giudici, che per spirito di giustizia, puniscono i cittadini onesti, che vogliono per forza difendersi, quando capita di essere aggrediti in casa propria, malmenati, e derubati dei propri sacrifici. Onore ai politici, che invece di cambiare un’innumerevole quantità di leggi sbagliate, cosa che potrebbero fare in pochi minuti, si dedicano costantemente ai propri ed esclusivi interessi. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. Una cosa è vera, e bisogna ammetterla; che noi cittadini, abbiamo un fisico veramente bestiale, come diceva una famosa canzone, perché sopravvivere in un mondo inquinato nei generi alimentari, prodotti in campagne che spesso custodiscono scorie chimiche altamente pericolose, medicinali, che dopo tanto tempo usati, si scopre che sono fortemente tossici, è la prova che siamo fatti di ferro. Certo! Qualche volta il ferro si fonde, e, molti sene vanno, ma che importa, il problema si risolve con migliaia di nuovi profughi che continuamente arrivano. In questo caos, la società moderna ha trovato il rimedio. Meglio fare come le tre scimmiette, non vedo, non sento, non parlo, così ci si racchiude in noi stessi, ed il mezzo per farlo è il telefonino. Grandissima invenzione, che ci consente di telefonare, ma ci regala altre cose molto più importanti, quella di estraniarci da tutto ciò che ci circonda, ci fa messaggiare, ci fa fare centinaia di giochini, rendendoci la vita più piacevole, anche se qualche volta, distrattamente si va a sbattere contro qualche palo della luce, oppure addosso alle persone, che non riescono a sparire all’istante. Sui mezzi pubblici il novanta per cento dei passeggeri è assorto nel mondo del proprio cellulare, per la gioia degli scippatori, che al contrario sono molto attenti al prossimo. Conclusione, chi ha una certa età in Italia, oggigiorno, si sente un pesce fuor d’acqua, grazie a questa società incivile e rincoglionita.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
PRIMA DI ALDO MORO. "PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.
ALDO MORO. PALADINO DELLE MASSE.
L'Aldo Moro di Mosse? Paladino delle "masse". Ampio consenso per formare governi forti e attenzione alle istanze provenienti dal basso. Nell'intervista-saggio dello storico statunitense le idee del leader della Dc, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 29/04/2016, su "Il Giornale". A un anno, o giù di lì, dalla tragica uccisione di Aldo Moro lo storico statunitense George L. Mosse, all'epoca già ben conosciuto per i suoi studi sulla «nazionalizzazione delle masse» e sulla fenomenologia del totalitarismo contemporaneo, tentò un'interpretazione del pensiero e della politica dello statista italiano. Lo fece in un'articolata intervista ad Alfonso Alfonsi pubblicata originariamente come introduzione a un volume che, curato dalla Fondazione Aldo Moro, intendeva proporre un'ampia silloge di scritti dell'esponente democristiano, comprese alcune lettere dalla prigionia. Mosse era stato scelto sia perché considerato estraneo al dibattito politico italiano sia perché i suoi lavori erano centrati sul problema della partecipazione delle masse alla vita politica. L'intervento dello storico americano suscitò interesse, ma anche polemiche giunte soprattutto da esponenti democristiani e da studiosi che rimproveravano a Mosse il fatto di non conoscere a fondo la dinamica e le caratteristiche della politica italiana. Presto dimenticato, proprio nell'anno del centenario della nascita dello statista torna in libreria come testo autonomo (George Mosse, Intervista su Aldo Moro, a cura di Alfonso Alfonsi, Rubbettino, pagg. XVIII-124, euro 14) arricchito da una bella prefazione di Renato Moro su Mosse e da un'accurata nota critica di Donatello Aramini. È uno studio importante. Lo è nel quadro della produzione storiografica di Mosse perché costituisce un tentativo di applicare i risultati della sua ricerca sulla società di massa a un periodo storico e a una situazione politica diversi da quelli da lui frequentati. E lo è, soprattutto, per lo sforzo di leggere e interpretare la politica di Moro in un contesto non più soltanto nazionale, ma in una dimensione comparativa che finisce per collegarla all'evoluzione politico-sociale europea e, in particolare, ai fenomeni di trasformazione e crisi della democrazia parlamentare su cui, a partire già dagli anni '50, si era sviluppata un'ampia letteratura di taglio prevalentemente politologico. Secondo Mosse la politica di Moro assume un significato di interesse generale proprio per il fatto di essere collegata a quella crisi del sistema di governo parlamentare propria dei Paesi occidentali e di porsi come un tentativo di risposta alle sfide della società di massa. In quest'ottica, l'essenza della politica sviluppata da Moro si sarebbe risolta in un tentativo di allargamento della «base del sistema di governo parlamentare per cercare di prendere in considerazione la natura della moderna politica di massa». Lo statista democristiano avrebbe finito per diventare, così, il sostenitore di un progetto volto a trasformare il suo stesso partito, la Dc, in una realtà più dinamica e, soprattutto, laica e svincolata dai legami stretti con la Chiesa che ne irrigidivano la struttura e la rendevano inadeguata a percepire i mutamenti di una società di massa in continua evoluzione. Insomma, la posizione di Moro sarebbe stata, se non estranea, conflittuale rispetto al suo partito. Lo statista, secondo Mosse, aveva una concezione dello Stato «come un processo, come un qualcosa continuamente in fieri, un organismo sensibile ai mutamenti» il cui unico punto fermo era il principio del governo rappresentativo: una concezione, in qualche misura, relativistica su cui pesavano le preoccupazioni per la stabilità di un sistema politico che non riusciva a integrare appieno le masse e a generare il consenso necessario per garantire un governo forte ed efficiente oltre che sensibile alle istanze politiche e sociali provenienti dal basso. In questo quadro, la coalizione di centrosinistra, prima, e il compromesso storico, poi, avrebbero dovuto rappresentare, per Moro, dopo l'esaurimento del processo di ricostruzione postbellica del Paese, l'inizio di una nuova fase politica in cui, sono parole di Mosse, «l'accento fosse posto sull'integrazione dinamica dei gruppi che erano rimasti fuori dal processo politico» oltre che «sulla estensione della ristretta area di consenso che si era stabilita subito dopo la guerra». Il progetto di Moro sarebbe stato sempre quello di cercare d'inserire «nell'attività governativa quei gruppi che ne erano rimasti fino ad allora esclusi, attribuendo loro maggiori responsabilità»: i socialisti, in primo luogo, ma anche, in un secondo tempo, i comunisti. Il tutto, ovviamente, nel presupposto che il sistema di democrazia parlamentare non venisse messo in discussione e risultasse, anzi, rafforzato da questa operazione che avrebbe dovuto ampliare l'area del consenso evitando il pericolo, per un verso, di derive golliste e, per altro verso, di slittamenti verso ipotesi di tipo autoritario o totalitario. L'assassinio del leader democristiano da parte delle Brigate Rosse avrebbe avuto come risultato finale non già quello di «ritardare» l'attuazione del disegno di Moro, quanto «quello di far irrigidire a tal punto il quadro politico da far crollare in pochissimo tempo tutte le prospettive» della «mediazione» morotea. Pieno di suggestioni stimolanti, il saggio di Mosse, a una lettura non condizionata dall'emotività del momento in cui fu scritto, rivela tuttavia alcuni limiti intrinseci dovuti sia all'uso di categorie storiografiche e politologiche troppo generalizzanti, sia alla mancata e diretta conoscenza della particolarità della dinamica e delle caratteristiche della storia politica italiana, per molti aspetti assai diversa da quella delle altre democrazie occidentali. Esso pone l'accento sulla coerenza del pensiero di Moro come sviluppo di una linea speculativa che, con l'«umanesimo integrale» di Jacques Maritain e il «personalismo comunitario» di Emmanuel Mounier, si proietta verso un preciso ideale di società cristiana. Ma, ciò facendo, mette in ombra uno dei lati più caratteristici della personalità di Moro, quel suo «pragmatismo» che era all'origine di una prassi politica fondata sulla «mediazione» e sul tentativo di esorcizzare o minimizzare le differenze ideologiche. Il saggio, infine, non riesce a dar conto del fatto che, al di là e al di sopra della concezione che Moro poteva averne, l'esperimento del centrosinistra in Italia maturò per una serie di circostanze, anche internazionali, che si svilupparono a partire dalla seconda metà degli anni '50: l'elezione di Giovanni Gronchi, la teorizzazione del «neoatlantismo», la repressione della rivolta di Budapest con le sue devastanti conseguenze nel comunismo occidentale, l'ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, la presidenza di John Fitzgerald Kennedy e l'elaborazione da parte dell'amministrazione americana di un progetto che intendeva utilizzare l'Italia come «laboratorio politico».
Nell’aula dell’ultimo discorso di Moro, scrive Francesco Damato il 2 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il ricordo: nella sala della conferenza di fine anno, il dirigente Dc parlò prima del rapimento. Seduto nell’auletta dei gruppi parlamentari della Camera per seguire la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, più sentivo Paolo Gentiloni, più guardavo le pareti, più sollevavo gli occhi verso il soffitto, meno riuscivo a sottrarmi al ricordo del povero Aldo Moro. Mi chiederete, a distanza di più di 38 anni dalla sua tragica morte che cosa c’entri Moro con Gentiloni e col suo incontro con i giornalisti, fresco di nomina a presidente del Consiglio. C’entrava e c’entra, forse all’insaputa dello stesso Gentiloni, che all’epoca della vicenda che sto per raccontarvi aveva meno di 24 anni e non immaginava di certo il tipo di carriera politica che lo aspettava, impegnato com’era allora a contestare da extraparlamentare sia la maggioranza sia l’opposizione. Seduto nell’auletta dei gruppi parlamentari della Camera per seguire la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, più sentivo Paolo Gentiloni, più guardavo le pareti, più sollevavo gli occhi verso il soffitto, meno riuscivo a sottrarmi al ricordo del povero Aldo Moro. Mi chiederete, a distanza di più di 38 anni dalla sua tragica morte che cosa c’entri Moro con Gentiloni e col suo incontro con i giornalisti, fresco di nomina a presidente del Consiglio. C’entrava e c’entra, forse all’insaputa dello stesso Gentiloni, che all’epoca della vicenda che sto per raccontarvi aveva meno di 24 anni e non immaginava di certo il tipo di carriera politica che lo aspettava, impegnato com’era allora a contestare da extraparlamentare sia la maggioranza sia l’opposizione. Fu proprio in quell’auletta dove il presidente del Consiglio ha avuto il battesimo del “fuoco” con le domande dei giornalisti smaniosi di spiazzarlo, e di misurarne maliziosamente le distanze dal predecessore e grande assente, Matteo Renzi; fu proprio in quell’auletta, dicevo, che il 28 febbraio del 1978 Moro pronunciò il suo ultimo discorso. Egli aveva compiuto da pochi mesi 61 anni, guidato 6 governi, la Dc per 4 anni, e collezionato tre Ministeri di prestigio come gli Esteri, la Pubblica Istruzione e la Giustizia, destinato infine, secondo tutte, ma proprio tutte le previsioni, a diventare alla fine di quell’anno presidente della Repubblica, alla scadenza ordinaria del mandato di Giovanni Leone. Eppure Moro quel giorno era inconsapevolmente arrivato al capolinea politico. Dopo soli 16 giorni sarebbe stato rapito. Nessuno più, dopo quel discorso, avrebbe più sentito dal vivo la sua voce, eccetto quegli sciagurati brigatisi che si arrogarono addirittura il diritto di processarlo nel loro covo. E infine di condannarlo a morte. L’auletta dei gruppi parlamentari della Camera non aveva allora le luci e i decori di oggi. Era dignitosa ma austera, direi sobria se questo aggettivo non fosse stato rovinato qualche anno fa con l’abuso che se ne fece per commentare abbigliamento, portamento e quant’altro di Mario Monti, per quanto avvolto in due mandati non da poco: presidente del Consiglio e senatore a vita, entrambi conferitigli a pochi giorni o addirittura ore di distanza dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano. Moro la sera di quel 28 febbraio non stava bene. Oreste Leonardi, il giovanile e fedele maresciallo dei Carabinieri che ne comandava la scorta, e lo seguiva ovunque portandosi appresso una borsa in cui custodiva anche le punture che all’occorrenza sapeva fargli se ne avesse avuto bisogno per il cosiddetto “mal bronzino” che l’affliggeva, mi disse che quella volta “il presidente” aveva qualche linea di febbre, non essendo riuscito a smaltire una fastidiosa influenza. A quell’appuntamento con i parlamentari democristiani tuttavia egli non aveva voluto mancare perché solo lui – gli avevano detto il segretario della Dc Benigno Zaccagnini e il presidente del Consiglio Giulio Andreotti – avrebbe saputo rimuovere gli ultimi ostacoli alla chiusura della lunga crisi apertasi alla fine del 1977 per la richiesta dei comunisti di apparire ancora più chiaramente, e non solo di essere decisivi nella partecipazione alla maggioranza di governo. Il Pci di Enrico Berlinguer aveva sino ad allora sostenuto dall’esterno con l’astensione, o “non sfiducia”, il governo monocolore democristiano di Andreotti formatosi dopo le elezioni politiche anticipate del 1976, provocate dall’allora segretario socialista Francesco De Martino con l’annuncio che il Psi non sarebbe più tornato a collaborare con la Dc senza l’appoggio dei comunisti. A Palazzo Chigi c’era in quel momento proprio Moro, a capo di un governo “bicolore” Dc- Pri, con Ugo La Malfa vice presidente del Consiglio. Quell’annuncio era costato carissimo ai socialisti, usciti dalle urne con il minimo storico. Incapaci numericamente di fare a meno gli uni degli altri per governare un Paese alle prese con una drammatica crisi economica e finanziaria e con il terrorismo, democristiani e comunisti avevano concordato una tregua assumendo la linea della cosiddetta solidarietà nazionale, variante del “compromesso storico” teorizzato ancor prima da Berlinguer per scongiurare che l’Italia facesse la fine del Cile col generale Pinochet. Dopo più di un anno di astensione, con i sindacati in agitazione per la politica dei sacrifici praticata da un governo cui però non partecipavano, i comunisti avevano posto il problema di un chiarimento programmatico e di quadro politico. Scartata l’ipotesi, che pure non sarebbe dispiaciuta ad Andreotti, e forse neppure a Zaccagnini, dell’ingresso nel governo di due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci, Moro condusse personalmente con Berlinguer una trattativa sul programma che consentisse ai comunisti di votare la fiducia. Neppure questa prudenza tuttavia era riuscita a placare le insofferenze e le paure nella Dc, sia a destra sia a sinistra: a destra con le resistenze di uomini come Mariotto Segni e Oscar Luigi Scalfaro, pur destinato dopo 12 anni ad essere eletto al Quirinale anche dai comunisti; a sinistra con Carlo Donat- Cattin. Costoro avrebbero preferito un altro turno di elezioni anticipate. Moro pazientemente spiegò quella sera agli uni e agli altri, nell’auletta – ripeto – dei gruppi parlamentari della Camera, che le elezioni sarebbero state di nobile ma inutile “testimonianza”. Ne sarebbero usciti rafforzati entrambi i partiti maggiori, ma a spese dei minori, di cui invece essi avrebbero avuto bisogno per fare una maggioranza di governo che li rendesse anche in Parlamento alternativi com’erano in campagna elettorale. Il passaggio più decisivo di quel discorso, per convincere i refrattari alla nuova e più stringente intesa col Pci, fu paradossalmente un inciso riguardante il Psi, passato dopo le elezioni del 1976 dalle mani del vecchio De Martino a quelle del giovane Bettino Craxi. Che aveva avviato, rispetto al predecessore, un’inversione di rotta all’insegna dell’autonomia, di cui però occorreva sapientemente attendere i tempi non rapidi. Era chiaro che Moro, peraltro convinto, come ho già accennato, di poter arrivare alla fine dell’anno in quel crocevia che era ed è tuttora il Quirinale, aspettasse il ritorno dei socialisti al centrosinistra da lui stesso realizzato in forma organica per la prima volta, con un governo a partecipazione diretta, nel lontano 1963. Ma questo il presidente della Dc non poteva auspicarlo e teorizzarlo con troppa evidenza, con qualcosa di più di un inciso allusivo, perché sapeva che avrebbe in tal caso ferito l’orgoglio del Pci. Di cui lui invece aveva profondo rispetto, tanto che una volta, facendo uno strappo al suo garbo usuale, mandò quasi a quel paese, alla mia presenza, un amico che parlava della necessità di “stanare” i comunisti sul versante ormai non più internazionale, essendosi Berlinguer spinto a dichiararsi garantito pure lui sotto “l’ombrello della Nato”, ma sindacale. Moro lasciò quella sera, quasi notte, l’auletta dei gruppi parlamentari della Camera sfinito, ma soddisfatto di avere compiuto la sua missione di persuasione. In quella mano che mi tese, uscendo scortato dal solito Leonardi per raggiungere l’auto e tornarsene a casa, sentii più abbandono che forza. Un abbandono che ancora mi angoscia quando lo ricordo. Quella d’altronde fu anche per me l’ultima volta che lo vidi. Mi sono sempre chiesto, e torno ancora a chiedermi oggi, perché non sia stata dedicata alla memoria di Moro quell’auletta, anziché la sala al piano nobile del Palazzo di Montecitorio che porta il suo nome ma dove temo c’egli non avesse mai messo piede. Non vi dico la delusione che provai quando, finito lo sfarzoso restauro di quell’auletta ed espressa la mia delusione per l’occasione mancata di dedicargliela, mi accorsi che l’alto funzionario della Camera con cui parlavo non sapesse neppure che lì Moro aveva pronunciato il suo ultimo discorso.
La storia compromettente del "compromesso storico". Quarant'anni fa Enrico Berlinguer rilanciò l'idea (che fu di Togliatti nel dopoguerra) della collaborazione fra Pci e Dc. Ma il flirt durò poco. E indebolì entrambi i partiti, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 27/09/2013, su "Il Giornale". La proposta di un «compromesso storico» fra cattolici e comunisti la lanciò l'allora segretario del Pci Enrico Berlinguer tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre 1973 dalle pagine di Rinascita, la rivista ideologica del partito fondata da Palmiro Togliatti, in tre articoli pubblicati con il titolo generale Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile. Nel Paese latino-americano si era appena consumato il colpo di Stato del generale Pinochet contro Salvador Allende: era stata interrotta traumaticamente la «via cilena al comunismo». Divenuto segretario del Pci nel marzo 1972 dopo esserne stato vice-segretario, Berlinguer si era formato ed era cresciuto politicamente all'ombra di Togliatti e durante la lunga segreteria di Luigi Longo si era rafforzata la sua autorevolezza. Aveva portato avanti la linea del «dissenso» dall'Urss dopo l'invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma al tempo stesso aveva negato la possibilità di un abbandono dell'internazionalismo e di una posizione di rottura nei confronti dell'Unione Sovietica. I fatti cileni suggerirono a Berlinguer una proposta politico-strategica che egli rese nota attraverso quegli articoli senza che fosse prima discussa dagli organismi dirigenti del partito. Ciò anche se in maggio sulla rivista Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, era apparso un ampio dibattito sulla «questione democristiana», in cui Alessandro Natta aveva accennato alla necessità di una intesa fra socialisti, comunisti e cattolici e Gerardo Chiaromonte aveva osservato che sarebbe stato difficile per i comunisti governare anche ottenendo la maggioranza assoluta dei voti a causa della estensione e della influenza delle forze avversarie. Ciò non toglie, peraltro, che la paternità dell'idea del compromesso storico, così come venne presentata, sia senza dubbio attribuibile a Berlinguer. Il caso cileno offriva una lezione importante. Dimostrava che l'unità delle sinistre, da sola, non era sufficiente a garantire la governabilità e che bisognava puntare alla collaborazione fra tutte le forze popolari, partito comunista e democrazia cristiana in primis, e quindi a un sistema di alleanze sociali che coinvolgesse ceti diversi. Al fondo, c'era la convinzione che solo così sarebbe stato possibile sbloccare il sistema politico italiano che, di fatto, anche per la sua collocazione internazionale, non consentiva una alternanza. La formulazione della proposta era chiara: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie, e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». In altre parole, Berlinguer metteva in soffitta l'idea della «alternativa di sinistra» e la sostituiva con quella di una «alternativa democratica» che avrebbe consentito riforme radicali evitando il pericolo di derive reazionarie. La proposta poteva sembrare una novità. E come tale alimentò il dibattito politico. Ma non era così. Il filosofo cattolico Augusto Del Noce osservò che essa era «condizionata interamente dalla linea gramsciana» tanto che, riferita al pensiero di Gramsci, si configurava come «offerta» frutto della «constatazione della maturità storica per il passaggio dell'Italia al comunismo e per il transito dalla vecchia alla nuova Chiesa». D'altro canto lo stesso Berlinguer precisò che l'offerta di compromesso storico non era una «apertura di credito alla Dc», ma doveva intendersi come «sollecitazione continua» per una trasformazione radicale della stessa Dc che ne valorizzasse la «componente popolare» a scapito delle «tendenze conservatrici e reazionarie». A ben vedere, il discorso di Berlinguer riprendeva, con altre parole e in un contesto diverso, il progetto che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, Palmiro Togliatti aveva sintetizzato nella celebre espressione «democrazia progressiva» fondata sulla collaborazione fra le «grandi forze popolari», ovvero comunisti, socialisti e cattolici. Esisteva, per dirlo con Del Noce, una «continuità Gramsci-Togliatti-Berlinguer e delle formule della via nazionale e democratica e dell'accordo dei partiti di massa». Nella visione berlingueriana il compromesso storico avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per «sbloccare» il sistema politico italiano che - in virtù della tacita ma accettata conventio ad excludendum nei confronti del Pci per i suoi legami con Mosca e per la sua monolitica struttura interna di tipo leninista - precludeva ai comunisti l'ingresso nelle stanze del potere. Le opposizioni, più che le perplessità, furono numerose sia all'interno del Pci, dove molti pensavano ancora all'ipotesi della trasformazione del Paese in una «democrazia popolare», sia all'interno della Dc, del Psi e dei partiti laici minori, preoccupati, non a torto, che il compromesso storico si risolvesse nell'incontro fra due «religioni secolari». Comunque sia, alla prova dei fatti il compromesso storico non si realizzò. Gli anni fra il 1974 e il 1978 furono, sì, quelli della grande avanzata elettorale del Pci e del suo ingresso nell'area di potere con l'appoggio esterno al governo monocolore di «solidarietà nazionale» di Andreotti. Ma, al tempo stesso, furono anni - particolarmente difficili anche per l'offensiva del «partito armato» delle Brigate Rosse - che mostrarono come la «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci teorizzata da Aldo Moro fosse sostanzialmente velleitaria. Alla fine proprio il rapimento e l'assassinio di Moro chiusero traumaticamente la strada al compromesso storico. E aprirono una nuova stagione della politica italiana dominata dalla figura di Bettino Craxi e destinata a sua volta a esaurirsi con la fine ingloriosa della prima repubblica sotto i colpi di maglio della «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli.
COMMISSIONE MORO: SULLA VICENDA OPACITA' ED OMISSIONI.
Gli 007 del Parlamento lavorano 5 ore al mese. Le commissioni d'inchiesta: tante e inutili. Volevano indagare pure su Fiat e Pasolini, scrive Domenico Di Sanzo, Giovedì 21/09/2017, su "Il Giornale". Indagare, in Parlamento, non stanca affatto. I James Bond di Montecitorio e Palazzo Madama infatti fanno proprio la pacchia. Secondo i dati diffusi da un report pubblicato dal sito Openpolis, le 15 commissioni di inchiesta parlamentare in Camera e Senato lavorano, in media, cinque ore al mese. Non un minuto di più. Circa 2000 ore di lavoro per 1871 sedute. Il tutto va sommato alle spese elefantiache per il mantenimento di questi carrozzoni: 852 mila euro sprecati da Montecitorio e 751 mila da Palazzo Madama. Così lo strumento che, secondo l'articolo 82 della Costituzione, doveva servire a «disporre inchieste su materie di pubblico interesse» è diventato un bengodi per onorevoli senza poltrona oppure lo specchietto per le allodole di parlamentari in cerca di ribalta mediatica. E oltre a essere inutili sono anche tante, 15 tra Camera e Senato, sulle materie più disparate. A Montecitorio si indaga sugli «effetti dell'utilizzo dell'uranio impoverito», su «contraffazione, pirateria commerciale e commercio abusivo», «digitalizzazione e innovazione della Pubblica Amministrazione», «condizioni di trattenimento dei migranti», «morte del militare Emanuele Scieri» e «condizioni di sicurezza e stato di degrado delle città e delle loro periferie». Il totale alla Camera fa 6. Le 5 commissioni del Senato invece sono su «infortuni sul lavoro», «intimidazioni nei confronti degli amministratori locali», «disastro del traghetto Moby Prince», «ricostruzione della città de L'Aquila dopo il terremoto del 2009» e, dulcis in fundo, c'è il «femminicidio e ogni forma di violenza di genere». Il quadretto è completato dalle quattro commissioni bicamerali che si occupano di «fenomeno delle mafie», «ciclo dei rifiuti», «rapimento e morte di Aldo Moro», «sistema bancario e finanziario». Due di queste non si sono riunite nemmeno una volta, quella sul terremoto de L'Aquila e la bicamerale sul sistema economico e finanziario. Ma le inchieste non bastano mai. Sono ferme nel pantano dei lavori parlamentari oltre 130 proposte di indagine. E c'è n'è un po' per tutti i gusti. Il grillino Claudio Cominardi vuole approfondire la questione degli sgravi statali di cui ha beneficiato la Fiat a partire dal secondo dopoguerra. Fabio Rampelli di Fratelli d'Italia è concentrato sulla «violenza politica dal 1970 al 1989». L'ex M5s Fabio Campanella, poi passato a Mdp, pensa sia importante spendere altri soldi pubblici per un'inchiesta parlamentare sui fatti del G8 di Genova. Gli appassionati di storia si sbizzariscono con proposte sulla morte di Pasolini, la tragedia di Ustica e la scomparsa di Emanuela Orlandi. Tra le idee più curiose, c'è sicuramente la commissione d'inchiesta sul maltrattamento degli animali. Imbattibile il dem Roberto Giachetti che vuole investigare sul «giuoco del calcio». Ma tutto ha un prezzo. Facendo i calcoli, ogni presidente di commissione intasca circa 1200 euro al mese oltre allo stipendio. Più benefit e rimborsi anche per vicepresidenti e segretari. Indagare conviene.
Fioroni shock: «Morucci era del Sisde, ho le carte…». La rivelazione sull’ex brigatista durante un’udienza della commissione Moro, scrive Greta Marchesi il 21 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Il brigatista Valerio Morucci era del Sisde. «Ho le carte dei servizi che dimostrano la sua collaborazione nel 1990», ha detto il presidente della Commissione Moro, Giuseppe Fioroni. I fatti emergono dalla terza audizione di Adriana Faranda, anche lei ex brigatista pentita ed ex compagna di Morucci, durante la quale Fioroni l’ha incalzata: «Il Sisde, con cui Valerio Morucci collaborava a quel tempo, gli chiese cosa pensasse del ritrovamento in via Montenevoso delle fotocopie del memoriale Moro, nel 1990». Lei non ha nascosto lo stupore: «Valerio collaborava con il Sisde? È una cosa che detta così mi lascia sgomenta. Forse gli avranno chiesto una consulenza». E, alla domanda se i servizi segreti ebbero contatti anche con lei, la brigatista ha risposto in modo ambiguo: «Imposimato mi fece incontrare due funzionari del Sisde, ma io rifiutai di proseguire il rapporto. Uno di loro mi disse che aveva fatto perquisire casa mia». Fioroni, in seguito, torna sul tema: «Morucci, parlando in qualità di collaboratore del Sisde, si disse non sicuro che Gallinari avesse distrutto gli originali delle lettere e dei documenti di Moro, Morucci non vedeva ragione per distruggere quelle carte». «Anche io mi sono sempre chiesta perché si dovessero distruggere gli originali dei documenti di Moro», ha risposto Faranda, sottolineando però di non sapere se ci fossero carte a Genova. Durante l’audizione, Faranda ha anche parlato dei rapporti con il nucleo storico delle Br: «La divisione delle Br in una prima e in una seconda fase è arbitraria e scorretta. Noi ci muovevamo soprattutto in funzione delle indicazioni dei capi storici detenuti a Torino. Durante il processo di Torino, il nucleo storico si rifiutò di riconoscersi come un gruppo di imputati. Loro sostennero di essere prigionieri politici e invitarono i giudici a nominare loro un avvocato difensore e l’invito a chi stava fuori era quello di portare l’attacco al cuore dello Stato. Quando furono uccisi Coco e l’avvocato Croce, i comunicati di rivendicazione di chi era in carcere è significativo – ricorda l’ex postina del caso Moro – perché si dice che quell’azione non è una rappresaglia e si parla dei due poliziotti di scorta al giudice come di mercenari uccisi giustamente», tutte «indicazioni precise per chi stava fuori – ha concluso Faranda, ricordando come Franceschini stesso abbia rivendicato di aver scritto oltre l’ 80% della risoluzione strategica delle brigate rosse: quindi loro non subivano le decisioni di chi era fuori. Nella risoluzione strategica c’era già tutto, c’era anche Moro dentro». E ancora, «Franceschini ha rivendicato di avere scritto in carcere il 75- 80% della risoluzione strategica. Solo il 20% è stato scritto fuori. Franceschini disse solo che non era d’accordo sull’impostazione che era stata data al sequestro Moro: per lui non era un processo alla Dc, la discussione fondamentale doveva essere sul compromesso storico. Questo l’ho sentito anche da Gallinari: il compromesso storico era la riprova dell’abilità politica di Moro di imbrigliare il conflitto sociale, ad esempio come avvenne con l’inglobamento del Psi nel centrosinistra». Faranda ha anche confermato di aver ricevuto 36 lettere di Moro. Era però l’esecutivo delle Br, tra cui Moretti, Bonisoli, Azzolini, Micaletto, che decideva che cosa doveva uscire all’esterno e cosa no. E sugli originali del memoriale Moro ha aggiunto: «Mi sono sempre chiesta perchè distruggere gli originali. Mi sembra improbabile che fosse rimasta solo una copia a via Montenevoso».
Caso Moro. Valerio Morucci, uomo dei servizi. Ora lo scopre Fioroni, la Voce lo scrisse 7 anni fa, scrive il 21 settembre 2017 Andrea Cinquegrani su "La Voce delle Voci". Scoppia la bomba. Il brigatista Valerio Morucci faceva parte dei Servizi segreti. La maxi notizia viene fuori nel corso di una delle audizioni della commissione parlamentare sul caso Moro, e a darla è il presidente, Giuseppe Fioroni, il quale annuncia: “Nel 1990 Valerio Morucci era un collaboratore del Sisde”. Peccato che quella bomba sia un tric trac, o poco di più. Da molti anni ormai era a nota a non pochi la militanza doppia di Morucci, Bierre e Servizi. Esattamente sette anni fa, in un’inchiesta titolata “Brigate Rossonere” e uscita ad ottobre 2010, la Voce dettagliava i rapporti di Morucci con i Servizi ed in particolare con un pezzo da novanta, Mario Mori. Giuseppe Fioroni. Ma ricostruiamo i fatti, a partire dall’ultima audizione davanti alla commissione Moro. A deporre c’è un personaggio storico delle Bierre, Adriana Faranda. Arrestata nel 1979, uscì dal carcere 15 anni dopo, nel 1994, da dissociata.
Ecco un fresco report di Rai News 24, datato 20 settembre, e scarsamente attenzionato dai media: Corsera e Repubblica, tanto per citare due autorevoli testate, non ne parlano. “Nel 1990 – esordisce la notizia – il brigatista Valerio Morucci era un collaboratore del Sisde. Lo rende noto il Presidente della Commissione Moro, Giuseppe Fioroni, che sostiene di avere le carte del Sisde che comprovano questa tesi. Fioroni, durante la terza audizione di Adriana Faranda, brigatista ed ex compagna di Morucci, afferma: "Al tempo del secondo ritrovamento di via Montenevoso, il Centro Sisde trasmise il 3 novembre 1990 alla direzione dei servizi del Sisde una serie di valutazioni di Valerio Morucci che all’epoca collaborava col servizio. Morucci collaborava col Sisde e il 3 novembre 1990 trasmisero una serie di valutazioni di Morucci sulla vicenda di Montenevoso". Continua il report: “Faranda si limita a replicare: Detta così mi sgomenta. Fioroni insiste: Questo c’è scritto nelle carte. Se vuole gliele trasmetto. Faranda: Sarà stato che qualcuno gli ha chiesto una consulenza. Non mi pongo la domanda…. Qualche minuto dopo Fioroni torna sull’argomento. Scrivendo Morucci in qualità di collaboratore, consulente, persona informata sui fatti con il Sisde…. Faranda ribatte: Non ne ho la minima idea. Ecco ancora un passaggio riportato da Rai News 24: “Ad un parlamentare che afferma la tesi secondo cui anche il difensore di Faranda, l’avvocato Tommaso Mancini, fosse legato ai servizi segreti, l’ex brigatista risponde: Allora rinuncio…. Ad un parlamentare che subito dopo sostiene la tesi secondo la quale Adriana Franda, da ricercata, mise la testa in una macchina della polizia, l’ex terrorista risponde: No, assolutamente. Mi sento circondata… Posso dire che l’avvocato fu scelto da mia madre, disperata e convinta che fossi innocente. Chiese consiglio a mio padre, che era a sua volta avvocato. Mia madre non era dei servizi. E poi, ancora: “’Io e Morucci – spiega Faranda – avevano come avvocato difensore Tommaso Mancini. Cambiai difensore dopo l’arresto di Maccari, perchè io confermai che Maccari era il quarto uomo e qui scattò l’incompatibilità perchè Mancini era anche il legale di Maccari”. Sono alcuni dei passaggi della terza verbalizzazione. Di non poco valore, comunque. Faranda, infatti, cade dalle nuvole quando sente parlare del suo ex compagno doppio, nella vita e nella politica, come di qualcuno vicino ai servizi: un collaboratore, un consulente o che?
Peccato che la storia sia nota da molto tempo. La Voce realizzò nel 2010 un’inchiesta che partiva da un periodico d’area fascista ed ispirato dall’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno, Theorema, per arrivare a un formidabile tandem che operava in quella struttura redazionale, del resto vissuta pochi mesi: l’ex super capo dei Servizi, Mario Mori, fianco a fianco con uno dei collaboratori di punta, Valerio Morucci. Incredibile ma vero. E come ciliegina sulla torta anche un ordinovista di peso, Loris Facchinetti. Per la serie: attacco a tre punte, Bierre a sinistra, Ordine Nuovo a destra per la regia dei Servizi! La quadratura del cerchio. Osserva un avvocato romano: “E’ la riprova che le Brigate rosse erano eterodirette e sono state infiltrate fin dall’inizio. Del resto era la terapia storicamente consigliata da uno che di terrorismo e servizi se ne intendeva bene, come Francesco Cossiga: la prima cosa da fare è infiltrarsi”. Conferma un collega partenopeo: “Il caso Moro ma anche il caso Cirillo sono la prova del super ruolo giocato dai Servizi. Anche in quel caso il regista del rapimento, sul fronte brigatista, fu l’ideologo Senzani, che aveva buoni rapporti con i servizi segreti”. E poi la sintesi di entrambi: “in moltissime vicende Brigate rosse da un lato, camorra e mafia dall’altro, sono state la manovalanza dei Servizi, che hanno affidato loro gli affari sporchi da sbrigare. Tant’è che restano a volto regolarmente coperto i mandanti di quasi tutte le stragi, dove sono stati assicurati alle galere in alcuni casi gli esecutori, mai i mandanti, i colletti bianchi che agiscono sempre dietro le quinte e sui quali mai si alza il velo”. Tornando a Morucci, nella sua story a quanto pare fanno capolino non solo i servizi di casa nostra, ma anche quelli israeliani. Ecco cosa nel 2010 scrisse la Voce, riferendo il commento di un docente dell’università di Trento: “Anche Renato Curcio ne parlava. Parlava di richieste di incontri da parte del Mossad. Sarebbero avvenuti a Roma, presso fermate di autobus. Ci sarebbe stato, fra gli altri, anche Morucci”.
Torniamo a quel Theorema. Spunta appunto nel 2010, quando Alemanno – per fornire un supporto ideologico alla sua giunta – pensa bene di dar vita a questo laboratorio di intelligenze (sic) per raccogliere il meglio soprattutto a destra ma anche a sinistra. Direttore del comitato scientifico viene nominato sul campo il generale Mario Mori, cui fa compagnia, all’interno dello stesso comitato, un suo storico collaboratore, il colonnello Giuseppe De Donno, che lo ha affiancato in svariate avventure non sempre gloriose. Manca all’appello solo il capitano Ultimo, che in quei mesi però affiancava lo stesso Mori come supervisore per la sicurezza a Roma, incarica assegnato ai due proprio dal sindaco Gianni Alemanno. E oggi Fratelli d’Italia pensa a Sergio De Caprio-Ultimo come asso nella manica per le prossime politiche, dopo averlo già votato per la presidenza della Repubblica nella competition con Sergio Mattarella! In seno alla redazione di Theorema, il responsabile per la politica estera è stato Loris Facchinetti, un pedigree da non poco: missino, Ordine Nuovo, massone, tanto per non farsi mancare niente. Ma l’uomo di punta nel team griffato Mori era proprio lui: Valerio Morucci. Il telefonista del caso Moro, il compagno di Adriana Faranda. Che però oggi, immacolata come una mammola, cade dalle nuvole.
LE INEDITE CONTIGUITA’ TRA BARBE FINTE, EX BIERRE E NAZI, scriveva nel Gennaio 2011 Andrea Cinquegrani su "La Voce delle Voci". Roma. 5 ottobre 2010. Nel cuore chic della capitale, via in Lucina 17, presso la sede della Fondazione Nuova Italia viene presentato il quarto numero di un trimestrale, Theorema. A presiedere la Fondazione c’è nientemeno che il primo cittadino della capitale, Gianni Alemanno, mentre nel folto consiglio di amministrazione fa capolino anche la gentile consorte, Isabella Rauti (figlia di Pino Rauti, fresco di assoluzione “tombale” nell’ennesimo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia). E’ articolata in aree di “studio”, Nuova Italia: Sergio Gallo alla giustizia, Francesca Romana Fragale e Giovanni Monastra per agricoltura e ambiente, Claudio Gaudino allo sviluppo economico, Costantino Lauria per Sicurezza dello Stato e del cittadino, alle Politiche internazionali Loris Facchinetti. Un nome, una storia, quella di Facchinetti. Ecco come viene dipinto nell’archivio della Fondazione (una che serve davvero ad uno scopo sociale) Cipriani: «Ex missino passato a Ordine nuovo, massone del gruppo dell’ex generale fascista Ghinazzi, facente parte della redazione del periodico L’incontro delle genti con Elvio Sciubba, Facchinetti (con tutto il gruppo di Europa Civiltà composto da Serpieri, Tacchi, Orlandini, Borghese) sin dal 1969 aveva stretti rapporti con Miceli. Facchinetti era inoltre in contatto con la P2 perchè vi era transitato ed era in contatto con elementi della Magliana, Egidio Giuliani e Paolo Aleandri». Per aver qualche ulteriore ragguaglio basta scorrere le pagine web de Il Faro Magazine che alla voce “Loris Facchinetti, il più grande italiano vivente”, infila un chilometrico curriculum che va da una dozzina di sigle “umanitarie” sparse in mezzo mondo, fino alla carica (nel passato) di assessore alle politiche sociali del comune di Battipaglia, e alla presidenza del comitato consultivo della Fondazione Caschi Bianchi Europa ai cui vertici siedono l’argentino Octavio Frigerio e per l’Europa il nostrano Antonio Volpe. Insomma, un ottimo biglietto da visita, quello con le onoreficenze di Facchinetti, per la Fondazione promossa dal sindaco di Roma, con fini - evidentemente - altrettanto umanitari. Un Facchinetti davvero iperattivo, visto che pochi giorni dopo la presentazione della rivista di casa, ha promosso per l’8 novembre un convegno dal titolo “Esiliato, rifugiato, migrante. Temi dell’esilio e itinerari dall’Est”, svoltosi presso la Sala del Caminetto di Nuova Italia. E passiamo alla creatura trimestrale, Theorema. Viene edita da una sigla veronese, Noema (con una sede secondaria a Roma, in via XX Settembre), direttore editoriale Nicola Peppe, responsabile Salvatore Santangelo. Il comitato scientifico è coordinato da Alfredo Mantici e composto da Luigi Cardona, Giuseppe De Donno, Nicola Pedde e Sabatino Stornelli. A presiederlo, Mario Mori. Due nomi, quelli di Mori e Di Donno, che riportano dritti dritti ai Servizi segreti di casa nostra, ai vertici del Ros. Due nomi e un destino in comune: assolti (ma con una motivazione che - se letta con attenzione - suona come una condanna che più forte non si può) nel processo palermitano per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina (venne lasciato incredibilmente senza controllo per due settimane, trovato addirittura ritinteggiato e ovviamente privo della cassaforte in cui con ogni probabilità era contenuta la lista da 3000 nomi “eccellenti” pro mafia: «se ne cadeva tutta l’Italia se lo trovavano», dichiarò la collaboratrice di giustizia Giusy Vitale); ma oggi sotto processo, sempre a Palermo, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano.
Proseguiamo con l’organigramma di Theorema. Il coordinamento redazionale è affidato a Carlo Andrea Cardona e Rocco Bellantone. Fra i collaboratori ecco alcune firme: Floriana Barone, Emanuela Del Re, Marta Fresolone, Marco Giaconi, Maria Rita Gismondo, Franz Gustincich, Francesco La Licata, Giorgio Mantici, Luca Mantovani, Valerio Morucci, Carlo Panella, Vittorfranco Pisano. Valerio Morucci? Possibile mai? Il brigatista del caso Moro? Gomito a gomito con l’ex vertice del Ros Mori? Rammentiamo, anche stavolta, qualche pezzo di storia. Morucci, fra i protagonisti del rapimento-eccidio di via Fani, è stato condannato a più ergastoli; poi, però, ha pensato bene di “dissociarsi”, facile percorso per una fortissima riduzione di pena, tanto che è uscito di galera addirittura nel 1994. Commenta lo scrittore Domenico Geluardi: «Mi ha lasciato di stucco leggere un articolo di Morucci su Theorema, una rivista che si occupa di sicurezza, geopolitica e intelligence. Il titolo è “Quando l’illecito diventa lecito” ed il terrorismo non c’entra in alcun modo. L’ex brigatista parla della situazione socio politica italiana, una vera analisi con tanto di attacco finale alla “inconsistenza del Pil”. Nelle poche righe che presentano l’autore si legge che “ha partecipato, tra l’altro, al sequestro di Aldo Moro, al cui epilogo si è inutilmente opposto”. Piccola omissione: ha partecipato alla strage di via Fani, ha sparato. Questo non è solo un dettaglio». Continua Geluardi: «leggo con sgomento che il comitato scientifico è presieduta da Mario Mori e composto da figure di primo piano delle Forze Armate e dei Servizi e anche dal collaboratore storico del generale Mori, Giuseppe De Donno. Proprio il Mori che ha combattuto il terrorismo al fianco del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Mori che ha dichiarato che “uccidere un carabiniere è un reato che più di altri non può restare impunito”. In via Fani il 16 marzo 1978 hanno perso la vita i carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci». E, sconsolato, conclude: «Chissà cosa prova l’ex direttore del Sisde a presiedere il comitato scientifico di una rivista di intelligence che pubblica le analisi politiche di Valerio Morucci. E cosa prova il sindaco Alemanno, che ha chiesto di non dimenticare le vittime degli anni di piombo». E che - guarda caso - ha nominato proprio il generale Mori e l’altro braccio destro nelle sue performances siciliane (soprattutto il mancato controllo del covo di Riina), Sergio Di Caprio (al secolo il capitano Ultimo, immortalato nel serial da Raul Bova) come responsabili della sicurezza per il comune di Roma, incarichi lautamente retribuiti. E ora Alemanno è alle prese con l’inchiesta della procura sulla mega Parentopoli in Campidoglio... Sempre a proposito di Morucci, non mancano altri tasselli del passato brigatista. Che conducono ad altri Servizi. Stavolta di marca israeliana. Ricostruiscono all’università di Trento: «Anche Renato Curcio ne parlava, richieste di incontri da parte del Mossad. Sarebbero avvenuti a Roma, presso fermate di autobus. Ci sarebbe stato, fra gli altri, anche Morucci. Ma a quanto pare non avrebbero portato poi a risultati concreti o a rapporti di qualche tipo».
Non solo Servizi di casa nostra, Mossad oppure Kgb nella bierre story. A quanto pare la “genesi” del movimento (o comunque di una sua significativa costola) è avvenuta con la benedizione dei vertici Usa. Osserva lo “storico” dei servizi segreti, consulente di numerose procure e autore di diversi libri sul tema, Giuseppe De Lutiis: «Non dimentichiamo un tassello fondamentale che si chiama Hyperion, la cellula creata dalla Cia e della quale facevano parte alcuni brigatisti della prima ora come Corrado Simioni, Giovanni Mulinaris e Duccio Berio». I tre, infatti, fanno parte del nucleo originario delle Br, denominato “Collettivo politico metropolitano”, in cui militarono anche Moretti e Prospero Gallinari. La stella di Hyperion - una sorta di super cupola transnazionale in cui confluiscono interessi politici e finanziari d’ogni risma - comincia a splendere in Normandia, in una mega villa nei pressi di Rouen, «la villa dai tre anelli concentrici», sottolinea De Lutiis. «I cerchi, gli anelli - descrive un altro esperto che preferisce l’anonimato - sono una chiara simbologia che torna ancora oggi più attuale che mai, in tempi di super lobbies che valicano i confini nazionali e disegnano i destini del pianeta: e la prossima cyber war scatenata dal caso Assange sta lì a dimostrarlo. Trilateral e Bilderberg, del resto, non sono realtà metafisiche ma, purtroppo, ben concrete e determinanti...». Quella storia, comunque, finì con destini separati. I tre (Berio, Mulinaris e Simioni), dal ‘75 in poi si trasferiscono in Francia, mentre Moretti e Gallinari si dedicarono ai destini bierre in Italia. Ma sarà mai finito il condizionamento degli Anelli targati Cia su tante storie & misteri di casa nostra?
IN PRINCIPIO FU CIRILLO. Torna in libertà Giovanni Senzani, l’ex criminologo brigatista che ebbe un ruolo centrale nel sequestro dell’assessore democristiano della Campania Ciro Cirillo: uno dei misteri italiani, con l’ombra dei Servizi, scriveva nel Gennaio 2011 Cristiano Mais su "La Voce delle Voci". Ex Terroristi, neri e rossi, nazi d’un tempo, eversori d’ogni razza e tacca, oggi tutti rapiti da una comune passione per editoria, stampe & culture? Più di un segnale ci porta in questa direzione. E allora avviamoci in questo impervio cammino tra svastiche e falcimartello: ma soprattutto, sovente, con un comune denominatore che si chiama Servizi Segreti. Zitto zitto, senza rulli di tamburo è tornato libero come un fringuello l’ex numero uno delle Brigate Rosse (in condominio con Mario Moretti per alcuni anni), Giovanni Senzani. L’evento trapela solo a ottobre scorso, «perchè lui vuole mantenere una posizione riservata», commenta il suo legale, Bonifacio Giudiceandrea che del resto aggiunge: «non ha mai concesso interviste, non s’è mai voluto confondere con gli altri ex pentiti, ha sempre mantenuto un dignitoso silenzio».
Criminologo di belle speranze, studi a Berkeley, prime pubblicazioni con Jaca Book (editrice filo Comunione e Liberazione) un bel giorno scopre la lotta armate, ispirato anche dal cognato, Enrico Fenzi. Co-protagonista nel caso Moro (regia morettiana), è l’indiscusso numero uno nel sequestro e, soprattutto, nella “trattativa” per la liberazione del potente assessore dc della Regione Campania, il gavianeo di ferro Ciro Cirillo (nello stesso periodo l’assassinio di altri due dc, Pino Amato e Raffaele Delcogliano). E’ lui, Senzani, in quel 1982, il vero trait d’union tra Br, vertici Dc, camorra e Servizi segreti. Sarà proprio il carcere di Ascoli Piceno, dove è detenuto il capo della Nco Raffaele Cutolo, la meta preferita per gli “incontri”: un vero via vai di delinquenti organizzati, camorristi, brigatisti con la chicca di alcuni pezzi da novanta dello scudocrociato. Sono di allora le voci, sempre più ricorrenti, di «stretti legami di Senzani con pezzi deviati dei servizi segreti». Con l’uomo ovunque, il faccendiere Francesco Pazienza? Con il generale Giuseppe Santovito, piduista e mesi dopo morto in circostanze misteriose? Con uno degli 007 più “esperti”, ossia Adalberto Titta? Cirillo, dopo un paio di mesi, verrà “regolarmente” liberato (al contrario di Aldo Moro che “Doveva morire”, come documentano carte alla mano Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nell’omonimo best seller per Chiarelettere), previo pagamento di un riscatto dall’importo mai chiarito (fra i 2 e i 5 miliardi di vecchie lire), frutto di una colletta tra aficionados della Dc (costruttori impegnati nel dopo terremoto), e transitato in buona parte via Stet (a quel tempo numero uno il piduista Michele Principe) attraverso pubblicità canalizzata tramite compiacenti media vicini alla balena bianca. Scriveva la Voce ad aprile 1989 in una delle tante inchieste dedicate al caso Cirillo: «Il maresciallo Francesco Sanapo del Sismi ha riferito che il tenente colonnello Giuseppe Belmonte gli confidò che la somma complessivamente raccolta era di 3 miliardi, provenienti in parti uguali dalla Dc e da un’operazione fatta da Giuseppe Santovito. Soltanto la metà era stata data ai br; l’altra era stata divisa tra Pietro Musumeci, Santovito, il ministro della Difesa e il “segretario” di Santovito, Pazienza». Un brutto anno, per Giovanni Senzani, quel 1982, perchè viene arrestato per l’omicidio di Roberto Peci, fratello del br Patrizio (considerato un traditore) e massacrato con undici revolverate. E c’è chi non dimentica un particolare non da poco: proprio nei giorni del sequestro Peci, Senzani sarebbe stato visto in compagnia di “un personaggio dei Servizi” alla stazione di San Benedetto del Tronto; un altro incontro, poi, si sarebbe verificato ad Ancona con uno dei vertici dei servizi, Musumeci, piduista, anche lui “impegnato” nel caso Moro e dentro quel “comitato di sicurezza” eccezionalmente varato dall’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga e composto da 11 piduisti su 12. La sentenza a carico di Senzani per l’omicidio Peci? Ergastolo. Trascorso, però, in modo “particolare”. La condanna arriva nell’87, e dura solo 12 anni, perchè nel 1999 ottiene già la semilibertà: di notte in galera a Firenze, di giorno a lavorare in una libreria. Già, quella passione. La sua palestra? La Edizioni della Battaglia (tanto per non cambiare), che per fortuna si trova proprio di fronte alla sede del comando regionale dei carabinieri, legione Toscana.
Torniamo al capo delle Br, la mente del sequestro Moro, Mario Moretti. Di lui, del sequestro, ma soprattutto del quartier generale-covo di via Gradoli, la Voce ha ampiamente scritto in un’inchiesta dello scorso settembre. Documentando civico per civico, immobile per immobile, le proprietà (passaggi di mano compresi) e le “storie” mattonare. Che spesso e volentieri portano a prestanome o a sigle riconducibili ai Servizi segreti. Sottolineano oggi i promotori di un battagliero comitato di inquilini: «Ma si vuol far luce una buona volta su queste proprietà? Su dove realmente viviamo? Sul ruolo dei servizi segreti? Sulle storie di trans e coca che hanno reso la zona pressochè invivibile e quotidianamente pericolosa?». Sempre a proposito del sequestro Moro: ma può mai essere un maledetto caso del destino - o cos’altro - che ha indotto le Br di Moretti a trovare il covo dove nascondere Moro nel posto più infestato di uomini dei Servizi? Ai confini della realtà... «Non ai confini, ma dentro certa fisiologia dei Servizi - osserva un esperto - ricordiamo solo un paio di casi: un immobile vis a vis con la autobomba destinata a Maurizio Costanzo era intestato a uomini dei Servizi segreti. E come dimenticare la storia di Castel Utveggio, con un intero maniero acquartierato sulla collina che dominava la scena di via D’Amelio a Palermo, dove era tranquillamente ubicata una società dei Servizi?».
Moro, Saronio e l’ex Br De Vuono: la commissione d’inchiesta non fa luce, scrive giovedì 21 settembre 2017 "Il Secolo d’Italia”. Un giallo antico sta per essere risolto? Giustino De Vuono, l’ex Br e ‘ndranghetista, il cui nome più volte è stato accostato al caso Moro è morto nel ’94, mentre il giallo della foto scattata a via Fani, il 16 marzo del ’78, dove qualcuno ha sostenuto di riconoscere il volto dello stesso De Vuono, non potrà essere risolto così facilmente. È quanto rendo noto il Presidente dellaCommissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni, a proposito della figura di Giustino De Vuono, condannato per diversi delitti tra cui l’assassinio dell’ingegner Carlo Saronio – rapito e ucciso da estremisti di sinistra – e chiamato in causa come possibile assassino di Moro da alcuni quotidiani all’indomani del 9 maggio 1978, quando venne pubblicata anche la sua foto segnaletica. “Tramite l’arma dei carabinieri – spiega Fioroni – è stato possibile stabilire con certezza la sua data di morte e il luogo di sepoltura. De Vuono, ristretto nel carcere di Carinola dal 16 marzo 1991, venne ricoverato il 1° novembre del 1994 nell’ospedale di Caserta, già operato di aneurisma fissurato, e lì morì il 13 novembre dello stesso anno”. Secondo quanto acquisito dalla Commissione Moro “la salma di De Vuono venne poi tumulata nella tomba di famiglia presso il cimitero di Scigliano, dopo che una regolare autorizzazione del magistrato ne consentì lo spostamento”. “Per quanto riguarda, invece, la foto rinvenuta negli archivi del Messaggero, dove sembra intravvedersi il suo volto in via Fani il giorno della strage, il Ris ha chiarito che non è possibile eseguire utili comparazioni con quelle segnaletiche perché mancano alcuni parametri essenziali per un eventuale accertamento”, ha concluso il presidente dell’organismo parlamentare.
Gero Grassi e la verità sul Caso Moro. Aldo Moro, intervista del Tg Norba del 2 agosto 2017 a Gero Grassi sulle novità dell’inchiesta. La Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro sospende i lavori per la pausa estiva. Ecco le novità emerse nel corso di questo anno fitto di audizioni. A parlarcene l’onorevole Gero Grassi, membro della commissione. In Via Fani a Roma il 16 marzo di 38 anni fa, quando Aldo Moro fu Rapito, erano presenti le Brigate Rosse, oltre ai Servizi stranieri ed italiani ed alcuni membri della banda della Magliana. Al momento della sua uccisione, a maggio dello stesso anno, i brigatisti, quasi certamente, non c’erano. Queste alcune novità sul caso Moro emerse dal lavoro svolto negli ultimi mesi dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta che si sta occupando da circa tre anni per chiarire il rapimento e la morte dello statista pugliese della democrazia cristiana. Oltre 120 audizioni ed interrogatori dai quali sono emersi interrogazioni importanti come spiegato da Gero Grassi, membro della Commissione. “Tra questi quella del capo dell’OPA Abusharif è stata determinante, ma altrettanto determinante è stata quella di Alberto Franceschini, che è stato uno dei capi delle Brigate Rosse. Ma anche alcuni Magistrati e Funzionari di polizia hanno rotto il velo di omertà ed omissione che c’era intorno al caso Moro”. Ma chi ha sparato? Moro fu ucciso con 12 colpi intorno al cuore che non colpirono il cuore. “C’è un’indagine in corso, credo che per fine anno questo quadro si possa definire con un nome ed un cognome preciso. Sono emerse anche altre valutazioni preoccupanti, quali? La permanenza in case di insospettabili di alcuni brigatisti dopo l’omicidio Moro: insospettabili particolari”.
Segue l’intervista di Selene Di Giovine su Studio9tv del 13 febbraio 2017. Lucera, grazie al Rotary Club, ha ospitato l’On. Gero Grassi, promotore della legge istitutiva della Commissione d'inchiesta sulla strage di Via Fani e sull'Omicidio di Aldo Moro. Grassi è' anche membro della suddetta commissione e, da circa due anni, gira l'Italia per parlare di Aldo Moro e svelare la verità sul rapimento e l'omicidio. Sono passati quasi quarant’anni da quel 16 Marzo '78 – giorno del rapimento di Moro – e dal 9 Maggio '78 – giorno dell'omicidio e ritrovamento del cadavere del Presidente DC -. E se, per l'opinione pubblica non sono ancora chiari mandanti e mandatari, per l’Onorevole è doveroso rendere giustizia ad un Uomo e consegnare ai cittadini un'Italia più civile, più democratica, più libera, più sicura. Il caso Moro è contenuto in due milioni di pagine che derivano da: otto processi, quattro Commissioni Terrorismo e Stragi, due Commissioni Moro e una Commissione P2. Volere fortemente l'istituzionalizzazione di una nuova Commissione, dopo aver letto tutti i documenti sopracitati, è propedeutico alla verità giacché, sino ad oggi, la verità non è stata raccontata. Molto, oggi, lo stiamo scoprendo. Quello che racconto non è il pensiero di Gero Grassi ma tutte le parole, citate, sono testuali della magistratura e delle commissioni.
Una storia cupa, che ha visto protagonisti più parti e più interessi e con più vicende.
Gero Grassi e la verità sul Caso Moro. Lucera, grazie al Rotary Club, ha ospitato l’On. Gero Grassi, promotore della legge istitutiva della Commissione d'inchiesta sulla strage di Via Fani e sull'Omicidio di Aldo Moro. Grassi è' anche membro della suddetta commissione e, da circa due anni, gira l'Italia per parlare di Aldo Moro e svelare la verità sul rapimento e l'omicidio. Sono passati quasi quarant’anni da quel 16 Marzo '78 – giorno del rapimento di Moro – e dal 9 Maggio '78 – giorno dell'omicidio e ritrovamento del cadavere del Presidente DC -. E se, per l'opinione pubblica non sono ancora chiari mandanti e mandatari, per l’Onorevole è doveroso rendere giustizia ad un Uomo e consegnare ai cittadini un'Italia più civile, più democratica, più libera, più sicura. Il caso Moro è contenuto in due milioni di pagine che derivano da: otto processi, quattro Commissioni Terrorismo e Stragi, due Commissioni Moro e una Commissione P2. Volere fortemente l'istituzionalizzazione di una nuova Commissione, dopo aver letto tutti i documenti sopracitati, è propedeutico alla verità giacché, sino ad oggi, la verità non è stata raccontata. Molto, oggi, lo stiamo scoprendo. Quello che racconto non è il pensiero di Gero Grassi ma tutte le parole, citate, sono testuali della magistratura e delle commissioni. Una storia cupa, che ha visto protagonisti più parti e più interessi e con più vicende.
“L’opinione pubblica deve andarla a cercare la verità. L’opinione pubblica accanto a San Remo deve studiare la Storia, come stanno facendo le scuole. Cosa c’è di esaltante in tutto questo: cancelliamo tutta la verità che conoscevamo e riprendiamo daccapo. Anche le Brigate rosse hanno fatto il rapimento di Aldi Moro, che significa: che insieme alle Brigate Rosse c’era la Mafia, la Camorra, la ‘Ndrangheta, la Banda della Magliana. C’erano servizi segreti stranieri, CIA e KGB, e pezzi di servizi segreti italiani. C’era anche un pezzo di Vaticano, lo Ior. Hanno fatto una riunione ed hanno deciso di rapire Moro? No! Ma ci sono state le convergenze parallele dell’Ovest, Usa; e dell’Est, Urss, fermi a Jalta per bloccare l’idea di Moro che era la democrazia compiuta in Italia e l’Europa dei popoli”.
Perché 55 giorni di rapimento per poi uccidere Aldo Moro?
“Innanzi tutto perchè le Brigate Rosse erano divise sull’opportunità di ucciderlo o di rilasciarlo. E poi, come lei può immaginare, se lo avessero ucciso in via Fani tutto il clamore che c’è stato non ci sarebbe stato. I 55 giorni sono serviti anche per farsi pubblicità. Usiamo un termine improprio. E per tenere in scacco l’Italia. Lei è giovane, ma in quei 55 giorni il paese fu bloccato in tutti i sensi”.
Sicuramente, appunto, dietro il caso Moro c’è l’interesse internazionale di, come diceva lei di Usa-Urss, ma qual era l’importanza di questo Compromesso Storico?
“Guardi, Moro non voleva questo Compromesso Storico. Il termine Compromesso Storico è di Berlinguer. Moro voleva il confronto con i comunisti e la democratizzazione del Partito Comunista. A tutto questo si opponevano sia gli Stati Uniti che non volevano i comunisti al Governo, sia l’Unione Sovietica, che non voleva i comunisti al Governo, se no, come avrebbe fatto a giustificare i carri armati di Budapest, di Praga e di Varsavia. Quel mondo era cristallizzato ed era fermo a Jalta. Tutto quello che andava oltre Jalta era sgradito e malvisto. Ecco perché Moro è stato rapito ed ucciso.
1974, Washington DC. Kissinger - Segretario di Stato Americano – riferendosi a moro dice: “Onorevole Lei deve smetterla di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo paese a collaborare. O la smette di fare queste cose o la pagherà cara. Veda Lei come vuole intenderla”.
1976, Roma Termini. Alle 19,58 Aldo Moro sale sul treno Roma-Monaco. E' diretto a Predazzo per ricongiungersi con la famiglia per trascorrere le ferie con la famiglia. Il treno parte alle 20.05. Alle 20.03, due agenti dei nostri servizi segreti fanno scendere Moro da quel treno adducendo la scusa che deve, ancora, firmare documentazione importante. Quel treno, per chi non avesse compreso, è l'Italicus che salta in aria nella galleria San Benedetto Val di Sambro. La magistratura su quel treno accerta tre cose: non ci sono colpevoli fisici ma la strage ha una matrice neo-fascista; la polvere pirica utilizzata per la strage dell'Italicus è la stessa di Piazza Fontana, Banca Nazionale dell'Agricoltura, Piazza della Loggia, Stazione di Bologna; la polvere pirica non è a disposizioni degli italiani ma di una struttura internazionale che si chiama Gladio.
1975/76/77 – OP, giornale diretto da Mino Pecorelli, in prima pagina intotola “Moro...bondo”, “E' solo Moro il ministro che deve morire?”, “Con l'omicidio di Aldo Moro scomparirà la presunzione berlingueriana di portare i comunisti al governo.”
Novembre 1977 – Moro scrive al collega parlamentare Rosati “Berlinguer ha i suoi peggiori nemici in Unione Sovietica. Io, in gran parte della Germania e negli Stati Uniti d'America. Sempre nello stesso mese ed anno, nella totale assenza della popolazione Italia e di chi avrebbe dovuto intervenire, a Roma, dopo la gambizzazione di Publio Fiori, sui muri italiani appare una scritta impietosa “Oggi Fiori, domani Moro ”. Nessuno interviene.
Febbraio 1978 – I servizi segreti francesi avvisano i nostri servizi che nel mese di Marzo l'onorevole Moro sarebbe stato rapito. Nei nostri archivi, questo fatto, non risulta. Lo scopriranno Imposimato e Priore solo nel 1982.
2 Marzo 1978 – Il ministero della Difesa a Roma. Partono cinque passaporti falsi insieme con un documento. Chi trasporta questo materiale è G-71, un gladiatore che s'imbarca sulla motonave Jumbo M a La Spezia. La direzione è Beirut. Cosa dice il documento? Prendere contatti immediati con i gruppi del terrorismo mediorientale per la liberazione di Aldo Moro. Carta intestata del Ministero della Difesa. Firma Ammiraglio Remo Malusardi, capo della X Divisione Gladio. Il destinatario? Colonnello Stefano Giovannone, capo dei nostri servizi a Beirut. Il documento viene ricevuto da G 243, capitano dei carabinieri Mario Ferrario. Questi dovrebbe leggere il documento e distruggerlo. Il documento viene letto ma non distrutto. Dopo qualche giorno, Ferrario, viene suicidato nella propria casa. Il capitano, infatti, si impicca al porta asciugamani del bagno, posizionato a 1,20 di altezza e la perizia dimostra, tuttavia, che il porta asciugamani non avrebbe retto il peso. I primi ad arrivare a casa sua sono agenti dei servizi che puliscono la casa di ogni prova. Questa vicenda si interseca con altre due vicende drammatiche che, sino ad oggi, erano coperte dal segreto di stato: nell'Agosto del 1980 due venticinquenni, giornalisti italiani, scompaiono a Beirut. I due giornalisti avevano scoperto che in un campo di addestramento dell'OLP si addestrano i Brigatisti e che gli addestratori, di OLP e Brigatisti, sono uomini italiani di Gladio; i vertici dei nostri servizi, tra cui i generali P2, vengono arrestati per aver favorito commercio di armi ed intascato ingenti guadagni tra le BR e l'OLP.
16 Marzo 1978 – L'operazione dei brigatisti, per rapire Moro, è chiamata Operazione Fritz, parola tedesca per indicare il ciuffo bianco. Moro si dirige in Chiesa per pregare. Quando esce, Moro sale sulla Fiat 132 diretta alla Camera dei Deputati, ma la scorta per raggiungere il luogo arriva in via Fani percorrendo quindi un giro molto più lungo. Perché questa decisone? Il Ministero degli Interni non ha mai dato, in 36 anni, la striscia delle telefonate che la macchina della polizia ha ricevuto in quella mezz’ora. L’operazione di via Fani dura 3 minuti. Rita Algranati, giovane brigatista alza un mazzo di fiori per segnalare agli altri brigatisti l’arrivo dell’auto del Presidente DC. Alberto Franceschini, membro delle BR, ha sostenuto che senza la copertura della CIA, del KGB, del Mossad, loro non avrebbero potuto né rapire né tenere nascosto Moro a Roma per 55 giorni. Chi ha ucciso la scorta era persona conosciuta da quest'ultimi. L'uccisione è stata una esecuzione.
Il caso Moro presenta una moltitudine di attori, principali e non. Vi sono presenti attori che agiscono con atti omissivi, altri con atti attivi. Alcuni interessati alla morte di Moro per destabilizzare il paese, altri interessati alle carte di Moro. Materialmente l'operazione è stata portata a compimento dai brigatisti ma questi sono stati accompagnati da soggetti terzi, statali e non. E' difficile individuare una persona ma è senz'altro vero che possiamo ricercare, trovare, impugnare una corresponsabilità.
Perché Moro? Gli Stati Uniti, come si evince, non volevano che si attuasse la teoria del confronto con il PCI. La Russia non voleva che il PCI si avvicinasse all'area di Governo altrimenti il PCI avrebbe dimostrato che si poteva andare al governo senza l'ausilio dei carri armati. Giacché i comunisti sovietici, nel resto del mondo, erano andati al potere solo con l'ausilio di forze militari, questa anomalia berlingueriana/italiana avrebbe anticipato la caduta del Muro di Berlino.
Perché sequestrarlo per 55 giorni se poi l'hanno ucciso? L'uccisione è ancora un mistero. I brigatisti, nel raccontare la loro verità, commettono una serie di errori ed omissioni che non combaciano. Le BR sostengono di aver ucciso Moro nel cofano della Renault ma è materialmente impossibile che l'abbiano ucciso là. Dove l'hanno ucciso? I brigatisti dicono in Via Montalcini. Non è vero. E' stato ucciso nei pressi di Via Caetani. Quanti colpi sparati? I brigatisti non sanno dirlo. In realtà sono 11, 2 silenziati e 9 normali. Loro sostengono che Moro sia morto sul colpo e questo non è vero. L'autopsia ha dimostrato che l'agonia è durata minimo un quarto d'ora. Perché mentono? Perché anche nell'omicidio i brigatisti coprono soggetti terzi non ancora individuati. D'altronde Curcio e Franceschini sostengono che Mario Moretti sia una spia dei servizi segreti. Non dimentichiamoci che alcuni brigatisti, oggi, sostengono che alcuni dei brigatisti erano infiltrati dei servizi e si fanno i nomi di Moretti, Senzani e Maccari. I dati di oggi ci dicono che anche nell'omicidio i brigatisti non erano soli. Tante zone d'ombra e d'abisso, ancora, ci sono su un fatto nel quale dentro ci sono i servizi segreti, nazionali ed internazionali, la Mafia, la Camorra, la 'Ndrangheta, la Magliana, pezzi delle istituzioni. Selene Di Giovine
9 maggio 1978, verità e menzogne sull’uccisione di Aldo Moro, scrive Francesco Damato il 9 maggio 2017 su "Formiche.net". Per quanto l’attualità politica sia ben altra, quasi all’indomani di due fatti – l’elezione di Emmanuel Macron a presidente della Repubblica di Francia e il ritorno di Matteo Renzi alla segreteria del primo partito d’Italia – che potrebbero finire per intrecciarsi e riservarci sorprese, vedremo se più amare o più dolci, secondo i gusti naturalmente; e mentre Sergio Mattarella riceve all’estero da Roma notizie che lo incoraggiano forse a sperare che sia la volta buona perché si proceda finalmente in Parlamento a varare quella riforma o riformetta elettorale da lui ritenuta necessaria per affrontare una eventuale crisi di governo con tutti i poteri conferitigli dalla Costituzione, compreso quello di sciogliere anticipatamente le Camere, già troppo consumate di loro, e rimandare gli italiani alle urne; per quanto, dicevo, ci siano tante cose a bollire nella pentola dell’attualità politica, non riesco a togliermi dalla testa un ennesimo, triste anniversario. Sono oggi trascorsi ben 39 anni dal 9 maggio del 1978, quando una banda di sciagurati delle brigate rosse – al minuscolo, per favore, come raccomandava la buonanima di Sandro Pertini per non confonderle con quelle omonime da lui conosciute durante la Resistenza, con la maiuscola naturalmente – uccise Aldo Moro, che era allora il regolo della politica italiana, dopo una prigionia di 55 giorni, cominciata col sequestro e la strage della sua scorta a poche centinaia di metri da casa, a Roma. Un omicidio, quello di Moro, dichiaratamente compiuto dagli assassini sparandogli nel bagagliaio di un’auto chiusa in un box della palazzina dove era stato nascosto. Un’auto poi guidata per mezza città, sfidando controlli e incidenti, per essere posteggiata provocatoriamente a due passi dalle sedi dei due partiti -la Dc e il Pci- che avevano impedito di trattare il rilascio dell’ostaggio liberando tredici detenuti per reati di terrorismo definiti “prigionieri politici” dai banditi. Era peraltro anche il giorno di una importante riunione della direzione nazionale della Dc, attesa da Giovanni Leone per firmare, come vedremo, materialmente una grazia nel tentativo disperato di fermare gli assassini.
Già divisasi nella decisione di chiudere il sequestro nella stessa maniera tragica in cui l’avevano cominciato, cioè versando sangue innocente, l’infausta “direzione strategica” delle brigate rosse ordinò l’esecuzione della “sentenza di morte” in tempo per impedire che l’allora presidente della Repubblica, Leone appunto, forse anche per questo costretto poi a dimettersi dai sostenitori della linea della fermezza sei mesi prima della scadenza del proprio mandato, firmasse un provvedimento di clemenza predisposto per Paola Besuschio. Ch’egli aveva scelto in assoluta autonomia e con criteri umanitari, per le sue precarie condizioni di salute, fra i 13 detenuti di cui i terroristi avevano reclamato la liberazione. Così i brigatisti, informati con una tempestività che avrebbe angosciato il povero Leone sino alla morte, nel 2001, si risparmiarono il fastidio, chiamiamolo così, di tornare a dividersi nella valutazione se la grazia alla sola Besuschio potesse essere considerata sufficiente a segnare una loro vittoria nella sfida lanciata allo Stato la mattina del sequestro del presidente della Dc. Che il 16 marzo del 1978 stava recandosi alla Camera per la presentazione del quarto governo del suo collega di partito Giulio Andreotti, appena costituito per disporre della fiducia del Pci guidato da Enrico Berlinguer. E ciò dopo una lunga e difficile trattativa politica condotta per la Dc proprio da Moro. Grazie alla cui capacità di persuasione e di realismo Berlinguer aveva rinunciato al proposito di fare nominare ministri due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci, accontentandosi di passare dall’astensione nei riguardi dello stesso governo alla fiducia negoziandone solo l’aggiornamento del programma. Tutto questo era evidentemente bastato e avanzato alle brigate rosse, e a quanti le controllavano o usavano, a considerare sia Moro che Berlinguer, tenuti di mira da tempo, dei traditori della sinistra e complici del demenziale Stato imperialistico mondiale contro il quale si sentivano impegnati a combattere. E non potendo attentare a Berlinguer, anche perché a quello potevano provvedere direttamente a Mosca e dintorni, come si era già tentato di fare nel 1973 in Bulgaria, attentarono a Moro. Che andava in giro per Roma su un’auto blindata per modo di dire e con una scorta -pace all’anima di tutti i componenti- troppo metodica nei percorsi e soprattutto abituata a mettere nel bagagliaio delle auto di servizio, anziché imbracciarli sistematicamente, i mitra in dotazione.
La notte della Repubblica, come fu chiamata per diverse e tutte fondate ragioni la stagione del sequestro di Aldo Moro, si è purtroppo infittita, anziché schiarirsi, col passare degli anni. Ogni volta che si è cercato di venirne a capo con indagini giudiziarie e parlamentari, al di là della cattura e della condanna degli autori del sequestro, il buio si è infittito, anziché diradarsi. I misteri sono aumentati, anziché ridursi. E i racconti fatti, con deposizioni giudiziarie, memoriali, interviste e quant’altro dai terroristi condannati, nessuno dei quali più in carcere, si sono rivelati sempre più reticenti. Direi, odiosamente reticenti, evidentemente motivati con la necessità di coprire responsabilità e complicità a dir poco inquietanti, capaci di compromettere ancora più di quanto già non sia accaduto il mito ideale e rivoluzionario, sia pure fallito, delle brigate rosse: sempre al minuscolo, vi raccomando. L’ultima menzogna, che infittisce la notte della Repubblica, l’ha appena scoperta la commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda Moro presieduta dall’ex ministro Giuseppe Fioroni con una rilevazione tecnica che incredibilmente nessun inquirente aveva mai ritenuto di effettuare. Si è accertato, in particolare, che l’auto nel cui bagagliaio i brigatisti uccisero Moro, lasciandone tracce di sangue e altro, non poteva materialmente entrare nel box per consentire loro quell’operazione di morte. Doveva sporgervi di parecchio, e finire a vista di qualunque avesse avuto la ventura di uscire dalla palazzina a quell’ora usando la propria vettura, perché i Mario Moretti e compagni a bagagliaio aperto potessero passarsi l’arma e sparare a turno contro l’ostaggio, come hanno raccontato. A questo punto è diventato possibile sospettare, o risospettare, tutto: anche che Moro non fosse stato ucciso in quel maledetto box di via Montalcini, né trattenuto in quella palazzina. E chissà dove, allora. E chissà con quali e quante complicità. E chissà con quanti mascalzoni sfuggiti alle loro responsabilità, e magari ancora in grado di nuocere, almeno alla verità.
Il caso Moro spiega a cosa dovrebbe servire una commissione parlamentare. Contro i doppioni di indagini giudiziarie, scrive Massimo Bordin il 12 Luglio 2017 su “Il Foglio”. "Lo consideravamo l’apice del sistema di potere. Pensavamo che lo stato avrebbe fatto carte false per riaverlo. Sbagliammo completamente valutazione. Fino alla fine sperammo che Moro con le sue lettere fosse in grado di muovere qualcosa all’interno della Dc”. Così ieri Adriana Faranda sentita dalla ennesima Commissione sul caso Moro ha descritto la gestione, anche se il termine è a dir poco inadeguato, del rapimento Moro da parte delle Br. Coincide con l’analisi, mirabilmente sintetica, messa nero su bianco in un libro di qualche anno fa da Aldo Giannuli: “Fecero una strage per rapire Aldo Moro e dopo pochi giorni dal sequestro si accorsero che non sapevano che farsene”. Una commissione parlamentare, piuttosto che doppioni di indagini giudiziarie, dovrebbe occuparsi del senso politico del terrorismo italiano per come rappresentato nelle elaborazioni, nelle azioni e nelle riflessioni successive dei suoi militanti. Sarebbe una indagine forse di qualche utilità e non sarebbe attività impropria, visto che il ruolo di una commissione parlamentare è per l’appunto un ruolo politico. Bisognerebbe partire proprio dalle parole di Faranda citate più sopra. Ma si sa che gli onorevoli indagatori sono interessati a ben altro e anche questa occasione andrà sprecata.
Caso Moro, Adriana Faranda in commissione: “La lista dei 90 nomi? Morucci non ne sapeva nulla”. L'esponente delle Brigate Rosse dice la sua sull'elenco di 90 persone, nomi in codice ed indirizzi di brigatisti noti (tra cui quello di Moretti) e di persone contigue all’area sovversiva, ritrovato nell’appartamento che ospitava lei e Valerio Morucci. E smonta la ricostruzione di chi indaga, scrive Stefania Limiti l'11 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Perentorio, aggressivo e sfrontato Valerio Morucci: “Presidente, non gradisco” disse a più riprese rivolto a Beppe Fioroni. Calma e disponibile lei, Adriana Faranda, ex compagna di Morucci e soprattutto – come lui – componente della colonna romana delle Brigate Rosse che rapirono e uccisero il presidente della Dc, Aldo Moro. Furono entrambi condannati a trent’anni, ma lei fu la promotrice del movimento della dissociazione, grazie alla quale beneficiò di uno sconto di pena: ora è un’apprezzata fotografa. L’audizione alla commissione Moro della “signora delle Br” era attesa da tempo. In due ore ha ricostruito diversi passaggi. Le Brigate Rosse, per esempio, non volevano uccidere Moro, ma l’esecutivo brigatista decise che non si poteva fare altro in “assenza di segnali”, anche se il mondo intero si era mosso per implorare la liberazione del presidente della Dc: da Papa Paolo VI a Fidel Castro, da Arafat al segretario generale dell’Onu fino alla Democrazia Cristiana che avrebbe annunciato l’abbandono del fronte della fermezza la mattina del 9 maggio, il giorno dell’assassinio. Racconta la Faranda: “Con Lanfranco Pace (mediatore nei contatti con i socialisti, ndr) più che una trattativa fu un dialogo, visto che nessuno di noi poteva decidere. Ci vedevamo nei luoghi pubblici: come ci trovava lui, potevano trovarci anche le forze dell’ordine”. La domanda non va posta alla Faranda, dunque, ma certamente non ci fu un’azione investigativa degna di questo nome: i due postini delle Br, lei e Morucci, giravano la città e frequentavano i locali di sempre, mentre Claudio Signorile, alto esponente socialista, aveva informato il comandante dei carabinieri dei contatti in corso. Insomma, fa notare il presidente della commissione Beppe Fioroni, “non vi hanno voluto prendere”. Continua l’ex brigatista: “Eravamo ragazzi sprovveduti, mediamente intelligenti che avevano fatto una cosa di cui non avevano capito le conseguenze”. Insomma: “Speravamo che Moro fosse in grado di rompere il fronte della fermezza”. La Faranda – senza tradire emozioni, composta, disponibile – tiene a dare l’idea di un gruppo di ingenui che giocavano alla rivoluzione. E forse per molti era davvero così. Fioroni fa la domanda che forse lei più di tutte si aspetta e alla quale si è più preparata: “Che ci dice della lista di nomi, quell’elenco di circa 90 persone, nomi in codice ed indirizzi di brigatisti noti (tra cui quello di Moretti) e di persone contigue all’area sovversiva, ritrovato nell’appartamento che ospitava lei e Valerio Morucci?”. Quando Fioroni fece la stesse domanda a Morucci questi vacillò, si capì perfettamente che era un colpo basso, negò che quei fogli fossero suoi, disse addirittura di non conoscerne l’esistenza anche se erano allegati, come corpi di reato, all’ordinanza del suo arresto. La Faranda, invece, coglie al volo: “Sì, presidente gliela spiego io! Avessi buttato quella lista allora, per non sentire queste domande oggi! Si trattata di un elenco ritrovato in un commissariato da alcuni compagni che lo diedero a me, Valerio non ne sapeva proprio niente!”. Risolto il nodo. Morucci disse di non aver mai visto quella lista e che forse era nell’appartamento di Giuliana Conforto, che ospitava lui e la Faranda, e nel quale furono arrestati il 29 maggio del 1979, ma non era sua. Morucci si era innervosito molto, tanto da arrivare a rispondere a Fioroni, a più riprese, con “Non gradisco questa domanda”. Oggi la Faranda vanifica la fonte di prova di una possibile trattativa intavolata per la loro resa in cambio dei loro compagni, scenario dato per certo da fonti della commissione Moro, nel quale avrebbe coinvolto Umberto Federico D’Amato, capo dei servizi segreti interni dal 1961 al 1974. Un patteggiamento che sarebbe stato gestito dalla Squadra Mobile di Roma e avrebbe portato alla verità “taroccata” del Memoriale, firmato da Morucci e Faranda, che consentì al primo di essere presto libero, attivo interlocutore anche di uomini delle istituzioni: ha lavorato per esempio per la G Risk, società di intelligence e sicurezza amministrata dall’ex capo del Ros Mario Mori, come rivelarono tempo fa Emiliano Liuzzie Marco Lillo sul Fatto. Sarà in grado ora la Commissione parlamentare di tornare alla carica? Vedremo, se fino ad ora non era chiaro, la partita è aperta, e diversi sono i giocatori in campo.
Ex magistrato genovese: «Sparite le carte di Aldo Moro trovate in via Fracchia», scrive il 19 giugno 2017 "Il Secolo XIX". Dove sono finite le “carte di Aldo Moro” ritrovate nel covo di via Fracchia a Genova? L’interrogativo torna di attualità perché oggi la commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani e l’omicidio di Aldo Moro ha ascoltato il magistrato Luigi Carli, che all’epoca (28 marzo 1980) lavorava in procura a Genova: «Oggi abbiamo ascoltato l’ex magistrato della Procura di Genova Luigi Carli che ha dato importanti informazioni sulla nota e tragica vicenda del covo di via Fracchia dove i quattro terroristi che stavano all’interno furono freddati dai Carabinieri del generale dalla Chiesa», dichiara il deputato del Pd Gero Grassi, componente della commissione. «Carli ha detto che sentì parlare durante un incontro con i procuratori di Torino Maddalena, Laudi, Caselli e con il pm romano Priore delle "carte di Moro" trovate nel covo durante l’irruzione e che, tuttavia, di quelle carte nulla finì nei fascicoli di indagine». Aggiunge Grassi: «Le affermazioni di Carli andranno riscontrate, dunque l’indagine prosegue ma ricordo che l’allora procuratore di Genova, Antonio Squadrito, a proposito della strage di via Fracchia disse in una intervista a Massimo Caprara nel febbraio 1982: “La verita´ è che abbiamo trovato un tesoro. Un arsenale di armi...Soprattutto una trentina di cartelle scritte meticolosamente da Aldo Moro alla Dc, al paese”. La deposizione di Carli appare perciò per il momento assai significativa». «Non mi risulta niente di niente di quel che viene attribuito al dott. Luigi Carli a seguito di dichiarazioni che egli avrebbe reso alla Commissione parlamentare Moro. Del resto, è fuori di ogni logica che la magistratura torinese possa aver `deciso l’irruzione nel covo Br di via Fracchia´ o possa essersene in qualche altro modo occupata. E ciò per la semplice ragione che la collaborazione di Patrizio Peci coi magistrati di Torino ebbe inizio soltanto il 1 aprile 1980. Prima di allora egli (in veste di semplice `confidente´ dei carabinieri e non ancora di "collaboratore di giustizia"), nel pieno rispetto della legge aveva avuto rapporti esclusivamente con il Nucleo speciale Antiterrorismo diretto dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sono autorizzato dal collega Marcello Maddalena a precisare (confermandolo a mia volta) che di Patrizio Peci in pratica egli non ebbe mai ad occuparsi. Mi è invece impossibile aggiungere anche la smentita di Maurizio Laudi (altro magistrato torinese che Carli avrebbe menzionato), essendo Laudi, com’è noto, deceduto da tempo».
Il figlio di Roberto Rossellini: "Le Brigate Rosse provarono ad uccidermi. Aldo Moro e mio padre erano amici". "A Rebibbia Maccari mi disse che mi aveva dovuto pedinare per 2 mesi perché incaricato di farmi un attentato", scrive di Guido Ruotolo il 10 luglio 2017. Parlando con un vecchio amico, Renzo Rossellini, figlio del grande regista Roberto, con cui condivisi, negli anni Settanta la nascita di Radio città futura (Rcf), una radio militante della sinistra che fu anche al centro di un attacco terroristico dei NAR di Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, riaffiora un episodio che non è mai stato svelato. Le Brigate rosse volevano uccidere Renzo Rossellini.
Renzo Rossellini, come lo venisti a sapere?
"Creai RCF anche per contrastare lo sbandamento di tanti compagni verso la lotta armata. Speravo che dandogli voce preferissero parlare che sparare e, con altri compagni ci siamo convinti che le BR fossero infiltrate dai Servizi Deviati, e rientrassero ancora dentro lo schema della Stategia della Tensione".
E perché le Br avrebbero dovuto ucciderti?
"Anni dopo, per avere informazioni sulla carcerazione di Aldo Moro chiesi un permesso per andare alla biblioteca del carcere romano di Rebibbia, che sapevo essere gestita da un collettivo di cui faceva parte Germano Maccari che era stato un carceriere, il quarto uomo, di Aldo Moro. A Rebibbia Maccari mi disse che mi aveva dovuto pedinare per 2 mesi perché incaricato di farmi un attentato. Ma siccome vide che mi toccavo frequentemente la vita capì che c'era qualcosa di strano e scoprì che ero armato".
Un militante della sinistra rivoluzionaria armato? Un paraterrorista? O armato per legittima difesa?
"In effetti la Digos della questura di Roma, dopo 2 attentati dei NAR a Radio città futura, mi diede un porto d'armi. Io portavo una pistola non in una fondina ma nella cinta ed avevo paura che mi scivolasse via. Maccari mi raccontò che fatta la relazione alla colonna romana delle BR, scoperto che ero armato, desistettero dall'attentato".
Come è possibile? le br che in pochi minuti assaltarono l'auto e la scorta armata di Aldo Moro, uccidendo tutti i poliziotti, desistettero perché tu eri armato?
"Maccari mi disse una frase che ricordo molto bene: "Prima che un poliziotto reagiva noi l'avevamo già colpito, ma un compagno armato poteva farci del male. E noi non volevamo rischiare”. Dopo quell'incontro con Maccari partii subito per gli Stati Uniti, quando tornai seppi che Maccari era morto in carcere".
Di cosa ti accusavano le Brigate Rosse?
"Non era un mistero che ritenessi le Br infiltrate dai Servizi e legate al blocco dei Paesi dell'Est. Ricordo che un compagno palestinese mi raccontò che nel campo di addestramento di Karlovy Vary, creato dal KGB, nella Repubblica Ceca, aveva conosciuto compagni delle BR che si stavano preparando per azioni terroristiche urbane. Mi raccontò anche che il campo di Karlovy Vary era attrezzato come un teatro di posa cinematografico e che dei tecnici ricostruivano esterni ed interni simili al teato dell'azione terroristica. Il sapere che le BR si addestrassero in un campo militare del KGB mi fece fare molte domande e provai a dare risposte?".
Già in una intervista al Fatto, l'anno scorso, hai sollevato il tema della infiltrazione delle Br.
"Per la verità l'ho sollevata svariate volte alla Commissione parlamentare che ha indagato sul sequestro e la morte di Aldo Moro. Ancora oggi ne sono convinto nonostante che a quarant'anni dai fatti nessun pentito o dissociato, nessuna indagine della Procura di Roma abbia accertato appunto i rapporti tra le Brigate rosse e le entità straniere. I servizi segreti russi e cechi".
In quegli anni hai conosciuto Aldo Moro, a casa di tuo padre...
"Ho conosciuto Aldo Moro a casa di mio padre. Erano amici. Quando mio padre morì il 3 giugno 1977 Aldo Moro venne al suo funerale e per farmi le condoglianze si volle appartare con me e parlarmi di mio padre e del suo lavoro, riconoscendogli il merito di avere, con "Roma Città aperta", contribuito a dare nel mondo un'immagine diversa dell'Italia. E che con due martiri antifascisti, un partigiano comunista ed un parroco prefirigurava il compromesso storico".
Quarantacinque minuti prima di via Fani una ascoltatrice di Rcf disse di averti sentito anticipare che quel giorno sarebbe accaduto un evento eclatante. In una intervista dell'ottobre del 1978 a un quotidiano francese confermasti questa tua analisi quella mattina. Fosti preveggente o qualcuno ti informò prima?
"Io aprivo la Radio ogni mattina con una rassegna stampa, i compagni non si svegliavano o non erano così disciplinati da farlo. Quel 18 marzo 1978 si votava in Parlamento un governo con l'astensione del PCI, di fatto nella maggioranza. La mia analisi rifletteva il fatto che le BR erano state sempre presenti in campagne elettorali od altri eventi politici con loro azioni terroristiche e dissi che ci saremmo potuti aspettare un'azione tertoristica. Non nominai mai Aldo Moro ma un'ascoltatrice disse di avermi sentito dire "Oggi le BR rapiranno Aldo Moro". Da qui l'equivoco per il quale sono stato ascoltato da tutte le commissioni Moro. RCF era registrata 24 ore su 24 dal Viminale e dalla Digos e nella registrazione non nomino mai Aldo Moro".
Moro, la Renault 4 e quel garage di via Montalcini: il racconto brigatista non torna. La Commissione d'inchiesta e i Ris nel garage dove, secondo la versione delle Br, uccisero il leader Dc il 9 maggio del 1978 a Roma, scrive Roberta Benvenuto il 4 maggio 2017 su "Globalist.it". Trentanove anni dopo, la presunta scena del crimine politico più misterioso d'Italia torna a rivivere. È via Montalcini 9. E la dinamica da ricostruire è quella dell'uccisione di Aldo Moro il 9 maggio del 1978. Gli spari, la Renault 4 (rossa, come l'originale), le stesse due armi, la mitraglietta Skorpion e la pistola Ppk. Trentanove anni dopo il Ris torna nel garage dove i brigatisti Moretti e Maccari dissero di aver ucciso Aldo Moro. Sulle modalità dell'uccisione si sa che chi ha ammazzato il leader Dc promotore del compromesso storico lo guardò negli occhi. Ma, trentanove anni dopo, sono ancora tanti i punti che non tornano. Il sopralluogo. Ad arrivare per primo nella via della periferia sud-est di Roma, zona Magliana, il comandante Luigi Ripani, l'uomo che guida le operazioni dei carabinieri che stanno ricostruendo le scene del crimine più noto delle Br, quello che Sciascia da subito definì Affaire Moro, dalla strage di via Fani al tragico epilogo, con l'omicidio dell'uomo del compromesso storico nel box dell'appartamento-prigione del primo piano. Ripani è arrivato con sottobraccio il libro Il prigioniero di Anna Laura Braghetti, uno dei quattro carcerieri di Moro, oltre i due che si sono autoaccusati degli spari, c'era infatti Prospero Gallinari, rimasto in casa quella drammatica mattina, che cambiò la storia della Repubblica.
Due domande. Obiettivo (dichiarato) degli investigatori, quello di verificare il racconto di quei momenti. Due le domande principali che la Commissione Moro del presidente Fioroni ha posto: la prima è se è possibile che gli spari, alcuni in sequenza e altri unici, alcuni silenziati e altri no, possano essere passati inosservati, non ascoltati da nessuno, 39 anni fa. La seconda e se quella R4, poi ritrovata a via Caetani, entrasse in quel piccolo box, permettendo in spazi angusti di far sdraiare Moro nel portabagagli, lasciando lo spazio necessario per sparare a chi aveva il compito di uccidere il presidente, mentre l'auto era con il muso rivolto all'uscita, con mezza saracinesca aperta. Attesa per perizia dei carabinieri che verificherà il racconto dei terroristi. Domande a cui il Ris cercherà di rispondere con le sue perizie, che arriveranno a breve. Nel frattempo i tanti politici della Commissione presente, i carabinieri e gli abitanti del condominio, fanno le loro ipotesi. Per alcuni il rumore degli spari è assordante: "impossibile che non si siano sentiti" e quindi qualcosa non torna, per altri, che si sono posizionati nei pianerottoli soprastanti invece "da lì non si sentiva nulla". Alla fine, sono passate oltre quattro ore, e gli uomini del Ris hanno smontato le apparecchiature portate. Le nuove tecnologie, gli apparati elettronici, i misuratori del rumore delle armi e poi la R4, prestata da un comune cittadino, lasciano in corteo il garage. Il 'nuovo' proprietario del box, chiude la saracinesca. "È una storia di quasi 40 anni fa, la casa la comprò mia suocera, ora ci vive mia figlia, ma noi nel garage non abbiamo mai toccato nulla, è rimasto così com'era...". "Il sopralluogo è stato di grande impatto emotivo - racconta Gero Grassi, componente della commissione parlamentare d'inchiesta- anche perché le prove sono state realizzate portando dentro il box una R4 identica a quella usata nel '78 dai brigatisti. La prima forte sensazione che si ha arrivando in via Montalcini è che la presunta prigione del popolo (le Br sostengono che in quel palazzo all'interno 1 è stato tenuto Moro per 55 giorni) sarebbe stata collocata in un luogo assai esposto e pieno di insidie: l'appartamento affaccia sulla strada, contiguo quasi con l'esterno e alle finestre si arriva da una grande veranda. Quanto al box dove sarebbe stata parcheggiata l'auto: non si chiude la saracinesca perché l'auto non entra interamente se ha il cofano aperto. Quindi tutte le operazioni sarebbero state fatte con la porta basculante aperta. Poi non c'è abbastanza spazio per far entrare nell'abitacolo una cesta: mentre le Br sostengono che così hanno portato il presidente Moro all'interno del bagagliaio dove poi è stato ritrovato. Ancora: gli spazi ristretti impongono allo sparatore di essere a dieci centimetri dal volto di Moro. Infine, i colpi sparati dagli uomini del RIS, a noi che eravamo senza protezione acustica, hanno dato l'impressione che scoppiasse una bomba: possibile che nessuno degli abitanti del palazzo sentì rumore quella mattina del 9 maggio?
Aldo Moro, l’ultima perizia e la ricostruzione che potrebbe riaprire il caso, scrive il 10 maggio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Com’è stato ucciso il presidente della Dc Aldo Moro? La perizia di 108 pagine depositata pochi giorni fa dal Ris alla commissione Moro potrebbe riaprire il caso. Gli investigatori segnalano infatti «incongruenze logiche», cioè tracce di spari dove «non avrebbero dovuto esserci». Nel maggio del 1978 sangue del tipo A1MN, compatibile con la sequenza genetica di Aldo Moro (il test del Dna non c’era ancora), fu raccolto dai medici legali sul tettuccio della Renaut 4 all’altezza del sedile posteriore sinistro e sul lato interno del finestrino posteriore sinistro, oltre che nel bagagliaio dell’auto dove - secondo le sentenze, il racconto dei brigatisti e i periti medico legali e balistici - si consumò la sequenza dell’assassinio del presidente della DC.
Omicidio Moro, nuove tracce di spari e sangue nella R4: la perizia del Ris riapre il caso, scrive Laura Larcan Domenica 7 Maggio 2017 “Il Messaggero”. Ad Aldo Moro fu sparato solo mentre era reclinato nel portabagagli della Renault 4 dopo che le Br gli avevano steso una coperta sopra? E perchè allora ci sono altre tracce di sangue di Moro in altre parti della macchina? La storia potrebbe essere riscritta. Una nuova «incongruenza logica» riapre, infatti, il caso sulla modalità di omicidio del presidente della Dc Aldo Moro (era il 9 maggio del 1978) dopo la lunga prigionia di 55 giorni da parte delle Brigate Rosse. Il caso è legato a tracce di sparo e di sangue dove «non dovrebbero esserci». La notizia è di oggi. Il Ris di Roma, nella perizia di 108 pagine depositata pochi giorni fa in Commissione Moro, segnala la presenza "incongruente" di tracce di sparo (GRS) dove non dovrebbero esserci e cioè sull'aletta parasole di destra della Renault 4 e sul “cielo” della R4, quasi al centro dell'automobile. Due presenze, cioè, che riaprono il capitolo delle modalità dell'uccisone di Aldo Moro. Perché la perizia parla di «incongruenza logica»? Facciamo un passo indietro nell'indagine. Nel maggio del 1978 sangue di tipo "A1MN", del tutto compatibile con la sequenza genetica di Aldo Moro (all'epoca non c'era ancora l'esame del DNA), fu raccolto dai medici legali sul tettuccio della R4, all'altezza del sedile posteriore sinistro, e sul lato interno del finestrino posteriore sinistro, oltre che nel bagagliaio dell'auto dove si consumò tutta la sequenza dell'omicidio, secondo le sentenze, il racconto delle Br e gli stessi periti medico legali e balistici dell'epoca. Oggi, dunque, il Ris di Roma, evidenzia una ulteriore incongruenza logica. A ricordare alla Commissione Moro il primo elemento, cioè il sangue di Moro dentro la R4, sono state alcune lettere scritte dai periti Alberto Bellocco e Gianluca Bordin che hanno collaborato per la parte scientifica alla ricostruzione dell'omicidio di Moro nell'inchiesta "Morte di un Presidente" e le relative perizie (140 e 7 pagine) sono agli atti della Commissione Moro dal giugno del 2016. Nei giorni scorsi il Ris di Roma ha consegnato alla Commissione Moro la sua perizia (108 pagine) segnalando sul tettuccio la presenza di vernice (l'unica traccia che ha potuto analizzare) e al contempo la scomparsa di almeno due delle tre macchioline rossastre che per conformazione, struttura e valutazione, seconda la tecnica BPA, erano di sangue. Al momento dei rilievi congiunti Ris-Polizia scientifica - come mostra la comparazione tra le foto del 9 maggio 1978 e quelle dell'11 novembre 2015 - alcune delle macchioline che i medici indicarono come sangue di Moro non c'erano più. Questa doppia presenza rende molto problematico sostenere che Moro sia stato ucciso solo stando racchiuso nel portabagagli dopo che le Br gli avevano steso sopra una coperta. Infatti la stessa non è bucata nella parte superiore e, soprattutto, Moro offre al suo assassinio, collocato secondo la vulgata in piedi fuori dal portellone, solo la parte destra del corpo mentre la sequenza di sparo è concentrata in una area ristretta dell'emitorace sinistro.
Commissione Moro: annunciati nuovi, clamorosi sviluppi. La seconda relazione del gruppo parlamentare d'inchiesta smonta tutte le precedenti certezze su rapimento e uccisione dello statista Dc, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 23 dicembre 2016 su "Panorama". Dimenticate tutto quello che cinque processi ci hanno raccontato sulla strage di via Fani e sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La seconda relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, in 197 pagine, smonta ogni certezza, restituisce dignità alle più inverosimili tesi complottiste e annuncia, per l’anno nuovo, sviluppi clamorosi.
Le novità. Le presunte novità cominciano proprio dall’agguato del mattino del 16 marzo 1978, per il quale l’onorevole Gero Grassi, tra i più attivi membri della Commissione, titola il suo intervento: “In via Fani ci sono anche le Brigate Rosse”. E aggiunge: “Stiamo riscrivendo la storia di Aldo Moro e quindi la storia d’Italia; chi dice che sulla vicenda Moro si sa tutto dice delle plateali bugie”. I brigatisti rimasero feriti e avevano una base dove si curarono. La Commissione – spiega il presidente Beppe Fioroni – si dice certa di aver individuato nei pressi di via Fani un nuovo covo, una base logistica che ha permesso il trasbordo del presidente della Dc subito dopo il sequestro e il ricovero dei brigatisti feriti durante l’assalto (circostanza dedotta dalle tracce di sangue repertate su tre delle auto usate dai Br nel blitz). Di più. Questo covo, “una base di copertura medica”, localizzato in una palazzina di via Massimi, era di proprietà dello Ior, la banca vaticana, e vi abitavano terroristi palestinesi, elementi di Autonomia Operaia e una appartenente alle Br (“atti trasmessi alla procura di Roma e coperti dal segreto istruttorio”). Per la Commissione, inoltre, l’agguato non avrebbe potuto aver luogo se il bar Olivetti, situato in posizione strategica, quel giorno fosse stato aperto. Il presidente Fioroni sottolinea che quel bar era di proprietà di un pregiudicato ben noto alle forze di polizia, Tullio Olivetti, ed era al centro di un traffico di armi con il Medio Oriente e con la ‘ndrangheta. Quanto basta, alla Commissione, per sospettare presenze eterogenee sul luogo dell’assalto.
I palestinesi e l'allarme inascoltato. Nella relazione si torna sulla già nota vicenda del presunto allarme lanciato da un nostro agente segreto di stanza in Libano per confermare i collegamenti tra Brigate Rosse e i movimenti palestinesi. In particolare si racconta che il colonnello Stefano Giovannone, allora capocentro del Sismi a Beirut, il 17 febbraio 1978, inviò una nota su una possibile azione terroristica segnalatagli da George Habash, leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp). Lo stesso Giovannone sarebbe poi partito per Roma, a sequestro avvenuto, per esplorare un canale palestinese di trattative con le Br. “I palestinesi - deduce Fioroni - divennero protagonisti di una trattativa finalizzata alla liberazione di Moro”. E infine, ancora Giovannone, rivelò che le Br avrebbero inviato a George Habash copia delle dichiarazioni rese da Moro nel corso degli interrogatori. Esisterebbe dunque un verbale dell’interrogatorio a cui fu sottoposto lo statista nella “prigione del popolo”, donata da Mario Moretti ai palestinesi – secondo la Commissione – per farsi perdonare di non aver ascoltato l’appello di Yasser Arafat a liberare Aldo Moro e il fallimento della trattativa.
Il superclan e la Raf. La Commissione torna poi a concentrarsi sulla scuola di lingue di Parigi Hyperion, definita - non è ben chiaro su quali nuove e certi elementi – la centrale del terrorismo internazionale che seguì da vicino, inviando un suo emissario a Roma nei giorni del sequestro, la vicenda Moro. I collegamenti porterebbero fino alla Raf, la Rote Armee Fraktion, tanto che gli onorevoli si accingono a chiedere una rogatoria in Germania.
La relazione è solo “intermedia”, ne seguirà una conclusiva alla scadenza della legislatura, se ce ne sarà il tempo. Qualunque sia l’esito del lavoro dei parlamentari che orgogliosamente rivendicano di aver fatto luce “su ampie zone di opacità, inefficienze operative, omissioni nelle versioni rilasciate dai brigatisti, investigatori e uomini politici che hanno impedito a lungo l’accertamento di aspetti centrali della vicenda”, l’unica certezza è che, su Aldo Moro, questa sarà l’ultima commissione parlamentare d’inchiesta.
L’ultimo segreto del sequestro Moro “Le Br inviarono le carte ai palestinesi”. La Commissione d’inchiesta: “L’Olp si offrì di mediare, ma il governo disse no”, scrive Fabio Martini il 22/12/2016 su “La Stampa”. Dai cassetti segreti di una storia infinita come il caso Moro, ora affiora una nuova vicenda che conferma il rapporto privilegiato e oscuro intrecciato dallo Stato italiano con i movimenti palestinesi, nella stagione in cui questi praticavano attività terroristiche: nell’aprile 1978 - quindici giorni prima che il prigioniero Aldo Moro venisse ucciso dalle Br - dunque nel momento di massima crisi dello Stato repubblicano - i Servizi italiani attivarono un canale riservatissimo con i palestinesi per sondare una trattativa. Obiettivo: la liberazione del presidente democristiano. Ma quella trattativa - pur promettente - naufragò: anche perché si capì che sarebbe stato scandaloso, se si fosse scoperto quel canale privilegiato con movimenti che uccidevano da anni cittadini occidentali e che rifornivano di armi proprio le Br, che in quei giorni tenevano prigioniero Aldo Moro. In altre parole quella trattativa segretissima non decollò anche perché avrebbe rischiato di determinare un formidabile corto circuito, accendendo i riflettori sulle ambiguità dello Stato italiano che già da anni aveva stretto un patto top-secret con i palestinesi: a loro la possibilità di far passare fiumi d’armi nel nostro Paese e in cambio l’Italia sarebbe stata risparmiata da azioni terroristiche. La vicenda della trattativa parallela è stata ricostruita dalla Commissione Moro che, oramai da due anni con spirito pragmatico, sta scavando e acquisendo molti nuovi elementi fattuali, ma «evitando il rischio di una storiografia parlamentare», come dice il presidente e relatore della Commissione di inchiesta Giuseppe Fioroni, già ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo Prodi. Storia senza fine quella del rapimento di Aldo Moro: dopo 38 anni, dopo cinque processi, dopo diverse inchieste parlamentari, più si scava, più aumentano le scoperte spiazzanti, capaci di riscrivere interi capitoli di una delle storie più misteriose della Repubblica. La trattativa con i palestinesi è stata ricostruita grazie alla scoperta di documenti, in alcuni casi rimasti secretati per decenni: il 17 febbraio 1978, il colonnello Stefano Giovannone, capocentro Sismi a Beirut, invia un messaggio ai superiori di Roma su una possibile azione terroristica in Italia, come segnalatogli da ambienti vicini al leader palestinese George Habbash. Allarme sottovalutato. Il 16 marzo Moro viene rapito e a fine aprile si apre lo spiraglio per una trattativa. Il 23 Moro, nelle mani delle Br, spedisce una lettera, nella quale consiglia di far richiamare Giovannone a Roma, cosa che si concretizza immediatamente. L’«ambasciatore» dell’Olp a Roma Hammad chiede un incontro urgentissimo al ministro dell’Interno Cossiga, ma la trattativa si blocca di colpo. Per diverse ragioni. Compresa la spaccatura nelle Br sulla sorte di Moro, che il 9 maggio viene ucciso. Ma per avere un’idea dei rapporti tra le Br e i movimenti palestinesi, interessante anche la scoperta di un messaggio di Giovannone del giugno 1978 che da Beirut segnalava: «Le Br avrebbero fatto pervenire in questi giorni personalmente ad Habbash copia di dichiarazioni rese dall’onorevole Moro nel corso di interrogatori subiti». Commenta il presidente Fioroni: «Tale notizia, se verificata, confermerebbe ciò che da tempo si sospetta, ovvero un uso politico e spionistico delle carte e delle dichiarazioni di Moro». Un altro fronte sul quale la Commissione ha scoperto una clamorosa anomalia riguarda la cattura di Valerio Morucci e Adriana Faranda, due brigatisti dell’ala trattativista, in quei giorni fatidici in contatto con il mondo politico ed intellettuale che si mosse per liberare Moro. Ambienti che negli anni successivi hanno aiutato ad avvalorare la veridicità del «Memoriale Morucci», diventato «vulgata» per tanti libri sul caso Moro. Secondo quella «vulgata brigatista» le modalità dell’arresto dei due furono molto aspre. Una versione contestata da anni da chi ipotizza una «resa» concordata, una sorta di scambio che - attraverso il Memoriale - avrebbe consentito di mettere una pietra tombale sulle tante ambiguità che connotarono il rapporto tra Br e Stato. Ebbene, la Commissione ha scoperto l’esistenza di due diversi verbali in occasione dell’irruzione del 29 maggio 1979. Due documenti contrapposti. Nel verbale di perquisizione, redatto a caldo, si racconta che i due non opposero alcuna resistenza e anzi, secondo l’ispettore Nervalli, «sembrava che i due si stessero costituendo». Mentre nella relazione inviata l’indomani alla magistratura si riporta la descrizione di un’irruzione «fulminea» che avrebbe preso di sorpresa i due brigatisti, bloccati nell’atto di prendere le loro armi per abbozzare una resistenza. Originale anche il destino della padrona di casa: Giuliana Conforto, figlia di uno dei principali agenti del Kgb in Italia, all’inizio pesantemente imputata, uscì dai processi perché fu accettata la tesi di una sua inconsapevolezza sull’identità di Morucci e Faranda.
Omicidio Moro, la relazione della commissione di inchiesta: forse in uno stabile dello Ior la prigione dell'ex leader Dc, scrive su L'Huffington Post Di Maria Antonietta Calabrò il 21/12/2016. Per ora è un’ipotesi investigativa, ma piuttosto corposa, non più solo un’ipotesi di lavoro, e di conseguenza, la dinamica del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro sembrano sempre più da riscrivere. Due palazzine dello IOR di via Massimi 91, alla Balduina (una zona residenziale a nord ovest della Capitale, ndr), potrebbero essere state usate almeno per i primi dieci giorni del sequestro, come base logistica o addirittura come “prigione del popolo” per la detenzione dello statista democristiano. La Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni ha inviato atti e testimonianze frutto di un anno di accertamenti alla Procura e alla Procura generale di Roma e sono in corso nuove indagini. Perché ai tempi del sequestro delle BR i controlli delle forze dell’ordine in quella zona si fermarono proprio davanti al complesso residenziale costruito dalla cosiddetta banca vaticana tra il 1965 e il 1970 e di cui l’Istituto per le opere di religione è rimasto proprietario fino a dieci anni fa (2006), quando il comprensorio finì nella maxivendita degli immobili IOR per cui gli amministratori sono stati messi sotto inchiesta per peculato dal Procuratore vaticano. “La Commissione ha indagato con particolare impegno sulla tematica della presenza di un possibile covo brigatista nell’area della Balduina”, si legge nella seconda Relazione della Commissione approvata nella serata di martedì 20 dicembre e illustrata in una conferenza stampa a palazzo San Macuto. Si tratta di uno sviluppo clamoroso che segue quanto già esposto nella Relazione 2015 relativamente alla dinamica dell’agguato di via Fani e dell’abbandono di un’auto dei brigatisti, la 128 blu targata Roma L55580, in via Licinio Calvo, dove venne ritrovata mezzora dopo la mezzanotte del sabato successivo al rapimento, il 19 marzo 1978. Il fatto che tutte e tre le auto servite per la fuga furono lasciate in tre diversi momenti, a distanza di tempo l’una dall’altra, in una zona limitrofa a via Fani, già dall’inizio venne considerata dagli investigatori segno evidente di grande padronanza del territorio di cui diedero prova le BR. Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza effettuarono ricerche nella zona (fra via Bitossi, via Licinio Calvo, via Alfredo Serranti e via Massimi) per individuare il “garage compiacente” che poteva aver ospitato innanzitutto la 128 bianca e la 128 blu. Ma non emerse nulla perché le perquisizioni si fermarono davanti all’ampio comprensorio di via Massimi 91, che pur non godendo dell’extraterritorialità in senso giuridico, venne risparmiato: fu trattato con riguardo, quasi fosse impensabile andare a guardare là dentro, tra gli affittuari della banca vaticana. La Commissione Fioroni (che ha i poteri d’indagine dell’autorità giudiziaria), riprendendo gli accertamenti sin dall’inizio, ha svolto autonomamente i suoi riscontri, sia acquisendo documenti sia con l’acquisizione di molte testimonianze e adesso nelle pagine della nuova Relazione “tra i principali filoni di indagine sviluppati e le prime risultanze “vengono messi sotto i riflettori i due stabili dello IOR. Con un’avvertenza importante: “Con tutti i limiti di ciò che allo stato dell’inchiesta può essere reso pubblico”. “È stato in tal modo possibile dare sostanza ad un’ipotesi, da tempo sostenuta da varie fonti, sulla presenza di una base brigatista non lontana da via Fani”, afferma la Commissione d’inchiesta. Continua la Relazione: “Le due palazzine in questione, di proprietà dello IOR, registrano una serie di presenze significativamente legate all’area politico-ideologica in cui è maturato il sequestro dell’onorevole Moro, tra le quali quella di un soggetto straniero, la cui presenza è confermata da più testimoni; quella di un esponente dell’Autonomia operaia romana anche nel periodo del sequestro Moro; quella di almeno un militante regolare delle Brigate Rosse, con disponibilità di regolare accesso in periodo successivo al sequestro”. “Tali presenze - aggiunge il documento - risultano peraltro insediate, con modalità che sono in corso di accertamento, in una realtà profondamente diversa in quanto il condominio era abitato, in ragione della sua proprietà, oltre che da privati, da prelati ed era sede di società estere”. Quest’ultima notazione aggiunge giallo al giallo. Il comprensorio di via Massimi 91 è costituito, si diceva, da due palazzine, la A e la B, con molti garage che hanno accesso diretto ai vari piani, grazie ad ascensori, e un grande spazio verde con giardini e alberi ad alto fusto. La palazzina che si ipotizza possa essere quella utilizzata dalle BR è la B. Non solo per nascondere le auto, visto che già nel novembre del 1978 in una relazione del Commissariato Monte Mario al Questore di Roma si scrisse di “un garage attraverso il quale i rapitori dell’On. Moro lo avrebbero condotto nel luogo di prigionia”. L’appartamento-covo si sarebbe trovato all’ultimo piano, sovrastato da un terrazzo che costituisce il punto più alto di tutti gli edifici della Capitale. Dopo la vendita del 2006 gli appartamenti sono stati totalmente ristrutturati e completamente riorganizzati negli spazi interni.
Caso Moro, “covo Br in palazzina dello Ior: forse una delle prigioni del presidente Dc”. Gli investigatori della Commissione d'inchiesta hanno individuato uno stabile in zona Balduina, proprio vicino via Mario Fani. Pubblicata la seconda relazione: trattativa aperta grazie all’Olp di Yasser Arafat, con l’intermediazione del famoso colonnello Giovannone, ma ai primi di maggio qualcuno la fa saltare, scrive Stefania Limiti il 21 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Occhi puntati su via Massimi, zona Balduina, proprio vicino via Mario Fani. Lì c’è una elegante palazzina, nel ’78 proprietà dello Ior, la Banca vaticana, dove gli investigatori della Commissione Moro hanno individuato un covo delle Br e dove assai probabilmente fu organizzata la prigione di Moro. E’ su quest’ultima ipotesi che si allungano le ricerche. Le novità più ‘pesanti’, da quel che si apprende, non sono state pubblicate nella II Relazione sull’attività della Commissione d’inchiesta: tutta roba che resta secretata per tutelare il lavoro istruttorio ma che è già sul tavolo della Procura di Roma. I punti di partenza delle indagini sono stati tre: una nota della Guardia di Finanza che nell’immediatezza dei fatti parlava di una sede ‘extraterritoriale’, vicina al luogo dell’agguato, come possibile punto di primo riparo; alcuni accertamenti compiuti a suo tempo dalla polizia anche in seguito alla pubblicazione di un noto articolo di Pietro Di Donato pubblicato sul numero di dicembre 1978 della rivista statunitense Penthouse, nel quale venivano forniti precisi e inediti particolari; la ricostruzione delle modalità con cui sono state abbandonate le auto usate per l’agguato: i brigatisti le hanno parcheggiate tutte lì, in via Licinio Calvo, tornando su luogo del delitto, ma non dopo pochi minuti, come vuole la loro versione, ma in varie tappe nelle successive 48 ore. L’ipotesi è che in realtà furono subito messe dentro un garage nel covo di via Licinio Calvo e gradualmente riportate e abbandonate in strada. Anche la 132 su cui venne fatto salire Moro fu lasciata lì qualche istante successivo alla fine dell’operazione (tra le 9,15 3 le 9,23 per l’esattezza). La ricostruzione contrattata della verità tra Br e una parte della Dc (Cossiga) non regge: gli investigatori della Commissione sono andati ad ascoltare uno ad uno tutti gli ex abitanti della distinta palazzina scoprendo che alcuni personaggi legati agli ambienti dell’eversione frequentavano quel luogo, anche durante i 55 giorni del sequestro. Tra le accertate e significative presenze: una persona straniera, un esponente dell’Autonomia operaia romana e, dopo la fine del sequestro Moro, un militante regolare delle Brigate rosse. Tre persone ‘insediate’ in una realtà tipicamente “borghese”, dove era alta la presenza di società estere (pare con interessanti attività) e di prelati. Lo studio della zona, e del tratto di strada percorsa per arrivare nel garage della palazzina, permette anche di spiegare uno dei tanti dettagli rimasti da allora in sospeso: cioè le infiorescenze ritrovate sulla Fiat 132 sulla quale era stato fatto salite l’ostaggio. La novità è dunque importante. Il presidente Fioroni promette di arrivare a stabilire un punto fermo con le indagini in corso che si protrarranno fino alla fine della legislatura – dunque potrebbero anche avere vita assai breve. Di grande interesse anche il filone che ricostruisce, in modo solido, l’esistenza di una trattativa aperta grazie all’Olp di Yasser Arafat, con l’intermediazione del famoso colonnello Giovannone, giunto a Roma intorno al 13 aprile, dato fino ad oggi non noto: l’esito sembrava felice, Francesco Cossiga, ministro dell’Interno ne era al corrente. Trattativa alla quale sembra partecipare anche lo stesso prigioniero – Leonardo Sciascia lo scrisse già nell’ottobre ‘78, aveva qualificate fonti o una sua suggestione? Moro, infatti, proprio in quei giorni scrive due lettere nelle quali si sofferma sullo scambio di prigionieri e sollecita l’attivazione di Giovannone. Siamo arrivati ai primi di maggio: ma qualcuno fa saltare il tavolo e chiude ogni possibilità di restituire Moro vivo. Tanti i filoni aperti: il doppio livello dell’arresto di Morucci e Faranda – il ritrovamento di due diversi verbali della perquisizione dell’appartamento di viale Giulio Cesare dimostra che si consegnarono quel 29 maggio del 1979, giorno in cui è stata avviata la collaborazione con alcuni esponenti politici per concordare una verità ‘sostenibile’; la conservazione da parte della ’ndrangheta di un’arma usata in via Fani – sono in corso attività di comparazione balistica sui reperti di via Fani e di via Caetani, promosse dalla Procura di Roma, nell’ambito del coordinamento tra la Commissione, la Procura della Repubblica di Roma e quella di Reggio Calabria; il ferimento di una o più persone del commando, mai ammesso dai brigatisti. Serrato l’impegno, in particolare del senatore Federico Fornaro, nelle ricerche su Hyperion, la scuola di lingua o “camera di compensazione tra i servizi segreti più importanti della Guerra fredda”, secondo quanto ha riferito l’ex capo di Glazio Inzerilli ad Alberto Franceschini (e da quest’ultimo riferito in audizione lo scorso novembre). Si devono a Carlo Mastelloni gli approfondimenti del passato che la Commissione sta ampliando: in Italia l’attività di Hyperion è riconducibile al gruppo del Super Clan (nati da una scissione dalle Br) e a un personaggio di grande calibro, Corrado Simioni. Il gruppo poteva contare sulla disponibilità di “centri studi” e appartamenti: a Milano, Genova Nervi, Venezia e di una attività commerciale – di cui si ha un riscontro certo negli anni 1977-1979 – nell’ambito della Dip (Diffusione Italiana Periodici), promozione e vendita delle riviste “Ordine Pubblico”, “Nuova Polizia – Riforma dello Stato”, “Notiziario Finanze e Tesoro” e altre. “Chi ancora sostiene che sul caso Moro si sa tutto – conclude il componente della Commissione Gero Grassi – dice una plateale bugia, coprendo sue o altrui responsabilità”.
Cosa (non) si sa dell’omicidio di Aldo Moro. Il rapporto della commissione Fioroni, scrive Stefano Vespa su "formiche.net" il 22/12/2016. Ci sarà ancora parecchio da scavare e usciranno ancora importanti novità dal lavoro della commissione d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. La seconda relazione, presentata il 21 dicembre dal presidente della commissione, Giuseppe Fioroni (Pd), sintetizza un anno di lavoro con 100 mila documenti acquisiti e conferma che quella vicenda si è svolta in modo molto diverso da come l’abbiamo conosciuta. Un covo non individuato, le tracce di sangue riconducibili ai brigatisti, la sottovalutazione dell’allarme che arrivò dal Medio Oriente, il fondamentale ruolo dei palestinesi nella trattativa, il traffico d’armi e l’oscura figura del titolare del bar Olivetti in via Fani sono alcuni dei passaggi più importanti ricostruiti nella relazione e che andranno approfonditi nei prossimi mesi: la commissione è prorogata fino alla fine della legislatura, ma sarebbe davvero opportuno che potesse proseguire anche in quella successiva. Il covo alla Balduina. Sembra ormai certo che al quartiere Balduina di Roma, a pochissima distanza da via Fani, ci fosse un covo che forse fu la prima prigione di Moro. Si parlò subito di palazzine che potrebbero essere appartenute allo Ior, la banca del Vaticano, perché si è sempre cercato un garage dove le auto brigatiste si sarebbero subito dirette. Le indagini dell’epoca non portarono a niente, anche se l’ennesimo indizio è giunto dall’audizione del 29 giugno di Mario Fabbri, all’epoca del sequestro in servizio all’ufficio politico della Questura e dal novembre successivo al Sisde. Fabbri effettuò i primi rilievi sulla Fiat 132 ritrovata in via Licinio Calvo e nella quale c’era una coperta. Un cane inviato subito dalla Questura l’annusò ma, ha detto Fabbri, “non fece più di venti metri” fermandosi all’altezza delle scale che portano verso viale delle Medaglie d’oro. In quelle palazzine sembra abbiano abitato soggetti legati in qualche modo al sequestro, tra cui una persona vicina alla Raf, un’altra dell’Autonomia romana e (dopo il sequestro) un brigatista. E’ evidente che dimostrare la presenza di quel covo farebbe di per sé riscrivere la storia del rapimento. I brigatisti feriti. Riesaminando gli atti dell’epoca, la commissione d’inchiesta ha avuto la prova che in tre auto Fiat usate in via Fani furono riscontrate tracce di sangue. Dunque, almeno un brigatista rimase ferito: non si sa come né i br l’hanno mai rivelato. Nella relazione, viene specificato che “è in corso un’attività volta alla attribuzione dei profili genetici che sono stati isolati da mozziconi di sigaretta che erano stati sequestrati all’interno della Fiat 128 familiare con targa CD, utilizzata dagli attentatori per arrestare la marcia dell’auto che ospitava l’onorevole Aldo Moro”. Uno dei profili è del proprietario del mezzo, ovviamente estraneo ai fatti. Altri quattro profili (due riconducibili a uomini e due a donne) sono stati estrapolati dai reperti del covo di via Gradoli. Alcuni degli interessati rifiutano però di sottoporsi agli esami: nella relazione si legge che “i brigatisti individuati e, in caso di latitanti o deceduti, i loro prossimi congiunti sono stati tutti rintracciati; alcuni hanno prestato il loro consenso a sottoporsi al prelievo”. L’allarme sottovalutato e il ruolo dell’Olp. Un’altra conferma riguarda il famoso messaggio inviato dal colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi di Beirut e “uomo” di Moro: il 17 febbraio 1978 scrisse di una “operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei, che potrebbe coinvolgere il nostro Paese”. La sua era una fonte palestinese dell’Fplp. Il lavoro della commissione ha confermato che l’allarme fu sottovalutato e di fatto, è scritto nella relazione, “oggetto di una trasmissione prevalentemente burocratica ai centri locali”. Il 17 marzo Giovannone riferì che “George Habbash, contattato stanotte da Arafat… sin dalle prime ore di stamattina ha attivato i suoi elementi in Europa Occidentale per avere notizie [sul rapimento]”. Lo stesso Yasser Arafat cercò di un contatto qualificato, soprattutto tramite esponenti della Raf tedesca, per giungere a dialogare con le Br. La commissione ha rintracciato i documenti datati 24, 25 e 28 aprile dai quali emergono forti aspettative su un esito positivo del sequestro, periodo nel quale Giovannone era rientrato a Roma, come risulta da una conversazione del 13 aprile 1978 con Nicola Rana al quale diceva di essere nella Capitale e a disposizione. Mesi di trattative. In quelle settimane l’ottimismo cresceva, tanto che Nemer Hammad, il rappresentate dell’Olp a Roma, il 28 aprile aveva chiesto un incontro con il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, “per rappresentare la disponibilità e l’interesse della dirigenza Olp a una forma di collaborazione permanente tra i servizi di sicurezza palestinesi e quelli italiani”. All’improvviso all’inizio di maggio la trattativa si interrompe e si arriverà all’omicidio: la commissione presieduta da Fioroni ipotizza una rottura tra l’ala di Potere operario, vicina ai palestinesi, e quella vicina a Mario Moretti che deteneva Moro, anche se successivamente Moretti avrebbe tentato di riallacciare i rapporti con l’Olp perché il colonnello Giovannone, in un messaggio del 22 giugno, riferì che “le Brigate rosse italiane avrebbero fatto pervenire in questi giorni personalmente a George Habbash, leader del Fplp, copia di dichiarazioni rese da Onorevole Moro nel corso interrogatori subiti”. Com’è noto, parallelamente il Psi aveva avviato una propria trattativa tesa alla liberazione di Moro e nella relazione vengono riferiti due elementi di cui Formiche.net ha scritto il 23 novembre: Bettino Craxi ebbe tre lettere di Moro prima che fossero rese pubbliche e Claudio Signorile fu convocato da Cossiga la mattina dell’omicidio, quasi dovesse essere “testimone”. L’ex direttore di Critica sociale, Umberto Giovine, ha infatti detto alla commissione che toccava a lui ritirare quelle lettere in una libreria per consegnarle a Craxi, rivelando un canale finora sconosciuto. Signorile, invece, fu convocato alle 9 dall’allora ministro dell’Interno che alle 11 ricevette la notizia del ritrovamento del cadavere: all’inizio Cossiga gli apparve ottimista sulla possibile liberazione, ma secondo Signorile “l’impressione che ebbi allora fu che ero stato chiamato lì per assistere alla telefonata. Perché mi chiami? E perché chiami me? Perché sono la persona più esposta sul versante…” della trattativa. Nell’audizione il presidente Fioroni ipotizzò anche che Cossiga sapesse della morte fin dalle 7: va ricordato che Valerio Morucci telefonò a Sereno Freato alle 12.15 e che la notizia venne diffusa dall’Ansa solo alle 13.59. La grazia e l’esecuzione. Tra i tanti aspetti da sviluppare, la commissione Moro farà accertamenti “sulla vicenda della grazia che il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, avrebbe inteso concedere a Paola Besuschio e alla visita di un ufficiale dei Carabinieri nell’ospedale dove la brigatista si trovava ricoverata in stato di detenzione al fine di chiederle di sottoscrivere la domanda di grazia” e per verificare le modalità e l’orario dell’uccisione di Moro: lo scopo è capire se l’omicidio fu affrettato per evitare ogni trattativa e se il gruppo di fuoco fu diverso da quello conosciuto. Bisogna ricordare, infatti, che il giornalista Paolo Cucchiarelli, nel libro “Morte di un Presidente”, con due perizie realizzate ad hoc demolisce le “verità” balistiche e che il 4 febbraio la commissione ascoltò monsignor Fabio Fabbri, stretto collaboratore di monsignor Cesare Curioni, ispettore generale dei cappellani carcerari nel 1978 e una delle persone che più si impegnò per la liberazione di Moro. Monsignor Fabbri ha raccontato di aver avuto per primo le foto dell’autopsia di Moro e che monsignor Curioni quando le vide disse: “So chi l’ha ucciso”, riferendosi a una rosa di sei fori di proiettile che non toccavano il muscolo cardiaco. Si riferiva alla tecnica di un giovane che aveva conosciuto nel carcere minorile Beccaria e che era un killer professionista, Giustino De Vuono. Bar e traffico d’armi. Ulteriori approfondimenti, infine, riguarderanno la storia del bar Olivetti in via Fani e sul suo titolare, Tullio Olivetti. Il bar era stato chiuso per uno “strano” fallimento qualche mese prima del sequestro e durante i lavori della commissione è stato detto chiaramente che con un bar aperto a pochi metri quell’azione sarebbe stata impossibile. Su Olivetti sono emerse prove di favoritismi da parte degli investigatori dell’epoca. La commissione scrive nella relazione che “non è stato ancora chiarito in maniera definitiva il significato di tali omissioni investigative. Tuttavia, occorre rilevare che la vicenda fa emergere un possibile intreccio tra il caso Moro e una corrente di traffico d’armi che coinvolgeva sia la criminalità organizzata che l’area mediorientale e sul quale occorre compiere ulteriori e – si auspica – definitivi approfondimenti”. Molto si dovrà capire, infine, sulla scuola Hypérion a Parigi (che potrebbe essere stata un coordinamento tra organizzazioni terroristiche europee e Flp) e sul vero ruolo di Giorgio Conforto, agente del Kgb (e forse anche di Cia e Sismi), che avrebbe di proposito fatto arrestare Valerio Morucci e Adriana Faranda a casa di sua figlia Giuliana in via Giulio Cesare. I lavori della commissione Moro sembrano disegnare la sceneggiatura di una spy story, invece è un pezzo fondamentale della storia d’Italia che ancora non conosciamo davvero.
L’ultimo latitante del caso Moro. Il mistero dell’arresto fantasma. Trovato dalla commissione parlamentare d’inchiesta un documento nell’archivio dei carabinieri. L’ex br Alessio Casimirri è rifugiato in Nicaragua dal 1983, scrive il 18 ottobre 2017 "Il Corriere della Sera". La vita avventurosa dell’ex brigatista rosso Alessio Casimirri — uno dei dieci componenti del commando che rapì Aldo Moro in via Fani, 1l 16 marzo 1978, oggi sessantaseienne cittadino nicaraguense — s’è dipanata tra i giardini vaticani dove giocava da bambino, la lotta armata praticata negli anni Settanta e il rifugio centro-americano dove vive dal 1983. Mai passato da una prigione; unico tra i sequestratori del presidente della Democrazia cristiana ad aver evitato l’arresto. Una inafferrabile «primula rossa», intorno alla quale si sono costruite ipotesi più o meno fondate, e persino leggende. Alimentate prima dall’essere figlio e nipote di alti funzionari della Santa Sede, con tanto di prima comunione ricevuta dalle mani di Paolo VI, e poi dalle presunte protezioni garantite dal governo sandinista in Nicaragua.
Nome già noto. Oggi però, dagli archivi del Comando provinciale dei carabinieri di Roma, spunta un documento che rappresenta un mistero autentico, e ripropone gli interrogativi sull’ex terrorista ancora uccel di bosco. È un cartellino fotodattiloscopico utilizzato per identificare le persone, saltato fuori dalle ricerche ordinate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio Moro. La data dell’avvenuto accertamento è il 4 maggio 1982, quando a carico di Casimirri pendevano due mandati di cattura per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata, accusa debitamente annotata sul cartellino. E alla voce «motivo del segnalamento» il compilatore tuttora anonimo (c’è una firma illeggibile) scrisse «arresto». Ufficio segnalatore: una serie di abbreviazioni che stanno a significare «Reparto operativo carabinieri Roma». Logica vorrebbe che per Alessio Casimirri — un nome all’epoca già iscritto sulla rubrica delle frontiere, come persona da fermare in caso di tentativo di espatrio — quel giorno si fossero aperte le porte del carcere. Invece così non è stato. Non risulta che l’allora militante delle Br dal nome di battaglia «Camillo» (altro particolare segnalato sul cartellino) abbia mai messo piede in una cella. Perché? Com’è possibile che un ricercato venga fermato e fotosegnalato, ma poi liberato?
Dubbi e anomalie. Dell’operazione non c’è traccia in nessun altro documento giudiziario, e alla data del 4 maggio ’82 non si hanno notizie del suo fermo né di altri terroristi. Un arresto fantasma, insomma; certificato da un documento apparentemente autentico, senza che si sia mai realmente verificato. L’apparenza dell’autenticità deriva dal fatto che il cartellino è di quelli effettivamente in uso, nel 1982, alle forze di polizia, ma nella compilazione ci sono alcune anomalie. La più evidente sta nella foto: non è di quelle normalmente scattate negli uffici investigativi, su tre lati (di fronte, fianco destro e fianco sinistro, accanto al misuratore di centimetri che stabilisce l’altezza) bensì è un’unica fototessera, trovata probabilmente a casa di Casimirri durante una perquisizione (senza esito, lui non c’era) effettuata durante i giorni del sequestro Moro, il 3 aprile ’78. Perché? L’indicazione del falso nome «Camillo» è di provenienza ignota, e le dieci impronte digitali delle due mani impresse su entrambe i lati non si sa di chi siano: per procedere a un confronto la commissione Moro ha chiesto alle autorità nicaraguensi, tramite canali diplomatici, il recupero di quelle autentiche, ma la risposta (chissà quanto credibile) è che non le hanno. Nello spazio riservato alla firma della persona segnalata, il carabiniere compilatore scrisse «si rifiuta», e dunque non c’è nemmeno la possibilità di perizie calligrafiche.
La lettera di Fioroni. Tutto questo alimenta il mistero: si trattò di un’operazione interrotta (dopo il fermo qualcuno intervenne per lasciare andare Casimirri), di cui qualche zelante militare volle comunque dare atto lasciando una traccia rimasta sepolta in un archivio per 35 anni? Oppure è un falso costruito apposta? Ma da chi, quando e con quali finalità? Sono domande che autorizzano a riproporre i molti enigmi maturati intorno all’ultimo latitante del «caso Moro»; compreso quello, rimasto senza riscontri, a cui accennò l’ex pubblico ministero Antonio Marini alla commissione stragi nel 1995, quando riferì la voce secondo cui l’ex br sarebbe stato un informatore di un ex capitano dei carabinieri (poi identificato nel generale Antonio Delfino, morto nel 2014) che l’avrebbe passato al Sismi, il servizio segreto militare. Teorie mai verificate, che tornano d’attualità con la prova dell’arresto fantasma.
Per adesso il presidente della commissione Moro, Giuseppe Fioroni, si è limitato a scrivere una lettera al presidente del Consiglio Gentiloni, e ai ministri Alfano, Minniti e Orlando, per sottoporre nuovamente al governo la necessità di «promuovere l’estradizione del latitante Alessio Casimirri». Fioroni ricostruisce la sua carriera di estremista e brigatista, avanza «ampi dubbi sulle protezioni di cui egli poté eventualmente godere», e cita il mistero del fermo per sostenere che «poté sottrarsi alla giustizia grazie al concorso di una rete di complicità che la Commissione sta cercando di ricostruire».
Caso Moro, spunta un documento sul brigatista Casimirri: “Fu arrestato in Italia nel 1982. Ora estradizione”. Dopo il caso Battisti, Fioroni scrive al presidente del Consiglio e chiede stesso impegno per estradizione dell'ex primula nera del brigatismo rosso. “La latitanza è una offesa alle vittime e alla giustizia”, scrive Stefania Limiti il 18 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Dalla grande nebulosa del caso Moro, qui e là, viene sempre fuori qualcosa di inedito. La Commissione parlamentare d’inchiesta ha scoperto che Alessio Casimirri, la primula nera del brigatismo rosso, fu arrestato nel maggio del 1982 e nessuno lo aveva mai saputo. Significa che rimase in Italia più a lungo di quanto non si supponesse fino ad ora, ed anche che le ricerche furono fatte proprio male, e poi anche che potè contare su una rete di complicità importante. Dalle recenti indagini è inoltre emerso che diversi documenti e un’agendina telefonica che gli vennero sequestrati il 3 aprile 1978, durante una perquisizione disposta nell’ambito delle indagini sul rapimento Moro, non sono mai stati oggetto di indagine. Giuseppe Fioroni, presidente dell’organismo parlamentare, lo ha reso noto oggi diffondendo una sua lettera al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ai ministri Minniti, Orlando e Alfano, nella quale chiede al Governo lo stesso impegno profuso per mettere all’angolo Cesare Battisti, l’ex militante dei Pac riparato in Brasile, anche per ottenere risultati dalle autorità di Managua. Casimirri, infatti, vive in Nicaragua da molti anni e di quel Paese è cittadino a tutti gli effetti, motivo che rende l’iter burocratico assai complicato – l’Italia chiese invano per la prima volta la sua estradizione nel settembre del 1988. Fioroni scrive cautamente che le modalità con cui Casimirri lasciò l’Italia non sono mai state chiarite: in realtà, si è scritto molto in questi anni e autorevoli osservatori hanno sostenuto che scappò con comodo grazie ad un regolare passaporto falso messogli a disposizione dai servizi segreti. Scappò in Francia con un compagno brigatista, Raimondo Etro, ma questi ne perse le tracce per una settimana. Poi lo rivide pronto alla partenza per l’oltreoceano, Etro rimase in Francia ed ebbe altra sorte. Figlio di un funzionario dello Stato Vaticano, Casimirri fu un dirigente di spiccò della colonna brigatista romana costituita attorno al 76-77 e che fu centrale dell’Operazione Frezza, il rapimento e il sequestro di Aldo Moro. Alessio è componente del commando di Via Fani, dove viene preso il presidente della Democrazia cristiana, miracolosamente o misteriosamente illeso, e trucidati tutti gli agenti della sua scorta. Oltre all’ergastolo per il caso Moro, pendono sulla sua testa anche altre pesanti condanne per l’omicidio dei magistrati Palma e Tartaglione e degli agenti di Polizia Mea e Ollanu, colpiti durante l’assalto di Piazza Nicosia alla sede della D.C. Secondo Fioroni “Lo sforzo di ricerca della verità sulla vicenda Moro non può prescindere da un ulteriore tentativo di porre termine a una latitanza che è offensiva per le vittime e per la giustizia”. Ma c’è anche un altro piano di interesse: la fuga di Casimirri, e la tenuta della sua latitanza, infatti, sono sempre state oggetto di riflessione per gli straordinari contatti che le hanno consentite e che gettano una lunga ombra non solo sulla sua figura ma anche sul delitto Moro i cui misteri ruotano intorno alla esistenza e alla natura delle interferenze di soggetti e forze estranei al mondo brigatista o criminale. Come ilfattoquotidiano.it scrisse tre anni fa, nel 2006 Casimirri è uscito indenne da un tentativo di esfiltrazione organizzato già nei minimi dettagli ma sospeso da non si sa quale scala gerarchica e, in precedenza, nel ’98, fallì nel tentativo di ascoltarlo anche il magistrato milanese Meroni, che cercava riscontri ad alcune testimonianze che collegavano Valerio Morucci all’omicidio Calabresi. Insomma, è una latitanza che pesa più di altre, se è possibile una gerarchia: sono in tutto 34, secondo i dati del ministero della Giustizia, i ricercati all’estero per fatti di terrorismo nazionale. Paradosso della nostra strana storia: non c’è il nome del neofascista Delfo Zorzi perché nessun tribunale riuscì ad incastrarlo.
Caso Moro, “stop dei servizi a cattura del Br Casimirri latitante in Nicaragua”. Nel '98 ci provò il magistrato milanese Meroni, per trovare riscontri a collegamenti tra Br e omicidio Calabresi. Nel 2006 toccò all'ufficiale del Sisde Cataldi. Il primo, rivelano oggi fonti investigative, fu bloccato da un intervento delle autorità del Nicaragua, il secondo da ordini superiori, scrive Stefania Limiti il 14 giugno 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Tra i buchi neri del caso Moro c’è anche la latitanza di Alessio Casimirri, ex brigatista del commando di via Fani. Una circostanza rivelata nel cosiddetto ‘memoriale’ sull’agguato a Moro di un altro ex membro delle br, Valerio Morucci. La fuga protetta di Casimirri, che partì per il Nicaragua dalla Francia con un passaporto secondo molti fornito dai servizi segreti, ha retto il passaggio del tempo. In particolare, rivelano oggi fonti investigative, almeno un paio di tentativi di incursione da parte di due uomini delle istituzioni, un magistrato e un alto ufficiale del Carabinieri, entrambi bloccati prima che le loro azioni potessero avere un seguito. Il primo caso riguardò l’allora pubblico ministero di Milano Massimo Meroni, un magistrato che aveva svolto indagini molto accurate sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio ’72). Per questo finì sul suo tavolo il fascicolo aperto dalla procura di Roma sulla base delle dichiarazioni di un ex brigatista, Raimondo Etro, il quale riferì ai magistrati della capitale (7 marzo ’98) e poi a quelli milanesi (31 marzo e il 3 giugno ’98) alcune confidenze raccolte nel periodo del sequestro dell’onorevole Aldo Moro proprio dalla nostra primula rossa. Alessio Casimirri avrebbe detto ad Etro che nell’omicidio Calabresi era coinvolto Valerio Morucci, all’epoca della sua militanza nel movimento di Potere Operaio, di cui era stato fin dagli inizi degli anni ’70 un elemento di spicco, tanto da entrare nel 1972 a fare parte del Direttivo Centrale Romano. L’origine politica di Morucci, legata a un gruppo che aveva molti punti di contatto con Lotta continua (di cui esponenti sono stati giudicati responsabili dell’omicidio Calabresi), pur nella diversità di visione nel modo di condurre la lotta di classe, aveva suscitato interesse negli investigatori. Meroni oggi ricorda Etro come una persona attendibile, che non aveva nessun interesse collaterale nel raccontare quella confidenza del tutto spontanea. Per questo gli sembrava importante andare a sentire la fonte principale e per farlo non aveva che un modo: andare in Nicaragua. Tra l’altro ben prima di Etro, anche una brigatista pentita, Emilia Libera, aveva detto (2 aprile 1982) le stesse cose su Morucci e i suoi possibili legami con il caso Calabresi, aggiungendo che all’epoca questa era la voce che circolava nelle Brigate Rosse. Meroni si attivò immediatamente: chiese alle autorità giudiziarie nicaraguensi di poter interrogare Casimirri. Tutto sembrava pronto, ma la sera prima della partenza una telefonata dell’ambasciata italiana a Managua bloccò Meroni: “Non parta dottore, non se ne fa niente, sono state revocate tutte le autorizzazioni in seguito a un ricorso dell’interessato”. La questione si chiudeva con una porta sbattuta in faccia a un magistrato dello Stato italiano, senza che questo provocasse clamore in Italia. Meroni dopo una serie di tentativi si trovò costretto ad archiviare il procedimento (20 luglio 2000). Se il fallimento del viaggio del magistrato milanese è imputabile alle protezioni nicaraguensi accordate a Casimirri – “sicuramente quel paese lo protegge molto”, dice oggi Meroni che non si sbilancia sulle responsabilità italiane – la faccenda dell’operazione tentata per riportarlo a casa è bene diversa. Tra il 2005 e il 2006, dopo la cattura di Rita Algranati, ex moglie di Casimirri, Enrico Cataldi, un ufficiale puntiglioso e attento, allora direttore della divisione terrorismo interno del Sisde, pensò che si potesse orchestrare la stessa identica azione per riportare in Italia il latitante numero uno delle Br. Algranati, la ragazza con il mazzo di fiori (il segnale secondo Morucci dell’imminente passaggio della macchina di Moro via Fani) aveva lasciato il Nicaragua e si era stabilita con il suo nuovo marito, Maurizio Falessi, in Algeria. Il Ros di Mario Mori mise su la trappola, probabilmente realizzata all’interno di uno scambio di favori tra intelligence. Mori riuscì a ottenere che Algranati e Falessi lasciassero il paese che li ospitava, pare che qualcuno li indusse a credere che gli algerini erano pronti a ‘venderli’. Di passaggio in Egitto la fuga dei due fu interrotta all’aeroporto del Cairo, il 14 gennaio del 2004, dagli uomini della Digos di Roma in collaborazione con Ucigos e Sisde. Gli investigatori romani spiegarono che alla loro cattura, “oltre a un enorme lavoro di intelligence della polizia italiana con il servizio interno civile, si è arrivati anche grazie a uno scambio di informazioni tra i servizi italiani e quelli del nord Africa, che hanno consentito alle forze di polizia di mettere in atto i giusti dispositivi investigativi”. Algranati e Falessi furono subito espulsi, ricondotti in Italia e arrestati. Il generale Cataldi, che oggi mantiene un assoluto riserbo e rifiuta ogni commento, pensò di attuare la stessa strategia per acciuffare Casimirri: avrebbe trovato il modo di indurlo a lasciare momentaneamente il Nicaragua per bloccarlo in un paese terzo, il Costa Rica, dove l’ex brigatista si recava per motivi di lavoro, d’accordo con le autorità locali. Cataldi è un ufficiale noto nell’ambiente per l’estrema meticolosità e per la tenacia nel raggiungere i suoi obiettivi. Era sicuro di riuscire anche in quella occasione. Erano già stati comperati i biglietti aerei dall’agenzia del Servizio – che li rimborsò al momento dell’annullamento. Fu bloccato, dicono oggi diverse fonti investigative, non dalle autorità di Managua ma dagli alti vertici del Servizio interno che gli dissero di stare fermo, di occuparsi d’altro, che quella operazione non si doveva fare. Le ombre attorno alla figura di Casimirri sono sempre state tante, ma il tempo pare che lavori per ingrandirle: c’è solo da sperare che la nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro abbia voglia e possibilità di raccontarci qualche pezzo di verità, compresa la faccenda delle protezioni accordate all’ex brigatista e ai segreti che, evidentemente, custodisce.
ALDO MORO ED IL SIGNORAGGIO BANCARIO.
Aldo Moro, Signoraggio Bancario e le strane coincidenze, scrive il 15 agosto 2013 "Sporchibanchieri". Cosa accomuna diversi politici che si sono battuti per la Sovranità Monetaria? In questo articolo analizzeremo le inquietanti coincidenze relative in particolar modo a tre esponenti politici che, poco dopo aver promosso leggi a favore della sovranità monetaria dei rispettivi Paesi, hanno poi fatto un brutta fine. Stiamo parlando di Abraham Lincoln, John Fitzgerald Kennedy e Aldo Moro. Il problema di fondo è quello dell’emissione sovrana di moneta, ben noto per chi si occupa di Signoraggio Bancario. Abbiamo in parte toccato questo tema i due precedenti articoli: Signoraggio Bancario: perché il debito è inestinguibile? e Auriti, il valore indotto e la proprietà della moneta. Le banche centrali di moltissimi Paesi, spacciate come istituti pubblici, ma in realtà Società per Azioni private possedute generalmente da famiglie di banchieri senza scrupoli, hanno da sempre utilizzato qualsiasi mezzo per occultare la loro vera natura e nascondere l’inganno agli occhi della popolazione.
Cerchiamo di riassumere brevemente i fatti.
Il presidente Lincoln nel 1862, ebbe un incontro privato con un amico di vecchia data, il colonnello Edmund Dick Taylor che suggerì di stampare biglietti di Stato a corso legale per fronteggiare le spese della Guerra Civile Americana scoppiata l’anno precedente. Questa idea scaturì anche a causa degli interessi usurai (dal 24 al 36 per cento) pretesi dai banchieri internazionali nell’eventualità di un prestito all’Unione. Lincoln ovviamente non accettò le condizioni poiché non voleva trascinare il proprio Paese nel baratro del debito. Così, nonostante forti opposizioni, il 25 febbraio 1862 firmò il First Legal Tender Act che autorizzava l’emissione dei biglietti di Stato, conosciuti in seguito come greenbacks, nome derivato dall’uso di inchiostri verdi per distinguerli dalle altre banconote. Il 14 aprile 1865, durante uno spettacolo teatrale al Ford’s Theatre, John Wilkes Booth (attore che aveva più volte recitato proprio in quello stesso teatro) spara un colpo alla testa del presidente Lincoln. I lati oscuri della vicenda resteranno numerosi: l’assenza della guardia del corpo del presidente, impegnata a bersi qualche drink ed il mistero del killer, ufficialmente scovato e ucciso una decina di giorni dopo, anche se nel corso degli anni molti ricercatori hanno sostenuto che Booth fosse riuscito a scappare.
Facciamo un salto di un secolo. John Fitzgerald Kennedy, il 4 giugno 1963, firma l’Ordine Esecutivo 11110, un decreto presidenziale che di fatto toglieva alla Federal Reserve Bank (la banca centrale presente negli Stati Uniti) il potere di stampare denaro, restituendolo al Dipartimento del Tesoro, come sancito nella Costituzione americana. Il governo USA tornava in possesso della propria sovranità monetaria grazie ad una legge esplicita che lo autorizzava a «emettere certificati d’argento a fronte di ogni lingotto di argento e dollari d’argento della Tesoreria». Praticamente gli Stati Uniti si riprendevano il diritto di stampare moneta, collegando l’emissione di banconote alle riserve d’argento della Tesoreria, senza la necessità di chiedere prestiti ad interessi alla Federal Reserve: biglietti a corso legale sgravati dal debito all’atto di emissione. L’unica differenza visibile sulle nuove banconote rispetto alle precedenti era la dicitura: quelle successive all’ordine esecutivo di Kennedy riportavano “Biglietto degli Stati Uniti” (United States Note), le altre “Biglietto della Federal Reserve” (Federal Reserve Note).
Guarda caso pochi mesi dopo, il 22 novembre 1963, il presidente Kennedy verrà ucciso a Dallas. Dopo più di quarant’anni i punti oscuri di questo omicidio rimangono senza una plausibile e convincente spiegazione ufficiale. Al contrario, risultano ormai palesi le incongruenze, i depistaggi e le manomissioni relative alla vicenda. Come in altri casi anologhi, i poteri forti hanno manovrato nell’ombra per far passare l’idea che il tutto fosse riconducibile ad un mitomane, un povero pazzo isolato che aveva agito da solo (in questo caso Lee Harvey Oswald). Questo perché, per definizione, un’eventuale azione premeditata da più persone costituirebbe un complotto. Il che starebbe a significare l’esistenza di strategie occulte che meriterebbero un’attenzione profonda da parte del pubblico. Ed è ovvio che i criminali complottisti abbiano tutto l’interesse nel mantenere un basso profilo e non essere scoperti. Stranamente anche lo squilibrato, l’utile idiota dell’omicidio Kennedy, verrà a sua volta messo a tacere per sempre prima ancora di poter rivelare qualche informazione compromettente, ucciso in pubblico da Jack Leon Ruby (nato Jacob Leon Rubenstein), apparentemente senza un valido movente, appena un paio di giorni dopo l’assassinio del presidente USA. Il bello è che “Sparky” Jack Ruby riuscì ad eliminare lo scomodo testimone davanti alla centrale di polizia di Dallas, proprio mentre Oswald veniva scortato da un gruppo di poliziotti al vicino carcere statale. Inutile dire che pure Ruby morirà poco dopo, ufficialmente per un’embolia polmonare, il 3 gennaio 1967, dopo aver scampato una sentenza di morte dettata dal tribunale il 14 marzo 1964. Sia Oswald che Ruby avevano dichiarato più volte di essere stati incastrati. Facciamo notare, fra parentesi, che pure la data della morte di Kennedy presenta una particolare coincidenza: cade esattamente cinquantatré anni dopo l’incontro (all’epoca segreto) tenuto sull’isola di Jekill (Jekill Island) fra un gruppetto di banchieri che stavano sviluppando il progetto che avrebbe portato a costituire proprio la Federal Reserve. Un fatto che potrebbe apparire casuale per chi è a digiuno di esoterismo, rituali e la logica relativa a gruppi massonici e paramassonici. Invitiamo perciò i nostri lettori ad approfondire la questione con studi e ricerche. Prossimamente pubblicheremo una serie di articoli al riguardo.
Veniamo al caso Moro. Negli anni sessanta lo statista della Democrazia Cristiana decise di finanziare la spesa pubblica italiana attraverso l’emissione di cartamoneta di Statosgravata da debiti, in tagli da 500 lire, ossia con un “biglietto di Stato a corso legale”. Con i DPR 20-06-1966 e 20-10-1967 del presidente Giuseppe Saragat venne regolamentata la prima emissione, la serie “Aretusa” (Legge 31-05-1966), mentre il presidente Giovanni Leone regolarizzò con il DPR 14-02-1974, la serie “Mercurio” (DM 2 aprile 1979), le famose banconote da 500 lire conosciute come “Mercurio alato”. Già all’epoca la sovranità monetaria dell’Italia era limitata: allo Stato era concesso (chiedetevi, fra l’altro, da chi fosse “elargita” questa concessione) solamente il diritto di conio delle monete attraverso la Zecca, mentre le banconote venivano aquistate dal Fondo Monetario Internazionale. Un po’ come accade oggi, dove ai singoli Paesi europei spetta il diritto di coniare gli euro di metallo ma non le banconote, che vengono emesse dalla Banca Centrale Europea. Per questo quando nel 2002 Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’Economia, propose di sostituire le monete da uno e due euro, Wim Duisenberg, primo governatore della BCE, rispose con un avvertimento: «Spero che Mr. Tremonti si renda conto che se tale banconota dovesse essere introdotta, egli perderebbe il diritto di signoraggio che si accompagna ad essa. Dunque se egli, come ministro dell’Economia, ne sarebbe contento non lo so». Fra parentesi ci sarebbe anche da indagare sulla strana morte di Duisenberg, avvenuta il 31 luglio 2005, nemmeno due giorni dopo le sentenze di rinvio a giudizio pronunciate a Milano contro le filiali Deutsche Bank, UBS, Morgan Stanley e Citygroup partite dai procuratori che stavano indagando sul crac Parmalat. Ricordiamo che il banchiere olandese era stato eletto primo presidente della Banca Centrale Europea proprio grazie all’appoggio del colosso bancario tedesco. Coincidentemente, nelle stesse ore, precipitava dalla finestra del suo appartamento di New York Arthur Zankel, ex membro del consiglio di Citybank. Ma forse stiamo divagando troppo, torniamo alle 500 lire cartacee emesse dai governi Moro. Lo statista, per ovviare ai limiti imposti di cui sopra, utilizzò un brillante stratagemma. Dopo aver autorizzato il conio delle 500 lire di metallo, fece una deroga che permetteva, contemporaneamente, l’emissione della versione cartacea, che poteva in questo modo essere stampata ugualmente dalla Zecca di Stato. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro venne rapito e ucciso il 9 maggio dello stesso anno. Casualmente, in seguito al tragico avvenimento, l’Italia smise di emettere biglietti di Stato. Come per gli omicidi di Lincoln e Kennedy, anche in questo caso i punti oscuri sono numerosissimi. Uno dei fattori comuni è il ruolo dei servizi segreti. La versione ufficiale che additava la responsabilità alle fantomatiche Brigate Rosse non hai mai convinto le persone minimamente informate sui fatti. La strategia della tensione era chiaramente funzionale alla volontà di destabilizzare l’Italia, obiettivo confermato e dichiarato anche nell’Operazione Chaos e nell’Operazione Condor in America latina (fra i tanti misteri dei Servizi, mai sentito parlare dell’ufficio K?). Più volte è stata avanzata l’ipotesi dei tre livelli delle BR: base ideologizzata utilizzata come manovalanza, alcuni capicolonna eterodiretti come Mario Moretti ed il centro studi Hyperion di Parigi, una scuola di lingue usata come copertura per uno degli avamposti della CIA in Europa, il corrispettivo francese della Gladio italiana, il tutto parte della rete NATO “Stay Behind”. I dubbi su Moretti (capo effettivo delle Brigate Rosse durante il sequestro Moro) circa il suo ruolo di infiltrato, spia e doppiogiochista dei servizi segreti sono stati sollevati più volte dagli stessi brigatisti, ad esempio Alberto Franceschini, Renato Curcio, Giorgio Semeria e Valerio Morucci o da personaggi come il senatore Sergio Flamigni, che definì il capo brigatista “la sfinge”. Addirittura vennero fatti degli accertamenti da parte di alcuni esponenti delle BR su questo losco individuo, prima del sequestro dello statista, ma non ne venne fuori nulla e così Moretti rimase ai vertici dell’organizzazione.
È ormai risaputa la presenza del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi in via Stresa la mattina dell’agguato e del rapimento di Moro avvenuto in via Fani, a soli duecento metri di distanza. Cosa ci facesse da quelle parti non è mai stato chiarito. E nemmeno un’altra delle miriadi di coincidenze: nello stesso palazzo in via Gradoli 96 dove viveva Moretti al tempo del sequestro c’erano almeno 24 appartamenti intestati a società immobiliari fra i quali amministratori figuravano membri dei servizi segreti. Al secondo piano dello stabile viveva un’informatrice della polizia, mentre al n° 98 della solita via abitava un compaesano di Moretti, agente segreto militare ed ex ufficiale dei carabinieri. Qualche anno fa nel libro Nous avons tué Aldo Moro di Emmanuel Amara pubblicato da Patrick Robin Editions (uscito in Italia con il titolo Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo trent’anni un protagonista esce dall’ombra edito da Cooper e curato da Nicola Biondo), Steve Pieczenik, assistente del sottosegretario Usa nel 1978, psichiatra, specialista in “gestioni di crisi”, esperto di terrorismo, mandato in missione da Washington su “invito” di Francesco Cossiga durante i cinquantacinque giorni del sequestro, ha rivelato: «Ho messo in atto la manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro al fine di stabilizzare la situazione dell’Italia. I brigatisti avrebbero potuto cercare di condizionarmi dicendo “o soddisfate le nostre richieste e lo uccidiamo”. Ma la mia strategia era “No, non è così che funziona, sono io a decidere che dovete ucciderlo a vostre spese”. Mi aspettavo che si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro. E questa sarebbe stata una grossa vittoria per loro». Pieczenik non solo ha ammesso di aver intavolato una falsa trattativa con i brigatisti, ma dice spudoratamente che uno degli obiettivi fu quello di costringere le Brigate Rosse ad uccidere Moro: «La mia ricetta per deviare la decisione delle BR era di gestire un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i Comitati (del Viminale n.d.r.) dicendo a tutti che ero l’unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto». Il colpo di grazia venne inferto quando risultò evidente che Moro fosse ormai disperato e si decise di attuare il piano della Duchessa, un falso comunicato da attribuire alle Brigate Rosse: «I brigatisti non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente con lo scopo di prenderli in trappola. Avrebbero potuto venirne fuori facilmente, ma erano stati ingannati. Ormai non potevano fare altro che uccidere Moro. Questo il grande dramma di questa storia. Avrebbero potuto sfuggire alla trappola, e speravo che non se ne rendessero conto, liberando Aldo Moro. Se lo avessero liberato avrebbero vinto, Moro si sarebbe salvato, Andreotti sarebbe stato neutralizzato e i comunisti avrebbero potuto concludere un accordo politico con i democristiani. Uno scenario che avrebbe soddisfatto quasi tutti. Era una trappola modestissima, che sarebbe fallita nel momento stesso in cui avessero liberato Moro». Secondo le parole di Pieczenik Cossiga era d’accordo con praticamente la maggior parte delle scelte proposte: «Moro, in quel momento, era disperato e avrebbe sicuramente fatto delle rivelazioni piuttosto importanti ai suoi carcerieri su uomini politici come Andreotti. È in quell’istante preciso che io e Cossiga ci siamo detti che bisognava cominciare a far scattare la trappola tesa alle BR. Abbandonare Moro e fare in modo che morisse con le sue rivelazioni. Per giunta i carabinieri e i servizi di sicurezza non lo trovavano o non volevano trovarlo». Gli obiettivi raggiunti con questa strategia furono molteplici: venne eliminato Moro, le BR furono messe a tacere e fu possibile entrare in possesso del vero memoriale e delle registrazioni dell’interrogatorio dello statista italiano. Quello dell’esponente della Democrazia Cristiana è stato un sacrificio umano, come dichiarato apertamente da Pieczenik: «Mai l’espressione “ragion di Stato” ha avuto più senso come durante il rapimento di Aldo Moro in Italia». E come ogni rituale, la scena del delitto era carica di simbologia esoterica, evidente soprattutto per gli iniziati. Il discorso merita un articolo a parte, che verrà pubblicato prossimamente. La cosa meno esoterica fu la seduta spiritica alla quale partecipò Romano Prodi, dove venne fuori la parola “Gradoli”, il nome della via in cui era situato il covo dei sequestratori di Moro. Quella stessa via nella quale erano presenti immobili di proprietà dei servizi segreti. Ovviamente la seduta spiritica fu un escamotage per tenere sotto copertura la fonte della soffiata che comunque venne deliberatamente ignorata. Venne sviata l’attenzione su Gradoli in provincia di Viterbo, arrivando addirittura ad affermare che non esistesse nessuna via a Roma con quel nome. Va anche tenuto presente che all’epoca del sequestro i massimi dirigenti dei Servizi erano appartenenti alla Loggia P2. Senza considerare che alcuni anni prima, durante la visita negli Stati Uniti dello statista italiano nel settembre 1974, Henry Kissinger lo minacciò pesantemente, come riferito dal portavoce di Moro, Corrado Guerzoni, davanti ai giudici. Per non parlare della testimonianza della moglie dell’esponente della DC, che dichiarò alla commissione parlamentare a proposito delle evidenti minacce fatte al marito da parte della delegazione americana: «Lei deve smettere di perseguire il suo piano politico di portare tutte le forze del suo paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara, veda lei come la vuole intendere». Un’altra delle numerose coincidenze fu la morte di Pier Paolo Pasolini che, guarda caso, aveva espresso pubblicamente le sue perplessità, avanzando ipotesi e connessioni tra “stragi di Stato”, poteri forti, servizi segreti internazionali, politici, petrolieri e banchieri. Già nel 1975 aveva fatto notare che la “Strategia della Tensione” era cominciata il 12 dicembre 1969 proprio con l’attacco alle sedi di tre banche: la Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, la Banca Commerciale Italiana, anch’essa a Milano (dove per fortuna la bomba rimase inesplosa) e la Banca Nazionale del Lavoro in via Veneto a Roma. La Banca Nazionale dell’Agricoltura, che aveva cominciato ad emettere le 500 lire cartacee poco prima di questi tragici eventi, casualmente interruppe l’emissione dei biglietti di Stato a corso legale dopo gli attentati. Guardatevi il video della relazione di Marco Saba sul tema di Signoraggio Bancario e stragi di Stato. Sentite cosa dice a proposito dei libri Il bilancio dello Stato – Un istituto in trasformazione – Franco Angeli / La finanza pubblica (1977) di Giuliano Passalacqua e del Libro bianco del Ministero del Tesoro (1969): «A proposito dei buoni ordinari del tesoro, il grado di liquidità dei BOT può essere uguale a quello della base monetaria se la Banca d’Italia li acquista senza limiti ad un prezzo uguale a quello di emissione». In poche parole la Banca d’Italia (quando era un po’ più statale di ora) poteva comprare illimitatamente BOT alla pari, senza dover pagare interessi; praticamente come se lo Stato italiano si fosse stampato la propria moneta. Come riferisce Marco Saba, la cosa importante da notare è che questa era la pratica che effettivamente esisteva in Italia fino al 1969, anno della strage di piazza Fontana e delle bombe nelle banche. Senza considerare il discorso sui residui passivi.
Altro tema interessante è quello sulle guerre, le quali hanno quasi sempre a che vedere con il ricatto ed il potere bancario nei confronti dei Paesi che hanno le banche nazionalizzate ed una gestione della moneta a livello statale. Saba pone l’esempio della rivoluzione iraniana che cominciò quando Khomeini fece due leggi contro l’usura e nazionalizzò le banche. Chissà perché chi si occupa di denunciare e contrastare le attività criminose di banchieri senza scrupoli generalmente non fa una bella fine. Per esempio Federico Caffè, scomparso alle prime luci dell’alba dalla sua casa a Roma, dove viveva con il fratello Alfonso, il 15 aprile nel 1987 (coincidentemente lo stesso giorno della morte del presidente Abraham Lincoln). Un paio di anni prima, il 27 marzo 1985, il suo allievo Ezio Tarantelli venne ucciso nel parcheggio dell’Università La Sapienza, attentato poi rivendicato dalle fantomatiche Brigate Rosse per la costruzione del Partito Comunista Combattente. Sia ben inteso, sono tutte coincidenze.
16 MARZO 1978. QUEL GIORNO DA CANI.
Caccia ai rapitori di Moro Interi quartieri perquisiti, scrive "Il Tempo" il 10/07/2014. Ieri alle 9,15 un «commando» di dodici terroristi ha sequestrato il presidente della DC. Aldo Moro e la sua scorta sono caduti nell’imboscata sofistica e feroce delle Brigate rosse ieri mattina, qualche minuto dopo le nove. All’angolo tra via Mario Fani e via Stesa, nei quartieri collinari a nord-ovest di Roma, lo aspettavano dodici brigatisti, undici uomini e una ragazza. I cinque uomini di scorta al presidente della DC sono stati liquidati da tre serie successive di raffiche di mitra. In pochi secondi, in due auto crivellate di colpi e sull’asfalto, c’erano i corpi dei carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e dei poliziotti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera; il vice brigadiere di PS Francesco Zizzi, portato in fin di vita al Policlinico Gemelli, è morto tre ore dopo. Subito dopo l’atroce pioggia di proiettili, Aldo Moro, rimasto quasi certamente incolume, è stato abbrancato da quattro brigatisti e portato via con un’auto scura, probabilmente una «128». Meno di un’ora dopo le Brigate rosse hanno rivendicato l’azione con una telefonata alla sede ANSA di Roma: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della DC Aldo Moro ed eliminato la sua guardia del corpo, "teste di cuoio" di Cossiga. Seguirà un comunicato. Firmato Brigate rosse». Una seconda telefonata dallo stesso contenuto in cui Moro viene definito «servo dello Stato» è arrivata all’ANSA di Torino. Nessuno dei messaggi accennava a richieste di «riscatto», che saranno presumibilmente affidate al comunicato promesso. Ecco le sequenze della azione. Verso le otto e mezzo, come ogni mattina, Aldo Moro esce di casa, in via del Forte Trionfale2. Al portone lo aspetta una «130» blu (Roma L59812) guidata dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, quarantaquattro anni, di Staffolo nell’Anconetano. Accanto all’appuntato siede il «fedelissimo» del presidente democristiano, il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, 52 anni, di Ceres in provincia di Torino. Moro prende posto sul sedile dietro a sinistra, secondo un’abitudine consolidata negli anni. Attorno a lui gli oggetti abituali di ogni trasferimento da casa al centro: una «mazzetta» di una cinquantina di giornali sul sedile di destra, che Moro comincia a sfogliare; una valigetta ventiquattr’ore e una borsa di cuoio sul pavimento, sempre a destra; un soprabito grigio e un impermeabile sul piano del lunotto, accanto a due cappelli, uno invernale ed uno estivo. Dietro alla «130» si avvia «l’Alfetta» di scorta della polizia (Roma S93393). Al volante c’è la guardia Raffaele Iozzino, 25 anni, napoletano di Casola; al suo fianco il capo equipaggio, il vice brigadiere Francesco Zizzi, 30 anni, di Brindisi; dietro siede l’altra guardia, Giulio Rivera, 24 anni, molisano di Guglionesi. Le due auto in corteo partono verso via Trionfale, girano a sinistra verso il centro ma dopo poche centinaia di metri sono già ferme, in piazza di Monte Gaudio. E’ una sosta abituale: Moro scende dalla «130» e infila il portone della chiesa di San Francesco a Monte Mario. E’ la chiesa parrocchiale e il presidente della DC è puntuale ogni mattina alla Messa e alla comunione. Alle 9, quando la Messa finisce, Moro riprende posto sulla «130». Le due auto scattano verso il centro ma, anzichè proseguire lungo via Trionfale, secondo il percorso più diretto, svoltano a sinistra in via Mario Fani, una strada in leggera discesa che porta a via Stresa e di lì alla Camilluccia, altra grossa arteria da cui è raggiungibile il centro. Si tratta di uno dei cinque o sei itinerari alternativi che Moro e la scorta cambiano giorno dopo giorno senza un preciso criterio di rotazione per rendere più ardui attentati e agguati di terroristi. E qui si inserisce una domanda, forse cruciale per l’indagine: i brigatisti sapevano con certezza che il piccolo corteo di Moro avrebbe scelto via Mario Fani, oppure hanno giocato d’azzardo? C’è un particolare di straordinario interesse che sembra avallare la prima tesi. Eccolo: ogni giorno, di buon mattino, all’angolo tra via Fani e via Stresa, proprio nel punto in cui tra qualche momento i killers del commando BR scaricheranno i mitra addosso alle due auto, un fioraio ambulante, Antonio Spiriticchio, posteggia il suo furgone «Ford Transit» pieno di tulipani e mimose. Ieri mattina lo Spiriticchio, che abita con la moglie portiera in via Angelo Brunetti 42, ha trovato il suo «Ford» con le gomme squarciate e ha dovuto rinunciare alla giornata di lavoro. Torniamo ai «fotogrammi» della vicenda che adesso vanno girati al rallentatore, così da poter ricomporre con la maggior precisione possibile gli istanti del minuto di fuoco e di morte che ha sconvolto questo angolo di Roma in una mattinata di quasi primavera. L’auto di Moro e quella della scorta sfilano a velocità sostenuta lungo le palazzine eleganti e gli alberi in fiore di via Mario Fani. Davanti scende una «128 familiare» bianca (è targata CD 19707) con un uomo a bordo. Il sedile posteriore è ribaltato, così da allargare il piano carico. La «128» tallonata dalla «130» e dall’«Alfetta» si avvicina veloce allo stop sull’incrocio tra via Fani e via Stresa; poi «inchioda» repentinamente. E siamo già in piena imboscata. Un inferno. Domenico Ricci, l’autista della «130» di Moro, è svelto a scansare l’ostacolo che d’improvviso gli chiude la strada: sterza lievemente a destra e frena, così che l’auto blu si arresta un po’ obliquamente col muso a pochi centimetri dalla coda della «128». Alle spalle l’«Alfetta» non è così pronta e tampona leggermente la «130». C’è un attimo di incertezza e la sorpresa ha ragione sulla prontezza di riflessi. Attorno si scatena l’inferno. A fianco delle tre auto, incolonnate allo stop, sorgono quattro brigatisti vestiti con divise approssimativamente da aviatore civile: azzurre con berretti gallonati. I testimoni racconteranno di averli notati già da un po’, fermi sui marciapiedi di fronte al bar Olivetti, che è chiuso da qualche mese. Sparano in tre, con i mitra (da terra verranno raccolti ottanta bossoli calibro nove), e le serie di raffiche sono tre, in successione serrata. Il fuoco è preciso e annientante. Le due auto, a cose fatte, sono crivellate di fori e tutti i finestrini laterali sono in frantumi, tranne quello posteriore sinistro della «130», giusto in corrispondenza della testa di Moro che siede, come sempre, un po’ accasciato. Domenico Ricci e Oreste Leonardi si accasciano uno contro l’altro: il primo ha tre fori di proiettile solo sulla guancia sinistra. Nella seconda auto Giulio Rivera muore al volante, mentre Francesco Zizzi al suo fianco assorbe una raffica che gli lede polmoni e diaframma, gli spappola fegato e reni. Morirà tre ore dopo all’ospedale, al termine di un inutile intervento chirurgico. L’unico che può tentare di reagire è «il ragazzino» del gruppo, Raffaele Iozzino, che è sul sedile posteriore. Balza dall’«Alfetta», estrae la pistola e spara tre colpi cercando di coprirsi dietro la vettura. Uno dei brigatisti fa qualche passo indietro e gli fa piovere addosso un’ennesima raffica. Anche Iozzino muore, colpito alla testa, e la pistola gli cade di mano. (...) A pochi metri di distanza, mentre torna il silenzio e il sangue di Giulio Rivera comincia ad allungarsi sull’asfalto, i quattro brigatisti in divisa azzurra si avventano sulla «130» e afferrano Aldo Moro, due per le gambe e due per le braccia. (...)
Via Fani, quella mattina di un giorno da cani, scrive Lanfranco Caminiti il 5 settembre 2016 su “Il Dubbio”. Sono le 9.00 e qualche minuto. Nella strada residenziale il traffico è scarso; la giornata è serena, ma la temperatura ancora pungente. E poi si scatena l'inferno. Il 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle 9.00 del mattino, l'onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, esce dal portone numero 79 di via del Forte Trionfale a Roma. Sono ad attenderlo la 130 blu di rappresentanza, su cui sale Moro, e un'Alfetta bianca con la scorta. Il presidente deve prima recarsi al Centro Studi della Dc e poi, alle 10.00, alla Camera dei Deputati; qui l'onorevole Andreotti presenterà il nuovo governo, entrato in carica l'11 marzo, un monocolore democristiano, che sarà il primo sorretto anche dai voti comunisti, di cui l'onorevole Moro è stato accorto e paziente artefice. Sono le 9.00 e qualche minuto. Nella strada residenziale di via Fani, alla Camilluccia, il traffico è scarso; la giornata è serena, ma la temperatura ancora pungente. Quattro uomini, che indossano impermeabili e berretti dell'Alitalia e portano delle borse, sono fermi nei pressi del bar Olivetti, che ha cessato da tempo ogni attività, all'incrocio tra via Fani e via Stresa. Qui, ogni mattina staziona il furgone del signor Antonio Spiriticchio, che vende i suoi fiori, ma nella notte ne sono state squarciate le ruote, e così non c'è. Una Fiat 128 giunge veloce e rapidamente si ferma allo stop dell'incrocio. I quattro uomini fermi al bar superano il marciapiede imbracciando ciascuno un mitra, si avvicinano alle auto e aprono il fuoco. La 130 blu è imprigionata tra la 128 davanti e l'Alfetta dietro, a sua volta bloccata da un'altra auto sopraggiunta e messasi di traverso. Disperatamente l'autista della 130 blu cerca di manovrare per guadagnare un varco, ma un ulteriore impedimento è una Mini Minor lì parcheggiata casualmente. Il crepitare delle armi è infernale. I cinque uomini della scorta vengono uccisi; uno di essi, ancora in vita, morirà poco dopo all'ospedale. Il presidente della Dc è prelevato dal sedile posteriore della 130 blu e trasbordato su un'altra auto. Vengono prese anche le borse che aveva con sé. I componenti del commando salgono sulle proprie auto e si danno alla fuga. L'azione è durata solo pochi minuti. La notizia si diffonde immediatamente: i residenti della zona telefonano alla polizia, che rapidamente invia pattuglie sul posto. Presto in via Fani sorvolata da elicotteri si ritroverà una piccola folla di autorità, poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, fotografi e curiosi. Sull'asfalto, un cappello da pilota e un caricatore di mitra. I fogli dei quotidiani che Moro leggeva in auto - e quel giorno lo accostavano di nuovo al caso Lockheed - vanno a coprire il corpo senza vita di un agente della scorta. I giornali radio e quelli televisivi interrompono i programmi e danno le informazioni in una ridda di voci non verificate sulle armi e le auto usate, sul numero e la nazionalità dei componenti del commando, sui testimoni del fatto. Qualcuno evoca il sequestro Schleyer operato dalla Raf tedesca nel settembre dell'anno precedente. I quotidiani preparano le edizioni straordinarie. Sorpresa, incredulità e sgomento sono le parole più ricorrenti, ma sono anche le emozioni che attraversano il paese da un capo all'altro. Intanto, sul luogo è presto arrivata Eleonora Moro, moglie del presidente democristiano. Rientra dopo poco a casa, dove riceve la visita del cardinale Poletti, vicario di Roma. Il Papa, che conosce personalmente Aldo Moro e la moglie, è stato prontamente avvisato degli accadimenti. Telefonate delle Brigate rosse che rivendicano l'agguato e preannunciano ulteriori messaggi giungono alle redazioni Ansa di diverse città. Alla Camera la seduta prevista è spostata dal presidente Pietro Ingrao dopo un accordo con i capigruppo parlamentari. Il Parlamento è agitato: dichiarazioni di questo o quel personaggio segnano la necessità di prendere atto di uno «stato di guerra», contribuendo ad alimentare un senso generale di incertezza e di confusione. A Palazzo Chigi convergeranno presto, per una riunione, segretari dei partiti, esponenti politici e, per i tre sindacati, Lama, Macario e Benvenuto. Il segretario del Partito comunista, Berlinguer, accompagnato da Natta e Pajetta, arriva con una decisione adottata d'impeto: «impedire qualsiasi trattativa». Il paese si ferma. Mentre partono dalle centrali operative delle forze di polizia le prime impacciate disposizioni su piani di ricerca e blocchi di controllo, migliaia di lavoratori escono dai posti di lavoro. Unendosi ad altri cittadini, sciamano per le piazze principali di tutte le città d'Italia, anticipando la proclamazione dello sciopero generale intanto indetto dai sindacati. Fabbriche, uffici e scuole si chiudono. Molte saracinesche di negozi si abbassano in segno di paura o di lutto. C'è rabbia e senso di impotenza. Ma si registrano, insieme a una diffusa pietà per gli agenti della scorta, anche parole di indifferenza: il potere democristiano non è stato mai molto amato. Le manifestazioni saranno mute, con qualche sventolio di bandiere rosse e bianche, ma segnate soprattutto dall'angoscia, da un bisogno popolare di presenza, dal disorientamento. Le voci accorate di sindacalisti e oratori ufficiali chiamano dai palchi alla «difesa del Paese contro il ricatto del terrorismo», alla mobilitazione, alla «vigilanza e a isolare chi sta a guardare o, peggio, solidarizza con questi criminali». Alle 11.00 circa si riunisce il Consiglio dei ministri: Andreotti comunica che il dibattito alla Camera sulla fiducia al governo sarà necessariamente breve, decisione con cui si sono già dichiarati d'accordo i partiti. Dopo una rapida valutazione dei fatti, si decide di adottare le prime misure di coordinamento delle attività di polizia. Il ministro degli Interni, Cossiga, convoca per le 11.30 al Viminale i titolari dei dicasteri della Difesa, delle Finanze, di Grazia e Giustizia, i vertici delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza per dare vita a un Comitato tecnico-operativo che si riconvocherà nel tardo pomeriggio, incaricato di tracciare le linee di ricerca e la gestione dei dati informativi delle investigazioni. Cossiga deciderà anche la costituzione di un gruppo di consulenti, in diretto rapporto soltanto con lui, che possa supportare le indagini con analisi e valutazioni. In serata, il Viminale distribuirà alla stampa le foto dei terroristi latitanti e ricercati. L'elenco, diffuso anche attraverso la televisione, contiene numerose inesattezze ma anche precise indicazioni. Viene inoltre trasmesso un numero di telefono a cui chiunque può fornire informazioni coperte da segretezza. Poco dopo mezzogiorno, Andreotti legge alla Camera una dichiarazione programmatica che ripeterà più tardi di fronte al Senato: il governo, con il suo programma, ottiene rapidamente la fiducia. In serata, il presidente del Consiglio apparirà alla televisione parlando di fermezza e difesa dello Stato. Nel pomeriggio, il procuratore capo della Repubblica di Roma, De Matteo, che in mattinata ha partecipato al vertice al Viminale, convoca i sostituti procuratori e assume la direzione delle indagini, assicurando un lavoro collaborativo. I primi sopralluoghi sono stati compiuti dal sostituto di turno, Infelisi. Interrogato dai giornalisti, De Matteo dichiara che c'è la possibilità di applicare uno «stato di pericolo pubblico». La direzione democristiana riunita in permanenza, tramite il suo segretario Zaccagnini, definisce l'agguato di via Fani «un attacco alla nuova maggioranza». È la stessa conclusione - trasmessa alla stampa - a cui sono giunti i comunisti. Da tutto il mondo cominciano ad arrivare messaggi di solidarietà e dichiarazioni di sostegno. Da americani, tedeschi e inglesi arrivano anche offerte di collaborazione tecnico-logistica. Aldo Moro è a via Montalcini, prigioniero delle Br. Il Tribunale del Popolo gli comunica l'inizio del processo nei suoi confronti.
ALDO MORO....
Aldo Moro 1916 – 1978 da “La Storia Siamo Noi”. Aldo Moro nasce a Maglie, in provincia di Lecce, il 23 settembre 1916. Si iscrive a Giurisprudenza nell'Università di Bari, e, dopo la laurea, inizia la carriera accademica. Nel 1939 pubblica il suo primo libro, che è dedicato alla capacità giuridica penale. In quegli anni matura anche l'impegno politico nella FUCI: la federazione degli universitari cattolici di cui è presidente dal 1939 al 1943. Dal 1945 al 1946 dirige il Movimento Laureati dell'Azione Cattolica. Nel 1946 è eletto all'Assemblea Costituente come rappresentante della DC di cui è uno dei fondatori. Poco dopo entra a far parte della Commissione dei Settantacinque che ha il compito di redigere il testo costituzionale. Nelle elezioni dell'aprile 1948 viene eletto alla Camera e fino al 1959 ricopre alcuni fra gli incarichi governativi più importanti: nel quinto governo De Gasperi è nominato sottosegretario agli esteri. Nel 1955, con il primo governo Segni, è ministro di Grazia e Giustizia. Due anni dopo, è ministro della Pubblica Istruzione nel governo Zoli. È a lui che si deve l'introduzione dell'educazione civica come materia d'insegnamento nelle scuole elementari e medie. Lavora alla costruzione del centro sinistra dalla fine degli anni Cinquanta. È d'accordo con Fanfani. Comprende che la stagione del centrismo è terminata, e che occorre spostare a sinistra la politica del governo per dare al paese le riforme di cui ha bisogno. Ma è una strada difficile. Deve superare le resistenze interne al suo partito e quelle del PSI che, fino allora, ha sostenuto una politica di collaborazione con il PCI. Il 1959 è l'anno della svolta. Al VII congresso della DC ottiene la segreteria del partito: è il risultato di un compromesso fra le correnti democristiane. Nello scontro fra Fanfani e la destra del partito, che si oppone all'apertura verso i socialisti, Moro riesce ad imporre una linea che esclude l'appoggio parlamentare dei partiti di destra per ogni futuro governo e che equivale a sostenere l'ipotesi del centro sinistra. Nel 1963 è presidente del Consiglio di un governo che vede la partecipazione dei socialisti. Un'esperienza politica che ha termine nel 1968. Gli elettori puniscono i partiti del centro sinistra e determinano, di fatto, la crisi di quella stagione. Dal 1970 al 1974 Moro è ministro degli esteri. Nel 1974 costituisce il suo quarto governo, ma l'anno successivo una novità importante cambia il quadro politico italiano. Alle elezioni amministrative del 1975 il PCI ottiene un grande consenso, e riporta al centro del dibattito politico la strategia che Moro sostiene da tempo: coinvolgere il PCI nella compagine governativa per dare una nuova spinta riformista al paese. Dal luglio del 1976 al marzo 1978 l'Italia conosce la stagione della solidarietà nazionale. La guida democristiana del governo è sostenuta dall'esterno da tutti i partiti dell'arco costituzionale che si astengono. Votano contro il MSI, i radicali e democrazia proletaria. Il 16 marzo del 1978 un commando delle Brigate Rosse rapisce Moro che dal luglio del 1976 è presidente della DC. Vengono uccisi tutti gli uomini della scorta. Moro si sta recando in Parlamento dove avrebbe votato la fiducia al primo governo con il sostegno dei comunisti. Durante i giorni della prigionia, i servizi segreti di tutto il mondo non riescono a trovare Moro. In Italia si apre un dibattito drammatico fra coloro che sostengo la necessità di trattare con le BR e coloro che, invece, rifiutano di scendere a compromessi. Lo Stato non tratta e il 9 maggio 1978 il cadavere del presidente della DC viene ritrovato dentro il bagagliaio di una Renault 4 a Roma, in via Michelangelo Caetani. È uno degli episodi più drammatici dell'intera storia dell'Italia repubblicana.
Aldo Moro Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Per quanto si sia turbati, bisogna guardare al nucleo essenziale di verità, al modo di essere della nostra società, che preannuncia soprattutto una nuova persona più ricca di vita e più consapevole dei propri diritti. Governare significa fare tante singole cose importanti ed attese, ma nel profondo vuol dire promuovere una nuova condizione umana» (Aldo Moro, Relazione al XII Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 9 giugno 1973).
Incarichi Istituzionali:
Presidente del Consiglio dei Ministri: 4 dicembre 1963 - 24 giugno 1968.
Presidente del Consiglio dei Ministri: 23 novembre 1974 - 29 luglio 1976.
Ministro degli Affari Esteri: 5 agosto 1969 - 29 luglio 1972; 7 luglio 1973 - 23 novembre 1974.
Ministro della Pubblica Istruzione: 19 maggio 1957 - 15 febbraio 1959.
Ministro della Giustizia: 6 luglio 1955 - 19 maggio 1957.
Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana: 1976 - 1978.
Segretario Nazionale della Democrazia Cristiana: 1959 - 1964.
Incarichi parlamentari:
Segretario della Commissione Speciale per l'esame del disegno di legge sulle nuove formule di giuramento dal 10 dicembre 1946 al 31 gennaio 1948.
Commissione per la Costituzione dal 19 luglio 1946 al 31 gennaio 1948.
1ª Sottocommissione dal 19 luglio 1946 al 31 gennaio 1948.
Comitato di Redazione dal 19 luglio 1946 al 31 gennaio 1948.
Commissione Parlamentare per la vigilanza sulle radiodiffusioni dal 7 luglio 1947 al 31 gennaio 1948.
Componente della Giunta per il Regolamento dall'8 maggio 1948 al 27 maggio 1948, dal 6 agosto 1951 al 24 giugno 1953 e dal 26 giugno 1953 al 6 luglio 1955.
Componente della 2ª Commissione (Affari Esterni) dall'11 giugno 1948 al 24 giugno 1953 e dal 1° luglio 1953 al 6 luglio 1955.
Componente della 6ª Commissione (Istruzione e Belle Arti) dal 29 gennaio 1950 al 24 giugno 1953 e dal 1° luglio 1953 al 6 luglio 1955.
Componente della Commissione Speciale per l'esame dei provvedimenti relativi alla Corte Costituzionale (n. 469 e 1292) dal 25 settembre 1952 al 18 dicembre 1952.
Componente della Giunta per i trattati di commercio e la legislazione doganale dal 27 luglio 1951 al 1° luglio 1952.
Componente della 1ª Commissione (Affari Costituzionali) dal 1° luglio 1959 al 30 giugno 1962.
Componente della 4ª Commissione (Giustizia) dal 12 giugno 1958 al 30 giugno 1959, dal 1° luglio 1962 al 15 maggio 1963 e dal 1º luglio 1963 al 4 dicembre 1963.
Componente della 8ª Commissione (Istruzione e Belle Arti) dal 10 luglio 1968 al 24 maggio 1972.
Componente della 3ª Commissione (Affari Esteri) dal 25 maggio 1972 al 4 luglio 1976 e dal 5 luglio 1976 al 9 maggio 1978.
Presidente della 3a Commissione (Affari Esteri) dall'11 luglio 1972 al 7 luglio 1973.
Aldo Romeo Luigi Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978) è stato un politico, accademico e giurista italiano, cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri, Segretario politico e presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana. Fu rapito il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo da alcuni terroristi delle Brigate Rosse. Nacque a Maglie, in provincia di Lecce, da genitori originari di Gemini, frazione di Ugento. Conseguì la Maturità Classica al Liceo "Archita" di Taranto. Si iscrisse presso l'Università di Bari alla Facoltà di Giurisprudenza, dove prese la laurea, sotto la guida del prof. Biagio Petrocelli, con una tesi su "La capacità giuridica penale". In seguito, nel 1939, pubblicò la tesi e ottenne la docenza in filosofia del diritto e di politica coloniale alla stessa università nel 1941. L'anno successivo svilupperà la sua seconda opera La subiettivazione della norma penale e otterrà così la cattedra di professore di diritto penale. Durante gli anni universitari partecipò ai Littoriali della cultura e dell'arte. Nel 1935 entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana di Bari, segnalandosi ben presto anche a livello nazionale. Nel luglio 1939 venne scelto, su consiglio di Giovanni Battista Montini, di cui, proprio in quegli anni, divenne amico, come presidente dell'Associazione. Mantenne l'incarico sino al 1942, quando fu chiamato alle armi, prima come ufficiale di fanteria, poi come commissario nell'aeronautica. Gli successe Giulio Andreotti, sino ad allora direttore della rivista Azione Fucina. Dopo qualche anno di carriera accademica, fondò nel 1943 a Bari, con alcuni amici, il periodico La Rassegna che uscì fino al 1945. Nel luglio dello stesso anno prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. Nel 1945 sposò Eleonora Chiavarelli (1915–2010), con la quale ebbe quattro figli: Maria Fida (1946), Anna (1949), Agnese (1952), e Giovanni (1958). Nei primi anni cinquanta fu nominato professore ordinario di diritto penale presso l'Università di Bari. Nel 1963 ottenne il trasferimento all'Università di Roma, in qualità di titolare della cattedra di Istituzioni di Diritto e Procedura penale presso la Facoltà di Scienze politiche. Tra il 1943 e il 1945 Aldo Moro aveva cominciato a interessarsi di politica, in un primo tempo mostrò particolare attenzione alla componente socialdemocratica del partito socialista, successivamente però il suo forte credo cattolico lo spinse verso il costituendo movimento democristiano. Nella DC mostrò subito la sua tendenza democratico-sociale, aderendo alla componente dossettiana. Nel 1945 divenne direttore della rivista Studium e fu eletto presidente del Movimento Laureati dell'Azione Cattolica. Nel 1946 divenne vicepresidente della Democrazia Cristiana e fu eletto all'Assemblea Costituente, dove entrò a far parte della Commissione che si occupò di redigere il testo costituzionale. Eletto deputato al Parlamento nelle elezioni del 1948, fu nominato sottosegretario agli esteri nel gabinetto De Gasperi (23 maggio 1948 - 27 gennaio 1950). Nel 1953 fu rieletto alla Camera, ove fu eletto presidente del gruppo parlamentare democristiano. Nel 1955 fu ministro di Grazia e Giustizia nel governo Segni I e l'anno dopo risultò tra i primi eletti nel consiglio nazionale del partito durante il VI congresso nazionale della DC. Ministro della Pubblica Istruzione nei due anni successivi (governi Zoli e Fanfani), introdusse lo studio dell'educazione civica nelle scuole. Nel marzo 1959, in conseguenza delle dimissioni di Fanfani da segretario del partito, e dopo la spaccatura della corrente maggioritaria nel partito, "Iniziativa Democratica", Aldo Moro venne eletto nuovo segretario della Democrazia Cristiana. Guidò il VII congresso nazionale, che si svolse a Firenze dal 23 al 28 ottobre 1959. Nel dicembre 1963 (IV Legislatura, 1963 - 1968) divenne, a soli 47 anni, presidente del Consiglio. Formò il suo primo governo con una coalizione inedita: DC, PSI, PSDI e PRI; fu il primo governo del centro-sinistra. La coalizione resse fino alle elezioni del 1968. Il governo Moro III (23 febbraio 1966 - 5 giugno 1968) batté il record di durata (833 giorni) e rimase uno dei più longevi della Repubblica. Dopo le elezioni venne costituito un governo balneare in attesa del congresso DC, previsto per l'autunno. Al congresso Moro passò all'opposizione interna al partito. Dal 1969 al 1974 (V e VI Legislatura), assunse l'incarico di Ministro degli affari esteri. Dopo la caduta del V governo Rumor, riprese la guida di palazzo Chigi, dove rimase fino alle elezioni anticipate del 1976. Nel 1975 il suo governo conclude il Trattato di Osimo, con cui si sanciva l'appartenenza della Zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia. Nel 1976 fu eletto Presidente del Consiglio Nazionale del partito. Aldo Moro «era un cattolico osservante e praticante e la sua fede in Dio si rispecchiava nella sua vita politica». Era considerato un mediatore tenace e particolarmente abile nella gestione e nel coordinamento politico delle numerose "correnti" che agivano e si suddividevano il potere all'interno della Democrazia Cristiana. All'inizio degli anni sessanta Moro fu un convinto assertore della necessità di un'alleanza tra il suo partito e il Partito Socialista Italiano, per creare un governo di centro-sinistra. Nel congresso democristiano di Napoli del 1962 riuscì a portare su questa posizione l'intero gruppo dirigente del partito. La stessa cosa avvenne all'inizio del 1978 (poco prima del rapimento), quando riuscì a convincere la DC della necessità di un "governo di solidarietà nazionale", con la presenza del PCI nella maggioranza parlamentare. La sua intenzione dominante era di allargare la base del sistema di governo, ossia il vertice del potere esecutivo avrebbe dovuto rappresentare un numero più ampio di partiti e di elettori. Questo sarebbe stato possibile solo con un gioco di alleanze aventi come fulcro la DC, seguendo così una linea politica secondo il principio di democrazia consociativa. Secondo Sandro Fontana, Moro nella sua attività politica si trovava nella difficoltà di conciliare la missione cristiana e popolare della Democrazia Cristiana con i valori di tendenza laica e liberale della società italiana. Il “miracolo economico”, che aveva portato l'Italia rurale a diventare in pochi decenni una delle grandi potenze industriali mondiali, comportò anche un cambiamento sociale, con il risveglio delle masse richiedenti una presenza attiva nella vita del paese. Moro, quando affermava che “di crescita si può anche morire”, esprimeva un suo giudizio sui rischi di una società in rapida crescita. Il risveglio delle masse aveva favorito nuove e più forti fasce sociali (tra cui i giovani, le donne e i lavoratori) che avevano bisogno di integrazione (anche economica con precise riforme) all'interno del processo politico. Le masse popolari, secondo alcuni, tendevano a esprimere in forma “emotiva e mitologica” il loro bisogno di una partecipazione diretta alla gestione del potere. Secondo altri, più semplicemente, le masse popolari italiane erano e sono – per ragioni storiche, politico-culturali e di fragilità del ceto intellettuale – propense a inclinare verso una destra autoritaria. In questo quadro variegato e in evoluzione, la missione che Moro avrebbe ascritto alla Democrazia Cristiana fu di recuperare le classi popolari dal fascismo e traghettarle nel sistema democratico. Per questo motivo, Moro si sarebbe ritrovato nella situazione di dover “armonizzare” realtà apparentemente inconciliabili tra loro. Questo fattore era un fondamentale presupposto per la nascita di gruppi terroristici che, visti sotto quest'ottica, sarebbero il frutto dell'estremizzazione della partecipazione attiva ed extraparlamentare alla politica del paese da parte di una piccola frazione della popolazione in cui componenti emozionali e mitologiche si mescolerebbero provocando quasi sempre “situazioni drammatiche”. Dall'altro lato c'era il desiderio di far sopravvivere il sistema politico, che a questo scopo aveva bisogno sia di regole precise, sia di scendere continuamente a compromessi alla ricerca di una forma di tolleranza civile. Sandro Fontana così riepiloga i dilemmi di Moro: «Come conciliare l'estrema mobilità delle trasformazioni sociali con la continuità delle strutture rappresentative? Come integrare nello Stato masse sempre più estese di cittadini senza cedere a seduzioni autoritarie? Come crescere senza morire?» Nell'opinione di Moro la soluzione a tali quesiti non poteva non essere raggiunta che con un compromesso politico, ampliando l'esperienza dell’ “'apertura a sinistra” della DC nei confronti del PSI di Pietro Nenni, avvenuta all'inizio degli anni sessanta. Ma la situazione era diversa: fin dal 1956 (rivoluzione ungherese) il PSI si era dichiaratamente staccato dal PCI intraprendendo una strada autonoma. Negli anni settanta e soprattutto dopo le elezioni del 1976, Moro concepì l'esigenza di dar vita a governi di "solidarietà nazionale", con una base parlamentare più ampia comprendente anche il PCI. Ciò rese Moro oggetto di aspre contestazioni: i critici lo accusarono di volersi rendere artefice di un secondo “compromesso storico”, più clamoroso di quello con Nenni, in quanto prevedeva una collaborazione di governo con il Partito Comunista di Enrico Berlinguer, che ancora faceva parte della sfera d'influenza sovietica, cosa confutata da recenti studi di filosofia politica, in particolare quelli di Danilo Campanella, esperto di filosofia politica morotea, secondo cui la strategia di Moro era quella di un "logoramento" del partito comunista per arrivare all'unità nazionale. Berlinguer anticipò le eventuali preclusioni ai suoi danni prendendo pubblicamente le distanze da Mosca e rivendicando la capacità del PCI di muoversi autonomamente sullo scacchiere politico italiano. Aldo Moro fu uno dei leader politici che maggiormente prestarono attenzione alle affermazioni di Berlinguer, che con lo «strappo da Mosca» si sarebbe reso accettabile a una parte degli elettori della Democrazia Cristiana. Il segretario nazionale del Partito Comunista Italiano aveva proposto un accordo di solidarietà politica fra i comunisti e cattolici, in un momento di profonda crisi sociale e politica in Italia: la conseguenza fu un intenso confronto parlamentare tra i due schieramenti, che fece parlare di "centralità del Parlamento". All'inizio del 1978 Moro, allora presidente della Democrazia Cristiana, fu l'esponente politico più importante che ritenne possibile un governo di "solidarietà nazionale", che includesse anche il PCI nella maggioranza, sia pure senza una presenza di ministri comunisti nel governo, in una prima fase. Tale soluzione presentava rischi sul piano della politica internazionale, in quanto non trovava il consenso delle grandi superpotenze mondiali:
Disaccordo degli Usa: l'ingresso al governo di persone che avevano stretti contatti con il partito comunista sovietico avrebbe consentito loro di venire a conoscenza, in piena guerra fredda, di piani militari e di postazioni strategiche supersegrete della Nato. Inoltre, una partecipazione comunista in un paese d'influenza americana sarebbe stata una sconfitta culturale degli Usa nei confronti del resto del mondo, e soprattutto dell'Urss;
Disaccordo dell'Urss: la partecipazione al governo del PCI sarebbe stata interpretabile come una forma di emancipazione del partito dal controllo sovietico e di avvicinamento autonomo agli USA.
Le divergenze sul piano internazionale Moro le aveva già constatate sulla propria pelle nel periodo direttamente antecedente il sequestro: la sua difesa di Rumor nella discussione parlamentare sullo Scandalo Lockheed fu da taluno spiegata con un suo personale coinvolgimento nel sistema di tangenti versate dall'impresa aerospaziale americana Lockheed in cambio dell'acquisto di aerei da trasporto militari C-130. Secondo alcuni giornali dell'epoca Moro era il fantomatico Antelope Cobbler, destinatario delle bustarelle. L'accusa, che avrebbe avuto lo scopo di fare fuori politicamente Moro e far naufragare i suoi progetti politici, venne ridimensionata con l'assoluzione di Moro del 3 marzo 1978, tredici giorni prima dell'agguato in via Fani. Il 7 marzo 1977 cominciò in Parlamento il dibattito sullo scandalo Lockheed. Marco Pannella, tra i primi a parlare, sostenne la tesi che il responsabile delle tangenti non fosse il governo ma il Presidente della Repubblica in persona, Giovanni Leone. Ugo La Malfa si schierò dalla sua parte chiedendo le dimissioni del Presidente. Il 9 marzo prese la parola Moro. Il presidente DC difese il suo partito dall'accusa di aver posto in essere un «regime» e difese i ministri Luigi Gui (democristiano) e Mario Tanassi (PSDI), che erano al centro dell'inchiesta. Poi replicò all'intervento di Domenico Pinto, deputato di Democrazia Proletaria, che aveva detto che la corruzione della DC era provata dallo scandalo Lockheed; per questo i democristiani sarebbero stati processati nelle piazze: «Nel Paese vi sono molte opposizioni (…); e quell'opposizione, colleghi della Democrazia Cristiana, sarà molto più intransigente, sarà molto più radicale quando i processi non si faranno più in un'aula come questa, ma si faranno nelle piazze, e nelle piazze vi saranno le condanne». Moro replicò: «Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo nelle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». In seguito la frase si prestò a diverse interpretazioni politiche. La vicenda giudiziaria si concluderà nel 1979 con l'assoluzione di Gui e la condanna di Tanassi. Il 16 marzo 1978, giorno della presentazione del nuovo governo, il quarto guidato da Giulio Andreotti, la Fiat 130 che trasportava Moro, dalla sua abitazione nel quartiere Trionfale zona Monte Mario di Roma alla Camera dei deputati, fu intercettata da un commando delle Brigate Rosse all'incrocio tra via Mario Fani e via Stresa. Gli uomini delle BR uccisero, in pochi secondi, i cinque uomini della scorta (Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana. Dopo una prigionia di 55 giorni nel covo di via Montalcini le Brigate Rosse decisero di concludere il sequestro uccidendo Moro: lo misero dentro il portabagagli di un'automobile Renault 4 rossa, rubata il 2 marzo 1978 a un imprenditore (Filippo Bartoli) nel quartiere Prati, due settimane prima dell'eccidio di via Fani e gli dissero di coprirsi con una coperta dicendo che avevano intenzione di trasportarlo in un altro luogo. Dopo che Moro fu coperto, gli spararono dieci cartucce uccidendolo. Il corpo di Aldo Moro fu ritrovato nella stessa auto il 9 maggio a Roma in via Caetani emblematicamente vicina sia a piazza del Gesù (dov'era la sede nazionale della Democrazia Cristiana), sia a via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del Partito Comunista Italiano). Fu sepolto nel comune di Torrita Tiberina, piccolo paese della provincia romana dove lo statista amava soggiornare. Aveva 61 anni. Papa Paolo VI il successivo 13 maggio officiò una solenne commemorazione funebre pubblica per la scomparsa di Aldo Moro, amico di sempre e suo alleato, a cui parteciparono le personalità politiche italiane e che venne trasmessa in televisione. Questa cerimonia funebre venne celebrata senza il corpo dello statista per esplicito volere della famiglia, che non vi partecipò, ritenendo che lo stato italiano poco o nulla avesse fatto per salvare la vita di Moro, rifiutando il funerale di stato e scegliendo di svolgere le esequie dello statista in forma privata. Rinchiuso dalle Brigate Rosse nella "prigione del popolo", Aldo Moro scrisse moltissime lettere, indirizzate perlopiù ai familiari e alla dirigenza della Democrazia Cristiana, più precisamente a Benigno Zaccagnini, a Francesco Cossiga, a Giulio Andreotti, a Riccardo Misasi e ad altri; oltre che al capo socialista Bettino Craxi, l'unico esponente di governo che abbia sostenuto la necessità di trattare per salvare la vita di Moro. Le lettere, che degli esami grafologici hanno attribuito come scrittura al politico, sono sicuramente di Moro, anche se ragioni tattiche (ascrivibili alla cosiddetta "linea della fermezza" e alla necessità di chiudere ogni spiraglio alla trattativa) spinsero buona parte dell'allora dirigenza politica (soprattutto DC) ad allinearsi e a metterne in dubbio l'autenticità, a sostenere che non fossero state pensate da Moro o fossero addirittura dettate dalle Brigate Rosse. Il parere dei familiari, dei migliori studiosi e infine di chiunque abbia letto le lettere integralmente, è concorde nel riconoscere pienamente Moro in quegli scritti. Trentotto di queste lettere vennero pubblicate, con una introduzione attribuita a Bettino Craxi, nel pamphlet Lettere dal Patibolo dalla rivista Critica Sociale. Il settimanale Panorama, nel numero del 19 maggio 1980 in un articolo dal titolo Perché rubano tanto?, aveva sollevato il caso delle fattorie del senese amministrate dal consigliere di Aldo Moro, Sereno Freato. La polemica fu poi ripresa da Giorgio Pisanò sul settimanale Candido. Il 4 maggio 2007, il Parlamento ha votato e approvato una legge con il quale si istituisce il 9 maggio il "Giorno della memoria" in ricordo di Aldo Moro e di tutte le vittime del terrorismo. Tra aprile e maggio 2007 è stata presentata presso l'Istituto San Giuseppe delle suore Orsoline a Terracina e presso la sede dell'associazione Forche Caudine a Roma, presente la figlia Agnese, una raccolta ragionata dei suoi scritti giornalistici, curata da Antonello Di Mario e Tullio Pironti editore. Nella notte tra l'8 e il 9 giugno 2007, giorni della visita del presidente degli Stati Uniti d'America George W. Bush in Italia, la lapide di via Fani che ricorda il rapimento di Aldo Moro e le cinque persone della scorta uccise è stata imbrattata con la scritta "Bush uguale a Moro". Il giorno della domenica delle Palme del 2008, 16 marzo, a trenta anni dal suo rapimento, il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro nell'omelia pasquale ha chiesto l'avvio di un processo di beatificazione per Aldo Moro: "uomo di infinita misericordia, che perdonò tutti". Il 20 settembre 2012 il presidente del tribunale diocesano di Roma dà il via libera all'inchiesta sulla beatificazione di Aldo Moro dopo il nulla osta concesso dal vicario del Papa, cardinal Agostino Vallini, che ha indicato lo statista «servo di Dio». È stato nominato postulatore per la causa di beatificazione dello statista il dottor Nicola Giampaolo di Rutigliano. Nel giorno del 30º anniversario della sua morte, l'Università degli Studi di Bari, di cui Moro fu studente e docente, ha deliberato di intitolarsi allo statista, la decisione ha avuto il consenso e apprezzamento della figlia Agnese Moro. Ad Aldo Moro è dedicato il ponte omonimo di Taranto conosciuto anche come Ponte Punta Penna Pizzone. Ormai i termini di secretazione sono scaduti, e lentamente vengono pubblicati alcuni documenti realizzati durante la sua attività politica. Nell'ottobre 2014 è stata costituita la commissione d'inchiesta parlamentare, alla cui presidenza si è insediato Giuseppe Fioroni. Il pensiero moroteo è stato scandagliato negli ultimi anni alla ricerca di una traccia che possa teorizzare un piano teoretico di Moro. Ricercatori, collaboratori, filosofi si sono impegnati, non soltanto in ambito storiografico, a decifrare la vasta memoria di scritti e discorsi, opere, articoli e pubblicazioni dello statista. Giovanni Galloni racconta nel suo Trent'anni con Moro l'esperienza politica e personale con lo statista all'interno della DC e della politica italiana. Il libro non è parco di aneddoti, teorie e considerazioni personali dell'ex ministro della Pubblica istruzione. Angelo Schillaci, nel suo lavoro Persona ed esperienza giuridica nel pensiero di Aldo Moro individua le radici di una filosofia del diritto all'interno del pensiero di Moro, che afferisce ad autori quali Mounier e Maritain. In particolare Schillaci sottolinea il concetto di subiettivazione della norma penale nella teoria giuridica morotea in cui il soggetto di reato è in primis titolare di un diritto innato, appunto soggettivo, al quale il legislatore deve sottostare; ne derivano temi come la pena di morte, l'ergastolo e la rieducazione dell'ergastolano in cui Aldo Moro s'impegnerà durante la sua attività politica. La filosofia politica di Aldo Moro verrà trattata da Danilo Campanella che, dopo un'attenta ricerca del retroterra biografico e del diritto, individuerà in Aldo Moro un vero e proprio filosofo della politica. Lo statista non s'impegnò in una commistione di filosofie precedenti, né criticò teorie politiche, ma cercò di dare risposte nuove ai problemi della politica all'interno della filosofia, come illustrato durante l'Inaugurazione nazionale delle presentazioni Aldo Moro, in cui il filosofo ha trattato il ruolo del cittadino nella democrazia, una nuova concezione di Stato, il ruolo della Resistenza come nuovo, vero Risorgimento, l'alternanza tra cattolicesimo e socialismo, il pluralismo, una nuova e innovativa concezione di laicità (polo pubblico e polo privato che Moro trasla dalla giurisprudenza), il pluralismo, la comunità sociale e le prospettive europee negli Stati Uniti d'Europa, la politica reale e quella ideologica.
Aldo Moro si occupò, assieme di politica attiva, anche di filosofia, principalmente filosofia del diritto e filosofia politica.
OPERE DI ALDO MORO.
La capacità giuridica penale, Padova, CEDAM, 1939.
La subiettivazione della norma penale, Bari, Macrì, 1942.
Lo stato. Corso di lezioni di filosofia del diritto tenute presso l'Università di Bari nell'anno accademico 1942-43, raccolte a cura e per uso degli studenti, Padova, CEDAM, 1943.
Il diritto. Corso di lezioni di filosofia del diritto tenute presso la R. Università di Bari nell'anno accademico 1944-45, raccolte a cura e per uso degli studenti, Bari, L.U.C.E., 1945.
L'antigiuridicità penale, Palermo, Priulla, 1947.
Appunti sull'esperienza giuridica. Lo stato. Lezioni di filosofia del diritto tenute presso l'università di Bari nell'anno accademico 1946-1947, Bari, L.U.C.E., 1947.
Unità e pluralità di reati. Principi, Padova, CEDAM, 1951; 1954.
La parità della scuola, in Libertà e parità della scuola non statale nella Costituzione, Roma, Fidae, 1957.
Pensiero politico di Luigi Sturzo, Napoli, Ediz. Politica popolare, 1959.
Relazione al VII Congresso nazionale della Democrazia cristiana. Firenze, 23-28 ottobre 1959, Roma, DC Spes, 1960.
La Democrazia cristiana per il governo del paese e lo sviluppo democratico nella società italiana, Roma, Cinque lune, 1961.
Le funzioni sociali dello Stato, in Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, Roma, Studium, 1961.
Per garantire e sviluppare la democrazia in Italia. Relazione dell'on. Moro al Consiglio nazionale della D.C., Roma, DC Spes, 1961.
La continuità della politica di sviluppo democratico promossa in Italia dalla Democrazia cristiana, Roma, DC Spes, 1962.
Discorsi elettorali. Elezioni amministrative 10 giugno 1962, Roma, Cinque lune, 1962.
Il discorso al Consiglio nazionale. Roma 3-4-5 luglio 1962, Roma, DC Spes, 1962.
La Democrazia cristiana per la donna nella famiglia e nella società, Roma, DC Spes, 1963.
La professione forza coesiva della società, in Cristianesimo e democrazia, Roma, Civitas, 1964.
Dichiarazioni programmatiche di governo. Dicembre 1963, Roma, Spes centrale, 1964.
La linea Moro, Livorno, Il telegrafo, 1964.
Luigi Sturzo: una vita per la libertà e la democrazia, in Il movimento politico dei Cattolici, Roma, Civitas, 1969.
Una politica per i tempi nuovi, Roma, Agenzia Progetto, 1969.
Per la società italiana e la comunità internazionale, Roma, Agenzia Progetto, 1971.
Prima e dopo il 7 maggio, Roma, Agenzia Progetto, 1972.
Per una iniziativa politica della Democrazia cristiana, Roma, Agenzia Progetto, 1973.
Il diritto. Lezioni di filosofia del diritto tenute presso l'Università di Bari: 1944-1945, Bari, Cacucci, 1978.
Il diritto, 1944-1945. Lezioni di filosofia del diritto tenute presso l'Università di Bari; Lo Stato, 1946-1947. Appunti sull'esperienza giuridica, Bari, Cacucci, 1978.
Discorsi politici, Roma, Cinque lune, 1978.
Nella società che cambia. Discorsi della prima seconda e terza fase, Roma, EBE, 1978.
L'intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, Milano, Garzanti, 1979.
Scritti e discorsi, 6 voll., Roma, Cinque lune, 1982-1990.
Al di là della politica e altri scritti. Studium, 1942-1952, Roma, Studium, 1982.
Moro. I giorni del tormento, Roma, Cinque lune, 1982.
Italia nell'evoluzione dei rapporti internazionali. Discorsi, interventi, dichiarazioni e articoli recuperati e interpretati da Giovanni Di Capua, Roma-Brescia, EBE-Moretto, 1986.
Aldo Moro. Il potere della parola (1943-1978), Roma, EBE, 1988.
Dichiaro aperta la fiera del Levante.... I discorsi da Presidente del Consiglio alle edizioni del 1964, 1965, 1966, 1967, 1975 della Campionaria barese, Bari, Safra, 1991.
Il memoriale di Aldo Moro rinvenuto in via Monte Nevoso a Milano, Roma, Coletti, 1993.
Lettere. 16 marzo-9 maggio 1978, San Bellino, Nova Cultura, 1995.
Lettere dal patibolo, Milano, Giornalisti editori, 1995.
Discorsi parlamentari. 1947-1977, 2 voll., Roma, Camera dei Deputati, 1996.
Il mio sangue ricadrà su di loro. Gli scritti di Aldo Moro prigioniero delle Br, Milano, Kaos, 1997.
Moro: lettere dal carcere delle Brigate Rosse. 9 maggio '78 - 9 maggio '98, Roma, L'Editrice Romana, 1998.
Pietro Nenni, Aldo Moro. Carteggio 1960-1978, Firenze, La Nuova Italia, 1998.
Ultimi scritti. 16 marzo-9 maggio 1978, Casale Monferrato, Piemme, 1998.
La democrazia incompiuta. Attori e questioni della politica italiana, 1943-1978, Roma, Editori Riuniti, 1999.
55 giorni di piombo. Le lettere dal carcere di Aldo Moro, i ricordi di Francesco Cossiga, Claudio Martelli, Agnese Moro, Eugenio Scalfari, Roma, Elleu Multimedia, 2000.
55 giorni. Aldo Moro-voci e carte dalla prigione, Roma, Nuova iniziativa editoriale, 2003.
Lezioni di istituzioni di diritto e procedura penale. Tenute nella Facoltà di scienze politiche dell'Università degli studi di Roma, con DVD audio, Bari, Cacucci, 2005.
Lo Stato, il diritto, Bari, Cacucci, 2006.
Lettere dalla prigionia, Torino, Einaudi, 2008.
La democrazia incompiuta, Milano, RCS Quotidiani, 2011.
Libertà e giustizia sociale. Per un'autonomia della persona umana (13 marzo 1947), in I valori costituzionali del riformismo cristiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011.
L'Italia di Donat-Cattin. Gli anni caldi della prima Repubblica nel carteggio inedito con Moro... (1960-1991), Venezia, Marsilio, 2011.
"Siate indipendenti. Non guardate al domani ma al dopo domani". Le lettere di Aldo Moro dalla prigionia alla storia, Roma, Direzione Generale per gli Archivi-Archivio di Stato di Roma, 2013.
OPERE SU ALDO MORO.
Cinema.
Todo modo: film di Elio Petri, 1976, nel quale il personaggio del presidente, interpretato da Gian Maria Volonté, è palesemente ispirato ad Aldo Moro. Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia.
Il caso Moro: film di Giuseppe Ferrara, 1986. Il protagonista è nuovamente Gian Maria Volonté.
L'anno del terrore: film di John Frankenheimer, 1991. Tratto dal romanzo Year of The Gun di Michael Mewshaw; il personaggio dello statista compare brevemente in alcune scene ed è interpretato da Aldo Mengolini.
Piazza delle Cinque Lune: film di Renzo Martinelli, 2003. Il vero Moro appare in immagini di repertorio. Quello finto è interpretato da un caratterista mai in primo piano. Il film è dedicato all'allora ventisettenne nipote Luca Bonini Moro, che compare sui titoli di coda in veste di cantautore, interpretando il brano Maledetti voi; sullo sfondo del ragazzo (figlio di Maria Fida Moro e spesso affettuosamente citato nelle lettere dello statista durante la prigionia), alcune fotografie di lui a due anni col nonno nei giorni immediatamente precedenti il sequestro.
Buongiorno, notte: film di Marco Bellocchio, 2003. Moro è interpretato da Roberto Herlitzka.
Nel cuore dello Stato: film documentario di Alberto Castiglione, scritto con Fabrizio Scibilia, presentato a Palermo il 18 marzo 2008.
Se sarà luce sarà bellissimo - Moro: Un'altra storia: film di Aurelio Grimaldi, (2004, uscito nel 2009); Moro è interpretato da Roshan Seth.
Il divo: film di Paolo Sorrentino, 2008. Lo statista è interpretato da Paolo Graziosi.
Romanzo di una strage: film di Marco Tullio Giordana, 2012. Lo statista è interpretato da Fabrizio Gifuni.
Musica.
La canzone E Berta filava di Rino Gaetano è, per molti un riferimento ad Aldo Moro e alla sua politica di apertura verso il PCI, che era in realtà totale, seppur Moro non lo dicesse in pubblico. Alla base di ciò ci sono le parole che lo stesso Rino Gaetano disse nel 1977 nel concerto a San Cassiano, dove citò proprio Moro, dedicandogli la canzone.
Io se fossi Dio di Giorgio Gaber (1980): la canzone, della durata di 14 minuti, esprime un giudizio negativo su Aldo Moro. Fu pubblicata dalla F1 Team su disco da 12 pollici inciso solo da un lato, per il rifiuto della Carosello. La canzone era stata scritta nel 1978, dopo l'uccisione di Aldo Moro, ma fu pubblicata due anni dopo perché evidentemente le case discografiche temevano ripercussioni legali.
Teatro.
L'ira del sole, un 9 di maggio (1998) di Maria Fida Moro e Antonio Maria Di Fresco, regia di Antonio Raffaele Addamo. Con Maria Fida Moro e Luca Bonini Moro. Teatro Biondo Stabile di Palermo.
Aldo Moro – Una tragedia italiana (2007) di Corrado Augias e Vladimiro Polchi, regia di Giorgio Ferrara. Con Paolo Bonacelli (Aldo Moro) e Lorenzo Amato (il narratore). Teatro Stabile della Sardegna, Teatro Eliseo di Roma.
Corpo di stato – Il delitto Moro: una generazione divisa (1998) di Marco Baliani, regia di Maria Maglietta. Con Marco Baliani. Casa degli Alfieri – Trickster Teatro.
Se ci fosse luce – i misteri del caso Moro (2007) scritto, diretto e interpretato da Giancarlo Loffarelli. Con Emiliano Campoli, Marina Eianti, Giancarlo Loffarelli, Luigina Ricci, Elisa Ruotolo, Maurizio Tartaglione. Compagnia "Le colonne".
Roma, Via Caetani, 55º giorno (2008) scritto e interpretato da Lucilla Falcone – Associazione Culturale "La Buona Creanza".
ALDO MORTO - Tragedia (2012) di Daniele Timpano, regia di Daniele Timpano. Con Daniele Timpano. Amnesia vivace, Area 06, Cité internationales des Arts - Résidence d'artistes di Parigi.
Letteratura.
Amici e nemici di Giampaolo Spinato, pubblicato nel 2004 da Fazi, è un romanzo, il primo, interamente ispirato ai 55 giorni del sequestro e all'uccisione di Aldo Moro, il cui rapimento si immagina parallelo a quello di uno dei componenti del commando brigatista di via Fani.
Televisione.
Assolvenza Aldo Moro (Blob Speciale) antologia di filmati ed estratti dagli archivi Rai (servizi tratti dai TG, pubblicità, frammenti di film, programmi vari) risalenti al periodo del rapimento dello statista. Fu realizzata dalla redazione di Blob nel 1998 in occasione del ventennale dei noti avvenimenti. Fu trasmessa su Rai 3 dal 9 marzo al 16 maggio per cinque giorni a settimana (lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato); ogni puntata durava circa una dozzina di minuti e precedeva l'inizio di Blob.
Aldo Moro - Il Presidente: fiction televisiva in due puntate, prodotta dalla TaoDue di Piero Valsecchi, diretta da Gianluca Maria Tavarelli e interpretata da Michele Placido, in onda su Canale 5 il 9 e 11 maggio 2008 in occasione del trentennale dalla morte dello statista.
Alcuni filmati di repertorio dell'omicidio di Aldo Moro compaiono all'inizio del primo episodio della seconda stagione della serie televisiva inglese "Utopia".
Bibliografia.
Giovanni Acquaviva, Un italiano diverso: Aldo Moro, 1968.
Gianni Baget Bozzo, Il partito cristiano e l'apertura a sinistra: la DC di Fanfani e di Moro 1954-1962.
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IL CASO MORO.
In questo capitolo, tra le altre cose, vi sono inserite le lettere inviate da Aldo Moro per sostenere la sua liberazione. Si deve notare l’estrema differenza in termini di dignità rispetto alla morte tenute dallo statista con l’atteggiamento tenuto da Fabrizio Quattrocchi, un semplice cittadino. E quanto l’ideologia modifichi la percezione della realtà rispetto ai comportamenti umani.
Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. “Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta. – si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.
L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.
Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell'Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».
Aldo Moro contro il fascismo nel ’43: ha ucciso la patria, la ricostruiremo. Pubblicato lunedì, 06 maggio 2019 da Aldo Moro su Corriere.it. L’intervento qui pubblicato risale all’autunno del 1943. Aldo Moro lo pronunciò a Radio Bari, allora unica voce dell’Italia libera, quando aveva 27 anni. «Abbiamo ritrovato nove discorsi inediti, che si trovano presso il centro di documentazione creato da Sergio Flamigni a Oriolo Romano, dove sono conservate le carte personali di Moro, mentre quelle politiche, che erano nel suo studio, sono depositate all’Archivio centrale dello Stato», dichiara al «Corriere» Renato Moro, storico dell’Università Roma Tre, nipote dello statista e presidente del comitato scientifico incaricato di curare l’Edizione nazionale delle sue opere. Il professore inquadra storicamente i testi: «Aldo Moro, all’epoca libero docente, venne colto dall’8 settembre mentre stava partendo per prendere servizio a Roma come ufficiale dell’aeronautica. Invece rimase a Bari e fu aggregato all’ufficio stampa del governo del Regno del Sud. Già attivo nella vita pubblica, ex presidente degli universitari cattolici della Fuci, prese a scrivere e pronunciare discorsi radiofonici». (Antonio Carioti) Radio Fascio ha impostato di recente il problema dei traditori. L’elenco dei miserabili che hanno partecipato al tradimento — così sconsolatamente confessa — è lungo, lunghissimo. Purtroppo vi sono — continua — traditori di grosso calibro, i quali costituiscono un gruppo non eccessivamente numeroso e accanto ad essi una fila interminabile di personaggi minori. Aldo Moro (Maglie, Lecce, 1916) in una foto del 1941Coloro che non credono più, e si rifiutano in conseguenza di obbedire e di combattere, son dunque ormai tra gli italiani, per riconoscimento esplicito della pattuglia di punta del rinascente partito, schiera e lunghissima schiera. Fino a ieri, si può dire, non si sentiva altro che di fedeltà incondizionata e di adesioni definitive, sicché lo sparuto drappello dei dissenzienti sembrava davvero fosse nascosto abilmente nei famosi e certo angusti angolini. Oggi si riconosce che le cose stavano ben diversamente e che i dissensi — chiamateli tradimenti, se volete — erano seri e vasti, anzi veramente totalitari. Per provenire le due valutazioni radicalmente diverse dalla stessa fonte, bisogna riconoscere che vi fu errore e, noi penseremmo, errore in mala fede nell’apprezzamento ottimistico che fu fatto allora dell’opinione del popolo italiano. Vero è che non vi fu mai un’Italia fascista e filo tedesca, come gli avvenimenti del 25 luglio e successivi hanno dimostrato. Vero è che oggi non esiste un’Italia fascista e filo-tedesca, la quale si riduce ad una carta cattiva giocata nel pessimo gioco del dittatore nazista. Il fascismo non ha, come non ebbe mai, per sé né i vecchi né i giovani né i giovanissimi; ma se mai sparute minoranze disinteressate. Bisogna onestamente riconoscere che la crisi, per dirla con frase mussoliniana, non è nel sistema ma del sistema che il fascismo fu nella storia d’Italia. Tutte le convulsioni che la sparuta schiera di questi tristi reintegratori del passato determini, per favorire la Germania, è veramente tradimento perpetrato ai danni dell’Italia. Ed è triste constatare la cieca pervicacia con la quale si dà opera a continuare una politica rovinosa ed a preparare la più inumana di tutte le guerre civili, quella cioè che contrappone l’uno all’altro i cittadini di una stessa Patria, i quali non divide, più forte della solidarietà nazionale, un diverso ideale, ma soltanto la prepotenza di un oppressore straniero cui tiene bordone un oppressore domestico. Tutto ciò è molto triste certamente. E noi non possiamo pensare senza disperazione al sangue italiano che sarà forse versato ancora vanamente, contro la verità, contro la libertà, contro la vita. Ma vogliamo superare l’indignazione e il dolore che ci prendono, per dire ancora una parola serena ai fascisti d’Italia, se ancora ve ne sono. Noi non vogliamo porre ora in discussione la loro buona fede, ma domandiamo soltanto che facciano uno sforzo per capire che al disopra di una particolare intuizione della Patria c’è la Patria stessa nella sua verità, nella sua storia, nel suo avvenire, quale risulta dal pensiero e dall’amore di tutti i suoi figli; per capire che la Patria è patrimonio di tutti e che è delittuoso piegarla alla propria particolare visione. Proprio perché la Patria è cosa di tutti, al fascismo fu dato di porsi tra le forze politiche del Paese, per far valere il suo programma accanto agli altri. La storia si fa di questi scontri e incontri, incessantemente. La Patria è certo il nostro io, ma non il piccolo io angusto, che si chiude ad ogni considerazione, ad ogni rispetto, ad ogni amore degli altri, ma l’io che si fa, energico e pieghevole, memore di sé ed attento alla vita di tutti, incontro agli altri, e afferma e nega, cede e s’impunta, sicché nel vasto gioco delle azioni di tutti sorga, in libertà e come frutto di libertà, il volto storico della Patria. La tirannia comincia là dove il piccolo io, rotto ogni vincolo di fraternità e di rispetto, dimentico di quella sublime umiltà che fa l’individuo uomo, la sua particolare visione eleva ad universale, senza il vaglio di una critica che consacri questo passaggio; il proprio particolare amore proponga orgogliosamente come l’amore di tutti. Allora la Patria è morta; quella sua grandezza augusta, che è nell’accogliere ogni voce, ogni palpito, ogni gioia, ogni sofferenza dei suoi figli, è spenta, terribile furto ai danni del proprio fratello è questo. Di più, impadronirsi della Patria di tutti, farne una piccola povera cosa di noi, è fatalmente condannarsi a perderla a nostra volta. Non si può negare ed affermare insieme. Non si può dire Patria, senza dire «tutti». Dove gli altri siano stati dimenticati, dove si sia, fingendone l’adesione o comprimendone la reazione, fatto a meno di loro, la Patria è veramente finita. Di questa fine, triste come l’oscurarsi dei valori che danno alla vita bellezza e dignità, potrebbero gli altri, i dimenticati e oppressi, chiedere conto ai dimentichi ed agli oppressori. Ma qui non si tratta di questo. Si tratta della Patria che ritorna, valore il quale, benché compresso, non può morire. Si tratta dell’Italia, la quale chiede di non essere ancora negata nella sua anima universale, di essere tutti, di accogliere in sé anche i figli che hanno sbagliato, anche quelli che hanno fatto intenzionalmente il male. L’Italia ha troppo sofferto di questa divisione fatale, per la quale non bastava essere italiani per essere italiani, perché non sia pronta a dimenticare; ha troppo perduto di energie, di vivezza, di sapere, di moralità, di bontà, perché respinga ora qualsivoglia energia data con lealtà per l’opera di ricostruzione. Ma non può essa permettere che coloro i quali proposero l’esclusivismo angusto tornino a chiamarsi italiani, senza aver riconosciuto il loro errore e la loro colpa, senza un’anima nuova, senza aver ritrovato il rispetto per tutti. Tanto meno può permettere che il solco fatale che ha diviso e divide ancora la storia d’Italia sia tolto, senza che essa sia assicurata per l’avvenire da un ritorno in forza di ideologie e prassi politiche, le quali, abusando della libertà, operino contro la libertà. Essa chiede che le voci di tutti gli italiani tornino a farsi sentire compostamente, che nessuna sia fatta tacere e nessuna pretenda di levarsi con prepotenza al disopra delle altre. Perché soltanto in questo equilibrio, in questo rispetto, in questa reale libertà si forma quella volontà solidale dei singoli riuniti in unità di popolo che fa la storia. Contro i vecchi e nuovi tentativi di dittatura, quelli scaltri e quelli candidi, contro tutte le esagerazioni e le unilateralità, l’Italia chiede l’umiltà di tutti, la coscienza della propria particolarità, il bisogno e l’attesa della integrazione, un grande rispetto per le cose che sono più grandi di noi. E ciò l’Italia attende e domanda non con debole voce come per cosa che si possa dare o negare a proprio piacimento, ma con voce imperiosa, seppure amorevole. È un dovere di patriottismo, è una esigenza squisitamente umana che ciascuno prenda con disciplina, la quale non esclude l’iniziativa e la responsabilità, il proprio posto di lavoro e dia opera in esso, dimenticando per un momento il triste passato, a costruire un avvenire più degno.
Istituita dal ministero dei Beni culturali nel 2016, l’Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro è diretta da un comitato scientifico presieduto da Renato Moro, di cui fanno parte molti illustri studiosi: tra gli altri Giuliano Amato, Piero Craveri, Ugo De Siervo, Guido Formigoni, Francesco Malgeri, Alberto Melloni, Leopoldo Nuti, Paolo Pombeni, Francesco Traniello, Giuseppe Vacca. Il progetto presenta caratteristiche molto innovative, poiché gli scritti dello statista pugliese saranno posti interamente su piattaforma digitale, quindi risulteranno liberamente leggibili e scaricabili. Grazie alla collaborazione con la casa editrice il Mulino, l’edizione sarà interrogabile in modo selettivo per effettuare ricerche. E verrà utilizzato anche un software originale di analisi del discorso, sperimentato dall’Istituto storico italo-germanico di Trento e dal gruppo Digital Humanities della Fondazione Bruno Kessler (sempre di Trento): attraverso questo dispositivo saranno possibili ricerche testuali particolarmente sofisticate. L’Edizione nazionale sarà divisa in due sezioni: una con gli scritti e discorsi di carattere politico, religioso e giornalistico (quattro volumi, tre dei quali divisi in due tomi, per un totale di sette), l’altra con le opere di argomento giuridico (quattro volumi). In settembre uscirà il primo volume degli scritti e discorsi, a cura di Tomino Crociata e Paolo Trionfini, che copre il periodo 1932-1946, fino all’elezione di Moro alla Costituente.
· Aldo Moro e la Tangentopoli ante litteram.
Mani pulite, 1993: Craxi contro la fine della politica. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 29 aprile 1993. L’inchiesta “Mani Pulite”, quella di Di Pietro, è iniziata circa un anno prima. Sta travolgendo tutti i partiti, in particolare il Psi. Bettino Craxi, che fino a un mese prima era stato il segretario del partito, si alza alla Camera e pronuncia un discorso che diventerà celeberrimo a difesa dell’autonomia della politica e di denuncia della corruzione del sistema. Dice che il finanziamento dei partiti, tutti lo sanno, è in gran parte illecito, e aggiunge: «Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alza.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
Caso Lockheed, 1978: Leone si dimette. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 15 giugno del 1978. Aldo Moro è stato ucciso poco più di un mese prima. Al governo c’è Andreotti, sostenuto dai comunisti. La sera, alle 20, compare in Tv il presidente della Repubblica Giovanni Leone, napoletano, 70 anni, e annuncia le sue dimissioni. Il motivo? Una feroce campagna di stampa contro di lui, alimentata dai servizi segreti, con vari dossier, e da alcuni partiti politici di opposizione. Leone non ha nessuna colpa. Il suo coinvolgimento nel caso Lockhe è da escludere. L’Espresso lo massacra. Lui non ne può più, lascia. Perché lascia? Leone è uno degli ultimi statisti, uno di quelli che hanno fatto grande l’Italia. Sa sacrificarsi e si sacrifica.
Così Moro avvertì i giudici: «Noi Dc non ci lasceremo processare nelle piazze!». Lo scontro tra politica e magistratura iniziò ufficialmente nel marzo del ’77 con l’affare Lockheed, scrive Paolo Delgado il 31 gennaio 2019 su Il Dubbio". C’era una volta, in un’Italia lontana lontana, tanto lontana da somigliare a una fiaba o a una leggenda, un primato della politica sulla magistratura tanto assoluto e incontrastato da autorizzare seri e fondati dubbi sull’effettiva divisione dei poteri sancita dalla Costituzione. La politica era di fatto intoccabile. Il potere togato si arrestava di fronte alla soglia del Palazzo. Non è che di scandali non ce ne fossero. Ma le richieste di autorizzazione a procedere sbattevano regolarmente contro il voto contrario del Parlamento. Nella legislatura 1963- 68, ad esempio, su 75 richieste di autorizzazione a procedere ne furono accolte 5. Nella successiva, 1968- 72, le richieste furono 69 e le autorizzazioni 4. Il boom di richieste da parte della magistratura fu tuttavia nella legislatura successiva, 1972- 76, indice chiaro di un rapporto di subalternità della magistratura che i togati iniziavano a sopportare sempre meno. Le richieste furono ben 159, di cui solo 40 accolte. Se si dovessero indicare un anno e una vicenda precisa per datare l’inizio, ancora molto in sordina, di un braccio di ferro che prosegue a tutt’oggi bisognerebbe risalire al 1965 e alla vicenda che coinvolse il senatore democristiano ed ex ministro delle Finanze Giuseppe Trabucchi. Era accusato di aver permesso a una società guidata da un altro notabile democristiano ed ex sottosegretario, Carmine De Martino, di acquistare illegalmente partite di tabacco messicano per poi rivenderle in patria con un guadagno netto di un miliardo e 200 milioni di lire dell’epoca, cifra di tutto rispetto e anche qualcosina in più. Il tutto, ovviamente, in cambio di generosa tangente. Trabucchi ammise ma si difese impugnando l’interesse di partito: «Era solo un finanziamento illecito per la Dc». La commissione, nel giugno 1965, respinse la richiesta. Il mese dopo le camere riunite furono chiamate a votare per una decisione definitiva. Servivano 476 voti per accogliere la richiesta della Procura di Roma. Ne arrivarono 461. Trabucchi se la cavò alla grande. Prima che si ripetesse un braccio di ferro di dimensioni anche maggiori passarono quasi 10 anni. Nel febbraio 1974 i segretari amministrativi di tutti e quattro i partiti di governo, Dc, Psi, Psdi e Pri, furono indagati con l’accusa di aver incassato tangenti dall’Enel in cambio di scelte politiche contro le centrali nucleari. Lo scandalo fu enorme e coinvolse numerosi ex ministri. Il governo Rumor in carica si dimise. Per rientrare in maggioranza il leader repubblicano Ugo La Malfa impose una legge che regolamentasse il finanziamento dei partiti. Varata a spron battuto, in soli 16 giorni e con l’approvazione di tutto il parlamento a eccezione del Pli, sulla base di una proposta firmata da uno dei principali leader Dc, Flaminio Piccoli. La legge non servì a fermare il finanziamento illecito ma derubricò i reati per i quali erano indagati segretari a amministrativi e tesorieri. Restava lo spinoso caso degli ex ministri e i nomi in ballo erano davvero pesanti. La commissione parlamentare incaricata di vagliare i casi affrancò subito i dc Andreotti e Ferrari Aggradi perché i reati erano prescritti. Decise l’archiviazione per il dc Bosco e il Psdi Preti, ma ordinò di aprire un’inchiesta a carico di altri due ex ministri, Ferri del Psdi e Valsecchi, Dc. L’inchiesta si concluse cinque anni dopo con il proscioglimento. Il grande scandalo degli anni ‘ 70 fu tuttavia il cosiddetto "affare Lochkeed". Una tangentona di 61 milioni di vecchie lire, pagata secondo gli inquirenti dalla società americana per favorire l’acquisto da parte del governo italiano di 14 aerei Hercules 130. Erano coinvolti due ex ministri della Difesa, Luigi Gui, Dc, e Mario Tanassi, Psdi, e un ex premier, Mariano Rumor, Dc. Nel marzo 1977 il Parlamento votò, in seduta comune, la messa in stato d’accusa dei primi due mentre salvò Rumor. In quell’occasione Aldo Moro pronunciò un discorso destinato a essere ricordato ancora oggi: «La Dc fa quadrato intorno ai propri uomini. Non ci lasceremo processare nelle piazze». In effeti il processo si svolse, secondo le regole di allora per i ministri, direttamente di fronte alla Corte costituzionale, con unico grado di giudizio. Nel 1979 Gui fu assolto, Tanassi condannato. Nel 1989 una riforma costituzionale modificò i criteri dei processi contro ministri ed ex ministri, affidandoli alla magistratura ordinaria e con procedura altrettanto ordinaria. Mai accusato, mai processato, mai condannato, a pagare più di tutti fu il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Indicato da una forsennata campagna giustizialista come coinvolto nello scandalo fu costretto alle dimissioni. La sua innocenza fu acclarata solo anni dopo. Quando si rovesciano i rapporti di forza che almeno in apparenza restano identici per tutti gli anni ‘ 80? In apparenza il punto di rottura è Tangentopoli, quando le inchieste di mani pulite spazzarono letteralmente via un intero ceto politi- co e spianarono la prima Repubblica. In realtà i rapporti di forza avevano iniziato a subìre una modifica profonda già da prima. La magistratura si affranca dalla soggezione alla politica non con Tangentopoli ma con la lotta al terrorismo. All’epoca, tra la fine degli anni ‘ 70 e i primi anni ‘ 80, era abbastanza comunque sentir dibattere di ‘ delega alla magistratura’ del contrasto al terrorismo. Quella delega fu in realtà totale e appena tra le righe lo si percepisce nella memoria di due tra i magistrati che di quella fase furono protagonisti assoluti, Gian Carlo Caselli e Armando Spataro: «Nel 1978, però, in particolare nel periodo post- Moro, la situazione registrò un’evoluzione positiva grazie all’iniziativa autonoma di Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori, che diedero vita ad un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari ed alla creazione di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Il sistema di legge non prevedeva allora alcuna norma in tema di coordinamento: anzi conosceva barriere formali che ostacolavano lo scambio di notizie. Ciononostante, a partire dalla metà del 1978, quei magistrati, superando ogni logica formalistica ed ogni possibile diversità di estrazione culturale, cominciarono ad incontrarsi spontaneamente, con periodicità molto ravvicinata ed in modo riservato». Nella stessa fase la magistratura irruppe di fatto anche nella sfera di competenza del potere legislativo: alcune delle principali leggi anti- terrorismo, incluse quelle squisitamente politiche come la legge sulla dissociazione furono dettate norma per norma dalla magistratura.
Tangentopoli intervenne su equilibri già radicalmente alterati. Il risultato del referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati è non a caso l’unico nella storia italiana a essere stato completamente disatteso, a conferma del peso enorme che il potere togato aveva acquisito nel decennio precedente, a fronte di un progressivo ma inesorabile indebolirsi del potere politico colpito da una crisi di legittimazione all’epoca senza precedenti. Tangentopoli chiuse il conto e siglò l’affermazione di un equilibrio opposto a quello che aveva segnato la prima Repubblica, con un primato assoluto del potere togato. La seconda Repubblica è stata segnata dall’inizio alla fine dal confronto e a volte dal conflitto aperto tra un potere tanto più saldo perché legittimato dal sostegno dell’opinione pubblica, quello della magistratura, e un potere debole e sempre sotto scacco, infragilito dalla scarsa legittimazione popolare, quello della politica derubricata ormai a casta. Quando, nel 1994, il primo governo Berlusconi tentò di frenare le procure con quello che è passato alla storia come "decreto salva- ladri", i quattro giudici del pool milanese Mani pulite si limitarono a presentarsi in tv spogliandosi per protesta delle toghe e bastò per suscitare una tale ondata di proteste da costringere il governo a una sgangherata retromarcia. Pochi anni dopo, nel 1998, il solo tentativo serio e approfondito di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, fu condannato al fallimento, come ha più volte confessato il relatore Cesare Salvi allora dirigente dei Ds, dall’opposizione del potere togato a qualsiasi revisione delle norme sulla magistratura. Quella delle "toghe rosse" è una leggenda che, diffusa dalla destra, ha avuto ampio corso negli anni della Seconda Repubblica ma che è in realtà destituita di fondamento. Se a confliggere con la magistratura è stato in quei decenni quasi esclusivamente il centrodestra è perché la controparte ha sempre evitato di contraddire, se non superficialmente e di sfuggita, le toghe. Ma la stessa destra, nonostante i fragorosi pronunciamenti del leader Berlusconi, ha sempre evitato di sfidare la magistratura se non quando non era possibile evitarlo, cioè quando ci andavano di mezzo la sua sorte o quella delle sue aziende. Il Movimento 5 Stelle nasce dalla stessa temperie culturale, sociale e politica che ha accompagnato e in buona misura determinato il prevalere della magistratura sulla politica: una crisi di legittimazione popolare della politica accompagnata nella delega assegnata dal basso alle toghe come unico freno alla corruzione dei politici. Per il Movimento fondato da Grillo la magistratura è sempre stata la bussola. In teoria il successo elettorale dei pentastellati avrebbe dovuto quindi siglare il trionfo finale del potere in toga nel lunghissimo duello con il potere che siede in Parlamento. La pratica si sta rivelando subito e si rivelerà diversa. Per sua stessa natura il "governo del cambiamento" deve almeno provare ad affermarsi come governo forte, sovvertendo così quel rapporto tra un potere politico debole e un potere della magistratura forte che data ormai dalla fine degli anni ‘ 80 del secolo scorso. L’incidente sull’autorizzazione a procedere contro il ministro Salvini è solo il primo di una lista che sarà probabilmente lunga.
Vi ricordate quel cavallo di razza? Scrive Piero Sansonetti il 5 settembre 2016 su "Il Dubbio". In una sola figura riuniva le qualità degli altri grandi statisti del dopo-fascismo da De Gasperi a Togliatti, da Nenni a Berlinguer, da Craxi a Fanfani. In questo mese di settembre si compiono i cent'anni dalla nascita di uno dei più grandi statisti italiani del novecento. Aldo Moro era nato a Maglie, cittadina vicino a Lecce, il 23 settembre del 1916. Sapete tutti come e quando è morto: nel portabagagli di una piccola Renault rossa, il 9 maggio del 1978, abbattuto a colpi di mitraglietta dai capi delle Brigate Rosse - la più importante e potente organizzazione terroristica italiana, che fu attiva, più o meno, tra il 1972 e il 1986 - i quali lo avevano rapito 55 giorni prima durante una spettacolare e sanguinosissima azione in via Fani, a Roma, nella zona di Monte Mario. Aldo Moro, rispetto agli altri grandi statisti del dopo-fascismo (De Gasperi, Togliatti, Nenni, Berlinguer, Craxi, Fanfani) ha qualche cosa di più: la "completezza". Fu uno straordinario uomo di azione e di governo, un grandissimo dirigente di partito, e soprattutto fu un pensatore, e cioè appartenne a quella "razza" di leader politici che oggi - non solo in Italia, probabilmente - sembra del tutto scomparsa. Moro fu l'unico che possedeva tutte quelle doti insieme. L'Italia gli deve moltissimo. Più che agli altri: Moro seppe tenere insieme tutte le anime della politica italiana (cosa che non era riuscita a Togliatti e a De Gasperi); Moro seppe garantire laicità al paese, seppure in un periodo dominato dalla potenza, anche morale, del Vaticano; Moro fu un baluardo per la difesa (e lo sviluppo) dello stato di diritto; Moro fu un riformatore eccezionale, e si deve a lui, ai suoi governi, alla sua iniziativa politica, alla sua intuizione, alla sua capacità di orientare il proprio partito - e persino la Chiesa - l'enorme mole di riforme sociali che nel quindicennio che va dal 1963 al 1978 cambiarono completamente il volto dell'Italia, i rapporti tra le classi, aumentarono il potere dei lavoratori riducendo la potenza della finanza e del capitale, diedero un impulso straordinario alla conquista di nuovi diritti individuali e collettivi, e imposero un fortissimo sviluppo al welfare, riducendo le diseguaglianze sociali. Gli anni successivi alla morte di Moro - certo, anche per una congiuntura internazionale - sono quelli che segnano una costante, lenta, e inesorabile marcia indietro sulla strada dei diritti, del diritto, del pluralismo e dell'equità sociale. In questo mese di settembre, Il Dubbio dedicherà ogni giorno uno spazio al ricordo di Aldo Moro. Lo faremo ospitando interventi, analisi, ricordi, opinioni, ma soprattutto lo faremo ripubblicando una selezione delle lettere che Moro scrisse dalla prigione delle Brigate Rosse, e che furono ignorate dal "Palazzo" della politica e dei giornali, con un atteggiamento fortissimamente ingiusto e di clamorosa sordità politica e intellettuale: quelle lettere esprimevano forse il punto più alto del pensiero e dell'umanità di Aldo Moro che poi, a guardar bene, era esattamente il punto più alto del pensiero e dell'umanità - e del sentire comune - di tutto il vastissimo mondo politico italiano - fatto di partiti, di sindacati, di associazioni popolari, di consigli di fabbrica, di movimenti studenteschi e giovanili, di organizzazioni religiose - che era la spina dorsale del paese, e che dopo la scomparsa di Moro si disperse. Moro ha una biografia molto ricca. Giovanissimo fu uno studioso appassionato del diritto e un dirigente di primo piano della gioventù universitaria cattolica (la Fuci) che era una delle poche associazioni non vietate dal fascismo, ma sicuramente in posizione di dissenso forte verso il regime. Moro era un figlioccio del segretario di Stato Vaticano e futuro papa Giovan Battista Montini. E da quell'esperienza iniziò la sua travolgente carriera politica. Che lo portò, a trent'anni, a far parte della Costituente e della commissione ristretta che scrisse la Costituzione, poi a ricoprire molte volte la carica di ministro (della scuola, della giustizia, degli esteri...) e infine ad assumere la carica di primo ministro nei primi governi organici di centrosinistra (dal 1963 al 1968), cioè dei primi governi riformisti dell'Italia repubblicana. Fu anche segretario della Dc, fu di nuovo premier a metà degli anni '70, e poi fu presidente del partito (col suo amico Zaccagnini segretario) quando maturò la scelta della "solidarietà nazionale" e della formazione di quel governo basato sulla alleanza tra Dc e Pci che in un anno e mezzo (subito dopo la morte di Moro) varò riforme clamorose, come la riforma sanitaria, quella psichiatrica, i patti agrari, l'aborto, l'equo canone. È Moro che convinse il suo partito, che recalcitrava, a scegliere la via dell'alleanza con il Pci e delle riforme. Lo fece col discorso di Benevento, nell'inverno del 1978, e cioè come uno degli ultimi prima del rapimento, che avvenne proprio nel giorno nel quale il governo di solidarietà nazionale si insediava. L'anno prima aveva pronunciato alla Camera un intervento memorabile, in difesa del ministro Gui, che era accusato di aver preso tangenti nell'affare Lockheed (acquisto di aerei per l'esercito italiano da una azienda statunitense). Quel discorso andrebbe riletto alla Camera e al Senato ogni volta che si discute e si vota sull'autorizzazione all'arresto di un parlamentare. Perché conteneva, in forma molto alta, tutte le argomentazioni del moderno garantismo, metteva in guardia la politica dall'inseguire le pulsioni dell'opinione pubblica (che invece va rispettata, informata e orientata) e descriveva con grande lucidità la necessità che la politica rivendicasse il proprio ruolo e anche la propria discrezionalità e la delicatezza dei propri compiti, senza abdicare ad altri poteri e senza sacrificare il diritto ai calcoli della tattica o dell'interesse. Moro - in un clima di grandissima tensione - concluse così il suo discorso: " Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare! ". Era la sera del 9 marzo 1977. Un anno e una settimana più tardi Moro fu rapito e processato dalle Br. Si difese, accusò, spiegò, continuò ad essere un leader politico e un pensatore fino a un minuto prima che la mitraglia lo uccidesse, a 61 anni, nel pieno della sua vigorìa intellettuale. A noi sembra che la grandiosità di Moro stia nelle lettere dalla prigione delle Br. E per ricordare la sua figura, da oggi, iniziamo un lavoro editoriale che durerà un mese intero e che parte proprio da quella maledetta giornata, il 16 marzo del 1978, che forse è stata la giornata più tragica della Repubblica, e anche quella che ha pesato più di ogni altra sul suo destino.
Due o tre cose che so di Moro... Il ricordo di un cronista, scrive Francesco Damato il 14 set 2016 su "Il Dubbio". Nel novembre 1977, rivolto al Pci disse: «Quello che voi siete, noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo, voi avete contribuito a farci essere». Non ricordo bene se fu nel 1966 o nel 1967. Ma quando il vice capo ufficio stampa Gastone Favero mi accompagnò nell'ufficio di Aldo Moro, a Palazzo Chigi, per farci scambiare gli auguri di Natale e Capodanno, mi feci dell'allora presidente del Consiglio, per quanto fosse stato il primo a formare un governo "organico" di centro sinistra, con la partecipazione diretta dei socialisti, l'idea di un uomo non moderato ma moderatissimo. Un uomo che non avrei mai potuto immaginare fosse destinato a diventare in pochissimi anni, esattamente nel 1968, l'uomo della Dc più a sinistra. Più ancora delle stesse correnti di sinistra dello scudo crociato. Che erano due: una chiamata "Base", capeggiata al Nord da Giovanni Marcora, "Albertino" per gli amici, al centro da Giovanni Galloni e al sud da Ciriaco De Mita, e l'altra chiamata "Forze Nuove", guidata con polso fermissimo dall'ex sindacalista Carlo Donat-Cattin. Una era la sinistra politica, che si distingueva per le alleanze che perseguiva all'esterno della Dc. L'altra era la sinistra sociale, che si caratterizzava per le leggi che perseguiva. Delle due, quella che sarebbe andata più d'accordo con Moro sarebbe stata la seconda, "Forze Nuove", a tal punto che il suo leader, tentato dopo il 1968, l'anno della contestazione giovanile, di uscire dalla Dc, ne fu trattenuto solo da Moro. Quando fu rovesciato dalla guida del governo, dopo le elezioni politiche del 1968, gli amici di corrente di Moro usarono come argomento contro di lui non più la presunta arrendevolezza ai socialisti ma il rifiuto di costoro, usciti delusi dalle urne due anni dopo l'unificazione con i socialdemocratici, di continuare a collaborare con lui. «Non fatemi morire con Moro», disse Pietro Nenni, che gli era stato per quattro anni a Palazzo Chigi vice presidente del Consiglio. Per recuperare l'alleanza col Psi, Rumor offrì disinvoltamente tutto ciò che a Moro non era stato permesso di concedere: un centro-sinistra "più incisivo e coraggioso", non più "delimitato a sinistra", quindi aperto ai contributi dell'opposizione comunista, un'inchiesta sui servizi segreti sospettati di avere tentato un colpo di Stato quattro anni prima, la pensione sociale ai meno abbienti e l'avvio di una legge per lo statuto dei diritti dei lavoratori. A quel punto, da moderatissimo come lo avevo lasciato quel giorno nel suo ufficio di presidente del Consiglio, Moro cominciò ad essere diverso. Con la complicità del capo della scorta, gli feci la posta sulla spiaggia di Terracina, dove Moro arrivava vestitissimo sotto l'ombrellone ogni mattina, e cercai di sondarne gli umori in vista del Consiglio Nazionale della Dc che avrebbe dovuto ratificare in autunno la formazione del primo governo "balneare" di Giovanni Leone, formato in attesa che i socialisti decidessero di accettare le offerte di programmi e di posti di Rumor per un successivo Gabinetto di coalizione. L'uomo, prudentissimo, non si lasciò scappare una parola. E io, di ritorno a Roma, mi unii agli altri colleghi, che neppure si erano scomodati ad andare a Terracina, a scrivere pezzi per interpretare il silenzio di Moro. Pensate che tempi. Meno prudente che con me, il povero Moro fu purtroppo, dopo qualche settimana, con Francesco Cossiga. Che gli fu mandato da Paolo Emilio Taviani, leader di una correntina chiamata "dei pontieri", a sondare l'ex presidente del Consiglio. A Cossiga, che dopo meno di dieci anni - pensate anche questo - sarebbe stato il ministro dell'Interno nominato dallo stesso Moro nel suo penultimo governo e chiamato poi a gestirne il tragico sequestro, l'ex presidente del Consiglio rivelò che sarebbe uscito dalla corrente dorotea e ne avrebbe messa su una tutta sua. Taviani disinvoltamente avvertì Rumor della cosa e si offrì a sostituire Moro nella maggioranza di partito. D'accordo anche con i "basisti" e con Amintore Fanfani, l'altro "cavallo di razza" della Dc, come diceva Carlo Donat-Cattin, i dorotei misero Moro nell'angolo, cioè in minoranza. Ma a Moro bastarono due paroline - "strategia dell'attenzione" verso l'opposizione comunista, sull'onda delle contestazioni di quel 1968, che fu anche l'anno dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia, da cui il Pci, diversamente dai fatti ungheresi del 1956, ebbe la forza di dissentire - per spiazzare i suoi avversari e riaprire tutti i giochi, interni ed esterni alla Dc. Per i dorotei non ci fu più pace. E neppure per i socialisti, che si sentirono scavalcati. Scambiato per uno di loro, capace cioè di tutto per conservare un posto o guadagnarne un altro, gli avversari interni di partito e i giornali fiancheggiatori accusarono Moro di corteggiare i comunisti per ottenerne l'appoggio, alla fine del 1971, nell'elezione parlamentare del successore di Giuseppe Saragat al Quirinale. Di un'intesa fra Dc e Pci si parlava allora come della "Repubblica conciliare", come la chiamò l'allora direttore del Corriere della Sera Giovanni Spadolini, che poi sarebbe diventato un grande estimatore di Moro. Ma allora apparve rivoluzionario anche un voto da lui espresso nella competente commissione della Camera a favore di una proposta comunista di equiparare ad una promozione, negli esami di Stato, la parità di voti. «Ma questo - mi disse, sconsolato - è un elementare principio applicato già nel codice penale». Quando si arrivò al momento delle candidature al Quirinale la Dc mise in corsa Fanfani, che si era astutamente piazzato in una postazione privilegiata di partenza come la Presidenza del Senato. Ma Fanfani, per quanto ostinato a rimanere in gara anche dopo numerose votazioni a vuoto, dovette alla fine rinunciare. E il segretario ancora fanfaniano della Dc, Arnaldo Forlani, si presentò ai gruppi parlamentari per sostenere la legittimità di una candidatura, a quel punto, di Moro, «già segretario del partito, già presidente del Consiglio e ora ministro degli Esteri per considerarlo ben in grado di fare il presidente della Repubblica». «Traditore», gli gridò un fanfaniano all'uscita dalla sala, dove si era però deciso di non votare subito per il cambio di cavallo. All'indomani mattina i "grandi elettori" della Dc furono chiamati a scegliere, a scrutinio naturalmente segreto, tra Moro e Giovanni Leone, proposto quest'ultimo dai dorotei e fanfaniani con l'assicurazione che avrebbero votato per lui anche socialdemocratici, repubblicani e liberali. I socialisti avevano invece candidato Pietro Nenni. La candidatura di Leone, presidente della Camera e defilato nel panorama correntizio della Dc, nacque in una notte per evitare che i comunisti risultassero decisivi nell'elezione di Moro. Eppure Giorgio Amendola aveva raccontato ai giornalisti a Montecitorio: «Tutti sono venuti a chiederci i voti, a cominciare da Fanfani, fuorchè l'unico al quale li daremmo: Moro». Che infatti se ne stette sulle sue, chiuso nell'ufficio del funzionario di Montecitorio Tullio Ancora, del quale dicevamo tutti nella Stampa Parlamentare che a furia di frequentare Moro ne avesse preso un ciuffo bianco fra i capelli, sulla fronte. Inutilmente l'amico Carlo Donat-Cattin lo incitava a farsi votare senza essere il candidato della Dc perché «per fare i figli bisogna fottere». Per farvi capire che idea avesse invece Moro dei rapporti con il proprio partito, voglio raccontarvi la mattina in cui doveva svolgersi una nuova votazione nell'aula di Montecitorio su Leone, la vigilia di Natale. Io andai a prendere a casa, con la mia macchina, un amico deputato moroteo, Nicola Lettieri. Che, prendendo un caffè con me, mi raccontò di non avere votato il giorno prima per Leone, non condividendo la logica con la quale era stato scelto, peraltro prevalendo nei gruppi parlamentari con meno di cinque voti di scarto su Moro, e non lo avrebbe votato neppure quel giorno. Come se ci stesse ascoltando da casa sua, peraltro non molto distante da noi, che eravamo vicino a Ponte Milvio, mentre lui abitava vicino alla sovrastante Camilluccia, arrivò a Lettieri una telefonata da Moro in persona, analoga ad altre -poi seppi - fatte ad amici tentati dalla dissidenza. «Si vota Leone e basta», intimò il ministro degli Esteri. In effetti Leone quella mattina fu eletto, ma a stento. E i missini si vantarono di essere stati determinanti con i loro voti favorevoli. Annuncio che fu creduto e deplorato dal moroteo Benigno Zaccagnini con una dichiarazione contro la quale Leone protestò con una lettera inviata al giornale ufficiale del partito, Il Popolo. Fu proprio Moro sei anni dopo, quando cominciò una campagna scandalistica contro Leone, destinata a farlo dimettere sei mesi prima della scadenza del mandato, a prendere le difese del capo dello Stato. Le dimissioni sopraggiunsero, su richiesta del Pci e della Dc, solo dopo la tragica morte di Moro, per mano delle Brigate rosse. Che lo sequestrarono il 16 marzo 1978, fra il sangue della scorta a poca distanza da casa, mentre si recava a Montecitorio per la presentazione del governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti, sul cui programma egli aveva condotto, come presidente del suo partito, le trattative con Enrico Berlinguer per ottenere il voto di fiducia dei comunisti. Erano gli anni della cosiddetta "solidarietà nazionale", cominciati nel 1976 con l'astensione o "non sfiducia" del Pci a quello stesso governo. Ad Aldo Moro, una volta rapito, Leone fu uno dei pochi a tendere davvero la mano raccogliendone gli appelli alla salvezza, a dispetto della linea della fermezza adottata dal governo e dalla maggioranza con la sola eccezione dei socialisti di Bettino Craxi. Fu proprio Leone, in particolare, a predisporre la grazia per Paola Besuschio, che era nella lista dei 13 detenuti con i quali i terroristi avevano reclamato lo scambio con l'ostaggio. E fu Amintore Fanfani, l'altro "cavallo di razza" della Dc, antagonista di Moro in tanti passaggi della storia del partito, l'unico ad offrire una copertura politica a Leone con un discorso alla direzione dello scudo crociato che aveva appena cominciato a pronunciare, la mattina del 9 maggio, quando arrivò la notizia del tragico epilogo del sequestro. I terroristi, informati con sospetta e "inquietante" tempestività, come vent'anni dopo l'ormai ex presidente della Repubblica mi dichiarò in una intervista per Il Foglio, precedettero Leone e Fanfani ammazzando Moro nel bagagliaio di un'auto custodita nella palazzina di via Montalcini dove l'ostaggio era stato rinchiuso e "processato", e poi parcheggiata in via Caetani, prescelta perché a mezza strada fra le sedi nazionali della Dc e del Pci. Con Moro - che il 18 novembre 1977 a Benevento aveva descritto i rapporti fra comunisti e democristiani dicendo: «Quello che voi siete, noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo voi avete contribuito a farci essere» - la Repubblica perse la sua anima. Mai un delitto fu così diabolicamente centrato per attentare alla democrazia.
La sua audace lentezza, la paurosa frenesia dell'oggi, scrive Marco Follini il 9 set 2016 su "Il Dubbio". Davanti al successo di Zaccagnini osservò sconsolato: «Non è che io sia vecchio, ma lui è il nuovo». A Moro si devono le grandi svolte della politica italiana: dal centrosinistra alla solidarietà nazionale. L'onorevole Moro era un uomo d'altri tempi. Non solo nel senso, ovvio, che apparteneva a un'altra epoca politica. Ma anche, e soprattutto, nel senso che aveva una sua idea, antica e radicata, cauta e prudente, pensosa, mai affrettata, dello scorrere del tempo politico. Quando Craxi, appena eletto segretario del Psi, lo andò a trovare la prima volta nello studio di via Savoia per raccontargli il suo progetto, lui commentò con i suoi intimi che aveva detto cose interessanti ma per le quali ci sarebbe voluto «molto, molto tempo». E quando Lima un giorno gli confidò che voleva aderire alla sua corrente, gli rispose sornione: «C'è tempo». Che era un modo di sottrarsi all'imbarazzo, certo. Ma era anche un modo di intendere la politica. Ironizzava sulle riforme, segnalando che occorreva sempre stare in guardia dai guasti che una eccessiva frenesia innovativa era destinata a produrre. E considerava la fretta come indice di avventatezza e superficialità. Un giorno gli raccontarono che Andreotti aveva "scritto" per l'editore Laterza il libro-intervista su De Gasperi intrattenendo il giornalista co-autore per tre, quattro ore un pomeriggio a Palazzi Chigi. Se ne mostrò scandalizzato, come se quel poco tempo dedicato all'argomento fosse quasi un affronto alla memoria del padre nobile dei democristiani. Aveva preso il suo primo aereo che era già presidente del Consiglio. Era morta la mamma di Saragat, capo dello Stato, e non avrebbe fatto in tempo a raggiungere Torino con i mezzi che solitamente prediligeva. Il suo ritmo era quello delle sue camminate: lente e pensose. Impiegava ore e ore a scrivere puntigliosamente i suoi discorsi, con una grafia quasi incomprensibile, ma con una cura certosina per i dettagli, le sfumature, l'aggettivazione. Diffidava delle mode. Chiamava "il fratturato" l'abito spezzato, segno della sua poca approvazione. E quando il suo portavoce, Corrado Guerzoni, un giorno si presentò nel suo ufficio con un maglione dolce vita sotto un impeccabile vestito grigio, commentò con ironia che i figli avrebbero sicuramente apprezzato un papà così moderno e al passo coi tempi. Come dire: la prossima volta indossi la cravatta. Quando sul finire degli anni Settanta una larga parte della gioventù democristiana prese ad inneggiare con un tifo da stadio al segretario Zaccagnini, Moro - che pure lo aveva fatto eleggere - osservò un po' sconsolato: non è che io sia vecchio, ma lui è il nuovo. Capiva di essere bersaglio del nuovismo del tempo e metteva a verbale il suo scetticismo, se non anche la sua disapprovazione. Era un uomo severo, gentile ma privo di compiacenze. Un giorno al congresso della Dc barese l'onorevole Matarrese, appena eletto deputato, reclamò tre posti per la sua corrente negli organi provinciali del partito. Moro lo prese da parte e offrendogli un posto, uno solo, gli disse: le cose si fanno con calma, come insegna la Chiesa. Prima si è parroci in una chiesetta, poi si trova una parrocchia più grande, poi si diventa vescovi, poi forse cardinali e poi forse addirittura Papi. Ma sempre un passo alla volta. Al congresso di Napoli, quando c'era da convincere la Dc dell'apertura a sinistra - correva l'anno 1962 - parlò per sette ore. La trascrizione integrale della sua relazione si compone di 124 mila caratteri. Non proprio il dono della sintesi, anche se mancava ancora mezzo secolo all'avvento di twitter. Quando un giornalista gli chiese se poteva disporre di una sintesi del suo intervento gli fece sapere che la sintesi più appropriata era la pubblicazione del testo integrale. Una battuta al limite dell'arroganza, se vogliamo. Che però rifletteva anche il suo perfezionismo politico e letterario. Moro odiava la fretta. Non perché fosse pigro, tantomeno svogliato. Ma perché secondo lui ogni passaggio della politica richiedeva la sua maturazione. Conosceva il suo paese, conosceva il suo partito. Ne scrutava le paure, le fragilità, gli sbandamenti. Si cimentava con un'Italia attraversata da "passioni forti" e presidiata da "strutture deboli". E proprio il conflitto tra la forza delle passioni e la debolezza degli argini che avrebbero dovuto contenerle e indirizzarle verso uno sbocco era il suo cruccio. E insieme la ragione di quel suo procedere apparentemente incerto e tortuoso. Soffriva l'attivismo di altri capi democristiani. Il dinamismo di Fanfani, per cui pure provava rispetto. L'inquietudine di Piccoli. L'assertività di Taviani. Le ansie dei più giovani cultori di una modernizzazione a cui credeva poco. La sua attualità stava per così dire nella fatica quasi estenuante con cui faceva maturare le svolte. Ma quei percorsi avevano appunto bisogno di fare appello a tecniche fin troppo raffinate e a modalità improntate a un'infinita, pedagogica pazienza. Era questo il suo ruolo, e questa la sua vocazione. Quando condusse la Dc all'approdo della solidarietà nazionale impiegò ore ed ore a "confessare" i singoli deputati. Li incontrò ad uno ad uno, li ascoltò diligentemente, li convinse dedicando a ognuno di loro un tempo inusitatamente lungo. Un tempo che strideva con le gerarchie dell'epoca, e forse anche con l'intimo giudizio che Moro dava di molti di loro. Nella sua pedagogia politica l'ascolto valeva più dello sforzo di convinzione, non dirò della propaganda. Interrogava i suoi interlocutori con una pazienza infinita, e anche con una viva curiosità. A distanza di anni ho cercato di ricordare alcuni dei nostri colloqui, e mi sono accorto che avevo parlato più io di lui. Era complicato, elaborato, niente affatto alla moda -neppure secondo i canoni, non proprio fulminei, dei suoi tempi. Eppure arrivava a destinazione. Era tutt'altro che ondivago. Infatti, le grandi svolte della politica italiana, dal centrosinistra alla solidarietà nazionale, maturarono tutte sotto la sua accorta regia. E perfino i grandi movimenti di contestazione giovanile trovarono proprio in quel notabile apparentemente così attempato il loro interlocutore più attento, disponibile e costruttivo. Insomma, il passo lento e calibrato di Moro portava sempre da qualche parte. Forse sarà il caso di farlo presente ai giovanotti trafelati che governano a passo di carica la più recente politica del nostro paese.
Aldo Moro, lo stratega pensoso. Così lo vedevano gli Usa: l’inedito. A cent’anni dalla nascita dello statista, il libro di Guido Formigoni (il Mulino). Fu inviso a molti, ma il suo assassinio aprì un vuoto ancora non colmato, scrive Andrea Ricciardi il 5 settembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La «Repubblica dei partiti» sembra lontana in questo tempo di politica personalizzata. Il suo sistema, così partitocratico, appare poco trasparente, bizantino nel formarsi e scomporsi di maggioranze, disattento alla governabilità e alla spesa pubblica pur di ammortizzare le difficoltà politiche. È un modo di far politica caduto in discredito con Mani pulite, che ne ha rivelato gli aspetti di corruzione (peraltro poi non estirpata). Eppure questa è la storia, attraverso cui l’Italia si è trasformata profondamente in quasi mezzo secolo. Le masse italiane, tradizionalmente spettatrici, entrarono allora in politica con larga partecipazione. Hanno votato e discusso di politica con passione. Non è facile, però, raccontare questa storia proprio per la sua complessità. I primi anni sono caratterizzati da Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio dal 1945 (l’ultimo del Regno) al 1953. L’origine della Repubblica coincide con l’età di De Gasperi. Ma poi? La storia successiva appare complicata. Ha per protagonista un collettivo dai molti volti: la Democrazia cristiana, che Agostino Giovagnoli ha definito «il partito italiano» o della nazione. Guido Formigoni, con Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, che esce l’8 settembre per il Mulino, mostra come il politico pugliese ebbe, lungo gli anni, una grande capacità di sintesi e guida nel variegato gruppo dirigente democristiano. Dopo la sua uccisione da parte dalle Brigate rosse nel maggio 1978, non ancora sessantaduenne, la Dc non è stata più la stessa. Eppure Moro, per molti, ha incarnato i difetti del partito: far politica lontano dalla gente. Formigoni riporta come l’immagine dello statista sia stata anche quella «dell’involuto e oscuro custode degli arcani del potere, del pigro e levantino insabbiatore di ogni processo innovativo». Più chiaro, seppur criticato, fu l’attivismo politico di Amintore Fanfani. Moro è stato tuttavia uno degli attori più incisivi del cambiamento della società italiana.
Guido Formigoni, «Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (il Mulino, pp. 486, euro 28), scrive "Il Corriere della Sera" il 7 settembre 2016. La sua biografia è quella dell’ingresso di tanti giovani nella vita politica dopo la guerra. Moro era nato cento anni fa, il 23 settembre 1916, a Maglie in Puglia, figlio d’insegnanti elementari. La sua vicenda è ripercorsa da Formigoni in modo documentato e attento. Attraverso l’associazionismo religioso, entrò nel nuovo scenario politico apertosi con la fine del fascismo. Un tratto pensoso lo contraddistinse fin da giovane. Del resto il rapporto tra cultura, ideologia e politica era allora rilevante per parecchi partiti del dopoguerra. In Moro non c’era la passione per una politique d’abord, nonostante la sua accortezza politica. È stato un intellettuale, un giurista, un attento osservatore della realtà italiana. Accentuò questo carattere negli ultimi dieci anni di fronte alle spinte del Sessantotto e alle domande di cambiamento. Pure negli scritti dal carcere delle Br, emerge il suo carattere pensoso. Eppure Formigoni, a ragione, registra l’«odio diffuso» di cui era oggetto, ricordando che, alla notizia del rapimento, il cardinal Giuseppe Siri, fiero avversario dell’apertura morotea ai socialisti prima e, poi, ai comunisti, disse: «Ha avuto quello che si meritava per aver trafficato con i comunisti». Una personalità di segno diverso, Altiero Spinelli, l’avrebbe giudicato «un animo da coniglio» nel carcere bierrista. Il segretario di Stato americano Henry Kissinger lo considerava tortuoso e cedevole verso i comunisti. In realtà, Moro ha segnato con coraggio e visione la storia d’Italia della seconda metà del Novecento: presidente del Consiglio per sette anni e in cinque governi; ministro degli Esteri per cinque anni (per due anni sottosegretario nello stesso dicastero); segretario della Dc per quattro anni. Oltre a lui, l’altro «cavallo di razza» della Dc (per usare l’espressione di Carlo Donat Cattin) fu Fanfani, di qualche anno più anziano, politico dal carattere più perentorio e fattivo. Moro è stato però il grande stratega: dal superamento del centrismo con l’apertura ai socialisti alla «solidarietà nazionale» (l’apertura ai comunisti). Scevro da protagonismi (tanto che, quando fu rapito, occupava il posto modesto di presidente del Consiglio nazionale Dc), amava più la persuasione che il leaderismo. Si esprimeva con discorsi complessi e articolati, talvolta ermetici, che invitavano a pensare e creavano consenso. A Moro e Fanfani si deve la decisione di portare la politica in Rai con Tribuna elettorale, facendo parlare e interrogare i leader dei partiti. Per Moro, la Dc era l’asse centrale della politica italiana: «Sento — dice nel 1959 — l’insostituibile funzione del partito come filtro delle esigenze complesse della vita politica, economica e sociale del Paese… la vedo come manifestazione efficace di opinioni, come strumento di educazione e guida del popolo italiano». Secondo lui la democrazia non avrebbe tenuto senza i partiti e la Dc. Non bastava la gestione del potere: occorreva sintonizzarsi con gli sviluppi della società senza avventurismi, ma anche senza paura del futuro. Era preoccupato, negli ultimi anni, che il partito si avvitasse su di sé. Formigoni ricostruisce l’azione di Moro nel partito e al governo. Disegna quasi un’«anatomia del potere italiano» (per usare l’espressione di Miguel Gotor), ricostruendo le dinamiche della classe dirigente: un gioco complesso, intreccio di fattori politici e personali, in cui si vede un ruolo tutt’altro che grigio del Quirinale di Gronchi, di Segni e di Saragat. Si delineano minacce golpiste, azioni terroristiche, reti oscure, vicende internazionali condizionanti, interventi della Chiesa... Moro si muove, accorto e determinato, facendo sintesi tra spinte differenti. È allo stesso tempo realista e di visione: «La gente pensa che abbiamo un’autorità immensa, che possiamo fare e disfare tutto…», confida a Eugenio Scalfari. E aggiunge: «Il lavoro di sintesi è ancora più faticoso e incerto». Perché Aldo Moro fu preso dalle Brigate Rosse? Si trattava del bersaglio più facile, secondo Francesco Cossiga. Era però anche il cardine e il simbolo del sistema che, tra difficoltà, stava entrando nella «terza fase» della democrazia italiana. Nell’ultimo capitolo della biografia di Formigoni, dedicato ai 55 giorni di prigionia, emerge che «lo Stato italiano non ha fatto nel suo complesso quanto sarebbe stato possibile per salvare Moro con la via maestra dell’efficienza delle forze dell’ordine». La classe dirigente fu attonita, bloccata, quasi incapace di maneggiare le leve del potere a fronte delle Br, violente e inconsistenti politicamente. Mancò una sintesi. Paolo VI, ormai anziano (morì tre mesi dopo) non vi riuscì in quel turbinoso momento. Non era proprio il suo compito, ma non trovò interlocutori politici. Eppure Montini era stato l’artefice della Dc e del consenso cattolico alla democrazia: l’«unico papa democristiano» — lo definì Emile Poulat. In quel maggio 1978, «un po’ della Democrazia cristiana se n’è andata» — scrisse il prigioniero delle Br. La Dc non fu più la stessa. L’assetto politico si sarebbe consumato negli anni Ottanta. Lo si poteva prolungare un po’, ma una rottura era avvenuta in profondità alla fine degli anni Settanta e sarebbe emersa. Così la Dc e anche il sistema sono implosi. Il vuoto aperto dalla morte di Moro mostra il suo ruolo decisivo negli anni precedenti, più di quanto si credeva.
Aldo Moro visto dagli americani: filo-occidentale di sinistra. Il messaggio inedito inviato nel 1974 dall’ambasciatore americano in Italia, tratto dal libro «Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma» di Guido Formigoni (il Mulino). Dal libro «Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma» di Guido Formigoni (il Mulino, pagine 486, e 28, in libreria dall’8 settembre) pubblichiamo un brano da un messaggio inedito tratto dagli Archivi nazionali degli Stati Uniti (Nara). Fu inviato il 29 novembre 1974 dall’ambasciatore americano in Italia, John Volpe, al segretario di Stato Henry Kissinger all’indomani della formazione del quarto governo Moro. Dal nostro punto di vista, dobbiamo trattare con un primo ministro che è diventato negli ultimi cinque anni il simbolo e l’immagine stessa della sinistra democratica cristiana. Egli è l’unico membro dell’ala sinistra della Dc con una statura sufficiente da godere del rispetto di tutti i partiti democratici come uno statista che può essere scelto per la leadership del governo. Io penso che le sue credenziali filo-occidentali sono valide ancora oggi come sempre, ma il Moro della politica interna è in qualche modo alla sinistra del Moro statista internazionale. Egli è spinto a sinistra dalla sua stessa natura piuttosto fatalistica e dalla sua lungamente coltivata antipatia per Fanfani, che ora sta ben alla destra di Moro. Con Fanfani pronto a sostituirlo, Moro farà ogni sforzo per evitare problemi o scontri con i socialisti. Una rottura definitiva con i socialisti significherebbe la fine della formula di centro-sinistra con cui Moro è storicamente associato, e che egli ha definito «irreversibile». Ci si può attendere che egli paghi il prezzo di un accordo o di una deriva, come necessari per tenere assieme il suo governo quanto a lungo sarà possibile. Io inclino a pensare che il quarto governo Moro non durerà molto. Fazioni importanti della Dc e addirittura esponenti del governo predicono solo pochi mesi, e in effetti i sindacati e i socialisti sono già irrequieti e insoddisfatti. Sarei però negligente a non ricordare, comunque, che quando Moro ha buone ragioni per star saldo, come spiegato sopra, la sua ingegnosità e tenacia sono fenomenali. Non è per coincidenza che Moro ha guidato il governo italiano per un periodo di tempo più lungo di qualsiasi primo ministro dopo De Gasperi.
«Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato», scrive Lanfranco Caminiti il 6 settembre 2016 su "Il Dubbio". «Caro Francesco... in verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere».
A Eleonora Moro. Pasqua 1978 "Mia carissima Noretta, Desidero farti giungere nel giorno di Pasqua, a te ed a tutti, gli auguri più fervidi ed affettuosi con tanta tenerezza per la famiglia ed il piccolo in particolare. Ricordami ad Anna che avrei dovuto vedere oggi. Prego Agnese di farti compagnia la notte. Io discretamente, bene alimentato ed assistito con premura. Vi benedico, invio tante cose care a tutti e un forte abbraccio. Aldo"
A Francesco Cossiga. "Caro Francesco, mentre t'indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione - mi è stato detto con tutta chiarezza - che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D. C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente). In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare quindi fino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale. Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della DC nel suo insieme nella gestione della sua linea politica. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere. Nella circostanza sopra descritta entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni.
Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato. Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz. E non si dica che lo Stato perde la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un'alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato. Ritornando un momento indietro sul comportamento degli Stati, ricorderò gli scambi tra Breznev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l'espulsione dei dissidenti dal territorio sovietico. Capisco che un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire. Queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l'emotività e riflettendo sui fatti politici. Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile. Converrà che tenga d'intesa con il Presidente del Consiglio riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe una astrattezza ed un errore. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose. I più affettuosi saluti. Aldo Moro"
È il 29 marzo 1978. Nicola Rana, da anni segretario particolare di Moro, riceve, nello studio di via Savoia del presidente democristiano, una telefonata delle Br, che gli indica dove trovare una busta: a piazza Sant'Andrea della Valle, nell'intercapedine tra il muro e un'edicola di giornali. Rana la recupera e si reca da Eleonora Moro. La busta contiene tre lettere di Moro. La prima, indirizzata a Rana, in cui lo prega di preservare la segretezza e la sicurezza dello studio di via Savoia come canale di comunicazione. La seconda, alla moglie. La terza, la più lunga, indirizzata a Cossiga, a cui Rana la consegna nel primo pomeriggio. Moro deve avervi ragionato su durante la Settimana Santa. È domenica di Pasqua, 26 marzo. Sono passati dieci giorni dal rapimento. Ha letto ritagli di giornali con le dichiarazioni dei partiti, di esponenti del governo, dei sindacati. Suppone che si sia aperta una caccia all'uomo per rintracciare il luogo dov'è tenuto prigioniero, ma non crede che questa sia la strada per la quale poter tornare libero. Vuole far rendere conto gli altri della condizione a cui è sottoposto, il «dominio», il «processo». «Siamo tutti noi a essere chiamati in causa», scrive Moro. Lo si deve considerare un prigioniero politico e trovare il modo di tirarlo fuori da lì. Fa riferimento a precedenti comportamenti di Stato come il caso Lorenz (leader dei democristiani di Berlino sequestrato il 27 febbraio del 1975 e rilasciato l'1 marzo in cambio della liberazione di cinque anarchici) e gli scambi di spie tra paesi ostili. Indica nella Santa Sede un possibile interlocutore, un mediatore attivo. Cossiga riceve la lettera convinto - come gli scrive Moro - che abbia un carattere privato. Da lì a poco, invece, le Br faranno rinvenire in quattro città copie della lettera e il comunicato n. 3. La scelta di rendere pubblico quanto a Moro era stato garantito come privato sarà motivata dicendo: «Ha chiesto di scrivere una lettera segreta (le manovre occulte sono la normalità per la mafia democristiana) al governo ed in particolare al capo degli sbirri Cossiga. Gli è stato concesso, ma siccome niente deve essere nascosto al popolo ed è questo il nostro costume la rendiamo pubblica». Questa decisione non è stata presa senza obiezioni interne. Il comunicato, che si rivolge al Movimento rivoluzionario, proclama che renderà noti i risultati dell'interrogatorio di Moro, a cui il prigioniero - si dice - sta collaborando. A sera finalmente il Comitato tecnico-operativo sarà informato dell'ultimo comunicato brigatista e delle lettere di Moro, compresa quella al ministro degli Interni di cui nessuno era al corrente. Cossiga, intanto, si consulta con Andreotti per decidere insieme l'atteggiamento da assumere. Il gruppo dei più stretti collaboratori di Moro - Rana, Freato e Guerzoni - prepara un articolo per il quotidiano «Il Popolo», in cui si mostra una certa disponibilità ad ascoltare i suggerimenti contenuti nella lettera del presidente democristiano. Ma la pubblicazione dell'articolo viene bloccata dai vertici del partito. Immediatamente dopo aver ricevuto la lettera del marito, Eleonora Moro, seguendone le indicazioni, si è messa in contatto con il Vaticano per sollecitarne la mediazione. Si apre a Torino il 41° Congresso socialista. Non è in discussione la leadership di Craxi, rafforzata dal patto con Signorile, quanto la collocazione che il partito intende assumere riguardo alla maggioranza governativa. È anche il banco di prova della nuova classe dirigente socialista, quella generazione di quarantenni che si è stretta attorno a Craxi. Il discorso introduttivo del segretario è atteso anche per i suoi imprescindibili riferimenti al sequestro Moro.
«Sono un prigioniero politico, il partito deve liberarmi», scrive Lanfranco Caminiti il 8 settembre 2016 su "Il Dubbio". È il 4 aprile, inizia il dibattito alla Camera, il presidente del Consiglio Andreotti espone le linee del governo e ribadisce che «non si può patteggiare nulla con gente che ha le mani grondanti di sangue». «Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D. C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la D. C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costituire. È peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. Questo è tutto il passato. Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi. Si discute qui, non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell'opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l'unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D. C. che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco. Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità senza avere subìto alcuna coercizione della persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po' abbandonato da voi. Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi ed a Gui a proposito di una contestata legge contro i rapimenti. Fatto il mio dovere d'informare e richiamare, mi raccolgo con Iddio, i miei cari e me stesso. Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la D. C. avendo dato sempre con generosità. Che Iddio v'illumini e lo faccia presto, com'è necessario. Affettuosi saluti Aldo Moro». È il 4 aprile. Il 31 marzo, il «Popolo» e «l'Unità» avevano titolato: «Nessuna trattativa, nessun cedimento al ricatto». È questo il senso consonante di due articoli che definiscono, rispettivamente, la posizione democristiana e comunista. Entrambe disconoscono l'autenticità della scrittura di Moro, attribuendola allo stato di costrizione che subisce. Uno stuolo di criptologi, grafologi, farmacologi analizzano le parole di Moro per dimostrare come sia sottoposto a stupefacenti o a tortura. Il 2 aprile, Paolo VI si affaccia, a mezzogiorno, a piazza San Pietro e, pur sottolineando l'assenza di «alcun particolare indizio sullo stato di fatto», rivolge un appello ai rapitori di Moro perché lo rilascino. Intanto si è concluso il Congresso socialista. Nella relazione conclusiva di Craxi c'è un pregnante riferimento al caso Moro, in cui il segretario socialista sembra prendere le distanze dalle posizioni più intransigenti. «È in gioco una vita umana - dice - e non dovrebbe essere lasciato cadere nessun margine ragionevole di trattativa». Il 3 aprile, i segretari dei partiti di maggioranza si riuniscono per la seconda volta: la prima era stata immediatamente dopo il sequestro e aveva registrato un fronte compatto per la fermezza. Adesso, in previsione del dibattito parlamentare dell'indomani, sembra necessario verificare la maggioranza. Cossiga relaziona sullo stato delle indagini. È minuzioso e dettagliato ma, evidentemente, non ha alcun conforto di risultati. Berlinguer insiste sulla necessità che il governo esprima con estrema chiarezza il rifiuto di ogni trattativa; in caso contrario teme le reazioni delle forze dell'ordine. Zaccagnini attenua i toni: è d'accordo sulla fermezza, ma non esclude ogni azione legale volta a salvare Moro. È Craxi, reduce dal Congresso di partito, a discordare dagli altri. Prima dell'incontro, ha rilasciato una breve intervista al giornale radio, in cui dichiara la necessità di esplorare tutte le strade per liberare il presidente democristiano. È il 4 aprile. Inizia, nel pomeriggio, il dibattito alla Camera. In mattinata, nella riunione dei capigruppo, si è concordato di fissare dei limiti di tempo per le interrogazioni. È Andreotti che espone le linee del governo. Ribadisce che «non si può patteggiare con gente che ha le mani grondanti di sangue». Ragguaglia sulla lettera inviata da Moro a Cossiga e la dichiara - con il conforto degli esperti - «moralmente a lui non ascrivibile». Dopo di lui si ascoltano gli interventi di Natta, per i comunisti, e di Piccoli, per i democristiani. Natta proclama il dovere del parlamento e delle forze democratiche di provvedere alla difesa più ferma e rigorosa dei princìpi, delle leggi e degli istituti dello Stato democratico. Piccoli ripete il rifiuto di avviare trattative, una scelta che la Dc avrebbe fatto anche se fosse stato un partito d'opposizione. È a questo punto che viene comunicato a Cossiga, a Zaccagnini, ad Andreotti, a Berlinguer e ad altri che è giunta un'altra lettera di Moro. Le Br hanno telefonato, nel pomeriggio, a Milano, Genova, Torino e Roma, alle redazioni di alcuni giornali per avvertire di aver lasciato dei plichi. Dentro, ci sono il comunicato n. 4 delle Br, la Risoluzione strategica del febbraio '78 e una lettera di Moro a Zaccagnini, scritta presumibilmente qualche giorno prima - «da quindici giorni in una situazione eccezionale». Il comunicato delle Br, dopo aver affermato che il processo a Moro è il processo a trent'anni di regime democristiano, sottolinea che «la posizione sullo scambio non è la nostra». Moro, nella lettera, fa riferimento al caso di Mario Sossi, il magistrato sequestrato dalle Brigate rosse a Genova nell'aprile 1974 e liberato dopo trentacinque giorni di prigionia, dopo aver chiesto la scarcerazione di un gruppo di militanti politici. «Il processo ad Aldo Moro andrà regolarmente avanti», scrivono adesso le Br. In nottata, a piazza del Gesù, riunione del vertice democristiano. Zaccagnini è il più provato e la direzione Dc sembra riunirsi attorno a lui per impedire ogni sgretolamento della linea adottata. Lanfranco Caminiti
«Non creda la Dc di avere chiuso il suo problema liquidandomi», scrive Lanfranco Caminiti il 14 set 2016 su "Il Dubbio". «Chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore». "Caro Zaccagnini, ancora una volta, come qualche giorno fa m'indirizzo a te con animo profondamente commosso per la crescente drammaticità della situazione. Siamo quasi all'ora zero: mancano più secondi che minuti. Siamo al momento dell'eccidio. Naturalmente mi rivolgo a te, ma intendo parlare individualmente a tutti i componenti della Direzione (più o meno allargata) cui spettano costituzionalmente le decisioni, e che decisioni! del partito. Intendo rivolgermi ancora alla immensa folla dei militanti che per anni ed anni mi hanno ascoltato, mi hanno capito, mi hanno considerato l'accorto divinatore delle funzioni avvenire della Democrazia Cristiana. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con la folla dei militanti. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con gli amici della Direzione del Partito o dei Gruppi parlamentari. Anche negli ultimi difficili mesi quante volte abbiamo parlato pacatamente tra noi, tra tutti noi, chiamandoci per nome, tutti investiti di una stessa indeclinabile responsabilità. Si sapeva, senza patti di sangue, senza inopinati segreti notturni che cosa voleva ciascuno di noi nella sua responsabilità. Ora di questa vicenda, la più grande e gravida di conseguenze che abbia investito da anni la D. C., non sappiamo nulla o quasi. Non conosciamo la posizione del Segretario né del Presidente del Consiglio; vaghe indiscrezioni dell'On. Bodrato con accenti di generico carattere umanitario. Nessuna notizia sul contenuto; sulle intelligenti sottigliezze di Granelli, sulle robuste argomentazioni di Misasi (quanto contavo su di esse), sulla precisa sintesi politica dei Presidenti dei Gruppi e specie dell'On. Piccoli. Mi sono detto: la situazione non è matura e ci converrà aspettare. È prudenza tradizionale della D. C. Ed ho atteso fiducioso come sempre, immaginando quello che Gui, Misasi, Granelli, Gava, Gonella (l'umanista dell'Osservatore) ed altri avrebbero detto nella vera riunione, dopo questa prima interlocutoria. Vorrei rilevare incidentalmente che la competenza è certo del Governo, ma che esso ha il suo fondamento insostituibile nella D. C. che dà e ritira la fiducia, come in circostanze così drammatiche sarebbe giustificato. È dunque alla D. C. che bisogna guardare. Ed invece, dicevo, niente. Sedute notturne, angosce, insofferenza, richiami alle ragioni del Partito e dello Stato. Viene una proposta unitaria nobilissima, ma che elude purtroppo il problema politico reale. Invece dev'essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra (guerra o guerriglia come si vuole), come si pratica là dove si fa la guerra, come si pratica in paesi altamente civili (quasi la universalità), dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente. Perché in Italia un altro codice? Per la forza comunista entrata in campo e che dovrà fare i conti con tutti questi problemi anche in confronto della più umana posizione socialista? Vorrei ora fermarmi un momento sulla comparazione dei beni di cui si tratta: uno recuperabile, sia pure a caro prezzo, la libertà; l'altro, in nessun modo recuperabile, la vita. Con quale senso di giustizia, con quale pauroso arretramento sulla stessa legge del taglione, lo Stato, con la sua inerzia, con il suo cinismo, con la sua mancanza di senso storico consente che per una libertà che s'intenda negare si accetti e si dia come scontata la più grave ed irreparabile pena di morte? Questo è un punto essenziale che avevo immaginato Misasi sviluppasse con la sua intelligenza ed eloquenza. In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice come primo segno di autentica democratizzazione. Con la sua inerzia, con il suo tener dietro, in nome della ragion di Stato, l'organizzazione statale condanna a morte e senza troppo pensarci su, perché c'è uno stato di detenzione preminente da difendere. È una cosa enorme. Ci vuole un atto di coraggio senza condizionamenti di alcuno. Zaccagnini, sei eletto dal congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza. E poi, detto questo, io ripeto che non accetto l'iniqua ed ingrata sentenza della D. C. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. Nessuna ragione politica e morale mi potranno spingere a farlo. Con il mio è il grido della mia famiglia ferita a morte, che spero possa dire autonomamente la sua parola. Non creda la D. C. di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della D. C. si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore. Cordiali saluti. Aldo Moro. P. S. Diffido a non prendere decisioni fuori dagli organi competenti di partito". Le Brigate rosse fanno ritrovare il comunicato n. 8. Insieme c'è una lettera di Moro al segretario democristiano Zaccagnini. Moro sembra abbastanza informato delle posizioni di esponenti del suo partito. Fa, ad esempio, riferimento alle cose dette da Granelli, della Direzione nazionale, o da Gonella, autorevole democristiano, membro dell'Assemblea costituente, in quei giorni fra i più strenui difensori della fermezza. Le Br, nel comunicato, considerano dilatorie e oscure le risposte della Dc a quanto finora da loro richiesto ed esplicitato ora con maggiore chiarezza. È la Democrazia cristiana il loro unico interlocutore: «La Dc e il suo governo hanno la possibilità di ottenere la sospensione della sentenza del Tribunale del Popolo e il rilascio di Aldo Moro solo liberando i prigionieri comunisti». Segue un elenco di tredici detenuti, dal «nucleo storico» dei Nap e della XXII Ottobre a «proletari prigionieri» politicizzatisi in carcere. «Se così non sarà, trarremmo immediatamente le debite conseguenze ed eseguiremo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». A mezzogiorno circa il testo del comunicato è sui tavoli di tutte le segreterie di partito. A piazza del Gesù si decide di non tenere alcun incontro. Nessuna riunione. Anche i socialisti sembrano perentori di fronte alle richieste del comunicato Br. Quattro righe secche arrivano dalla segreteria socialista di via del Corso: «La Direzione ha già espresso la sua opinione contraria a uno scambio di prigionieri». Il presidente della Caritas Internationalis, che i brigatisti non considerano attendibile interlocutore a meno di un formale incarico a trattare da parte della Dc, e a cui lo stesso Moro fa cenno nella sua lettera («proposta nobilissima») dichiara: «Il papa nel suo appello agli uomini delle Br ha semplicemente chiesto la liberazione di Moro senza condizioni. Noi siamo sulla stessa linea». I comunisti non rilasciano alcuna dichiarazione ufficiale. Il partito è impegnato nella preparazione della ricorrenza del 25 aprile. A Palazzo Chigi riunione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza, a conclusione del quale il governo dichiara che «le richieste di scambio erano e sono inaccettabili? la valutazione del governo è conforme a quella espressa dal Parlamento». Proprio alla Camera, il presidente Ingrao aveva tolto la parola a Pannella che avrebbe voluto discutere del comunicato brigatista. Monsignor Casaroli telefona ad Andreotti, chiedendogli di inviargli per iscritto le considerazioni da lui svolte sui limiti necessari all'azione del Papa rispetto allo Stato. A casa della famiglia Moro sono convenuti tutti i collaboratori del presidente Dc, che continuano a fare la spola tra piazza del Gesù e via del Forte Trionfale. Si discute se fare una dichiarazione ulteriore dopo l'arrivo del comunicato n. 8 e della lettera di Moro, ma si decide di aspettare. Freato e Rana, collaboratori di Moro, vanno a Palazzo Chigi, dove invano tenteranno di parlare con Andreotti. Eleonora Moro, dopo la dichiarazione del presidente della Caritas, si fa accompagnare in automobile alla sede della Dc. A tarda sera, convergono nuovamente tutti a via del Forte Trionfale. Lanfranco Caminiti
«Il mio sangue ricadrà su di loro», scrive Lanfranco Caminiti il 9 set 2016 su "Il Dubbio". La lettera di Aldo Moro dalla prigionia alla moglie Eleonora dell'8 aprile 1978 - «La faccia è salva, ma domani gli onesti piangeranno per il crimine compiuto e soprattutto i democristiani». "Mia carissima Noretta, anche se il contenuto della tua lettera al Giorno non recasse motivi di speranza (né io pensavo che li avrebbe recati), essa mi ha fatto un bene immenso, dandomi conferma nel mio dolore di un amore che resta fermo in tutti voi e mi accompagna e mi accompagnerà per il mio Calvario. A tutti dunque il ringraziamento più vivo, il bacio più sentito, l'amore più grande. Mi dispiace, mia carissima, di essermi trovato a darti questa aggiunta d'impegno e di sofferenza. Ma credo che anche tu, benché sfiduciata, non mi avresti perdonato di non averti chiesto una cosa che è forse un inutile atto di amore, ma è un atto di amore. Ed ora, pur in questi limiti, dovrei darti qualche indicazione per quanto riguarda il tuo tenero compito. È bene avere l'assistenza discreta di Rana e Guerzoni. Mi pare che siano rimasti taciti i gruppi parlamentari, ed in essi i migliori amici, forse intimiditi dal timore di rompere un fronte di autorità e di rigore. Ed invece bisogna avere il coraggio di rompere questa unanimità fittizia, come tante volte è accaduto. Quello che è stupefacente è che in pochi minuti il Governo abbia creduto di valutare il significato e le implicazioni di un fatto di tanto rilievo ed abbia elaborato in gran fretta e con superficialità una linea dura che non ha più scalfito: si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) con la esclusione dei prigionieri liberati dal territorio nazionale. Applicare le norme del diritto comune non ha senso. E poi questo rigore proprio in un Paese scombinato come l'Italia. La faccia è salva, ma domani gli onesti piangeranno per il crimine compiuto e soprattutto i democristiani. Ora mi pare che manchi specie la voce dei miei amici. Converrebbe chiamare Cervone, Rosati, Dell'Andro e gli altri che Rana conosce ed incitarli ad una dissociazione, ad una rottura dell'unità. È l'unica cosa che i nostri capi temono. Del resto non si curano di niente. La dissociazione dovrebbe essere pacata e ferma insieme. Essi non si rendono conto quanti guai verranno dopo e che questo è il meglio, il minor male almeno. Tutto questo andrebbe fatto presto, perché i tempi stringono. Degli incontri che riuscirai ad avere, se riuscirai, sarà bene dare notizia con qualche dichiarazione. Occorre del pubblico oltre che del privato. Su questo fatti guidare da Guerzoni. Nel risvolto del Giorno ho visto con dolore ripreso dal solito Zizola un riferimento dell'Osservatore Romano (Levi). In sostanza: no al ricatto. Con ciò la S. Sede, espressa da questo Sig. Levi, e modificando precedenti posizioni, smentisce tutta la sua tradizione umanitaria e condanna oggi me, domani donne e bambini a cadere vittime per non consentire il ricatto. È una cosa orribile, indegna della S. Sede. L'espulsione dallo Stato è praticata in tanti casi, anche nell'Unione Sovietica, e non si vede perché qui dovrebbe essere sostituita dalle stragi di Stato. Non so se Poletti può rettificare questa enormità in contraddizione con altri modi di comportarsi della S. Sede. Con queste tesi si avvalla il peggior rigore comunista ed a servizio dell'unicità del comunismo. È incredibile a quale punto sia giunta la confusione delle lingue. Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro. Ma non è di questo che voglio parlare; ma di voi che amo e amerò sempre, della gratitudine che vi debbo, della gioia indicibile che mi avete dato nella vita, del piccolo che amavo guardare e cercherò di guardare fino all'ultimo. Avessi almeno le vostre mani, le vostre foto, i vostri baci. I democratici cristiani (e Levi dell'Osservatore) mi tolgono anche questo. Che male può venire da tutto questo male? Ti abbraccio, ti stringo, carissima Noretta e tu fai lo stesso con tutti e con il medesimo animo. Davvero Anna si è fatta vedere? Che Iddio la benedica. Vi abbraccio. Aldo". Moro scrive il 7 aprile, dopo aver letto la lettera della moglie Eleonora, pubblicata dal "Giorno". Scriveva Nora: «Tutti i componenti della famiglia sono uniti e in salute. (...) Vorremmo sapesse che gli siamo vicini (...), che, avendo nonostante tutto fiducia negli uomini, crediamo sia ancora possibile, dopo tanto dolore, riabbracciarlo». Il giorno dopo, "Il Popolo", quotidiano democristiano, ripubblica la lettera di Eleonora Moro, con un commento in cui si dice che «a parte la rigorosa salvaguardia delle prerogative dello Stato repubblicano, nessuna possibilità di restituire l'on. Moro innanzitutto ai suoi cari può restare inesplorata». Anche Zaccagnini in un intervento a "Tribuna Politica" di qualche giorno fa - era dal 16 marzo che non appariva in pubblico - lascia filtrare la contraddittorietà dei suoi sentimenti. Accenna al «dramma che stiamo vivendo, che sto vivendo» e allo sforzo di «restituire al partito, e soprattutto alla famiglia, il nostro carissimo amico Aldo Moro». Craxi si incontra con Cossiga e Galloni e li mette a parte dei suoi tentativi, attraverso l'avvocato Guiso, di capire quali spazi reali di intermediazione esistano. L'avvocato Guiso ha incontrato i brigatisti detenuti a Torino, per il processo ai capi storici, secondo i quali è necessaria una «risposta politica a quanto Moro sollecita». È l'8 aprile. Nel pomeriggio, migliaia di donne partecipano alla manifestazione di Roma per l'aborto. Nelle stesse ore le Br contattano il prof. Tritto, persona vicina ad Aldo Moro, perché ritiri una busta - dentro c'è la lettera scritta da Moro alla moglie - ma la telefonata è intercettata dalla polizia, che si precipita sul posto indicato - piazza Augusto Imperatore - e sequestra tutto. Fotocopie della lettera di Moro alla moglie gireranno presto nel Palazzo. Tritto viene fermato e interrogato a lungo. Il tentativo di lasciare libere le comunicazioni tra Moro e la famiglia è quindi negato. Le Br trovano immediatamente un altro canale. È padre Antonello Mennini. Moro ha ormai scelto il terreno del dibattito pubblico, insiste anzi per dare massima visibilità alle questioni che pone. Sollecita la moglie a contattare il senatore Vittorio Cervone, il deputato Elio Rosati, l'allora sottosegretario alla Giustizia Renato Dell'Andro, che erano tutti della corrente "Amici di Moro". Come lo è anche Guerzoni, suo portavoce e giornalista Rai. Ma, leggendo il "Giorno", è rimasto colpito da un articolo di Giancarlo Zizola, vaticanista del quotidiano, che commentava l'opinione di don Virgilio Levi, vicedirettore de "L'Osservatore Romano", dal titolo "L'ora della verità". L'on. Taviani, a cui Moro aveva fatto riferimento nella sua lettera a Zaccagnini, smentisce di aver mai discusso con il presidente democristiano del caso Sossi e della necessità di essere flessibili di fronte a vicende del genere. L'on. Gui invece conferma le parole di Moro.
«Carissima Noretta, sono intatto e lucido ma non c'è tempo», scrive Lanfranco Caminiti l'8 set 2016 su "Il Dubbio". Al Senato vengono discusse le norme antiterrorismo approvate per decreto. I socialisti sono notevolmente critici e chiedono la «temporaneità» del provvedimento. Moro scrive il suo testamento. "Mia Carissima Noretta, questi fogli che ti accludo sono tutti, a loro modo, importanti e li dovrai leggere perciò con la dovuta attenzione. Ma è questo quello più urgente ed importante, perché riguarda la mia condizione che va facendosi sempre più precaria e difficile per l'irrigidimento totale delle forze politiche ad un qualche inizio di discorso su scambi di prigionieri politici, tra i quali sono anch'io. Non so se tu hai visto bene i miei due messaggi (altrimenti li puoi chiedere subito a Guerzoni). È da quelli che bisogna partire, per mettere in moto un movimento umanitario, oggi nelle Camere assolutamente assente malgrado le loro tradizioni. Solo Saragat ed un po' i socialisti hanno avuto qualche debole cenno a motivi umanitari. Degli altri nessuno ed in ispecie la D. C. cui avevo scritto nella persona di Zaccagnini e di altri esponenti: ricordando tra l'altro a Zaccagnini che egli mi volle (per i suoi comodi) a questo odiato incarico, sottraendomi alle cure del piccolo che presentivo di non dovere abbandonare. Son giunto a dirgli che egli moralmente avrebbe dovuto essere al mio posto. La risposta è stata il nulla. Ora si tratta di vedere che cosa ancora con la tua energia, in pubblico ed in privato, puoi fare, perché se questo blocco non comincia a sgretolarsi un poco, ne va della mia vita. E cioè di voi tutti, carissimi, e dell'amato piccolo. Sarebbe per me una tragedia morire, abbandonandolo. Si può fare qualche cosa presso: Partiti (specie D. C., la più debole e cattiva), i movimenti femminili e giovanili, i movimenti culturali e religiosi. Bisogna vedere varie persone, specie Leone, Zaccagnini, Galloni, Piccoli, Bartolomei, Fanfani, Andreotti (vorrà poco impegnarsi) e Cossiga. Si può dire ad Ancora di lavorare con Berlinguer: i comunisti sono stati durissimi, essendo essi in ballo la prima volta come partito di governo. Il Vaticano va ancora sollecitato anche per le diverse correnti interne, si deve chiedere che insista sul governo italiano. Tempi di Pio XII che contendeva ai Tedeschi il giovane Prof. Vassalli, condannato a morte. Si dovrà ritentare. E poi vedi tu nelle direzioni possibili con il meglio di te. È un estremo tentativo. Tieni presente che nella maggior parte degli Stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla necessità e si adottano criteri umanitari. Questi prigionieri scambiati vanno all'estero e quindi si realizza una certa distensione. Che giova tenerli qui se non per un'astratta ragione di giustizia, con seguiti penosi per tutti e senza che la sicurezza dello Stato sia migliorata? Ma vedi tu se puoi coinvolgere rapidamente. La mia pena è Luca. Lo amo e lo temo senza di me. Sarà il dolore più grande. Forse non si deve essere, neppur poco felici. Ti abbraccio forte. Aldo". La lettera porta la data di intestazione del 7 aprile, ma viene recapitata il 6. Moro è al corrente del dibattito alla Camera e delle posizione espresse dai partiti - con evidenza, ha modo di leggere ritagli dei quotidiani che gli passano i brigatisti. Non sa invece - aveva chiesto che fossero riservate, ma i brigatisti le hanno inviate ai giornali perché «niente deve essere nascosto al popolo» - che le sue lettere a Cossiga e Zaccagnini sono ormai di dominio pubblico. Chiede alla moglie di prenderne visione attraverso Corrado Guerzoni - suo portavoce e stretto collaboratore - ma Eleonora, come tutti d'altronde, sa già benissimo cosa vi era scritto. Moro comincia a rendersi conto dell'irrigidimento delle posizioni. Cerca spazi di manovra. Dei fogli cui accenna alla moglie, benché lui stesso consideri rilevante soprattutto la lettera, non c'è traccia. Oltre che i capi del suo partito, suggerisce di contattare i comunisti e Berlinguer attraverso Tullio Ancora, funzionario della Camera dei deputati, che era stato il tramite della sua tessitura per il sostegno del Pci al nuovo governo di Andreotti. E di ricordare al Vaticano, nei contatti da coltivare, come papa Pio XII fosse stato capace di salvare Giuliano Vassalli, deputato socialista, professore universitario e amico di Moro, quando da giovane membro della Resistenza era stato catturato dai nazisti, detenuto e torturato a via Tasso. Il suo pensiero e il suo rammarico - che ricorrerà spesso nelle lettere - è al piccolo nipote Luca. Eleonora Moro decide di rispondere al marito attraverso un quotidiano, forse il modo più sicuro per informarlo e per iniziare pubblicamente la sua battaglia per salvarlo. Miriam Mafai su Repubblica analizza le reazioni operaie al terrorismo in una città come Genova, che definisce «laboratorio per le Br». Dopo aver registrato le risposte stereotipate di dirigenti provinciali e sindacali di sinistra, racconta di un malessere diffuso tra gli operai e soprattutto tra i portuali, ma anche di un'estesa indifferenza borghese. Non c'è simpatia per le Br, ma neanche tanto affetto per lo Stato e la Dc. Giancarlo Quaranta, leader del movimento Febbraio '74, - un'organizzazione della sinistra giovanile cattolica che si propone di costruire «dal basso» un rapporto con i comunisti e in cui milita Giovanni, il figlio di Moro - incontra Enrico Berlinguer a Botteghe Oscure. Gli chiede di essere meno intransigente verso un'ipotesi di trattativa, ma il segretario comunista è inflessibile. «Non trattare è il modo migliore per salvare la vita di Moro», dirà. Intanto, il 5 aprile, sulla base della curiosa notizia della seduta medianica di Bologna è stato ordinato di perquisire la località Gradoli, in provincia di Viterbo. Il 2 aprile un gruppo di amici bolognesi, stimati professori universitari legati da parentele incrociate, riunito in una villa di campagna, per gioco aveva dato inizio a una seduta medianica per la ricerca di Moro. Viene fuori, tra le altre, la parola «Gradoli» che, sola, incuriosisce i presenti. È il professor Romano Prodi, con numerosi conoscenti a Roma, a incaricarsi di trasmettere questa curiosità. Così, viene effettuato un rastrellamento della zona. Nessun riscontro. Non viene in mente che «Gradoli» possa essere un'indicazione stradale e non geografica. Durissima intervista di Luciano Lama a Repubblica: «Quelli che abbracciano la teoria "né con lo Stato né con le Br" non possono far parte della Federazione sindacale unitaria; o se ne vanno o debbono essere messi fuori». Al Senato vengono discusse le norme antiterrorismo approvate per decreto, che dovrà essere ratificato dai due rami del Parlamento entro sessanta giorni. I socialisti sembrano notevolmente critici e chiedono la «temporaneità» del provvedimento. Moro scrive il suo testamento.
«Credetemi, non c'è più un minuto da perdere», scrive Lanfranco Caminiti il 16 settembre 2016 su "Il Dubbio". Il 28 aprile il presidente del Consiglio Andreotti pone il sigillo definitivo al rifiuto di trattare con le Br. «Chi ha responsabilità di governo giura di rispettare e far rispettare le leggi, questo è un limite che nessuno di noi ha il diritto di valicare».
A Flaminio Piccoli: "Caro Piccoli, mi rivolgo a te con la fiducia e l'affetto che sai. Sei tu ora, punto di riferimento. E vedo il segno della tua presenza nel fatto che sia stato sin qui evitato il peggio, la chiusura indiscriminata. Guardando agli aspetti umanitari, che sono essenziali e valgono per tutti i Paesi, bisogna rapidamente approfondire questa breccia. Andare avanti, cioè, nel concreto, senza illudersi che invocazioni umanitarie possano avere il minimo effetto. Non dividete sul sangue la D. C., non illudetevi di risolvere così i problemi del paese, date fiducia, ora che si manifesta intero, all'umanitarismo socialista, anche se vi fosse la sfida della crisi, la cui composizione del resto è stata così faticosamente accettata. La crisi, per questo motivo che lascia allo scoperto i comunisti, non ci sarebbe o almeno sarebbe risolvibile. Non lasciate allo scoperto i vecchi amici che hanno dato fino all'ultimo. Sarebbe un fatto obbrobrioso e immorale. Sarebbe un eroismo su basi fragilissime. Scusa queste considerazioni che, soprattutto per la famiglia dovevo fare, ed abbiti i più cordiali saluti. Aldo Moro".
A Riccardo Misasi: "Carissimo Riccardo, un grande abbraccio e due parole per dirti che mi attendo, con l'eloquenza ed il vigore che ti sono propri, una tua efficace battaglia a difesa della vita, a difesa dei diritti umani, contro una gretta ragion di Stato. Tu sai che gli argomenti del rigore, in certe situazioni politiche, non servono a nulla. Si tratta di ben altro che dovremmo sforzarci di capire. Se prendi di petto i legalisti, vincerai ancora una volta. Non illudetevi di invocazioni umanitarie. Vorrei poi dirti che, se dovesse passarsi, come ci si augura, ad una fase ulteriore, la tua autorità ed esperienza di Presidente della Commissione Giustizia, dovrebbero essere, oltre che per le cose in generale che interessano, preziose per alcuni temi specifici che tu certo intuisci. Grazie e tanti affettuosi saluti. Aldo Moro".
A Tullio Ancora: "Caro Tullio, un caro ricordo ed un caloroso abbraccio. Senza perdersi in tante cose importanti, ma ovvie, concentrati in questo. Ricevo come premio dai comunisti dopo la lunga marcia la condanna a morte. Non commento. Quel che dico, e che tu dovresti sviluppare di urgenza e con il garbo che non ti manca, è che si può ancora capire (ma male) un atteggiamento duro del PCI, ma non si capirebbe certo che esso fosse legato al quadro politico generale la cui definizione è stata così faticosamente raggiunta e che ora dovrebbe essere ridisegnato. Dicano, se credono, che la loro è una posizione dura e intransigente e poi la lascino lì come termine di riferimento. È tutto, ma è da fare e persuadere presto. Affettuosamente. Aldo Moro".
A Giulio Andreotti: "Caro Presidente, so bene che ormai il problema, nelle sue massime componenti, è nelle tue mani e tu ne porti altissima responsabilità. Non sto a descriverti la mia condizione e le mie prospettive. Posso solo dirti la mia certezza che questa nuova fase politica, se comincia con un bagno di sangue e specie in contraddizione con un chiaro orientamento umanitario dei socialisti, non è apportatrice di bene né per il Paese né per il Governo. La lacerazione ne resterà insanabile. Nessuna unità nella sequela delle azioni e reazioni sarà più ricomponibile. Con ciò vorrei invitarti a realizzare quel che si ha da fare nel poco tempo disponibile. Contare su un logoramento psicologico, perché son certo che tu, nella tua intelligenza, lo escludi, sarebbe un drammatico errore. Quando ho concorso alla tua designazione e l'ho tenuta malgrado alcune opposizioni, speravo di darti un aiuto sostanzioso, onesto e sincero. Quel che posso fare, nelle presenti circostanze, è di beneaugurare al tuo sforzo e seguirlo con simpatia sulla base di una decisione che esprima il tuo spirito umanitario, il tuo animo fraterno, il tuo rispetto per la mia disgraziata famiglia. Quanto ai timori di crisi, a parte la significativa posizione socialista cui non manca di guardare la D. C., è difficile pensare che il PCI voglia disperdere quello che ha raccolto con tante forzature. Che Iddio ti illumini e ti benedica e ti faccia tramite dell'unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia. Grazie e cordialmente tuo Aldo Moro".
A Bettino Craxi: "Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo Partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa. È da mettere in chiaro che non si tratta di inviti rivolti agli altri a compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici. Ho l'impressione che questo o non si sia capito o si abbia l'aria di non capirlo. La realtà è però questa, urgente, con un respiro minimo. Ogni ora che passa potrebbe renderla vana ed allora io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile sull'unica direzione giusta che non è quella della declamazione. Anche la D. C. sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi anche tu con l'urgenza che si richiede. Credi, non c'è un minuto da perdere. E io spero che o al San Rafael o al Partito questo mio scritto ti trovi. Mi pare tutto un po' assurdo, ma quello che conta non è spiegare, ma, se si può fare qualcosa, di farlo. Grazie infinite ed affettuosi saluti Aldo Moro".
Il 25 aprile, trentatreesimo anniversario della Liberazione, sindacati, Pci e Dc si sono impegnati in una mobilitazione straordinaria. Dappertutto i comizi intrecciano l'anniversario della Liberazione alla lotta contro il terrorismo. A Roma, alla manifestazione indetta dal movimento e da Autonomia, ci sono state violentissime cariche della polizia. Il segretario dell'Onu, Waldheim, interviene con un nuovo appello via satellite, in cui chiede il rilascio di Moro: «Tale atto di pietà sarà ricevuto con un senso di sollievo da tutto il mondo». Un portavoce delle Nazioni Unite precisa che l'iniziativa di Waldheim è a titolo personale. Il 26 aprile Zaccagnini si incontra con Craxi per capire quali siano in concreto le possibili iniziative a cui il segretario socialista fa riferimento. Le indicazioni di Craxi vertono sul riesame della situazione delle «carceri speciali» e su provvedimenti di grazia a favore di alcuni detenuti brigatisti, per le loro condizioni di salute. Dopo aver visto Craxi, Zaccagnini consulta telefonicamente altri leader Dc ed esponenti della maggioranza. In serata, dopo una riunione a piazza del Gesù, Piccoli dichiara: «La nostra linea rimane immutata». Il vicesegretario socialista Signorile è intervistato dalla «Repubblica»: «Con questo allucinante attendere la notizia dell'assassinio di Moro, con questo immobilismo, non abbiamo sfruttato le "due linee" che chiaramente esistono all'interno delle Br». Signorile, che nell'intervista ritorna sulla possibilità di iniziative, ha incontrato Piperno e Pace, entrambi ex leader di Potere Operaio, i quali hanno insistito sulla necessità di dare presto segnali di concreta disponibilità. Fanfani fa visita a Eleonora Moro; un colloquio di circa mezz'ora. Intanto si registrano reazioni durissime all'appello di Waldheim. Viene considerato una sorta di «ufficializzazione» delle Br. Steve Pieczenik, che ha fatto parte del gruppo di esperti del ministro degli Interni, rilascia una dichiarazione dagli Stati Uniti, dove è tornato da poco: «Poiché l'obiettivo evidente dei terroristi era ed è destabilizzare lo Stato italiano, è stato estremamente importante rispondere facendo chiaramente comprendere che se l'onorevole Moro è una figura essenziale della democrazia italiana, tuttavia nessuno è indispensabile». Verso la Croce Rossa si era intanto mosso Cottafavi, diplomatico e amico di Moro, da lui stesso sollecitato. Per il governo, Andreotti fa sapere di essere decisamente contrario: l'intervento della Croce Rossa significherebbe un «riconoscimento internazionale di parti belligeranti». Il 28 aprile, a sera, conferenza stampa televisiva del presidente del Consiglio. È il sigillo definitivo al rifiuto del governo a trattare con le Br. «Chi ha responsabilità di governo giura di rispettare e far rispettare le leggi, questo è un limite che nessuno di noi ha il diritto di valicare». Andreotti ha aggiunto: «Lo Stato è qualcosa che sta al di sopra di noi». Lanfranco Caminiti
«Dite la verità: in Italia lo scambio di prigionieri c'è sempre stato», scrive Lanfranco Caminiti il 16 set 2016 su "Il Dubbio". Le lettere di Aldo Moro a Renato Dell'Andro ed Erminio Pennacchini.
"Carissimo Renato, in questo momento così difficile, pur immaginando che tu abbia fatto tutto quello che la coscienza e l'affetto ti suggerivano, desidero aggiungere delle brevi considerazioni. Ne ho fatto cenno a Piccoli e a Pennacchini ed ora lo rifaccio a te, che immagino con gli amici direttamente e discretamente presenti nei dibattiti che si susseguono. La prima riguarda quella che può sembrare una stranezza e non è e cioè lo scambio dei prigionieri politici. Invece essa è avvenuta ripetutamente all'estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all'epoca più oscura della guerra. Lo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi. Io non penso che si debba fare, per ora, una dichiarazione ufficiale, ma solo parlarne di qua e di là, intensamente però. Ho scritto a Piccoli e a Pennacchini che è buon testimone. A parte tutte le invenzioni che voi saprete fare, è utile mostrare una riserva che conduca, in caso di esito negativo, al coagularsi di voti contrari come furono minacciati da De Carolis e altri, Andreotti che (con il Pci) guida la linea dura, deve sapere che corre gravi rischi. Valorizzare poi l'umanitarismo socialista, più congeniale alla Dc e che ha sempre goduto, e specie in questa legislatura, maggiori simpatie. Forza, Renato, crea, fai, impegnati con la consueta accortezza. Te ne sarò tanto grato. Ti abbraccio. Aldo Moro."
"Carissimo Pennacchini, ho avuto sempre grande stima di te, per tutto, ma soprattutto per la cristallina onestà. È quindi naturale che in un momento drammatico mi rivolga a te per un aiuto prezioso che consiste semplicemente nel dire la verità. Dirla, per ora, ben chiara agli amici parlamentari ed a qualche portavoce qualificato dell'opinione pubblica. Si vedrà poi se ufficializzarla. Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare. L'analogia, anzi l'eguaglianza con il mio doloroso caso, sono evidenti. Semmai in quelle circostanze la minaccia alla vita dei terzi estranei era meno evidente, meno avanzata. Ma il fatto c'era e ad esso si è provveduto secondo le norme dello Stato di necessità, gestite con somma delicatezza. Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d'Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell'ordinamento giuridico e nella coscienza sociale del Paese. Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell'altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato Terzo. Ecco, la tua obiettiva ed informata testimonianza, data ampiamente e con la massima urgenza, dovrebbe togliere alla soluzione prospettata quel certo carattere di anomalia che taluno tende ad attribuire ad essa. È un intermezzo di guerra o guerriglia che sia, da valutare nel suo significato. Lascio alla tua prudenza di stabilire quali altri protagonisti evocare. Vorrei che comunque Giovannoni fosse su piazza. Ma importante è che tu sia lì, non a fare circolo, ma a parlare serenamente secondo verità. Tra l'altro ricordi quando l'allarme ci giunse in Belgio? Grazie per quanto dirai e farai secondo verità. La famiglia ed io, in tanta parte, dipendiamo da te, dalla tua onestà e pacatezza. Affettuosamente, Aldo Moro."
Moro ritorna sulla questione dei palestinesi. Il riferimento è a una sorta di accordo segreto con l'Olp, l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidata da Arafat, per evitare che sul territorio italiano vi fossero atti di terrorismo. Vi furono diversi episodi, ma forse il più importante accadde durante la guerra dello Yom Kippur tra Egitto e Israele nel 1973. Due dei cinque palestinesi arrestati a Ostia mentre preparavano a Fiumicino un attentato a un aereo delle linee israeliane furono scarcerati e mandati in Libia. Il deputato democristiano Erminio Pennacchini era dal dicembre 1977 presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, il cui vicepresidente era il comunista Pecchioli.Renato Dell'Andro era stato sottosegretario al ministero di Grazia e Giustizia con presidente del Consiglio Moro. Il colonnello Giovannone era un ufficiale del Sismi, il Servizio segreto militare, responsabile per il Medio Oriente. Moro era stato ministro degli Esteri dal 1969 al 1974, e in questa veste aveva compiuto numerosi viaggi all'estero, in particolare nell'area del Mediterraneo. Intanto, le lettere inviate da Moro nei giorni precedenti hanno creato agitazione a piazza del Gesù; vari leader arrivano per incontrarsi nello studio di Zaccagnini. Il Consiglio nazionale della Democrazia cristiana si terrà tra una decina di giorni, non prima. È l'unica decisione. C'è inoltre da preparare la campagna per le elezioni amministrative che si terranno tra due settimane e coinvolgeranno almeno quattro milioni di elettori. Ai giornalisti che lo aspettano, Andreotti, uscendo, dice: «Noi passiamo ogni sera solitamente da Zaccagnini per vedere se ci sono novità e oggi non ce ne sono». «Non ci sono elementi tali da spingere il Pci a convocare delle riunioni e a prendere nuove decisioni dette e ribadite nelle precedenti», questa la dichiarazione proveniente da Botteghe Oscure. Qui, Berlinguer ha incontratoTullio Ancora, incaricato da Moro in una sua lettera, a cui ha ribadito le posizioni di intransigente fermezza. D'altronde i comunisti sono impegnatissimi nella seduta fiume in commissione Giustizia, presieduta da Misasi, per proseguire rapidamente l'esame della nuova normativa sull'ordine pubblico, contro cui radicali e missini applicano l'ostruzionismo. Il 30 aprile, Giuliano Vassalli, che guida il gruppo di giuristi incaricato da Craxi, consegna al Quirinale al presidente Leone il «documento di lavoro» socialista che specifica le linee generali su cui lo Stato può autonomamente intervenire. Per le carceri speciali si suggerisce di togliere i vetri blindati dai colloqui, di intensificare le ore di visita per i familiari e di aumentare le ore d'aria per i detenuti. In riferimento alla concessione della grazia o della libertà provvisoria per alcuni terroristi, che non sono colpevoli di gravissimi reati, Vassalli ha con sé un elenco di nomi. L'attenzione si circoscrive attorno ai nomi di Paola Besuschio, militante Br della prima ora, e Alberto Buonoconto, napoletano dei Nap. Entrambi non godono di buona salute. Nella direzione di colonna romana delle Br le perplessità di Morucci e Faranda hanno preso consistenza. Moretti telefona a casa Moro. La telefonata è lunga quindi rischiosa; oltre che «un puro scrupolo», suona come un estremo tentativo di trovare una soluzione. La famiglia si sta battendo come può per la trattativa, soprattutto con i democristiani. Moretti insiste: «Finora avete fatto soltanto cose che non servono assolutamente a niente? quindi chiediamo solo questo: che sia possibile l'intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore». Eleonora Moro e il figlio Giovanni si mettono immediatamente in contatto con Zaccagnini, con Leone e riprendono il giro delle loro relazioni. Rigoroso riserbo del Vaticano sulla vicenda Moro, soprattutto dopo la delusione del presidente democristiano per quell'appello del Papa a liberarlo «senza condizioni». Paolo VI oggi ha invitato tutti a tenere viva la speranza e a invocare la Vergine.
Quella volta che Craxi mi abbracciò e disse: «Lo dobbiamo salvare», scrive Fabrizio Cicchitto il 16 set 2016 su "Il Dubbio". Nell'iniziativa del leader socialista c'era una visione garantista e la tutela del singolo individuo anche di fronte alla ragion di Stato. Infatti solo nei confronti di Moro si rifiutò la trattativa. La storia politica e personale di Aldo Moro è segnata da elementi molto contraddittori, ma la contraddittorietà è nella storia politica dell'Italia che è stata segnata dalla coesistenza di un vasto e forte establishment istituzionale, politico, economico con tendenze eversive arrivate fino alla pratica di un terrorismo del tutto ideologico. Aldo Moro - che con Dossetti, La Pira, Fanfani fece parte di quella comunità politica che nella Dc degli anni 40 più si impegnò nella stesura della Costituzione repubblicana - si formò negli anni 30 nella Fuci, che aveva la supervisione di Mons. Montini. A sua volta Fanfani si formò all'Università del Sacro Cuore. Infatti, negli anni del fascismo, la Chiesa seguì una linea assai articolata. Per un verso realizzò con Mussolini un compromesso, che diede largo spazio alle tendenze clerico-fasciste, ma il Concordato del 1929 fu assai utile a entrambe le parti. Nel contempo nella Fuci e nell'associazionismo cattolico veniva fatta maturare una classe dirigente potenzialmente alternativa o sostitutiva. La formazione di Aldo Moro fu giuridica ed etico-politica. Quella di Fanfani fu invece di carattere economico e combinò insieme la dottrina corporativa fascista e le nuove teorie provenienti dagli Usa (il cosiddetto volontarismo americano) che costituivano il retroterra culturale del New Deal. Ma nei confronti del New Deal l'attenzione di alcuni settori del fascismo fu più rilevante di quanto non si racconti. Alle origini a guidare la "comunità del porcellino" c'era Giuseppe Dossetti che però era portatore di una linea di "unità nazionale", di apertura al Pci, non solo del tutto contraddittoria con quella degasperiana, ma anche con la divisione internazionale del mondo e con gli orientamenti di Pio XII. Dossetti ne prese atto e si ritirò dalla politica puntando sui tempi lunghi: lo ritroveremo al Concilio Vaticano II come consigliere teologico del Card. Lercaro. Nella Dc degli anni Sessanta-Settanta si affermarono Fanfani, Moro, i dorotei, Giulio Andreotti. I due "cavalli di razza", per usare una battuta di Carlo Donat Cattin, furono appunto Fanfani e Moro. Fanfani, dopo De Gasperi, fu il più grande uomo di governo che la Dc abbia avuto: egli è stato un autentico riformista, tant'è che il suo monocolore appoggiato dai socialisti fu il governo più riformatore della fase del centro-sinistra. Se Fanfani fu il più grande uomo di governo della Dc, fu però il suo peggior segretario, nel senso che non aveva il senso della mediazione né all'interno, né all'esterno del partito, per cui andò incontro a due scacchi, quello che portò alla sua defenestrazione da segretario e alla sua sostituzione proprio con Aldo Moro in seguito alla "congiura dei dorotei" (Rumor, Colombo, Bisaglia, Piccoli) e poi alla sconfitta nel referendum sul divorzio. A sua volta Aldo Moro è stato di gran lunga il più grande segretario della Dc, ma il peggiore fra i suoi presidenti del Consiglio. Aldo Moro come segretario della Dc portò il suo partito, in entrambi i casi assai riluttante, all'apertura nei confronti del Psi e poi nei confronti del Pci, un'apertura che in entrambi i casi conservò l'egemonia della Dc tant'è che prima il Psi di Nenni, poi il Pci di Berlinguer ne uscirono con le ossa rotte. Per piegare Nenni e il Psi all'accettazione di una politica moderata, poco riformista, il gruppo dirigente della Dc, nel 1964, non esitò ad usare anche "il tintinnio delle sciabole" posto in essere da Antonio Segni, presidente della Repubblica, e dal gen. De Lorenzo. Moro, però, fallì come presidente del Consiglio: il governo Moro-Nenni durò dal 1964 al 1968 e segnò il ridimensionamento dell'originario riformismo del centro-sinistra e fu preso d'infilata e di sorpresa dal '68. A causa di questo immobilismo fallì l'unificazione socialista e il Psi andò incontro ad una dura sconfitta politica. Paradossalmente successivamente nella Dc proprio Aldo Moro fu il leader che in modo culturalmente sofisticato aprì una riflessione sul '68, sui "giovani" e sulle novità della società italiana. Poi di fronte ai risultati elettorali del 1976 nei quali al Pci non riuscì il sorpasso ma ottenne un grande risultato (34,37%), la Dc si consolidò (con il 38,71%) mentre il Psi fu ridotto al 9,64%, Moro elaborò la teoria dei "due vincitori" e la conseguente linea dell'unità nazionale, nella quale, però, il Pci era ammesso o all'astensione e poi nella maggioranza, non al governo. Nel contempo Moro non accettò nessuna delle preclusioni del Pci sulla presenza al governo di questo o quell'esponente democristiano. Il paradosso fu che nel giorno fatidico in cui Moro fu rapito, il Pci, su spinta di Alessandro Natta, stava per decidere di astenersi sul governo Andreotti rifiutando di entrare in maggioranza proprio perché molto contrariato dalla composizione dell'esecutivo. Però di fronte alla situazione di emergenza determinata dal rapimento di Moro e dall'uccisione della sua scorta, Berlinguer tagliò corto e decise per il voto favorevole al governo. Sia la dottrina berlingueriana del compromesso storico, sia la politica morotea dell'unità nazionale di Aldo Moro non venivano visti favorevolmente né dagli Usa né dall'Urss, perché entrambe queste strategie erano contraddittorie con la rigidità e con il rigore della divisione del mondo in due blocchi. Far discendere da ciò la conseguenza che il rapimento Moro fu un'operazione di carattere internazionale - secondo alcuni di matrice Cia, secondo altri di matrice Kgb con coinvolgimenti mafiosi o della 'ndrangheta - a mio avviso è una ricostruzione forzata volta a giustificare l'estrema debolezza dello Stato italiano di allora. Per di più tuttora componenti post-democristiane e post-comuniste non vogliono accettare che lo Stato italiano fu allora messo in scacco da un terrorismo fondamentalmente autoctono, derivante da un filone del Pci. Il filone di Secchia, della volante rossa, di quei partigiani comunisti che continuarono a sparare dopo il 25 aprile, almeno fino al 1947, e che furono bloccati e messi fuorigioco da Togliatti, d'intesa con il Pcus: furono bloccati ma riuscirono ad avere degli eredi. Che poi sia la Cia, sia il Kgb, di fronte all'iniziativa delle Br per una fase abbiano girato la testa dall'altra parte, ciò è possibile, ma non provato. Certamente le Br una connessione internazionale l'avevano, ed era con alcuni nuclei palestinesi, i quali a loro volta in ultima analisi avevano rapporti con il Kgb, ma le Br il Italia agirono in proprio. Comunque di fronte al rapimento di Moro l'unico partito che nell'immediato reagì in modo rapido e incisivo fu il Pci che, sapendo bene che tutta la linea delle Br era volta a far saltare la sua strategia di fondo nelle fabbriche, nella società e poi nello Stato adottò la linea durissima del rifiuto totale di ogni trattativa. A sua volta, con la messa fuorigioco di Moro la Dc era totalmente decerebralizzata, non aveva più un leader: Zaccagnini era così sconvolto che politicamente non esistette più. A quel punto la linea del Pci fu fatta propria da Andreotti per salvare il suo governo, da Cossiga, ministro degli Interni, per una sua scelta ideologica (salvare lo Stato a tutti i costi), da Giovanni Galloni (per salvare la politica di unità nazionale e il rapporto fra la Dc e il Pci). Di conseguenza tutto era pronto perché Moro fosse santificato e sacrificato come un martire in continuità con i caduti della Resistenza: allora gli assassini erano le Brigate nere, adesso le Brigate rosse. Tutto sarebbe funzionato alla perfezione se Moro si fosse sacrificato. Invece ciò non avvenne e fra la stupefazione generale né Moro né la sua famiglia stettero al gioco. Moro non accettò il ruolo di martire che il Pci e Andreotti-Cossiga-Galloni gli avevano assegnato, anzi volle far di tutto per salvare la sua vita e cominciò ad inviare le sue terribili, sconvolgenti lettere, scritte da una personalità che era stata la quintessenza del sistema che adesso contestava alla radice perché proprio quel sistema lo voleva morto in nome di sé stesso e della ragion di Stato. Fu a quel punto che scattò l'azione politica e culturale di Bettino Craxi. La scelta di Craxi per la trattativa avvenne per ragioni insieme politiche e ideali. La ragione politica fu certamente quella di riconquistare una spazio politico per un Psi che era stato annullato dall'intesa ferrea fra Moro-Andreotti-Evangelisti-Berlinguer-Pecchioli-Di Giulio. Ma nell'iniziativa di Craxi c'era anche ben altro, c'era una visione garantista e la tutela del singolo individuo anche di fronte alla ragion di Stato. Infatti solo nei confronti di Moro lo Stato italiano rifiutò la trattativa. Sia prima che dopo l'Italia ha sempre trattato. Allora la Repubblica fu sul piano giornalistico la "punta di lancia" più efficace per la fermezza e contro la trattativa ma successivamente, alcuni anni dopo, quando un suo giornalista fu rapito anche la Repubblica sostenne la teoria (e la conseguente prassi) dello scambio. Craxi reagì a tutto ciò, recuperando tutto un filone garantista contro lo Stato etico. Non ci fu un mero calcolo politico, Craxi si impegnò in quella linea proprio come persona. Ricordo ancora un episodio: quando Craxi rese pubblica la posizione favorevole alla trattativa del Psi, Moro gli inviò una lettera che per alcune ore rimase segreta. Allora Craxi chiamò uno per uno gli esponenti del gruppo dirigente socialista e separatamente a ognuno di essi fece leggere quel testo. Fui chiamato anch'io: eravamo soli nella sua stanza, Craxi e il sottoscritto; Bettino mi passò la lettera senza una parola, io la lessi, e ci guardammo negli occhi. Allora Craxi mi disse «andiamo avanti, faremo di tutto per salvargli la vita, noi non siamo come i comunisti», si alzò in piedi, mi abbracciò e si commosse. Su suo mandato Landolfi e Signorile si misero in movimento negli ambienti contigui alle Br. Le Brigate rosse si spaccarono (Morucci e la Faranda ritennero che Moro vivo sarebbe stato dirompente per il sistema) ma i marxisti-leninisti Moretti e Gallinari andarono avanti nella loro linea omicida. L'ultimo Moro, quindi, come risulta dalle sue lettere, si ribellò perché si sentì abbandonato e tradito proprio dalle forze politiche e dai personaggi che aveva privilegiato nell'ultima fase della sua attività, cioè da Andreotti, dall'area di sinistra della Dc e dal Pci berlingueriano. Moro è un personaggio di grande spessore personale, culturale, politico e morale. A mio avviso la sua morte ha decerebralizzato la Dc e conseguentemente anche tutto il sistema politico della prima repubblica. A questo proposito basta un esempio finale. Quando tanti anni dopo esplose Tangentopoli, Bettino Craxi prese la parola alla Camera facendo i conti con le ragioni e le caratteristiche del finanziamento irregolare della politica affermando che Tangentopoli era un sistema che coinvolgeva tutto e tutti, imprese e partiti. La Dc di Andreotti, di De Mita, di Gava, dello stesso Forlani non disse una parola, ritenendo che isolando Craxi e consegnando i socialisti "ad bestias", cioè al circo mediatico-giudiziario, a sua volta essa si sarebbe salvata: un calcolo mediocre che segnò il suicidio della Dc. Ben altra fu anni prima, di fronte al caso Lockheed (che fu il primo dei molti tentativi posti in essere da un settore della magistratura e da una parte del Pci di distruggere i partiti moderati e riformisti) la risposta di Aldo Moro. Egli si alzò alla Camera e con grande determinazione disse «Non ci faremo processare nelle piazze». Ma fra Moro e Fanfani (appunto i due cavalli di razza) e gli epigoni c'era un abisso. Non a caso, appunto, nel '92-'94 la DC si lasciò massacrare senza combattere.
«Ma l'unica gioia che cerco è ritrovare la mia cara famiglia», scrive Lanfranco Caminiti il 21 settembre 2016 su "Il Dubbio". Le lettere di Aldo Moro a Giovanni Leone, Amintore Fanfani e Pietro Ingrao. Pietro Ingrao con Giovanni Leone e Giulio Andreotti durante la messa funebre per la morte di Aldo Moro il 13 maggio 1978.
"A Giovanni Leone, Presidente della Repubblica Italiana. Faccio vivo appello, con profonda deferenza, al tuo alto senso di umanità e di giustizia, affinché, d'accordo con il Governo, voglia rendere possibile una equa e umanitaria trattativa per scambio di prigionieri politici, la quale mi consenta di essere restituito alla famiglia, che ha grave e urgente bisogno di me. Le tante forme di solidarietà sperimentate, t'indirizzino per la strada giusta. Ti ringrazio profondamente e ti saluto con viva cordialità. Aldo Moro".
"A Amintore Fanfani, Onorevole Presidente del Senato, in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente della Camera, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata, con le adeguate garanzie, un'equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me. Lo spirito umanitario che anima il Parlamento ebbe già a manifestarsi in sede di Costituente, alla quale anche in questo campo ebbi a dare il mio contributo, e si è fatto visibile con l'abolizione della pena di morte ed in molteplici leggi ed iniziative. D'altra parte non sfuggono alle Assemblee né i problemi di sicurezza, che però possono essere adeguatamente risolti, né la complessità del problema politico per il quale non sarebbero sufficienti scelte semplici e riduttive. Al di là di questa problematica io affido a Lei, signor Presidente, con fiducia ed affetto la mia persona, nella speranza che tanti anni di stima, amicizia e collaborazione mi valgano un aiuto decisivo, che ricostituisca il Plenum del Parlamento e che mi dia l'unica gioia che cerco, il ricongiungimento con la mia amata famiglia. Con i più sinceri e vivi ringraziamenti, voglia gradire i miei più deferenti saluti. Suo Aldo Moro".
"A Pietro Ingrao. Onorevole Presidente della Camera, in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente del Senato, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata con le adeguate garanzie, un'equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me. Lo spirito umanitario che anima il Parlamento ebbe già a manifestarsi in sede di Costituente, alla quale anche in questo campo ebbi a dare il mio contributo, e si è fatto visibile con l'abolizione della pena di morte ed in molteplici leggi ed iniziative. D'altra parte non sfuggono alle Assemblee né i problemi di sicurezza, che possono però essere adeguatamente risolti, né la complessità del problema politico per il quale non sarebbero sufficienti scelte semplici e riduttive. Al di là di questa problematica io affido a Lei, Signor Presidente, con fiducia ed affetto la mia persona, nella speranza che tanti anni di stima, amicizia e collaborazione mi valgano un aiuto decisivo che ricostituisca il Plenum del Parlamento e che mi dia l'unica gioia che cerco, il ricongiungimento con la mia amata famiglia. Con i più sinceri e vivi ringraziamenti, voglia gradire i miei più deferenti saluti. Suo Aldo Moro".
Grandi manifestazioni sindacali per la ricorrenza del Primo Maggio, festa del lavoro. In tutti i comizi la vicenda Moro assume centralità. Zaccagnini incontra Craxi in mattinata e si riconvocano per l'indomani. Nel pomeriggio si reca a Botteghe Oscure per vedere Berlinguer, che alla fine dell'incontro, dice: «Non vedo perché la posizione della maggioranza e del governo dovrebbe venire modificata rispetto all'ultimatum delle Br». Infine, il segretario democristiano convoca la delegazione Dc nel suo studio, chiedendo anche la presenza di Andreotti. Intanto Berlinguer e Natta vanno da Andreotti, a cui dicono di temere iniziative destabilizzanti per il governo. Craxi, dopo aver visto Freato, tiene una riunione con gli avvocati del suo comitato di giuristi. Considerando impercorribile la richiesta brigatista del rilascio di tredici detenuti, crede che «riducendo il numero acquista importanza la qualità». Questa «qualità» la intravede in Paola Besuschio, detenuta brigatista che peraltro figura nell'elenco del comunicato n. 8 delle Br. Le sue condizioni di salute la configurano come «un caso veramente umanitario». Il 2 maggio, di mattina presto, Craxi vede Andreotti al quale espone le sue proposte, che si concentrano sulla liberazione della Besuschio. Teme sia la possibilità che Moro venga ucciso presto sia un'eventuale reazione di vendetta. Propone di evitare qualsiasi dibattito parlamentare e, più che mai, una votazione sulla trattativa. Considera necessario evitare un gran clamore sulla stampa. A Craxi, Andreotti obietta che la Besuschio ha altre condanne e chiede quale elemento di certezza vi sia in merito al fatto che graziando lei le Br rilascino Moro. Poi, Craxi incontra Berlinguer nel palazzo dove hanno sede i gruppi parlamentari. L'incontro è gelido, e si rileva dalle dichiarazioni alla stampa di entrambi i leader: «Ci siamo scambiati le nostre opinioni. Penso che ci incontreremo ancora. Quando? Non lo so», dice Berlinguer. Anche Craxi è molto secco: «Non desidero fare dichiarazioni. Dico soltanto che ci siamo scambiati delle opinioni». Berlinguer telefona ad Andreotti. Nel tardo pomeriggio, a piazza del Gesù, l'incontro tra la delegazione socialista e il vertice democristiano durerà fin quasi mezzanotte. Zaccagnini ha intanto consultato socialdemocratici e repubblicani; gli uni e gli altri hanno definito vaghe e approssimative le proposte socialiste. Craxi illustra quella che continua a definire «una ipotesi in via umanitaria», evitando ogni considerazione sulla trattativa. Ma la delegazione democristiana respinge ogni possibilità al riguardo. Il 3 maggio, a piazza Barberini, a Roma, Moretti, Balzerani e Seghetti si incontrano con Morucci e Faranda. È un incontro pericoloso dal punto di vista della clandestinità e delle regole di sicurezza, ma il dissenso dei due per un esito mortale del sequestro Moro è consistente. Oltre ai ragionamenti politici, spendono una riluttanza a eliminare un prigioniero, un argomento questo che non deve suonare del tutto estraneo a chi con Moro sta condividendo minimi gesti di vita quotidiana. Ma Moretti e gli altri sembrano determinati. Non solo l'esecutivo ha già deciso, ma tutte le colonne sono state interpellate e il responso è univoco: il Tribunale del Popolo ha stabilito una condanna. Il 4 maggio, l'Unità titola "Una via non praticabile" un articolo in cui si criticano duramente le iniziative socialiste, considerate dannose sotto il profilo giuridico e politico. Ogni ipotesi viene valutata e respinta. L'articolo conclude chiedendosi se così non «si finisca col recare grave nocumento sia alla causa del rigore costituzionale sia a quella stessa della vita di Moro». Nella stessa prima pagina, un fondo, I santuari, argomenta ancora la scelta della fermezza, ma soprattutto si chiede perché le indagini non compiano passi avanti e si fermino quando «sulla loro strada incontrano oscuri quanto protetti santuari forse ben più potenti dell'organizzazione terrorista». La Dc comunica che il 9 maggio si terrà la direzione del partito per convocare il Consiglio nazionale.
«Muoio, perché così ha deciso il mio partito», scrive Lanfranco Caminiti il 22 settembre 2016 su "Il Dubbio". La lettera disperata di Aldo Moro alla Democrazia Cristiana.
"Al Partito della Democrazia Cristiana. Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della DC sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. È vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte. E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons. Zama, all'avv. Veronese, a G. B. Scaglia ed altri, senza né conoscere, né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell'autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse. Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la DC, sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del Partito Socialista, riserva che è augurabile sia chiarita d'urgenza e positivamente, dato che non c'è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere una funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fallisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della DC che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la DC lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c'era l'esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non si intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla DC? È nella DC dove non si affrontano con coraggio i problemi. E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avvallata dalla DC, la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a morte. Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l'equivoca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Sono più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui idealmente al posto ch'egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al Presidente del Consiglio che tutto sarà fatto come egli desidera. E che dire dell'On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto (per così dire libero, comodo, a Piazza, ad esempio, del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l'On. Piccoli. Per parte mia ho detto e documentato che le cose che dico oggi le ho dette in passato in condizioni del tutto oggettive. È possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l'esito? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedono, come io la chiedo con piena lucidità di mente? Centinaia di parlamentari volevano votare contro il Governo. Ed ora nessuno si pone un problema di coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile. Se altre riunioni formali non le si vuol fare, ebbene io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il Consiglio Nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gli impedimenti del suo Presidente. Così stabilendo, delego a presiederlo l'On. Riccardo Misasi. È noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie, dei miei figli, dell'amatissimo nipotino, dell'altro che non vedrò. La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della DC a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la DC, né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità. Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l'adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto. ALDO MORO".
Monsignor Zama era vescovo di Sorrento; l'avvocato Veronese, amico di vecchia data di Moro, era stato alla guida delle Acli; il deputato democristiano Scaglia era stato nel 1968 ministro dell'Istruzione. Con altri, avevano sottoscritto e pubblicato una lettera in cui si affermava che «l'Aldo Moro che conosciamo non è presente nelle lettere a Zaccagnini». È a loro che fa riferimento Moro, nella sua lettera al partito, a proposito di chi ne mette in dubbio l'autenticità. È il 5 maggio. A Genova, Milano, Torino e Roma viene fatto ritrovare il comunicato n. 9 delle Br: «La battaglia iniziata il 16 marzo è arrivata alla sua conclusione». Il comunicato è durissimo. La Dc viene indicata come responsabile del rifiuto della loro proposta di scambio, mentre le iniziative dei socialisti vengono irrise come «fumo negli occhi». Il nocciolo vero è la questione della liberazione dei tredici detenuti. «Concludiamo quindi eseguendo la sentenza cui Aldo Moro è stato condannato». È a quel gerundio che si aggrappano le opinioni di politici, osservatori e giornalisti. Poco prima dell'arrivo del comunicato era finita la riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza, con una dichiarazione finale di non accettabilità delle proposte socialiste di atti di clemenza verso alcuni detenuti e di modifica di alcune norme vigenti nelle carceri speciali. La riunione, in realtà, oltre a fare il punto su indagini e iniziative, ha il senso della prima valutazione strategica sul dopo-Moro. Il governo ritiene ormai superata ogni possibilità «umanitaria» e, verificato il fronte maggioritario di convergenza con comunisti e repubblicani, si prepara a gestire l'emergenza. Immediate le riunioni dei partiti dopo l'arrivo del comunicato n. 9. A piazza del Gesù sui volti di Zaccagnini e degli altri leader si legge la sensazione dell'epilogo. È la stessa impressione che riporta Tatò, capo ufficio stampa e uomo di fiducia di Berlinguer, venuto qui da Botteghe Oscure, dove ritorna. Piccoli comunque dice che «il comunicato non ci appare completamente conclusivo». Questa sospensione, questa attesa emergono dalla nota che viene affidata al «Popolo», per essere pubblicata l'indomani: «Al di là del tono ultimativo, questo comunicato non permette una valutazione conclusiva per ciò che riguarda la vita di Aldo Moro». Claudio Vitalone, sostituto della procura generale della Repubblica di Roma, incontra a Palazzo di Giustizia Daniele Pifano, uno dei leader di via dei Volsci, collettivo dell'area di Autonomia operaia. Interpellato in merito alla vicenda Moro, Pifano insiste per l'urgenza di un intervento diretto del governo verso la liberazione di un detenuto e verso il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Non ha alcun elemento di certezza che l'iniziativa consenta automaticamente la liberazione di Moro, ma è convinto che possa rappresentare qualcosa che smuova l'inerzia ineluttabile degli eventi. È il 6 maggio. Eleonora Moro telefona a Fanfani. Ha già sentito il presidente Leone che le ha garantito di stare «con la penna in mano» pronto a firmare un provvedimento di grazia, purché il governo, tramite il ministro di Grazia e Giustizia, gliene faccia richiesta. Tutto sembra avviarsi a conclusione. Ormai pare esaurita la possibilità di muoversi all'interno delle contraddizioni democristiane. Resta Fanfani. Il presidente del Senato si reca a via del Forte Trionfale e assicura alla signora Moro che avrebbe preso delle iniziative. Craxi non si rimprovera nulla. In un certo senso, l'attacco di cui è fatto oggetto nell'ultimo comunicato Br rilegittima i suoi tentativi in termini istituzionali. Non crede e con lui buona parte del partito che si sia arrivati all'epilogo. Incontra Lanfranco Pace, ex leader di Potere Operaio, per un ultimo tentativo. Questa volta ha bisogno di sapere con certezza che Moro sia vivo e che un suo messaggio giunga a destinazione. A Lanfranco Pace affida la frase «misura per misura»: se la si leggerà in una prossima comunicazione delle Br o in un biglietto autografo di Moro, ci sarà ancora spazio per la trattativa. Pace non può dare alcuna garanzia in merito, ma cercherà di riuscirci. Il socialista Giuliano Vassalli, intanto, con la collaborazione di alcuni funzionari del ministero di Grazia e Giustizia, ha fatto disporre il trasferimento in ospedale di Alberto Buonoconto, uno dei detenuti su cui si è appuntata la valutazione di un'alternativa alla liberazione dei tredici detenuti richiesti dalle Br. Buonoconto, militante dei Nap, è affetto da gravi problemi motori e depressivi. Fanfani è impegnato in provincia di Arezzo per la campagna elettorale. In un suo comizio dirà che «apprezza lo spirito umanitario del recente atteggiamento del Psi». Si inerpica anche su alcune considerazioni rispetto al quadro politico della maggioranza e alla necessità di distinguere un'opposizione. È certo un segnale debolissimo. Ma per gli esperti di linguaggio democristiano, Fanfani si prepara a dar battaglia.
«Lascio in modo irrevocabile la Dc», scrive Lanfranco Caminiti il 23 settembre 2016 su "Il Dubbio". La lettera di Aldo Moro a Benigno Zaccagnini. "Caro Zaccagnini, ecco, sono qui per comunicarti la decisione cui sono pervenuto nel corso di questa lunga e drammatica esperienza ed è di lasciare in modo irrevocabile la Democrazia Cristiana. Sono conseguentemente dimissionario dalle cariche di membro e presidente del Consiglio Nazionale e di componente la Direzione Centrale del Partito. Escludo ovviamente candidature di qualsiasi genere nel futuro. Sono deciso a chiedere al Presidente della Camera, appena potrò, di trasferirmi dal Gruppo Parlamentare della D. C. al Gruppo Misto. È naturale che aggiunga qualche parola di spiegazione. Anzi le parole dovrebbero essere molte, data la complessità della materia, ma io mi sforzerò di ridurle al minimo, cominciando, com'è ovvio, dalle più semplici. Non avendo mai pensato, anche per la feroce avversione di tutti i miei familiari, alla Presidenza della Repubblica, avevo immaginato all'inizio di legislatura di completare quella in corso come un vecchio al quale qualche volta si chiedono dei consigli e con il quale si ama fare un commento sulle cose, che l'età ed il personale disinteresse rendono, forse, obiettivo. Come più volte ti ho detto, fosti tu a deviare questo corso delle cose, mentre furono ancora tuoi amici che fecero riserve, sempre nell'illusione che io dovessi dare ancora qualche cosa al Partito, non appena si accennò ad una presidenza di Assemblea, per concludere in tal modo la mia attività politica. Così mi sono trovato in un posto difficile e ambiguo, che dava all'esterno la sensazione di un predominio (inesistente) della D. C. ed all'interno creava imbarazzi, gelosie, equivoci, timori. Essendoci lasciati in ottima intesa la sera del martedì, già pochi giorni dopo, qui dove sono, avevo la sensazione di avervi in qualche modo liberato e che io costituissi un peso per voi non per il fatto di non esserci, ma piuttosto per il fatto di esserci. E questo per ragioni obiettive, perché non c'è posto, accanto al Segretario Politico eletto dal Congresso, per un Presidente del Partito che abbia rispetto di sé e delle cose. E se il vostro profondo pensiero coincideva con quello che io avevo fatto valere, perché non accontentarci tutti in una volta? Aggiungerò poi (e questo va al di là della Presidenza del Consiglio Nazionale di cui abbiamo parlato sin qui) che io non ho compreso e non ho approvato la vostra dura decisione, di non dar luogo a nessuna trattativa umanitaria, anche limitata, nella situazione che si era venuta a creare. L'ho detto cento volte e lo dirò ancora, perché non scrivo sotto dettatura delle Brigate Rosse, che, anche se la lotta è estremamente dura, non vengono meno mai, specie per un cristiano, quelle ragioni di rispetto delle vittime innocenti ed anche, in alcuni casi, di antiche sofferenze, le quali, opportunamente bilanciate e con il presidio di garanzie appropriate, possono condurre appunto a soluzioni umane. Voi invece siete stati non umani, ma ferrei, non attenti e prudenti, ma ciechi. Con l'idea di far valere una durissima legge, dalla quale vi illudete di ottenere il miracoloso riassetto del Paese, ne avete decisa fulmineamente l'applicazione, non ne avete pesato i pro e i contro, l'avete tenuta ferma contro ogni ragionevole obiezione, vi siete differenziati, voi cristiani, dalla maggior parte dei paesi del mondo, vi siete probabilmente illusi che l'impresa sia più facile, meno politica, di quanto voi immaginate, con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona, e la mia famiglia, con l'assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia che è la nostra legge, irregimentando in modo osceno la D. C., per farla incapace di dissenso, avete rotto con la tradizione più alta della quale potessimo andar fieri. In una parola, l'ordine brutale partito chissà da chi, ma eseguito con stupefacente uniformità dai Gruppi della D. C., ha rotto la solidarietà tra noi. In questa (cosa grossa, ricca di implicazioni) io non posso assolutamente riconoscermi, rifiuto questo costume, questa disciplina, ne pavento le conseguenze e concludo, semplicemente, che non sono più democratico cristiano. Essendo scontata in ogni caso dal momento del mio rapimento (e della vostra mistica inerzia) il mio abbandono della Direzione e del Consiglio Nazionale, restava, se il vostro comportamento fosse stato diverso e più costruttivo, la possibilità della mia permanenza senza alcun incarico nella famiglia democratica cristiana e che è stata mia per trentatré anni. Oggi questo è impossibile, perché mi avete messo in una condizione impossibile. E perciò il mio ritiro da semplice socio della D. C. è altrettanto serio, rigido ed irrevocabile quanto lo è il mio abbandono dalle cariche nelle quali avevamo creduto di poter lavorare insieme. Tutto questo è finito, è assolutamente finito. Ed ora che posso parlare, senza che nessuno pensi ad una pretesa di successione, a parte il mio durissimo giudizio sul Presidente del Consiglio e su tutti coloro che hanno gestito in modo assolutamente irresponsabile questa crisi, c'è, per dovere di sincerità ed antica appannata amicizia, la valutazione su di te, come, per così dire, il più fragile Segretario che abbia avuto la D. C., incapace di guidare con senso di responsabilità il partito e di farsi indietro quando si diventa consapevoli, al di là della propaganda, di questa incapacità. Guidare e non essere guidato è il compito del Segretario del più grande partito italiano. Giunti a questo punto, i motivi di dissenso, che non ci faranno incontrare più, sono evidentemente molti. Tu non penserai che possa trattarsi solo del modo chiuso e retrivo che ha caratterizzato il vostro comportamento in questa vicenda, nella quale vi sembrerà di avere conseguito chissà quale straordinario successo. Questa è una spia, la punta dell'iceberg, ma il resto è sotto. Ho riflettuto molto in queste settimane. Si riflette guardando facce nuove. La verità è che parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente. La verità è che ci illudiamo di essere originali e creativi e non lo siamo. La verità è che pensiamo di fare evolvere la situazione con nuove alleanze, ma siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di fare, nell'illusione che, cambiati gli altri, l'insieme cambi e cambi anche il Paese, come esso certamente chiede di cambiare. Ebbene, caro Segretario, non è così. Perché qualche cosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi. E, a parte il fatto che davvero altri (socialisti ieri, comunisti oggi) siano in grado di realizzare una svolta in accordo con noi il che possiamo augurarci e sperare la D. C. è ancora una così gran parte del Paese, che nulla può cambiare, se anch'essa non cambia. E per cambiare non intendo la moralizzazione, l'apertura del Partito, nuovi e più aperti indirizzi politici. Si tratta di capire ciò che agita nel profondo la nostra società, la rende inquieta, indocile, irrazionale, apparentemente indominabile. Una società che non accetti di adattarsi a strategie altrui, ma ne voglia una propria in un limpido disegno di giustizia, di eguaglianza, di indipendenza, di autentico servizio dell'uomo. Ecco tutto. Benché sia pessimista, io mi auguro che facciate più di quanto osi sperare. Non era questa la conclusione cui avevo pensato né l'addio immaginato per te ed i colleghi. Ma le cose sono così poco nelle nostre mani, specie se esse sono troppo deboli o troppo forti. Che Iddio ti aiuti ed aiuti il Paese. Cordialmente. ALDO MORO". Il 7 maggio, Joseph Califano, uno dei più stretti collaboratori del presidente americano Carter, incontra Andreotti manifestandogli «l'ammirazione del governo degli Stati Uniti per l'atteggiamento di fermezza sulla questione Moro». Zaccagnini, reduce da due comizi a Novara e Pavia, ritorna a Roma. Durante i suoi interventi il segretario democristiano è parso attraversato da commozione autentica. Ha spiegato: «Noi della Dc abbiamo dato una testimonianza sofferta tra il sentimento che ci spingerebbe a compiere certi atti e il senso dello Stato». La delegazione Dc, pur impegnata nella campagna elettorale, ha deciso di non lasciare sguarnita la sede centrale. Tutti i leader vi rientrano. Anche Berlinguer tiene un comizio, a Viterbo. La lotta all'estremismo e l'impegno a mantenere salda questa maggioranza sono i temi centrali della sua argomentazione. Fortemente polemico contro ogni ipotesi di trattativa con la «banda di assassini delle Br», Berlinguer motiva la sua intransigenza: «Ogni patteggiamento significherebbe un'offesa ai caduti delle forze dell'ordine, alle altre vittime, alle loro famiglie ogni cedimento renderebbe impossibile chiedere alle forze dell'ordine di continuare a compiere il loro dovere». Il segretario comunista ha rivendicato al suo partito di aver guidato il fronte della fermezza. Craxi rilascia una dichiarazione: «I socialisti non possono associarsi al trionfalismo dei salvatori della Repubblica. La morte di Moro sarebbe una sconfitta». Il procuratore di Roma, Pascalino, rilascia una dichiarazione in cui sostiene che «anche a chi non fa parte delle Br, ma ne condivide l'ideologia, ad esempio l'attentato alle istituzioni democratiche, possono essere contestati i reati di cospirazione politica e di banda armata». Si tratta, a suo avviso, di colpire l'area di consenso all'eversione. L'8 maggio, i legali di Alberto Buonoconto, detenuto dei Nap con gravi problemi di salute, presentano richiesta di libertà provvisoria per il loro assistito. Qualcuno dal ministero di Grazia e Giustizia sollecita il presidente della corte di Appello di Napoli a prendere rapidamente in esame la questione. Di questa iniziativa, riconducibile alle pressioni della famiglia Moro sui socialisti, sul ministro della Giustizia, sul presidente Leone, e finora quasi sottaciuta, vengono presto a conoscenza Zaccagnini, Cossiga e Andreotti. Per loro si tratta ora di capire quali intenzioni reali abbia Fanfani, da sempre decisamente contrario alla maggioranza attuale. Il presidente del Senato si è ormai deciso a utilizzare l'incontro dell'indomani a piazza del Gesù per esprimere compiutamente il suo punto di vista. Facendo leva su una critica di inefficienza al ministro degli Interni, circoscriverà la sua proposta: provvedimento di grazia firmato da Leone. In serata, Craxi e Fanfani si incontrano. Un asse politico sulla trattativa sembra adesso delinearsi e prendere consistenza. Giovanni Spadolini, per i repubblicani, scrive un articolo di critica contro la decisione del governo di far ispezionare le carceri di massima sicurezza ad Amnesty International. È contrario anche alla convocazione del Consiglio nazionale della Dc («richiesta contenuta in una delle lettere attribuite all'on. Moro»). Aldo Moro esprime ai brigatisti che lo detengono il desiderio che la moglie sia la prima a essere informata della sua morte, da loro e non da altri. Una Renault 4 rossa, rubata giorni addietro, viene portata nel box del garage di via Montalcini, l'appartamento che è stata la prigione di Moro per tutti i giorni del sequestro.
L'addio alla dolcissima Noretta. Poi nove colpi al cuore, scrive Lanfranco Caminiti il 24 settembre 2016 su "Il Dubbio". "A Eleonora Moro. Tutto sia calmo. Le sole reazioni polemiche contro la Dc. Luca no al funerale. Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell'incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l'indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D. C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detta con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. È poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall'idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c'è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca), Anna, Mario, il piccolo non nato, Agnes, e Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo..."
"A Eleonora Moro. Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l'ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti. ALDO".
È il 9 maggio 1978. Sui quotidiani l'attenzione è tutta rivolta alla riunione della direzione democristiana, prevista in mattinata, e, in particolare, a quello che si presume possa dire Fanfani. «I riflettori sono puntati su piazza del Gesù» scrive il «Corriere della Sera». I legali di Alberto Buonoconto, detenuto dei Nap con gravi problemi di salute, hanno presentato richiesta di libertà provvisoria per il loro assistito. Qualcuno dal ministero di Grazia e Giustizia ha sollecitato il presidente della corte di Appello di Napoli a prendere rapidamente in esame la questione. Di questa iniziativa, riconducibile alle pressioni della famiglia Moro sui socialisti, sul ministro della Giustizia, sul presidente Leone, e finora quasi sottaciuta, vengono presto a conoscenza Zaccagnini, Cossiga e Andreotti. Per loro si tratta ora di capire quali intenzioni reali abbia Fanfani, da sempre decisamente contrario alla maggioranza attuale. Fanfani, per parte sua, si è schierato più apertamente «nel rispetto della Costituzione e delle leggi in difesa della vita e della libertà di Aldo Moro». Il presidente del Senato si è ormai deciso a utilizzare l'incontro di oggi a piazza del Gesù per esprimere compiutamente il suo punto di vista. Facendo leva su una critica di inefficienza al ministro degli Interni, circoscriverà la sua proposta: provvedimento di grazia firmato da Leone. Ieri, in serata, Craxi e Fanfani si sono incontrati. Un asse politico sulla trattativa sembra adesso delinearsi e prendere consistenza. Ma la situazione sembra comunque blindata. Zaccagnini è tornato dal giro elettorale più convinto che mai di avere scelto la strada giusta. Piccoli è al suo fianco. Galloni nega ogni possibilità di trattativa. Granelli e Cossiga ripetono che sarà fatto tutto il possibile per salvare Moro, ma «senza aprire la via a cedimenti». Anche «la Repubblica» titola su Fanfani e si interroga «sui riflessi che probabilmente ci saranno nella direzione democristiana». Tuttavia, continua il quotidiano di Scalfari, «non pare che la sortita fanfaniana possa modificare gli equilibri attuali». «l'Unità» riporta tutte le dichiarazioni di esponenti democristiani che si addensano attorno la frase «la posizione della Dc rimane precisa e continua». Il quotidiano comunista dà risalto alle parole di Manca, esponente socialista, critico verso la segreteria di Craxi, e a quelle di La Malfa che ribadiscono l'esigenza di fermezza. I brigatisti Moretti e Gallinari riconsegnano a Moro i suoi vestiti e i suoi oggetti personali. Il presidente democristiano ha indossato finora una tuta da ginnastica. Nell'appartamento di via Montalcini sono presenti anche la Braghetti, che ha preparato i pasti del prigioniero, e Maccari, che figurava come proprietario. Durante i lunghi giorni del sequestro, Moro è dimagrito. Gli viene detto di prepararsi perché bisogna andare. Scendono nel box del garage. È buio. Qualcuno di loro controlla le scale perché non arrivi nessuno all'improvviso. Moro viene fatto sdraiare nel bagagliaio posteriore della Renault4 rossa. Si rannicchia, lo spazio è angusto. Si sparano nove colpi ravvicinati al cuore. La sentenza è stata eseguita. L'automobile inizia il suo percorso verso via Caetani. Morucci è alla stazione Termini. La piazza è gremita, come sempre. È mezzogiorno. Tocca a lui telefonare per avvisare la famiglia su dove ritrovare il corpo. Moro aveva espresso il desiderio che la moglie fosse la prima a essere informata della sua morte. Morucci chiama uno dei contatti che ha già utilizzato per recapitare le lettere. È un assistente universitario di Moro. «Pronto? È il professor Franco Tritto?». «Chi parla?». «Brigate rosse».
Leone mi raccontò perché non riuscì a salvare Moro, scrive Francesco Damato il 24 settembre 2016 su "Il Dubbio". Molto si è scritto e si è detto, o si è più semplicemente insinuato, su cosa consistesse quello spiraglio avvertito da Aldo Moro negli ultimi giorni di vita, nel covo brigatista in cui era rinchiuso, scrivendo alla moglie per rivelarle che tutto si era improvvisamente chiuso. Come in effetti si chiuse perché il 9 maggio del 1978, di prima mattina, egli fu ucciso dai suoi aguzzini nel bagagliaio di un'auto poi parcheggiata in via Caetani, a poca distanza dalle sedi nazionali del Pci e della Dc, ma soprattutto della Dc. La cui direzione nazionale era stata convocata proprio per quella mattina per una discussione importante. Alla quale il presidente del Senato Amintore Fanfani si era impegnato con Bettino Craxi, in un incontro organizzato nell'abitazione di Ettore Bernabei, a pronunciare un discorso che fornisse una copertura politica all'allora capo dello Stato Giovanni Leone. Che era pronto a concedere la grazia a Paola Besuschio, compresa fra i tredici "prigionieri", cioè detenuti per reati di terrorismo, con cui le brigate rosse avevano chiesto di scambiare il loro ostaggio. Mi convinsi che fosse proprio la grazia alla Besuschio quello spiraglio avvertito da Moro quando nel 1998, intervistando per Il Foglio proprio Leone in occasione del ventesimo anniversario del sequestro dello statista democristiano, mi sentii raccontare la storia di quell'atto di clemenza e ne raccolsi gli atroci dubbi rimastigli nel cuore, oltre che nella mente, per la gestione di quel maledetto affare. Dubbi mai manifestati prima perché poche settimane dopo la morte di Moro il povero Leone fu costretto dai due maggiori partiti a dimettersi con ragioni o pretesti vari ch'egli avvertì, forse non a torto, come intimidazioni. Sarebbero arrivate solo molti anni dopo le scuse dei radicali per la campagna scandalistica contro Leone alimentata da un libro di Camilla Cederna, poi condannata in tribunale, e cavalcata dal pur garantista partito di Marco Pannella. Molti anni dopo sarebbe arrivata anche la riabilitazione di Leone, per fortuna quando lui era ancora vivo, da parte dei comunisti. Che nel 1978, convincendo anche la Dc, avevano reclamato la fine anticipata, sia pure di soli sei mesi, del mandato del presidente della Repubblica come "segnale" di svolta morale nel Paese dopo un referendum abrogativo del finanziamento pubblico in cui i partiti avevano rasentato la sconfitta cominciando a sentirsi poco popolari. Le umane resistenze di Leone a quella defenestrazione, comunicatagli dal comunista ed amico Gerardo Chiaromonte con "la morte nel cuore", erano state inutili. Si era addirittura arrivati al rifiuto dell'Ansa, su imput del governo, di pubblicare una circostanziata autodifesa del presidente dalle accuse infamanti che gli erano state rivolte in una campagna di stampa che non si era arrestata, forse non a caso, come vedremo, durante i 55 terribili giorni del sequestro di Moro.
L'ottimo Lanfranco Caminiti ha già ricordato, commentando le lettere scritte da Moro ai presidenti della Repubblica e delle Camere, passaggi importanti dell'affare Besuschio, che mi hanno fatto tornare alla mente quel giorno in cui, dietro appuntamento, andai a trovare Leone nella sua casa alle Rughe. Lo trovai alle prese con un grosso fascicolo, nel quale aveva messo le pagine del suo diario, o qualcosa di simile, riguardanti proprio i giorni del sequestro di Moro. Ci sentiva poco, il povero Leone, e la nostra conversazione fu aiutata più volte dalla moglie Vittoria, che alla fine dell'incontro, accompagnandomi all'uscita, mi chiese la disponibilità ad aiutare i figli a mettere in ordine le carte del marito. Io ebbi il torto, che non mi sono mai perdonato, di far cadere l'offerta. Quelle carte sono comunque finite e conservate, spero integre rispetto all'impressione che ne ebbi quel giorno, negli archivi del Senato. Comunque gran parte del racconto dell'affare Besuschio fattomi da Leone comparve nell'intervista al Foglio, della quale - una volta pubblicata - egli volle gentilmente ringraziarmi definendola "formidabile". E che risulta fra i documenti sui quali ha lavorato e lavora tuttora l'ultima commissione parlamentare d'inchiesta, in ordine di tempo, sulla vicenda Moro. Commissione presieduta dall'ex ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni. Se ne trova traccia anche nella relazione sul primo anno di lavoro dei commissari. Leone cominciò rivelandomi che già poche ore dopo il sequestro di Moro, viste le note di agenzia e i comunicati che anticipavano la cosiddetta linea della fermezza concordata fra la Dc e il Pci, e fatta propria dal governo, egli convocò al Quirinale il segretario democristiano Benigno Zaccagnini. Col quale non si parlava dal giorno della propria elezione a presidente della Repubblica, alla fine del 1971, quando lo stesso Zaccagnini, non ancora alla guida del partito, si era pubblicamente doluto del concorso determinante dei missini alla sua ascesa al Quirinale, credendo alla loro versione piuttosto che alle smentite opposte dal capo dello Stato in una lettera al direttore del quotidiano ufficiale dello scudo crociato. Leone disse francamente a Zaccagnini di non condividere la linea della fermezza, convinto che la difesa della vita di Moro dovesse prevalere su tutto. L'ospite ne prese atto ma non cambiò idea. Da allora curiosamente Leone si sentì isolato. Ogni tanto gli telefonavano il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il ministro dell'Interno Francesco Cossiga per assicurargli che si stesse facendo tutto il possibile per liberare Moro. I servizi segreti smisero di mandargli le segnalazioni quotidiane, e naturalmente riservatissime, inoltrate al governo. Dopo il comunicato col quale le brigate rosse avevano reclamato lo scambio di Moro con 13 detenuti per reati di terrorismo, Leone fu contattato dall'amico avvocato Giuliano Vassalli, socialista, e dal consigliere di Stato Giuseppe Manzari, amico e già capo di Gabinetto di Moro alla Presidenza del Consiglio dal 1963 al 1968. Con loro e con l'allora ministro della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, già giudice e presidente della Corte Costituzionale, Leone spulciò una per una le posizioni dei 13 detenuti indicati dalle brigate rosse. Le spulciò con la perizia di avvocato e di giurista, ai cui testi generazioni di studenti hanno attinto nei loro corsi di laurea. L'attenzione alla fine si fermò sulla Besuschio, condannata in via definitiva per reati di terrorismo ma non di sangue e ammalata. Era l'unica, secondo lui, nelle condizioni giuridiche e umane di essere graziata con un provvedimento utile anche a cercare di smuovere i terroristi dalla loro intransigenza con quell'elenco così lungo e provocatorio per lo scambio. E si decise di avviare le procedure.
Chiesi a quel punto a Leone - sapendo anche di una testimonianza resa da Bonifacio alla prima commissione parlamentare d'inchiesta sulla vicenda Moro in cui aveva escluso che fosse stato predisposto un provvedimento di grazia per la Besuschio - se davvero il ministro della Giustizia fosse d'accordo, vista la posizione di Andreotti e del governo contro ogni cedimento alla linea della fermezza. Lui mi zittì dicendomi, testualmente: "Bonifacio era stato un mio allievo. Mi era devoto. Faceva quello che io gli dicevo". Il tono fu così perentorio, accompagnato da gesti inconfondibili, che non osai ribattere. E gli lasciai continuare il racconto. La prima cosa da fare, secondo la disciplina allora esistente in materia di grazia, era rintracciare la Besuschio e farle chiedere l'atto di clemenza. Sembrerà curioso o impossibile, ma per un paio di giorni Leone non riuscì a sapere dove la detenuta fosse rinchiusa. Alla fine se ne conobbe la condizione di ricoverata in un ospedale, dove fu mandato un ufficiale in borghese dei Carabinieri per proporle di firmare la domanda di grazia. Ma, o perché convinta di suo o perché raggiunta precedentemente da ordini superiori dei suoi compagni di lotta, la donna rifiutò. Mi risulta da Internet che, nata a Verona 67 anni fa, la signora sia ancora viva. Basterebbe forse rintracciarla e cercare di farla parlare per saperne di più, e meglio. In mancanza di una domanda di grazia Bonifacio ritenne che non si potesse andare oltre. Ma Leone lo sorprese dicendo di essere pronto ad innovare procedura e prassi per concedere la grazia lo stesso, di sua iniziativa. Pertanto dispose di procedere chiedendo soltanto di avere un minimo di copertura politica. Il segretario socialista Bettino Craxi, contattato da Vassalli, garantì subito e volentieri la sua disponibilità, avendo pubblicamente contestato la linea della fermezza, almeno per come era stata gestita sino ad allora. E fu lo stesso Craxi, falliti gli altri tentativi riferiti da Caminiti ai lettori del Dubbio, a contattare l'allora presidente del Senato Fanfani per avere un aiuto, che gli fu promesso nell'incontro già ricordato nell'abitazione di Ettore Bernabei. Tutto era quindi pronto quel 9 maggio, giorno della riunione della direzione democristiana, per chiudere la vicenda: Leone pronto a firmare, Fanfani pronto a sostenerne l'iniziativa presa autonomamente. Ma i terroristi, con una "tempestività" che angosciò Leone fino alla morte, precedettero tutti ammazzando Moro. E risparmiandosi l'incomodo, diciamo così, di ridiscutere l'epilogo del sequestro di fronte al fatto nuovo che sarebbe stato il provvedimento di grazia alla loro compagna di lotta. Fu una tempestività casuale o di che altro tipo? E di che origine? Carceraria, politica, burocratica? Sono le domande che il povero Leone si è portato anche nella tomba e che lasciano insoluto forse il più decisivo dei tanti misteri del caso Moro. E' improbabile che gli autori superstiti del sequestro, di cui è stata lamentata più volte, e giustamente, nonostante i tanti libri, le tante deposizioni, le tante interviste rilasciate, una ostinata reticenza su tanti passaggi e aspetti della loro infausta avventura, troveranno la voglia e il modo di dare finalmente qualche credibile risposta.
Cossiga: non potevo trattare. Così ho concorso ad ammazzare Moro, scrive il 10/03/2008 Roberto Arditti su "Il Tempo". L'INTERVISTA.
Presidente Cossiga del rapimento e uccisione di Aldo Moro abbiamo una versione definitiva e veritiera o c'è ancora molto da scoprire?
«Facciamo un discorso un po' scientifico: esiste la Storia ed esiste la fantasia. Quando la Storia non combacia con le proprie scelte ideologiche si esercita la fantasia e si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia. Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse e le Brigate Rosse sono un fatto tutto italiano e, come dice giustamente quella gran signora di Rossana Rossanda, un fatto tutto interno alla sinistra italiana e alla storia della Resistenza. Prima di fare il colpo, con quella potenza geometrica di fuoco, i brigatisti si addestrarono. Probabilmente le armi che avevano erano state fornite dall'Olp».
Qual è il suo ricordo di quella mattina?
«Io abitavo allora a via Cadlolo, quasi di fronte all'Hotel Hilton, e uscivo molto presto la mattina. Mi fermavo a un'edicola a guardare le riviste che non mi compravano, che erano quelle di elettronica. Lì mi raggiunse il caposcorta, che mi disse che mi cercava il capo della polizia. Io andai alla macchina e il capo della polizia mi disse: "hanno annientato la scorta di Moro. Lui non si sa. Forse l'hanno ucciso, forse l'hanno ferito, forse è al Policlinico Gemelli, forse è morto". Io feci avviare la sirena e andai alla Presidenza del Consiglio. Era il giorno in cui il governo si doveva presentare alle Camere, con Enrico Berlinguer che voleva informare Andreotti che non avrebbe più votato il suo governo perché aveva messo degli uomini che rappresentavano per lui simboli negativi. Erano nomi che Moro aveva imposto, uomini della destra e del centro-destra della Dc».
Istituzioni e sistema politico sembrarono del tutto impreparati ad una notizia del genere. O no?
«Anzitutto erano stati demoliti i servizi di informazione e di sicurezza con due grandi operazioni di disinformazione del Kgb. Operazioni che avevano come obiettivo quello di scompaginare i servizi segreti e quella forza di polizia che loro consideravano più pericolosa, e cioè i Carabinieri. La prima è il Piano Solo. I giornalisti che fecero la campagna non lo sapevano, ma il boccone avvelenato, per varie tappe, partì dal Kgb. La seconda è la P2. Poi vi fu un terzo tentativo di disinformazione, pensato contro Berlinguer. Fu quello della compravendita dei terreni di famiglia, ma fallì. Allora io dissi: "Mio Dio, se anche il Kgb sbaglia siamo fregati"».
Quale fu a suo giudizio il legame tra Br e Mosca?
«Alcuni parlano delle Br strumentalizzate dall'Unione Sovietica che non voleva il compromesso storico. Non è vero. L'Unione Sovietica voleva il compromesso storico, perché era comunque un modo di attenuare alcuni aspetti della nostra politica atlantica. Enrico Berlinguer, dice a Pansa, alla vigilia del '76:"se andremo al potere manterremo la nostra appartenenza alla Nato, perché tra l'altro la Nato è un ombrello che garantisce anche la nostra indipendenza". Il marxista-leninista Enrico Berlinguer, non stalinista, mai avrebbe reso una simile intervista se Mosca non gli avesse detto: "falla pure, pensa a vincere e basta". Poi, Aldo Moro è uno dei fondatori di Gladio…»
Quindi?
«Aldo Moro era un uomo abile, ma Stay Behind è stata fondata per volontà di Moro, di Taviani, di Martino e con l'aiuto tecnologico di Enrico Mattei. Comunque, io ho preso un pugno in faccia in vita mia alla Camera».
Da chi?
«Da Pajetta».
Quando?
«Quando Moro fece il discorso in difesa dell'intervento americano nel Vietnam».
Aldo Moro era quindi un uomo politico italiano e occidentale senza se e senza ma?
«Senza se e senza ma. Capiva, però, che in questo Paese non si sarebbe potuto governare a lungo senza trovare un accordo con i comunisti. L'accordo che De Gasperi aveva già trovato. De Gasperi non aveva già stretto un accordo con Togliatti? E la Costituzione italiana cos'è? Un patto tra le due forze».
Nel circuito dei grandi protagonisti politico-istituzionali della vita italiana del dopoguerra, il posto di Aldo Moro qual è?
«Gli uomini di Stato italiani sono stati Cavour, che non parlava l'italiano bene, pensava in inglese e scriveva in francese. Il secondo è stato Giolitti, che ha fatto l'Italia moderna. Poi Mussolini, anche se io sono stato educato a casa mia a pane, latte, antifascismo e repubblicanesimo. E poi De Gasperi. Sarebbe stato Togliatti un grande uomo di Stato. Il più grande uomo di governo dopo Giolitti e Mussolini fu Andreotti; il più grande leader politico Aldo Moro».
Ma per liberare Aldo Moro fu fatto, dal punto di vista delle indagini, tutto il possibile?
«Tutto il possibile, ma eravamo troppo deboli. Una mia frase tratta da un'intervista rilasciata al suo collega Aldo Cazzullo è stata equivocata. Non è vero che il capo del commando mi ha detto che mille persone conoscevano il nascondiglio di Aldo Moro. Lui mi disse che più di mille persone, anche sindacalisti del Pci, ci avrebbero potuto indicare nomi, cognomi e abitazioni dei brigatisti rossi. Il Partito Comunista è diventato un partito di Stato, io ho collaborato con esso, chiamo Massimo D'Alema "Il meglio figo del bigoncio". Ma, anche per come noi li abbiamo trattati nei primi vent'anni, l'antipatia per i Servizi e per le forze di polizia gli è rimasta. Hanno cancellato Ugo Pecchioli. Per revocarlo hanno chiamato me. Hanno cancellato Rossa, come è raccontato nel libro della figlia. Perché, in fondo, per un vero militante comunista, un compagno, anche se sbaglia come i brigatisti, come diceva Rossana Rossanda, non si tradisce».
Se guardiamo invece ai 55 giorni dal punto di vista politico e della gestione che i vertici istituzionali fecero nel caso, qui è evidente che la vicenda si complica, cioè liberare Moro significava accettare le condizioni proposte dalle Brigate Rosse…
«La condizione era una sola: non la liberazione dei prigionieri, né tantomeno come credeva ingenuamente il Vaticano il denaro. Era il riconoscimento politico in modo da aggirare il Partito comunista imborghesito di Berliguer».
C'era qualcuno favorevole a questo riconoscimento?
«Si nascondevano sotto lo scambio dei prigionieri nelle trattative. E poi c'era chi voleva far saltare Andreotti».
Ma nei 55 giorni, a suo giudizio, si arrivò vicini a liberare Moro?
«No. Il loro leader mi disse che avevamo sbagliato tutto, che avremmo dovuto usare i vigili urbani, non le forze speciali. Però loro si accorsero che noi stavamo per arrivare perchè alla fine su mia iniziativa dividemmo la città di Roma in tanti quadratini».
Questo a suo giudizio indusse le Brigate Rosse ad accelerare la conclusione del processo e ad uccidere Moro?
«Sì».
Guardiamo alla vicenda nella sua gestione politico e istituzionale. Poteva andare diversamente?
«Quando io andai a trovare questi signori in carcere, gli chiesi come mai non avevano capito che loro avevano vinto. E gli dissi che non avrebbero vinto ma stravinto, se avessero fatto il processo a Moro, lo avessero condannato a morte, e dopo che Paolo VI ne aveva chiesto la liberazione, loro avessero detto: "In omaggio a Paolo VI che ci ha riconosciuto, lo liberiamo"».
E loro perché non lo liberarono?
«Perché a mio avviso loro avevano il mito della esemplarità: siamo creduti soltanto se siamo feroci, cioè il processo rivoluzionario, le purghe, la confessione».
Perché secondo lei allora è così viva ancora la tesi: "Moro doveva morire"?
«Lei sa che per alcuni gli assassini di Aldo Moro si chiamano, Paolo VI, Giulio Andreotti, Benigno Zaccagnini e Francesco Cossiga. Comunque fino a quando lo dice la moglie e i figli capisco, sempre sono stati privati di un marito di un genitore. Ma anche per una parte della sinistra Dc, non quella di base però, non è possibile che Moro sia stato ucciso da sinistra. Moro deve essere stato ucciso da destra e dall'imperialismo americano».
Lei porta ancora i segni della sofferenza di quei giorni...
«Quando io dico che ho concorso ad ammazzarlo è vero, anche se non sono un assassino. A differenza di altri io sapevo benissimo che la linea della fermezza, salvo un miracolo, avrebbe portato alla sua morte».
Lo pensava anche Andreotti?
«Sì. Ma che sperava più di me».
E Berlinguer?
«Assolutamente».
In una lettera indirizzata a lei Moro evoca la ragione di Stato. Scrive così: "io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato…
«Un momento, ecco l'inizio del riconoscimento. Lui trattava. Un processo popolare. Riconosce la legittimità popolare e democratica delle Br al processo».
"Che sono in questo Stato, avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole o pericolosa in determinate occasioni", Ecco, scrive Moro "il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurli a salvarli è inammissibile".
«Esatto. Lui era un cattolico sociale e riteneva che contassero innanzitutto la società e la persona e che lo Stato fosse una sovrastruttura tecnica. E che lo Stato non potesse essere uno Stato di cui si doveva tutelare il prestigio».
È autentico il Moro che scrive così?
«È autentico. E cerca di trattare con le Br».
Gli appelli che Moro fa alla al suo partito che effetto ebbero?
«Beh, alla fine ebbero effetto, tanto è vero che loro uccidono Moro il giorno in cui forse, su proposta di Fanfani, la direzione del partito avrebbe convocato il Consiglio nazionale, e il Consiglio nazionale avrebbe votato per le trattative. E poi il Partito comunista si fidava solo di Andreotti e di me. Appena uscì la prima lettera di Moro Ugo Pecchioli, venne da me e mi disse: "Che Moro esca vivo o che Moro esca morto, dopo questa lettera Moro è per noi politicamente morto. E quando Andreotti, con il mio consenso, permise alla Dc, di cercare la strada di Amnesty International, la strada della Croce Rossa e così via, vennero nel mio studio Enrico Berlinguer e Pecchioli a dire: "Adesso basta"».
In un'altra missiva che manda a lei, Moro entra nel merito della trattativa, addirittura indicando un Paese, l'Algeria, come possibile Paese che avrebbe potuto ospitare i terroristi di cui si chiedeva la liberazione. Questa strada fu concretamente esplorata?
«Fu esplorata dal ministro della Giustizia di allora, che poi divenne presidente della Corte Costituzionale, ed era favorevolissimo Giovanni Leone. In una burrascosa riunione del comitato per l'informazione e la sicurezza, fu scartata con violenza da Carlo Donat Cattin, che non pensava neanche lontanamente che il figlio fosse di Prima Linea».
Trent'anni dopo. Poteva finire diversamente?
«Se avessimo trattato e cioè avessimo riconosciuto soggettività politica alle Br, sarebbe saltato certamente il compromesso storico, Moro sarebbe uscito e avrebbe guidato una crociata anticomunista. Però avremmo sfasciato le forze di polizia che non avrebbero più creduto al potere politico».
In questo che lei dice pesa il fatto che cinque uomini della scorta erano stati uccisi?
«Certo. E che la moglie di uno di questi aveva minacciato di darsi fuoco davanti a piazza del Gesù se noi avessimo fatto le trattative».
L'uccisione di Moro ha cambiato la storia d'Italia?
«L'ha cambiata perché ha interrotto il compromesso storico. Perché Berlinguer credeva non alla Dc ma solo ad Aldo Moro. Dopo che fu ucciso Moro lui perse le amministrative, vinte dalla Dc perché era il partito del martire e perché nel immaginario collettivo le Br non erano verdi o bianche, erano rosse».
E questa è l'influenza più grande?
«Sì. E lì Berlinguer compì forse due errori: aver fatto il compromesso storico troppo in fretta e averlo finito troppo in fretta.
Dove è continuato il suo dialogo con Moro in questi trent'anni?
«In chiesa. Solo in chiesa». Roberto Arditti
"Il Papa voleva pagare 10 miliardi per Moro", scrive Francesca Musacchio il 10/03/2015 su "Il Tempo". Paolo VI voleva liberare Aldo Moro, magari trattando con le Brigate Rosse. Aveva persino messo a disposizione 10 miliardi di lire per il pagamento del riscatto. Lo Stato, però, non avrebbe dimostrato attitudine ad una trattativa con i rapitori, il clima non era favorevole. «Io avrei trattato, potevano convocare la Camera, fare finta di discutere per prendere tempo, come mai è stato detto no a tutto? Se Fanfani avesse detto trattiamo questi si sarebbero fermati». L'ex presidente della Democrazia cristiana, però, forse lo avrebbe potuto salvare solo la divina provvidenza. In ogni caso, monsignor Antonello Mennini, sostiene di non essere mai stato nel covo delle Br, dove era detenuto lo statista, e di non averne mai raccolto l’ultima confessione. «Mi avrebbe fatto piacere farlo. Forse avrei potuto portargli un po' di conforto», spiega. «E poi, diciamo la verità, di che cosa doveva confessarsi quel povero uomo?» Quasi tre ore di audizione, ieri, davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta che si occupa della morte di Aldo Moro per il nunzio apostolico in Gran Bretagna, monsignor Antonio Mennini: il «postino» incaricato, per molti, di essere il "canale segreto" tramite cui i carcerieri di Moro e lo stesso leader Dc, recapitavano i messaggi dalla prigione del popolo. Un fiume in piena di racconti, domande e risposte. La verità sulla morte dello statista, avvenuta il 9 maggio del 1978 dopo 55 giorni di prigionia, potrebbe essere molto vicina o forse ancora troppo lontana. Le parole del prete, che ai tempi aveva poco più di trent'anni, non hanno convinto tutti. «Non era quello che mi aspettavo, non mi convince che lui non ci sia stato nel carcere brigatista - dichiara Gero Grassi, vicepresidente della commissione - Che dica la verità bisogna darlo per scontato, perché non abbiamo elementi per smentirlo», dice, riferendosi alla circostanza, negata dal prelato, di aver visto Moro durante i 55 giorni. «Il percorso di questi anni - aggiunge - ci spingeva a pensare che ci fosse stato un canale di ritorno e che qualcuno fosse stato da Moro. E ritenevamo fosse lui. Ora lui smentisce, dicendo che potrebbe essere stato un altro sacerdote, amico dei brigatisti. Ne prendiamo atto. Oggi viene fuori che è stata altra persona, la cercheremo». E proprio su questa nuova ipotetica figura potrebbe aprirsi un altro capitolo della terribile vicenda. Nè è convinto il presidente della commissione Giuseppe Fioroni: "Da monsignor Mennini una cosa del tutto nuova sulla vicenda Moro: c'era un canale di ritorno che si interrompe intorno al 5 maggio». Per Fioroni è questa la novità che emerge dopo la lunga deposizione del Nunzi. Mennini recapitò ai familiari alcune delle lettere del presidente Dc, scritte dalla prigione brigatista. «Don Antonello ha detto che nell’ultima telefonata che gli fecero i brigatisti, il 5 maggio del 1978, quando al telefono lo chiamò il professor Nicolai (Valerio Morucci) - aggiunge - si sentì dire che si faceva riferimento a lui per la consegna della lettera di addio di Moro, perché la persona che dovevano contattare non c'era più, la persona individuata non era più reperibile». Secondo Fioroni un elemento nuovo «che ci dice come si arriva al 9 maggio, senza un canale utile per la trattativa» sulla liberazione di Moro. Ipotesi, nuovi indizi, trattative mai iniziate e ancora dubbi e incertezze sul sequestro e il rapimento dello statista. Certo è che per il prelato, in quelle condizioni, Aldo Moro si sarebbe potuto salvare solo grazie all'intervento divino. Nel marzo del 1978, in pieno rapimento, Mennini si reca al Viminale per incontrare l'allora ministro dell'Interno Francesco Cossiga. A ricostruire l'incontro è lo stesso Nunzio: «Ci venne indicato un sacerdote dei Pallottini con presunte doti di sensitivo: fu lui ad indicare su una mappa un punto dell’Aurelia. Ne parlai con il professor Tritto (assistente di Moro, ndr) - racconta ancora don Antonello - e lui disse che era importante, che dovevamo dirlo al ministro e ottenne un appuntamento. Fummo ricevuti al Viminale dove ci tennero a bagnomaria' per 3 o 4 ore, ogni tanto Cossiga entrava e chiedeva a Tritto se era possibile avere qualche indumento di Moro, qualche scritto, ipotizzando pure il coinvolgimento del sensitivo consultato nel caso dell'omicidio di Milena Sutter». Era un clima «poco esaltante», ricorda il nunzio, «ogni tanto veniva il capo di gabinetto che parlava di una fila di persone importanti che chiedevano biglietti omaggio per lo spettacolo pasquale dell’Opera. Mi è stato rimproverato - conclude monsignor Mennini - di non aver informato la polizia del contatto telefonico con le Br ma non volevo rischiare di bloccarlo, volevo solo essere utile a una persona alla quale volevo bene e fare nel mio piccolo tutto quello che potevo. E poi, quello che ho visto quel giorno al Viminale mi era bastato...». E alla fine: «Sono convinto di non aver convinto nessuno. Ma ripeto che non ho, purtroppo, potuto confessare Moro. So che c'è questa leggenda metropolitana su di me». Francesca Musacchio
Papa Francesco fa testimoniare il confessore di Aldo Moro, scrive il 7/03/2015 "Il Tempo". Sarà ascoltato il 9 marzo. Secondo Cossiga, il prete Mennini, mediatore tra il Vaticano e le Br, avrebbe confessato lo statista durante la prigionia. Passi avanti per svelare il mistero del sequestro di Aldo Moro. E' stato papa Francesco in persona a volere che Antonio Mennini, ora nunzio apostolico nel Regno Unito, sia ascoltato dalla Commissione d'inchiesta sulla vicenda. Secondo l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, infatti, Mennini, all'epoca giovane sacerdote, avrebbe addirittura confessato lo statista durante la prigionia. Il prete sarebbe stato in qualche modo un canale di mediazione tra il Vaticano e le brigate: Paolo VI era un amico personale di Moro. La deposizione avverrà il 9 marzo, quando opererà la nuova Commissione parlamentare d'inchiesta sul delitto di via Fani. Finora Mannini non aveva mai parlato in tribunale né rilasciato interviste. Ha sempre avuto un basso profilo, pur ricoprendo ruoli importanti all'interno della Santa Sede nel corso della sua carriera. E' un chiaro segnale della volontà del Pontefice di collaborare a ogni livello con le autorità italiane, all'insegna della massima trasparenza. Sarà il nunzio, infatti, a venire a Roma a deporre a San Macuto, sede della Commissione, pur essendo un diplomatico e godendo perciò di immunità speciali. Le dichiarazioni Francesco Cossiga. "Don Antonello Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini”. Sarebbe stato il canale segreto tra i terroristi e il Vaticano. Dopo la morte di Aldo Moro, Mennini fu mandato dal Vaticano all’estero, destinato alla carriera diplomatica.
Il confessore di Aldo Moro: "Mai stato nel covo delle Br", scrive il 9/03/2015 "Il Tempo". Monsignor Mennini in audizione davanti alla Commissione d'inchiesta sul rapimento e la morte del leader Dc. Nel 1978 fece avere alla famiglia alcune lettere scritte dallo statista sequestrato. Niente di nuovo, nessuna notizia sconvolgente. Monsignor Antonello Mennini parla davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. L'attuale Nunzio apostolico vaticano in Gran Bretagna nel 1978 era sacerdote nella chiesa di Santa Lucia e fece avere alla famiglia alcune lettere scritte dal leader Dc durante i 55 giorni del sequestro. Ma non entrò mai nel covo della Brigate Rosse. Almeno così ha raccontato. "Purtroppo non ho avuto la possibilità di confessarlo e dargli la comunione - ha detto davanti alla Commissione - Nella coscienza dei miei doveri sacerdotali ne sarei stato molto contento. In ogni caso se avessi avuto un'opportunità del genere credete che sarei stato così imbelle, che sarei andato lì dove tenevano prigioniero Moro senza tentare di fare niente? Sicuramente mi sarei offerto di prendere il suo posto, anche se non contavo nulla, avrei tentato di intavolare un discorso, come minimo di ricordare il tragitto fatto. E poi, diciamo la verità di che cosa doveva confessarsi quel povero uomo?". Il nunzio apostolico ha sottolineato di essere stato già ascoltato sulla vicenda in sede parlamentare e giudiziaria per ben sette volte e ha confermato che "di un'eventuale confessione non avrei potuto dire nulla, né sui contenuti né sulla circostanze temporali e logistiche, ma non avrei difficoltà alcuna ad ammettere di essere andato nel covo delle Br. Ma non ci sono mai stato". I dubbi di Cossiga Monsignor Mennini ha poi parla dell'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga che ai tempi del rapimento di Aldo Moro era ministro dell'Interno: "Se riteneva che avessi raggiunto il covo delle Br ma perché non farne parola con i miei superiori o con lo stesso Santo Padre? Cossiga l'ho incontrato varie volte e non ha mai sollevato questa cosa, capisco che poteva non sollevarla con me, ma non poteva esimersi dal parlarne con Sodano o con il Santo Padre". La trattativa "Immagino che il Santo Padre volesse che Moro fosse liberato - ha proseguito nel suo racconto - ma il clima che c'era era tale, queste adunate oceaniche dei sindacati che dicevano che non si doveva trattare. Che poteva fare il povero Papa? Quindi ha cercato un'altra strada, quella del riscatto. Due o 3 anni più tardi mi raccontarono che il Santo Padre aveva chiesto di mettere a disposizione 10 miliardi di lire, perché si era fatto balenare l'idea che le Br potessero accontentarsi solo di un riscatto. Io avrei trattato, potevano convocare la Camera, fare finta di discutere per prendere tempo, come mai è stato detto no a tutto?". Per monsignor Mennini "se Fanfani avesse detto trattiamo questi si sarebbero fermati. Io ho avuto la convinzione e l'ispirazione di servire una persona a cui volevo molto bene e tentare nel mio piccolo di sottrarlo a quella morte immeritata". Il canale di ritorno Per Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, "Mennini ha comunicato una cosa per tutti noi totalmente nuova, che il professor Nicolai nella telefonata del 5 maggio lancia un messaggio finale alla signora Moro, comunicandole che la persona che dovevano rintracciare non era stata reperita e che quindi si tornava a far ricorso a don Mennini per lasciare la missiva in cui il presidente Moro annunciava la fine della propria vita di lì a pochi giorni. Questo conferma che c'era un canale di ritorno che stando alle conoscenze fino ad oggi acquisite, si interrompe intorno al 5 di maggio, poco prima o poco dopo". Il sacerdote, amico e confessore del presidente della Dc prima del rapimento e dell'uccisione, ha infatti ammesso che nella telefonata del 5 maggio "il professor Nicolai mi disse di riferire alla signora Moro che purtroppo non avevano potuto trovare la persona da lei indicata e che avevano dovuto far ricorso di nuovo a me". "Per la prima volta - continua Fioroni - Mennini fa riferimento chiaramente ad un canale di ritorno, un canale che non c'è più. È un dato: il canale di ritorno c'era ed improvvisamente al 5 maggio o non viene reperito o non c'era più. Questo - ha concluso Fioroni - adesso sarà oggetto di lavoro da parte della Commissione".
Moro, la prigione era un'altra, scrive "Il Tempo" il 23/10/2007. Per questo, secondo Galloni, le speranze di saperne qualcosa di più sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro sono affidate agli archivi americani. «La verità la sapremo solo quando cadrà il segreto sui documenti conservati a Washington», ha osservato l'ex nel suo intervento alla presentazione del libro dello storico Giuseppe De Lutiis, «Il golpe di via Fani» (Sperling&Kupfer). Gli Stati Uniti, secondo l'ex «ufficiale di collegamento tra la democrazia Cristiana e il Viminale», come lo ha definito Francesco Cossiga, dovevano essere al corrente degli «interna corporis» della vita politica italiana, visto che il suo nome è ampiamente citato in alcuni rapporti di Washington. «In uno di questi - ha spiegato - l'ambasciatore Usa rimprovera Fanfani di non aver assunto provvedimenti disciplinari nei confronti di noi "basisti" che avevamo aperto a sinistra». Quanto al sequestro Moro, Galloni, che sta per dare alle stampe un suo libro sulla vicenda, ha ricordato che il 5 maggio 1978, quattro giorni prima dell'esecuzione dell'ostaggio da parte delle Brigate Rosse, si incontrò con Amintore Fanfani. «Mettemmo a punto la riunione del 9 maggio. Egli disse: "la figura di Moro come uomo politico è distrutta, l'unica cosa che dobbiamo fare è salvargli la vita"». Ma come? «Qui ci sono misteri enormi», ha aggiunto l'ex vicesegretario Dc. «L'8 aprile il generale del Sid, Vito Miceli, partì per un viaggio misterioso a Washington dove prese contatto - ricorda - con grossi esponenti della Cia. In quella sede si disse che bastava scoprire il covo dove Moro era prigioniero». Gli Usa sapevano dunque dove le Br tenevano rinchiuso Aldo Moro? «I servizi segreti sanno tante cose più dei giudici», ha detto Rosario Priore, l'ex giudice istruttore dell'inchiesta sulla strage di via Fani e l'omicidio del presidente Dc alla presentazione del libro di De Lutiis che larga parte dedica ai risvolti internazionali della vicenda. Sull'evoluzione del sequestro di Moro, gli apparati, a giudizio di Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione stragi, «hanno certamente influito. Del resto le Br, sono smentite dallo stesso Moro: quello ritrovati nella renault rossa in via Caetani non era il corpo di un uomo tenuto per 55 giorni in un buco dove non poteva neanche lavarsi. Fu prigioniero in condizioni diverse e in un luogo diverso».
Il Caso Moro di Gianluca Neri. “…E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Noi ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tal quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra.” Sono le ultime parole di “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury e quelle che aprono questo nuovo spazio su Macchianera: un ripassino - utile a tutti - della storia recente italiana. Nella speranza che la storia sopravviva alla riscrittura, non fosse altro che perché noi ricordiamo. Si inizia, un capitolo al giorno, con “Il caso Moro”, di Sergio Flamigni e Michele Gambino. Il 16 marzo 1978 Aldo Moro fu rapito, dopo il massacro degli agenti della sua scorta. Il 9 maggio fu ucciso. In quei cinquantacinque giorni accadde che gli inquirenti indagarono nella direzione sbagliata, al vertice del ministero dell’Interno si insediò un Comitato di iscritti alla Loggia P2, un consulente americano consigliò di non “sopravvalutare” l’ostaggio, verbali vennero redatti e poi sottratti, bobine furono manipolate, gladiatori furono allertati, sedute spiritiche indirizzarono le inchieste. Alla fine, con la morte del prigioniero delle Br, una intera politica, quella di Moro, fu rovesciata. Per questo il caso Moro è il più grande mistero della Repubblica. Questo racconto lo ricostruisce minuziosamente, sulla base delle testimonianze e della carte emerse nei quattordici anni che seguirono, fino alla pubblicazione.
• Sergio Flamigni, che fu membro della commissione parlamentare d’indagine sull’“affare Moro”, è uno dei maggiori conoscitori dei “cinquantacinque giorni” (su cui ha scritto il libro “La tela del ragno”).
• Michele Gambino, giornalista, ha iniziato l’attività nei primi anni ‘80 con “I Siciliani” di Giuseppe Fava. Dal 1990 fino alla chiusura del giornale è inviato del settimanale “Avvenimenti”. Specializzato in inchieste su criminalità economica, mafia, politica interna ed estera, ha realizzato decine di reportage dai teatri di guerra di tutto il mondo. Ha collaborato come autore e inviato in diverse trasmissioni televisive della Rai e ha scritto libri-inchiesta e saggi su argomenti d’attualità. E’ uno degli insegnanti della “bottega di giornalismo” della scuola torinese “Holden” di Alessandro Baricco e vice-direttore di “Pippol”.
(Pubblicato da “Avvenimenti” il 12/2/1992)
CAPITOLO I.
Roma, giovedì 16 marzo 1978, ore 9.30. Il transatlantico di Montecitorio è insolitamente affollato, vista l’ora: gruppi di parlamentari vanno su e giù lungo i corridoi in attesa della votazione che sancirà la nascita del quarto governo Andreotti. Particolarmente animati i capannelli dei deputati comunisti: sta per nascere la prima maggioranza di cui il Pci fa parte. Ma alcuni di loro polemizzano con le indicazioni del partito, che impone di votare l’appoggio esterno a un monocolore dc zeppo delle vecchie facce dei ministri di sempre. All’improvviso una notizia interrompe il filo dei discorsi: mezz’ora prima in via Fani, ampia e tranquilla strada del quartiere Trionfale, un commando di brigatisti rossi ha sequestrato l’onorevole Aldo Moro, regista insieme a Berlinguer dell’accordo tra democristiani e comunisti. Quattro uomini della scorta, Oreste Leonardi, Raffaele lozzino, Domenico Ricci e Giulio Rivera, sono stati uccisi. Il quinto, Francesco Zizzi, morirà più tardi in ospedale. Le forze dell’ordine si sono già messe in moto, ma è un agitarsi privo di logica. I percorsi dei brigatisti in fuga si sovrappongono a quelli delle volanti in arrivo senza mai incrociarsi. In via Bitossi una radiomobile riceve l’ordine di spostarsi per dirigersi verso via Fani un attimo prima che la Fiat 128 blu con a bordo Moro e i suoi sequestratori arrivi proprio nel punto in cui l’auto della polizia si trovava. Alla centrale operativa della questura di Roma presta servizio quel 16 marzo il commissario Antonio Esposito, poi risultato iscritto alla P2. Lo stesso nome, con l’indirizzo e il numero di telefono, verrà trovato in possesso di uno dei componenti del commando brigatista, Valerio Morucci. Ma nessuno gli chiederà mai perché. Le cronache dell’agguato, il giorno dopo, si dilungheranno sulla «professionalità» degli assalitori. In realtà a uccidere la scorta lasciando incolume Aldo Moro sono stati due soli componenti del commando; dei 97 bossoli ritrovati in via Fani dopo la sparatoria 62 furono sparati da una sola arma, altri 20 da un secondo killer. I restanti tre uomini del commando spararono quindi 15 proiettili in tutto. Agli atti del processo c’è la deposizione di uno dei testimoni dell’agguato, esperto di armi, che descrive con sincera ammirazione la «tecnica» di uno degli assalitori. Il numero e la composizione dell’intero gruppo che partecipò all’agguato non è mai stato chiarito, ma c’è il fondato sospetto che tre componenti del commando non siano mai stati identificati. Lo stesso Valerio Morucci ha parlato prima di dodici e poi di nove componenti. Ma di sicuro tra i brigatisti condannati per il sequestro Moro non c’è nessuno che abbia le capacità «militari» messe in mostra dal superkiller di via Fani. Esiste anche l’ipotesi che alcuni dei proiettili sparati in via Fani provengano da un deposito di «Operazione Gladio». E’ una pista che nasce dall’interrogazione presentata di recente da un deputato di Democrazia Proletaria, Luigi Cipriani che ha riletto con gli occhiali di “Gladio” le carte del primo processo Moro. Trovandovi un particolare che potrebbe rivelarsi di straordinaria portata: secondo il perito del tribunale, 39 dei bossoli ritrovati in via Fani provengono da uno stock in dotazione «a forze militari non convenzionali». Essi sono inoltre ricoperti di una vernice protettiva adatta alle lunghe conservazioni.
Ore 9,45. Nella zona di via Fani saltano le linee telefoniche. La conseguenza è una parziale paralisi delle comunicazioni tra le forze dell’ordine. La Sip spiegherà che si è trattato di un sovraccarico delle linee. Si scoprirà, anni dopo, che all’interno della Sip operano strutture dei servizi segreti. Pochi giorni prima del sequestro Moro una squadra di telefonisti era stata notata all’interno del garage del palazzo in cui abitava il presidente della Dc. Sul luogo della strage sono accorsi i vertici di carabinieri, polizia e magistratura. Dirà il generale dei Cc Corsini: “Devo dire che lì ho trovato una grossa confusione, in parte creata da noi…”.
Ore 9,50. Vengono istituiti i primi posti di blocco. I brigatisti hanno avuto quasi un’ora di tempo per raggiungere un luogo sicuro.
Ore 10. Alla Camera la seduta di insediamento del nuovo governo è rinviata. Negli stessi minuti Licio Gelli riceve nella sua stanza all’Excelsior due ospiti mai identificati. Testimonianza della segretaria del capo della P2, Nadia Lazzerini: “Ad un certo punto Gelli disse: «Il più è fatto»”.
Ore 10,06. Il Gr2 trasmette un editoriale del suo direttore, Gustavo Selva, che invoca misure speciali e lo stato di guerra. Anche il nome di Selva fu trovato nelle liste dellaP2. La campagna per le misure speciali e lo stato di emergenza verrà condotta con particolare forza dal “Corriere della Sera”, diretto da un iscritto alla P2, Franco Di Bella. Per lo “stato di pericolo pubblico” e per l’interrogatorio degli indiziati senza difensore si esprimerà anche il capo del Sisde (il servizio segreto civile) Giulio Grassini, piduista.
Ore 10,08. Con una telefonata alla redazione milanese dell’Ansa le Brigate rosse rivendicano l’azione e aggiungono che “Moro è solo l’inizio”.
Ore 10,30.
Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale, la Corte Costituzionale
sospende per mezz’ora la seduta in segno di lutto, nelle scuole e nelle
Università gli studenti si riuniscono in assemblea.
Sui tavoli di prefetti, questori, commissari di polizia e guardie di frontiera
arriva un telegramma urgente. Con “massima
precedenza assoluta” il capo
dell’Ucigos, Antonio Fariello, capo di un ufficio creato nello spazio di un
mattino dal ministro dell’Interno Cossiga e suo uomo di fiducia, ordinava di
disporre immediatamente il “Piano
Zero”. Mezz’ora dopo il centralino del ministero dell’interno era intasato
dalle telefonate di allarmati funzionari che da tutta Italia chiedevano cosa mai
fosse il “Piano Zero”. Si scoprì
a tarda sera che si trattava di un piano di emergenza per mobilitare le forze
dell’ordine della provincia di Sassari. Fariello, che era stato questore di
quella città, era convinto che il piano valesse su tutto il territorio
nazionale. Un errore incredibile, ma solo il primo di una lunga serie. Per la
cronaca, nel 1987 il dottor Fariello, lasciata la polizia, fu assunto come capo
della sorveglianza della Banca Nazionale del Lavoro. Direttore generale
dell’istituto di credito era all’epoca Giacomo Pedde, cugino di Francesco
Cossiga.
Ore 11,30. Al Viminale il ministro dell’interno Francesco Cossiga convoca i vertici delle forze di polizia, dei servizi segreti e delle forze armate. Viene formato il comitato tecnico operativo che dovrà coordinare le indagini. Si scoprirà, tre anni dopo, che molte delle persone riunite intorno a quel tavolo sono iscritte alla P2. L’operato del comitato di crisi è uno dei “buchi neri” del caso Moro. Dei verbali delle riunioni vi è traccia solo fino al 3 aprile. In realtà però Cossiga prestò scarsissima attenzione a quel comitato. Al punto da frequentarlo solo saltuariamente a partire dal 21 marzo, cinque giorni dopo il sequestro di Aldo Moro. Accanto al comitato “ufficiale”, composto dai rappresentanti di forze dell’ordine e servizi segreti, Cossiga ne costituì un secondo, denominato “gruppo gestione crisi”, che lavorò in modo del tutto misterioso. Formalizzato su proposta dello stesso Cossiga da un documento del Cesis (il comitato di coordinamento dei servizi segreti) del 16 marzo, il comitato di “gestione crisi” fu caratterizzato dalla presenza di alcuni amici personali del ministro, parte dei quali iscritti alla loggia di Gelli: come il professor Franco Ferracuti, uno psichiatra che ebbe grande peso, insieme al “consulente di crisi” del dipartimento di Stato americano Steve Pieczenik, nel far passare la tesi del Moro “fuori di sé”, e quindi della inattendibilità delle sue lettere dal carcere brigatista. Conosciuto come un collaboratore della Cia, Ferracuti fu poi coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna per la sua amicizia con l’ideologo “nero” Semerari; lo stesso Ferracuti, come risulta dall’interrogatorio di un neofascista, all’epoca del sequestro Moro informava gli esponenti del terrorismo nero sullo stato delle indagini. Dagli interrogatori di Ferracuti e di altri componenti di questo “comitato-ombra” risulta che esso si riuniva in luoghi sempre diversi con scadenze non prefissate, e che il numero dei presenti variava di volta in volta. A proposito dei verbali delle riunioni del comitato di crisi, affannosamente e inutilmente richiesti al ministero dell’Interno, molti anni dopo, dalla commissione parlamentare sulle stragi, una testimonianza preziosa è venuta da uno dei suoi componenti, il criminologo Franco Ferracuti: “Concluso il caso Moro, ho parlato con Cossiga, e gli ho spiegato che le carte sul “caso” erano un pezzo della storia d’Italia, e che ci si doveva preoccupare di salvarle tutte. Lui mi aveva risposto di esserne consapevole, e che se ne sarebbe occupato. Certo, per quello che dico non ho prove, ma quando sono tornato ho chiesto ad alcuni amici del Viminale dove erano finiti tutti quei materiali. Mi hanno risposto che era sparito tutto. Forse Cossiga… per motivi storici, o qualcosa del genere”. In un libro pubblicato oltre dieci anni dopo l’agguato di via Fani, “L’ombra di Moro”, Adriano Sofri è tornato sulla questione del comitato-ombra. Di che si tratti, l’ex leader di Lotta Continua lo ha spiegato in una intervista al settimanale “Il Sabato”: “Mi è stato detto - afferma Sofri - che durante i giorni del rapimento Moro c’era una specie di comitato-ombra che si occupava dell’emergenza. Questo gruppo di persone era insediato al ministero della Marina Militare con la presenza personale di Licio Gelli”. Sofri spiega di aver avuto la notizia da “una persona accreditata per non dire sciocchezze”, ma non più in vita. Sempre secondo Sofri gli altri componenti del gruppo di esperti scelto da Cossiga chiamavano affettuosamente Gelli “Micio Micio”. Il capo della P2 avrebbe avuto addirittura a disposizione una stanza all’interno dell’edificio della Marina militare, in piazzale della Marina 1, a Roma. Sofri non è un personaggio di secondo piano in questa vicenda: egli seguì da vicino gli sviluppi del caso Moro, tenendo contatti sia con i vertici del Psi che con gli ambienti dell’estremismo rosso. Della presenza di Gelli tra i consiglieri di Cossiga parla anche un altro libro; si chiama “I giorni del diluvio”, e l’ha scritto, sotto falso nome, il senatore Francesco Mazzola, sottosegretario alla Difesa, con delega alla Marina Militare e grande amico di Cossiga. Mazzola, che fece parte del “comitato gestione crisi”, nel libro chiama Gelli “il marchese”. Ci sono infine altre due testimonianze non smentibili: la prima è del funzionario del Sisde, Elio Cioppa, piduista, il quale davanti alla commissione P2 ha testimoniato che “durante il sequestro Moro il capo del servizio, generale Grassini (anch’egli iscritto alla P2, N.d.R.), gli affidò un accertamento da compiere specificando che lo spunto… proveniva da una riunione a cui era presente Gelli”. Questo fu il giudizio di Tina Anselmi, che presiedette la commissione parlamentare: “Il capo della Loggia agiva dunque ormai come elemento pienamente inserito al massimo livello in uno dei gangli essenziali dello Stato”. La seconda testimonianza è di un sincero amico dei vertici democristiani, il giornalista Umberto Cavina, all’epoca del sequestro capo ufficio stampa della Dc, il quale ha dato per certa la presenza di Gelli al Ministero dell’Interno durante il sequestro Moro. Gelli partecipò alle famose riunioni negli uffici della Marina Militare sotto il falso nome di ingegner Luciani. “Ingegner Lucio Luciani” è il nome di copertura che Licio Gelli ha spesso usato nelle lettere di raccomandazione pubblicate tra gli atti della commissione d’inchiesta della P2. Come “ingegner Luciani”, il capo della P2 prenota spesso una camera all’Excelsior di Roma. Nella seconda metà di gennaio del 1992 attraverso canali misteriosi è saltato fuori un documento che prova le frequentazioni di Licio Gelli al ministero della Marina: si tratta di due tesserini, datati 1979 e intestati all’ingegner Lucio Luciani, che permettono l’accesso alla biblioteca del ministero. Forse qualcuno conserva ancor oggi altre e più importanti tessere, che Licio Gelli utilizzò per accedere agli uffici del ministero nei giorni tra marzo e maggio del 1978, quelli in cui si consumò il caso Moro. Forse, quei tesserini fanno parte del gioco di ricatti che apparentemente coinvolge, a volte in veste di ricattato, altre in quelle di ricattatore, il Presidente della Repubblica (Francesco Cossiga, all’epoca della pubblicazione di questo scritto, N.d.R.).
Ore 18,06. Alla Procura di Roma si svolge un summit presieduto dal capo dell’ufficio, il dottor Giovanni Di Matteo. Vi partecipano tutti i sostituti procuratori. Si concorda che il sostituto di turno incaricato delle indagini, il dottor Infelisi, sarà affiancato da un gruppo di magistrati. In realtà nei giorni successivi De Matteo cambierà idea. Infelisi condurrà da solo le indagini, ma continuerà anche a svolgere il normale lavoro di routine: “Il telefono del mio ufficio a volte non funzionava - racconterà Infelisi - dovevo usare il telefono a gettoni nel corridoio - spesso mancavano i gettoni…”.
CAPITOLO II.
La sera del 15 marzo, una manciata di ore prima del sequestro di Aldo Moro, un non vedente di Siena, Giuseppe Marchi, racconta in trattoria il seguente episodio: mentre rientrava a casa col suo cane ha udito alcuni uomini parlare con accento straniero dentro una macchina in sosta. Uno di loro ad un certo punto ha detto: “hanno rapito Moro e le guardie del corpo”. Scriverà il giudice Ernesto Cudillo: “E’ possibile che il Marchi non abbia afferrato bene il significato della frase, che non si riferiva ad un fatto accaduto, ma che doveva accadere”. L’episodio comunque venne lasciato cadere. Marchi abitava in una zona del centro storico chiusa agli automezzi. Nessun accertamento venne fatto sulle auto che avevano accesso alla zona chiusa. Alle 8,30 del 16 marzo, mezz’ora prima dell’agguato, Renzo Rossellini, direttore di Radio Città futura, parlò di un possibile attentato a Moro. Rossellini spiegò in seguito che la voce sul sequestro di Moro circolava da tempo. Nel febbraio del ‘78 il “Male” aveva addirittura pubblicato una finta “lettura della mano” del presidente della Dc: “La mano di costui, forse ripresa in un carcere, è inequivocabilmente di tipo assassino… e la linea del destino indica che il soggetto, dopo alterne vicende, farà una brutta fine. Notevole il reticolo sull’indice, segno certo di carcerazione”. Ad un sequestro di un esponente Dc, e alla fine di Aldo Moro, avevano alluso anche alcuni detenuti e il giornalista Mino Pecorelli, direttore della rivista Op, legata ad un preciso settore dei servizi segreti, quello che faceva capo al piduista Vito Miceli. Il sequestro Moro piomba su una struttura dei servizi segreti completamente trasformata sotto la pignola guida del superesperto ministro dell’interno Francesco Cossiga: a capo dei due nuovi servizi segreti, il Sismi (militare) e il Sisde (civile), sono stati nominati i generali Giuseppe Santovito e Giulio Grassini; la nomina di quest’ultimo ha suscitato molte polemiche tra le forze dell’ordine, poiché Grassini, un carabiniere, si trova a guidare una struttura di polizia. Molti, inoltre, si aspettavano per quel posto la nomina di Emilio Santillo, abile e apprezzato capo del Servizio di sicurezza antiterrorismo. Santillo invece non solo non avrà quel posto, ma verrà scientificamente messo da parte. Lui, massimo esperto di antiterrorismo in Italia, sarà praticamente escluso dalla gestione delle indagini su Moro. Forse paga il fatto di aver stilato, negli anni precedenti, ben tre rapporti allarmati sulle attività di Licio Gelli e della Loggia P2. Nell’unica occasione in cui gli chiederanno un consiglio sulle mosse da fare, Santillo - significativamente, provocatoriamente - consiglierà una retata intorno a villa Wanda, la villa di Gelli nei dintorni di Arezzo. Ma il gioco ad incastro delle coincidenze nefaste non è finito: il 21 gennaio del 1978 Cossiga crea l’Ucigos (ufficio centrale informazioni generali operazioni speciali) e vi pone a capo un suo uomo di fiducia, il questore Antonio Fariello, che in almeno un paio di occasioni avrà un ruolo non indifferente nel ritardare e intralciare le indagini sul sequestro Moro. A capo del Cesis, l’organo incaricato di coordinare il lavoro dei due servizi segreti in quel marzo 1978, c’è da due mesi Gaetano Napoletano, un ex partigiano con alle spalle una brillante carriera di prefetto e una fama di uomo lontano dai giochi di Palazzo. Quando esplode il caso Moro, Napoletano si accorge subito di essere una specie di intruso nel gruppo di piduisti incaricato di gestire le indagini. Non viene invitato a far parte del Comitato tecnico operativo incaricato di gestire la crisi; non ha ancora una sede, i suoi uomini vengono pagati una miseria e Cossiga (insieme al presidente del Consiglio Andreotti) continua allegargli la promessa nomina ad ambasciatore, l’unica che gli avrebbe permesso di stare gerarchicamente un gradino sopra Santovito e Grassini. I due capi piduisti dei servizi, infatti, trattano Napoletano come un rompiscatole, non rispondono alle sue lettere, gli impediscono persino l’accesso ai loro uffici. “Non prendo ordini da nessuno” è la risposta di Santovito all’ennesima sollecitazione del Cesis. Sette giorni dopo il sequestro di Moro, sconsolato, Napoletano prende carta e penna e scrive ad Andreotti e Cossiga: “nulla si sa di quanto il Sisde stia predisponendo per accentuare una valida lotta al terrorismo”. Nessuna risposta, e Napoletano si arrende: il 23 aprile, con Moro ancora prigioniero delle Br, il capo del Cesis si dimette dall’incarico (“Motivi di salute”, spiegherà Andreotti). In realtà di salute Napoletano sta benissimo. Ciò che gli duole, semmai, è la coscienza. Lo sostituisce Walter Pelosi, piduista. E con lui si completa l’allegra brigata di uomini legati a filo doppio a Licio Gelli incaricati di condurre le indagini sul rapimento del presidente della Democrazia Cristiana; l’uomo che, contro il parere degli americani, della destra Dc e della massoneria conduce una politica di collaborazione con il Pci, magari solo alla scopo di depotenziarlo. Parlando dell’operato degli investigatori davanti alla commissione d’inchiesta sul caso Moro l’allora procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma Pietro Pascalino si lascerà sfuggire queste parole: “Non spetta a me dire perché si preferì fare operazioni di parata invece che ricerche. Ma allora si fecero operazioni di parata”.
Roma, sabato 18 marzo, ore 9,30. Gli agenti del commissariato Flaminio Nuovo si presentano al terzo piano della palazzina al numero 96 di via Gradoli, una stradina residenziale sulla via Cassia. Una “soffiata” molto precisa, forse proveniente da ambienti vicini ai servizi segreti, ha segnalato che lì, all’interno 11, c’è un covo delle Br. Gli agenti bussano alla fragile porta di legno, ma nessuna risponde. Apre invece l’inquilina dell’interno 9, Lucia Mokbel, e racconta di aver sentito provenire dall’appartamento sospetto dei ticchettii simili a segnali Morse. Secondo le disposizioni vigenti i poliziotti dovrebbero a quel punto sfondare la porta, o quantomeno piantonare il palazzo. Invece vanno via. Al processo Moro presenteranno un rapporto di servizio grossolanamente falso, costruito a posteriori, stando al quale i vicini avrebbero fornito “rassicurazioni” sull’onestà dell’inquilino dell’interno 11, il ragionier Borghi, alias Mario Moretti. Saranno sbugiardati pubblicamente, ma mai puniti. Il 3 aprile si riparlerà di “Gradoli”: nel corso di una seduta spiritica, a cui partecipa il futuro presidente dell’Iri, Romano Prodi, una “entità” avrebbe indicato Gradoli” come luogo in cui è tenuto prigioniero Aldo Moro. Sulla base della segnalazione dall’aldilà il 6 aprile una perlustrazione viene organizzata a Gradoli, un paesino in provincia di Viterbo. Al ministero dell’Interno, che aveva in precedenza ricevuto la segnalazione su via Gradoli, nessuno mette in collegamento le due cose. E’ la moglie di Moro, Eleonora, a chiedere se non potrebbe trattarsi di una via di Roma. Cossiga in persona, secondo la testimonianza resa in commissione da Agnese Moro, risponde di no. In realtà via Gradoli esiste, e sta sulle pagine gialle. Il 18 aprile quella porta dietro cui forse era stato nascosto, fino a qualche giorno prima, lo stesso Aldo Moro, viene finalmente sfondata. Non da polizia e carabinieri però, ma da pompieri; che ci arrivano a causa di un allagamento. Anche se i brigatisti lo hanno sempre negato, si tratta di una messinscena organizzata perché il covo venga scoperto: il telefono della doccia è sorretto da una scopa e puntato contro una fessura nel muro aperta con uno scalpello in modo da far filtrare meglio l’acqua lungo i muri fino all’appartamento dei vicini, che infatti daranno l’allarme. L’allagamento si verifica lo stesso giorno in cui un falso comunicato delle Br spedisce migliaia di carabinieri e poliziotti a cercare il cadavere di Moro nel lago gelato della Duchessa. Si tratta di due episodi di difficile lettura. Alcuni brigatisti del gruppo dirigente dichiareranno, molti anni dopo, che la scoperta del covo e il falso comunicato li spinsero ad affrettare i tempi dell’operazione Moro verso la decisione di sopprimere l’ostaggio; proprio come voleva Moretti, rappresentato della cosiddetta “ala dura” delle Br.
Ore 12. Desta grande sensazione un editoriale del “Washington Post”, riportato dal “Corriere della Sera”. Il titolo è: “Si spera che dopo il delitto nasca un nuovo modo di governare”. Secondo gli americani l’uccisione di Moro (che peraltro è ancora vivo) potrebbe concludere “la vecchia tradizione italiana di governi deboli”. Quell’editoriale è un riflesso di un fastidio molto diffuso negli ambienti politici statunitensi verso Aldo Moro, ritenuto il principale colpevole della “apertura” verso il Pci. Nel settembre del 1974 Moro, in veste di ministro degli Esteri, aveva incontrato a Washington il segretario di Stato americano Henry Kissinger. L’uomo “forte” dell’amministrazione americana, notoriamente legato ai circoli massonici internazionali, aveva affrontato il ministro italiano a muso duro: “Onorevole- gli aveva detto - lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere”. Moro fu molto turbato. Interruppe la visita con qualche giorno di anticipo, a causa di un malore, e confidò al suo segretario, Corrado Guerzoni, la volontà di non fare più politica per due o tre anni. Tornato a casa riferì alla moglie, parola per parola, ciò che gli era stato detto. Non lo faceva quasi mai. Il 3 marzo del 1978, tredici giorni prima di via Fani, la Corte Costituzionale aveva scagionato Moro dall’accusa di essere “Antelope Cobbler”, nome in codice dell’uomo politico italiano che aveva intascato una tangente da un milione di dollari per l’acquisto dagli americani della Lockheed di 18 aerei militari. La complessa manovra di accusa nei confronti di Moro era partita dagli uffici di Kissinger; in Italia vi aveva attivamente partecipato Howard Stone, ex capo stazione della Cia a Roma e iscritto alle liste della P2.
CAPITOLO III.
Tra gli esperti chiamati da Cossiga a comporre il comitato di crisi nei giorni del sequestro c’era Steve Pieczenick, uomo del dipartimento di Stato americano. Nella sua audizione davanti alla commissione parlamentare sul caso Moro, Cossiga lodò il consulente americano, parlando di “qualificata collaborazione a livello di gestione della crisi”, ma non disse una parola sull’attività svolta da Pieczenick; sappiamo in compenso cosa scrisse l’inviato del Dipartimento di Stato in un documento di cui esiste copia presso l’ambasciata americana di Roma: secondo il consulente di Cossiga “è essenziale dimostrare che nessun uomo è indispensabile alla vita della nazione”. Più che alla liberazione di Moro, Pieczenick appariva interessato alla svalutazione del ruolo di Moro nella politica italiana. Il lavoro di Pieczenik in Italia è racchiuso in una trentina di cartelle dattiloscritte sotto il titolo “Ipotesi sulla strategia e tattica delle Br e ipotesi sulla gestione della crisi”. Si tratta di una lettura sorprendente. La prima parte del documento consiste in una serie di domande poste dal ministro Cossiga e nelle risposte dell’americano. La domanda numero 9 di Cossiga è: “Come possiamo creare strumenti idonei di controllo dei magistrati?”. Pieczenik consiglia di “sfruttare in maniera discreta nuove leggi per accrescere la vostra capacità di controllo e di informazione”. Nel capitolo “Governo: strategia”, il consulente americano spiega che è necessario “conservare il controllo dei rapporti con le Br”. Una frase che lascia intendere che dei rapporti già esistono, e si tratta solo di non cederli “ad altri”. Una affermazione che, alla luce delle conoscenze che si hanno, è del tutto sorprendente. La famiglia di Moro, secondo Pieczenik, deve essere convinta a collaborare, e in caso contrario “va isolata”. I suoi componenti vanno messi sotto sorveglianza “apparentemente ai fini della loro sicurezza, ma anche per raccogliere elementi informativi”. Altro consiglio è quello di “abbassare l’intero livello della direzione della crisi: tenere tutte le decisioni lontano da Andreotti e, possibilmente, da Cossiga”.
Sabato 18 marzo, ore 15. All’Hotel Hilton di Roma si aprono i lavori del convegno che riunisce i “maestri venerabili” delle 496 logge della massoneria di palazzo Giustiniani. Licio Gelli, capo della P2, è il personaggio più riverito.
Ore 16. Al Viminale è riunito il comitato tecnico operativo. Il ministro Cossiga dà notizia della prossima approvazione di un decreto legge che dà mano libera alle forze di polizia per fermi, intercettazioni e interrogatori. Il capo del Sismi, generale Santovito, annunzia che è stato rafforzato il pattugliamento sul fronte iugoslavo.
Ore 21. A Milano vengono assassinati a freddo due giovani militanti di sinistra del circolo Leoncavallo, Fausto Tinelli e Lorenzo Jucci. L’agguato, che serve ad alimentare la tensione, è condotto in maniera che gli inquirenti definiranno “professionale”. Le indagini si fermeranno su un binario morto.
Lunedì 20 marzo, ore 10. Il sostituto procuratore Infelisi interroga Gianfranco Moreno. L’uomo era stato visto molti mesi prima del sequestro Moro nel giardino dell’abitazione del presidente della Dc, in via Savoia, ed era scappato quando si era accorto di essere osservato. La polizia lo aveva rintracciato e interrogato. Moreno aveva negato di essere mai stato in via Savoia, e la cosa era finita lì. Davanti a Infelisi Moreno cambia versione: sì, è stato effettivamente in via Savoia la sera in cui è stato notato; lo ha fatto per accompagnare un amico, Gerardo Serafino. Quest’ultimo risulterà essere un collaboratore dell’onorevole democristiano Gian Aldo Arnaud, amico di Gelli e iscritto alla P2. Moreno, inoltre, potrebbe aver frequentato la sede della “Radionica”, una società diretta da un ex nazista legato ai servizi segreti, tale Schuller. Nonostante questo anche la pista Moreno verrà presto abbandonata.
Mercoledì 22 marzo. Telefonate anonime minacciano Maria Cristina Rossi, giornalista dell’agenzia di stampa Asca. La Rossi entra nella storia del caso Moro per via di alcune fotografie scattate in via Fani ancora prima dell’arrivo della polizia. A farle, dal balcone di casa, è stato suo marito, Gherardo Nucci. Lo stesso pomeriggio del 16 marzo Maria Cristina Rossi, dopo aver fatto sviluppare il rullino, è andata da Infelisi per consegnarglielo: davanti a lei il magistrato ha preso i fotogrammi sulla strage restituendole gli altri. Quelle foto spariranno dalle carte del processo. Infelisi dirà dapprima di aver restituito le foto alla Rossi perché poco importanti; successivamente affermerà di non aver acquisito le foto perché “di nessun valore probatorio”. E’ probabile, invece, che quelle fotografie, le uniche scattate subito dopo la strage, potessero dire molte cose: forse esse ritraevano l’uomo brizzolato, sui cinquant’anni, in borghese, che arrivò subito sul luogo dell’eccidio dando ordini - secondo i testimoni - “come un poliziotto”. E che forse porterà via una delle cinque borse piene di documenti che Moro teneva sempre con se. Quell’uomo, si scoprirà soltanto nel 1991, è il colonnello Angelo Guglielmi, appartenente all’epoca al famigerato “Ufficio K” del Sismi, la centrale direttiva di“operazione Gladio”. “Mi trovavo in via Fani - disse poi Guglielmi - per puro caso”. Ecco cosa scriveva Steve Pieczenik nel 1978: “Sono sempre dell’opinione che il rapimento di Moro ha avuto un appoggio interno, come dimostra il fatto che la borsa più importante che Moro aveva con sé non si è ritrovata. Altre prove sono il fatto che il rapimento è avvenuto nell’unico giorno in cui Moro non si è recato in chiesa con il nipote, e che tutta l’operazione si è svolta in maniera estremamente ‘pulita’”. Nei giorni successivi alla strage circolò la voce che gli agenti della scorta di Moro, fossero rimasti inerti per qualche motivo molto particolare, come ad esempio il fatto di aver riconosciuto qualche volto noto tra gli assalitori. Ma la voce non trovò ovviamente conferma. Ma l’importanza di quelle foto è resa più chiara da una telefonata intercettata dalla polizia il primo maggio del 1978, otto giorni prima dell’uccisione di Moro. Al telefono ci sono Sereno Freato, segretario di Moro, e Benito Cazora, il deputato Dc incaricato in quelle settimane di “sondare” gli ambienti della malavita organizzata.
Cazora - “Mi servono le foto del 16 marzo”.
Freato - “Quelle del posto lì…”
C - Sì, perché loro … (qui il nastro è cancellato) pare che uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù”.
F - “E’ che non ci sono. Ah, le foto di quelli, dei nove?”.
C - “No, no. Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertirmi che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio noto a loro”.
F - “E’ un problema questo”.
C - “Per questo ieri ti avevo telefonato”.
F - “Come si può fare? Bisogna riflettere un momento, sentire, dire al ministro. Saran tante”.
C - Una copia, capito, può darsi che sia sui giornali del 16 o del 17 marzo”.
Nei giorni in cui si svolgeva quella telefonata Cazora stava intrattenendo rapporti con l’andrangheta calabrese in cerca di notizie utili. La presenza di uomini della malavita organizzata intorno al sequestro Moro è un altro dei “buchi neri” dell’inchiesta.
Martedì 28 marzo. Una telefonata anonima segnala all’Ucigos i nomi di cinque brigatisti che “abitano alla Prenestina e frequentano la casa della studentessa”. Tra essi c’è Teodoro Spadaccini, già condannato e in libertà vigilata. Individuarlo e pedinarlo sarebbe dunque facilissimo. Eppure, incredibilmente, l’Ucigos, diretto dal questore Fariello, quello del “piano Zero”, non trasmette subito quell’appunto alla Digos, come avrebbe dovuto. Lo fa soltanto il 29 aprile, trentadue giorni dopo la segnalazione anonima. Un ritardo fatale, perché dopo la segnalazione alla Digos bastano due giorni per organizzare il pedinamento di Spadaccini e risalire, grazie ad esso, alla tipografia di via Foà, impiantata e frequentata durante i giorni del sequestro Moro dall’uomo che dirige l’operazione Moro, Mario Moretti. L’irruzione nella tipografia avviene il 17 maggio, otto giorni dopo l’uccisione di Moro. All’interno la polizia trova una macchina stampatrice AB DIK 360 proveniente dal Rus (reparto unità speciali), uno degli uffici del Sismi - lo sappiamo solo adesso - da cui dipende “Operazione Gladio”. Con quella macchina le Brigate rosse stampavano i loro volantini durante il sequestro. A portarla nella tipografia, stabiliranno le indagini, era stato il solito Moretti. Richiesto di spiegazioni il Sismi rovescia su magistratura e commissioni d’inchiesta una valanga di bugie: il Rus sarebbe un ufficio di “sostegno al personale di leva in servizio” (falso) e la stampatrice sarebbe stata venduta come “rottame” dal colonnello del Sismi Federico Appel a suo cognato Renato Bruni, per trentamila lire. In realtà tra i “rottami” di cui il Sismi si è liberato in quegli anni non risulta esserci nessuna stampatrice. Inoltre la AB DIK 360 era stata comprata per dieci milioni e mezzo tre anni prima ed era ancora in ottime condizioni. Se la versione di Appel fosse vera egli dovrebbe almeno essere incriminato per peculato, cosa che non è accaduta. Ma tutta la versione del Sismi sui passaggi di mano della stampatrice fino alla tipografia delle Br risulterà inventata a tavolino. E Moretti, dal canto suo, non ha mai dato una spiegazione convincente della provenienza della macchina.
Mercoledì 29 marzo. Le Brigate Rosse diffondono ai giornali tre lettere di Aldo Moro indirizzate al suo principale collaboratore, Saverio Rana, alla moglie e al ministro Cossiga. “Io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato” scrive Moro; che avverte anche del “rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni”. A Cossiga Moro suggerisce i primi passi da fare per l’avvio di una trattativa. Il presidente della Dc è convinto - e le Br glielo hanno fatto credere - che le sue lettere resteranno riservate. Mentre vengono commissionate le perizie che devono stabilire se la calligrafia è quella del prigioniero, il presidente del Consiglio Andreotti mette le mani avanti: “Quale che sia il responso dei periti, la condizione di Moro è tale da togliere ogni validità morale agli scritti”.
Giovedì 30 marzo, ore 9. Il sostituto Infelisi rinvia l’annunciato sopralluogo in via Fani, per ricostruire l’agguato. Lui e gli altri investigato hanno lavorato tutta la notte sull’arrivo delle lettere delle Br. Quattordici giorni dopo la strage il magistrato che indaga non ha ancora visto la scena del delitto.
Ore 10. Appellandosi a un decreto legge introdotto apposta nove giorni prima, il ministro dell’Interno Cossiga chiede al procuratore Capo Giovanni De Matteo di trasmettergli una copia di tutti gli atti, comprese le eventuali registrazioni delle comunicazioni telefoniche, raccolte fino a quel momento nell’inchiesta sul sequestro Moro. La copia di atti e bobine richiesta da Cossiga diventerà importantissima nel momento in cui si scoprirà che molte registrazioni telefoniche sono scomparse o sono state cancellate da una misteriosa “manina”. Più volte richiesto dalla commissione di indagine su Moro di consegnare i documenti in suo possesso, l’allora ministro Cossiga non ha mai risposto. La vicenda è tornata d’attualità nel gennaio del 1992, grazie ad una lettera con cui il presidente della commissione Stragi Libero Gualtieri chiedeva al ministro dell’Interno Scotti di accertare se gli archivi del Viminale contenessero la famosa documentazione. La risposta di Scotti alimenta il mistero: “non risulta documentazione trasmessa dall’autorità giudiziaria”. Dunque: o De Matteo ha trasmesso quella documentazione e qualcuno (alias Cossiga) ha pensato bene di farla scomparire, oppure De Matteo non ha spedito nulla. In questo caso, però, in base alla legge il procuratore avrebbe dovuto motivare per iscritto, entro cinque giorni dalla richiesta di Cossiga, il suo rifiuto. E questo rifiuto non è agli atti. L’ottantenne De Matteo, intervistato dai giornali, spiega: “io non ricordo nulla di quelle vicende, ma è certo che se avessi rifiutato di consegnare i documenti avrei motivato la mia decisione per iscritto”. Ma la soluzione del giallo, in realtà, l’aveva data lo stesso Cossiga in maniera definitiva il 23 gennaio del 1980. Quel giorno, l’ex ministro dell’Interno venne ascoltato dalla commissione Moro. Ad una domanda dell’onorevole Stefano Rodotà sui suoi rapporti con la magistratura nei giorni del sequestro, Cossiga rispose: “Non ci furono conflitti, ci furono diversità di opinioni che poi si risolsero. Non vi fu mai un rifiuto alle richieste ufficiali”. Quella di avere la copia degli atti dell’inchiesta fu appunto una richiesta ufficiale, a cui tra l’altro Cossiga dava grande importanza, al punto da utilizzare un decreto legge introdotto appositamente appena nove giorni prima. Quindi le bobine gli furono consegnate. Resta da vedere che fine abbiano fatto, e perché Cossiga abbia sempre negato di averle. Le copie sono di decisiva importanza proprio perché gli originali non sono affidabili. Dagli uffici della Procura della Repubblica di Roma sono sparite ad esempio le bobine contenenti le intercettazioni compiute dal 27 aprile al 4 maggio sull’apparecchio di don Antonello Mennini, uno degli intermediari tra Moro o la sua famiglia. Altre volte le registrazioni risultano cancellate in parte, come nel caso di una telefonata tra Cossiga e un collaboratore di Moro, Nicola Rana; si parla della questione dell’auto blindata che Cossiga, secondo la famiglia Moro, avrebbe negato al loro congiunto poco prima del 16 marzo. Cossiga: “Scusa se ti disturbo, io ieri ho dovuto smentire… perché la ‘Nazione’, un certo Paglia che io non conosco… aveva detto che in sua presenza Moro mi aveva chiesto una macchina corazzata e che io gliel’avevo rifiutata”. Rana: “Eh!”. (Segue un fischio che cancella il seguito della registrazione). Molte interrogazioni sono state rivolte in questi anni al ministero della Giustizia sul perché di sparizioni e manomissioni. Il 14 maggio del 1986, il ministro Martinazzoli dispose sulla vicenda un’inchiesta ministeriale che si concluse il 30 luglio. Ma in quegli stessi giorni scoppiò la crisi del governo Craxi, e Martinazzoli fu l’unico ministro ad essere sostituito. Bisognò attendere un altro anno per avere una risposta dal nuovo ministro, Virginio Rognoni, il quale affermò che “…all’epoca dei fatti presso la procura della Repubblica di Roma non veniva compilato un apposito registro delle intercettazioni effettuate… Di conseguenza gli ispettori non hanno avuto a disposizione il parametro di raffronto certo tra le bobine a suo tempo incise e quelle oggi esistenti”.
CAPITOLO IV.
Lunedì 3 aprile, ore 5,30. La polizia irrompe in più di duecento appartamenti di Roma abitati da giovani di estrema sinistra, 129 persone finiscono nei cellulari e poi alla Digos, 41 vengono arrestate. Tra i fermati ci sono decine di persone del tutto estranee all’area dei fiancheggiatori e simpatizzanti delle Br. Si trascura invece di approfondire un rapporto del capo della Digos che indica Valerio Morucci e Adriana Faranda, i “postini” del sequestro Moro, come appartenenti alla colonna romana delle Br. “Il mancato seguito d’indagine sorprende per diversi motivi” scriverà la commissione d’inchiesta. Evidentemente gli inquirenti preferiscono pescare nel mucchio, alimentando tensioni e confusioni, piuttosto che seguire le piste più concrete.
Ore 12. Al Viminale il comitato tecnico operativo si riunisce per fare il punto della situazione. E’ l’ultima seduta della quale sono disponibili i verbali. Di tutto quello che verrà detto nelle riunioni successive la commissione parlamentare d’inchiesta e i magistrati non sono mai stati informati. Uno dei partecipanti, il senatore Mazzola, ha però affermato che i verbali venivano redatti. L’onorevole Lettieri, che in qualità di sottosegretario partecipò a quasi tutte le riunioni, ha fatto anche il nome del funzionario incaricato di verbalizzare, tale Pellizzi.
Martedì 4 aprile, ore 10. Mentre alla Camera Andreotti risponde a decine di interrogazioni sul sequestro Moro, arriva la notizia che le Br hanno recapitato il comunicato numero 4 e una lettera di Moro al segretario della Dc, Benigno Zaccagnini. La strategia annunciata nel documento è quella del massimo ricorso alla violenza per provocare il massimo di reazione di annullamento degli spazi democratici. Nella lettera a Zaccagnini, Moro chiede al suo partito di assumersi “le responsabilità che sono ad un tempo individuali e collettive”. Poi si rivolge al Pci, schierato contro ogni trattativa, il quale “non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del governo che m’ero tanto adoperato a costruire”. Come a sottolineare che la ragione del sequestro è proprio la politica d’intesa con i comunisti.
Mercoledì 5 aprile, ore 9. Un funzionario della Sip comunica alla Digos che non si è riusciti ad intercettare la telefonata al “Messaggero” con cui le Br annunziavano il comunicato numero 4. Cinque linee telefoniche erano andate in tilt proprio nel momento in cui i brigatisti telefonavano. Un episodio simile si verificò di nuovo il 2 maggio. Il comportamento della Sip durante tutto il sequestro è un altro dei punti male esplorati dalle varie inchieste succedutesi. Il dottor Domenico Spinella, capo della Digos, dichiarò in commissione di aver constatato “un atteggiamento di assoluta non collaborazione da parte della Sip, che ancora oggi dovrebbe essere perseguito dall’autorità giudiziaria”. La Sip dipendeva all’epoca dalla Stet, di cui era amministratore delegato Michele Principe, iscritto alla loggia P2.
Lunedì 10 aprile, ore 10. Con le solite telefonate ai giornali di Roma, Milano, Torino e Genova le Br rendono pubblico il comunicato numero 5. Vi si legge che l’interrogatorio del prigioniero prosegue, e si sta centrando “sulle trame sanguinarie e terroristiche che si sono dipanate nel nostro paese… L’informazione e la memoria di Aldo Moro non fanno certo difetto ora che deve rispondere davanti al tribunale del popolo mentre confermiamo che tutto verrà reso noto al popolo e al movimento rivoluzionario che saprà utilizzarlo opportunamente, anticipando le dichiarazioni che il prigioniero Moro sta facendo, quella imparziale e incompleta che riguarda il terrorista di Stato Emilio Taviani”. La minaccia delle Br di utilizzare i segreti inconfessabili del potere democristiano non verrà mai mantenuta. Soltanto nell’ottobre del 1990, grazie alla scoperta degli originali del memoriale Moro, in via Montenevoso a Milano, sapremo di quali micidiali ordigni Moro aveva fornito le Br: l’esistenza di Gladio, l’ammissione dell’uso della strategia della tensione in rapporto con i servizi segreti d’oltreconfine, i giudizi pesantissimi, sia dal punto di vista umano che politico, su Andreotti e Cossiga. In quel 1978 le Br hanno in mano la santabarbara che potrebbe far esplodere il cuore segreto e inconfessabile della Dc. “Non ci eravamo resi conto della portata di quelle rivelazioni”, dirà Prospero Gallinari, uno dei registi del sequestro. “Tale incomprensibile comportamento omissivo da parte delle Br - scrivono i giudici che hanno archiviato l’inchiesta sulla scoperta delle carte di via Montenevoso - poteva e può consentire l’ipotesi di un utilizzo delle stesse da parte di “centri” esterni, di qualsivoglia genere, operanti, se del caso, in un più ampio e composito scenario internazionale. E, evidentemente, non in sintonia con le prospettive politiche che erano proprie delle scelte di Moro”.
Martedì 11 aprile, ore 8. A Torino viene ucciso dalle Br l’agente di custodia Lorenzo Cotugno, uno dei tanti ragazzi del sud sbarcati a Torino in cerca di fortuna. Ferito e arrestato il terrorista Cristoforo Piancone. I giornali pubblicano la notizia secondo cui un democristiano genovese già gambizzato dalle Br, Filippo Peschiera, sarebbe stato incaricato di avviare una trattativa con le Br. Ma si tratta probabilmente di una delle notizie false che il ministero dell’Interno divulga, seguendo le direttive del “consigliere” americano Steve Pieczenik. Scrive infatti l’esperto: “E’ importante che la stampa riceva ogni giorno un pacchetto controllato di notizie. Il governo deve esercitare un attento controllo su tutte le notizie fornite agli organi di diffusione con il preciso intento di diminuire l’intensità del “caso Moro” e di manovrare una strategia che offra al governo la massima flessibilità tattica. La strategia del temporeggiamento deve essere presentata in maniera da far ritenere che il governo ha già studiato piani alternativi di vario genere ma che la loro attuazione richiede del tempo. Ovviamente la stampa non ne sarebbe soddisfatta e sfornerebbe una serie di notizie erronee. Ciò però è sempre di gran lunga meglio che non avere il controllo delle notizie”.
Giovedì 12 aprile, ore 8. La polizia perquisisce tutte le abitazioni del numero 10 di via Bonucci, a Roma. A poche decine di metri c’è via Montalcini, dove al numero 8 c’è un covo delle Br. Forse si tratta di una delle “prigioni” di Moro.
Ore 11. Il presidente del Consiglio Andreotti riceve il procuratore capo De Matteo. Il magistrato è favorevole a mettere una taglia sulla testa dei brigatisti. Andreotti obietta che questo potrebbe mettere in pericolo la vita di Moro.
Sabato 15 aprile, ore 11. A Genova, Milano, Torino e Roma viene fatto trovare il comunicato numero 6. E’ la sentenza del “processo” popolare: “Aldo Moro è colpevole e perciò viene condannato a morte”. Il resto del comunicato è un balletto di contraddizioni: “Non ci sono segreti che riguardano la Dc, non ci sono quindi clamorose rivelazioni da fare”. E subito dopo: “L’interrogatorio ad Aldo Moro ha rivelato le turpi complicità del regime, ha additato con fatti e nomi i veri e nascosti responsabili delle pagine più sanguinose della storia degli ultimi anni, ha messo a nudo gli intrighi di potere, le omertà che hanno coperto gli assassini di Stato, ha indicato l’intreccio degli interessi personali, delle corruzioni, delle clientele che lega in modo indissolubile i vari personaggi della putrida cosca democristiana e questi (nessuno si stupirà) agli altri dei partiti loro complici”. Tutte queste informazioni, scrivono le Br, “saranno rese note attraverso la stampa e i mezzi di divulgazione clandestina, perché la stampa del regime è sempre al servizio del nemico di classe”. In realtà la stampa clandestina non pubblicherà nulla sul processo a Moro. Per la seconda volta le Br non mantengono la promessa; la prima era stata quando avevano scritto che tutto quanto detto da Moro sarebbe stato reso noto al “popolo”.
Ore 9,25. Una telefonata anonima alla redazione del “Messaggero” annuncia che in piazza Belli ci sono due messaggi delle Br. II tecnico della Sip incaricato dell’intercettazione non riesce a stabilire da dove venga la telefonata perché la linea cade nel momento decisivo. Il giornalista del quotidiano romano che corre in piazza Belli trova una sola busta, contenente il comunicato numero 7. Vi si annuncia che Moro è stato giustiziato “mediante suicidio”, e che il corpo si trova in fondo al lago della Duchessa, nei dintorni di Rieti. In quelle stesse ore avviene la “scoperta” del covo di via Gradoli.
Ore 10. Iniziano le ricerche del cadavere di Aldo Moro tra i ghiacci del lago della Duchessa. Ma Giannino Guiso, avvocato dei brigatisti, anticipa tutti definendo il comunicato numero 7 “una provocazione del Viminale”. Si accerterà in seguito che a scrivere quel comunicato fu Tony Chicchiarelli, un pregiudicato appartenente alla “banda della Magliana”, un gruppo di criminali comuni in contatto con elementi della P2, con gli estremisti di destra e di sinistra e con i servizi segreti. Ma chi mise in campo Chicchiarelli? Qualcuno ha fatto notare una strana coincidenza: pochi giorni prima di quel 18 aprile l’allora magistrato Claudio Vitalone suggerì al ministro dell’Interno Cossiga “una contromossa per non lasciare i brigatisti padroni della partita”. “Cossiga approvò la proposta - racconta Vitalone - e quando uscì il comunicato del lago della Duchessa io trasalii perché mi parve proprio l’applicazione tardiva del mio suggerimento, ma realizzata male perché mancava il preventivo rapporto all’autorità giudiziaria”. Fu il ministro Cossiga, da cui dipendevano i servizi segreti, a organizzare quel depistaggio? E perché l’incarico venne dato proprio a Tony Chicchiarelli, un uomo ambiguo, che sembra sapere molto sui sequestratori di Moro? In casa sua verranno trovati due spezzoni di foto scattate a Moro nella prigione brigatista. Con alcuni amici Chicchiarelli si era addirittura vantato di essere stato lui a scattare la famosa foto di Moro con un giornale in mano con un drappo delle Br sullo sfondo. E ancora: chi diede l’ordine, qualche anno dopo, di eliminare Chicchiarelli, testimone scomodo dei segreti del caso Moro?
Milano, Giovedì 20 aprile, ore 9. La colonna Br Walter Alasia uccide il maresciallo Franco De Cataldo, agente di custodia a San Vittore.
Roma, Ore 12,10. Le Br fanno ritrovare il comunicato numero 7, stavolta autentico, con una foto di Aldo Moro ritratto con in mano una copia della “Repubblica” del 19 aprile. E’ la prova che il prigioniero è vivo. Si sviluppa tra i partiti la polemica sulla “trattativa”. In realtà, si scoprirà poi, quel furioso contrasto - che divise l’opinione pubblica - coprì la sostanza vera del problema: lo Stato era o no impegnato a cercare la prigione di Moro per liberarlo?
Venerdì 21 aprile, ore 11. Al termine della riunione della segreteria, la Dc fa leggere al deputato Giuseppe Pisanu un comunicato. Il partito riafferma “la propria indefettibile fedeltà alle Stato democratico, alle sue istituzioni, alle sue leggi”. Ma ciononostante ritiene che una organizzazione come la Caritas internazionale è autorizzata ad esplorare le possibili vie di una trattativa con le Br. Vale la pena ancora una volta di rileggere i “consigli” di Pieczenik a Cossiga: “Cercare di trovare un intermediario indipendente, scelto dal governo, che agisca a nome di organismi umanitari… Egli deve esplorare altre opzioni diverse dallo scambio e cercare di guadagnare tempo. Come elemento base offrire la vita dei brigatisti in cambio di quella di Moro. Tenersi pronti a sconfessarlo”.
Ore 16. In consiglio dei ministri Cossiga informa i colleghi sugli ultimi sviluppi delle indagini: assicura la massima collaborazione di forze dell’ordine e magistratura. In realtà le indagini sono ferme al punto di partenza.
Sabato 22 aprile, ore 12,30. L’ “Osservatore Romano” riporta in prima pagina una lettera del Papa alle Br. L’appello agli “uomini delle Brigate Rosse” commuove gli italiani. La Dc lo accoglie con “commosso ringraziamento”. Meno commossa è la signora Eleonora Moro: il Papa, infatti, chiede la liberazione di Moro “semplicemente, senza condizioni”. Secondo i familiari del sequestrato il pontefice avrebbe voluto fare di più, ma ha subito forti pressioni in senso contrario.
Ore 22,05. Da mezz’ora la polizia ha messo sotto controllo il telefono di Don Antonello Mennini, un parroco di cui Moro si è già servito dalla prigione per recapitare lettere riservate. Al numero del prete arriva una telefonata.
Uomo - “Lello?”.
Don Mennini - “Sì”
U - “Si é fatto tutto quello che si poteva fare, cara primula rossa. Adesso è pericoloso”.
A questo punto avviene un fatto che ha dell’incredibile: l’agente che intercetta la telefonata, Giorgio Felli, si inserisce ripetendo le parole “si è fatto quello che si è potuto”. Tanto basta perché il prete e il suo interlocutore capiscano di essere intercettati e interrompano la conversazione. L’agente Felli spiegherà di aver commesso un errore tecnico. Ma l’apparecchio che usa, un Ghr 4000, non ha tasti che premuti per errore possano causare il pasticcio di cui Felli è stato protagonista. Inoltre Felli, nel tenere sotto controllo il telefono di don Mennini, continuerà a dimenticarsi di trascrivere i numeri telefonici dei suoi interlocutori. E ancora: dal processo sono scomparse tutte le intercettazioni dal 24 aprile al 4 maggio. Dalle manomissioni si è invece salvata la registrazione del 9 maggio, il giorno del ritrovamento del cadavere di Moro. Un monsignore chiede di don Mennini e gli dice: “L’hanno ammazzato” e poi “ho da dirti dei segreti”. L’agente Felli ancora una volta dimentica di individuare il chiamante. E fa lo stesso il giorno dopo, quando Don Mennini parla con un altro monsignore e gli dice che si sarebbe potuto fare qualcosa perché “la segreteria sapeva di quel nome”.
Lunedì 24 aprile, ore 10. Le Br depositano con le solite modalità una lettera di Moro a Zaccagnini e il comunicato numero 8, che contiene i termini di una eventuale trattativa. E’ una lista di tredici detenuti da liberare in cambio della vita del presidente della Dc. La lettera di Moro a Zaccagnini, dal canto suo, contiene questa frase: “Per una evidente incompatibilità chiedo che ai miei funerali non partecipino autorità dello Stato, né uomini di partito perché non degni di accompagnarmi con la loro preghiera e il loro amore”.
Martedì 25 aprile. Il settimanale “Panorama” scrive che “potenti gruppi di pressione politici, economici, militari, stanno cercando di convincere il presidente Jimmy Carter che, dopo il rapimento Moro, la situazione in Italia sta precipitando”. Tra i notabili della destra americana la rivista cita Kissinger e Michael Ledeen, uno strano personaggio che ha buoni agganci nei nostri servizi segreti piduisti e intrattiene cordiali rapporti col ministro Cossiga.
Mercoledì 26 aprile, ore
9.
L’ex presidente
della regione Lazio, Girolamo Mechelli, viene ferito alle gambe mentre esce da
casa. Il giorno dopo a Torino toccherà a Sergio Palmieri, addetto alle relazioni
sindacali della Fiat.
Iniziano i contatti tra esponenti del Psi e simpatizzanti delle Br. Viene
stabilito un contatto con Valerio Morucci attraverso Franco Piperno e Lanfranco
Pace. Quest’ultimo era tra le persone fermate per alcuni giorni dopo la
maxi-retata del 3 aprile. Nonostante sia ufficialmente nel mirino della polizia
egli sarà libero di incontrarsi a più riprese in quei giorni con Morucci e la
Faranda in una Roma che sembra in stato d’assedio.
Sabato 29 aprile. Undici lettere di Aldo Moro partono dal carcere delle Br, indirizzate a uomini politici. Da una di esse prende spunto l’ennesimo “giallo” del caso Moro. Si tratta di quella indirizzata all’onorevole Dell’Andro. Attraverso canali sotterranei Moro la fa avere al solito don Mennini, accompagnandola con un biglietto che contiene meticolose e del tutto superflue indicazioni per rintracciare Dell’Andro; eccole: “On. Renato Dell’Andro: può essere all’albergo Minerva (mi pare proprio che si chiami così, proprio di fronte alla chiesa) o al ministero della Giustizia, o infine alla sede del gruppo Dc a Montecitorio. Se per dannata ipotesi avessi sbagliato il nome dell’albergo sappi che i due alberghi sono così”. A questo punto Moro traccia sul foglio un rettangolo che raffigura piazza della Minerva con due edifici su angoli opposti. Ma non si tratta, come sarebbe logico, dei due alberghi citati nel messaggio; uno dei due, infatti, è la chiesa della Minerva, a cui Moro non ha minimamente accennato. La chiesa della Minerva, in compenso, è assiduamente frequentata da padre Felix Morlion, un domenicano legato ai servizi segreti francesi, belgi e soprattutto americani. In Italia Morlion ha messo in piedi una rete di spionaggio che, stando ad un documento riservato acquisto dalla commissione Stragi, produce un rapporto quotidiano sulla situazione politica, “in soli dodici esemplari”, che viene trasmesso “ad altissime personalità e ai dirigenti dei servizi collegati”. Di Morlion e dei suoi presunti rapporti con Ali Agca, il mancato killer di papa Giovanni Paolo II, si stanno già occupando i magistrati romani. Sulla possibilità che Moro si servisse delle lettere per mandare messaggi in codice, ha molto insistito suo fratello, Alfredo Carlo. “Mi sembra di poter sostenere - ha sostenuto egli di fronte alla commissione Stragi nell’ottobre del 1990, dopo aver letto la documentazione ritrovata in via Montenevoso - che da varie lettere, ovviamente tra le righe, emerge il tentativo di far percepire all’esterno che la situazione doveva essere assai più complessa di un mero rapimento da parte di un piccolo nucleo di terroristi”. In una lettera, fa notare Alfredo Moro, il fratello, a proposito del sequestro, parla di “un ordine brutale partito chi sa da chi”.
Domenica 30 aprile, ore 11. In casa Moro squilla il telefono. E’ Mario Moretti, l’uomo che ha in mano la gestione del sequestro Moro. Parla con Maria Fida, figlia del presidente della Dc. Comunica che “la decisione è stata già presa”, e che solo “un intervento di Zaccagnini, immediato e chiarificatore”, può modificare la situazione.
Lunedì primo maggio. In tutta Italia milioni di lavoratori scendono in piazza contro il terrorismo. Enrico Berlinguer e Alessandro Natta incontrano Andreotti e protestano per l’inefficacia delle indagini: “Non si scopre nulla - accusa il segretario del Pci - e non si seguono le mosse di quanti, nella clandestinità, prendono contatti con familiari e avvocati”. Quasi in risposta a queste parole il procuratore generale di Roma, Pietro Pascalino, dispone l’avocazione dell’inchiesta “per ragioni di opportunità”. Un solo sostituto procuratore, Luciano Infelisi, ha condotto fino a quel momento le indagini. Qualcuno ricorda che poco tempo prima, per indagare sullo scandalo del calcio-scommesse, era stato creato un “pool” di magistrati. Non solo: il ruolo della Procura è chiaramente subordinato a quello del ministero dell’Interno. Al punto che Infelisi riceveva da Cossiga con parecchi giorni di ritardo le lettere spedite da Moro.
CAPITOLO V.
Martedì 2 maggio. Sulla rivista O.P. Carmine Pecorelli, un giornalista iscritto alla P2 e portavoce di alcuni settori dei servizi segreti, definisce l’agguato di via Fani: “Il segno di un lucido superpotere”. Per Pecorelli “le Br non rappresentano il motore principale del missile, esse agiscono come motorino per la correzione di rotta dell’astronave Italia”. Per alcuni dei terroristi egli prevede “trattamenti di favore quando la pacificazione nazionale sarà compiuta”. Pecorelli mostra di sapere molte cose sul caso Moro, forse troppe. Al punto che i magistrati impegnati nel quarto processo Moro rileggeranno con attenzione tutte le vecchie annate di O.P., alla ricerca di nuovi spunti di indagine. Parecchio tempo prima dell’agguato di via Fani Pecorelli già scrive su “Moro…Bondo”, fa un oroscopo in cui prevede per il politico democristiano la morte dopo una lunga detenzione: commissiona e pubblica una vignetta in cui Moro ha falce e martello appuntati sul petto; sembra conoscere fin dall’inizio i retroscena: “Il cervello direttivo che ha organizzato la cattura di Moro - scrive Pecorelli dopo il sequestro - non ha niente a che vedere con le Brigate Rosse tradizionali. Il commando di via Fani esprime in forma desueta ma efficace la nuova strategia politica italiana. Curcio e compagni non hanno nulla a che vedere con il grande fatto tecnicistico politico del sequestro Moro”. E ancora: “Il caso Lockheed e l’agguato di via Fani sono due episodi di stabilizzazione ad altissimo livello, episodi di solito trattati dalle reti internazionali dello spionaggio”. Il 23 maggio del 1978, sul primo numero dopo l’uccisione di Moro, O.P. pubblicò una sibillina cronaca del ritrovamento del cadavere: Pecorelli si soffermò sul muro al quale era addossata la Renault rossa: “Dietro ci sono i ruderi del teatro di Balbo, il terzo anfiteatro di Roma; ho letto in un libro che a quel tempo gli schiavi fuggiaschi e i prigionieri vi venivano condotti perché si massacrassero tra di loro. Chissà cosa c’era nel destino di Moro perché la sua morte venisse scoperta proprio contro quel muro? Il sangue di allora e il sangue di oggi”. Quell’accenno a schiavi e prigionieri che combattono nell’arena, piazzato nel mezzo di un articolo che parlava d’altro era allora incomprensibile. Diventò trasparente dopo la scoperta di Gladio. Chi altri, se non i gladiatori, “combattono nell’arena” tra di loro? O.P. è anche il solo giornale a scrivere dei rapporti tra criminalità organizzata e Br intorno al sequestro: la magistratura inizierà ad occuparsene molti anni dopo. Scriveva Pecorelli nel numero del 17 ottobre 1978, alcuni mesi dopo l’uccisione del presidente della Dc: “Il ministro di polizia (Cossiga, N.d.R.) sapeva tutto, sapeva persino dove era tenuto prigioniero Moro, dalle parti del ghetto… perché un generale dei carabinieri era andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza”. Continuava Pecorelli: “Il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto… magari fino alla loggia di Cristo in paradiso (la massoneria, N.d.R.)”. Ed ecco, sempre secondo Pecorelli, la risposta di Cossiga al generale dei carabinieri: “Abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso ad un carabiniere parte un colpo e uccide Moro, oppure i terroristi lo ammazzano, chi se la prende la responsabilità?”. Il fatto che le forze dell’ordine avessero individuato la prigione di Moro durante i giorni del sequestro ha avuto, nel corso di questi anni, diverse conferme: l’ultima, a sorpresa, dallo stesso Cossiga: il 10 giugno scorso 1991, poco dopo la riesumazione delle rivelazioni di Pecorelli fatta da “Avvenimenti”, il presidente rivelò che reparti speciali degli incursori della Marina erano stati sul punto di intervenire “dove si era convinti di aver trovato la prigione di Moro”; Cossiga parlò anche di un ufficiale medico che si era offerto “per fare scudo a Moro col suo corpo durante l’assalto alla prigione Br”. Cossiga, ascoltato a lungo dalla commissione di indagine sul sequestro Moro nel maggio del 1980, non aveva parlato di questo e di altri episodi. L’“eroico” ufficiale medico citato da Cossiga è Decimo Garau, istruttore di Gladio, che al giudice di Venezia Carlo Mastelloni ha confermato le rivelazioni di Cossiga; Garau ha anche detto che il reparto incaricato di liberare Moro si allenò nei giorni del sequestro all’interno della caserma del Rud (Raggruppamento Unità Difesa) di Cerveteri; che è, come si è poi scoperto, il centro di addestramento degli uomini della specialissima e segreta “sezione K” del Sismi. C’è anche una coincidenza impressionante: Garau e i suoi si addestravano tra i casolari della Tolfa, a nord di Cerveteri; nelle suole delle scarpe di Aldo Moro i periti hanno trovato terra proveniente proprio dalla zona della Tolfa. E ancora: “gli incursori si esercitavano in operazioni di esfiltrazione” immaginando che il sequestrato venisse rinchiuso in una cassa; si tratta proprio del metodo usato dai brigatisti per trasportare Moro nel loro covo subito dopo il sequestro. Si ricorderà che il colonnello Guglielmi, l’uomo che ritroviamo “casualmente” la mattina del 16 marzo 1978 a poche decine di metri dal luogo in cui viene sequestrato il presidente della Dc, apparteneva alla “sezione K”. Pecorelli, l’uomo dei misteri, venne ucciso nel novembre del 1979 da un killer mai identificato. Due mesi prima aveva scritto: “Torneremo a parlare di questo argomento (il caso Moro, N.d.R.), del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbotto azzurro visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite all’operazione, del prete contattato dalle Br, della intempestiva lettera di Paolo (il papa, N.d.R.), del passo carraio al centro di Roma, delle trattative intercorse”. Tra le cose a cui accenna Pecorelli alcune non sono mai entrate nelle indagini. Si tratta probabilmente di quella “zona d’ombra” del caso Moro conosciuta solo da pochissimi di coloro che allora ebbero un ruolo nella vicenda. Tra le molte carte sparite ci sono anche quelle di Pecorelli: secondo una nota inviata alla commissione Moro dal comando generale dei carabinieri molto materiale venne sequestrato in casa e nell’ufficio del giornalista dopo la sua morte. Ma nessuno è in grado di dire che fine abbia fatto.
Mercoledì 3 maggio, ore 17. In piazza Barberini, sotto un bel sole, Mario Moretti incontra Morucci e la Faranda e comunica loro la decisione di uccidere Moro. I due sono contrari, ma non c’è più nulla da fare.
Venerdì 5 maggio, ore 10. Le Br diffondono il comunicato numero 9: “A parole non abbiamo più niente da dire alla Dc… Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato”.
Lunedì 8 maggio, ore 11. Un brigatista telefona a un parroco della Val di Susa e gli chiede di riferire ad Eleonora Moro che “Il mandarino è marcio”. E’ l’anagramma della frase “il cane morirà domani”.
Martedì 9 maggio, ore 10. Il cadavere di Aldo Moro viene lasciato dai brigatisti nel cofano di una Renault 4 rossa, in via Caetani, a uguale distanza dalle sedi della Dc e del Pci (*). Il presidente della Dc è stato ucciso, dopo che i brigatisti gli hanno ordinato di rannicchiarsi nel portabagagli dell’auto, da una raffica di pistola mitragliatrice Skorpion al petto e da due colpi di una pistola calibro 9. L’esecuzione materiale è stata attribuita in diversi processi a Prospero Gallinari, ma esistono dei dubbi sul fatto che sia stato realmente lui a sparare. E’ solo l’ultimo dei misteri del caso Moro: a distanza di quattordici anni e di quattro processi non ci sono certezze su nulla di ciò che riguardi il più traumatico omicidio della storia italiana del dopoguerra. Anche per questo, all’ombra del caso Moro, si gioca ancora oggi una partita dai contorni non sempre decifrabili.(*) In realtà questo passaggio del racconto contiene un’imprecisione: magrado per anni i cronisti abbiano riportato l’aneddoto del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in un luogo che si trovava ad eguale distanza tra le sedi del Pci e della Dc, come si evince dalla piantina allegata, ciò non risponde a verità: via Caetani non è affatto equidistante da via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. Resta comunque nelle vicinanze di entrambe (motivo per cui, probabilmente, dal punto di vista giornalistico, la dicitura “nei pressi” è risultata meno accattivante di “equidistante”), ma risulta più vicina alla prima (della quale è una traversa) che alla seconda. In ogni caso, per arrivare a via Caetani partendo da Piazza del Gesù e facendo tappa forzata in via delle Botteghe Oscure, si percorrono a piedi in totale solo 204 metri (N.d. Gianluca Neri).
CAPITOLO VI.
Il 23 maggio del 1980 Francesco Cossiga fu interrogato dalla commissione d’inchiesta sul caso Moro. Da alcuni mesi era presidente del Consiglio. Dimessosi all’indomani della conclusione tragica della vicenda Moro (da lui seguita nel ruolo-chiave di ministro dell’Interno) era rapidamente tornato al vertice del potere, alla guida di un governo comprendente, dopo molti anni, anche il Psi. Quando Cossiga depose, ancora molti particolari sulle indagini durante i 55 giorni del rapimento non erano noti. Furono scoperti in seguito, dalla magistratura o dalla stessa commissione parlamentare. Ma Cossiga, certamente, sapeva tutto, visto che era stato il massimo responsabile delle ricerche. Eppure su molti punti non disse la verità alla commissione. Siamo andati a rileggere il verbale dell’interrogatorio. Ecco le più clamorose inesattezze (ma più congruamente possono essere definite affermazioni false) contenute nella deposizione di Francesco Cossiga.
“QUALCOSA STA PER ACCADERE”. “Per quanto mi consta, ed ho fiducioso motivo di ritenere che tutto mi consti a questo riguardo, non risulta pervenuta alle autorità di governo, né agli organi di polizia, né ai servizi di informazione e di sicurezza, in via preventiva, alcuna notizia informativa su azioni terroristiche o che potessero far pensare in qualche modo alla preparazione di azioni terroristiche”. Falso. Nella risoluzione strategica numero 4 delle Br veniva data ai militanti la specifica direttiva di colpire gli uomini del potere democristiano “a partire dagli organismi centrali” (Moro era presidente della Dc). Inoltre altre fonti hanno rivelato il seguente episodio. Alla questura di Roma era giunto tre mesi prima dell’agguato un avvertimento preciso e giudicato dagli esperti molto credibile: “Si sta concretamente preparando l’irlandizzazione di Roma” (Cossiga farà spesso riferimento, nella sua deposizione, al “modello irlandese” di terrorismo). La questura trasmise subito l’appunto al capo della polizia, che ne informò direttamente Cossiga. Riferisce la fonte: “Cossiga fu talmente preoccupato dalla minaccia contenuta nel messaggio da mettersi le mani nei capelli”. Infine: il 6 marzo era pervenuta al Sismi (tramite la branca dei servizi operante nelle carceri, diretta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) la segnalazione, da parte di un detenuto nel carcere di Campobasso, che “ci sarà un altro attentato a grossa personalità di Roma”.
PERCHE’ SENZA AUTO BLINDATA? “Se debbo dare un giudizio ex post, la protezione dell’onorevole Moro era insufficiente, ma se debbo dare un giudizio rispetto all’epoca, debbo dire che la protezione era secondo gli standards comuni”. Falso. E’ stato appurato che in quello stesso periodo personaggi di minor rilievo e responsabilità dell’onorevole Moro avevano un’auto blindata, fornita dal ministero. Moro no.
LA VETTURA DI ANDREOTTI. “Nel 1978 il presidente del Consiglio dei ministri in carica, onorevole Andreotti, non usava l’auto blindata, pur avendone la disponibilità”. Falso. Alcuni anni dopo sono stati gli stessi brigatisti a dichiarare che, nella fase preparatoria del rapimento, rinunciarono al sequestro di Andreotti proprio perché egli era “più protetto” grazie anche all’auto blindata.
MA I FAMILIARI ERANO IN ALLARME. “A quanto mi consta, nell’autorimessa della Presidenza del Consiglio esisteva un’autovettura blindata, esattamente una “130”, e quindi, se fosse stata richiesta, avrebbe potuto essere messa a disposizione; non solo, ma se fosse stata richiesta al ministero dell’Interno, non vi sarebbe stato nessun motivo per non mettere a disposizione questa autovettura… data la confidenza che l’onorevole Moro aveva con me; devo dire che la macchina me l’avrebbe senz’altro chiesta e, se l’avesse chiesta, gli sarebbe stata data senza difficoltà. E non aggiungo altro”. Falso. I familiari dell’on. Moro e le signore Ricci e Leonardi, mogli di due uomini della scorta, hanno dichiarato che l’auto era stata chiesta al ministero, anche perché attorno a Moro erano stati notati strani movimenti e strani personaggi. In particolare il maresciallo Leonardi era “fuori dalla grazia di Dio” perché sapeva che era stata segnalata la presenza di “brigatisti non di Roma”. Su allarmi e minacce Leonardi fece rapporto al Comando generale dei Carabinieri.
APPENDICE.
«CHI NASCONDE LA VERITÀ» Intervista di Michele Gambino a Sergio Flamigni. Le tagliatelle di casa Flamigni sono buone come sempre. Piazzato tra la bottiglia del vino e il pane, il registratore continua a incidere la cadenza romagnola del padrone di casa: «Perché vedi, in via Montenevoso…». La moglie sorride, allarga le braccia: «Sergio, almeno a tavola cambia discorso», ma poi non si perde una parola. Alle nostre spalle c’è un grande tavolo ingombro di documenti, ritagli di giornali, verbali di polizia. Sono i materiali grezzi da cui Sergio Flamigni, ex senatore comunista, membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ricava da quindici anni, le analisi e le scoperte che tanto fanno infuriare il senatore Francesco Cossiga - «quel poveretto di Flamigni» - e per altri versi una parte della sinistra italiana, alcuni ex brigatisti compresi. E che costringono i Servizi segreti a tenere discretamente sotto osservazione la villetta di Flamigni a Oriolo Romano, quaranta chilometri a nord di Roma, e soprattutto il suo telefono.
«Degli insulti di Cossiga non mi preoccupo. A me, uomo di sinistra, fanno male piuttosto gli attacchi e di una parte della sinistra, preoccupata più di difendere l’identità del fenomeno brigatista che di guardare i fatti».
Ecco, parliamo dei fatti…
«Prima, se permetti, vorrei sgombrare il campo da un equivoco a cui mi hanno crocefisso: io sono convinto che le brigate rosse siano state un fenomeno autonomo, con una sua dimensione storica e forti legami nelle fabbriche e nella società. E che attorno a loro, in un certo periodo, si siano sviluppate ampie aree di fiancheggiamento: l’Autonomia, Potere operaio…»
Questo è innegabile.
«Certo. Eppure mi dipingono come il dietrologo di professione, uno convinto che le Br fossero una emanazione della Cia e dei Servizi segreti italiani. Io invece dico solo che nel Paese di Gladio, della P2, delle deviazioni, della strategia della tensione svolta in funziona stabilizzante, nessuno può garantire che queste strutture occulte non abbiano approfittato del fenomeno brigatista. È difficile sostenere, come fanno i brigatisti, che nel periodo successivo all’arresto di Curcio le Br non abbiano avuto infiltrati nel loro gruppo. Basta pensare a un personaggio come Federico Umberto D’Amato, piduista, ex capo della divisione affari riservati del Viminale, poi consulente dei ministri dell’Interno, uomo con solidi legami negli ambienti dei Servizi segreti internazionali. Lui nel ‘74 all’epoca del sequestro Sossi, disse: «noi i brigatisti li conosciamo tutti uno per uno», e fu questa imprudente dichiarazione a costargli la direzione degli affari riservati».
Fu lui, tra l’altro, uno dei fondatori del club di Berna.
«Si, questo circolo in cui i capi dei Servizi di tutta Europa si riunivano periodicamente proprio per studiare le tecniche di infiltrazione nei movimenti studenteschi. E poi basta leggere le dichiarazioni recenti di William Colby, ex capo della Cia, il quale spiega che l’infiltrazione è il metodo naturale di lotta al terrorismo; o del generale dei carabinieri Nicola Bozzo, un grande esperto di lotta al terrorismo, che ha raccontato di come alcuni militari si iscrivessero all’Università, mimetizzandosi al punto da laurearsi».
Da un lato ci sono i brigatisti, o molti di loro, che negano qualsiasi infiltrazione. Dall’altro c’è un ufficiale, il generale Delfino, accusato di aver piazzato nelle Br un mafioso calabrese, Antonio Nirta, che invece di collaborare con le autorità avrebbe addirittura partecipato al sequestro di Moro. Un bel corto circuito…
«È possibile che i brigatisti siano in buona fede quando affermano di non aver subito infiltrazioni. Sono sicuro, anzi, che la maggior parte di essi non si sono resi conto di molte delle cose che accadevano. Io sono convinto che gente come Azzolini, Bonisoli, la Mantovani, Gallinari e probabilmente lo stesso Moretti credessero davvero di fare la rivoluzione. Ma mentre gli uomini della prima fase brigatista, come Franceschini, ammettono ad esempio, di aver avuto rapporti con i Servizi israeliani, o considerano la possibilità di essere stati strumentalizzati inconsapevolmente, quelli della seconda leva assumono un atteggiamento incomprensibile, di totale chiusura. In nome della loro purezza finiscono per coprire gravissime responsabilità di organi e uomini delle istituzioni nelle manovre che certamente vi furono intorno al caso Moro».
Nell’elenco di brigatisti in buona fede che hai appena fatto manca il nome di Valerio Morucci. Non sembra una omissione casuale.
«Non ho elementi per accusare nessuno in particolare. Su Morucci è intervenuto di recente Franceschini, il quale afferma - sulla base di sue conoscenze - che Morucci dietro la qualifica di dissociato ha agito in realtà come un pentito. Inoltre non è un mistero che la sua entrata nelle Br non fu delle più semplici: Morucci nasce come membro del servizio d’ordine di Potere Operaio, poi si dedica all’introduzione di armi e ordigni dalla Svizzera. Nel novembre del ‘72 viene arrestato ma dopo un mese e di nuovo in libertà. È noto che la rapidità di questa scarcerazione insospettì i vertici brigatisti di allora, e infatti la richiesta di ingresso nella organizzazione di Morucci venne accolta soltanto quattro anni dopo nel ‘76 da Mario Moretti».
Un altro capitolo oscuro è senza dubbio quello delle rivelazioni di Morucci: dalle prime affermazioni, poi ritrattate, alla storia del memoriale fatto arrivare a Cossiga, fino alle ultime rivelazioni.
«Andiamo con ordine: Morucci disse durante i primi interrogatori che i partecipanti all’azione erano stati dodici, e forse di più. Poi scese a nove; in entrambi i casi, coerentemente con la sua posizione di dissociato, si rifiutò di fare nomi. Nel 1990 salta fuori la storia del memoriale. Morucci lo compila probabilmente nel 1986. Nel 1990 lo consegna in carcere a suor Teresa Barillà, una persona che ha già collaborato con i Servizi segreti in quella brutta storia che è il caso Cirillo. La suora fa pervenire il memoriale all’allora capo dello Stato Cossiga il 13 marzo del 1990. Più di un mese dopo Cossiga lo consegna al capo della polizia, e questi a sua volta lo dà ai magistrati. Ma la cosa più importante è che nel memoriale Morucci fa i nomi dei nove brigatisti che, secondo la sua versione dei fatti, parteciparono all’agguato. E non si capisce perché Morucci, che per la magistratura è un dissociato, per la Dc si comporti da vero e proprio pentito. Viene in mente una dichiarazione di Franceschini. Te la leggo: «A un certo punto ho cominciato a chiedermi: di chi abbiamo fatto il gioco: i miei dubbi sono cominciati quando settori della Dc hanno cominciato a venire da noi brigatisti in carcere. Pensavamo che venissero per cercare insieme di fare chiarezza. Invece no: mi rendevo conto che venivano da noi per conquistare silenzi».
C’è una voce che circola da tempo dentro le carceri: la voce secondo cui un emissario della Dc avrebbe trattato in carcere con i brigatisti detenuti: il silenzio sulle zone oscure del sequestro Moro in cambio di permessi e altri favori, con la prospettiva futura di una amnistia. E sgradevole parlarne, perché si parte da una voce non confermata e si mette in gioco la legittima aspirazione alla libertà di gente in galera da anni. Ma certo colpisce la disparità di trattamento carcerario, ad esempio, tra un Curcio e un Morucci. Ma tornando alle rivelazioni dello stesso Morucci, l’ultima novità è il coinvolgimento di Rita Algranati come decima partecipante.
«Anche qui resta da chiarire un mistero: a me risulta da fonte sicura che nell’estate del 1993 il Sisde contattò in Nicaragua Alessio Casimirri, un altro dei partecipanti all’agguato di via Fani. Mi è stato riferito che fu Casimirri, marito separato della Algranati, a fare questo nome. La cosa rimase segreta finché, in coincidenza con l’esplodere del caso Delfino-Nirta, Morucci decise improvvisamente di piazzare sulla scena dell’agguato la Algranati, anche se in un ruolo secondario. Mi chiedo se dietro il balletto delle rivelazioni non ci sia la volontà di fare polverone, o peggio ancora se intorno al caso Moro non si giochi uno spezzone della lotta intestina tra Servizi segreti».
Resta comunque il fatto che tutte le versioni dei fatti fin qui proposte da Morucci sono incomplete: una perizia dell’ottobre `93, ordinata nell’ambito del quarto processo Moro, ha stabilito che in via Fani spararono sette armi, e da entrambi i lati della strada. Morucci aveva parlato di sei armi e di colpi provenienti da un solo lato. Resta il mistero del formidabile killer che sparò 62 dei 97 colpi esplosi in via Fani. E a questo punto, fatalmente, tocca parlare delle rivelazioni del pentito Morabito sulla presenza di Antonio Nirta nel commando.
«Su questo io non ho informazioni di prima mano, e l’ipotesi del coinvolgimento di un uomo della ‘ndrangheta in via Fani - per di più un personaggio che agirebbe su mandato di un carabiniere - è così preoccupante che dobbiamo essere molto cauti. Certamente sulle presenze calabresi intorno al sequestro Moro c’erano già da anni molti elementi concreti, dalla storia arcinota delle foto sparite agli strani viaggi di brigatisti e inquirenti in Calabria prima e durante il sequestro. Di recente - dopo averlo taciuto a lungo - l’ex deputato democristiano Benito Cazora ha detto che pochi giorni dopo il sequestro i suoi informatori calabresi lo condussero nei pressi di via Gradoli, spiegandogli che lì era tenuto Moro. Bisogna quantomeno chiedersi come facessero i mafiosi a essere così bene informati, dal momento che in via Gradoli c’era effettivamente un covo brigatista».
E che covo: insieme alla base milanese di via Montenevoso - quella dei memoriali di Moro - via Gradoli è il luogo in cui si concentra il maggior numero di misteri del caso Moro: i calabresi lo conoscono, il suo nome salta fuori nel corso di una seduta spiritica a cui partecipa Romano Prodi, tre poliziotti arrivano davanti al suo ingresso ma lasciano perdere perché nessuno risponde alla scampanellata, infine qualcuno degli occupanti vi calamita la polizia con il trucco dell’allagamento. Nell’ultima edizione del tuo libro, “La tela del regno”, tu aggiungi una nuova perlina a questa collana di misteri…
«Sì. Di fronte a me ad altri due testimoni l’ex ufficiale dei Servizi Antonio La Bruna ha dichiarato che il 17 marzo, un giorno dopo il sequestro Moro, il Sismi ricevette una segnalazione di via Gradoli».
E infatti il 18 la polizia va sul posto, ma non trova nessuno. Una volta tanto le cose quadrano.
«Sì, ma La Bruna dice anche che il Sismi conosceva l’identità dell’informatore. Ma non lo ha fatto al magistrato. Eppure sarebbe stato un particolare prezioso. Teniamo conto del fatto che a quindici anni di distanza dal sequestro non sappiamo ancora nemmeno quante furono le prigioni di Moro».
Secondo Giorgio Bocca intorno a via Gradoli non c’è nessun mistero. I poliziotti rinunziarono a intervenire soltanto per paura. Lui e molti altri insospettabili e autorevoli commentatori, anche a sinistra, leggono i misteri del caso Moro come un lungo elenco di cialtronerie. Una storia molto italiana insomma.
«Ci furono senza dubbio deficienze e approssimazioni. Ma non bastano a spiegare tutto. La paura dei poliziotti può chiarire uno dei misteri di via Gradoli, non gli altri. E via Gradoli è solo un episodio. Prendiamo la ricostruzione dell’agguato: a un certo punto compare un misterioso uomo con la paletta, che dirige il traffico e poi scompare nel nulla. Secondo Bocca si tratta di una invenzione. Ma ci sono due testimoni. Oppure i due uomini a bordo della moto Honda, che sparano al motorino dell’ingegner Marini. Tutti i brigatisti negano che quei due fossero dei loro. Eppure esistono, ne parlano ben tre testimoni».
All’inizio dicevi: stiamo ai fatti. Vogliamo elencare quelli che risultano inspiegabili se non si ipotizza la “tela di ragno”, vale a dire quella serie di coperture - probabilmente non richieste - che sembrano accompagnare tutta l’azione brigatista durante i 55 giorni del sequestro?
«L’elenco è davvero lungo. Io mi limiterei agli interrogativi fondamentali: Perché tutti gli uomini scelti dal ministro Cossiga per seguire le fasi del sequestro sono iscritti alla P2? Perché, malgrado le molte segnalazioni, il covo di via Gradoli non viene individuato subito? Chi e perché decide a un certo punto di farlo scoprire accelerando in questo modo la decisione del vertice Br di uccidere Moro? Perché le Br utilizzano durante il sequestro una stampatrice che viene dall’ufficio “Rus” (Raggruppamento Unità Speciali) del Sismi, l’ufficio di Gladio? Perché il giudice Infelisi fa sparire il rullino contenente la foto in cui si vede l’uomo della ‘ndrangheta in via Fani? Chi ha manipolato o fatto sparire molte delle intercettazioni telefoniche effettuate durante il sequestro del presidente della Dc? Perché le Br decisero di non rendere pubbliche le rivelazioni di Moro sulla strategia della tensione e su Gladio, i suoi giudizi su Andreotti e Cossiga? Quali uomini del potere vennero in possesso all’indomani della scoperta del covo di via Montenevoso, del memoriale di Moro scoperto soltanto nel 1990 in una intercapedine del muro? Chi ha in mano le trascrizioni complete, o addirittura le bobine registrate, degli interrogatori di Moro in carcere? Leggendo il memoriale appare evidente che Moro rimanda spesso a capitoli delle sue rivelazioni che sono spariti. Perché non è stato fatto nessuno sforzo per individuare il luogo in cui si riuniva il comitato esecutivo delle Br; quello, per capirci, presso cui si recava Moretti periodicamente, e in cui venivano battuti macchina i comunicati che scandirono il sequestro. C’erano indizi che portavano nella zona di Firenze, ma furono lasciati cadere. E infine: qual è il filo che lega il caso Moro ad altri due misteri italiani, gli omicidi di Carmine Pecorelli e di Carlo Alberto Dalla Chiesa? Dalla Chiesa è l’ufficiale che gestisce l’operazione di via Montenevoso, quella sera stessa i suoi uomini lo accompagnano all’aeroporto di Milano e alle due del mattino, secondo la testimonianza di Franco Evangelisti, Dalla Chiesa si presenta ad Andreotti. Pecorelli, giornalista legato ad ambienti dei Servizi e alla P2, sa molte cose del caso Moro. Ricordiamo che il suo settimanale, “Op”, esce in edicola proprio nei giorni del sequestro, e inizia una campagna di stampa che riguarda lo scandalo Rateasse, Caltagirone e Arcaini. Gli stessi temi sui cui si sofferma, all’interno della prigione del popolo, Aldo Moro».
E un lungo elenco…
«Potrebbe esserlo di più. Contrariamente a quanto dice il senatore Cossiga, che ha più volte pubblicamente elogiato i magistrati che hanno condotto le indagini sul sequestro Moro, su un dato credo che noi cosiddetti “dietrologi” e coloro che la pensano come Giorgio Bocca, possiamo trovarci d’accordo: non esiste altro caso giudiziario in cui le indagini siano state condotte, nel corso di molti anni, con tanta superficialità e sacrificio della verità. È impressionante la differenza di analisi investigativa sprigionata durante il sequestro Sossi rispetto al caso Moro. Del rapimento del magistrato sappiamo tutto nei dettagli; di Moro molto poco. Eppure la differenza di peso tra i due episodi è evidente, e oltretutto all’epoca del rapimento di Sossi, il 1974, lo stato delle conoscenze sul terrorismo era di molto inferiore a quello che se ne aveva quattro anni dopo. Vedendo “Jfk”, il film sul delitto Kennedy, ho trovato una serie impressionante di analogie col caso Moro. Anche quello è un delitto politico, anche quella è una vicenda in cui le indagini vengono condotte con incredibile timidezza e reticenza. Con la differenza che nel caso Kennedy a un certo punto emerge la figura del Procuratore Garrison, che combatte contro i depistatori alla ricerca della verità. Da noi un personaggio equivalente purtroppo non è esistito. Almeno tra i magistrati».
Periodicamente - in momenti delicati della vita politica - emergono nuove rivelazioni sul caso Moro. Cosa vuoi dire?
«Dietro ogni segreto del sequestro Moro ci sono dei depositari - beneficiari di quel segreto. Abbiamo parlato dei materiali di via Montenevoso, ma c’è dell’altro. Ad esempio i rapporti sullo stato delle indagini che pervenivano quotidianamente al comitato di crisi, riunito al Viminale sotto la direzione di Cossiga. Essi non pervennero mai né alla commissione Moro, né a quella sulle stragi che li ha chiesti più di recente. Chi detiene questo tipo di carte detiene un potere che può far valere in un determinato momento».
Questo è per l’appunto un momento delicato per i poteri paralleli. C’è in corso una lotta feroce all’interno dei servizi di sicurezza…
«E infatti, come sempre, rispunta il caso Moro, che è una vera miniera di misteri. La situazione mi ricorda da vicino il 1974, quando all’interno del Sid era in corso la faida tra Miceli e Maletti; anche quella fu una fase molto ricca di rivelazioni, i magistrati poterono fare un buon lavoro: i golpe, la Rosa dei Venti. Il fatto è che finché sul caso Moro la magistratura sia accontenterà della versione ufficiale dei fatti e delle dichiarazioni dei brigatisti, il campo verrà lasciato libero a chi gestisce pezzi di verità a proprio uso e consumo».
Abbiamo parlato a lungo. C’è qualcosa che è rimasto fuori dalla nostra discussione?
«Vorrei solo che fosse chiaro che se dopo 15 anni siamo ancora a questo punto la responsabilità è dovuta al fatto che i primi a non volere la verità sono i due uomini politici che il maggior ruolo hanno svolto intorno a questa vicenda; e mi riferisco ovviamente a Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. Entrambi tacciono su quello che sanno».
Il caso Moro - Dal sequestro all`omicidio, i 55 giorni che cambiarono l`Italia, scrive “La storia siamo noi” della Rai. La Storia siamo noi racconta le tappe di quel terribile momento storico: dal rapimento in via Fani alla ricostruzione del luogo in cui Aldo Moro fu confinato, dall'esecuzione al rinvenimento del suo corpo, il 9 maggio '78.Giovedì 16 marzo 1978 le Brigate Rosse raggiungono l'apice della loro strategia del terrore: portare l'attacco al cuore dello Stato. Alle 9.02 del mattino, in via Fani all'incrocio con Via Stresa, nel quartiere Trionfale a Roma, un commando composto da circa 19 brigatisti rapisce il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccide i cinque componenti della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, l'appuntato Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l'agente Raffaele Jozzino e l'agente Giuliano Rivera.
L'agguato. Ma cosa successe realmente quella mattina, chi e quanti erano i brigatisti che presero parte all'agguato e al rapimento? Secondo la deposizione di Valerio Morucci al processo Moro Quater questa era la logistica del commando Br: " Io ho detto che l'auto 128 targata corpo diplomatico era guidata da Mario Moretti, che lo sbarramento all'incrocio di Via Fani è stato fatto da Barbara Balzerani, che la 132 dove è poi stato caricato l'onorevole Moro era guidata da Bruno Seghetti, che le quattro persone che hanno aperto il fuoco erano dal basso, Io, Fiore, Gallinari e Bonisoli". Questa dunque la ricostruzione secondo la deposizione al processo Moro Quater di Valerio Morucci, unico dei Brigatisti presenti a Via Fani ad essersi dissociato. Più in dettaglio la disposizione era dunque la seguente: alla guida della 128 bianca che ha il compito di frenare bruscamente e causare il tamponamento con la 130 Fiat su cui viaggiava Moro c'è Mario Moretti. A controllare l'incrocio c'è Barbara Balzerani armata di un mitra e di una paletta per far defluire il traffico. A sparare sono Valerio Morucci e Raffele Fiora, collocati sul lato sinistro della vettura di Moro, mentre a sparare sull'Alfetta di scorta sono invece Prospero Gallinari e Franco Bonisoli anch'essi collocati sul lato sinistro della vettura. Su Via Stresa c'è la 132 guidata da Bruno Seghetti che ha il compito di fare marcia indietro su ViaFani e caricare l'Onorevole Moro. Ma a chiudere la scena dell'agguato, quello che nella terminologia brigatista viene chiamato il "cancelletto superiore" c'è un'altra 128 messa di traverso da cui scendono altri due brigatisti. Non tutto quadra dunque con il racconto di Morucci. ll primo ottobre del 1993 su incarico della Corte i periti balistici depositano una nuova perizia dove si afferma che, contrariamente a quanto dichiarato da Morucci, a sparare sulla 130 c'è stato almeno un altro brigatista collocato sul lato destro dell'auto dalla parte del passeggero. Si scoprirà in seguito che del gruppo di fuoco fecero parte anche Alessio Casimirri e Alvaro Lo Jacono. Un'altra componente del commando invece è Rita Algranati, moglie di Casimirri. Del ruolo della "compagna Marzia" nella strage di via Fani hanno parlato successivamente Valerio Morucci e Adriana Faranda. "Le unità del commando - ha raccontato Faranda - erano dieci. Rita Algranati stava all'incrocio con via Trionfale per segnalare l'arrivo di Moro e della sua scorta a Moretti che era sulla 128".
La moto Honda e il rullino fotografico scomparso. Altre zone d'ombra permangono sulla dinamica dei fatti quel giorno a Via Fani. Quello stesso giorno si trovò a passare in motorino l'ingegnere Alessandro Marini che ha dichiarato che due persone a bordo di una motocicletta Honda esplosero dei colpi contro di lui. Ma le Brigate Rosse hanno sempre negato che quella moto e i suoi due occupanti facessero parte del commando. Il 15 ottobre del 1993 un pentito della 'Ndrangheta Saverio Morabito ha dichiarato che a Via Fani quel giorno c'era anche Antonio Mirta, altro appartenente alla mafia calabrese, e infiltrato nel commando brigatista. Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro e autore di molti libri sull'argomento, riferisce che quando seppe della deposizione di Morabito gli vennero alla mente diversi elementi agli atti della Commissione che avvaloravano l'ipotesi della presenza di un calabrese a Via Fani. Vi era la testimonianza dell'Onorevole Benito Cazora, allora deputato della Democrazia Cristiana che riferì alla commissione che venne avvicinato da un calabrese che in una certa fase ebbe a chiedergli di un rullino di foto scattate a ViaFani. Quelle foto furono scattate immediatamente dopo la fuga del commando brigatista da un abitante in ViaFani: il carrozziere Gerardo Nucci e furono visionate dal giudice Infelisi che le ritenne molto importanti, fatto sta che questo rullino fotografico è scomparso. Forse su quel rullino potrebbe essere impressa l'immagine di questo infiltrato. Queste fotografie sono diventate uno dei tanti misteri del caso Moro.
Le indagini: negligenze ed omissioni. Le ricerche per trovare Aldo Moro partono subito dopo l'eccidio, ma partono subito con il piede sbagliato. Lo stesso sedici marzo il dottor Fardello dell'Ucigos emana a mezzo telegramma l'ordine di attuare il piano Zero, elaborato per la provincia di Sassari, ma del tutto sconosciuto alle altre questure italiane. L'ordine viene revocato in meno di ventiquattro ore ma del resto la Commissione Parlamentare d'Inchiesta ha accertato che nel '78 era ancora in vigore un sistema per la tutela dell'ordine pubblico risalente agli anni Cinquanta. Questo nonostante il Settantasette avesse rappresentato l'apice dell'escalation terroristica con 2000 attentati, 42 omicidi, 47 ferimenti, 51 sommosse nelle carceri e 559 evasioni. Estese a tutta Italia le ricerche si concentrano soprattutto su Roma. Dal 16 marzo al 10 maggio sempre nel territorio urbano di Roma vengono impiegati 172.000 unità tra carabinieri e poliziotti che effettuano 6000 posti di blocco e 7000 perquisizioni domiciliari controllando in totale 167.000 persone e 96.000 autovetture. Qualcuno dirà che si è trattato soprattutto di operazioni di parata. La Commissione Parlamentare d'Inchiesta conclude che la punta più alta di attacco terroristico ha coinciso con la punta più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza. Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro, afferma: "Le indagini di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze. Basti citarne una: la segnalazione giunta all'Ucigos al Viminale, una telefonata che comunicava i nomi dei quattro brigatisti, le auto che usavano. Bene, questa segnalazione fu trasmessa dall'Ucigos alla Digos che era il corpo operativo per agire in quel momento con oltre un mese di ritardo. Quando la Digos ebbe modo di avere questa segnalazione immediatamente individuò uno dei brigatisti che tra l'altro era tenuto a presentarsi al Commissariato di Pubblica Sicurezza perché era in libertà vigilata. Immediatamente seguendo questa brigatista si giunge a individuare la tipografia di Via Pio Foà dove le Brigate Rosse stampavano i comunicati dei 55 giorni. Se questa comunicazione fosse stata trasmessa un mese prima, forse si poteva con ogni probabilità individuare la traccia che portava alla prigione di Moro". Robert Katz, scrittore e giornalista: "Quasi tutti quelli che hanno avuto a che fare con le indagini erano iscritti alla P2, mi meraviglio che tutte le indagini di oggi sono puntate sulle Brigate Rosse, quando la parte più interessante è come si sono svolte le indagini". Ma il ruolo della P2 nel sequestro Moro non è mai stato chiarito né dalla Commissione Moro né dalla stessa Commissione sulla Loggia P2.
Interessi stranieri intorno alla morte di Moro. Secondo Sergio Flamigni gli interessi stranieri intorno alla sorte di Moro convergevano verso la sua eliminazione. Del resto il conto fra Moro e, ad esempio, il Dipartimento di Stato americano si apre già nel 1964 quando Moro apre ai socialisti e sostiene un superamento del centrismo. Gli americani contestano, ma poi si adeguano. Ma quando Moro vuole passare a un'altra fase di alleanza con i comunisti si apre un altro problema. E da quel momento lo vogliono ucciso, prima politicamente, tentando di attribuirgli lo scandalo Lockheed. Secondo una voce che proviene dall'ambasciata americana a Roma e da uno dei servizi segreti americani. Moro sarebbe l'"antelope Cobbler" (nome in codice del destinatario italiano delle bustarelle), poi l'Alta Corte Costituzionale appura che Moro non ha nulla a che fare con l'antelope Cobbler. Corrado Guerzoni, uno dei più stretti collaboratori di Moro, che lo ha accompagnato diverse volte negli Stati Uniti, ha detto che il Segretario di Stato americano Henry Kissinger minacciò Moro per la sua politica di apertura al partito Comunista. Circostanza che Kissinger ha sempre smentito anche nell'intervista che Kissinger ha concesso a Minoli nel 1983.
I comunicati. Nel Comunicato Numero 1 delle BR, si legge: "Questa mattina abbiamo sequestrato il Presidente della Democrazia Cristiana ed eliminato le sue guardie del corpo, teste di cuoio di Cossiga" (all'epoca Ministro dell'Interno). Nel comunicato n. 6 del 15 aprile 1978 i brigatisti annunciano che l'interrogatorio è terminato e annunciano la sentenza di condanna a morte. Nel comunicato n. 7 affermano che: "Il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione di prigionieri comunisti", i nomi dei quali verranno specificati nel successivo comunicato il n. 8 del 24 aprile: Sante Notarnicola, Mario Rossi, Giuseppe Battaglia, Augusto Viel, Domenico Delli Veneri, Pasquale Abatangelo, Giorgio Panizzari, Maurizio Ferrari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Roberto Ognibene, Paola Besuschio molti dei quali detenuti a Torino, dove è in corso il processo ai capi storici delle prime Brigate. Nell'ultimo comunicato annunciano la conclusione della "battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato" e la promessa che: "Le risultanze dell'interrogatorio di Aldo Moro e le informazioni in nostro possesso, ed un bilancio complessivo politico militare della battaglia che qui si conclude, verrà fornito al Movimento Rivoluzionario e alle O.C.C. attraverso gli strumenti di propaganda clandestini". Ma questa diffusione benchè promessa non avverrà mai.
Le posizioni dei partiti. I partiti reagiscono dividendosi in sostenitori della cosiddetta "linea della fermezza" e fautori della trattativa con i brigatisti. Per la "fermezza" si schierano la maggior parte dei partiti: la DC, il PCI, il PLI, il PSDI e il PRI di Ugo La Malfa, il quale arriva a proporre il ripristino della pena capitale per i rapitori. Per la trattativa, i socialisti di Bettino Craxi, i radicali di Marco Pannella, la sinistra non comunista, una componente del cattolicesimo dissidente e uomini di cultura come Leonardo Sciascia. Oltre all'ONU, ad Amnesty International, ad esponenti politici ed organizzazioni umanitarie da tutto il mondo, si mobilita per la liberazione di Moro anche Papa Paolo VI suo amico personale di vecchia data, che attraverso la Radio Vaticana diffonde un appello "agli uomini delle Brigate Rosse" in cui, tuttavia, il Sommo Pontefice chiede che l'ostaggio venga liberato "senza condizioni", così avallando secondo un'interpretazione ormai condivisa la linea della fermezza. Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica, dice di non voler seguire il funerale di Moro, ma neanche quello della Repubblica.
Le lettere di Moro. Nelle lettere è soprattutto la personalità di Moro ad emergere in modo diretto e senza filtri. Le lettere inviate dalla prigionia, infatti, raccontano la sofferenza e la dignità dell'uomo che pagò con la vita la sua dedizione allo Stato e che non trovò conforto in un mondo politico lontano dalla cosiddetta "prigione del popolo" in cui era ostaggio.
Il 9 maggio. Dopo 54 difficilissimi giorni, segnati da ulteriori attentati delle BR, ma anche dalle strazianti lettere di Moro dalla cosiddetta "prigione del popolo" brigatista, il 9 maggio 1978 la telefonata del brigatista Valerio Morucci annuncia la morte di Moro. Il corpo viene fatto ritrovare a Roma, nel bagagliaio di una Renault rossa a via Caetani, poco distante dalle sedi del PCI e della DC. All'omicidio di Moro segue una forte crisi istituzionale: poche ore dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, Francesco Cossiga si dimette da Ministro dell'Interno; in giugno, travolto dalle polemiche (non legate al caso Moro) si dimette anche il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Poi, nel 1979, il PCI dichiara di considerare chiusa l'esperienza dell'unità nazionale.
Quattro processi per la verità giudiziaria, scrive “Il Sole 24 ore”. I grandi processi per il caso Moro sono quattro anche se si è arrivati al Moro-quinquies. Infatti il primo e il secondo procedimento furono unificati in un unico processo. Ecco un riepilogo basato su fonte Ansa:
MORO-UNO E MORO-BIS - Il 24 gennaio 1983 i giudici della 1/a Corte d'Assise (presidente Severino Santiapichi) emettono la sentenza del processo per la strage di via Fani e il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro. Il processo unifica i procedimenti Moro-uno e Moro-bis. La sentenza condanna all'ergastolo 32 persone: Renato Arreni, Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Franco Bonisoli, Anna Laura Braghetti, Giulio Cacciotti, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Vincenzo Guagliardo, Maurizio Iannelli, Natalia Ligas, Alvaro Loiacono, Mario Moretti, Rocco Micaletto, Luca Nicolotti, Mara Nanni, Cristoforo Piancone, Alessandro Padula, Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Nadia Ponti, Salvatore Ricciardi, Bruno Seghetti, Pietro Vanzi, Gian Antonio Zanetti, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Carla Maria Brioschi, Enzo Bella, Gabriella Mariani, Antonio Marini e Caterina Piunti. Il 14 marzo 1985 la Corte d' Assise d'appello conferma 22 condanne all'ergastolo. Ridotta la pena per Natalia Ligas, Mara Nanni, Gian Antonio Zanetti, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Carla Maria Brioschi, Enzo Bella, Gabriella Mariani, Antonio Marini e Caterina Piunti. Il 14 novembre 1985 la Cassazione conferma quasi integralmente la sentenza, tranne per le posizioni di 17 imputati minori per i quali si chiede la rideterminazione della pena.
MORO-TER - Il 12 ottobre 1988: si conclude con 153 condanne (26 ergastoli e 1.800 anni complessivi di detenzione) e 20 assoluzioni il processo denominato «Moro-ter», riguardante le azioni delle Br a Roma tra il 1977 e il 1982. La 2/a Corte d'Assise (presidente Sergio Sorichilli condanna all'ergastolo Susanna Berardi, Barbara Balzerani, Vittorio Antonini, Roberta Cappelli, Marcello Capuano, Renato Di Sabbato, Vincenzo Guagliardo, Maurizio Iannelli, Cecilia Massara, Paola Maturi, Franco Messina, Luigi Novelli, Sandra Padula, Remo Pancelli, Stefano Petrella, Nadia Ponti, Giovanni Senzani, Paolo Sivieri, Pietro Vanzi, Enrico Villimburgo, i latitanti Rita Algranati e Alessio Casimirri e gli imputati in libertà per decorrenza dei termini di detenzione Eugenio Pio Ghignoni, Carlo Giommi, Alessandro Pera e Marina Petrella. Il 6 marzo 1992 la terza Corte d' Assise d' appello conferma la condanna all'ergastolo per 20 imputati del processo 'Moro-ter'. Pena ridotta per Alessandro Pera, Eugenio Ghignoni, Paola Maturi e Franco Messina e ad altri due imputati. Il 10 maggio 1993 una sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione (presidente Arnaldo Valente) conferma le condanne emesse in appello per gli imputati del Moro-ter. Annullata, con rinvio ad altra sezione penale della corte d'appello di Roma, solo la sentenza nei riguardi di Eugenio Ghignoni, condannato in appello a 15 anni.
MORO-QUATER - Il 1° dicembre 1994 il processo «Moro-quater», che si occupa di alcuni risvolti del caso non risolti dai processi precedenti e di alcuni episodi stralciati dal Moro-ter, si conclude con una sentenza della prima Corte di Assise (presidente Severino Santiapichi) che condanna all'ergastolo Alvaro Loiacono, in carcere in Svizzera per altre vicende, riconosciuto colpevole di concorso nel rapimento e nell' uccisione dell'ex presidente della Dc Aldo Moro e di altri omicidi. Il 3 giugno 1996 la sentenza è confermata dai giudici della Corte di Assise di appello di Roma e, il 14 maggio 1997, dalla Cassazione.
MORO-QUINQUIES - Il 16 luglio 1996 i giudici della seconda Corte d'Assise emettono la sentenza del processo Moro-quinquies e condannano all' ergastolo Germano Maccari per concorso nel sequestro e nell' omicidio di Aldo Moro e nell'eccidio della scorta e Raimondo Etro a 24 anni e sei mesi. Il 19 giugno 1997, in appello, la pena per Maccari è ridotta a 30 anni. La Cassazione disporrà un nuovo processo e il 28 ottobre 1998 la nuova sentenza d'appello condanna Maccari a 26 anni ed Etro a 20 anni e 6 mesi. La condanna per Etro diventa definitiva nel 1999, mentre Maccari sarà di nuovo processato in appello e la sua pena ridotta a 23 anni.
Morto Prospero Gallinari: gestì il sequestro e l’omicidio di Moro. Probabile un attacco cardiaco nel suo appartamento a Reggio Emilia. Era malato da tempo. E' una delle figure più misteriose e controverse del terrorismo, scrive Antonella Beccaria il 14 gennaio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Erano le prime ore della mattinata quando al 118 di Reggio Emilia è arrivata una richiesta di soccorso per un uomo che si sentiva male dentro la sua auto. Quando i paramedici sono arrivati, hanno caricato il paziente sull’ambulanza e lo hanno trasportato d’urgenza all’ospedale, ma l’uomo è morto appena dopo. A quel punto si è scoperto che si trattava di Prospero Gallinari, 62 anni compiuti lo scorso 1 gennaio. L’ex brigatista rosso nato a Reggio Emilia nel 1951, alla fine del 1969 aveva aderito con Alberto Franceschini, Tonino Paroli e altri militanti al “gruppo dell’appartamento” dopo un passato iniziato quando aveva 14 anni nella Fgci, la Federazione giovanile comunista italiana. Deluso dalle posizioni del Pci, alla fine dell’anno che si era concluso con la strage di piazza Fontana aveva partecipato a Chiavari ai lavori costitutivi del Collettivo politico metropolitano (Cpm) e aveva iniziato il percorso che lo avrebbe condotto alla clandestinità e alla lotta armata. In un primo momento, simpatizza con le idee di Corrado Simioni. Sono gli anni che precedono il 1972 e non si può parlare in quel periodo di militanza nelle Brigate Rosse. Si può invece parlare di un’idea di “superclandestinità” che tuttavia Gallinari non riesce a comprendere fino in fondo. All’inizio rimane in un appartamento di Porto Marghera in attesa dell’azione, ma quando si rende conto che quell’azione non giungerà mai, torna a Reggio e di qui parte poi per Milano. Lui, operaio, nei primissimi anni Settanta partecipa alle vertenze della Magneti Marelli e il primo arresto risale al 30 ottobre 1974 a cui ne seguirà un secondo con relativa evasione. In occasione del primo arresto Si trova a Torino insieme a un altri brigatista, Alfredo Bonavita, e due anni più tardi sarà processato per due sequestri di persona. Il primo è quello di Bruno Labate, segretario provinciale della Cisnal, catturato il 12 settembre 1973 in via Baiamonti, sempre nel capoluogo piemontese. Il secondo rapimento è quello del magistrato genovese Mario Sossi e risale al 23 maggio 1974. L’evasione avviene invece nel 1977, quando Gallinari si trova rinchiuso nel carcere di Treviso e da qui raggiunge Roma, dove si riunisce alla colonna romana delle Brigate Rosse. È l’uomo che, nei 55 giorni del sequestro di Aldo Moro, non uscirà mai dalla “prigione del popolo” dove viene segretato il presidente della Democrazia Cristiana. Partecipa a ciascuna delle fasi di questo evento: dal rapimento in via Fani, il 16 marzo 1978, quando la scorta dello statista scudocrociato è sterminata dal commando brigatista, fino all’omicidio, il 9 maggio dello stesso anno, per il quale Gallinari sarà a lungo indicato come esecutore materiale. A discolparlo, nel 1993, è Mario Moretti, che nel libro intervista scritto con Rossana Rossanda e Carla Mosca si attribuisce la paternità del delitto. Dopo il sequestro Moro, in carcere Prospero Gallinari tornerà l’anno successivo, il 24 settembre 1979, arrestato a Roma, e in suo possesso sono rinvenuti i documenti per l’evasione dalla prigione speciale dell’Asinara dei detenuti che si erano dichiarati prigionieri politici. Accusato nel 1982 dal pentito Antonio Savasta di essere stato con Anna Laura Braghetti tra i carcerieri di Moro, il 21 aprile 1987 si scopre un altro progetto di evasione, questa volta dall’istituto penitenziario di Rebibbia. Nel 1987 Renato Curcio, Mario Moretti, Maurizio Iannelli e Pietro Bertolazzi scrivono al Manifesto una lettera per dichiarare chiusa l’esperienza della lotta armata e nell’ottobre 1988 Gallinari sottoscrive un documento in cui si dichiara che la “guerra è finita” e viene lanciata la proposta dell’amnistia per i prigionieri politici. Sofferente per disturbi cardiaci fin dall’inizio degli anni Novanta e per questo sottoposto a interventi chirurgici, il suo legale avanza la prima richiesta di scarcerazione (richiesta respinta). Nel 1994 subisce un ricovero per un’ischemia cerebrale e nel marzo di quell’anno, per le festività pasquali, sempre per ragioni di salute, gli vengono concessi i primi 5 giorni di permesso, che trascorre a Reggio Emilia con la madre. Nel 1996, mentre proseguono i processi, la sua pena sarà sospesa e tornerà definitivamente nella città emiliana, dove è morto.
Caso Moro, le risposte a tutte le domande dei lettori. Il giornalista Giovanni Bianconi replica a tutti i partecipanti della videochat. Il giornalista del "Corriere della Sera" Giovanni Bianconi, esperto di giudiziaria e da anni attento alle vicende del rapimento Moro, ha partecipato ad una videochat su Corriere.it dal titolo "Il caso Moro. Il dietro le quinte del sequestro". Bianconi, oltre a parlare del suo ultimo libro "Dietro le quinte del sequestro Moro" ha ricevuto tantissime domande dai lettori. Dato che durante la diretta non è riuscito a rispondere a tutti, ha deciso di rispondere per scritto alle questioni sollevate da chi seguiva la videochat. Tante ed interessanti. Ne esce così un nuovo spaccato su una vicenda, quella del sequestro Moro di cui ora ricorrono i trent'anni, che interessa ancora molto e di cui ancora non è stato detto tutto. Oltre alle risposte in questa pagina, ci sono altre due parti specificatamente dedicate al ruolo dei servizi segreti nella vicenda Moro e al giallo di Gradoli e la seduta spiritica.
Dinamica del rapimento
Caro Giovanni, sono un collega di RaiSat, ho letto il tuo libro e ho trovato la tua una chiave interpretativa molto interessante. Che ne dici riguardo alla dinamica del rapimento del Presidente Dc a Via Fani e dell'esplosione di circa 70 colpi da parte di due soli tiratori? Grazie per l'attenzione Alessandro, Roma.
La dinamica che si conosce, ricostruita da uno dei quattro tiratori “ufficiali” delle Br, cioè Valerio Morucci, consiste nell’apertura del fuoco da un solo lato delle due macchine (di Moro e della scorta) da colpire, e cioè il lato sinistro delle auto. Morucci stesso riferisce che alcune delle armi si incepparono, e questo potrebbe spiegare perché a sparare la maggior parte dei colpi siano state solo due armi. Le diverse perizie prodotte nei processi hanno dato risultati che (come quasi tutte le perizie, in quasi tutti i processi) sono stati contraddetti da altre considerazioni tecniche, col risultato che sono stati ritenuti compatibili o meno (a seconda dei punti di vista) con le dichiarazioni dei testimoni. Cosa che è puntualmente successa anche con Valerio Morucci. E’ molto difficile raggiungere delle verità, ancorché processuali, solo attraverso le perizie.
E la giustizia?
A costo di sembrare naif, trovo assurdo che i brigatisti siano liberi e personaggi televisivi e le vittime dimenticate con i loro famigliari. Tutto il resto è retorica. Roberto da Parigi.
E’ sicuramente ingiusto che le vittime siano dimenticate, e questa è una responsabilità dei mezzi d’informazione prima ancora che dello Stato che forse s’è occupato troppo poco delle persone uccise o ferite. Questo però ha poco a che fare con la rimessa in libertà di alcuni terroristi al termine di specifici e personali percorsi giudiziari che in molti casi si sono conclusi (ad oltre venti anni dagli arresti) con il lavoro esterno al carcere la semilibertà o la liberazione condizionale anche per chi era stato condannato all’ergastolo. Credo che occuparsi in maniera più adeguata delle vittime renderebbe forse meno stridente la realtà dei terroristi che lasciano le prigioni (nella quasi totalità dei casi senza creare ulteriori problemi di sicurezza alla collettività) con il senso di ingiustizia rispetto alla irrimediabilità dei “danni” da loro provocati.
Assassini impuniti.
Per quale motivo non si è voluto punire fermamente gli artefici di questa tragica stagione politica?Ancora oggi si parla di tregua politica..forse perché esistono ancora frange politiche che non hanno mai rinnegato quegli atti? Samuele Cagliari.
Non so a quali frange politiche si riferisca, ma nella sinistra italiana, dalla quale provenivano la quasi totalità dei terroristi di sinistra, la “presa di coscienza” di una realtà negata all’inizio dell’esperienza della lotta armata risale ormai ad almeno trent’anni fa, cioè proprio dal sequestro Moro. La “tregua politica” di cui ogni tanto si parla sarebbe in realtà una “soluzione politica” per i brigatisti che ancora hanno a che fare col carcere, partendo dalla considerazione che non si trattava di criminali comuni ma, appunto, politici, figli di una determinata stagione ormai definitivamente chiusa. Tuttavia rispetto a questa soluzione “generale” resta da un lato la difficoltà dovuta ai danni provocati alle vittime e alle rispettive famiglie, e dall’altro l’esistenza di frange di terroristi che, dal carcere, non hanno rivisto nulla e continuano a sostenere la validità della lotta armata. Rimettere in circolazione anche loro (seppure dopo tanti anni di carcere) sarebbe effettivamente un problema, e anche per questo si è andati avanti finora (e prevedibilmente si andrà avanti ancora per molto tempo) con le soluzioni individuali anziché collettive. Infine, servirebbe un dibattito generale s un’epoca che ha prodotto anche il terrorismo, al quale la classe politica e l’opinione pubblica non sembrano al momento particolarmente disposte.
Dietrologie
Secondo Lei bisognerebbe trattare anche con la Mafia? Trattare con la mafia per il rilascio di un politico sarebbe un atto di debolezza o di forza? Daniele, Padova.
E i rapporti con la criminalità organizzata? Rinfrescare la memoria è sempre importante. Tra le cose che ricordo in modo non preciso vorrei Lei potesse ricordare che tipo di rapporti intercorsero tra le br e la criminalità organizzata, mafia e camorra. Ci fu una sorta di giustificazione rivoluzionaria anche a questi rapporti? Vincenzo G. Roma.
Pippo Calò
Ci sono novità sul ruolo della Banda della Magliana e di Pippo Calò , eventualmente, nella vicenda del Caso Moro? Marco Roma.
Certo non sarebbe un atto di forza. Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia riscontrate da alcune indagini) durante il sequestro Moro ci fu un tentativo da parte di “settori delle istituzioni” – in particolare servizi segreti ed esponenti di partito – di coinvolgere la mafia (ma anche la camorra napoletana e la ‘ndrangheta calabrese) affinché si attivassero per raccogliere informazioni sulla prigione di Moro (attraverso il loro “controllo del territorio”, che evidentemente era o si riteneva più efficace di quello esercitato dallo Stato) o per sondare i brigatisti detenuti nelle carceri. Ma non si arrivò a nulla. Il pentito di mafia Tommaso Buscetta ha anche riferito che a un certo punto il suo capomafia Stefano Bontate fu invitato proprio da Pippo Calò a non darsi più da fare perché all’interno del suo partito (cioè la Dc) non c’era più la volontà di liberare Moro. I rapporti tra criminalità organizzata e brigatisti. Sotto questo punto di vista, sarebbero dovuti avvenire in carcere, cioè nei comuni luoghi di detenzione. Fuori, questi rapporti sono sempre stati negati dai brigatisti (e quindi mai giustificati da motivi “rivoluzionari”), mentre da parte di mafiosi o ‘ndranghetisti non sono mai stati svelati; le informazioni che potevano dare erano più legate al controllo del territorio o ai contatti con uomini delle istituzioni che a loro volta (per altre vie) sapevano o pensavano di sapere qualcosa sulle Br o la prigione di Moro. Il ruolo della banda della Magliana è stato evocato soprattutto sul piano del “controllo del territorio”, visto che la “prigione del popolo” si trova vicino al quartiere della Magliana, ma non c’è nessun riscontro concreto. Piuttosto il presunto autore del falso comunicato n. 7 delle Brigate rosse (quello che annunciava l’avvenuta esecuzione di Moro e “sepoltura” del lago della Duchessa), il falsario Tony Chichiarelli (assassinato nel 1984) aveva dei contatti con la Magliana, ma lì il mistero riguarda chi ha ordinato quel falso, e non furono le Br. In ogni caso bisogna tenere presente che nella primavera del 1978 la banda della Magliana per come fu successivamente conosciuta (cioè un’entità criminale che aveva quasi assunto il controllo delle attività illecite su Roma, e che è stata utilizzata per diversi “servizi” esterni ai propri interessi) era appena agli albori, visto che si formò nel novembre del ’77 con un sequestro di persona, e prese piede soltanto negli anni successivi.
Craxi e la trattativa.
Cosa pensa del tentativo di craxi di aprire una trattativa e cercare canali per entrare in contatto con le BR? era un posizione politica interessata solo ad intralciare il compromesso storico o una posizione "umanitaria"? Come spiega la vicinanza del PSI all'ambiente che oggi definiremo antagonista? Dario Sassari.
Craxi A suo avviso, la linea di Craxi, la linea della trattativa era volta solo a distaccarsi dal resto dei partiti per prendersi un suo spazio di fronte all'elettorato o aveva capito che c'era margine per salvare Moro? Antonio da Formia.
Tra i motivi che spinsero Craxi, nella seconda parte del sequestro, a “smarcarsi” dalla fermezza fino a quel momento condivisa con la Dc, il Pci e gli altri partiti della maggioranza, ci fu probabilmente anche qualche considerazione politica sul futuro del suo partito, a cominciare dalla necessità di non restare schiacciati (e senza un ruolo) dai due principali partiti che perseguivano il cosiddetto “compromesso storico2. Tuttavia, al di là delle motivazioni che lo spinsero a diversificare la sua posizione, resta la strada da lui indicata, ed effettivamente percorsa attraverso un contatto concreto che arrivò ai brigatisti rossi: quel contatto però non portò a nulla di concreto anche per il modo in cui fu condotto da Craxi (senza avvisare gli investigatori e gli altri partiti), per stessa ammissione degli “intermediari” che per suo conto entrarono in contatto con le Br.
Riconoscimento?
Come sarebbe stato possibile mantenere lo stato democratico, pur con tutti i suoi problemi, dopo che fosse stata data una patente di legittimità politica alle BR? a me pare una cosa folle. Paolo, Bologna.
La sua opinione è la stessa di chi, all’epoca, non volle distaccarsi mai – anche in linea di principio – dalla linea della fermezza. Si potrebbe replicare che per essere credibili su questo fronte bisognerebbe esserlo poi altrettanto sulla garanzia di sconfiggere le Br sotto il profilo investigativo e della repressione, cosa che nel periodo del sequestro non avvenne minimamente. Inoltre un “riconoscimento politico” non è un’entità immutabile, e nel corso di un dialogo a distanza si possono dire tante cose e poi dirne altre, anche solo per tenere aperto un canale che eviti l’uccisione dell’ostaggio, e nemmeno questo è accaduto.
Prova di forza.
Non sarebbe stata una prova di forza da parte delle Br liberare Moro? Non si sarebbero conquistate il favore del popolo? Non sarebbe stato questo un riconoscimento politico più forte rispetto quello dello Stato? Cristian Favarin - Modena.
Questo è ciò che hanno provato a sostenere i brigatisti “dissidenti” rispetto alla decisione di uccidere Moro, una ristrettissima minoranza che non è riuscita a imporre la propria opinione su quella della maggioranza che – invece – sosteneva che non poteva finire come quattro anni prima, nel 1974, con sequestro Sossi, liberato senza contropartita politica.
Il ruolo della DC.
Si vuol far passare la morte di moro come responsabilità della DC. ma Moretti & C. non erano mica iscritti alla DC... Franco da Bolotana.
Certamente no, e infatti qualunque discussione sul ruolo della Dc e sulle eventuali “mancanze” del partito di Moro rispetto a quella situazione particolare (a cominciare da quelle imputate dallo stesso Moro al suo partito nelle lettere dalla “prigione del popolo”) non può prescindere dalla riconferma della primaria e diretta responsabilità dei brigatisti rossi nel sequestro e nella decisione di uccidere Moro. Non negata, del resto, dagli stessi brigatisti.
Le talpe.
Buongiorno, vorrei sapere se secondo lei, al momento del rapimento del defunto vi erano delle ''talpe'' all'interno della Democrazia Cristiana o addirittura all'interno della Guardia personale di Moro. Grazie e saluti Carlo da Milano.
Non risulta da nulla.
Segreti rivelati.
Moro ha rivelato segreti che le br hanno girato all'URSS? Giorgio, Lecco.
Non risulta da nulla, né che Moro abbia rivelato particolari segreti né che le Br li abbiano girati all’Urss.
Trattativa si o no?
Perchè per Moro non si volle trattare, quando poi per Ciro Cirillo si scomodarono i camorristi? Marco Sulmona.
Due pesi, due misure.
E' accertato che la dc scelse di non trattare con i terroristi per Moro, salvo poi affidarsi alla camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore cirillo. E' plausibile affermare che moro non sia stato ucciso solo dalle BR? Peppe Salerno.
Questo problema è esattamente ciò che viene rimproverato da molti (ad esempio alcuni familiari di Aldo Moro) quando si dice che lo Stato non poteva trattare, ed è uno degli argomenti per contestare la cosiddetta “linea della fermezza” irremovibilmente tenuta durante il sequestro Moro. Prima (con Sossi) e dopo (con Cirillo e D’Urso) si è trattato; oppure si è riusciti a liberare l’ostaggio (come nel casi del gen. statunitense James Lee Dozier). Nel caso di Moro non s’è fatta né l’una né l’altra cosa, e questo è uno degli argomenti con i quali si può sostenere che forse, all’interno dello Stato, c’era anche chi, dal momento del rapimento, ha pensato che sarebbe stato meglio che Moro non tornasse a casa.
Corpo nella Renault 4
E' vero che le scarpe dell'on. Moro presentavano tracce di sabbia? Pippo Trapani.
Sì, e i brigatisti hanno spiegato che quello fu un depistaggio organizzato da loro stessi. Andarono a raccogliere la sabbia e altri detriti, poi applicati alle scarpe e ai vestiti di Moro, per far credere agli investigatori che la prigione fosse stata in una località di mare.
I media.
C'è una colpa dei media nel caso moro? Cristiano - Milano.
Forse la principale fu quella, da parte della grande maggioranza de giornali, di aderire senza troppa criticità (e in qualche caso di sostenere), anche attraverso interviste a presunti esperti) la non autenticità morale delle lettere di Moro. Durante il sequestro, poi, furono anche pubblicate molte notizie sulle indagini o sull’universo brigatista (per come si conosceva allora) poi rivelatesi completamente false. Ma di questo è difficile dare la colpa ai giornali, che probabilmente si limitavano a pubblicare ciò che veniva riferito (anche non ufficialmente) da inquirenti e investigatori. Oppure dai politici, come nel caso della falsa notizia di una delle vedove di via Fani che si sarebbe bruciata davanti alla sede della Dc se lo Stato avesse trattato per liberare Moro. Probabilmente, da questo punto di vista i giornali rispecchiavano (forse in maniera troppo acritica) lo stato delle conoscenze e di volontà di veicolare certe informazioni degli inquirenti e dei politici.
Il covo di via Montalcini.
Dott. Bianconi, c'è chi sostiene che il covo di via Montalcini non sia stato l'unico luogo della prigionia di Moro: si pensa a una seconda sede, molto più vicina al luogo dove fu rinvenuto il cadavere, via Caetani. Lo ritiene possibile? Andrea Pisa.
In teoria è possibile, ma non è provato da nulla. Chi lo dice fonda le sue certezze soprattutto sulla distanza tra la prigione di via Montalcini e il luogo in cui fu trovato il cadavere di moro, considerando troppo rischioso per i brigatisti percorrere quel lungo tragitto con il corpo dell’ostaggio in macchina. E poi sul fatto che la salma di moro fu fatta trovare ben curata nell’igiene personale, e gli arti non troppo indeboliti da due mesi di costrizione in un luogo troppo ristretto. Queste due considerazioni, però, non sono in contrasto insanabile col fatto che Moro sia stato tenuto sempre nella stessa prigione, e alimentano altre “controdeduzioni”; i rischi del trasbordo del prigioniero vivo in un altro covo, ad esempio, sarebbero stati in qualunque altro momento anche più gravi di quelli corsi nel trasporto del cadavere. . Del resto quell’appartamento è stato scoperto, a terra ci sono tuttora i segni del tramezzo (costruito e poi abbattuto dai brigatisti) nella stanza in cui fu costruita la prigione, e ci sono testimoni che hanno visto la Renault 4 rossa nel garage di via Montalcini la mattina del 9 maggio: fatto poco conciliabile con l’ipotesi che il trasporto in via Castani su quella macchina (dove furono trovati anche i bossoli dei colpi che hanno ucciso Moro) sia avvenuto da un altro luogo.
Archivi.
E' vero che saranno aperti archivi coperti fino ad ora dal segreto di stato riguardo il caso Moro. Se si, di che natura? Cosa ci si troverà? Carlo, Barcellona.
La nuova legge sul segreto di Stato rende possibile la rimozione del segreto e l’apertura degli archivi di documenti riservati a trent’anni di distanza dai fatti. Questo significa che da quest’anno anche eventuali documenti segreti sul caso Moro (se ce ne sono) potrebbero essere resi pubblici. Che cosa ci si troverà, ovviamente, si potrà sapere solo dopo l’eventuale loro pubblicazione.
Paolo VI.
Alla luce delle Sue conoscenze dott. Bianconi, quale fu il ruolo di Sua Santità Paolo VI, durante i terribili giorni del sequestro? Nicola da Padova.
Il più importante fu quello dell’appello divulgato il 22 aprile, dopo la lettera a lui indirizzata fattagli avere da Moro. In quella famosa lettera agli “omini delle Brigate rosse il papa li invitò a liberare l’ostaggio “semplicemente, senza condizioni”: un particolare in linea con la linea della fermezza tenuta dal governo e, secondo l’opinione che ho ricavato da testimonianze e documenti, in qualche modo caldeggiata dal presidente del Consiglio Andreotti. Moro, che conosceva Paolo VI da lunga data, rimase deluso da quella lettera (cosa che scrisse anche alla moglie). Su altri piani gli uomini di Chiesa hanno tentato di aprire altri canali attraverso i cappellani delle carceri, o promuovere una raccolta di denaro per un eventuale riscatto da consegnare ai brigatisti in cambio della libertà dell’ostaggio. Iniziative sicuramente gradite al papa, se non da lui promosse, che però non portarono a nulla.
Chi fu il "cecchino" di Via Fani?
Allo stato delle indagini e dei suoi studi, chi fu la persona che, in Via Fani, usò la mitraglietta Skorpion con la quale furono assassinati quasi tutti i membri della scorta di Aldo Moro? Stefano Reggio Emilia.
Da quanto s’è accertato nei processi (attraverso le dichiarazioni di uno degli sparatori, cioè Valerio Morucci), a fare fuoco sulle due auto di Moro e della scorta furono lo stesso Morucci e gli altri brigatisti Raffaele Fiore, Franco Bonisoli e Prospero Gallinari.
DC e altri.
Mi ha colpito molto il personaggio Zaccagnini (l'onesto ZAC) davvero è stato così onesto nei confronti della famiglia Moro? E della richiesta in passato della Faranda di equiparare le BR che hanno scontato la pena ai familiari delle vittime cosa ne pensa? Ci sono ad oggi ancora punti oscuri del sequestro? Alessandro Poggio Moiano.
La famiglia Moro ha sempre rimproverato a Zaccagnini l’immobilismo della Democrazia cristiana che – a loro giudizio, ma anche, per molti versi, oggettivamente – contribuì ad arrivare alla tragica conclusione del sequestro. Zaccagnini si sentiva stretto tra il desiderio di fare qualcosa di utile per salvare il suo maestro e amico Moro e la convinta adesione all’impossibilità di fare qualche passo che legittimasse le Br sul piano politico; probabilmente rimasto lui stesso vittima di questa strettoia dalla quale non è riuscito a uscire. L’idea di equiparazione che lei attribuisce ad Adriana Faranda (che non so quando e come sia stata espressa, e in quali precisi termini) mi sembra difficile anche solo da immaginare, visto che è difficile mettere sullo stesso piano chi si è trovato vittima di scelte compiute da altri e chi invece s’è trovato in carcere per scelte fatte da se stesso.
Perchè
Perchè le brigate rosse non pubblicarono subito il testo degli interrogatori di Moro? Il contenuto di quei documenti non sarebbe stato più destabilizzante della morte dell'ostaggio? Marco - Roma.
Perchè le br non hanno mai reso pubblici gli interrogatori di Moro? Le informazioni contenute in quei documenti (in parte ritrovate in via monte nevoso) non sarebbero state molto più destabilizzanti dell'uccisione dell'ostaggio? Marco T. - Roma.
Le Br stavano trascrivendo il testo del cosiddetto “memoriale di Moro”, che poi sarebbero le sue risposte ai temi sottopostigli dai brigatisti nell’interrogatorio, a loro detta per la pubblicazione annunciata nell’ultimo comunicato emesso durante il sequestro. Ma nell’ottobre del 1978 i carabinieri fecero irruzione nel covo milanese di via Montenevoso arrestando due dei quattro membri del comitato esecutivo (cioè il “governo” dell’organizzazione) Bonisoli e Azzolini, e sequestrando quelle carte che, di conseguenza, non poterono più essere diffuse dalle Br che videro bloccata l’operazione che stavano facendo.
Chi sono i mandanti?
Mi sembra chiara la domanda spero altrettanto nella risposta. Saluti Renato dalla Comasina.
A costo di deluderla, credo che i mandanti del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro siano semplicemente i brigatisti che l’hanno realizzato e commesso. Altro discorso sarebbe quello su chi aveva interesse a che finisse in quel modo, e bisognerebbe discuterne a lungo.
Nuove indagini.
Vi sono nuove indagini? E se vi fossero, o si facessero con nuove metodologie RIS, si avrebbe qualche novità? Donato Toritto.
Al momento non mi risulta che ci siano nuove indagini, nonostante la richiesta di riapertura fatta da Maria Fida Moro sulle mosse di uno studente sovietico che seguiva le mosse di Moro all’università. Non mi pare che su quel fronte si siano raggiunti risultati di rilievo. Non credo che dalle nuove metodologie di indagini scientifiche possano arrivare conclusioni differenti da quelle che si conoscono.
Perchè l'esecuzione?
Perchè condannare a morte Moro, quando un Moro libero avrebbe messo fine al sistema politico vigente? Può trattarsi solo di miopia politica? Antonio di Formia.
Perché le Br ritennero di non aver ottenuto nemmeno la minima parte di ciò che avevano chiesto allo Stato, e valutarono che liberare il prigioniero avrebbe significato ammettere la propria sconfitta politica. Qualcuno all’interno delle Br era di altra opinione e propose di liberarlo ugualmente, ma era in netta minoranza e prevalse – dopo una consultazione formale – la decisione di uccidere Moro.
Misteri Italiani.
Quanti Misteri Italiani ci sono ancora che non si nulla? Emanuele Terni.
Tanti, purtroppo.
Dalla Chiesa.
Quale ruolo positivo o negativo ha avuto generale Dalla Chiesa nel sequestro Moro? Lino - Olbia.
Nelle indagini sul sequestro praticamente nessuno, essendo stato il suo nucleo sciolto prima del marzo 1978. Dopo l’omicidio di Moro, invece, Dalla Chiesa fu richiamato a occuparsi di terrorismo e cinque mesi dopo furono i suoi uomini ad entrare nella base brigatista milanese di via Montenevoso, arrestate gli occupanti e trovare il famoso memoriale (almeno una parte, perché un’altra saltò fuori dal retro di un pannello murato a dodici anni di distanza, sempre nello stesso appartamento).
Memoriale Moro.
Cosa pensa dei memoriali ritrovati negli anni novanta? Sono attendibili? Le informazioni in essi contenuti sono significative? Samuele Cagliari.
Attendibili lo sono, perché sono scritti da Moro come quello trovato nel ’78. L informazioni che Moro aveva fornito ai brigatisti non rivelavano segreti inconfessabili o chissà che altro, e furono gli stessi terroristi a giudicarle di scarso rilievo.
Fine del segreto di Stato.
Passati ormai 30 anni da questo triste episodio della nostra storia, non dovrebbe andare in "scadenza" il segreto di stato sui documenti e sul memoriale? E' incredibile come su una vicenda del genere ci siano ormai talmente tante versioni e tanti studi poter dire tutto ed il contrario di tutto Cristina, Milano.
Ufficialmente sul caso Moro non è mai stato apposto alcun segreto di Stato. Diverso discorso sarebbe se venissero aperti gli archivi dei servizi segreti e si trovassero documenti riservati di cui finora non s’è saputo nulla.
Quarto uomo.
E' mai esistito un quarto brigatista, come dice Flamigni, e se sì è possibile che fosse un altissimo esponente dello Stato? Marco Salerno.
Il “quarto” brigatista era il quarto carceriere di Moro rispetto ai tre di cui già si conosceva l’identità (Mario Moretti, Prospero Gallinari e Anna Laura Traghetti) e dal 1993 si sa chi fosse: era Germano Maccari, un brigatista “di borgata” come molti altri, che non aveva nulla a che fare con lo Stato.
Perchè lo hanno ucciso?
Perchè la Cia si è infiltrata nelle BR e ha ucciso Moro? Per via del "compromesso storico"? Andrea Bari.
Io non so (e sinceramente non credo) che la Cia si sia infiltrata nelle Br, quindi…
Le svolte della Storia.
La vicenda di Moro secondo alcuni rappresenta una di quelle svolte della storia, che accadono ogni tanto: una sorta di impennata "negativa". Lei che ne pensa di questa lettura dell'episodio? Francesco da Conversano (Ba).
Sicuramente fu una svolta, perché ha cambiato il corso della storia dell’Italia repubblicana.
L'inizio della fine.
Gentile Bianconi, lei si sente di sposare la tesi che le Br con il sequestro prima e l'uccisione poi dell'on.Moro si sia avviata con le sue mani verso la fine? Matteo Milano.
Rapimento.
Come si spiega che con il rapimento di Aldo Moro ci fu un'apice del terrorismo che poi negli anni 80 tutto rotolò nel dimenticatoio con la fine Terrorismo Rosso? Renzo-Milano.
Dal punto di vista politico è una lettura che può essere fatta, ma sul piano militare e della propaganda il periodo di massima espansione delle Br (sia per adesioni che per azioni commesse) è successivo al sequestro, nel 1979. Poi dall’80, con i pentiti, è cominciata la sconfitta “militare”. Fu quella la vera e decisiva “arma” messa in campo dallo Stato nella lotta al terrorismo, che si andò esaurendo con gli arresti andati avanti per tutto il decennio Ottanta. Poi è rispuntato nel ’99, con altri presupposti e con altre dimensioni.
Non come, ma perchè?
Sono stati consumati fiumi di inchiostro per indagare su come venne rapito Moro, sui depistaggi delle indagini e altri misteri, a volte fin troppo fantasiosi. Questo probabilmente oscura la domanda più importante: perchè venne rapito? Come mai non era protetto abbastanza?
Perché è stato rapito l’hanno spiegato abbastanza chiaramente i suoi rapitori, durante e dopo il sequestro. Sulla protezione, certamente insufficiente visto ciò che è accaduto, c’è da ricordare che in quel periodo erano pochissimi gli uomini politici a cui era dedicato un servizio di protezione migliore, cioè con 5 agenti di scorta intorno. La differenza l’avrebbe fatta, probabilmente l’auto blindata, ma non è detto che le Br non avrebbero escogitato in quel caso un piano alternativo, o usato le armi adeguate.
Tragitto casa Moro–Montecitorio.
Buongiorno, ho letto su uno dei numerosi libri che trattano il caso che le Br già sapessero del tragitto del segretario Dc . Com'è possibile datosi che Moro e la scorta cambiavano tragitto ogni giorno? Grazie Franz da Roma.
Non è esatto che Moro cambiasse tragitto ogni giorno. Ne aveva due o tre a secondo di dove doveva recarsi. Ma un edicolante di via Fani disse alla polizia il giorno stesso del sequestro che vedeva passarlo quasi ogni mattina.
Anni di piombo.
Cosa sono e perché si chiamano cosi esattamente gli anni di piombo? grazie Gregorio Oxford.
La definizione del periodo prende il nome da un film tedesco della regista Von Trotta che trattava il tema del terrorismo in Germania, e si riferisce al piombo sparato dai gruppi armati in quegli anni.
Prigionia.
Caro Bianconi, cosa ci può dire dei tanti misteri sul caso, come ad esempio quello sul luogo della prigionia? E, soprattutto, cosa ne pensa delle clamorose rivelazioni fatte dall'ex vicepresidente del CSM ed ex vicesegretario della Democrazia Cristiana Giovanni Galloni qualche anno fa a Rainews24? Segreta.
Io credo che sulla prigione non ci siano troppi misteri, e che effettivamente fu nell’appartamento di via Montalcini dove abitava Anna Laura Traghetti. Quanto alle rivelazioni dell’onorevole Galloni, il quale ha riferito nel 2005 presunte confidenze che gli avrebbe fatto Moro prima di essere rapito, mi chiedo solo come mai non ne abbia mai fatto cenno durante i giorni del sequestro, quando lui stesso partecipò non si sa bene a che titolo (era uno dei due vice-segretari della Democrazia cristiana) alle prime riunioni del comitato tecnico del Viminale per affrontare l’emergenza.
Moro e Banda della Magliana.
Buongiorno Bianconi, mi può chiarire i collegamenti tra il caso Moro e la Banda della Magliana? Grazie Andrea Shanghai.
In realtà di chiaro non c’è nulla. Non fosse perché la “banda della Magliana” in quanto tale nel 1978 s’era messa insieme da pochi mesi e non s’era ancora affermata sul territorio romano con il proprio primato sul piano criminale. Inoltre non era un’organizzazione verticistica da coinvolgere in quanto “entità”. Secondo alcune testimonianze ci fu, tra i membri della banda, chi fu contattato per avere qualche informazione sulla prigione di Moro, perché si pensava che attraverso il “controllo del territorio” dei banditi potessero arrivare informazioni sconosciute alle forze dell’ordine, ma non ne venne fuori nulla di concreto.
Dominio pieno e incontrollato.
A cosa si riferisce Moro quando in una delle sue lettere fa una profonda riflessione sulla situazione del suo partito e parla di un dominio pieno e incontrollato? Non era forse un messaggio in codice per farsi trovare? Condominio pieno di gente e non ancora controllato(incontrollato) Saluti Elio da Tempio Pausania.
Se anche fosse stato quello il messaggio (come qualcuno ritenne, già all’epoca), l’indicazione sarebbe stata talmente vaga da rivelarsi inutile, visto che a Roma, all’epoca, c’erano migliaia e migliaia di condomini pieni e non controllati dalle forze dell’ordine. Ma quella è una frase precisa, “dominio pieno e incontrollato” può anche voler dire ciò che significa in italiano, e cioè che Moro non controllava la situazione proprio perché si trovava nel "pieno dominio” dei suoi carcerieri, situazione che lo spingeva a dire il resto delle cose scritte in quella lettera.
Il vaticano.
Ma effettivamente il concordato fra comunisti e democristiani poteva essere accettato dalla politica del vaticano, se così fosse perché poi brigatisti hanno potuto aver scampo grazie anche all'interessamento di alcuni funzionari della santa sede. A chi faceva paura questo nuovo governo? Antonio Roma.
I buoni rapporti tra Moro e Paolo VI, così come quelli tra Andreotti e la santa Sede, fanno ritenere che le mosse dei due uomini politici non fossero così mal viste dalla dirigenza vaticana del 1978. Non credo che quello che è accaduto circa l’interessamento di alcuni religiosi al destino di alcuni brigatisti detenuti abbia a che fare con la politica vaticana di quella stagione.
Moro e misteri.
Secondo lei è vero che Moro poteva realmente essere ritrovato ed è vero che il rapimento Moro è stata una faccenda che ha travalicato i confini nazionali mettendo in campo anche "forze" estere? Emanuele Roma.
Certo le indagini fatte per individuare i brigatisti che l’avevano sequestrato e la prigione dove era tenuto non rappresentarono il massimo della professionalità e dell’efficienza. La polizia e i carabinieri conoscevano fin dall’inizio del sequestro i nomi di alcuni brigatisti che effettivamente avevano a che fare con il rapimento Moro, ma non furono in grado di arrivare a nulla durante i 55 giorni. Subito dopo l’omicidio di Moro, lo Stato richiamò in servizio antiterrorismo il generale dalla Chiesa, e i pochi mesi fu trovato il covo milanese di via Monte nevoso dove furono arrestati due dei quattro membri del comitato esecutivo delle Br e buona parte delle lettere e del memoriale di Moro.
I documenti.
Dove si trovano i vari documenti che lei cita? Sono riservati o liberamente consultabili? E se consultabili, sono stati usati per altre pubblicazioni? Paola da Roma.
Io ho lavorato su atti giudiziari e parlamentari in gran parte pubblici, oltre che sulla memorialistica e sulle testimonianze dei protagonisti che ho personalmente intervistato.
Le armi nel bagagliaio.
Quando venne sequestrato Moro, in via Fani, i cinque uomini della scorta stavano in un'auto che seguiva quella dell'esponente politico. Mi risulta che essi non abbiano potuto rispondere al fuoco delle Brigate Rosse perché tenevano le armi nel bagagliaio della macchina! Perché questa leggerezza? Vito - Palermo.
Uno dei mitra in dotazione alla scorta di Moro era nel bagagliaio dell’Alfetta di scorta, altre armi erano invece a disposizione degli agenti, che però non ebbero il tempo di usarle. Uno dei cinque uomini della sicurezza, l’agente Iozzino, riuscì a uscire dall’auto e sparare un paio di colpi, ma fu subito ucciso da uno dei brigatisti che parteciparono all’agguato.
Morte annunciata.
L'attenzione di Moro nei confronti del Pci creava problemi sia a destra che a sinistra, rompeva gli schemi nell'Alleanza Atlantica e nel Patto di Varsavia. La fine di Aldo Moro fu quindi inevitabile: "Una morte annunciata", come scrisse più tardi il fratello Carlo Alfredo Moro? Francesco Fondelli - Firenze.
Certamente la politica di Moro veniva seguita a livello internazionale, e certamente anche le superpotenze dell’epoca, Usa e Urss, erano interessate agli sviluppi della politica italiana così come Moro – insieme ad altri – la stava conducendo. Ma di qui a immaginare un ruolo delle forze straniere nella decisione delle Br di uccidere l’ostaggio ce ne corre. Non foss’altro perché con le ipotesi senza prove (e in questo caso le prove mancano) non si può fare la storia. E’ comunque più verosimile – semmai – un condizionamento esterno degli eventi che possa aver indotto i brigatisti a uccidere Moro che non un intervento diretto sulle loro scelte.
Le foto di via Fani.
Vorrei sapere se esistono le foto scattate a via Fani da una signora durante l'attacco. Ci sono ancora, ci sono mai state? Marco Sulmona.
Una testimone ha riferito che suo marito scattò delle foto in via Fani subito dopo l’agguato e che poi il rullino fu consegnato alla magistratura. Quel rullino, poi, è sparito. E’ uno dei misteri dell’inchiesta sul rapimento Moro, mai risolto. Tuttavia è da precisare che le foto si riferivano al dopo, cioè quando i brigatisti se n’erano già andati portandosi via Moro.
Affaire Moro.
Secondo lei, Andreotti e Cossiga potrebbero chiarire i dubbi rimasti sull'affaire Moro? Se si perchè? grazie Giuliano Arezzo.
Potrebbero raccontare molte verità su come loro – e quindi il governo – si comportarono nei 55 giorni. Per quel poco che l’hanno fatto, purtroppo, molte cose non sembrano coincidere con la verità.
Guardare avanti.
Ero piccolo a quel tempo, ma ho il ricordo vivo delle immagini televisive e del clima che si respirava. L'ho rivissuto da più grande con l'11 settembre. La domanda però che mi faccio è: perchè c'è bisogno di parlarne ancora dopo 30 anni? Non è forse questo un modo per non guardare avanti? Lodi.
Sinceramente non credo. Piuttosto, visto che questa vicenda ha segnato in modo irreversibile la storia d’Italia, approfondirla e cercare di chiarirla il più possibile, anche per i più giovani, potrebbe essere un modo per affrontare meglio il futuro. Come del resto dimostra l’intervento di un’altra persona che trascrivo qui sotto.
Ieri, oggi, e domani?
Dopo 30 anni di duro lavoro, si sa tanto ma non abbastanza. Basteranno altri 30 per vedere un po' più chiaro? Perchè si continua a bussare ad una porta che nessuno vuole aprire? Saluti e buon lavoro Pietro dall' Olanda.
Li conosciamo tutti?
Da quanti terroristi era composto il commando che operò il 16 marzo? E li conosciamo tutti? Angelo Garbellano Montescaglioso.
Per quello che se ne sa sì. Il gruppo era composto da dieci persone, tutti individuati. Una sola non è stata condannata (ma è detenuta, con l’ergastolo da scontare, per altri reati mentre un altro è stato condannato ma mai arrestato (è tutt’ora latitante all’estero, in Nicaragua). Gli altri hanno scontato pene variabili, e sono tutti liberi, “similiberi” o in regime di detenzione “attenuata”.
Memoriale.
Quanta parte del memoriale Moro è' stato ritrovato? Da chi? E' stato reso tutto pubblico o è stato segretato? Grazie Giorgio - Torino.
Quello ritrovato è stato reso pubblico, in due fasi che coincidono coi due ritrovamenti (1978 e 1990) Non è certo, però, che sia la versione integrale di quanto Moro ha scritto. Inoltre è stata ritrovata solo la fotocopia, mentre dell’originale non s’è mai avuta notizia.
Alla fine.
Secondo lei su questa vicenda si è già detto tutto? Ho letto il suo (bellissimo) libro e (mi sembra) emerga una classe politica ed un apparato investigativo non all'altezza. Ma personaggi come Moretti o altri cosa nascondono? Sulla Dc solo un giudizio politico o anche storico? Grazie Ettore Froio.
Anche Moretti e altri brigatisti, potrebbero certamente aggiungere dettagli o sciogliere interrogativi che ancora restano insoluti (per esempio il destino dell’originale del memoriale Moro); allo stesso modo i dirigenti democristiani dell’epoca, in modo da consentire un giudizio storico oltre che politico sul comportamento di quello che fui il partito di Moro.
Moro.
Chi ha voluto Moro
morto non certo i brigatisti (solo esecutori). Tu che ne pensi? Aurelio Mazara
del Vallo.
....doveva morire.....
Salve, un nuovo libro. E' presto per parlarne, o lo Statista era scomodo in un periodo di guerra fredda, che sappiamo, come influisca su milioni di grandi elettori (la gente che va al voto). I bilanci sulla sicurezza e sulla salute passano come fiumi in piena. Lei, di cosa è convinto del caso Moro? Albino da Roma.
Sinceramente penso che i brigatisti l’hanno voluto visto che l’hanno ucciso e avrebbero potuto non farlo. Dopodiché, molti altri potrebbero aver voluto la morte dell’ostaggio, magari anche cercando di “indirizzare” le indagini o la politica italiana in maniera che le Br uccidessero Moro.
Bobine.
Risulterebbe che l'interrogatorio di Moro sia stato registrato. Dove sono finite le bobine? e ancora, a proposito delle trascrizioni trovate in via Monte Nevoso, erano le uniche in circolazione? Roberto Milano.
L’interrogatorio, secondo le testimonianze dei brigatisti presenti nella prigione di Moro, fu inizialmente registrato per poi essere trascritto, ma dopo i primi giorni i brigatisti si resero conto che il lavoro sarebbe stato lungo e difficile. Allora decisero di rinunciare, e le bobine con la voce di Moro sarebbero state distrutte. Quanto alle “risposte scritte” dell’ostaggio alle domande dei suoi carcerieri, cioè il cosiddetto memoriale, quello trovato è solo la fotocopia e non è escluso che ci possano essere altre parti mai uscite.
Carriere folgoranti. E' curioso scoprire come i protagonisti principali e marginali alla vicenda Moro abbiano intrapreso carriere di tutto rispetto negli anni a seguire, in particolare mi riferisco a Tavaroli e Mancini comandati allora dal Gen. Dalla Chiesa nella sezione antiterrorismo. Coincidenze? Badiani Firenze.
Dai dati anagrafici che ricordo mi pare che Mancini e Tavaroli avessero all’epoca del sequestro Moro meno di vent’anni, quindi ritengo che con il sequestro Moro c’entrassero poco o nulla. Hanno partecipato ad operazioni antiterrorismo solo negli anni successivi.
Rimorso o fallimento?
Vorrei sapere una Sua opinione, non avendo vissuto direttamente quegli anni a causa della giovane età, sulle dimissioni dell'allora Ministro degli Interni Cossiga. Fu effettivamente la constatazione del fallimento dello Stato oppure il rimorso per non essere riusciti a salvare Moro? Pietro De Montis - Modena.
Probabilmente tutte e due le cose….
Realtà dei fatti.
Secondo voi l'On. Aldo Moro è stato veramente abbandonato dalle istituzioni e dal suo partito (Zaccagnini, Andreotti Etc.) Armando L'Aquila.
Che ciò sia avvenuto mi pare indubbio. Il problema è se questa sia stata una scelta obbligata, come gli uomini di governo e di partito di allora dissero e dicono ancora oggi, oppure se se ne poteva fare un’altra…
Teoria del complotto.
Pur non avendo mai creduto alla teoria del complotto internazionale sono sempre rimasto incuriosito dalla vicenda. Vorrei sapere cosa pensa dei punti oscuri come: 1-presenza di almeno un soggetto non identificato sul luogo dell'agguato; 2-luogo della prigionia; 3-memoriale Giuseppe Firenze.
Al momento non risulta che ci sia un soggetto non identificato in via Fani. Si continua piuttosto a parlare di una moto con due persone a bordo dalla quale sarebbero partiti dei colpi contro un testimone, ma i brigatisti hanno sempre smentito che quelli ipotetici) motociclisti facessero parte del commando. Il luogo della prigionia è l’appartamento di via Montalcini appositamente acquistate dalle Br. Qualcuno sostiene che dev’esserci almeno un’altra prigione, ma non solo non s’è mai saputo nemmeno indicare dove fosse; non s’è mai nemmeno saputo spiegare adeguatamente per quale motivo dovrebbe esserci. Sul memoriale resta il mistero dell’originale (quelle trovate sono solo le fotocopie) e se sia completo. Giovanni Bianconi. 10 marzo 2008 (ultima modifica: 30 giugno 2008) Corriere della Sera”.
Papa Francesco "riapre" il caso Moro. Antonio Mennini, ora nunzio apostolico nel Regno Unito, sarà ascoltato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla vicenda: c'è l'ok di Papa Francesco. L'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga aveva detto che Mennini, all'epoca giovane sacerdote, avrebbe addirittura confessato Aldo Moro durante la prigionia, scrive il 07 marzo 2015 "Today". Parlare di svolta, forse, non è un'esagerazione. Perché il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro restano una delle pagine più oscure e drammatiche della storia italiana. E la verità, tutta la verità, non è mai venuta alla luce. I misteri che avvolgono il sequestro del cinque volte Presidente del Consiglio e Segretario della Democrazia Cristiana sono ancora tanti. Papa Francesco a sorpresa ha dato il via libero in modo che Antonio Mennini, ora nunzio apostolico nel Regno Unito, venga ascoltato dalla Commissione d'inchiesta sulla vicenda. Che cosa c'entra un prete con il sequestro Moro. L'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga aveva detto che Mennini, all'epoca giovane sacerdote, avrebbe addirittura confessato Aldo Moro durante la prigionia. Oggi il Corriere della Sera ricorda come secondo alcune voci mai confermate, ma evidentemente persistenti, Mennini era diventato un canale di mediazione, l'unico, tra il Vaticano e le Brigate rosse: il Papa Paolo VI era un amico personale di Moro. C'è grande attesa per la deposizione del prossimo 9 marzo, quando opererà la nuova Commissione parlamentare d'inchiesta sul delitto di via Fani. Nei quasi 37 anni che ormai ci separano da quei drammatici giorni, Mennini non ha mai parlato in tribunale né rilasciato interviste di alcun tipo. Il segnale che Papa Francesco vuole dare è chiaro: collaborazione e trasparenza totale con le autorità italiane, un netto cambio di passo rispetto al passato. In tutti questi anni Mennini non si è mai esposto, ha ricoperto per il Vaticano vari incarichi. Tra due giorni il nunzio arriverà a Roma a deporre a San Macuto, sede della Commissione, nonostante sia un diplomatico e goda di immunità speciali.
ALDO MORO, LA GENUINITA’ DELLE LETTERE E LA TRATTATIVA.
Il rapimento Moro e l’umanista dell’Osservatore. Approfondimento della rubrica “Piccole Note” de “Il Giornale” il 16 marzo 2016. Quella che pubblichiamo è una lettera inedita di Guido Gonella, illustre esponente politico della Democrazia cristiana, consegnata ai familiari nei giorni bui del rapimento di Aldo Moro. È datata infatti 2 maggio 1978, pochi giorni prima del tragico epilogo di quella oscura vicenda, iniziata il 16 marzo con il rapimento dello statista democristiano e l’uccisione della sua scorta (oggi ricorre l’anniversario). La rendiamo nota per gentile concessione della famiglia, anche perché crediamo che abbia un certo valore storico. Questo il testo della missiva: «Nel caso in cui fossi catturato non credete ad alcun scritto o parola che mi fosse attribuito dagli aggressori. Per la mia liberazione non fate nulla che sia in contrasto con i doveri morali e civili. Auguro che ogni mio sacrificio sia utile alla causa per la quale ho combattuto in tutta la mia vita. Abbraccio i miei figli diletti, le loro famiglie, i miei cari amici e collaboratori, e confido che preghino con me per la salvezza della mia anima e perché Dio sia misericordioso verso questo suo figlio che desidera morire nella sua fede cristiana». Firmato Guido Gonella. Diversi gli spunti di interesse di tale scritto. Ne accenniamo di seguito in un articolo forse troppo lungo per la lettura via internet (ma si può stampare). Purtroppo l’analisi della missiva necessita di uno sviluppo articolato. Ce ne scusiamo con i lettori. Anzitutto va rilevato come nella sua lettera Gonella chiede ai familiari di non dare alcun peso a scritti e parole che gli fossero attribuiti in caso di rapimento. Un’indicazione importante perché evidenzia la percezione che lo scrivente aveva riguardo le lettere che Moro inviava dalla dura prigione brigatista. Su tali scritti si è svolto, negli anni, un dibattito notevole, in particolare sulla loro autenticità e la possibile costrizione subita o meno da Moro nel redigerli. Non interessa in questa sede riprendere l’articolato dibattito che, al di là delle diverse interpretazioni, ha visto una convergenza riguardo la loro genuinità. Val la pena, però, accennare che nella sua lettera Gonella mostra di non ritenere affatto autentiche tali missive (il cosiddetto Memoriale sarà ritrovato solo in seguito). O quantomeno reputa siano state estorte allo statista dai suoi feroci carcerieri. Il fatto che tale convinzione fosse affidata a una lettera privata della quale non era prevista né richiesta postuma pubblicizzazione rende tale convinzione scevra da ogni retroscena di carattere politico. Così la missiva di Gonella rende l’idea di una convinzione che, di là del dibattito sul tema, aleggiava in quei giorni all’interno della Democrazia cristiana, o in parte di essa, e nell’intero Paese (sui giornali, ad esempio). Una considerazione che va tenuta presente anche per capire meglio il complesso clima, anche psicologico, che si respirava nell’Italia del tempo. Ma al di là delle indicazioni psicologiche fornite dalla lettera in questione, essa ha anche altra e più importante valenza. È possibile che anche altri esponenti democristiani abbiano scritto missive simili in quei terribili giorni, tra questi sembra Paolo Emilio Taviani. E però è sicuro che non c’era alcun ordine di scuderia in proposito. Così appare alquanto strano che a redigere un documento del genere sia stata una figura come Guido Gonella. Fondatore della Democrazia cristiana insieme ad Alcide De Gasperi, egli fu uno degli uomini politici più rilevanti del dopoguerra: non solo nel partito che aveva contribuito a fondare, ma anche nell’ambito dello Stato. E però la sua storia politica si era di fatto esaurita con la morte di De Gasperi, del quale rappresentava una sorta di anima gemella. Certo, aveva ricoperto alcuni incarichi importanti anche successivamente, come una sorta di saggio decano al quale ricorrere in particolari circostanze, ma al tempo del rapimento Moro quell’impegno pubblico apparteneva al passato ed egli era ormai fuori da ogni gioco politico di rilievo. Eppure, nonostante fosse uomo rigoroso e affatto incline a indulgere al timore (per lui parla la storia), si sentiva tanto minacciato da redigere una sorta di testamento spirituale. Per comprendere tale iniziativa ci può forse soccorrere la storia. Gonella era forse l’esponente della Democrazia cristiana più legato al Vaticano (insieme a Moro e ad Andreotti), e in particolare a Paolo VI. Quel Montini che, giovane monsignore, aveva ricoperto la delicatissima carica di sostituto della Segreteria di Stato e, durante il regime fascista, volle fosse affidato proprio a Gonella l’incarico di redigere una rubrica di Esteri sull’Osservatore romano: gli Acta diurna, che in quegli anni costituì una delle poche voci libere del Paese. Una rubrica che, grazie all’accuratezza delle informazioni e all’intelligenza dell’illustre cronista, divenne un faro di orientamento non solo per i cattolici ma per l’intero antifascismo italiano, militante e non. Tanto che Gonella subì le conseguenze del caso: arrestato, anche se per pochi giorni (fu rilasciato grazie all’intercessione di Montini), fu costretto anche ad abbandonare l’insegnamento e la sua rubrica. Insomma, l’esponente Dc aveva un rapporto intimo con Montini. Un filo che non si sarebbe interrotto negli anni. E qui torniamo ai drammatici giorni del rapimento Moro. Paolo VI ebbe molto a cuore la sorte dello statista sequestrato, uno dei suoi pupilli quando era assistente ecclesiastico della Fuci. Tanto che si spese fino in fondo per la sua sorte, non solo chiedendone ai brigatisti «in ginocchio» la liberazione, ma anche propiziando alcuni tentativi esperiti in tal senso. Uno di questi è stato rivelato in anni recenti da Giulio Andreotti (vd dopo), che ha parlato a più riprese di un tentativo di accordo con le brigate rosse. Un tentativo giocato sottotraccia, in un negoziato segreto condotto da monsignor Curoni, il coordinatore nazionale dei cappellani delle carceri, grazie a un contatto con un detenuto. La trattativa prevedeva il rilascio di Moro in cambio di una somma di denaro. Un tentativo condotto di comune accordo tra Andreotti, allora capo del governo, e Paolo VI tramite il suo segretario personale, monsignor Pasquale Macchi. E che si era quasi concretizzato prima di saltare a causa della mendacità del tramite con i terroristi. Così Andreotti: «Comunque proprio il 9 maggio, mentre Moro veniva ucciso, il falso mediatore stava per avere un colloquio dall’apparenza conclusiva». È possibile che in tale trattativa, o forse in altre e meno aleatorie rimaste ancora segrete, abbia avuto un ruolo anche Gonella, dato il suo antico legame con Paolo VI e con Andreotti (al quale lo legava il passato fucino e l’antica comune vicinanza a De Gasperi). Proprio queste prossimità facevano di Gonella il tramite ideale tra il Presidente del Consiglio e il Papa. Un tramite ideale anche sotto un altro profilo: la sua marginalità rispetto ad altre figure della Dc gli consentiva una libertà di azione (e di “discrezione”) impossibile ad altri. Si tratta solo di un’ipotesi. Il rigore morale di Gonella, che sulla vicenda Moro e altro ha conservato una riservatezza assoluta anche con i familiari, non ci consente di dare ulteriori elementi in proposito. E però, un possibile ruolo di Gonella in tal senso sembra potersi desumere anche da un altro piccolo indizio. Nella lettera (vd dopo) dal carcere brigatista recapitata a Benigno Zaccagnini il 24 aprile (alcuni giorni prima della missiva-testamento di Gonella), nella quale usava toni molto duri contro la Dc e “preannunciava” il suo prossimo assassinio, Moro faceva cenno proprio a Gonella, indicandolo come «umanista dell’Osservatore». Tanti e diversi hanno ipotizzato che tra le righe delle sue missive Moro celasse messaggi in codice per i suoi interlocutori. Messaggi che la sua condizione di prigioniero costringeva all’implicito; un implicito che la sua cultura e la lunga esperienza politica gli consentivano di dosare in maniera mirabile. Nel caso specifico l’espressione «umanista dell’Osservatore» riferita a Gonella appare alquanto insolita, sia nell’associazione che nella terminologia. Viene richiamata infatti una storia non attuale, ma che riguarda il fascismo: a quel periodo infatti risale la collaborazione di Gonella con il quotidiano vaticano, come a tracciare un collegamento tra la situazione presente e quella di allora. Ancor più singolare la definizione di «umanista» associata a Gonella: egli infatti non era certo assurto a notorietà per la sua propensione alla cultura classica e alle arti, ma per l’impegno politico e l’attività giornalistica. Tale termine allora potrebbe rimandare ad altro. Si noti, infatti, che la parola umanista (o umanistica, termini interscambiabili perché di uguale significato) abbia certa qual assonanza con la parola «umanitaria». E proprio la «soluzione umanitaria» era il tema ricorrente delle missive del rapito; soluzione alla quale affidava le sue speranze di liberazione nell’ambito di una trattativa con i brigatisti. Peraltro colpisce come il nome di Gonella nella lettera di Moro sia indicato dopo quello di altri esponenti Dc: «Gui, Misasi, Granelli, Gava, Gonella». E solo al nome di Gonella è associata una notazione particolare, «l’umanista del Vaticano», appunto. Un cenno che non viene speso per gli altri… Insomma, la missiva a Zaccagnini potrebbe contenere un suggerimento, implicito ma intellegibile ai suoi interlocutori (ai quali lo univano anni di comune militanza e affinità elettive, come accenna anche in quella lettera), di affidare proprio a Gonella il compito di tramite, nel segreto, in una trattativa umanitaria da condurre attraverso il Vaticano. Il riferimento all’Osservatore romano contenuto nella lettera di Moro, allora, nel richiamare l’antico incarico di Gonella, potrebbe essere un’ulteriore indicazione in tal senso. Si tratta solo di ipotesi, ma crediamo abbiano certa qual ragionevolezza di fondo. Colpisce anche la data, prossima a quel fatidico 5 maggio in cui le brigate rosse divulgano il Comunicato numero 9 (vd dopo), nel quale viene annunciata la sentenza di morte dello statista Dc. Giorni delicatissimi dunque, che precipitavano verso la tragedia. Di per sé, però, tale circostanza non avrebbe dovuto cambiare la percezione del rischio personale da parte di Gonella, data appunto la sua posizione defilata rispetto ai suoi compagni di partito e di altri protagonisti della vita pubblica di allora. E però è possibile invece che l’incrudelirsi del momento, o qualche incarico particolare, abbia indotto Gonella a percepire un pericolo ulteriore connesso a un suo (possibile) ruolo di mediatore tra Palazzo Chigi e Vaticano. Un rischio proporzionale alla decisione delle Brigate rosse, o meglio di parte di esse, di chiudere la vicenda in via definitiva, sbarrando la strada a possibili ipotesi alternative. Val la pena, in conclusione, soffermarsi su un’altra indicazione fornita dal documento inedito. Nella lettera di Gonella le brigate rosse non sono mai indicate con il loro nome, nonostante il riferimento sia palese. L’esponente democristiano, da uomo di grande intelligenza e da lucidissimo giornalista, sapeva dar peso alle parole, come anche al non detto. Così quella omissione suona alquanto significativa. E va letta nel contesto integrale del documento, nel quale lega quella tragica temperie presente al passato, il contrasto al terrorismo con quello al fascismo, come parte di un’unica lotta per la libertà. Cenno particolarmente significativo per la percezione che l’esponente della Dc, e non solo lui, aveva della sfida costituita dal terrore brigatista. Un’ultima nota va infine spesa per evidenziare lo spessore umano che traspare dalla missiva e la profonda fede che la sottende. Altri tempi, altri politici. La storia della Democrazia cristiana, e di tanta politica italiana, è anche questa. Tenerlo presente aiuterebbe anche a dissipare le nebbie del presente.
Monsignor Pasquale Macchi ha presentato il 15 giugno 1998, il suo libro Paolo VI e la tragedia di Moro. Ogni anno il 6 agosto, festa della Trasfigurazione e anniversario della morte del papa Paolo VI, don Pasquale Macchi era lì in San Pietro per la messa di suffragio. Constatava con gioia che non si verificava un calo di partecipazioni. Anzi, dalla Cappella nelle Grotte Vaticane si era dovuto spostare la celebrazione nella Basilica; esattamente all’altare della Cattedra, scrive Giulio Andreotti ad aprile 2006 su “30 Giorni”, mensile internazionale diretto da Giulio Andreotti dal 1993 al 2012. Ogni anno il 6 agosto, festa della Trasfigurazione e anniversario della morte del papa Paolo VI, don Pasquale Macchi era lì in San Pietro per la messa di suffragio. Constatava con gioia che non si verificava un calo di partecipazioni. Anzi, dalla Cappella nelle Grotte Vaticane si era dovuto spostare la celebrazione nella Basilica; esattamente all’altare della Cattedra. Qualche vuoto tra noi vecchi fucini non era dovuto a intiepidimento del ricordo o alla calura di agosto. Uno ad uno si ritorna – speriamo bene – alla Casa del Padre. La nuova devozione a Gesù Misericordioso accresce la speranza che non vada male. A Roma Macchi veniva altre volte, nel corso dell’anno, soggiornando con due amici sacerdoti che l’hanno preceduto: padre Carlo Cremona e monsignor Donato De Bonis. Ora si ritrovano lassù. Del suo Papa don Pasquale ha sempre coltivato la memoria con affetto filiale e con grande intelligenza, sottolineando in particolare l’apertura all’arte contemporanea, di cui le nuove stanze nei Musei Vaticani rappresentano la punta più elevata. Al riguardo posso ricordare un episodio divertente. Quando cinquant’anni fa il mercato delle litografie di Chagall aveva quotazioni quasi irrilevanti, acquistai a Parigi una della serie biblica, che faceva spicco nel mio studio. Con garbo don Macchi mi fece capire che avrebbe figurato bene in Vaticano: d’accordissimo. Qualche tempo dopo mia moglie, visitando il Museo stesso (in occasione dell’acquisizione di opere di Manzù), fu colpita dalla somiglianza della litografia di Chagall con quella... mia. Ma non era solo passione artistica a spingere Macchi (e papa Montini). Era un mezzo per esercitare apostolato evangelizzatore in un ambiente da molto tempo quasi del tutto divaricato dalla Chiesa. Macchi continuò anche a Loreto e dopo. Basti pensare al sostegno verso Floriano Bodini, con le due bellissime statue di Paolo VI al Sacro Monte di Varese e nell’Aula Nervi. Perché Macchi non ne ha parlato nel libro e anche dopo non descrisse il fatto? Credo che si aveva il timore, fino a che monsignor Curoni era vivo, che i giudici potessero costringere lui e il cappellano milanese a render noto il nome del carcerato che aveva avanzato la proposta. La nostra legislazione penale ammette il diritto di non rispondere invocando il segreto confessionale? Comunque proprio il 9 maggio, mentre Moro veniva ucciso, il falso mediatore stava per avere un colloquio dall’apparenza conclusiva. Dei libri scritti da Macchi particolare valore storico ha il diario sulle tremende settimane della cattura e dell’assassinio di Aldo Moro. Quasi ogni sera don Pasquale veniva a casa mia per aggiornare il Pontefice, studiare possibili interventi, confortarci reciprocamente. Nel libro vi è solo una omissione, riguardo all’ipotesi del pagamento di un riscatto che la Santa Sede era prontissima a versare. Questo non urtava – come le trattative politiche con le Brigate – contro invalicabili questioni di principio e lo incoraggiai. Tramite il coordinatore nazionale delle Carceri monsignor Curoni, un cappellano milanese aveva trasmesso questa richiesta-proposta. Ma era un tramite valido? Macchi mi disse che gli avevano chiesto una “prova” che fosse veramente collegato. La dette dicendo di non prendere sul serio il comunicato delle Brigate del giorno successivo. Fu quello clamoroso che annunciava la morte di Aldo, il cui cadavere si diceva essere stato gettato nel lago reatino della Duchessa. Grande emozione, immediato sopralluogo e ricerca: vi era un cadavere, ma non era Moro. Le Brigate Rosse si affrettarono a denunciare la falsità del comunicato, dando quasi a credere che fosse una manovra governativa. Tutto però si dissolse con l’assassinio del 9 maggio e il ritrovamento emblematico della salma in via delle Botteghe Oscure. Da tutto quel che si è appreso sembra certo che la richiesta di riscatto non era partita né aveva possibilità di sbocco nei carnefici di Moro e della sua scorta. È stata anzi collegata a un personaggio di cronaca nerissima, già autore di un assalto a un furgone valori. Perché Macchi non ne ha parlato nel libro e anche dopo non descrisse il fatto? Credo che si aveva il timore, fino a che monsignor Curoni era vivo, che i giudici potessero costringere lui e il cappellano milanese a render noto il nome del carcerato che aveva avanzato la proposta. La nostra legislazione penale ammette il diritto di non rispondere invocando il segreto confessionale? Comunque proprio il 9 maggio, mentre Moro veniva ucciso, il falso mediatore stava per avere un colloquio dall’apparenza conclusiva. A dare speranza che l’epilogo non fosse quello tragico aveva dato motivo negli ultimi giorni la lettera di Aldo nella quale chiedeva di passare dal Gruppo parlamentare democristiano a quello “Misto”. Rientrava negli sforzi per sfuggire alla morte accreditando verso i suoi carcerieri l’ipotesi che vivo e libero sarebbe stato un feroce contestatore contro di noi e contro i comunisti. Il libro-cronaca di don Macchi è chiarissimo su un punto. Quando Paolo VI scrisse la lettera ai rapitori, invocando che rilasciassero Moro senza condizioni, non aveva avuto alcun suggerimento. Come, poi, il Papa avesse vissuto la tragedia lo si vide a San Giovanni in Laterano quando non solo stigmatizzò i carnefici, ma rimproverò Dio per non aver ascoltato la sua preghiera. In tanti eventi – non certo paragonabili a questo – Macchi fu fedelissimo esecutore degli ordini di Paolo VI. La carità del Papa – nel senso più vasto del termine – era di una profondità e vastità infinite. Don Macchi ne restò sempre edificato.
Lettera a Benigno Zaccagnini. Recapitata il 24 aprile. "Caro Zaccagnini, ancora una volta, come qualche giorno fa m'indirizzo a te con animo profondamente commosso per la crescente drammaticità della situazione. Siamo quasi all'ora zero: mancano più secondi che minuti. Siamo al momento dell'eccidio. Naturalmente mi rivolgo a te, ma intendo parlare individualmente a tutti i componenti della Direzione (più o meno allargata) cui spettano costituzionalmente le decisioni, e che decisioni! del partito. Intendo rivolgermi ancora alla immensa folla dei militanti che per anni ed anni mi hanno ascoltato, mi hanno capito, mi hanno considerato l'accorto divinatore delle funzioni avvenire della Democrazia Cristiana. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con la folla dei militanti. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con gli amici della Direzione del Partito o dei Gruppi parlamentari. Anche negli ultimi difficili mesi quante volte abbiamo parlato pacatamente tra noi, tra tutti noi, chiamandoci per nome, tutti investiti di una stessa indeclinabile responsabilità. Si sapeva, senza patti di sangue, senza inopinati segreti notturni che cosa voleva ciascuno di noi nella sua responsabilità. Ora di questa vicenda, la più grande e gravida di conseguenze che abbia investito da anni la D.C., non sappiamo nulla o quasi. Non conosciamo la posizione del Segretario né del Presidente del Consiglio; vaghe indiscrezioni dell'On. Bodrato con accenti di generico carattere umanitario. Nessuna notizia sul contenuto; sulle intelligenti sottigliezze di Granelli, sulle robuste argomentazioni di Misasi (quanto contavo su di esse), sulla precisa sintesi politica dei Presidenti dei Gruppi e specie dell'On. Piccoli. Mi sono detto: la situazione non è matura e ci converrà aspettare. E' prudenza tradizionale della D.C. Ed ho atteso fiducioso come sempre, immaginando quello che Gui, Misasi, Granelli, Gava, Gonella (l'umanista dell'Osservatore) ed altri avrebbero detto nella vera riunione, dopo questa prima interlocutoria. Vorrei rilevare incidentalmente che la competenza è certo del Governo, ma che esso ha il suo fondamento insostituibile nella D.C. che dà e ritira la fiducia, come in circostanze così drammatiche sarebbe giustificato. E' dunque alla D.C. che bisogna guardare. Ed invece, dicevo, niente. Sedute notturne, angosce, insofferenza, richiami alle ragioni del Partito e dello Stato. Viene una proposta unitaria nobilissima, ma che elude purtroppo il problema politico reale. Invece dev'essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra (guerra o guerriglia come si vuole), come si pratica là dove si fa la guerra, come si pratica in paesi altamente civili (quasi la universalità), dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente. Perché in Italia un altro codice? Per la forza comunista entrata in campo e che dovrà fare i conti con tutti questi problemi anche in confronto della più umana posizione socialista? Vorrei ora fermarmi un momento sulla comparazione dei beni di cui si tratta: uno recuperabile, sia pure a caro prezzo, la libertà; l'altro, in nessun modo recuperabile, la vita. Con quale senso di giustizia, con quale pauroso arretramento sulla stessa legge del taglione, lo Stato, con la sua inerzia, con il suo cinismo, con la sua mancanza di senso storico consente che per una libertà che s'intenda negare si accetti e si dia come scontata la più grave ed irreparabile pena di morte? Questo è un punto essenziale che avevo immaginato Misasi sviluppasse con la sua intelligenza ed eloquenza. In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice come primo segno di autentica democratizzazione. Con la sua inerzia, con il suo tener dietro, in nome della ragion di Stato, l'organizzazione statale condanna a morte e senza troppo pensarci su, perché c'è uno stato di detenzione preminente da difendere. E' una cosa enorme. Ci vuole un atto di coraggio senza condizionamenti di alcuno. Zaccagnini, sei eletto dal congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza. E poi, detto questo, io ripeto che non accetto l'iniqua ed ingrata sentenza della D.C. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. Nessuna ragione politica e morale mi potranno spingere a farlo. Con il mio è il grido della mia famiglia ferita a morte, che spero possa dire autonomamente la sua parola. Non creda la D.C. di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della D.C. si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore. Cordiali saluti 24-4-78 Aldo Moro On. Benigno Zaccagnini. P.S. Diffido a non prendere decisioni fuori dagli organi competenti di partito".
Comunicato n. 9. Il comunicato numero nove delle Br è trovato il 5 maggio 1978. "ALLE ORGANIZZAZIONI COMUNISTE COMBATTENTI, AL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO, A TUTTI I PROLETARI. Compagni, la battaglia iniziata il 16 marzo con la cattura di Aldo Moro è arrivata alla sua conclusione. Dopo l'interrogatorio ed il Processo Popolare al quale è stato sottoposto, il Presidente della Democrazia Cristiana è stato condannato a morte. A quanti tra i suoi compari della DC, del governo e dei complici che lo sostengono, chiedevano il rilascio, abbiamo fornito una possibilità, l'unica praticabile, ma nello stesso tempo concreta e reale: per la libertà di Aldo Moro, uno dei massimi responsabili di questi trent'anni di lurido regime democristiano la libertà per tredici Combattenti Comunisti imprigionati nei lager dello Stato imperialista. LA LIBERTA QUINDI IN CAMBIO DELLA LIBERTA. In questi 51 giorni la risposta della DC, del suo governo e dei complici che lo sostengono, è arrivata con tutta chiarezza, e più che con le parole e con le dichiarazioni ufficiali, l'hanno data con i fatti, con la violenza controrivoluzionaria che la cricca al servizio dell'imperialismo ha scagliato contro il movimento proletario. La risposta della DC, del suo governo e dei complici che lo sostengono, sta nei rastrellamenti operati nei quartieri proletari ricalcando senza troppa fantasia lo stile delle non ancora dimenticate SS naziste nelle leggi speciali che rendono istituzionale e "legale" la tortura e gli assassinii dei sicari del regime negli arresti di centinaia di militanti comunisti (con la lurida collaborazione dei berlingueriani) con i quali si vorrebbe annientare la resistenza proletaria. Lo Stato delle multinazionali ha rivelato il suo vero volto, senza la maschera grottesca della democrazia formale, è quello della controrivoluzione imperialista armata, del terrorismo dei mercenari in divisa, del genocidio politico delle forze comuniste. Ma tutto questo non ci inganna. La ferocia, la violenza sanguinaria che il regime scaglia contro il proletariato e le sue avanguardie, sono soltanto le convulsioni di una belva ferita a morte e quello che sembra la sua forza dimostra invece la sua sostanziale debolezza. In questi 51 giorni la DC e il suo governo non sono riusciti a mascherare, neppure con tutto l'armamentario della controguerriglia psicologica, quello che la cattura, il processo e la condanna del Presidente della DC Aldo Moro, è stato nella realtà: una vittoria del Movimento Rivoluzionario, ed una cocente sconfitta delle forze imperialiste. Ma abbiamo detto che questa è stata solo una battaglia, una fra le tante che il Movimento Proletario di Resistenza Offensivo sta combattendo in tutto il paese, una fra le centinaia di azioni di combattimento che le avanguardie comuniste stanno conducendo contro i centri e gli uomini della controrivoluzione imperialista, imprimendo allo sviluppo della Guerra di Classe per il Comunismo un formidabile impulso. Nessun battaglione di "teste di cuoio", nessun super-specialista tedesco, inglese o americano, nessuna spia o delatore dell'apparato di Lama e Berlinguer, sono riusciti minimamente ad arrestare la crescente offensiva delle forze Comuniste Combattenti. A questa realtà la maggiore sconfitta delle forze imperialiste. Estendere l'attività di combattimento, concentrare l'attacco armato contro i centri vitali dello Stato imperialista, organizzare nel proletariato il Partito Comunista Combattente è la strada giusta per preparare la vittoria finale del proletariato, per annientare definitivamente il mostro imperialista e costruire una società comunista. Questo oggi bisogna fare per inceppare e vanificare i piani delle multinazionali imperialiste, questo bisogna fare per non permettere la sconfitta del Movimento Proletario e per fermare gli assassini capeggiati da Andreotti. Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perchè venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC, del governo e dei complici che lo sostengono e la loro dichiarata indisponibilità ad essere in questa vicenda qualche cosa di diverso da quello che fino ad ora hanno dimostrato di essere: degli ottusi, feroci assassini al servizio della borghesia imperialista. Dobbiamo soltanto aggiungere una risposta alla "apparente" disponibilità del PSI. Va detto chiaro che il gran parlare del suo segretario Craxi è' solo apparenza perchè non affronta il problema reale: lo scambio dei prigionieri. I suoi fumosi riferimenti alle carceri speciali, alle condizioni disumane dei prigionieri politici sequestrati nei campi di concentramento, denunciano ciò che prima ha sempre spudoratamente negato; e cioè che questi infami luoghi di annientamento esistono, e che sono stati istituiti anche con il contributo e la collaborazione del suo partito. Anzi i "miglioramenti" che il segretario del PSI come un illusionista cerca di far intravvedere, provengono dal cappello di quel manipolo di squallidi "esperti" che ha riunito intorno a se', e che sono (e la cosa se per i proletari detenuti non fosse tragica sarebbe a dir poco ridicola) gli stessi che i carceri speciali li hanno pensati, progettati e realizzati. Combattere per la distruzione delle carceri e per la liberazione dei prigionieri comunisti, è la nostra parola d'ordine e ci affianchiamo alla lotta che i compagni e il proletariato detenuto sta conducendo all'interno dei lager dove sono sequestrati e lo faremo non solo idealmente ma con tutta la nostra volontà militante e la nostra capacità combattente. Le cosiddette "proposte umanitarie" di Craxi; qualunque esse siano, dal momento che escludono la liberazione dei tredici compagni sequestrati, si qualificano come manovre per gettare fumo negli occhi, e che rientrano nei giochi di potere, negli interessi di partito od elettorali che non ci riguardano. L'unica cosa chiara e che sullo scambio dei prigionieri la posizione del PSI è la stessa, di ottuso rifiuto, della DC e del suo governo, e questo ci basta. A parole non abbiamo più niente da dire alla DC, al suo governo e ai complici che lo sostengono. L'unico linguaggio che i servi dell'imperialismo hanno dimostrato di saper intendere è quello delle armi, ed è con questo che il proletariato sta imparando a parlare. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato. PORTARE L'ATTACCO ALLO STATO IMPERIALISTA DELLE MULTINAZIONALI! ATTACCARE LIQUIDARE DISPERDERE LA DC ASSE PORTANTE DELLA CONTRORIVOLUZIONE IMPERIALISTA! RIUNIFICARE IL MOVIMENTO RIVOLUZIONARIO COSTRUENDO IL PARTITO COMUNISTA COMBATTENTE! Per il Comunismo Brigate Rosse. "P.S. - Le risultanze dell'interrogatorio ad Aldo Moro e le informazioni in nostro possesso, ed un bilancio complessivo politico-militare della battaglia che qui si conclude, verrà fornito al Movimento Rivoluzionario e alle O.C.C. attraverso gli strumenti di propaganda clandestini"".
LETTERE DI MORO DALLA "PRIGIONE DEL POPOLO".
1) A Eleonora Moro (recapitata il 29 marzo). Mia carissima Noretta, Desidero farti giungere nel giorno di Pasqua, a te ed a tutti, gli auguri più fervidi ed affettuosi con tanta tenerezza per la famiglia ed il piccolo in particolare. Ricordami ad Anna che avrei dovuto vedere oggi. Prego Agnese di farti compagnia la notte. Io discretamente, bene alimentato ed assistito con premura. Vi benedico, invio tante cose care a tutti e un forte abbraccio. Aldo.
2) A Nicola Rana (recapitata il 29 marzo). Carissimo Rana. Le rivolgo il più affettuoso pensiero e La ringrazio tanto per quel che ha fatto e fa a sostegno della mia famiglia e mio. Ed ecco che ancora ho bisogno di Lei in un momento cruciale. Le accludo una lettera da far pervenire a mia moglie ed ai miei, dei quali non so nulla. E poi ancora una lettera sul caso politico da portare nelle proprie mani del Ministro Cossiga e con la comprensibile immediatezza. La mia idea e speranza è che questo filo, che cerco di allacciare, resti segreto il più a lungo possibile, fuori da pericolose polemiche. Ciò vuol dire che la risposta, o una prima risposta, quando verrà, non dovrebbe passare per i giornali, ma per una lettera o comunicazione a Lei pervenuta dal Ministro. Si concorderà poi come inoltrarla. Presupposto di tutto è che non vi sia sorveglianza alcuna presso la Sua portineria già dalla prima volta. Il Ministro verbalmente, dovrebbe impegnarsi a bloccare ogni sorveglianza nel corso dell'operazione. E' chiaro che un incidente farebbe crollare tutto con danno incalcolabile. Grazie tante e i più affettuosi saluti. Suo Aldo Moro.
3) A Francesco Cossiga (recapitata il 29 marzo). Caro Francesco, mentre t'indirizzo un caro saluto, sono indotto dalle difficili circostanze a svolgere dinanzi a te, avendo presenti le tue responsabilità (che io ovviamente rispetto) alcune lucide e realistiche considerazioni. Prescindo volutamente da ogni aspetto emotivo e mi attengo ai fatti. Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento, è fuori discussione - mi è stato detto con tutta chiarezza - che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto, come Presidente della D.C., ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità (processo contenuto in termini politici, ma che diventa sempre più stringente). In tali circostanze ti scrivo in modo molto riservato, perché tu e gli amici con alla testa il Presidente del Consiglio (informato ovviamente il Presidente della Repubblica) possiate riflettere opportunamente sul da farsi, per evitare guai peggiori. Pensare quindi fino in fondo, prima che si crei una situazione emotiva e irrazionale. Devo pensare che il grave addebito che mi viene fatto, si rivolge a me in quanto esponente qualificato della DC nel suo insieme nella gestione della sua linea politica. In verità siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa ed è il nostro operato collettivo che è sotto accusa e di cui devo rispondere. Nella circostanza sopra descritta entra in gioco, al di là di ogni considerazione umanitaria che pure non si può ignorare, la ragione di Stato. Soprattutto questa ragione di Stato nel caso mio significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato, sottoposto ad un processo popolare che può essere opportunamente graduato, che sono in questo stato avendo tutte le conoscenze e sensibilità che derivano dalla lunga esperienza, con il rischio di essere chiamato o indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni. Inoltre la dottrina per la quale il rapimento non deve recare vantaggi, discutibile già nei casi comuni, dove il danno del rapito è estremamente probabile, non regge in circostanze politiche, dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona, ma allo Stato. Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e la Germania, ma non per il caso Lorenz. E non si dica che lo Stato perde la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un'alta personalità che significa qualcosa nella vita dello Stato. Ritornando un momento indietro sul comportamento degli Stati, ricorderò gli scambi tra Breznev e Pinochet, i molteplici scambi di spie, l'espulsione dei dissidenti dal territorio sovietico. Capisco che un fatto di questo genere, quando si delinea, pesi, ma si deve anche guardare lucidamente al peggio che può venire. Queste sono le alterne vicende di una guerriglia, che bisogna valutare con freddezza, bloccando l'emotività e riflettendo sui fatti politici. Penso che un preventivo passo della S. Sede (o anche di altri? di chi?) potrebbe essere utile. Converrà che tenga d'intesa con il Presidente del Consiglio riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe una astrattezza ed un errore. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose. I più affettuosi saluti. Aldo Moro.
4) A Eleonora Moro (non recapitata). 27-3-78. Mia Carissima Noretta, vorrei dirti tante cose, ma mi fermerò alle essenziali. Io sono qui in discreta salute, beneficiando di un'assistenza umana ed anche molto premurosa. Il cibo è abbondante e sano (mangio ora un po' più di farinacei); non mancano mucchietti di appropriate medicine. Puoi comprendere come mi manchiate tutti e come passi ore ed ore ad immaginarvi, a ritrovarvi, ad accarezzarvi. Spero che anche voi mi ricordiate, ma senza farne un dramma. E' la prima volta dopo trentatré anni che passiamo Pasqua disuniti e giorni dopo il trentatreesimo di matrimonio sarà senza incontro tra noi. Ricordo la chiesetta di Montemarciano ed il semplice ricevimento con gli amici contadini. Ma quando si rompe così il ritmo delle cose, esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo. Per quanto mi riguarda, non ho previsioni né progetti, ma fido in Dio che, in vicende sempre tanto difficili, non mi ha mai abbandonato. Intuisco che altri siano nel dolore. Intuisco, ma non voglio spingermi oltre sulla via della disperazione. Riconoscenza e affetto sono per tutti coloro che mi hanno amato e mi amano, al di là di ogni mio merito, che al più consiste nella mia capacità di riamare. Non so in che forma possa avvenire ma ricordami alla Nonna. Cosa capirà della mia assenza? Cose tenerissime a tutti i figli, a Fida col marito, ad Anna col marito ed il piccolino in seno, ad Agnese, a Giovanni, ad Emma. Ad Agnese vorrei chiedere di farti compagnia la sera, stando al mio posto nel letto e controllando sempre che il gas sia spento. A Giovanni, che carezzo tanto, vorrei chiedessi dolcemente che provi a fare un esame per amor mio. Ogni tenerezza al piccolo di cui vorrei raccogliessi le voci e qualche foto. Per l 'Università prega Saverio Fortuna di portare il mio saluto affettuoso agli studenti ed il mio rammarico di non poter andare oltre nel corso. Ricordami tanto a fratelli e cognati ed a tutti gli amati collaboratori. A Rana in particolare vorrei chiedere di mantenere qualche contatto col Collegio e di ricordarmi a tutti. Mi dispiace di non poter dire di tutti, ma li ho tutti nel cuore. Se puoi, nella mia rubrichetta verde, c'è il numero di M.L. Familiari, mia allieva. Ti prego di telefonarle di sera per un saluto a lei e agli amici Mimmo, Matteo, Manfredi e Giovanna, che mi accompagnano a Messa. Ed ora alcune cose pratiche. Ho lasciato lo stipendio al solito posto. C'è da ritirare una camicia in lavanderia. Data la gravidanza ed il misero stipendio del marito, aiuta un po' Anna. Puoi prelevare per questa necessità da qualche assegno firmato e non riscosso che Rana potrà aiutarti a realizzare. Spero che, mancando io, Anna ti porti i fiori di giunchiglie per il giorno delle nozze. Sempre tramite Rana, bisognerebbe cercare di raccogliere 5 borse che erano in macchina. Niente di politico, ma tutte le attività correnti, rimaste a giacere nel corso della crisi. C'erano anche vari indumenti da viaggio. Ora credo di averti stancato e ti chiedo scusa. Non so se e come riuscirò a sapere di voi. Il meglio è che per risponderne brevemente usi giornali. Spero che l'ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi. Ricordatemi nella vostra preghiera così come io faccio. Vi abbraccio tutti con tanto tanto affetto ed i migliori auguri. Vostro Aldo. P.S. Accelera la vendita dell'appartamentino di nonna, per provvedere alle necessità della sua malattia.
5) A Benigno Zaccagnini (recapitata il 4 aprile). Caro Zaccagnini, scrivo a te, intendendo rivolgermi a Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari, Fanfani, Andreotti e Cossiga ai quali tutti vorrai leggere la lettera e con i quali tutti vorrai assumere le responsabilità, che sono ad un tempo individuali e collettive. Parlo innanzitutto della D.C. alla quale si rivolgono accuse che riguardano tutti, ma che io sono chiamato a pagare con conseguenze che non è difficile immaginare. Certo nelle decisioni sono in gioco altri partiti; ma un così tremendo problema di coscienza riguarda innanzitutto la D.C., la quale deve muoversi, qualunque cosa dicano, o dicano nell'immediato, gli altri. Parlo innanzitutto del Partito Comunista, il quale, pur nella opportunità di affermare esigenze di fermezza, non può dimenticare che il mio drammatico prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m'ero tanto adoperato a costituire. E' peraltro doveroso che, nel delineare la disgraziata situazione, io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica di Presidente che tu mi offrivi e che ora mi strappa alla famiglia, mentre essa ha il più grande bisogno di me. Moralmente sei tu ad essere al mio posto, dove materialmente sono io. Ed infine è doveroso aggiungere, in questo momento supremo, che se la scorta non fosse stata, per ragioni amministrative, del tutto al disotto delle esigenze della situazione, io forse non sarei qui. Questo è tutto il passato. Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico del quale sono prevedibili sviluppi e conseguenze. Sono un prigioniero politico che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso relativo ad altre persone parimenti detenute, pone in una situazione insostenibile. Il tempo corre veloce e non ce n'è purtroppo abbastanza. Ogni momento potrebbe essere troppo tardi.
Di questa lettera esiste anche un’altra versione, mai recapitata, che fu rinvenuta nel covo di via Montenevoso nel 1990.
Il testo di questa versione (in minuta) differisce da quello recapitato solo in alcuni passaggi che verranno modificati e resi più sfumati, meno duri. Si discute qui, non in astratto diritto (benché vi siano le norme sullo stato di necessità), ma sul piano dell'opportunità umana e politica, se non sia possibile dare con realismo alla mia questione l'unica soluzione positiva possibile, prospettando la liberazione di prigionieri di ambo le parti, attenuando la tensione nel contesto proprio di un fenomeno politico. Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco. Tengo a precisare di dire queste cose in piena lucidità senza avere subìto alcuna coercizione della persona; tanta lucidità almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere nessuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti. Ed in verità mi sento anche un po' abbandonato da voi. Del resto queste idee già espressi a Taviani per il caso Sossi ed a Gui a proposito di una contestata legge contro i rapimenti. Fatto il mio dovere d'informare e richiamare, mi raccolgo con Iddio, i miei cari e me stesso. Se non avessi una famiglia così bisognosa di me, sarebbe un po' diverso. Ma così ci vuole davvero coraggio per pagare per tutta la D.C. avendo dato sempre con generosità. Che Iddio v'illumini e lo faccia presto, com'è necessario. Affettuosi saluti. Aldo Moro.
6) A Eleonora Moro (recapitata, forse, il 6 aprile). Carissima Noretta, se gli uomini saranno ancora una volta buoni con me, dovrebbero pervenirti questo saluto caro e le connesse indicazioni, le quali sono date per mia relativa tranquillità. Una risposta, se possibile, coprirebbe meglio l'inevitabile solitudine (almeno due righe dì messaggio per giornale). Ma se questo non è possibile, io mi consolo immaginando, ricordando, ripercorrendo gli itinerari, che ora si scoprono splendidi, della nostra vita, spesso tanto difficile, di ogni giorno. Vi abbraccio tutti e vi benedico. E voi pure fatelo per me, senza però turbarvi. La giovinezza ha il dono della fermezza e di un po’ di alternativa. Lo poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire. Naturalmente nulla alla stampa o a chiunque di quel che scrivo. Un grande abbraccio per tutti. Aldo.
7) A Eleonora Moro (recapitata il 6 aprile). Sono intatto e in perfetta lucidità. Non è giusto dire che non so (no) più capace. Urge Mia Carissima Noretta, questi fogli che ti accludo sono tutti, a loro modo, importanti e li dovrai leggere perciò con la dovuta attenzione. Ma è questo quello più urgente ed importante, perché riguarda la mia condizione che va facendosi sempre più precaria e difficile per l'irrigidimento totale delle forze politiche ad un qualche inizio di discorso su scambi di prigionieri politici, tra i quali sono anch'io. Non so se tu hai visto bene i miei due messaggi (altrimenti li puoi chiedere subito a Guerzoni). E' da quelli che bisogna partire, per mettere in moto un movimento umanitario, oggi nelle Camere assolutamente assente malgrado le loro tradizioni. Solo Saragat ed un po' i socialisti hanno avuto qualche debole cenno a motivi umanitari. Degli altri nessuno ed in ispecie la D.C. cui avevo scritto nella persona di Zaccagnini e di altri esponenti: ricordando tra l'altro a Zaccagnini che egli mi volle (per i suoi comodi) a questo odiato incarico, sottraendomi alle cure del piccolo che presentivo di non dovere abbandonare. Son giunto a dirgli che egli moralmente avrebbe dovuto essere al mio posto. La risposta è stata il nulla. Ora si tratta di vedere che cosa ancora con la tua energia, in pubblico ed in privato, puoi fare, perché se questo blocco non comincia a sgretolarsi un poco, ne va della mia vita. E cioè di voi tutti, carissimi, e dell'amato piccolo. Sarebbe per me una tragedia morire, abbandonandolo. Si può fare qualche cosa presso: Partiti (specie D.C., la più debole e cattiva), i movimenti femminili e giovanili, i movimenti culturali e religiosi. Bisogna vedere varie persone, specie Leone, Zaccagnini, Galloni, Piccoli, Bartolomei, Fanfani, Andreotti (vorrà poco impegnarsi) e Cossiga. Si può dire ad Ancora di lavorare con Berlinguer: i comunisti sono stati durissimi, essendo essi in ballo la prima volta come partito di governo. Il Vaticano va ancora sollecitato anche per le diverse correnti interne, si deve chiedere che insista sul governo italiano. Tempi di Pio XII che contendeva ai Tedeschi il giovane Prof. Vassalli, condannato a morte. Si dovrà ritentare. E poi vedi tu nelle direzioni possibili con il meglio di te. E' un estremo tentativo. Tieni presente che nella maggior parte degli stati, quando vi sono ostaggi, si cede alla necessità e si adottano criteri umanitari. Questi prigionieri scambiati vanno all'estero e quindi si realizza una certa distensione. Che giova tenerli qui se non per un'astratta ragione di giustizia, con seguiti penosi per tutti e senza che la sicurezza dello Stato sia migliorata? Ma vedi tu se puoi coinvolgere rapidamente. La mia pena è Luca. Lo amo e lo temo senza di me. Sarà il dolore più grande. Forse non si deve essere, neppur poco felici. Ti abbraccio forte. Aldo.
8) A Francesco Cossiga (non recapitata). Caro Cossiga, torno su un argomento già noto e che voi avete implicitamente ed esplicitamente respinto. Eppure esso politicamente esiste e sarebbe grave errore ritenere che, essendo esso pesante e difficile, si possa fare come se non esistesse. Io ti dico di rifletterci seriamente, non di rispondermi, anche se la laconicità e impersonalità della precedente reazione mi ha, te lo dico francamente, un po' ferito. Fatto sta che esiste un problema, postosi in molti e civili paesi, di pagare un prezzo per la vita e la libertà di alcune persone estranee, prelevate come mezzo di scambio. Nella grande maggioranza dei casi la risposta è stata positiva ed è stata approvata dall'opinione pubblica. Il grado di pericolosità della situazione non si è d'altra parte accresciuto, trattandosi di persone provate da lunga detenzione, meritevoli di un qualche riconoscimento sul piano umano (io comincio a capire che cos'è la detenzione) ed infine neutralizzati dal fatto di essere dislocati in territorio straniero che, se si ha buona volontà, data la nostra amicizia con tanti Paesi (es. Algeria) non dovrebbe essere difficile reperire. Certo, è in questione un principio: ma anche i principi devono fare i conti con la realtà. Ricordo, se non ricordo male, un caso francese particolarmente significativo. Nella mia più sincera valutazione, ed a prescindere dal mio caso anche se doloroso, sono convinto che oggi esiste un interesse politico obiettivo, non di una sola parte, per praticare questa strada. Se gli stranieri vi consigliano in altro modo, magari in buona fede, sbagliano. E le conseguenze ne sarebbero evidenti. Se mai potessi parlarti, ti spiegherei meglio e ti persuaderei. Vi chiedo di avere fiducia, come in altri casi, nella mia valutazione e nel mio consiglio. Forse che non ho indovinato, con mesi di anticipo, che con i comunisti si andava verso la crisi e che bisognava prepararvisi per febbraio-marzo? E così è stato. Potrei immodestamente continuare gli esempi, ma mi sembra assurdo farlo, specie in questo momento di declino. A me interessa risolvere per il meglio il problema concreto.
Consentimi di aggiungere che le iniziative concitate degli ultimi giorni hanno avuto l'inevitabile effetto di eccitare lo sdegno e la reazione delle persone che mi custodiscono, senza conseguire, d'altra parte, alcun apprezzabile risultato. Insomma nuova tensione nel paese, nuove difficoltà, nuovi rischi. Vorrei pregarti che, almeno su quel che ti ho scritto, vi fosse, a differenza delle altre volte, riservatezza. Perché fare pubblicità su tutto? Potresti farti recapitare questa mia in luogo più riservato e rifletterci su, senza riunioni plenarie. Finché non siano mature. Grazie dell'attenzione. Cordiali saluti. Aldo Moro.
9) A Eleonora Moro (recapitata l'8 aprile dopo essere stata intercettata dalla Polizia la sera stessa). Qualche concetto più toccante della lettera potresti dare in dichiarazione Segreto RAI TV (Guerzoni). Mia carissima Noretta, anche se il contenuto della tua lettera al Giorno non recasse motivi di speranza (né io pensavo che li avrebbe recati), essa mi ha fatto un bene immenso, dandomi conferma nel mio dolore di un amore che resta fermo in tutti voi e mi accompagna e mi accompagnerà per il mio Calvario. A tutti dunque il ringraziamento più vivo, il bacio più sentito, l'amore più grande. Mi dispiace, mia carissima, di essermi trovato a darti questa aggiunta d'impegno e di sofferenza. Ma credo che anche tu, benché sfiduciata, non mi avresti perdonato di non averti chiesto una cosa che è forse un inutile atto di amore, ma è un atto di amore. Ed ora, pur in questi limiti, dovrei darti qualche indicazione per quanto riguarda il tuo tenero compito. E' bene avere l'assistenza discreta di Rana e Guerzoni. Mi pare che siano rimasti taciti i gruppi parlamentari, ed in essi i migliori amici, forse intimiditi dal timore di rompere un fronte di autorità e di rigore. Ed invece bisogna avere il coraggio di rompere questa unanimità fittizia, come tante volte è accaduto. Quello che è stupefacente è che in pochi minuti il Governo abbia creduto di valutare il significato e le implicazioni di un fatto di tanto rilievo ed abbia elaborato in gran fretta e con superficialità una linea dura che non ha più scalfito: si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) con la esclusione dei prigionieri liberati dal territorio nazionale. Applicare le norme del diritto comune non ha senso. E poi questo rigore proprio in un Paese scombinato come l'Italia. La faccia è salva, ma domani gli onesti piangeranno per il crimine compiuto e soprattutto i democristiani. Ora mi pare che manchi specie la voce dei miei amici. Converrebbe chiamare Cervone, Rosati, Dell'Andro e gli altri che Rana conosce ed incitarli ad una dissociazione, ad una rottura dell'unità. E' l'unica cosa che i nostri capi temono. Del resto non si curano di niente. La dissociazione dovrebbe essere pacata e ferma insieme. Essi non si rendono conto quanti guai verranno dopo e che questo è il meglio, il minor male almeno. Tutto questo andrebbe fatto presto, perché i tempi stringono. Degli incontri che riuscirai ad avere, se riuscirai, sarà bene dare notizia con qualche dichiarazione. Occorre del pubblico oltre che del privato. Su questo fatti guidare da Guerzoni. Nel risvolto del "Giorno" ho visto con dolore ripreso dal solito Zizola un riferimento dell'Osservatore Romano (Levi). In sostanza: no al ricatto. Con ciò la S. Sede, espressa da questo Sig. Levi, e modificando precedenti posizioni, smentisce tutta la sua tradizione umanitaria e condanna oggi me, domani donne e bambini a cadere vittime per non consentire il ricatto. E' una cosa orribile, indegna della S. Sede. L'espulsione dallo Stato è praticata in tanti casi, anche nell'Unione Sovietica, e non si vede perché qui dovrebbe essere sostituita dalle stragi di Stato. Non so se Poletti può rettificare questa enormità in contraddizione con altri modi di comportarsi della S. Sede. Con queste tesi si avvalla il peggior rigore comunista ed a servizio dell'unicità del comunismo. E' incredibile a quale punto sia giunta la confusione delle lingue. Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente ad una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? Bisognerebbe dire a Giovanni che significa attività politica. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro. Ma non è di questo che voglio parlare; ma di voi che amo e amerò sempre, della gratitudine che vi debbo, della gioia indicibile che mi avete dato nella vita, del piccolo che amavo guardare e cercherò di guardare fino all'ultimo. Avessi almeno le vostre mani, le vostre foto, i vostri baci. I democratici cristiani (e Levi dell'Osservatore) mi tolgono anche questo. Che male può venire da tutto questo male? Ti abbraccio, ti stringo, carissima Noretta e tu fai lo stesso con tutti e con il medesimo animo. Davvero Anna si è fatta vedere? Che Iddio la benedica. Vi abbraccio. Aldo.
10) A Don Virgilio Levi (non recapitata). Signor Vice Direttore dell'Osservatore Romano, prima di rispondere a chicchessia, ed in ispecie a persona della Sua autorità, sarebbe doveroso informarsi, andare fin nei dettagli, pesare ogni cosa. Ma come può adempiere ad un così elementare dovere una persona che sia nella mia difficile condizione, la quale, pur sentendo e capendo pochissimo nelle circostanze in cui si trova, ha però il dovere di non abbandonarsi, di reagire, di rettificare, di chiarire? Mi è parso di cogliere in questi giorni, a quanto mi è stato riferito, una certa diversità di accenti nell'Osservatore Romano su un tema così complesso, con un indurimento finale però che sarebbe stato registrato con compiacimenti da quelli che potremmo chiamare i fautori della linea dura, quelli, in una parola, che accettano il sacrificio di vite innocenti, purché si sfugga, come si dice, ad ogni ricatto. Con riserva di avere almeno approssimativamente capito, vorrei rispondere con alcune pacate osservazioni. E' certo naturale che la Chiesa si preoccupi della stabilità dell'ordine sociale e dell'ordine giuridico in ispecie. Essa è infatti in qualche modo partecipe della sorte dell'umanità e quindi del retto funzionamento degli istituti che la società si è dati, per raggiungere le proprie finalità. Ma il fatto è che vi sono circostanze eccezionali, nelle quali il raggiungimento degli obiettivi normali risulta altamente costoso e va in particolare a detrimento di altri beni e valori, che, di per sé, meritano di essere tutelati. Sapendo con certezza che, per giungere ad un certo risultato, devono essere compiuti sacrifici gravi o gravissimi e travolte cose che hanno un pregio in sé, sapendo che per raggiungere un fine di giustizia vite innocenti devono essere sacrificate, io credo che sia doveroso fermarsi un momento a valutare e comparare. Credo che questa attenzione, questa trepidazione, questa delicatezza siano doverose per tutti, quale che sia la loro fede, per semplici doveri di umanità. E non si spiega così il fatto che Stati di diversa cultura, di fronte al fenomeno crescente del terrorismo, il più delle volte si siano fermati attoniti e poi abbiano deciso non in favore della regola astratta, ma della ragione di vita concreta? Così avviene il più delle volte in questo mondo così civile e così incivile insieme, ma dove degli strappi sono ritenuti necessari per evitare guai peggiori. Io non posso certo dire nulla in un caso che mi riguarda, ma sono purtroppo sicuro che il prevalere di una regola di durezza, accada quel che accada, malgrado l'ottimismo di tanti, porterebbe nel nostro Paese, già così provato, giorni di estrema durezza e carichi d'incognite. Perché, come ho detto più volte, si tratta qui di un fenomeno politico nel quale occorre andare più a fondo e, per farlo, forse ci dev'essere il momento per farlo. Si tratterebbe del resto di un evento da negoziare e misurare, con opportune garanzie, tali da assicurare la convivenza proprio mentre si rompe per un istante il cerchio infernale dell'azione e della reazione. Considerazioni di questo tipo, a prescindere dalle mie condizioni ben pesanti e dalle gravi preoccupazioni per la famiglia, mi son permesso di sottoporle, sapendo che la Chiesa non sarà mai ultima a capire le ragioni dell'umanità. Chi lo pensa, non conosce la Chiesa. Con fiducia e deferenza. Aldo Moro.
11) A Papa Paolo VI (non recapitata). Beatissimo Padre, nella difficilissima situazione nella quale mi trovo e memore della paterna benevolenza che la Santità Vostra mi ha tante volte dimostrato, e tra l'altro quando io ero giovane dirigente della Fuci, ardisco rivolgermi alla Santità Vostra, nella speranza che voglia favorire nel modo più opportuno almeno l'avvio di quel processo di scambio di prigionieri politici, dal quale potrebbero derivare, in questo momento estremamente minaccioso, riflessi positivi per me e la mia disgraziata famiglia che per ragioni oggettive è in cima alle mie angosciate preoccupazioni. Immagino le ansie del Governo. Ma debbo dire che siffatta pratica umanitaria è in uso presso moltissimi governi, i quali danno priorità alla salvezza delle vite umane e trovano accorgimenti di allontanamento dal territorio nazionale per i prigionieri politici dell'altra parte, soddisfacendo così esigenze di sicurezza. D'altra parte, trattandosi di atti di guerriglia, non si vede quale altra forma di efficace distensione ci sia in una situazione che altrimenti promette giorni terribili. Avendo intravisto qui nella mia prigione un severo articolo dell'Osservatore, me ne sono preoccupato fortemente. Perché quale altra voce, che non sia quella della Chiesa, può rompere le cristallizzazioni che si sono formate e quale umanesimo più alto vi è di quello cristiano? Perciò le mie preghiere, le mie speranze, quelle della mia disgraziata famiglia che la Santità vostra volle benevolmente ricevere alcuni anni fa, s'indirizzano alla Santità vostra, l'unica che possa piegare il Governo italiano ad un atto di saggezza. Mi auguro si ripeta il gesto efficace di S.S. Pio XII in favore del giovane Prof. Vassalli, che era nella mia stessa condizione. Voglia gradire, Beatissimo Padre, con il più vivo ringraziamento per quanti beneficeranno della clemenza, i più devoti ossequi. Aldo Moro.
12) A Eleonora Moro (non recapitata). Mia dolcissima Noretta, bacioni al pupo. Temo che tu abbia troppo da affaticarti nell'improba impresa. Credo che la chiave sia in Vaticano, che deve essere stato però duramente condizionato dal Governo. Ho pensato perciò di preparare una mia lettera personale al Papa, che ti accludo, lasciando a te di stabilire se sia o meno il caso d'inoltrarla e tramite chi. Salvo abbia scelto Poletti, ti ricordo Pignedoli che dovrebbe avere qualche buon ricordo e Maria Righetti. Soprattutto bisognerebbe evitare che, sotto pressione del Governo, continuino posizioni dure del giornale. Forse potresti fare una telefonata al vecchio Manzini (Raimondo), sempre così buono. Per il resto c'è da dare la caccia a questi parlamentari amici. Hanno avuto il torto di far passare attoniti i primi giorni, lasciando cristallizzare la situazione. Anche di Tullio non so nulla, né so se abbia fatto qualcosa. Benché una lettera stampata non è tutto quello che si possa desiderare, tu non puoi immaginare quale manna dal cielo sia per me. La leggo e la rileggo: ci penso su. E' tutta la mia vita. E così voi siete la mia vita. Vi benedico tutti in un unico grande abbraccio. Pensatemi come io vi penso ed amatemi come vi amo. Tuo Aldo. Mi veniva un'altra idea. Pompei è vicinissimo al Papa e gli può spiegare tutto. Si potrebbe chiamarlo tramite Maria Righetti, spiegandogli che dovrebbe fare (poiché dovrebbe operare da privato contro gli intendimenti del governo). Ma dovrebbe arrivare ad horas. Da Parigi ci sono partenze a tutte le ore.
13) Su Paolo Taviani (recapitata tra il 9 e il 10 aprile, allegata al comunicato n° 5). Filtra fin qui la notizia di una smentita opposta dall'On. Taviani alla mia affermazione, del resto incidentale, contenuta nel mio secondo messaggio e cioè che delle mie idee in materia di scambio di prigionieri (nelle circostanze delle quali ora si tratta) e di modo di disciplinare i rapimenti avrei fatto parola, rispettivamente, all'On. Taviani ed all'On. Gui (oggi entrambi Senatori). L'On. Gui ha correttamente confermato; l'On. Taviani ha smentito, senza evidentemente provare disagio nel contestare la parola di un collega lontano, in condizioni difficili e con scarse e saltuarie comunicazioni. Perché poi la smentita? Non c'è che una spiegazione, per eccesso di zelo cioè, per il rischio di non essere in questa circostanza in prima fila nel difendere lo Stato. Intanto quello che ho detto è vero e posso precisare allo smemorato Taviani (smemorato non solo per questo) che io gliene ho parlato nel corso di una direzione abbastanza agitata tenuta nella sua sede dell'Eur proprio nei giorni nei quali avvenivano i fatti dai quali ho tratto spunto per il mio occasionale riferimento. E non ho aggiunto, perché mi sarebbe parso estremamente indiscreto riferire l'opinione dell'interlocutore (non l'ho fatto nemmeno per l'On. Gui), qual era l'opinione in proposito che veniva opposta in confronto di quella che, secondo il mio costume, facevo pacatamente valere. Ma perché l'On. Taviani, pronto a smentire il fatto obiettivo della mia opinione, non si allarmi nel timore che io voglia presentarlo come se avesse il mio stesso pensiero, mi affretterò a dire che Taviani la pensava diversamente da me, come tanti anche oggi la pensano diversamente da me ed allo stesso modo di Taviani. Essi, Taviani in testa, sono convinti che sia questo il solo modo per difendere l'autorità ed il potere dello Stato in momenti come questi. Fanno riferimento ad esempi stranieri? O hanno avuto suggerimenti? Ed io invece ho detto sin d'allora riservatamente al Ministro ed ho ora ripetuto ed ampliato una valutazione per la quale in fatti come questi, che sono di autentica guerriglia (almeno cioè guerriglia), non ci si può comportare come ci si comporta con la delinquenza comune, per la quale del resto all'unanimità il Parlamento ha introdotto correttivi che riteneva indifferibili per ragioni di umanità. Nel caso che ora ci occupa si trattava d'immaginare, con opportune garanzie, di porre il tema di uno scambio di prigionieri politici (terminologia ostica, ma corrispondente alla realtà) con l'effetto di salvare altre vite umane innocenti, di dare umanamente un respiro a dei combattenti, anche se sono al di là della barricata, di realizzare un minimo di sosta, di evitare che la tensione si accresca e lo Stato perda credito e forza, se è sempre impegnato in un duello processuale defatigante, pesante per chi lo subisce, ma anche non utile alla funzionalità dello Stato. C'è insomma un complesso di ragioni politiche da apprezzare ed alle quali dar seguito, senza fare all'istante un blocco impermeabile, nel quale non entrino nemmeno in parte quelle ragioni di umanità e di saggezza, che popoli civilissimi del mondo hanno sentito in circostanze dolorosamente analoghe e che li hanno indotti a quel tanto di ragionevole flessibilità, cui l'Italia si rifiuta, dimenticando di non essere certo lo Stato più ferreo del mondo, attrezzato, materialmente e psicologicamente, a guidare la fila di Paesi come Usa, Israele, Germania (non quella però di Lorenz), ben altrimenti preparati a rifiutare un momento di riflessione e di umanità. L'inopinata uscita del Sen. Taviani, ancora in questo momento per me incomprensibile e comunque da me giudicata, nelle condizioni in cui mi trovo, irrispettosa e provocatoria, m'induce a valutare un momento questo personaggio di più che trentennale appartenenza alla D.C. Nei miei rilievi non c'è niente di personale, ma sono sospinto dallo stato di necessità. Quel che rilevo, espressione di un malcostume democristiano che dovrebbe essere corretto tutto nell'avviato rinnovamento del partito, e la rigorosa catalogazione di corrente. Di questa Appartenenza Taviani è stato una vivente dimostrazione con virate così brusche ed immotivate da lasciare stupefatti. Di matrice cattolico-democratica Taviani è andato in giro per tutte le correnti, portandovi la sua indubbia efficienza, una grande larghezza di mezzi ed una certa spregiudicatezza. Uscito io dalle file dorotee dopo il '68, avevo avuto chiaro sentore che Taviani mi aspettasse a quel passo, per dar vita ad una formazione più robusta ed equilibrata, la quale, pur su posizioni diverse, potesse essere utile al migliore assetto della D.C. Attesi invano un appuntamento che mi era stato dato e poi altri ancora, finché constatai che l'assetto ricercato e conseguito era stato diverso ed opposto. Erano i tempi in cui Taviani parlava di un appoggio tutto a destra, di un'intesa con il Movimento Sociale come formula risolutiva della crisi italiana. E noi che, da anni, lo ascoltavamo proporre altre cose, lo guardavamo stupiti, anche perché il partito della D.C. da tempo aveva bloccato anche le più modeste forme d'intesa con quel partito. Ma, mosso poi da realismo politico, l'On. Taviani si convinse che la salvezza non poteva venire che da uno spostamento verso il partito comunista. Ma al tempo in cui avvenne l'ultima elezione del Presidente della Repubblica, il terrore del valore contaminante dei voti comunisti sulla mia persona (estranea, come sempre, alle contese) indusse lui e qualche altro personaggio del mio Partito ad una sorta di quotidiana lotta all'uomo, fastidiosa per l'aspetto personale che pareva avere, tale da far sospettare eventuali interferenze di ambienti americani, perfettamente inutile, perché non vi era nessun accanito aspirante alla successione in colui che si voleva combattere.
Nella sua lunga carriera politica che poi ha abbandonato di colpo senza una plausibile spiegazione, salvo che non sia per riservarsi a più alte responsabilità, Taviani ha ricoperto, dopo anche un breve periodo di Segretario del Partito, senza pero successo, i più diversi ed importanti incarichi ministeriali. Tra essi vanno segnalati per la loro importanza il Ministero della Difesa e quello dell'Interno, tenuti entrambi a lungo con tutti i complessi meccanismi, centri di potere e diramazioni segrete che essi comportano. A questo proposito si può ricordare che l'Amm. Henke, divenuto Capo del Sid e poi Capo di Stato Maggiore della Difesa, era un suo uomo che aveva a lungo collaborato con lui. L'importanza e la delicatezza dei molteplici uffici ricoperti può spiegare il peso che egli ha avuto nel partito e nella politica italiana, fino a quando è sembrato uscire di scena. In entrambi i delicati posti ricoperti ha avuto contatti diretti e fiduciari con il mondo americano. Vi è forse, nel tener duro contro di me, un'indicazione americana e tedesca? Aldo Moro.
14) A Maria Fida Moro e Demetrio Bonini (non recapitata). Miei carissimi Fida e Demi, credo di essere alla conclusione del mio calvario e desidero abbracciarvi forte forte con tutto l'amore che, come sapete, vi porto. Forse in qualche momento sarò stato nervoso o non del tutto capace di comprensione. Ma l'amore dentro è stato grande in ogni momento con un desiderio profondo della vostra felicità sempre in una vita retta, quale voi conducete. Con Luca, dicevo, mi avete dato la gioia più grande che io potessi desiderare. Questa è per me la punta più acuta di questa dolorosissima vicenda. Non vedere il piccolo e non potergli dare tutto l'amore, tutto l'aiuto, tutto il servizio che avevo progettato. So poi i problemi di Fida che tutti dobbiamo aiutare. Ho già detto a quanti lo amano che gli siano vicini, che facciano la mia parte, che prendano il mio posto. Anche tu, Demi carissimo, tienilo pieno d'amore come egli merita; tienilo tra le braccia come vorrei tenerlo e come sarei felice di fare, lasciando ogni altra cosa. Vivete uniti con la nonna, con gli zii, con gli amici. Per ogni cosa consigliatevi con il carissimo Rana. Ricordatevi di me che ricordo e prego. Che Iddio vi aiuti a passare questo brutto momento e dia a voi ed al piccolo tutta la felicità. Che Iddio vi benedica come io vi benedico e vi abbraccio dal profondo del cuore. Papà per Fida e Demi. P.S. Se il piccolo, come spero, deve andare al mare, la nonna inviti la Signora Riccioni* con due bambinetti. Ho paura che stia solo. Mi raccomando.
* Si tratta della moglie di Otello Riccioni, l’appuntato dei carabinieri assegnato alla scorta di Moro, che la mattina del 16 marzo 1978 non era in servizio.
15) A Agnese Moro (non recapitata). Mia carissima Agnese, so che tu sei tanto forte e brava. Perciò ti posso parlare con coraggio, mentre vedo ogni momento più cadere le speranze. Ti ho voluto e ti voglio tanto bene, dolcissima Agnesina, che ho concorso a tirar su, con il suo chilo e ottocento grammi, dosando goccia goccia con il cucchiaino il latte che non potevi succhiare. Sì qualche volta ti sarai un po' irritata con me; ma sai bene che l'amore è stato continuo ed infinito, che ti ho atteso ogni sera pieno di angoscia finché non ti vedevo, che ti ho seguito nel tuo studio, nel tuo lavoro (nel quale occorre perseverare), nelle tante cose intelligenti e vive che andavi creando. Ed ho cercato di seguirti e secondarti in ogni tuo desiderio. Ora è probabile che noi siamo lontani o vicini in un altro modo. Ebbene, credimi che ti sono vicino più che mai, che ti stringo forte a me, che desidero per te pace e felicità. E' inutile che ti raccomandi la famiglia, la mamma, il carissimo Luca. Dagli tu l'amore e l'appoggio che io non gli potrò dare, ritraine tu la gioia dolcissima degli occhietti vispi e della profonda bontà. Questa è ora la mia pena più acuta, la mia angoscia mortale. Finché sarà necessario sostituiscimi. Gioisco nel ricordarti piccola, sulla gamba del cuore con il dott. Tani del tuo libriccino di bimba. Ti amo tanto, Agnesina carissima e ti ringrazio del tuo sorriso sempre così largo e della tua dolce carezza alla sera. Una tua carissima lettera da Helsinki per me è a Bellamonte, nell'armadio della stanza matrimoniale in alto o forse nel taschino del mio pullover nero. Non la perdere: mi è cara. Ti abbraccio forte forte e ti benedico con tanti auguri e tanta speranza. Papà.
16) A Anna Moro e Mario Giordano (non recapitata). Miei carissimi Anna e Mario, credo di essere ad un momento conclusivo e desidero abbracciarvi forte forte con tutto l'amore che meritate. C'è stato certo qualche momento di difficoltà dovuto ad un momento particolarmente impegnativo. Spero che sia davvero cancellato tutto e che siate uniti e in salute, come mamma mi scrive tramite il giornale. Tu sai, Anna mia, quanto bene ti ho voluto da sempre, come ho goduto della tua confidenza e fiducia, come sono riuscito a vincere alcune tue amarezze. Poi è venuto Mario ed io sono stato felice che un'altra persona cara abbia preso a svolgere la funzione che era stata mia. E ne sono felice tuttora. Non per questo però ti ho voluto e ti voglio meno bene. Sei sempre la mia piccolina della gamba destra, mentre Agnese era per parte sua quella della gamba del cuore. Tempi felici. Niente ha potuto annullare la grandezza dell'amore. A qualsiasi età i figli sono i nostri piccoli. E tu sei la mia piccola. Come vorrei vedere nascere il tuo bimbo. Che venga su bello, buono, vispo, felice. Mi parrà di averlo conosciuto. Non so darvi nessun consiglio. Vogliatevi bene sempre e siate uniti alle vostre due famiglie. Tutte ne hanno diritto: una, la nostra, un particolare bisogno. Siate buoni e puliti come siete stati sempre. Iddio vi aiuterà. Quello che Egli vi toglie, vi darà in altro modo. Certo tutto questo pesa. Ma sia fatta la volontà del Signore. Carissimi, vi abbraccio forte dal profondo del cuore e vi benedico. Ricordatemi ai vostri cari. Papà per Anna e Mario.
17) A Luca Bonini (non recapitata). Mio carissimo Luca, non so chi e quando ti leggerà, spiegando qualche cosa, la lettera che ti manda quello che tu chiamavi il tuo nonnetto. L'immagine sarà certo impallidita, allora. Il nonno del casco, il nonno degli scacchi, il nonno dei pompieri della Spagna, del vestito di torero, dei tamburelli. E' il nonno, forse ricordi, che ti portava in braccio come il S.S. Sacramento, che ti faceva fare la pipì all'ora giusta, che tentava di metterti a posto le coperte e poi ti addormentava con un lungo sorriso, sul quale piaceva ritornare. Il nonno che ti metteva la vestaglietta la mattina, ti dava la pizza, ti faceva mangiare sulle ginocchia. Ora il nonno è un po' lontano, ma non tanto che non ti stringa idealmente al cuore e ti consideri la cosa più preziosa che la vita gli abbia donato e poi, miseramente, tolta. Luca dolcissimo, insieme col nonno che ora è un po' fuori, ci sono tanti che ti vogliono bene. E tu vivi e dormi con tutto questo amore che ti circonda. Continua ad essere dolce, buono, ordinato, memore, come sei stato. Fai compagnia oltre che a Papà e Mamma, alla tua cara Nonna che ha più che mai bisogno di te. E quando sarà la stagione, una bella trottata coi piedini nudi sulla spiaggia e uno strattone per il tuo gommoncino. La sera, con le tue preghiere, non manchi la richiesta a Gesù di benedire tanti ed in ispecie il Nonno che ne ha particolare bisogno. E che Iddio pure ti benedica, il tuo dolcissimo volto, i tuoi biondi capelli che accarezzo da lontano, con tanto amore. Ti abbraccia tanto nonno. Aldo.
18) A Giovanni Moro (non recapitata). Mio carissimo Giovanni, tu sei il più piccolo e insieme, in un certo senso, il capo della famiglia. Ti devo trattare da uomo, anche se non riesco a distaccarmi dalla tua immagine di piccolino, tanto amato e tanto accarezzato. Lo so c'è stato poi il momento in cui hai rivendicato la tua autonomia ed hai forse avuto un po' fastidio di un padre un tantino opprimente (s'intende per amore). Ma è stato poi bello, quando, passata quell'età critica, sei stato tu stesso che sei tornato a carezzarmi di quando in quando. Ed io la tua carezza non l'ho dimenticata, né, in quest'ora triste, la dimentico. Così sei restato il mio piccolino, che avrei voluto accompagnare un po' più a lungo nella vita. Che anno terribile. Che anno incomprensibile. Povero libro del buon Mancini che avrei dovuto leggere e che avevo con me in macchina da qualche parte. Che ne sarà stato? E' meglio non pensare. Voglio solo dire, senza contrastare la tua vocazione, che vi sono in politica fattori irrazionali che creano situazioni difficilissime. E' meglio essere prudenti e difendersi dall'incomprensione. Sarei più tranquillo per te e per Emma (che ricordo tanto e che ti farà buona compagnia), se non ti avviassi su questa strada. Io volentieri tornerei indietro, come consigliava la mamma, ma sono stato preso dal laccio di questa infausta presidenza del Consiglio nazionale. Sia fatta la volontà di Dio. Tu studia, prega, opera per il bene, aiuta la famiglia ed il piccolo Luca che mi fa finire nell'angoscia. Fai un po' meno fuori, un po' più per questo bambino carissimo che mi strazia il cuore. Sii prudente, saggio, misurato in tutto. Consigliati con Don Mancini che mi saluterai tanto. Quanto la sua previsione, fatta di amore, non ha avuto riscontro nella realtà. Ti abbraccio forte forte con Emma, piccolo mio e ti benedico dal profondo del cuore. Il tuo papà.
19) A Corrado Guerzoni (non recapitata). Carissimo Guerzoni, nel dirLe addio, La ringrazio del bene che mi ha voluto e che ha fatto per me. In questa vicenda tutto per me è incomprensibile. Un diverso comportamento sarebbe stato un atto di prudenza e di saggezza che nulla avrebbe pregiudicato. Non mi tocca nulla di quel che attiene al potere; moltissimo quello che riguarda la mia disgraziata famiglia, per la quale anche Lei avrà un occhio di comprensione. Mi ricordi ai suoi collaboratori e si abbia un abbraccio cordiale di chi le ha voluto molto bene. Aldo Moro. (La lettera prosegue con un capoverso non pubblicato.).
20) a Maria Luisa Familiari. (Lettera il cui contenuto non è stato reso noto per volontà della famiglia Moro).
21) A Nicola Rana (non recapitata). Dott. Nicola Rana Via Giovagnoli 27 Roma. Carissimo Rana, lei sa quanto Le devo da ogni punto di vista.E' stato confidente, consolatore ed amico. Non capisco a fondo perché questo avviene e le ragioni degli uomini che sono stati amici. Accetto dal Signore quanto egli mi manda. Mi resta l'acutissima preoccupazione della famiglia che resta priva di guida e l'ansia per il piccolo amatissimo, di cui Lei conosce le vicissitudini. Io non cesso di pensarci e di guardarlo, come faccio del resto per le persone care in queste ore infinitamente tristi. E' inutile che Le dica che nella mia tragedia, mi resta la speranza che Ella con saggezza ed amore continui ad occuparsi di noi, tra l'altro consigliando persone estremamente inesperte e fragili. Farò la stessa raccomandazione a Freato. Due, amati e amici, sono ancora poco in una disgrazia come questa. Controlli anche molto bene le eventuali proposte di alienazione di qualche cosa mobile. Un abbraccio forte con infinita gratitudine. Aldo Moro. Un abbraccio a Melpignano, a Ticconi, a tutti. Sono state recuperate delle borse in macchina? O sono sequestrate come corpo di reato? Si può sbloccare?
22) A Sereno Freato (non recapitata). Carissimo Freato, la mia allucinante vicenda mi ha dato l'impressione di essere rimasto senza amici. So che non è così, anche se alcuni (o tanti) che potevano, non si sono adoperati. Mi pare così assurdo non si sia accettato uno scambio che non pregiudicava niente, dovendo gli scambiati lasciare l'Italia. Ma non voglio fare lamentele ed accetto da Dio il mio destino. Ma il problema non è mio, ma di una famiglia di cui Lei, così buono ed affettuoso per tanti anni, conosce tutte le complessità. Non posso quindi che ritornare a Lei, pur sapendo che Ella è preso da cose più grandi di queste, per pregarla, insieme con Rana, di guidare, consigliare, aiutare questa famiglia. Ho mille preoccupazioni, ma in cima c'è la non buona salute di mia moglie e la sorte dell'amatissimo Luca con le difficoltà che Ella conosce. Mi affido a Dio ed agli uomini cari come Lei. Chi l'avrebbe detto? E vi era chi progettava, mentre io non progettavo. Dio sa che cosa darei solo per aiutare i miei e basta. Quanto costa lo spettacolo di una apparente grandezza. Aiuti dunque i miei, caro Freato, con la sua immensa bontà. E stia certo di aver fatto la scelta migliore, che io, purtroppo, non ho fatto. La benedico, insieme ai suoi e l'abbraccio con tutto il cuore. Suo Aldo Moro. Dott. Sereno Freato Via S. Valentino 21.
23) Messaggio (non recapitata). Prego la cortesia della stampa di voler telefonare questo messaggio a casa mia (3379308). Famiglia Moro. Stringendomi con tanto affetto a voi vi prego darmi cortese tramite stampa urgenti notizie famiglia et familiari, dettagliando se ricevute mie notizie. Rassicuratemi incidente ferroviario Bologna. Abbraccio forte. Non tardate. Aldo.
24) A Eleonora Moro (non recapitata). Genesi 44-29 segg."e se mi togliete anche questo, e se gli avviene qualche disgrazia, voi farete scendere la mia canizie con dolore nel soggiorno dei morti. Or dunque, quando giungerò da mio padre, tuo servitore, se il fanciullo, all'anima del quale è legata, non è con noi, avverrà che, come avrà veduto che il fanciullo non c'è, egli morrà e i tuoi servitori avranno fatto scendere con cordoglio la canizie del tuo servitore nostro padre nel soggiorno dei morti. ...Perché come farei a risalire da mio padre senz'aver meco il fanciullo? Ah, ch'io non vegga il dolore che ne verrebbe a mio padre". Così Luca lontano fa scendere la mia canizie con dolore nel soggiorno dei morti. Mia dolcissima Noretta, ti mando alcune lettere da distribuire che vorrei proprio arrivassero come mi è stato promesso. Aggiungo due testamenti che ho già mandato, ma che temo possono non essere arrivati. Uno è il mio lascito ad Anna della mia quota di condominio al terzo piano. L'altro è un lascito a Luca, il mio archivio che, come esecutori testamentari il Sen. Spadolini ed il Dott. Guerzoni dovrebbero opportunamente alienare ad Istituto o Biblioteca, preferibilmente italiani, per costituire una piccola rendita per il piccolo, al quale va la mia infinita tenerezza. Carissima, vorrei avere la fede che avete tu e la nonna, per immaginare i cori degli angeli che mi conducono dalla terra al cielo. Ma io sono molto più rozzo. Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo. Il Papa forse questa mia sofferenza non l'ha capita. E sembra, d'altro canto, impossibile che di tanti amici non una voce si sia levata. Pacatamente direi a Cossiga che sono stato ucciso tre volte, per insufficiente protezione, per rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente, ma che in questi giorni ha eccitato l'animo di coloro che mi detengono. Salvi dovrebbe ripensare all'inutilità di questo lavoro e del mio sacrificio. Ma ormai è fatta. Mi è stato promesso che restituiranno il corpo ed alcuni ricordi. Speriamo che si possa. E voi siate forti e pregate per me che ne ho tanto bisogno. Tutto è così strano. Ma Iddio mi dia la forza di arrivare fino in fondo e mi faccia rivedere poi i tanto dolci visi che ho tanto amato ed ai quali darei qualunque cosa per essere ancora vicino. Ma non ho, purtroppo, tutto quello che dovrei dare. Così fosse possibile. Dopo si vedrà l'assurdità di tutto questo. Ed ora dolcissima sposa, ti abbraccio forte con tutto il cuore e stringo con te i nostri figli e i nipoti amatissimi, sperando di restare con voi così per sempre. Un tenerissimo bacio. Aldo.
25) A Eleonora Moro. Mia dolcissima Noretta, credo di essere giunto all'estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana. Gli ultimi tentativi, per i quali mi ero ripromesso di scriverti, sono falliti. Il rincrudimento della repressione, del tutto inutile, ha appesantito la situazione. Non sembra ci sia via di uscita. Mi resta misterioso, perché è stata scelta questa strada rovinosa, che condanna me e priva di un punto di riferimento e di equilibrio. Già ora si vede che vuol dire non avere persona capace di riflettere. Questo dico, senza polemica, come semplice riflessione storica. Ora vorrei abbracciarti tanto e dirti tutta la dolcezza che provo, pur mescolata a cose amarissime, per avere avuto il dono di una vita con te, così ricca di amore e di intesa profonda. Dio sa quanto avrei sperato di accompagnarvi ancora un poco, di dare custodia ed aiuto all'amatissimo Luca, di aiutare tutti a superare le prove del duro cammino. Ho tentato tutto ed ora sia fatta la volontà di Dio, credo di tornare a voi in un'altra forma. Non mi so immaginare onorato da chi mi ha condannato. Ma fa tu, con spirito cristiano e senso di opportunità. Vi ho affidato a Freato e Rana per ogni necessità ed ho fiducia che Iddio vi aiuti. Tu curati e cerca di essere più tranquilla che puoi. Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo. Ho scritto a tutti per Luca, perché siano impegnati per lui. A te debbo dire grazie, infinite grazie, per tutto l'amore che mi hai dato. Amore un po' geloso che mi faceva innervosire, quando ti vedevo sprofondata in un libro. Ma amore autentico che resterà. Io pregherò per te e tu per me. Che Iddio aiuti la cara famiglia. In estate, al mare, fatti fare compagnia dalla famiglia di Riccioni per te e per il piccolo. Ho lasciato il mio archivio a Luca da vendere tramite il Sen. Spadolini e il Dott. Guerzoni per costituire un piccolo peculio che lo aiuti a mantenersi nella vita. Ho dimenticato di dire, ma tu dillo a Guerzoni che per le foto i familiari e gli esecutori testamentari scelgano quelle che vale la pena di conservare alla famiglia. Nel magnetofono più grande, che è nel mio studio, ci sono già raccolte vocette di Luca trasferite da quello tascabile. Si può mano a mano trasferire e completare. Le bobine sono in camera nostra; film e foto sulla scrivania dello studio. Vorrei, come piccolo ricordo, che il biro della mia vestaglia da giorno andasse a Luca che lo amava (e il portacenere a Giovanni), un altro pennarello marrone nel comò a Giovanni, un biro uguale al primo sulla chiffonière ad Agnese, mentre Fida e Anna e tu potreste scegliere in quel mobile quel che volete. Sentite Manzari, vedi di fare testamento. Io ne ho mandati due che spero siano arrivati e rinvierò in copia. Non mancare di fare e far fare la vaccinazione antinfluenzale, se viene la russa. Fatti seguire da Giovanni anche come amico. Tramite Rana fa controllare la stabilità del tetto sulla nostra stanza e cura che il gas sia chiuso la sera. (Agnese). Per la tomba di Torrita almeno nell'immediato c'è il rischio di sicurezza. Forse converrebbe allogare altrove, [...] stesso o nella chiesa con speciale permesso. Forse, per ora: consigliati con Freato. Chissà quante cose ho dimenticato. State più uniti che potete e tenete unite anche le mie cose con voi, perché sono vostro. Ho pregato molto La Pira. Spero che mi aiuti in altro modo. Ringrazio tutti, tutti i parenti ed amici con grande affetto. Che Iddio ci aiuti. Ricordati che sei stata la cosa più importante della mia vita. Ricordatemi discretamente a Luca con qualche foto e qualche descrizione, che non si senta del tutto senza nonno. E poi che sia felice e non faccia i miei errori generosi ed ingenui. Ti abbraccio forte forte e ti benedico dal profondo del cuore. A nonna un bacio, nella forma che troverai. Aldo.
26) A Papa Paolo VI (recapitata tramite Don Mennini alla S.ra Moro che a lui la riaffida per recapitarla in Vaticano.) Alla stampa, da parte di Aldo Moro, con preghiera di cortese urgente trasmissione all'augusto Destinatario e molte grazie. A S.S. Paolo VI. Città del Vaticano. In quest'ora tanto difficile mi permetto di rivolgermi con vivo rispetto e profonda speranza alla Santità vostra, affinché con altissima autorità morale e cristiano spirito umanitario voglia intercedere presso le competenti autorità governative italiane per un'equa soluzione del problema dello scambio dei prigionieri politici e la mia restituzione alla famiglia, per le cui necessità assai gravi sono indispensabili la mia presenza ed assistenza. Solo la Santità Vostra può porre di fronte alle esigenze dello Stato, comprensibili nel loro ordine le ragioni morali e il diritto alla vita. Con profonda gratitudine, speranza e devoto ossequio. Dev.mo Aldo Moro.
27) A Benigno Zaccagnini (non recapitata). Prego la cortesia della stampa di trasmettere all'illustre destinatario in Piazza del Gesù, curandone il personale recapito. Molti ringraziamenti. Caro Zaccagnini, in quest'ora tanto drammatica mi rivolgo con fiducia e viva preghiera a te ed agli amici, affinché con spirito cristiano ed autentica saggezza politica vogliate favorire, anche decisamente influenzando altre forze politiche, un'equa trattativa umanitaria, che abbia ad oggetto, con garanzie di sicurezza, scambio di prigionieri politici et consenta mia restituzione alla famiglia, che, per ragioni a te note, ha assoluto bisogno di me. Ricordando le grandi pressioni da te esercitate perché accettassi questo ufficio ed infine la mia disciplinata e rassegnata adesione alla tua richiesta, sento che con gli amici hai il dovere di aiutarmi in questo frangente. Altrimenti non potrai perdonare te stesso. Con fiducia, profonda gratitudine e viva cordialità. Aldo Moro.
28) A Benigno Zaccagnini (Recapitata tramite Don Mennini il 20 aprile). Caro Zaccagnini, mi rivolgo a te ed intendo con ciò rivolgermi nel modo più formale e, in certo modo, solenne all'intera Democrazia cristiana, alla quale mi permetto di indirizzarmi ancora nella mia qualità di Presidente del Partito. E' un'ora drammatica. Vi sono certamente problemi per il Paese che io non voglio disconoscere, ma che possono trovare una soluzione equilibrata anche in termini di sicurezza, rispettando però quella ispirazione umanitaria, cristiana e democratica, alla quale si sono dimostrati sensibili Stati civilissimi in circostanze analoghe, di fronte al problema della salvaguardia della vita umana innocente. Ed infatti, di fronte a quelli del Paese, ci sono i problemi che riguardano la mia persona e la mia famiglia. Di questi problemi, terribili ed angosciosi, non credo vi possiate liberare, anche di fronte alla storia, con la facilità, con l'indifferenza, con il cinismo che avete manifestato sinora nel corso di questi quaranta giorni di mie terribili sofferenze. Con profonda amarezza e stupore ho visto in pochi minuti, senza nessuna valutazione umana e politica, assumere un atteggiamento di rigida chiusura. L'ho visto assumere dai dirigenti, senza che risulti dove e come un tema tremendo come questo sia stato discusso. Voci di dissenso, inevitabili in un partito democratico come il nostro, non sono artificiosamente emerse. La mia stessa disgraziata famiglia è stata, in certo modo, soffocata, senza che potesse disperatamente gridare il suo dolore ed il suo bisogno di me. Possibile che siate tutti d'accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese? Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. Si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo Paese, si aprirebbe, insanabile, malgrado le prime apparenze, una frattura nel partito che non potreste dominare. Penso ai tanti e tanti democristiani che si sono abituati per anni ad identificare il partito con la mia persona. Penso ai miei amici della base e dei gruppi parlamentari. Penso anche ai moltissimi amici personali ai quali non potreste fare accettare questa tragedia. Possibile che tutti questi rinuncino in quest'ora drammatica a far sentire la loro voce, a contare nel partito come in altre circostanze di minor rilievo? Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno. Attendo tutto il partito ad una prova di profonda serietà ed umanità e con esso forze di libertà e di spirito umanitario che emergono con facilità e concordia in ogni dibattito parlamentare su temi di questo genere. Non voglio indicare nessuno in particolare, ma rivolgermi a tutti. Ma è soprattutto alla D.C. che si rivolge il Paese per le sue responsabilità, per il modo come ha saputo contemperare sempre sapientemente ragioni di Stato e ragioni umane e morali. Se fallisse ora, sarebbe per la prima volta. Essa sarebbe travolta dal vortice e sarebbe la sua fine. Che non avvenga, ve ne scongiuro, il fatto terribile di una decisione di morte presa su direttiva di qualche dirigente ossessionato da problemi di sicurezza, come se non vi fosse l'esilio a soddisfarli, senza che ciascuno abbia valutato tutto fino in fondo, abbia interrogato veramente e fatto veramente parlare la sua coscienza. Qualsiasi apertura, qualsiasi posizione problematica, qualsiasi segno di consapevolezza immediata della grandezza del problema, con le ore che corrono veloci, sarebbero estremamente importanti. Dite subito che non accettate di dare una risposta immediata e semplice, una risposta di morte. Dissipate subito l'impressione di un partito unito per una decisione di morte. Ricordate, e lo ricordino tutte le forze politiche, che la Costituzione Repubblicana, come primo segno di novità, ha annullato la pena di morte. Così, cari amici, si verrebbe a reintrodurre, non facendo nulla per impedirla, facendo con la propria inerzia, insensibilità e rispetto cieco della ragion di Stato che essa sia di nuovo, di fatto, nel nostro ordinamento. Ecco nell'Italia democratica del 1978, nell'Italia del Beccaria, come nei secoli passati, io sono condannato a morte. Che la condanna sia eseguita, dipende da voi. A voi chiedo almeno che la grazia mi sia concessa; mi sia concesso almeno, come tu Zaccagnini sai, per essenziali ragioni di essere curata, assistita, guidata che ha la mia famiglia. La mia angoscia in questo momento sarebbe di lasciarla sola - e non può essere sola – per l'incapacità del mio partito ad assumere le sue responsabilità, a fare un atto di coraggio e responsabilità insieme. Mi rivolgo individualmente a ciascuno degli amici che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell'interesse della D.C. Pensa ai sessanta giorni cruciali di crisi, vissuti insieme con Piccoli, Bartolomei, Galloni, Gaspari sotto la tua guida e con il continuo consiglio di Andreotti. Dio sa come mi sono dato da fare per venirne fuori bene. Non ho pensato no, come del resto mai ho fatto, né alla mia sicurezza né al mio riposo. Il Governo è in piedi e questa è la riconoscenza che mi viene tributata per questa come per tante altre imprese. Un allontanamento dai familiari senza addio, la fine solitaria, senza la consolazione di una carezza, del prigioniero politico condannato a morte. Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d'Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani, ma al dopo domani. Pensaci soprattutto tu, Zaccagnini, massimo responsabile. Ricorda in questo momento - dev'essere un motivo pungente di riflessione per te - la tua straordinaria insistenza e quella degli amici che avevi a tal fine incaricato - la tua insistenza per avermi Presidente del Consiglio Nazionale, per avermi partecipe e corresponsabile nella fase nuova che si apriva e che si profilava difficilissima. Ricordi la mia fortissima resistenza soprattutto per le ragioni di famiglia a tutti note. Poi mi piegai, come sempre, alla volontà del Partito. Ed eccomi qui, sul punto di morire, per averti detto di sì ed aver detto di sì alla D.C. Tu hai dunque una responsabilità personalissima. Il tuo sì o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che, se mi togli alla famiglia, l'hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più. Che Dio ti illumini, caro Zaccagnini, ed illumini gli amici ai quali rivolgo un disperato messaggio. Non pensare ai pochi casi nei quali si è andati avanti diritti, ma ai molti risolti secondo le regole dell'umanità e perciò, pur nella difficoltà della situazione, in modo costruttivo. Se la pietà prevale, il Paese non è finito. Grazie e cordialmente tuo Aldo Moro.
29) A Eleonora Moro (recapitata il 20 aprile). Carissima e amata, siamo al momento decisivo estremamente rischioso. Vi sono vicino e vi amo con tutto il cuore. Baci a tutti a Luca in particolare. Ora occorre trasmettere di urgenza queste lettere, determinanti, per cui devi convocare le squadre di Giovanni e Agnese o altri che creda idonei, al più presto. Tutto urge, urge. Due sono le più importanti: lettera mia al Papa. Non so se già hai predisposto qualcosa. Occorre inviare mani sicure e rapide es: Poletti, Pignedoli, se c'è Pompei (improbabile è a Parigi), Bottai, che dovresti fare venire a casa, senza mai nulla dire al telefono. Infine, ma potrebbe essere la soluzione più facile, chiamare Antonello Mennini, Vice Parroco di S. Lucia che puoi fare venire a casa. Infine vedi tu. Presto e bene per quel poco che può valere. Lettera a Zaccagnini. E' la più importante. Occorre arrivi integra. Vedi di mandarla per il migliore tramite a lui e avverti i giornalisti circostanti che la rendano pubblica. Mi raccomando. Ti abbraccio tanto con tutti.
30) Al segretario generale delle Nazioni Unite Kurt Waldheim. Signor Presidente, desidero innanzitutto ringraziarla, nella drammatica situazione nella quale mi trovo, per il fervido messaggio che ha voluto formulare per la salvezza della mia vita. E' un segno, tanto autorevole quanto gradito, oltre che del suo ben noto spirito umanitario, della benevolenza della quale mi fa oggetto da anni, da quando cioè ebbi la ventura di trattare lungamente con lei dei problemi dell'Alto Adige e di giungere poi alla felice conclusione di Copenaghen. In tutto questo tempo ci siamo scambiati reciproca simpatia e stima. Bene, ora io mi trovo nella condizione di prigioniero politico ed intorno a questa mia posizione è aperta una vertenza tra il governo italiano e le BR intorno a qualche scambio di prigionieri delle due parti. Il suo alto appello umanitario non ha potuto così conseguire il risultato desiderato, poiché il governo oppone la richiesta di un gesto gratuito ed unilaterale, mentre l'altra parte chiede una contropartita da concordare. In verità sia in Italia sia all'estero non mancano casi di scambi di prigionieri. La cosa, benché presenti qualche difficoltà, non è di per sé né assurda né irrisolvibile. Vi sono ostacoli politici ai quali il governo attribuisce caratteri di durezza. Gli ostacoli non sono però insuperabili; la Sua presenza in Italia, la conoscenza del contenzioso, la Sua abilità diplomatica, la Sua capacità mediatrice, dovrebbero poter sbloccare la difficile situazione, salvare la mia vita, creare un'area di distensione utile alla pace. Forse il suo sacrificio, con adeguata pressione su una posizione irragionevole del governo italiano, potrebbe fare il miracolo che attendo non per me, ma per la mia disgraziata famiglia. Purtroppo il correre del tempo è inesorabile. Ed io sono obbligato a supplicare che l'emergenza sia affrontata senza ritardo. La ringrazio, eccellenza, per quanto Ella potrà e vorrà fare ed in nome anche dei miei le porgo gli ossequi più devoti. Aldo Moro.
31) A Luigi Cottafavi. All'Ambasciatore Cottafavi. Carissimo Cottafavi, mi piacerebbe parlare così distesamente come mi è accaduto di fare l'ultima volta purtroppo le circostanze sono diverse. La mia disgraziata situazione mi induce a fare per suo affettuoso tramite un fervido appello a Waldheim, il quale, pur restando nei limiti umanitari che non sono sufficienti a sbloccare la situazione, ha usato un tono più caldo, dando l'impressione di poter fare all'occorrenza qualche cosa di più, forse in nome di vecchi rapporti di amicizia e di collaborazione. Da qui, accompagnata da una lettera che Le accludo, la mia supplica a Lei, perché me lo porti di urgenza in Italia. Bisognerebbe fare davvero uno strappo. E bisogna aggiungere che non avrà un compito facile per le resistenze del governo che vorrebbe risolvere in termini umanitari (e cioè non pagando niente) la questione. E ciò dimenticando che in moltissimi altri paesi civili si hanno scambi e compensazioni e che in Italia stessa per i casi dei Palestinesi ci siamo comportati in tutt'altro modo. Aggiungo che, trattandosi di un fatto politico, trattandosi di una mediazione, c'è un termine ragionevole di trattativa e che soprattutto al Presidente dell'ONU non dovrebbe essere rifiutata. E' insomma, caro Cottafavi, un estremo tentativo il cui successo è largamente affidato, se Dio vorrà, a che si metta in moto presto e con le ali. Se l'ONU salvasse una vita umana, strappandola a quest'Italia inetta, sarebbe una bella cosa. Grazie l'abbraccio. Aldo Moro. Un incontro a Ginevra sotto l'egida della Croce Rossa sarebbe possibile?
32) A Franco Malfatti (il destinatario ha dichiarato di non aver ricevuto la lettera). All'Ambasciatore Franco Malfatti segretario generale della Farnesina. Carissimo Ambasciatore, nella disperata situazione in cui mi trovo, sono nella necessità di rivolgermi a Lei, per trasmettere un appropriato messaggio al vecchio collega ed amico Waldheim, presidente dell'ONU, messaggio che è richiesta di urgente aiuto, ma, come Ella ben sa, non è di contenuto semplicemente umanitario. Nella condizione in cui sono non riesco a contattare efficacemente Cottafavi. E allora mi rivolgo a Lei con la fiducia di sempre, avendo come supremo obiettivo una rapida visita di Waldheim in Italia. Anche sul piano psicologico, non sarebbe cosa da poco. Ovviamente ogni collaborazione dell'ambasciatore Vinci non potrà che essere estremamente utile. Grazie e con l'affetto di sempre, mi creda suo. Aldo Moro. Amb. Franco Malfatti. Segretario generale della Farnesina. Un incontro a Ginevra sotto l'egida della Croce Rossa sarebbe possibile?
33) A Giuseppe Manzari (il destinatario ha dichiarato di non aver mai ricevuto la lettera). Carissimo Peppino, ti sarei grato t'informassi buona fonte circa la ragione per la quale si è bloccata la richiesta di Young di portare il nostro caso al Consiglio di Sicurezza e se c'è ancora una possibilità in tal senso e che cosa si può fare con la dovuta urgenza. La risposta tienila per te, che ti sarà comandata al momento opportuno. Grazie e affettuosamente tuo Aldo Moro. Ad un cenno si dovrebbe essere in condizioni di chiamare qui l'Amb. Cottafavi. Nulla per ora. Poi si vedrà. Avv. Giuseppe Manzari, presidente Sezione Consiglio di Stato, Capo del Contenzioso diplomatico.
34) A Flaminio Piccoli (non recapitata). Caro Piccoli, mi rivolgo a te con la fiducia e l'affetto che sai. Sei tu ora, punto di riferimento. E vedo il segno della tua presenza nel fatto che sia stato sin qui evitato il peggio, la chiusura indiscriminata. Guardando agli aspetti umanitari, che sono essenziali e valgono per tutti i Paesi, bisogna rapidamente approfondire questa breccia. Andare avanti, cioè, nel concreto, senza illudersi che invocazioni umanitarie possano avere il minimo effetto. Non dividete sul sangue la D.C., non illudetevi di risolvere così i problemi del paese, date fiducia, ora che si manifesta intero, all'umanitarismo socialista, anche se vi fosse la sfida della crisi, la cui composizione del resto è stata così faticosamente accettata. La crisi, per questo motivo che lascia allo scoperto i comunisti, non ci sarebbe o almeno sarebbe risolvibile. Non lasciate allo scoperto i vecchi amici che hanno dato fino all'ultimo. Sarebbe un fatto obbrobrioso e immorale. Sarebbe un eroismo su basi fragilissime. Scusa queste considerazioni che, soprattutto per la famiglia dovevo fare, ed abbiti i più cordiali saluti. Aldo Moro. On. Flaminio Piccoli, Presidente del gruppo Parlamentare, Camera della D.C.
35) A Benigno Zaccagnini (non recapitata). On. Benigno Zaccagnini. Aggiungi che la mia protezione è stata assolutamente insufficiente e non è giusto farne ricadere la responsabilità su di me. Caro Zac, se si proroga, come si deve, dev'essere per fare davvero qualche cosa, non per perdere tempo. So che tutto è difficile ma spero non ti sottrarrai a questa responsabilità (il contrario sarebbe disumano e crudele) di far procedere il negoziato verso una conclusione ragionevole ma positiva. Non puoi capire che cosa si prova in queste ore. Non cedere a nessuno, non ammettere tatticismi. La responsabilità è tua, tutta tua. Se fossi nella tua condizione non accetterei mai di dire di sì all'uccisione, di pagare con la vita la prigionia che non si crede di poter interrompere. Ma stai bene attento alla scala dei valori. Con [parola indecifrabile] Aldo Moro.
36) A Giovanni Leone (recapitata il 29 aprile). Alla Stampa, da parte di Aldo Moro, con preghiera di cortese urgente trasmissione al suo illustre Destinatario. Molti ringraziamenti. All'On. Prof. Giovanni Leone. Presidente della Repubblica Italiana. Faccio vivo appello, con profonda deferenza, al tuo alto senso di umanità e di giustizia, affinché, d'accordo con il Governo, voglia rendere possibile una equa e umanitaria trattativa per scambio di prigionieri politici, la quale mi consenta di essere restituito alla famiglia, che ha grave e urgente bisogno di me. Le tante forme di solidarietà sperimentate, t'indirizzino per la strada giusta. Ti ringrazio profondamente e ti saluto con viva cordialità. Aldo Moro.
37) A Amintore Fanfani (recapitata il 29 aprile). Onorevole Presidente del Senato, in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente della Camera, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata, con le adeguate garanzie, un'equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me. Lo spirito umanitario che anima il Parlamento ebbe già a manifestarsi in sede di Costituente, alla quale anche in questo campo ebbi a dare il mio contributo, e si è fatto visibile con l'abolizione della pena di morte ed in molteplici leggi ed iniziative. D'altra parte non sfuggono alle Assemblee né i problemi di sicurezza, che però possono essere adeguatamente risolti, né la complessità del problema politico per il quale non sarebbero sufficienti scelte semplici e riduttive. Al di là di questa problematica io affido a Lei, signor Presidente, con fiducia ed affetto la mia persona, nella speranza che tanti anni di stima, amicizia e collaborazione mi valgano un aiuto decisivo, che ricostituisca il Plenum del Parlamento e che mi dia l'unica gioia che cerco, il ricongiungimento con la mia amata famiglia. Con i più sinceri e vivi ringraziamenti, voglia gradire i miei più deferenti saluti. Suo Aldo Moro. On. Prof. Amintore Fanfani, Presidente del Senato della Repubblica.
38) A Pietro Ingrao (recapitata il 29 aprile). Onorevole Presidente della Camera, in questo momento estremamente difficile, ritengo mio diritto e dovere, come membro del Parlamento italiano, di rivolgermi a Lei che ne è, insieme con il Presidente del Senato, il supremo custode. Lo faccio nello spirito di tanti anni di colleganza parlamentare, per scongiurarla di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata con le adeguate garanzie, un'equa trattativa umanitaria, che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici ed a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave ed urgente bisogno di me. Lo spirito umanitario che anima il Parlamento ebbe già a manifestarsi in sede di Costituente, alla quale anche in questo campo ebbi a dare il mio contributo, e si è fatto visibile con l'abolizione della pena di morte ed in molteplici leggi ed iniziative. D'altra parte non sfuggono alle Assemblee né i problemi di sicurezza, che possono però essere adeguatamente risolti, né la complessità del problema politico per il quale non sarebbero sufficienti scelte semplici e riduttive. Al di là di questa problematica io affido a Lei, Signor Presidente, con fiducia ed affetto la mia persona, nella speranza che tanti anni di stima, amicizia e collaborazione mi valgano un aiuto decisivo che ricostituisca il Plenum del Parlamento e che mi dia l'unica gioia che cerco, il ricongiungimento con la mia amata famiglia. Con i più sinceri e vivi ringraziamenti, voglia gradire i miei più deferenti saluti. Suo Aldo Moro. On. Pietro Ingrao, Presidente della Camera dei deputati.
39) A Flaminio Piccoli (recapitata il 29 aprile). On. Flaminio Piccoli. Presidente Gruppo D.C. occorrendo puoi parlare anche di me. Caro Piccoli, non ti dico tutte le cose che vorrei per brevità e per l'intenso dialogo tra noi che dura da anni. Ho fiducia nella tua saggezza e nel tuo realismo, unica antitesi ad un predominio oggi, se non bilanciato, pericoloso. So che non ti farai complice di un'operazione che, oltretutto, distruggerebbe la D.C. Non mi dilungo, perché so che tu capisci queste cose. Aggiungo qualche osservazione per il dibattito interno che spero abbia giuste proporzioni e sia da te responsabilmente guidato. La prima osservazione da fare è che si tratta di una cosa che si ripete come si ripetono nella vita gli stati di necessità. Se n'è parlato meno di ora, ma abbastanza, perché si sappia come sono andate le cose. E tu, che sai tutto, ne sei certo informato. Ma, per tua tranquillità e per diffondere in giro tranquillità, senza fare ora almeno dichiarazioni ufficiali, puoi chiamarti subito Pennacchini che sa tutto (nei dettagli più di me) ed è persona delicata e precisa. Poi c'è Miceli e, se è in Italia (e sarebbe bene da ogni punto di vista farlo venire) il Col. Giovannoni, che Cossiga stima. Dunque, non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente. Uguale il vantaggio dei liberati, ovviamente trasferiti in Paesi Terzi. Ma su tutto questo fenomeno politico vorrei intrattenermi con te, che sei l'unico cui si possa parlare a dovuto livello. Che Iddio lo renda possibile. Naturalmente comprendo tutte le difficoltà. Ma qui occorrono non sotterfugi, ma atti di coraggio. Dopo un po' l'opinione pubblica capisce, pur che sia guidata. In realtà qui l'ostacolo è l'intransigenza del partito comunista che sembra una garanzia. Credo sarebbe prudente guardare più a fondo le cose, tenuto conto del più duttile atteggiamento socialista cui fino a due mesi fa andavano le nostre simpatie. Forse i comunisti vogliono restare soli a difendere l'autorità dello Stato o vogliono di più. Ma la D.C. non ci può stare. Perché nel nostro impasto (chiamalo come vuoi) c'è una irriducibile umanità e pietà: una scelta a favore della durezza comunista contro l'umanitarismo socialista sarebbe contro natura. Importante è convincere Andreotti che non sta seguendo la strada vincente. E' probabile che si costituisca un blocco di oppositori intransigenti. Conviene trattare. Grazie e affettuosamente Aldo Moro.
40) A Riccardo Misasi (recapitata il 29 aprile). Carissimo Riccardo, un grande abbraccio e due parole per dirti che mi attendo, con l'eloquenza ed il vigore che ti sono propri, una tua efficace battaglia a difesa della vita, a difesa dei diritti umani, contro una gretta ragion di Stato. Tu sai che gli argomenti del rigore, in certe situazioni politiche, non servono a nulla. Si tratta di ben altro che dovremmo sforzarci di capire. Se prendi di petto i legalisti, vincerai ancora una volta. Non illudetevi di invocazioni umanitarie. Vorrei poi dirti che, se dovesse passarsi, come ci si augura, ad una fase ulteriore, la tua autorità ed esperienza di Presidente della Commissione Giustizia, dovrebbero essere, oltre che per le cose in generale che interessano, preziose per alcuni temi specifici che tu certo intuisci. Grazie e tanti affettuosi saluti. Aldo Moro. On. Riccardo Misasi.
41) A Renato Dell'Andro (recapitata il 29 aprile). Carissimo Renato. in questo momento così difficile, pur immaginando che tu abbia fatto tutto quello che la coscienza e l'affetto ti suggerivano, desidero aggiungere delle brevi considerazioni. Ne ho fatto cenno a Piccoli e a Pennacchini ed ora lo rifaccio a te, che immagino con gli amici direttamente e discretamente presenti nei dibattiti che si susseguono. La prima riguarda quella che può sembrare una stranezza e non è e cioè lo scambio dei prigionieri politici. Invece essa è avvenuta ripetutamente all'estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all'epoca più oscura della guerra. Lo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi e conviene saperlo per non stupirsi. Io non penso che si debba fare, per ora, una dichiarazione ufficiale, ma solo parlarne di qua e di là, intensamente però. Ho scritto a Piccoli e a Pennacchini che è buon testimone. A parte tutte le invenzioni che voi saprete fare, è utile mostrare una riserva che conduca, in caso di esito negativo, al coagularsi di voti contrari come furono minacciati da De Carolis e altri, Andreotti che (con il PCI) guida la linea dura, deve sapere che corre gravi rischi. Valorizzare poi l'umanitarismo socialista, più congeniale alla D.C. e che ha sempre goduto, e specie in questa legislatura, maggiori simpatie. Forza, Renato, crea, fai, impegnati con la consueta accortezza. Te ne sarò tanto grato. Ti abbraccio. Aldo Moro. On. [parola illeggibile] Renato Dell'Andro S.p.M.
42) A Tullio Ancora (recapitata il 29 aprile). Caro Tullio, un caro ricordo ed un caloroso abbraccio. Senza perdersi in tante cose importanti, ma ovvie, concentrati in questo. Ricevo come premio dai comunisti dopo la lunga marcia la condanna a morte. Non commento. Quel che dico, e che tu dovresti sviluppare di urgenza e con il garbo che non ti manca, è che si può ancora capire (ma male) un atteggiamento duro del PCI, ma non si capirebbe certo che esso fosse legato al quadro politico generale la cui definizione è stata così faticosamente raggiunta e che ora dovrebbe essere ridisegnato. Dicano, se credono, che la loro è una posizione dura e intransigente e poi la lascino lì come termine di riferimento. E' tutto, ma è da fare e persuadere presto. Affettuosamente Aldo Moro. Dott. Tullio Ancora. Via Livorno 44
Roma.
43) A Giulio Andreotti (recapitata il 29 aprile). Caro Presidente, so bene che ormai il problema, nelle sue massime componenti, è nelle tue mani e tu ne porti altissima responsabilità. Non sto a descriverti la mia condizione e le mie prospettive. Posso solo dirti la mia certezza che questa nuova fase politica, se comincia con un bagno di sangue e specie in contraddizione con un chiaro orientamento umanitario dei socialisti, non è apportatrice di bene né per il Paese né per il Governo. La lacerazione ne resterà insanabile. Nessuna unità nella sequela delle azioni e reazioni sarà più ricomponibile. Con ciò vorrei invitarti a realizzare quel che si ha da fare nel poco tempo disponibile. Contare su un logoramento psicologico, perché son certo che tu, nella tua intelligenza, lo escludi, sarebbe un drammatico errore. Quando ho concorso alla tua designazione e l'ho tenuta malgrado alcune opposizioni, speravo di darti un aiuto sostanzioso, onesto e sincero. Quel che posso fare, nelle presenti circostanze, è di beneaugurare al tuo sforzo e seguirlo con simpatia sulla base di una decisione che esprima il tuo spirito umanitario, il tuo animo fraterno, il tuo rispetto per la mia disgraziata famiglia. Quanto ai timori di crisi, a parte la significativa posizione socialista cui non manca di guardare la D.C., è difficile pensare che il PCI voglia disperdere quello che ha raccolto con tante forzature. Che Iddio ti illumini e ti benedica e ti faccia tramite dell'unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia. Grazie e cordialmente tuo Aldo Moro. On. Giulio Andreotti. Presidente del Consiglio dei Ministri.
44) A Bettino Craxi (recapitata il 29 aprile). Caro Craxi, poiché ho colto, pur tra le notizie frammentarie che mi pervengono, una forte sensibilità umanitaria del tuo Partito in questa dolorosa vicenda, sono qui a scongiurarti di continuare ed anzi accentuare la tua importante iniziativa. E' da mettere in chiaro che non si tratta di inviti rivolti agli altri a compiere atti di umanità, inviti del tutto inutili, ma di dar luogo con la dovuta urgenza ad una seria ed equilibrata trattativa per lo scambio di prigionieri politici. Ho l'impressione che questo o non si sia capito o si abbia l'aria di non capirlo. La realtà è però questa, urgente, con un respiro minimo. Ogni ora che passa potrebbe renderla vana ed allora io ti scongiuro di fare in ogni sede opportuna tutto il possibile sull'unica direzione giusta che non è quella della declamazione. Anche la D.C. sembra non capire. Ti sarei grato se glielo spiegassi anche tu con l'urgenza che si richiede.
Credi, non c'è un minuto da perdere. E io spero che o al San Rafael o al Partito questo mio scritto ti trovi. Mi pare tutto un po' assurdo, ma quello che conta non è spiegare, ma, se si può fare qualcosa, di farlo. Grazie infinite ed affettuosi saluti Aldo Moro. On. Bettino Craxi. Segretario del Partito Socialista Italiano.
45) A Erminio Pennacchini (recapitata il 29 aprile). Carissimo Pennacchini, ho avuto sempre grande stima di te, per tutto, ma soprattutto per la cristallina onestà. E' quindi naturale che in un momento drammatico mi rivolga a te per un aiuto prezioso che consiste semplicemente nel dire la verità. Dirla, per ora, ben chiara agli amici parlamentari ed a qualche portavoce qualificato dell'opinione pubblica. Si vedrà poi se ufficializzarla. Si tratta della nota vicenda dei palestinesi che ci angustiò per tanti anni e che tu, con il mio modesto concorso, riuscisti a disinnescare. L'analogia, anzi l'eguaglianza con il mio doloroso caso, sono evidenti. Semmai in quelle circostanze la minaccia alla vita dei terzi estranei era meno evidente, meno avanzata. Ma il fatto c'era e ad esso si è provveduto secondo le norme dello Stato di necessità, gestite con somma delicatezza. Di fronte alla situazione di oggi non si può dire perciò che essa sia del tutto nuova. Ha precedenti numerosi in Italia e fuori d'Italia ed ha, del resto, evidenti ragioni che sono insite nell'ordinamento giuridico e nella coscienza sociale del Paese. Del resto è chiaro che ai prigionieri politici dell'altra parte viene assegnato un soggiorno obbligato in Stato Terzo. Ecco, la tua obiettiva ed informata testimonianza, data ampiamente e con la massima urgenza, dovrebbe togliere alla soluzione prospettata quel certo carattere di anomalia che taluno tende ad attribuire ad essa. E' un intermezzo di guerra o guerriglia che sia, da valutare nel suo significato. Lascio alla tua prudenza di stabilire quali altri protagonisti evocare. Vorrei che comunque Giovannoni fosse su piazza. Ma importante è che tu sia lì, non a fare circolo, ma a parlare serenamente secondo verità. Tra l'altro ricordi quando l'allarme ci giunse in Belgio? Grazie per quanto dirai e farai secondo verità. La famiglia ed io, in tanta parte, dipendiamo da te, dalla tua onestà e pacatezza. Affettuosamente Aldo Moro.
46) A Maria Luisa Familiari (la destinataria ha dichiarato di non aver ricevuto la lettera). C'è anche una lettera per Zaccagnini da portare in casa, vicino casa mia o a Piazza del Gesù con molte raccomandazioni. Carissima Maria Luisa (Familiari) in questa, probabilmente inutile, corsa contro la morte, ricorro a te, col sistema dell'altro giorno, partendo questa volta da casa tua invece che dall'ufficio, dato il giorno festivo. Si tratta di portare entro oggi domenica a destinazione queste lettere nelle proprie mani dei destinatari, o almeno quasi nelle loro mani. Dato che è domenica andare a casa, assicurarsi, essere certi che sarà consegnata a breve scadenza, andare fuori se l'interessato fosse fuori in un posto definito e sicuro. Il più importante è l'on. Piccoli che abita non lontano da casa mia e in alternativa si potrebbe trovare (improbabile) nel suo ufficio a Montecitorio o più probabilmente a Piazza del Gesù. Poi c'è l'on. Riccardo Misasi, Presidente della Commissione di giustizia, di cui non ho idea dove possa abitare. Se la Camera, date le circostanze, è aperta chiedere là o a Piazza del Gesù o alla segreteria on. Dell'Andro o al Ministero della giustizia. Queste frasi qui dette sono le più importanti. Poi c'è quella indirizzata al Dott. Tullio Ancora, Via Livorno 44, non lungi da Piazza Fiume. Anche lì dare a mano. Ce n'è poi una per il presidente del Consiglio Andreotti che potrebbe essere recapitata al limite nella sua casa in Corso Vittorio Emanuele, non lontano dalla Chiesa Nuova. In mancanza di tutto anche in Piazza del Gesù. C'è infine una per l'on. Craxi che credo abiti all'Albergo San Raphael presso il Panteon o in mancanza alla sede del P.S.I. in via del Corso, con molte raccomandazioni. Scusami tanto, abbracciami tutti, voglia anche tu un po' di bene a Luca. E Dio ti benedica e ti premi di tutto. Aldo Moro. P.S. Fai tutto con l'aiuto dei carissimi amici, specie Mimmo, Matteo e Gianni. Sarà brutta domenica, ma pensa alla mia.
47) Ai Presidenti delle Camere (non recapitata). Signori Presidenti delle Camere, è nota la mia difficile condizione. Sono prigioniero politico delle Brigate Rosse e sottoposto, quale Presidente del Consiglio Nazionale della D.C., a giudizio sulla base di accuse che riguardano insieme me ed il gruppo dirigente del Partito. In relazione a questo mio stato di detenzione si è prospettata la opportunità di uno scambio dei prigionieri politici delle due parti, secondo modalità da trattare. Di questa possibilità io mi sono fatto portatore in due messaggi, che, malgrado le mie argomentazioni umanitarie e politiche, non hanno avuto in Parlamento favorevole accoglienza. A questo punto ritengo di invocare la umanitaria comprensione delle due Assemblee e dei loro Presidenti per una soluzione che, a mio avviso, non pregiudicherebbe in nessun modo né i diritti dello Stato, né i legittimi interessi dei prigionieri politici, tra i quali io mi trovo. Questa soluzione dovrebbe essere negoziata tramite la Croce Rossa di Ginevra e dovrebbe concretarsi in una legge straordinaria ed urgente del Parlamento, la quale mi conferisca lo status di detenuto in condizioni del tutto analoghe, anche come modalità di vita, a quelle proprie dei prigionieri politici delle Brigate Rosse. Per legge io verrei così vincolato a questi prigionieri e non potrei fruire di atti di clemenza o di scambi, se non in quanto gli altri ne beneficiassero. Ovviamente la garanzia alle Brigate Rosse dovrebbe essere data tramite il negoziato con la Croce Rossa e la legge obbligante che il Parlamento poi voterebbe, ritenendo in essa assorbita l'autorizzazione a procedere e ad arrestare. So bene che si possono fare contro questa tutte le possibili obiezioni. Sta di fatto però che è questo l'unico modo per salvare la vita ed ottenere condizioni di detenzione accettabili, e che io accetto, fino a che non maturino le condizioni di un miglior assetto della materia. Infatti una prigione clandestina non può durare a lungo, né offrire, per ragioni tecniche, più di quel che offre. In una prigione comune, per quanto severa, io avrei delle migliori possibilità ambientali, qualche informazione ed istruzione, assistenza farmaceutica e medica ed un contatto, almeno saltuario, con la famiglia. Voglia il Parlamento nel suo alto senso di giustizia e di umanità vagliare la mia proposta, non recidendo l'esile filo nel quale si esprimono le mie poche speranze. Con ossequi Aldo Moro.
48) A Eleonora Moro (non recapitata). Mia dolcissima Noretta, non mi soffermo sulle tante cose tenere che vorrei dire per tutti voi. C'è una cosa importante ed urgente da fare: un tuo incontro con Zaccagnini, Piccoli, Bartolomei, Galloni e Gaspari. Devi dire loro, prima privatamente, poi pubblicamente col tenore che uso in questi giorni (ce ne sarà uno ancora domani) che essi mi conducono a morte sicura, escludendo qualsiasi trattativa su scambi di prigionieri, salvaguardia di ostaggi e poi anche sulle proposte ultime e minime dell'on. Craxi. Non si debbono fare illusioni in proposito. Possono darti tutte le assicurazioni che vogliono, ma non hanno niente in mano. Dato che il tempo corre, la via della prudenza, dell'attesa, della fiducia è impercorribile, anche di fronte a TV e radio devi dire (chiariscilo per me a Guerzoni) che tu chiedi un'assunzione di responsabilità della D.C. e ad essa dovrai dolorosamente attribuire la responsabilità. Sei mia moglie, rappresenti la famiglia, puoi dirlo, con esito drammatico. Sii dura come sai esserlo [...]
Aldo [...] seguono due righe incomprensibili.
49) A Corrado Guerzoni (il destinatario ha dichiarato di non aver mai ricevuto la lettera). Se non la ricevono, va pure detto in TV. Chiamare subito Guerzoni. Carissimo Guerzoni, ci deve essere un mio appello al partito, presso mia moglie, da diffondere molto e presto. Inoltre è ritenuto qui essenziale che mia moglie si rechi al partito (Zac + 5) e dica loro nettamente che il rifiuto della D.C. a trattare seriamente, anche nelle forme minime proposte da Craxi, comporta la mia morte, la cui responsabilità la famiglia deve ad essa attribuire. Questo va sistematicamente ripetuto dopo a mezzo TV. Le sarò grato se accompagnasse e aiutasse, perché è la prima volta che mia moglie fa questo e ne è terrorizzata. Ma almeno la Radio dovrebbe essere più facile. Quanto all'opportunità lasci me giudicare. Scusi tanto, grazie per il doppio lavoro e molta cordialità. Aldo Moro. In caso di indisponibilità dell'altra parte o di cogenti ragioni di salute di mia moglie, bisogna mandare subito una lettera alla D.C. che esprima i noti concetti e che sia subito pubblicata. Guerzoni di domenica reperibile in casa via Flaminia N° reperibile nel catalogo. Ovvero in via di Forte Trionfale, 79 lunedì in ufficio. Mi raccomando: questa diffida è essenziale e deve essere immediata.
50) A Don Antonello Mennini (il destinatario ha dichiarato di non aver mai ricevuto la lettera). Antonello Mennini. Carissimo Antonello, avrei da dire molte cose, ma le rimando perché meno urgenti. ci sarebbe da consegnare tre lettere importanti di persona e con molta urgenza. 1 Onorevole Piccoli. Dovrebbe essere tra molta confusione al suo ufficio nel gruppo parlamentare della Camera. Bisogna stanarlo e dargliela, dicendo che viene da me. 2 On. Renato Dell'Andro. Può essere all'albergo Minerva (mi pare proprio si chiami così, tutto di fronte alla chiesa) o al Ministero della giustizia o infine alla sede del Gruppo D.C. a Montecitorio. Se per dannata ipotesi, avessi sbagliato il nome dell'albergo, sappi che i due alberghetti di cui si tratta sono così: Chiesa Minerva Questo a destra è Dell'Andro. 3 On. Pennacchìni potrebbe essere allo stesso Gruppo al suo nuovo ufficio di Presidente della Commissione parlamentare per i servizi d'informazione, di quest'ultimo non conosco la sede, che è però vicinissima alla Camera dove la conoscono. L'importante è che arrivi e arrivi subito. Per semplificazione si può affidare a Dell'Andro, di persona, l'operazione Pennacchini. Quindi: partire da Piccoli, poi Dell'Andro, per suo tramite o direttamente, Pennacchini. In extremis, lasciare di persona a Dell'Andro per gli altri due sollecitandolo. Se possibile, S.Em. Poletti potrebbe far osservare a S.S. che il Suo bellissimo messaggio, equivocandosi tra restituzione umanitaria e scambio dei prigionieri, si presta purtroppo ad essere utilizzato contro di me. Essenziale sarebbe dire ad Andreotti il sincero desiderio che le cose vadano nel modo desiderato da noi e cioè mediante scambio. Se si vuole il risultato, questa è la via. Altrimenti tutto s'incaglia. Grazie, benedicimi, proteggimi e voglimi bene. Tuo Aldo Moro.
51) A Don Antonello Mennini (il destinatario ha dichiarato di non aver mai ricevuto la lettera). Mio carissimo Antonello, scusa se profitto così spesso di te. E' che sei non solo il più caro, ma il più utile e capace nella difficilissima situazione. 3 cose. I. ho chiesto ieri a mia moglie (ma il messaggio sarà stato fatto passare? e le sue parole saranno state trasmesse?) che dica fermamente che invoca salvezza per me, nell'unico modo possibile, come tante altre volte è avvenuto, cioè di uno scambio di prigionieri. E poi commosse parole di circostanza. Il fatto che l'appello di mia moglie non arrivi mi allarma sulla salute sua, ma genera forse l'impressione che la famiglia sia più vicina alla linea ufficiale anziché a me, il che è falso. II. Vorrei raccogliessi notizie sulla salute di casa e ti tenessi pronto a rispondere, quando mi sarà possibile di domandartelo. Mi potrebbero scrivere qualche rigo? Tramite te? III. ed è di particolare urgenza (precede le altre cose) prendere contatto telefonico con l'On. Dell'Andro (Ministero Giustizia) o con Sen. Rosa (Marina Mercantile) o Sen. Gui e Sen. Cervone, pregando di preparare bene la progettata riunione (a quanto sento) sulla mia disgraziata vicenda, tenendo contatto con gli altri amici e in particolare l'On. Misasi. E' necessario avere una seria linea alternativa a quella del Governo, la quale riecheggi un po' la ispirazione socialista. Bisogna far capire che lo scambio è stato quasi sempre fatto quando erano in gioco ostaggi e a quelli dell'altra parte è stato dato riparo all'estero con esclusione dal territorio nazionale. Dì tante cose care a mia moglie e a chi vedi dei miei. Benedicimi e aiutami nel Signore. Ti abbraccio forte. Tuo Aldo Moro. P.S. Un'ultima cosa urgente da dire a mia moglie, che faccia riscuotere subito a Rana alcuni assegni da me firmati in mansarda. E' necessario per evitare complicazioni ereditarie. Grazie. P.S. Dì al Card. Poletti che mia moglie purtroppo non sta bene. Che supplichi il Papa di fare di più, insistendo personalmente con Andreotti e non lasciandosi convincere dalla ragione di Stato. Altre volte è stata superata.
52) A Eleonora Moro (recapitata il 24 aprile). Carissima Noretta, come ultimo tentativo fai una protesta ed una preghiera con tutto il fiato che hai in gola, senza sentire i consigli di prudenza di chicchessia e dello stesso Guerzoni. Ti abbraccio forte forte. Aldo.
53) A Benigno Zaccagnini (recapitata il 24 aprile). Caro Zaccagnini, ancora una volta, come qualche giorno fa m'indirizzo a te con animo profondamente commosso per la crescente drammaticità della situazione. Siamo quasi all'ora zero: mancano più secondi che minuti. Siamo al momento dell'eccidio. Naturalmente mi rivolgo a te, ma intendo parlare individualmente a tutti i componenti della Direzione (più o meno allargata) cui spettano costituzionalmente le decisioni, e che decisioni! del partito. Intendo rivolgermi ancora alla immensa folla dei militanti che per anni ed anni mi hanno ascoltato, mi hanno capito, mi hanno considerato l'accorto divinatore delle funzioni avvenire della Democrazia Cristiana. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con la folla dei militanti. Quanti dialoghi, in anni ed anni, con gli amici della Direzione del Partito o dei Gruppi parlamentari. Anche negli ultimi difficili mesi quante volte abbiamo parlato pacatamente tra noi, tra tutti noi, chiamandoci per nome, tutti investiti di una stessa indeclinabile responsabilità. Si sapeva, senza patti di sangue, senza inopinati segreti notturni che cosa voleva ciascuno di noi nella sua responsabilità. Ora di questa vicenda, la più grande e gravida di conseguenze che abbia investito da anni la D.C., non sappiamo nulla o quasi. Non conosciamo la posizione del Segretario né del Presidente del Consiglio; vaghe indiscrezioni dell'On. Bodrato con accenti di generico carattere umanitario. Nessuna notizia sul contenuto; sulle intelligenti sottigliezze di Granelli, sulle robuste argomentazioni di Misasi (quanto contavo su di esse), sulla precisa sintesi politica dei Presidenti dei Gruppi e specie dell'On. Piccoli. Mi sono detto: la situazione non è matura e ci converrà aspettare. E' prudenza tradizionale della D.C. Ed ho atteso fiducioso come sempre, immaginando quello che Gui, Misasi, Granelli, Gava, Gonella (l'umanista dell'Osservatore) ed altri avrebbero detto nella vera riunione, dopo questa prima interlocutoria. Vorrei rilevare incidentalmente che la competenza è certo del Governo, ma che esso ha il suo fondamento insostituibile nella D.C. che dà e ritira la fiducia, come in circostanze così drammatiche sarebbe giustificato. E' dunque alla D.C. che bisogna guardare. Ed invece, dicevo, niente. Sedute notturne, angosce, insofferenza, richiami alle ragioni del Partito e dello Stato. Viene una proposta unitaria nobilissima, ma che elude purtroppo il problema politico reale. Invece dev'essere chiaro che politicamente il tema non è quello della pietà umana, pur così suggestiva, ma dello scambio di alcuni prigionieri di guerra (guerra o guerriglia come si vuole), come si pratica là dove si fa la guerra, come si pratica in paesi altamente civili (quasi la universalità), dove si scambia non solo per obiettive ragioni umanitarie, ma per la salvezza della vita umana innocente. Perché in Italia un altro codice? Per la forza comunista entrata in campo e che dovrà fare i conti con tutti questi problemi anche in confronto della più umana posizione socialista? Vorrei ora fermarmi un momento sulla comparazione dei beni di cui si tratta: uno recuperabile, sia pure a caro prezzo, la libertà; l'altro, in nessun modo recuperabile, la vita. Con quale senso di giustizia, con quale pauroso arretramento sulla stessa legge del taglione, lo Stato, con la sua inerzia, con il suo cinismo, con la sua mancanza di senso storico consente che per una libertà che s'intenda negare si accetti e si dia come scontata la più grave ed irreparabile pena di morte? Questo è un punto essenziale che avevo immaginato Misasi sviluppasse con la sua intelligenza ed eloquenza. In questo modo si reintroduce la pena di morte che un Paese civile come il nostro ha escluso sin dal Beccaria ed espunto nel dopoguerra dal codice come primo segno di autentica democratizzazione. Con la sua inerzia, con il suo tener dietro, in nome della ragion di Stato, l'organizzazione statale condanna a morte e senza troppo pensarci su, perché c'è uno stato di detenzione preminente da difendere. E' una cosa enorme. Ci vuole un atto di coraggio senza condizionamenti di alcuno. Zaccagnini, sei eletto dal congresso. Nessuno ti può sindacare. La tua parola è decisiva. Non essere incerto, pencolante, acquiescente. Sii coraggioso e puro come nella tua giovinezza. E poi, detto questo, io ripeto che non accetto l'iniqua ed ingrata sentenza della D.C. Ripeto: non assolverò e non giustificherò nessuno. Nessuna ragione politica e morale mi potranno spingere a farlo. Con il mio è il grido della mia famiglia ferita a morte, che spero possa dire autonomamente la sua parola. Non creda la D.C. di avere chiuso il suo problema, liquidando Moro. Io ci sarò ancora come un punto irriducibile di contestazione e di alternativa, per impedire che della D.C. si faccia quello che se ne fa oggi. Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato, né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene e sono degni perciò di accompagnarmi con la loro preghiera e con il loro amore. Cordiali saluti. 24-4-78. Aldo Moro. On. Benigno Zaccagnini. P.S. Diffido a non prendere decisioni fuori dagli organi competenti di partito.
54) A Eleonora Moro (non recapitata). Mia dolcissima Noretta, credo che questa sia proprio l'ultima. Per ragioni misteriose mi sembra preclusa qualsiasi speranza. Non si sa neppure approssimativamente, che cosa accade, in che si concludano le varie iniziative delle quali una volta si parla. Il Papa non può fare niente neppure dimostrativamente, in questo caso? Perché avevamo tanti amici, a schiere. Non una voce che io sappia, si è levata sin qui. Di voi ho ricevuto la sola lettera del "Giorno", che volevo portare sul petto, così per farmi compagnia, all'atto di morire. Ma si è perduta nel pulire la prigione. Per quanto abbia chiesto, non ho saputo altro. Quasi pensavo di aver fatto qualcosa di vergognoso. Ma è il meccanismo, deve essere così. Ed a voi devono avere consigliato (proibito) di fare qualsiasi protesta, che non sarebbe servita a nulla, ma avrebbe dimostrato che io qualche persona cara l'ho ancora. E' stato tutto freddamente determinato ed io sono stato trattato come se solo mi fossi servito della D.C. Ma non hanno nemmeno un momento esaminato la situazione, per vedere che cosa era opportuno fare, salvare il salvabile, capire. Una spaventosa improvvisazione. Per me, è finita. Penso solo a voi e, se non sono oppresso fino alla follia, vi richiamo, vi rivedo, da grandi e da piccoli, da anziani e da giovani e tra tutti il dilettissimo Luca con cui passo ancora i momenti disponibili. E poi il dubbio della vostra salute, la ragione del vostro silenzio. Spero che Freato e Rana vi seguano. I nostri dopo 40 giorni si saranno un po' abituati, ma dimenticati, spero, no. Se a Torrita non venite, comincia col tenermi a Roma, o nella chiesa di Torrita. Abbracciameli tutti tutti, uno ad uno, ogni giorno, come avrei fatto. Ricordatemi un po', per favore. Lo sono cupo e un po' intontito. Credo non sarà facile imparare a guardare e a parlare con Dio e con i propri cari. Ma c'è speranza diversa da questa? Qualche volta penso alle scelte sbagliate, tante; alle scelte che altri non hanno meritato. Poi dico che tutto sarebbe stato eguale, perché è il destino che ci prende. Mentre lasciamo tutto resta l'amore, l'amore grande grande per te e per i nostri frutti di tanta incredibile e impossibile felicità. Che di tutto resti qualcosa. Ti abbraccio forte, Noretta mia. Morirei felice, se avessi il segno di una vostra presenza. Sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla. Aldo.
55) Ai parenti (non recapitata). A fratelli, cognati, zii un grande abbraccio grazie. A Nonna tante cose care. Vede che non si può fare previsioni? Aldo.
56) A Corrado Guerzoni (non recapitata). Rai II Rete. Caro Guerzoni, in questo momento drammatico mi sento accanto a Lei, infinitamente grato per il bene che mi ha voluto, per quanto ha operato per me, per quanto avrà certo fatto in questa circostanza. Molte cose mi risultano incomprensibili e non voglio rifletterci su. Mi angoscia la famiglia che resta sola, specie Luca. L'affido a Dio ed a buoni amici a cui debbo tanta riconoscenza. Mi ricordi alla Sig.ra De Candido e si abbia un grande abbraccio dal suo Aldo Moro.
57) A Maria Fida Moro e Demetrio Bonini (non recapitata). Carissimi Maria Fida e Demi, casa figli amati vi riscrivo, nel forte dubbio che le mie precedenti lettere di addio siano state, chissà perché, sequestrate. Volevo dirvi (ed ora ve lo dico, purtroppo, meno bene) tutto il mio amore, tutta la mia stima, tutto il legame con voi. Vi ho già detto che con Luca mi avete dato la cosa più grande della mia vita, quella che più angoscia lasciare. Lo terrò stretto a me fino all'ultimo istante, sperando che non gli resti il segno di questa vicenda ma che, misteriosamente, l'amore rimanga. So la fragilità di Fida che ha bisogno di essere aiutata. Ho cercato di farlo con più gioia che sia dato immaginare. Ma ora occorrono altri e da tutti invoco questa collaborazione. Anche tu Demi caro, che già fai tanto, stai in questa circostanza più vicino a tuo figlio tienilo fra le braccia come lo terrei io, riversa su di lui il tuo amore. Camminate per la vostra strada diritti e saggi, ora che i tempi si fanno sempre più difficili. Fida ricordi il mio amore dal primo istante, la cura infinita e confidente, il desiderio di aiutarla sempre. Siate uniti nell'amore e nella famiglia, senza alcuna distrazione. Non c'è cosa più grande di questa. Che Iddio vi benedica dal profondo, vi tenga stretti a me e tra voi. Un tenerissimo abbraccio dal vostro Papà. Aldo. Ricorda quella piccola dichiarazione creditoria. P.S. Mi consola pensare che, prendendo io quel che sta per arrivare, lo scanso agli altri, lo scanso a Luca e Luca potrà star bene. E questo è l'essenziale. Baciatelo tanto per me e forte forte, ciao a voi altri. C'è tutto tra la nostra storia e la storia.
58) A Anna Maria Moro e Mario Giordano (non recapitata). Carissimi Anna e Mario, nel dubbio che una mia precedente non sia stata recapitata per sequestro, desidero dirvi alla meno peggio, e per quando questa carta vi perverrà, tutto il mio profondo attaccamento, tutto il mio amore per voi, tutta la dolce attesa e curiosità per la vostra creatura. Tu sai, Annina, quanto ti ho amata sempre e condotta con la tua cuffietta, seria seria, per strada. Ti sono stato sempre vicino, partecipe della tua ansia, pronto a consolarti. Poi Mario è venuto dolcemente a rilevarmi in parte delle mie funzioni. Ma tu sei sempre rimasta la piccolina del tuo papà, sulla mia gamba destra, a cavallo. Così ti ricordo e ti ricorderò, anche se il ricordo si prolunga fino al Liceo, all'Università, alla Laurea e via. Se c'è stato qualche momento difficile esso è superato. Siate uniti come non mai in questo momento, che la tua creatura nasca tra gente che la ama. E noi tutti l'amiamo. Vi sentiremo vicini vi siamo vicini. Siate retti, operosi, buoni, come sempre. Questa brutta vicenda vi farà ancora più seri. Sentitemi sempre con voi e ricordatemi rispettosamente alla famiglia di Mario. Vi benedico dal profondo del cuore, vi abbraccio forte forte, vi stringo a me con la piccolissima. Che Iddio vi aiuti nella pur difficile vita che vi aspetta. Papà.
59) A Luca Bonini (non recapitata). Mio carissimo Luca, non so chi e quando ti leggerà questa lettera del tuo caro nonnetto. Potrai capire che tu sei stato e resti per lui la cosa più importante della vita. Vedrai quanto sono preziosi i tuoi riccioli, i tuoi occhietti arguti e pieni di memoria, la tua inesauribile energia. Saprai così che tutti ti abbiamo voluto un gran bene ed il nonno, forse, appena un po' più degli altri. Per quel poco che è durato sei stato tutta la sua vita. Ed ora il nonno Aldo, che è costretto ad allontanarsi un poco, ti ridice tutto il suo infinito affetto ed afferma che vuole restarti vicino. Tu non mi vedrai, forse, ma io ti seguirò nei tuoi saltelli con la palla, nella tua corsa al [...] nel guizzare nell'acqua, nel tirare la corda al motore. Io sarò là e ti accarezzerò, come sempre ti ho accarezzato, dolcemente il visino e le mani. Ti sarò accanto la notte, per cogliere l'ora giusta della pipì, e farti poi dolcemente riaddormentare. E la mattina portarti la vestaglietta, magari con le scarpette pronte in mano in attesa della pizza o del pane fresco. Queste sono state le grandi gioie di nonno e, per quanto è possibile lo resteranno. Cresci buono, forte, allegro serio. Il nonno ti abbraccia forte forte, ti benedice con tutto il cuore, spera sia in mezzo a gente che ti vuol bene e che forma anche la tua psiche. Con tanto amore, il nonno.
60) A Giovanni Moro (non recapitata). Mio Carissimo Giovanni, credevo di avere scritto una lettera di amore e di ricordo per ciascuno di voi. Ed ora mi viene l'assurda (ma reale) preoccupazione che tutto sia andato disperso in perquisizioni giudiziarie o di polizia. Mi affretto perciò a scrivertene un'altra, sperando che, restando in deposito qualche tempo sia più fortunata. Voglio dire a te ed Emma tutto l'amore e la fiducia che vi porto e l'angoscia che mi prende nel dovervi lasciare soli così giovani. Ma siete di buona tempra e di grande serietà. Non perciò il dolore è meno grande. Giovanni caro, io ti ricordo piccolissimo, ti ho seguito con tutto l'amore, ti ho dato la gioia del gioco e della compagnia. Ho rispettato il momento nel quale cercavi la tua autonomia, ma mi sono allietato tanto, quando tu, proprio tu, sei tornato qualche volta a carezzarmi come da piccolo. Ammiro il tuo impegno nello studio (ma [...] qualche esame in più) e rispetto la tua vocazione. Ma la politica ha delle irrazionalità per cui non conviene restarvi al di la dell'età dell'esperienza umana. Non far mancare neppure tu a Luca l'affetto e la compagnia di cui ha tanto bisogno. Avrei voluto assicurarglieli io. Come si fa? Non è male se resti un po' di più in casa. Anche lo spirito è più sereno. Ti stringo con Emma in un grande abbraccio nel quale mi pare di trovare la tua dolce infanzia. Che Iddio ti benedica, t'illumini, ti aiuti, ti ridia poco a poco, non la dimenticanza ma la serenità. E siate tutti uniti, ch'è l'unica cosa che conta. Con Emma ti abbraccio forte forte, il tuo papà.
61) A Agnese Moro (non recapitata). Mia dolcissima Agnese, mi viene l'atroce dubbio che le mie lettere siano state tutte o quasi sequestrate. Capisco così certi vuoti angosciosi e temo che si siano disperse alcune lettere di addio che vi avevo indirizzato. Le rifarò ora male, purtroppo, sperando che questa resti in deposito fin quando non possa esserti sicuramente consegnata. Volevo dirti Agnesina (e lo faccio tanto male) tutto il mio amore e l'angoscia di doverti lasciare. Ricordo la tua dolce faccina (campagna, fiori e altre cose). Ti sono stato sempre vicino con tutto il cuore, anche se posso avere sbagliato, posso non averti capito e soddisfatto. Di qui qualche breve strillotto. Ma poi subito dopo il sorriso, l'abbraccio, la richiesta affettuosa. E l'attesa la sera, angosciata, finché non fossi tornata. Il tuo saltellare sulla gamba del cuore. E starti dietro per la scuola, la tua esperienza e il tuo lavoro (nel quale devi perseverare) distante nella forma, vicinissimo nella sostanza. Ora sei più sola, ma hai carattere forte e serio e camminerai nella vita sulla tua strada. Non dimenticare, come mi promettesti d'estate, e non far dimenticare l'amatissimo Luca. La mia tremenda angoscia si attenua, se penso a te, che ci sei, che sei al mio posto nel letto, che controlli la porta ed il gas chiusi. Lasciami pensare che sarà così fin quando sarà necessario. Ricordati che a Bellamonte c'è una tua carissima lettera a me da Helsinki. Non ricordo se nell'armadio della matrimoniale o in un mio pulloverino. Mi è cara. Tienila. Ti stringo forte forte in un abbraccio pieno di amore e di augurio. Che Iddio ti benedica, ti dia la tua gioia, ti conforti nell'amore, ti faccia sentire vicino vicino, giorno e notte il tuo amato papà.
62) A Nicola Rana. (Il testo non è stato reso noto).
63) Testamento in favore della figlia Anna (Il testo non è stato reso noto).
65) A Sereno Freato (non recapitata). Dott. Sereno Freato, Via San Valentino 21. Carissimo Freato, non so, se scrivo o riscrivo, perché molte cose devono essere state sequestrate e non si è certi di niente. In questa vicenda allucinante ho pensato spesso a noi ed anche agli errori delle nostre scelte. Desidero ridirLe, dopo tanti anni di collaborazione, quanto le voglia bene e Le sia grato di tutto. Per noi è oscuro d'ora in avanti. Una sola cosa è chiara: Le affido i miei carissimi con la collaborazione di Rana; Le affido Luca mio amore. Mi ricordi ai Suoi, mi ricordi agli amici. Non voglio, lasciando dire niente di cattivo, anche se ci sarebbe da dire e da stupire di fronte al poco che è stato fatto per me. Domani magari si pentiranno. Con tanta amicizia ed amarezza l'abbraccio con tutto il cuore affidandomi a Lei, Suo Aldo Moro. Dott. Sereno Freato. Via S. Valentino 21 Roma.
66) A Don Antonello Mennini (non recapitata). Carissimo Antonello, temo - e mi angoscia - che siano state, senza darne notizia, sequestrate lettere di affetto tra persone care in una situazione drammatica come questa. Alcune le ho ricostruite. Altre, contenenti alcune indicazioni chissà dove e come si potranno ritrovare. Ho pensato dunque di unire il tutto, di chiamarti, di darti il pacchetto, perché lo tenga per te. Evidentemente sorpassando casa, si rischia (credo) la perquisizione. Terrai tutto per te e, a tempo debito, ne parlerai a voce con mia moglie, per vedere il da farsi. Dovrebbe esserti di consiglio il mio ex capo gabinetto S.E. Manzari ora al Ministero degli esteri come capo ufficio legislativo, senza il cui consiglio non far niente. Anzi ti prego, a voce (abita in via Livio Andronico, non lontano da me) digli tutta questa vicenda perché la veda anche legalmente e ti aiuti a recuperare quel che fu sottratto. Del nuovo nulla fino ad accordo con mia moglie e lui. Tieni tutto. Poi si potrà vedere. Bisogna essere certi che all'entrata in casa non si sia intercettati. Non mi pare giusto che s'impedisca in queste circostanze di parlare tra persone che si vogliono bene. Il fatto che tu te ne occupi mi tranquillizza. Aggiungi la tua preghiera, sempre cara e sempre valida. Il Papa non poteva essere un po' più penetrante? Speriamo che lo sia stato anche senza dirlo. Benedicimi e aiutati. Ti abbraccio, Aldo Moro. Le lettere fuori casa, essendo in zona, si potranno dare allerta però a Rana e Freato salvo non le ritirino personalm [...][...] questa frase è monca e di difficile lettura.
67) A Eleonora Moro (non recapitata). Non mi disperdere le cose da vestire [...]. Fa come se fossi lì non disturbarti per la tomba. Mia dolcissima Noretta, mi viene ora il dubbio atroce che un'infinità di mie lettere e due piccoli testamenti siano stati sequestrati, incomprensibilmente, dall'autorità. Come spiegare l'appassionata reiterata richiesta di un tuo messaggio stampa, mai pervenuto? E altre, e altre cose. Avevo scritto a tutti i nostri cari in punto di morte, con l'animo aperto in quel momento supremo. Volevo lasciare qualche certezza di amore e qualche motivo di riflessione. Ed ora temo che tutto questo sia disperso, per ricomparire, se comparirà, chissà quando e come. Allora ho deciso di scrivere alla meglio, per dire l'essenziale e di affidare tutto a Don Antonello Mennini, che lo tenga con sé, finché non abbia parlato di persona con te e sono certo di poter dare senza pericolo. Noretta mia carissima, in questa vicenda allucinante riconosco le mie ingenuità, ma coperte dalla buona fede che si lega alle mie scelte giovanili di passare dall'Azione Cattolica alla D.C. Sono stato poco a Torrita, tenetemi [...] con voi a Roma. Mi è atroce pensare quanto questa vicenda vi toglie e soprattutto all'amatissimo Luca che avrebbe avuto diritto all'assistenza e alla gioia. Quanto mi è angosciante lasciarlo solo. Prego Iddio che gli susciti intorno volti cari, sorrisi teneri, autentico interessamento. Io pregherò per lui fino all'ultimo istante. E l'immagino con te, con Agnese, con tutti i suoi cari, con qualche ricordo del nonno che gli evocherete con qualche fotografia, con qualche richiamo. Mi sarebbe dolce sentirmi non assente. E a te, gioia amata, grazie di tutto. Nel fondo credo di averti dato tutto l'amore anche se con qualche distrazione d'ufficio. Quanto meno bisognerebbe dare all'ufficio e più alla famiglia. Sei stata la mia gioia più grande, fonte, talvolta di piccola gelosia, solo non ti vedessi magari rivolta a me. Che Iddio ci aiuti tutti. Freato e Rana dovrebbero aiutarvi. Iddio vi benedica dal profondo e mi stringa a voi in un amore eterno. Mi consola pensare che, prendendo quel che viene, lo storno da voi. Eri troppo…(La lettera si interrompe a questo punto).
68) A Eleonora Moro (Il testo non è stato reso noto).
69) A Eleonora Moro (non recapitata). Per Noretta. Dammi la felicità di un messaggio tramite Guerzoni per sabato mattina forse si fa ancora in tempo e dimmi se hai ricevuto lettere ai figli e nipoti e due piccoli testamenti.
70) Ai familiari (recapitata il 24 o il 25 aprile). A tutti i miei carissimi ed a Noretta, amata sposa e madre. Mi piacerebbe avere un cenno, anche minimo di risposta, per tranquillizzarmi sulla salute di tutti. Aldo.
71) Alla Democrazia Cristiana (recapitata il 28 aprile). Lettera al Partito della Democrazia Cristiana. Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. E' vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte. E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons. Zama, all'avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere, né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell'autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse. Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la D.C., sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del Partito Socialista, riserva che è augurabile sia chiarita d'urgenza e positivamente, dato che non c'è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere una funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fallisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c'era l'esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non si intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla D.C.? E' nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i problemi. E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avvallata dalla D.C., la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a morte. Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l'equivoca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Sono più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui idealmente al posto ch'egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al Presidente del Consiglio che tutto sarà fatto come egli desidera. E che dire dell'On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto (per così dire libero, comodo, a Piazza ad esempio, del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l'On. Piccoli. Per parte sua ho detto e documentato che le cose che dico oggi le ho dette in passato in condizioni del tutto oggettive. E' possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l'esito? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedono, come io la chiedo con piena lucidità di mente? Centinaia di parlamentari volevano votare contro il Governo. Ed ora nessuno si pone un problema di coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile. Se altre riunioni formali non le si vuol fare, ebbene io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il Consiglio Nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gli impedimenti del suo Presidente. Così stabilendo, delego a presiederlo l'On. Riccardo Misasi. E' noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie, dei miei figli, dell'amatissimo nipotino, dell'altro che non vedrò. La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della D.C. a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la D.C., né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità. Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l'adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto. Aldo Moro.
72) Alla Democrazia Cristiana [seconda versione] (non recapitata). (Alla Democrazia cristiana [seconda versione] edizione più stringata e prudente tenuto conto dei palestinesi e dell'iniziativa Craxi. E' in alternativa all'altra, valutare attentamente le circostanze.) Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito nel suo insieme il coraggio di aprire un dibattito sul tema proposto che è tema della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. E' vero, io sono prigioniero e non ho l'animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in conciliaboli. Qualcuno sembra dubitare dell'autenticità di quello che vado sostenendo. Come se io scrivessi sotto dettatura delle Brigate Rosse. Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute il fatto che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova non solo al detenuto, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se una volta tanto un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte i prigionieri delle Brigate Rosse (e potrebbero esservene) - è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la D.C., sono arroccati in generale i partiti con qualche rilevante riserva del Partito Socialista che non è lecito lasciar cadere. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, dovunque, per salvaguardare ostaggi e salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che anche in Italia la libertà è stata concessa con procedure appropriate a Palestinesi, per parare gravi minacce di rappresaglia capaci di rilevanti danni alla comunità. E si noti si trattava di minacce serie e temibili, ma non aventi sempre il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. Vi sono testimoni ineccepibili ai quali far riferimento. E sia ben chiaro che, provvedendo come la necessità comportava, non si intendeva certo mancare di riguardo a paesi profondamente amici, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. Questi rilievi in quali dibattiti sono stati fatti e, dico, con particolare riguardo alla D.C., chiamata ad affrontare con coraggio i problemi? E nel caso che ci riguarda è la mia condanna a morte che sarebbe sostanzialmente avvallata dalla D.C., la quale, arroccata su discutibili principi, nulla fin qui fa, per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele sia condotto a morte. Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la serena rinuncia a presiedere il Governo ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l'equivoca veste di Presidente del partito. Sono più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui idealmente al posto che egli mi ha obbligato a occupare. Ma egli sembra piuttosto intento a rassicurare il Presidente del Consiglio che sarà fatto come egli desidera. Possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale? Centinaia di parlamentari minacciavano tempo fa di votare contro il governo. Più modestamente non si pone ora per taluno un problema di coscienza? Ma come si tratta civilmente in Italia un prigioniero che ha un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido? Lo chiedo a Craxi. Lo chiedo al mio partito, ai tanti amici fedeli delle ore liete. Se altro non si ritiene di fare, ricordo che io potrei convocare il Consiglio Nazionale sul tema del mio impedimento e del modo di rimuoverlo. Il Capo dello Stato ha il modo di far funzionare tutti gli organi previsti dalla Costituzione. Se poi nulla di costruttivo avverrà, sarò costretto ad affermare la responsabilità della D.C. ufficiale e di quanti non si fossero da essa tempestivamente dissociati, è noto poi che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte.
73) Alla Democrazia Cristiana [terza versione] (non recapitata). Lettera al partito. Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della DC sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto, che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. E' vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, matto e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte. E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici, da Mons. Zama, all'avv. Veronese, a GB Scaglia ed altri, senza né conoscere né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell'autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse. Perché questo avvallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e come ho dimostrato molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle B.R. (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la DC, sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del PSI, riserva che è augurabile sia chiarita d'urgenza e positivamente, dato che non c'è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fallisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della DC che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la DC lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a Palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado di immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c'era l'esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimoni ineccepibili: i quali potrebbero avvertire il dovere di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non si intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti. Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla DC? E nello stesso Parlamento in un dibattito approfondito? Io ho scritto ai presidenti delle assemblee, ma non ho rilevato, forse per la mia condizione, alcuna risposta. A me però interessa la DC dove non si affrontano con coraggio i Problemi. E, sul caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avvallata dalla DC, la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele sia condotto a morte. Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l'equivoca veste di presidente del partito per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Son più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui idealmente al posto che egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al presidente del consiglio che tutto sarà fatto come egli desidera. Possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l'esito? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedono, come io la chiedo in piena lucidità di mente? Centinaia di parlamentari volevano votare contro il governo. Ed ora nessuno si pone il problema di coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, in Italia un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile. Le altre riunioni formali non le si vuol fare. E io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il consiglio nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gli impedimenti del suo presidente. Dovrebbe presiederlo per mia delega l'On. Riccardo Misasi. Chiedo al capo dello Stato che tali organi, previsti dalla costituzione, siano fatti funzionare. Non può esservi arbitrio in queste cose. Sono attento a sentire i nomi e ad accogliere gli atteggiamenti. Se poi nulla avverrà, dovrò affermare in pieno la responsabilità della DC ufficiale e di quanti non si fossero da essa tempestivamente dissociati. E' noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. (Le righe che seguono sono da rivedere a secondo dell'utilità che possono avere per sua espressa opinione). E notò... k... contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificati. E, pur vero con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie, dei miei figli, dell'amatissimo nipotino, dell'altro che non vedrò. La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della DC a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la DC, né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità. Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l'adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto. Segue firma...
74) A Riccardo Misasi (non recapitata). Caro Riccardo, avendoti prescelto, solo per l'antica amicizia e stima quale mio portavoce, si tratti poi del Consiglio nazionale, o della Direzione del Partito, invio a te alcune considerazioni utili per il dibattito, le quali però, a differenza delle altre, hanno carattere confidenziale e non sono destinate alla pubblicazione. Ciò vuol dire che tu richiamerai discretamente su di esse, a mio nome, l'attenzione degli ascoltatori, ovviamente insieme alle altre argomentazioni sulle quali, per essere state esse già pubblicate si potrà essere più netti e chiari. Mi pare però ci sia qualche cosa che, nel foro interno, non è possibile ignorare. Oltre ad essere parte in causa, quale Presidente pro-tempore del Consiglio Nazionale, adempio con questi miei scritti la mia funzione di stimolo alla riflessione non senza rilevare con disappunto che del mio primo scritto si è profilata una specie di blocco o censura, che reputo inammissibili. Scorrendo rapidamente qualche giornale in questi giorni, fra alcune cose false, assurde e francamente ignobili, ho rilevato che andava riaffiorando la tesi (la più comoda) della mia non autenticità e non credibilità. Moro insomma non è Moro, tesi nella quale si sono lasciati irretire, come ho documentato, amici carissimi, ignari di prestarsi ad una vera speculazione. Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con un'oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Io sono, sia ben chiaro un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, senza né pensiero, né un gesto di impazienza la mia condizione. Pretendere però in queste circostanze grafie cristalline e ordinate e magari lo sforzo di una copiatura, significa essere fuori della realtà delle cose. Quello che io chiedo al partito è uno sforzo di riflessione in spirito di verità. Perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall'altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni pesano in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico è chiamato a formulare. Ma la verità è la verità. E' per questo che ho ascoltato (dirò poco) con sommo rammarico la reazione dell'On. Zucconi alla nota proposta dell'On. Craxi. Si tratterebbe, cito a memoria, di una vana caccia di voti delle sinistre democristiane. Del resto il dialogo di altri esponenti politici con l'On. Craxi non è di maggior delicatezza. Ecco cosa resta, in Parlamento, di un'iniziativa e politica insieme: la raccolta di qualche centinaia di voti. Vogliamo, colleghi democristiani, alzarci un po' al di sopra di queste cose? Vogliamo occuparci un po' meno di voti e più di umanità e di politica? In un tema come questo gli argomenti sono quelli che sono, non si possono moltiplicare. Ma quel che importa è che su di essi cada una seria riflessione. C'è un punto di partenza politico, sul quale mi soffermerò un momento con delicatezza. Perché non mi interessano le persone, ma la concatenazione degli avvenimenti. Io non so che cosa sia avvenuto, come non so tante altre cose, nei minuti tra il mio rapimento e la presentazione del Governo alle Camere con l'enunciazione della c.d. linea rigida di difesa della Costituzione (ma in che senso, poi?). Vi fu un fatto di rilevante gravità. La circostanza che il Governo fosse appena formato, non senza qualche riserva, autorizza a passare sopra al discorso dei fatti accaduti e delle conseguenti responsabilità? Il servizio di scorta era di gran lunga al di sotto delle sue esigenze operative. Il rapito, del resto trattato con rispetto, si trovava ad essere il Presidente del Consiglio Naz. del Partito, carica, a mio avviso, onorifica e ambigua, ma che, come i fatti dimostrano, aveva ingenerato in altri l'impressione che si trattasse del personaggio chiave della politica italiana e, per giunta, presunto candidato alla Presidenza della Repubblica (candidatura mai accettata). Possibile che per questo personaggio il metodo tradizionale di scorta palesemente insufficiente, non sia stato almeno ritoccato data la particolarità delle circostanze? Possibile che questa strategia dipendesse da un modesto funzionario? Possibile che tutti i personaggi che si consultarono sul fatto del giorno, non abbiano almeno tenuto conto del fatto che la persona sequestrata fosse persona di un certo rilievo nella vita del Partito e dello Stato? In proposito vi fu, nel mio primo messaggio, qualche cauto accenno, il quale per altro non fu né valutato né raccolto dai saggi che si avvicendarono ad esprimere il loro consenso alla tesi intransigente. Insomma: poco fu fatto prima, nulla fu fatto dopo. E questa è la base, francamente incredibile, del rigore manifestatosi successivamente. Leggevo ieri una cosa ben chiara e netta dell'on. Riccardo Lombardi. In sostanza così all'incirca ragiona l'anziano e saggio parlamentare socialista, se i prigionieri in questa vicenda fossero numerosi, e si ponesse per essi un problema di scambio, non v'è dubbio che lo Stato tutelerebbe meglio i propri interessi (a parte i problemi umanitari) accedendo allo scambio e non li tutelerebbe negandolo. Che cosa cambia in linea di principio se il prigioniero è uno? Il che vuol dire che la persecuzione ad ogni costo, in quella forma, dell'atto illecito, non risponderebbe ad una ragione sostanziale. Nella sostanza, nel merito delle cose cioè sono le circostanze che debbono indurre a valutare che cosa sia conveniente fare nel rispetto della vita, nel rapporto tra detenzione ed uccisione, nella tutela dei giusti interessi dello Stato, nel riconoscimento delle ragioni umanitarie. Ecco perché queste cose sono e non possono essere disciplinate nel segno dello Stato di necessità, salvo le ipotesi più semplici alle quali fa riferimento saggiamente l'On. Craxi. La casistica, sulla quale più volte mi sono soffermato è al riguardo altamente indicativa, dagli innumerevoli casi di salvezza di ostaggi fino ai casi dei palestinesi di cui si è parlato. Del resto, senza soffermarsi troppo su casi assai delicati e bisognosi di approfondimento, non si può negare che taluni fenomeni, a differenza di altri, hanno carattere di guerriglia con una propria fisionomia politica e giuridica, ponendo problemi che proprio le attuali circostanze mettono in evidenza ed alla cui soluzione (e ci si muove in questa direzione) non può essere estraneo il Comitato per la Croce Rossa internazionale ed il cosiddetto diritto umanitario che è in elaborazione. E quanto alla natura dei fatti basterà ricordare le vicende dell'Alto Adige. E nella casistica cui accennavo si aggiunga il caso Lorenz nella stessa Germania. I fatti sono dunque tanto chiari che il categorico rifiuto di prenderli in considerazione in questo momento non può apparire che un partito preso, un allineamento su posizioni esterne, una deformazione del volto umano dell'Italia. Questa rigidezza non corrisponde alla linea politica della D.C., giunta all'assurdo rifiuto della proposta Craxi. A questa deformazione la direzione D.C. deve dire basta prima che il danno diventi ancor più grave e irreparabile. (La lettera si interrompe così ed è priva di firma e di seguito).
75) Frammento (fogli non recapitati). (...) comprensibile ragione, con le cose serie. Quello che io chiedo al Partito è uno sforzo serio di riflessione, in spirito di verità. Perché la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto elettorale. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall'altra parte un atomo di verità ed io sarò comunque perdente. Lo so che le elezioni ci sono purtroppo, e pesano (dico, per questo, purtroppo) in relazione alla limpidità ed obiettività dei giudizi che il politico, in circostanze come queste, è chiamato a formulare. E’ per questo che ho ascoltato (mi dispiace di non avere altra parola da usare) con disgusto la reazione dell'On. Zucconi alla nota proposta dell'On. Craxi. Si tratta, cito, a memoria, di una vana caccia di voti della sinistra democristiana. Ecco, dunque, che cosa resta nel Parlamento italiano di un'iniziativa umanitaria e politica insieme: la caccia a qualche decina o centinaia di voti. Del resto il dialogo tra l'On. Craxi e altri esponenti politici è ugualmente delicato. Vogliamo colleghi democristiani, alzarci un po' al di sopra di queste cose? Vogliamo occuparci un po' meno di voti e più invece di umanità e di politica? Se il Consiglio non sapesse farlo, esso sarebbe fallito. Che miserabile immagine di una nuova D.C. (di cui è alfiere Zucconi) ne verrebbe fuori! In un tema come questo non è che gli argomenti possano essere moltiplicati a dismisura. Essi ci sono, sono stati enunciati, possono essere sviluppati ed integrati, ma quel che è essenziale è che su essi cada la più seria riflessione, senza affidarsi al caso. Ed il discorso deve cominciare in sede politica, benché la cosa sia spiacevole, dalla responsabilità per quel che è avvenuto, non dal da farsi (più o meno bene) visto che talune cose gravi e preoccupanti sono avvenute. Sia ben chiaro che io non intendo infierire contro la persona…(Fogli non rinvenuti tra quelli della lettera a Misasi. Probabilmente si tratta di un frammento di lettera) (La lettera è tronca).
76) A Elio Rosati (non recapitata). Mio carissimo Elio, non solo per l'antica e cara amicizia che ti porto, ma per istintiva intuizione ho pensato a te, mano a mano che andavo considerando, giorno per giorno, la situazione ed, in essa, da un lato la mia, dall'altro quella della D.C.. Del poco che so, so almeno questo, che fedele al tuo costume, non hai avuto incertezze e paure hai rifiutato il conformismo ed il quieto vivere, ti sei impegnato con una posizione autonoma, quando altri si andavano imbrancando acriticamente sotto il pretesto dell'interesse di partito e di una unità malintesa, della D.C. Oggi quello che si nota è la mancanza di coraggio e questo fa sì che il nostro appaia un partito acritico, tutto arroccato su una medesima posizione. E tu sai che questo non è invece mai avvenuto e che la dialettica è stata aperta tra noi. Ebbene, oggi tu rimani pressoché solo ad adempiere questo compito essenziale, tu rimani solo a rompere il ghiaccio. Ma sai pure, che sotto la scorza dell'indifferenza e del conformismo, una parte notevole della base democristiana ripugna profondamente alla mia attuale condizione ed al grosso rischio che essa comporta. Nessuno parla, ma molti temono. Ed io credo che se uno alzasse la sua voce, una voce limpida, come la tua, proprio in questi giorni che coincidono con una grossa riunione della Direzione DC, le voci di consenso, sensibili, anche se forse non maggioritarie, non mancherebbero. Io non vedo altri che te che possa dire questa parola e guidare, al massimo possibile insieme con Misasi, un movimento di opinione pubblica che bilanci le ferree esigenze di regime che si esprimono sulla stampa. Bisogna parlare subito, alto, forte, con chiarezza, utilizzando la stampa anche settimanale e, ovviamente, tenendo d'occhio l'andamento della Direzione sulla quale non mi faccio però soverchie illusioni. Poiché si tratta di problemi di coscienza (e nessuna è più limpida della tua), desidero dirti, per così dire, solennemente che la proposta di scambio od altra simile, specie se attuata immediatamente, sarebbe stata la meno onerosa per la D.C. Aggiungo che tutte le altre saranno forzatamente più onerose e sarebbero perciò da evitare, se prevalesse, come dovrebbe prevalere, il buon senso. Tutto quello che farai nei prossimi giorni, con la forza della disperazione, (e cerca di farlo capire agli altri) è il meglio per la D.C., è un salto di salvezza su di un abisso. Non ti dico altro, perché so che tu capisci per immediata intuizione. Mi auguro tanto che tu riesca, associando tutte le altre forze disponibili. Perché tanti amici sono diventati così timidi: se fossero insieme quelli sui quali abbiamo sempre contato, la partita sarebbe vinta. Il silenzio è un delitto. Che c'è di male chiedere la salvezza di un amico quando, oltretutto, altrimenti, si corre un rischio mortale? Datti da fare dunque come avrai già fatto. Non si parli di elezioni. Nelle condizioni presenti, pagheremmo un prezzo estremamente alto. Grazie per quanto farai, parlando in giro e nei corridoi delle camere, raccogliendo firme, rilasciando interviste. Ricordami ai tuoi ed abbiti il più cordiale abbraccio. Tuo Aldo. P.S. Anche gli amici di Bari hanno attenuato la loro voce per presunte ragioni elettorali. Dì loro che rischiano di essere puniti ben più gravemente, che se avessero detto che intendevano salvare un vecchio amico per ragioni umanitarie. On. Elio Rosati.
77) A Corrado Guerzoni (non recapitata). Guerzoni, Telefonare a Bottai, per chiedere se Cottafavi ha notizie dell'esito del mio appello a Waldheim e che cosa conta di fare. Dell'esito della telefonata Lei si tenga informato, in modo che, a momento opportuno, si possa sapere qualche cosa. M.
78) A Giuseppe Saragat (non recapitata). Caro Saragat, desidero ringraziarti nel modo più vivo per le alte e nobili parole con le quali hai voluto esprimermi la tua comprensione e solidarietà. Questo tuo atteggiamento è in linea con l'ispirazione umanitaria che ha qualificato e qualifica la tua figura nella politica italiana. Tutto ciò mi conforta e mi incoraggia molto nella difficilissima prova. Grazie ancora e cordialissimi saluti ed auguri. Tuo Aldo Moro. Sen. Giuseppe Saragat. Palazzo Madama.
79) A Corrado Guerzoni (non recapitata). Indicazioni per Guerzoni con infiniti ringraziamenti distribuire, senza fretta, le mie lettere a mia moglie e Sen. Saragat. ricercare con urgenza l'on. Riccardo Misasi che dovrebbe essere alla Commissione Giustizia della Camera o Piazza del Gesù o Gruppo Parlamentare. La prima è la più probabile. Sappia che egli è il mio portavoce e deve mettere in moto la Direzione. Dargli copia dei miei tre scritti, l'ultimo, come si legge, dovrebbe essere destinato a riferimento orale senza pubblicazione. Se però l'andamento della Direzione, Dio non voglia, fosse davvero deludente e preclusivo di positivi sviluppi, Lei potrà allora diramare alla stampa il testo dopo averne lealmente informato Misasi. Il punto delicato, come si intende, è il comportamento del Ministro, di cui non vorrei forzare le dimissioni, poiché preferisco soluzioni costruttive. Ma se l'atteggiamento altrui mi obbliga non ho scelta. Grazie tante ed i più affettuosi saluti. Aldo Moro. Gira ./. Aggiungo una lettera appello per Elio Rosati, che è la persona che più amo e stimo. Anch'essa è urgente anzi urgentissima per una mobilitazione dell'opinione pubblica che finora è mancata. Dispiace molto questo scarso rispetto della verità e, poi, dell'utilità del Partito. A parte i membri del Governo, la cui posizione è particolare (ma che potrebbero ispirare altri), ce n'è altri da recuperare. Freato ci riesce almeno un po'? E' possibile far capire che quello che si propone ed ora si respinge è il meglio per la D.C. e sarà rimpianto tra pochissimi giorni? Che pensa dell'iniziativa di Craxi? Ha uno spessore? Freato riesce a pilotare Signorile? Affettuosamente. Aldo Moro. Non so l'indirizzo di Rosati. O è alla Camera o in casa non lontano dalla mia. Forse Freato lo conosce o può conoscere.
80) A Eleonora Moro (non recapitata). Mia carissima Noretta, vi sono molto vicino e gratissimo agli amici che, come vedo, vi confortano vi aiutano. Io discretamente. Mi spiace vedere la tua foto sulla stampa con atteggiamento così provato. Che Iddio ci aiuti. Mi pare che le parole rivolte al Partito siano riuscite vere ed efficaci. Speriamo che portino un salutare ripensamento ed una giusta discussione sulla quale si sia, com’è naturale, più sereni. Vi abbraccio tutti dal profondo del cuore. Aldo Moro. PS: Fai, ti prego, al più alto livello un ultimo sforzo con il Papa per una soluzione mediatrice. Non puoi immaginare quanto sia più costruttiva. Prego la Provvidenza di ispirarlo e di spiegargli con umiltà profondissima di non respingere questa mia. Il danno sarà grandissimo. E’ un dovere di coscienza. Pignedoli? Poletti?
81) A Benigno Zaccagnini (non recapitata). Zaccagnini, ti scongiuro. Fermati, in nome di Dio. Fin qui mi hai sempre ascoltato. Perché ora vuoi fare di tua testa. Non sai. Non ti rendi conto di quale grande male tu stia preparando al Partito. Finché sei ancora in tempo, poche ore, fermati e prendi la strada onesta di una trattativa ragionevole. Che Dio ti assista. Aldo Moro.
82) A Benigno Zaccagnini (non recapitata). Caro Zaccagnini, ecco, sono qui per comunicarti la decisione cui sono pervenuto nel corso di questa lunga e drammatica esperienza ed è di lasciare in modo irrevocabile la Democrazia Cristiana. Sono conseguentemente dimissionario dalle cariche di membro e presidente del Consiglio Nazionale e di componente la Direzione Centrale del Partito. Escludo ovviamente candidature di qualsiasi genere nel futuro. Sono deciso a chiedere al Presidente della Camera, appena potrò, di trasferirmi dal Gruppo Parlamentare della D.C. al Gruppo Misto. E' naturale che aggiunga qualche parola di spiegazione. Anzi le parole dovrebbero essere molte, data la complessità della materia, ma io mi sforzerò di ridurle al minimo, cominciando, com'è ovvio, dalle più semplici. Non avendo mai pensato, anche per la feroce avversione di tutti i miei familiari, alla Presidenza della Repubblica, avevo immaginato all'inizio di legislatura di completare quella in corso come un vecchio al quale qualche volta si chiedono dei consigli e con il quale si ama fare un commento sulle cose, che l'età ed il personale disinteresse rendono, forse, obiettivo. Come più volte ti ho detto, fosti tu a deviare questo corso delle cose, mentre furono ancora tuoi amici che fecero riserve, sempre nell'illusione che io dovessi dare ancora qualche cosa al Partito, non appena si accennò ad una presidenza di Assemblea, per concludere in tal modo la mia attività politica. Così mi sono trovato in un posto difficile e ambiguo, che dava all'esterno la sensazione di un predominio (inesistente) della D.C. ed all'interno creava imbarazzi, gelosie, equivoci, timori. Essendoci lasciati in ottima intesa la sera del martedì, già pochi giorni dopo, qui dove sono, avevo la sensazione di avervi in qualche modo liberato e che io costituissi un peso per voi non per il fatto di non esserci, ma piuttosto per il fatto di esserci. E questo per ragioni obiettive, perché non c'è posto, accanto al Segretario Politico eletto dal Congresso, per un Presidente del Partito che abbia rispetto di sé e delle cose. E se il vostro profondo pensiero coincideva con quello che io avevo fatto valere, perché non accontentarci tutti in una volta? Aggiungerò poi (e questo va al di là della Presidenza del Consiglio Nazionale di cui abbiamo parlato sin qui) che io non ho compreso e non ho approvato la vostra dura decisione, di non dar luogo a nessuna trattativa umanitaria, anche limitata, nella situazione che si era venuta a creare. L'ho detto cento volte e lo dirò ancora, perché non scrivo sotto dettatura delle Brigate Rosse, che, anche se la lotta è estremamente dura, non vengono meno mai, specie per un cristiano, quelle ragioni di rispetto delle vittime innocenti ed anche, in alcuni casi, di antiche sofferenze, le quali, opportunamente bilanciate e con il presidio di garanzie appropriate, possono condurre appunto a soluzioni umane. Voi invece siete stati non umani, ma ferrei, non attenti e prudenti, ma ciechi. Con l'idea di far valere una durissima legge, dalla quale vi illudete di ottenere il miracoloso riassetto del Paese, ne avete decisa fulmineamente l'applicazione, non ne avete pesato i pro e i contro, l'avete tenuta ferma contro ogni ragionevole obiezione, vi siete differenziati, voi cristiani, dalla maggior parte dei paesi del mondo, vi siete probabilmente illusi che l'impresa sia più facile, meno politica, di quanto voi immaginate, con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona, e la mia famiglia, con l'assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia che è la nostra legge, irreggimentando in modo osceno la D.C., per farla incapace di dissenso, avete rotto con la tradizione più alta della quale potessimo andar fieri. In una parola, l'ordine brutale partito chissà da chi, ma eseguito con stupefacente uniformità dai Gruppi della D.C., ha rotto la solidarietà tra noi. In questa (cosa grossa, ricca di implicazioni) io non posso assolutamente riconoscermi, rifiuto questo costume, questa disciplina, ne pavento le conseguenze e concludo, semplicemente, che non sono più democratico cristiano. Essendo scontata in ogni caso dal momento del mio rapimento (e della vostra mistica inerzia) il mio abbandono della Direzione e del Consiglio Nazionale, restava, se il vostro comportamento fosse stato diverso e più costruttivo, la possibilità della mia permanenza senza alcun incarico nella famiglia democratica cristiana e che è stata mia per trentatré anni. Oggi questo è impossibile, perché mi avete messo in una condizione impossibile. E perciò il mio ritiro da semplice socio della D.C. è altrettanto serio, rigido ed irrevocabile quanto lo è il mio abbandono dalle cariche nelle quali avevamo creduto di poter lavorare insieme. Tutto questo è finito, è assolutamente finito. Ed ora che posso parlare, senza che nessuno pensi ad una pretesa di successione, a parte il mio durissimo giudizio sul Presidente del Consiglio e su tutti coloro che hanno gestito in modo assolutamente irresponsabile questa crisi, c'è, per dovere di sincerità ed antica appannata amicizia, la valutazione su di te, come, per così dire, il più fragile Segretario che abbia avuto la D.C., incapace di guidare con senso di responsabilità il partito e di farsi indietro quando si diventa consapevoli, al di là della propaganda, di questa incapacità. Guidare e non essere guidato è il compito del Segretario del più grande partito italiano. Giunti a questo punto, i motivi di dissenso, che non ci faranno incontrare più, sono evidentemente molti. Tu non penserai che possa trattarsi solo del modo chiuso e retrivo che ha caratterizzato il vostro comportamento in questa vicenda, nella quale vi sembrerà di avere conseguito chissà quale straordinario successo. Questa è una spia, la punta dell'iceberg, ma il resto è sotto. Ho riflettuto molto in queste settimane. Si riflette guardando forme nuove. La verità è che parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente. La verità è che ci illudiamo di essere originali e creativi e non lo siamo. La verità è che pensiamo di fare evolvere la situazione con nuove alleanze, ma siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di fare, nell'illusione che, cambiati gli altri, l'insieme cambi e cambi anche il Paese, come esso certamente chiede di cambiare. Ebbene, caro Segretario, non è così. Perché qualche cosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi. E, a parte il fatto che davvero altri (socialisti ieri, comunisti oggi) siano in grado di realizzare una svolta in accordo con noi - il che possiamo augurarci e sperare - la D.C. è ancora una così gran parte del Paese, che nulla può cambiare, se anch'essa non cambia. E per cambiare non intendo la moralizzazione, l'apertura del Partito, nuovi e più aperti indirizzi politici. Si tratta di capire ciò che agita nel profondo la nostra società, la rende inquieta, indocile, irrazionale, apparentemente indominabile. Una società che non accetti di adattarsi a strategie altrui, ma ne voglia una propria in un limpido disegno di giustizia, di eguaglianza, di indipendenza, di autentico servizio dell'uomo. Ecco tutto. Benché sia pessimista, io mi auguro che facciate più di quanto osi sperare. Non era questa la conclusione cui avevo pensato né l'addio immaginato per te ed i colleghi. Ma le cose sono così poco nelle nostre mani, specie se esse sono troppo deboli o troppo forti. Che Iddio ti aiuti ed aiuti il Paese. Cordialmente. Aldo Moro.
83) A Benigno Zaccagnini (non recapitata). Caro Zaccagnini, la lunga e tormentata vicenda della mia prigionia presso le Brigate Rosse pone dei problemi ai quali è doveroso e sempre più urgente rispondere. Mi riferisco all'atteggiamento di totale indifferenza assunto dal Partito nei confronti della mia persona e della mia famiglia, la quale paga un prezzo altissimo per un modo di fare che non ha assolutamente precedenti nella D.C.. Quest'ultima è venuta incontro, più o meno, alle necessità che premevano sui suoi associati, ma mai, come in questo caso, è restata del tutto fuori da una vicenda gravissima, delicatissima e per la quale non era certo priva di mezzi d'intervento. Si poteva fare, solo che si fosse voluto rimuovere una inconsistente pregiudiziale, ed invece non si è fatto. Il culto esasperato del rispetto della legalità formale ha reso rigidi e insensibili, ha ridotto ad essere soffocante, come mai era stata, la disciplina di partito, ha tolto ogni libertà di ragionevole movimento, ed ha sacrificato, con me e con la mia famiglia, quelle ragioni umanitarie che militano a favore, oltre che di vittime innocenti, ma anche di persone condannate le cui condizioni di salute e di vita abbisognano di particolare cura e per le quali si offre l'ospitalità, caritatevole o amichevole, di un paese straniero. Questi sono i principi sanciti nella nostra coscienza civile, e nei paesi più evoluti non manca mai una giusta considerazione di ragioni umanitarie, siano esse prevalenti, di volta in volta, per le vittime innocenti o per persone ormai condannate. Io pensavo che, al di là della mia persona sofferente ed in pericolo, in un partito d'ispirazione cristiana a queste cose non si potesse guardare con indifferenza. E proprio mentre i socialisti, sia pure in modo incompiuto, si fanno carico di cose delle quali ben prima proprio i cristiani dovevano avere la maggiore sensibilità. Da qui un profondo stupore ed un profondo disagio. Certo l'impresa portata a termine dalle Brigate Rosse è di notevole rilievo politico: ma è pur vero che essa pone in luce quei problemi umanitari dei quali parlavo innanzi e dei quali né il partito, né tu potete assolutamente disinteressarvi. Ed invece ve ne disinteressate con sfacciato cinismo, essendo del resto in buona compagnia. Mi stupisco del fatto che così si manifesti la tua sensibilità umana e cristiana. Questo, a prescindere da tante altre cose, per gli aspetti personali e per quelli obiettivi, è un capitolo importante, ed altamente deludente, dei miei rapporti con la D.C. Questo disagio di fondo l'ho capito ogni giorno di più, questa incomprensione, questa diversità tra noi diventano ogni giorno più vistose, rendendomi impossibile di ritrovarmi con gli antichi amici con la scioltezza e la naturalezza di sempre. Questa irremovibile intolleranza, che nasce, sia ben chiaro, da un fatto morale più che politico mi induce a questo punto a rendere formali le mie dimissioni dal Partito, intendo non solo dalle cariche, comprese quelle ipotetiche e future, ma proprio dal corpo, dalla famiglia della D.C. Passerò perciò, per la durata della legislatura al Gruppo Misto. Dopo tanti anni di amicizia, che ha sofferto anch'essa di questa crisi ci troviamo su posizioni estremamente lontane ed incongiungibili. Stranamente vedo in te quell'arroganza del potere che abbiamo tante volte lamentato in altri e che, ricordalo, il paese sente con crescente insofferenza, senza che possa essere questa assurda gara di resistenza nello sbarazzarci di ogni ragione umanitaria a farcelo perdonare. Sia dunque ben chiaro, perché non vi siano equivoci, che non si pone solo il problema della mia persona per quel che poco significa per la D.C., ma il problema oggetto del modo di reagire con senso cristiano e democratico di fronte a situazioni di obiettivo pericolo e che richiedono interventi umanitari. Ritengo dunque sbagliata e urtante la linea del partito che hai assunto e che incautamente si è fatto in modo che tu assumessi. La colpa è grave in entrambi i casi. Siamo guidati male, in modo insicuro e non coerente ai principi. Ma in un travaglio così complesso non sono solo queste le ragioni della mia decisione. (La lettera si interrompe senza conclusione).
84) A Eleonora Moro (non recapitata). A Noretta, la lettera di dimissioni a Zaccagnini è da spedire o rendere pubblica a giudizio concorde tuo, di Freato, Rana e Guerzoni. Credo ci sia una buona uscita dell'Università.
85) A Eleonora Moro (recapitata il 5 maggio). Ora, improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibilmente l'ordine di esecuzione. Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti. Aldo.
86) A Eleonora Moro (recapitata il 5 maggio). Tutto sia calmo. Le sole reazioni polemiche contro la D.C. Luca no al funerale. Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell'incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l'indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E' poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall'idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c'è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienimi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca), Anna, Mario, il piccolo non nato, Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo (La lettera appare incompiuta e priva di firma.
ALDO MORO E LO SPARTITISMO.
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri. Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Storia e origini della “Casta” politica italiana. Il racconto di “Lei non sa chi ero io!” di Filippo Maria Battaglia: alla base, gli stipendi alti,, scrive Filippo Maria Battaglia su “L’Inkiesta”. Quando è nata la “Casta” politica italiana? Non certo con gli insulti dei grillini o con il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. La “Casta” nasce ben prima. Così come i festini hard che fanno scandalo sui giornali. E lo racconta bene Filippo Maria Battaglia nel suo libro Lei non sa chi ero io! edito da Bollati Boringhieri editore. Ecco un estratto: Stipendi d’oro in Aula e amanti al Colle: arriva «la casta». “Cinque milioni di lire in un anno, venticinque per un intero mandato. A tanto ammonta il compenso dei parlamentari nel 1963. A fare i conti nelle tasche degli eletti, alla fine della terza legislatura, è «Il Borghese»: un onorevole incassa in un mese quanto nove operai per partecipare a poco più di centoquaranta sedute l’anno. Lo stipendio, in realtà, si ferma a 740mila lire ma in soccorso della busta paga arriva il «rimborso spese». Da regolamento dovrebbe essere variabile sulla base delle presenze in Aula, certificate da un apposito registro, che però non è controllato da nessuno. «Un collega comunista con un libretto in mano – è la denuncia di un deputato dc al quotidiano «Il Tempo» – metteva firme di presenza, oltre che per sé, per alcuni suoi colleghi assenti, che avrebbero così percepito il gettone». L’inchiesta di Montecitorio scatta subito ma si chiude con una semplice censura generica. In questi mesi il conto corrente dell’onorevole si arricchisce poi di nuove e imprevedibili agevolazioni: treni, navi e autostrade gratis per sé e «per la sua famiglia, compresi i cugini lontanissimi, o dichiarati tali»; crociere senza sborsare un lira, «e non solo in Italia»; aerei a metà prezzo; e ancora ingressi liberi e illimitati in teatri, stadi, cinema, vernissage e musei: ormai «il parlamentare paga proprio quando non ne può fare a meno». «Oggi come oggi – nota Montanelli – circa la metà dei nostri parlamentari non ha altra attività che quella politica, la quale così viene a rappresentare per essi, oltre che una vocazione, una “sistemazione”». Ne è una conferma l’arrivo della pensione. Introdotta nel 1959, è ovviamente reversibile e prevede un assegno mensile di 50mila lire dopo cinque anni di contributi, con l’aumento di 10mila lire per ogni anno in più fino a un massimo di 200mila lire mensili. Il risultato? Un ex deputato con quattro legislature alle spalle, a 60 anni incassa 2 milioni e 400mila lire l’anno. «Una scelta aberrante», commenta don Sturzo. Gli onorevoli fanno pure incetta di esenzioni fiscali, prestiti (i settimanali parlano di linee di credito di centinaia di milioni, spesso non garantite) e mutui concessi a tassi di favore, i cui interessi sono in buona parte pagati dallo Stato. Amaro e profetico il commento del prete di Caltagirone: se si considera «la tendenza di dare posti di consolazione a ministri, sottosegretari e deputati fuori uso», i nostri parlamentari, più che a rappresentare il popolo, sembrano ormai impegnati a «voler creare o consolidare una casta». La sfilza di episodi di malcostume che a vario titolo si affastellano nelle prime legislature del Dopoguerra non aiuta. Presi singolarmente non hanno particolare rilievo, ma uno dietro l’altro restituiscono un quadro non esattamente edificante degli eletti. Riguardano democristiani, monarchici e socialdemocratici alle prese con reati vari e quasi tutti si risolvono con un nulla di fatto. Ampio il campionario giudiziario: truffe, fallimenti, minacce, usura, violenza privata e persino correità in adulterio causate tra l’altro da «morbose e innaturali tenerezze verso ex segretari particolari». Le cronache di questi mesi regalano poi inaspettate descrizioni di feste della Roma bene, quasi sempre trasversali, dove si ritrovano «tutti: liberali, comunisti, preti, belle donne e brutte donne», e soprattutto un altro scandalo a luci rosse. Compare sui quotidiani il 14 febbraio 1961 e riguarda la «scoperta da parte della Polizia dei Costumi di una casa-squillo di alto rango per “amatori” facoltosi», dove «alcune divette, indossatrici e signorine di buona famiglia piuttosto note nei ritrovi di Via Veneto», coordinate dall’ex parrucchiera Mary Fiore, «danno sollazzi a nomi conosciuti», anche della politica. Passano pochi giorni, aumentano le indiscrezioni e le «squillo da un milione» diventano un nuovo strumento di «lotta fra frazioni Dc». Ma le identità dei clienti non vengono fuori: i rotocalchi che li annunciano vengono subito ricompensati per il loro silenzio. I ricatti – scrivono i settimanali – sono ormai «l’arma segreta della vita politica nazionale». In particolare, nota Eugenio Scalfari, il mirino è indirizzato sui democristiani di sinistra, colpevoli «di fornicare di giorno con il diavolo in berretto frigio, e di notte col diavolo in gonnella». Tra i più ghiotti di fascicoli e pettegolezzi condizionanti, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che riceve puntuali report da Giovanni De Lorenzo, a capo del Sifar, il servizio segreto militare. Sotto la direzione del generale (che di lì a breve sarà protagonista di una delle pagine più controverse della storia repubblicana, legata al Piano Solo) vengono schedati migliaia di politici, ecclesiastici e grand commis. Il risultato? Oltre 150mila fascicoli che quasi mai hanno a che fare con la necessità di sicurezza (compito per il quale è nato il servizio segreto) e che spesso si rivelano inattendibili. Alcuni sono mastodontici: «Per l’onorevole Fanfani – racconterà anni dopo il generale Aldo Beolchini – c’erano quattro volumi, ciascuno gonfio come un doppio dizionario». Sui maneggi tra Quirinale e De Lorenzo con la complicità di diversi politici si mormora durante tutto il settennato di Gronchi, ma è al giornalista Renzo Trionfera che si devono le inchieste più dettagliate sul Colle. La sua presidenza – scrive – è affollata «di personaggi squalificati, di affaristi, di maneggioni del sottogoverno: uomini e donne potentissimi», intenti a «colpi miliardari», culminati col tentativo di «comperare voti in Parlamento e simpatie esterne» per intercessione della mano munifica di Enrico Mattei che mette a disposizione «un miliardo tondo» con l’obiettivo di «raddoppiare il festoso mandato» del presidente. Gronchi si infurierà più volte per quelle inchieste: prima minacciando l’editore Angelo Rizzoli srl, poi – dopo l’esplosione del caso nel 1967 – difendendosi in modo impacciato in Aula. I traffici attribuiti all’entourage del Colle sono tanti: tra i più noti, quello legato a un francobollo, il cosiddetto «Gronchi Rosa». Il 3 marzo 1961 viene emesso dalle Poste in coincidenza di un viaggio presidenziale in Sudamerica. Per un errore nei confini tra Perù ed Ecuador, viene ritirato solo diverse ore dopo una limitata distribuzione. E «tanto è bastato – denunciano i giornali – perché alcuni signori, stranamente bene informati, abbiano fatto incetta del prezioso pezzetto di carta». Ma le attività del settennato non si limitano qui. Il presidente, infatti, oltre a essere goloso di dossier e maldicenze, ne è un indiscusso protagonista. «I romani – racconterà il settimanale «Abc» – parlano spesso della porticina che Gronchi ha fatto aprire su un lato del Quirinale, in via dei Giardini. Si mormora che di lì passino le amicizie femminili del Presidente, che non potrebbero introdursi per il portone principale senza dare adito a pettegolezzi». Amicizie che costano al Parlamento diversi provvedimenti ad personam: uno di questi sarà ribattezzato «legge Pompadour» proprio perché «destinato a una delle sue favorite». Il caso più clamoroso del settennato ha però a che fare con la nomina di un anonimo ragioniere, Torello Ciucci, «esercente di cinematografo a Pontedera», a presidente dell’Enic, l’Ente nazionale industrie cinematografiche. Un colosso industriale, valutato in diversi miliardi, che in poco meno di un anno viene svuotato dei suoi beni e venduto a un prezzo irrisorio. La manovra non passa inosservata: è la rivista di spettacolo «Intermezzo» a scrivere una lettera aperta indirizzata allo stesso Gronchi, a cui si chiede di sollecitare un’indagine. Intanto alcuni periodici informano che Torello Ciucci, ribattezzato «il ragioniere tutto d’oro», si «è installato in un appartamento sfarzoso» a Roma, insieme alla moglie, «signora Dilva, intima del Quirinale»,31 che segue il presidente in più di una trasferta. La vicenda arriva in Aula, ma come da copione avrà esiti impalpabili. L’ultimo scorcio della legislatura regala però anche un’inaspettata condanna lampo. È quella di Ebe Roisecco, un’intraprendente donna d’affari assai vicina agli ambienti Dc. «Accusata di una lunga serie di truffe (nove in tutto)», nei primi anni del Dopoguerra è dedita alle importazioni di prodotti (e soprattutto al traffico delle necessarie licenze), fino a quando non viene incastrata per colpa di un assegno falso, e, dopo la condanna in primo grado a dieci anni e otto mesi, decide di parlare. In un lungo memoriale, pubblicato il 3 marzo 1960, tira in ballo i nomi di democristiani e socialdemocratici, parla «di una fitta rete di amicizie» e ammette di aver fatto «guadagnare laute provvigioni ai partiti, soprattutto a quello saragattiano» (leggi Psdi). La confessione imbarazza la maggioranza ma non la scalfisce. Nessuna indagine suppletiva: l’unico effetto che sortisce è quello di far accelerare sensibilmente il processo, che resta a carico della sola Roisecco. La sentenza d’Appello arriva il 13 luglio, tre mesi dopo il primo grado. Passano appena cinque giorni e arrivano le motivazioni. L’8 agosto scadono i termini per il ricorso e il 10 settembre si è già in Cassazione. Ai magistrati basta poco più di un quarto d’ora «per chiudere il caso e le polemiche» e soprattutto il rischio di prescrizione, che sarebbe scattata 12 ore dopo. Una celerità improvvisa e inusuale, notata da diversi quotidiani: «Sulla “signora mezzomiliardo” si chiudono le porte del carcere, che rappresentano sempre una forma di validissima censura». I maneggi di Ebe Roisecco non sono isolati. Il traffico delle licenze e delle importazioni, in questi anni, è fiorente e frequentatissimo. Non è un caso che di qui nasca l’ultimo affaire che precede l’insediamento del primo governo di centrosinistra. Riguarda l’Azienda del monopolio delle banane, un’eredità del fascismo nata per garantire che si consumino solo frutti tropicali prodotti «nei territori dell’Impero» e sopravvissuto al regime grazie a una giustificazione formale: la tutela italiana sulla Somalia. Tocca al ministro delle Finanze, il dc Trabucchi, regolare l’indizione delle aste per i grossisti che aspirano alla concessione. «Lo schema – nota Livio Zanetti – è evidente: da una parte ci sono gli ex gerarchi della Somalia che devono continuare a coltivare le loro banane senza preoccuparsi di migliorarne la produzione perché tanto lo smercio è garantito; dall’altra gli armatori che hanno diritto al loro nolo assicurato; più in là ancora i grossisti, che non rinunciano a prelevare la loro taglia sul consumatore. E in mezzo, a regolare il buon funzionamento del meccanismo, i funzionari del monopolio». A una di quelle aste, sulla carta segreta, i vecchi concessionari azzeccano al centesimo il canone minimo nelle zone in cui non ci sono concorrenti e il canone massimo dove hanno rivali. I contendenti, rimasti a bocca asciutta, fiutano la magagna e, complice una minuta di verbale dove risulta che i grossisti avrebbero pagato decine di milioni per conoscere in anticipo le cifre, decidono di informare con un telegramma il premier Fanfani. L’asta è annullata, il presidente dell’Azienda monopolio banane Franco Bartoli Avveduti, ex segretario di Trabucchi, finisce in manette, rinviato a giudizio insieme ad altre 124 persone. In tribunale, mostra diverse lettere e dice di aver ricevuto «segnalazioni scritte e orali di influenti personalità Dc perché venissero ammessi all’asta ed informati dei prezzi minimi e massimi alcuni concessionari di Bologna, Palermo, Verona e Brescia». Il ministro dc e il suo entourage, racconta Avveduti, sono tra i più attivi a chiedere e a sollecitare indicazioni. Eppure vengono appena sfiorati dalle indagini e se la cavano. Almeno per ora. Passano meno di due anni e con l’inizio della nuova legislatura, Trabucchi, che nel frattempo non è più nel governo, si ritrova coinvolto in un altro scandalo, sempre riferito allo stesso periodo. È accusato di un’altra irregolarità risalente a quando era al dicastero: «Avere abusivamente concesso licenze di importazione di tabacco messicano a due società private e di averne ricavato grossi utili» a favore della Democrazia cristiana. L’ex ministro – difeso da un giovane deputato sardo, Francesco Cossiga – respinge tutti gli addebiti. Stavolta, però, non basta: non c’è tempo per nessuna commissione di inchiesta. Il Parlamento, con la nuova maggioranza allargata ai socialisti, si riunisce in seduta comune per decidere sulla messa in stato d’accusa davanti alla Corte Costituzionale, a cui tocca decidere sui reati ministeriali. La Dc si ritrova isolata e finisce in minoranza: 461 voti a favore della richiesta contro 440. Ma Trabucchi per meno di 20 voti la scampa grazie a un regolamento che «in barba alla Costituzione» – nota Alessandro Galante Garrone su «La Stampa» – «ha imposto una maggioranza speciale anche per la messa in stato d’accusa dei ministri» e non solo per il presidente della Repubblica. Alla Camera succede il finimondo: comunisti, socialisti e repubblicani si indignano, volano insulti e «infamanti accuse». Il giorno dopo, però, l’aria si fa più serena, quantomeno nella maggioranza. Il caso è chiuso, dice «L’Avanti», «c’è solo da augurarsi che l’opinione pubblica non rimanga scossa sino alla sfiducia». Alle accuse rivolte a ministri e parlamentari, il presidente del Consiglio Aldo Moro replicherà deciso: «La nostra classe politica è profondamente onesta. La fibra è buona e non merita la sfiducia del Paese». È il 24 ottobre 1965. Da quasi due anni il Psi è entrato nella «stanza dei bottoni». Dopo una lunga gestazione, l’apertura a sinistra è diventata cronaca politica. Ma nonostante le rassicurazioni di Moro e dei suoi alleati, il caso Trabucchi non sarà l’ultimo colpo di coda di una stagione ormai archiviata. Al contrario. L’ingresso dei socialisti nel governo, più che a coincidere con un cambio di rotta, finirà col dare stabilità a un sistema ormai già collaudato, perfezionandone i tic, puntellandone i vizi e ampliando il senso di privilegio e impunità.”
Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più.
Così i parlamentari sono diventati milionari. Quando nacque la Repubblica i costituenti guadagnavano 1.300 euro odierni. Adesso deputati e senatori incassano tredici volte più di un operaio. Il tutto grazie a una serie di leggi che nel tempo hanno gonfiato le retribuzioni. E a provvedimenti ad hoc, furbizie, trucchi e tanta sfacciataggine. Che abbiamo ricostruito, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. «Onorevoli colleghi, l'opinione pubblica non ha in questo momento molta simpatia e fiducia per i deputati. Vi è un'atmosfera di sospetto e discredito, la convinzione diffusa che molte volte l'esercizio del mandato parlamentare possa servire a mascherare il soddisfacimento di interessi personali e diventi un affare, una professione, un mestiere». La solita tirata contro la casta di qualche parlamentare del Movimento cinque stelle? Macché. Frasi di Piero Calamandrei, giurista, antifascista, partigiano e deputato eletto col Partito d'azione all'Assemblea costituente. Parole pronunciate nel lontano 1947, mentre a Montecitorio era in discussione l'articolo 69 della Costituzione, relativo allo stipendio dei parlamentari. Il paradosso è che all'epoca i costituenti guadagnavano quanto un precario di oggi: 25 mila lire al mese, circa 800 euro. Più un gettone di presenza da 1.000 lire al giorno (30 euro), ma solo quando le commissioni si riunivano in giorni differenti rispetto all'Aula. Insomma, per quanto diligenti, i 556 rappresentanti che scrissero la Costituzione non riuscivano a portare a casa più di 1.300 euro al mese. Roba da far apparire i grillini - che, al netto dei rimborsi, trattengono circa 3 mila euro - degli sfacciati crapuloni. E in effetti nel dopoguerra lo stipendio dei parlamentari non era altissimo in termini assoluti ma comunque più che dignitoso per una nazione ancora sconvolta dall'economia di guerra, fame, mercato nero e inflazione vertiginosa. Un Paese senza dubbio più povero ma di certo meno "squilibrato" a favore del Palazzo, visto che un operaio di terzo livello arrivava a raggranellare 13 mila lire al mese, un terzo di un deputato. Mentre dopo quasi 70 anni - come mostra la tabella elaborata dall'Espresso - chi siede in Parlamento guadagna quasi 10 volte più di un impiegato e 13 più di una tuta blu. All'alba della nuova Italia, retribuire i parlamentari era considerato un decisivo fattore di indipendenza e democrazia, tale da consentire anche alle classi non abbienti di partecipare alla vita politica. Senza però esagerare, vista la drammatica situazione del Paese. Per questo nel giugno 1946 fu fissata provvisoriamente la somma di 25 mila lire. Ma l'inflazione era tale che a febbraio 1947 fu necessario portarla a 30 mila lire (740 euro) e a settembre a 50 mila lire (850 euro), elevando il gettone di presenza a 3 mila lire al giorno (51 euro), dimezzato per i residenti a Roma. La prima legge sul tema, varata nell'estate 1948 dal governo De Gasperi, è figlia di questa mentalità che allora ispirava la giovane e fragile democrazia italiana: "Ai membri del Parlamento è corrisposta una indennità mensile di L. 65.000, nonché un rimborso spese per i giorni delle sedute parlamentari alle quali essi partecipano". Tradotto ai giorni nostri: 1.230 euro fissi più un gettone da 100 euro scarsi al giorno (5mila lire) legato alla presenza effettiva. Togliendo fine settimana più i lunedì e i venerdì, in cui le convocazioni sono rare, non più 2.500 euro al mese dunque. Tutto esentasse, visto che lo stipendio era considerato un rimborso spese e non un reddito. Ma comunque una chimera se si considera che oggi i rimborsi sono prevalentemente forfettari, che le decurtazioni per gli assenteisti valgono solo per i giorni in cui si vota e che per risultare presenti è sufficiente partecipare a una votazione su tre. Che l'aria sarebbe ben presto cambiata lo dimostra una legge emanata dal governo Segni nel 1955: "Disposizioni per le concessioni di viaggio sulle ferrovie dello Stato". Pensata per garantire l'esercizio del mandato popolare, finì per trasformarsi in un privilegio ingiustificato per una pletora sterminata di soggetti. Non solo i politici in carica e il Capo dello Stato ma anche gli ex: presidenti del Consiglio, ministri e sottosegretari (bastava un anno), parlamentari, alti papaveri dei dicasteri, cardinali, familiari del ministro e del sottosegretario ai Trasporti e perfino quelli dei dipendenti delle Camere. Un privilegio al quale, col passare del tempo, si sarebbero aggiunti una innumerevole serie di altri benefit - molti ancora esistenti - dai biglietti aerei alla telefonia fissa (e poi mobile), dalle tessere autostradali agli sconti sui trasporti marittimi. E così nel 1963, in appena 15 anni, grazie ai bassi salari che furono alla base del miracolo economico, col suo mezzo milione al mese un parlamentare era già arrivato già a guadagnare il quintuplo di un impiegato (il cui salario si aggirava sulle 100 mila lire) e otto volte più di un operaio (poco sopra le 60 mila lire). Ma è con la legge varata nel 1965 dal centrosinistra (premier Aldo Moro, vicepresidente il socialista Pietro Nenni) che si deve l’esplosione dei redditi dei nostri rappresentanti: lo stipendio veniva infatti agganciato a quello dei presidenti di sezione della Cassazione e fra l'altro soggetto a imposta solo per il 40%. Inoltre a titolo di rimborso per le spese di soggiorno a Roma si istituiva la diaria (esentasse). Ciliegina sulla torta: siccome la legge non lo specificava, le 120 mila lire per vivere nella capitale (1.250 euro di oggi) furono accordate anche quelli che vi risiedevano già. Un capolavoro. Tuttora in vigore, sia pure con qualche modifica. Certo, anche i comuni mortali hanno avuto le loro soddisfazioni. Negli anni '70, ad esempio, per effetto delle lotte sindacali, i lavoratori dipendenti e in particolar modo degli operai hanno conosciuto un aumento delle retribuzioni che ha fatto diminuire il distacco dagli onorevoli. Al punto che nel 1977 un metalmeccanico poteva guadagnare un quarto di un parlamentare: rispetto al 1963, un dimezzamento dello "spread". Poi il governo Craxi taglia la scala mobile e la forbice torna ad allargarsi inesorabilmente. E sia tute blu che impiegati cominciano a perdere progressivamente potere d'acquisto: i loro salari reali scendono lentamente, mentre deputati e senatori iniziano a stappare bottiglie di champagne. Per festeggiare una busta paga che in un trentennio raddoppia il suo valore: dai 7 mila euro degli anni '80 (rivalutati al 2014) oggi siamo arrivati a quasi 14 mila. Gli impiegati, invece, si aggirano sui 1.500 euro al mese, mentre i metalmeccanici sono inchiodati da allora fra 1.100 e 1.200 euro. Nel mezzo, ci sono i generosi regali che i parlamentari si fanno nel corso del tempo. Nel 1986, ad esempio, l’indennità viene equiparata completamente a quella dei presidenti di sezione della Corte suprema (era al 91,3%), che regala in un colpo solo 400 mila lire nette in più al mese più dieci mensilità arretrate: cinque mesi di lavoro di un operaio. Ma le disparità sono anche nella dichiarazione dei redditi. Già, perché un terzo dell'indennità per deputati e senatori, dopo lunghe lotte assimilata al lavoro dipendente, resta esente dalle imposte (solo dal 1995 la tassazione è al 100% come tutti i comuni mortali). Senza contare che grazie a una generosa interpretazione del Testo unico delle imposte sui redditi (governo Craxi), come ha raccontato sull’Espresso Stefano Livadiotti, il prelievo fiscale si aggira attorno al 19 per cento. Intanto, anno dopo anno, i rimborsi aumentano a dismisura, dai viaggi di studio alle spese telefoniche, dai costi di trasporto a quelli di spostamento. Fino alle spese postali, in seguito soppresse: nel 1988 a ogni deputato veniva riconosciuto ogni mese il corrispettivo di 500 francobolli (erano 300 fino a un paio di anni prima), circa 350 euro odierni. Che poi si spedissero davvero tutte quelle missive, poco importa. Non fossero bastati i benefit, a fine anni '80 per le deputate finì in busta paga perfino l’indennizzo per il coiffeur. Già, perché non essendoci a Montecitorio il parrucchiere (al contrario dei colleghi maschi, che possono contare sul barbiere), alle parlamentari viene assegnato un rimborso forfettario sostitutivo. Come dire: scusate il disservizio, la messa in piega la offriamo noi. Questo aumento degli stipendi, fra l'altro, ha prodotto effetti a cascata anche sugli enti locali. Perché se gli eletti nelle Camere si sono agganciati ai magistrati di Cassazione, i consiglieri regionali hanno fatto altrettanto con i parlamentari. E ogni ritocco all’insù sancito dall'Istat è costato miliardi e miliardi di lire a tutta la collettività. L'ultimo colpo grosso - prima della sterilizzazione degli stipendi avviata nel 2006 e dei vari piccoli tagli apportati negli ultimi anni - risale al 1997: quasi 7 milioni al mese in più sotto forma di “spese di segreteria e rappresentanza” al posto dei precedenti contributi per i portaborse, che venivano erogati al gruppo parlamentare di appartenenza. In questo modo, non solo i soldi sono finiti direttamente sulla busta paga dell'onorevole, ma non è stato nemmeno più necessario rendicontarli (dal 2012 basta documentare il 50%). Risultato: come ha raccontato l'Espresso, in maniera assolutamente lecita molti parlamentari si sono tenuti i soldi e vari collaboratori hanno continuato a lavorare a nero. Che avesse ragione Calamandrei?
Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".
In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?
«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».
L’ITALIA DELLE TRATTATIVE.
La storia compromettente del "compromesso storico". Quarant'anni fa Enrico Berlinguer rilanciò l'idea (che fu di Togliatti nel dopoguerra) della collaborazione fra Pci e Dc. Ma il flirt durò poco. E indebolì entrambi i partiti, scrive Francesco Perfetti Venerdì 27/09/2013 su "Il Giornale". La proposta di un «compromesso storico» fra cattolici e comunisti la lanciò l'allora segretario del Pci Enrico Berlinguer tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre 1973 dalle pagine di Rinascita, la rivista ideologica del partito fondata da Palmiro Togliatti, in tre articoli pubblicati con il titolo generale Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile. Nel Paese latino-americano si era appena consumato il colpo di Stato del generale Pinochet contro Salvador Allende: era stata interrotta traumaticamente la «via cilena al comunismo». Divenuto segretario del Pci nel marzo 1972 dopo esserne stato vice-segretario, Berlinguer si era formato ed era cresciuto politicamente all'ombra di Togliatti e durante la lunga segreteria di Luigi Longo si era rafforzata la sua autorevolezza. Aveva portato avanti la linea del «dissenso» dall'Urss dopo l'invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma al tempo stesso aveva negato la possibilità di un abbandono dell'internazionalismo e di una posizione di rottura nei confronti dell'Unione Sovietica. I fatti cileni suggerirono a Berlinguer una proposta politico-strategica che egli rese nota attraverso quegli articoli senza che fosse prima discussa dagli organismi dirigenti del partito. Ciò anche se in maggio sulla rivista Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, era apparso un ampio dibattito sulla «questione democristiana», in cui Alessandro Natta aveva accennato alla necessità di una intesa fra socialisti, comunisti e cattolici e Gerardo Chiaromonte aveva osservato che sarebbe stato difficile per i comunisti governare anche ottenendo la maggioranza assoluta dei voti a causa della estensione e della influenza delle forze avversarie. Ciò non toglie, peraltro, che la paternità dell'idea del compromesso storico, così come venne presentata, sia senza dubbio attribuibile a Berlinguer. Il caso cileno offriva una lezione importante. Dimostrava che l'unità delle sinistre, da sola, non era sufficiente a garantire la governabilità e che bisognava puntare alla collaborazione fra tutte le forze popolari, partito comunista e democrazia cristiana in primis, e quindi a un sistema di alleanze sociali che coinvolgesse ceti diversi. Al fondo, c'era la convinzione che solo così sarebbe stato possibile sbloccare il sistema politico italiano che, di fatto, anche per la sua collocazione internazionale, non consentiva una alternanza. La formulazione della proposta era chiara: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie, e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». In altre parole, Berlinguer metteva in soffitta l'idea della «alternativa di sinistra» e la sostituiva con quella di una «alternativa democratica» che avrebbe consentito riforme radicali evitando il pericolo di derive reazionarie. La proposta poteva sembrare una novità. E come tale alimentò il dibattito politico. Ma non era così. Il filosofo cattolico Augusto Del Noce osservò che essa era «condizionata interamente dalla linea gramsciana» tanto che, riferita al pensiero di Gramsci, si configurava come «offerta» frutto della «constatazione della "maturità storica" per il passaggio dell'Italia al comunismo e per il transito dalla vecchia alla nuova Chiesa». D'altro canto lo stesso Berlinguer precisò che l'offerta di compromesso storico non era una «apertura di credito alla Dc», ma doveva intendersi come «sollecitazione continua» per una trasformazione radicale della stessa Dc che ne valorizzasse la «componente popolare» a scapito delle «tendenze conservatrici e reazionarie». A ben vedere, il discorso di Berlinguer riprendeva, con altre parole e in un contesto diverso, il progetto che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, Palmiro Togliatti aveva sintetizzato nella celebre espressione «democrazia progressiva» fondata sulla collaborazione fra le «grandi forze popolari», ovvero comunisti, socialisti e cattolici. Esisteva, per dirlo con Del Noce, una «continuità Gramsci-Togliatti-Berlinguer e delle formule della via "nazionale" e "democratica" e dell'accordo dei partiti di massa». Nella visione berlingueriana il compromesso storico avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per «sbloccare» il sistema politico italiano che - in virtù della tacita ma accettata conventio ad excludendum nei confronti del Pci per i suoi legami con Mosca e per la sua monolitica struttura interna di tipo leninista - precludeva ai comunisti l'ingresso nelle stanze del potere. Le opposizioni, più che le perplessità, furono numerose sia all'interno del Pci, dove molti pensavano ancora all'ipotesi della trasformazione del Paese in una «democrazia popolare», sia all'interno della Dc, del Psi e dei partiti laici minori, preoccupati, non a torto, che il compromesso storico si risolvesse nell'incontro fra due «religioni secolari». Comunque sia, alla prova dei fatti il compromesso storico non si realizzò. Gli anni fra il 1974 e il 1978 furono, sì, quelli della grande avanzata elettorale del Pci e del suo ingresso nell'area di potere con l'appoggio esterno al governo monocolore di «solidarietà nazionale» di Andreotti. Ma, al tempo stesso, furono anni - particolarmente difficili anche per l'offensiva del «partito armato» delle Brigate Rosse - che mostrarono come la «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci teorizzata da Aldo Moro fosse sostanzialmente velleitaria. Alla fine proprio il rapimento e l'assassinio di Moro chiusero traumaticamente la strada al compromesso storico. E aprirono una nuova stagione della politica italiana dominata dalla figura di Bettino Craxi e destinata a sua volta a esaurirsi con la fine ingloriosa della prima repubblica sotto i colpi di maglio della «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli.
La beatificazione di Berlinguer sempre fedele a Stalin, scrive Mario Cervi su “Il Giornale”. Un supplemento di 100 pagine dell'Unità, convegni e dibattiti, o fervidi elogi del mondo politico, gli applausi dei grillini: per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer il ricordo prende i connotati della venerazione se non della santificazione laica. Omaggi più che meritati se si riferiscono all'uomo. Che fu onesto, intelligente, riservato in un mondo di ciarlatani, gran lavoratore. Per dirlo in sintesi una persona per bene. Il culto per lui di chi ha nostalgia dal Partito (...) (...) comunista italiano e alimenta ancora speranze in fulgide sorti progressive della sinistra è non solo giustificato ma doveroso. Perché riguarda chi fu comunista nell'essenza e in tutte le implicazioni del termine. E lo restò sfidando i fatti e le e delusioni con la tenacia indomabile dei credenti. Gian Carlo Pajetta disse, con il sarcasmo d'obbligo, che «si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci». Lasciando con questo intendere che il ragazzo di buona famiglia borghese fosse stato agevolato nello scalare la Nomenklatura delle Botteghe Oscure. Un raccomandato. In effetti l'ascesa di Berlinguer ai vertici comunisti ebbe l'avallo di Palmiro Togliatti che ai compagni altolocati indirizzò un biglietto così concepito: «Questo è il compagno Berlinguer che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione». In verità, pur con l'iniziale e potente spinta di Ercoli, la successione di Togliatti e di Longo gli spettava di diritto: per le sue qualità e per la sua ortodossia ideologica. Alla valanga di articoli di questi giorni ne aggiungo uno mio. Con l'ambizione di non voler offendere una memoria, ma anche di non aggiungermi ai gloria imperversanti. Il primo incarico di gran rilievo del ragazzo sardo fu la guida della Federazione giovanile comunista italiana. Il che gli dava accesso ai sommi uffici, compreso quello del sommo tra i sommi, il Migliore. Al rispetto delle gerarchie ci teneva molto. Gli era stato assegnato un segretario particolare, Mario Pirani, (ora editorialista di Repubblica), e s'era accorto che Pirani sfogliava prima di lui la mazzetta dei quotidiani. «Dice con piglio da dirigente - cito dalla biografia di Chiara Valentini - che il primo a sfogliarli vuole essere lui». Non era incline all'ironia e nemmeno alle confidenze. Aveva da poco compiuto i 24 anni - attingo di nuovo al saggio citato - quando andò per la prima volta in Unione Sovietica con una delegazione di giovani partigiani. Rimase estasiato. Ripeteva in ogni discorso che «la gioventù sovietica felice canta nelle piazze la sua canzone preferita, Com'è bello vivere nel Paese dei Soviet». Ammirava sconfinatamente Stalin che ebbe la fortuna - almeno lui la ritenne tale - di incontrare. Togliatti era il Maestro: da lui aveva mutuato il vezzo d'indirizzare bigliettini in inchiostro verde ai collaboratori. Alla fine del viaggio russo fece firmare dalla delegazione un documento unitario che esaltava le conquiste e le libertà dello stalinismo. Al ritorno a Roma ci fu chi ebbe l'audacia di chiedergli qualcosa sulle donne russe, su come si vestivano, su come si truccavano. La risposta può essere collocata nella casistica del fanatismo quasi delirante. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne. Ci sono compagne sovietiche». Sciocchezze d'un ventenne, si dirà. Invece quel ventenne non era per niente sciocco, era un apparatchik inflessibile che nella sostanza rimase tale fino all'ultimo, quando un malore lo uccise e Sandro Pertini presidente della Repubblica, tanto si agitò da dare l'impressione che protagonista del funerale fosse lui. Ebbe anche nell'abbigliamento e nel linguaggio tratti da asceta. In un suo volumetto Dietro la vetrina a Botteghe oscure, il vecchio militante Fidia Gambetti, messo a dirigere la biblioteca di Rinascita a Roma, così scrisse: «Da Bologna ritorna vincitore Berlinguer, unico e naturale successore di Togliatti e di Longo. Con il suo aspetto sofferente di sempre, più piegato che mai sotto gli sfuggenti colli del soprabito e della giacca. Se dovessi dare un giudizio non potrei che rispondere non lo conosco. Non ha mai messo piede in libreria. Il primo a comparire è il grande sconfitto, Napolitano, sereno e signore come sempre». Ho indugiato su questi aspetti marginali della vita di Berlinguer non per sminuirlo ma per collocarlo sul podio che gli spetta e che a mio avviso è quello d'un conformista preparato e anche illuminato, non quello degli innovatori. Fu preso a rimorchio dai cambiamenti, talvolta rassegnandosi a malincuore. Anche gli strappi che gli sono valsi inni d'ammirazione erano tutto sommato prudenti e inevitabili. Non si rese mai conto del baratro verso il quale il comunismo si stava avviando, o se si rese conto lo tenne per sé. Ha scritto Alfredo Reichlin nell'inserto dell'Unità: «È vero, noi non fummo liberaldemocratici. Non avevamo letto i libri dei politologi americani e a Botteghe Oscure del modello Westminster non si parlava». Concesso. Ma la straordinaria vittoria del capitalismo sul comunismo che già era nell'aria non derivava dalla genialità dei politologi, derivava dal disastro di un'utopia tirannica. Berlinguer non sarebbe stato un tiranno. Probabilmente dei tiranni in cui aveva fiducia sarebbe stato vittima. Dopo averli osannati. A Berlinguer viene accreditato l'aver posto la «questione morale». Credo fosse sincero nel metterla sul tappeto. Credo anche che con la sua condotta privata si sia dimostrato degno della battaglia contro la corruzione. Non lo fu come massimo dirigente del Pci foraggiato e mantenuto dall'Urss. Personalmente accredito a Enrico Berlinguer, senza distinguo, la scelta della fermezza dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta. La scelta arrivò dopo un lungo flirtare del Pci con le frange eversive della sinistra. Ma fu una scelta decisa. Molti anche oggi spiegano che il negoziato con i terroristi assassini sarebbe stato la via migliore per salvare la vita del leader democristiano. Io ritengo che una trattativa svolta ignorando il sacrificio di cinque servitori dello Stato sarebbe stata ignobile.
Berlinguer, anatomia di una sconfitta. Il libro di Claudia Mancina analizza la criticamente l'attività del leader di Botteghe Oscure, scrive “Europa Quotidiano”. Claudia Mancina ha vissuto dall’interno i travagli del Pci e cerca in questo veloce ma denso volumetto (Berlinguer in questione, edito da Laterza, 2014) di sviluppare un bilancio critico molto argomentato della leadership di Enrico Berlinguer. Ne esce fuori un ritratto molto simile, quasi identico, a quello delle memorie sull’Italia dell’ex-ambasciatore francese Gilles Martinet, inviato a Roma nel 1981. Berlinguer appare «più umano, più autentico, più comunicativo» di Palmiro Togliatti, al punto che ciò «lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista», essendo peraltro alla guida di un partito che dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia aveva espanso i suoi consensi nei ceti medi urbani, specie giovanili. Eppure, se quelle erano le premesse personali, il bilancio strettamente politico è quello di una sconfitta: al di là delle diverse strategie (dal compromesso storico alla regressione neo-identitaria successiva) Berlinguer elude l’unica possibile opzione, quella della trasformazione esplicita in una moderna forza inserita nel socialismo europeo, ossia dentro l’orizzonte dell’economia di mercato. Volendo mantenere un riferimento rivoluzionario (anche se i contenuti con cui esso si identifica si modificano, dall’ammirazione per l’Urss si passa a una sorta di diversità etica, di ripulsa morale per la società dei consumi lontana dall’apertura modernizzante del marxismo) ma al contempo anche delineare una prospettiva credibile di accesso al governo, la soluzione consiste nell’idea di farsi legittimare da un sistema di alleanze. Come, nonostante le differenze e gli accenti, la elude la prospettiva “comunista e riformista” rivendicata ancora qualche mese fa da Emanuele Macaluso nel suo ultimo libro, in alternativa all’opposta ricostruzione di Enrico Morando. In questo senso è la storia politica del Pci, come sostengono Mancina e Morando, ad essere tramontata come tale nel segno della sconfitta, al di là delle energie che essa ha liberato dopo quella sconfitta. Da qui il rapido declino che si manifesta subito dopo la sua scomparsa, che lascia in eredità il referendum sulla scala mobile, voluto non per ragioni di contenuto ma per difendere il potere di veto del proprio partito. Un’impostazione che si riflette sulle questioni elettorali e istituzionali dove paradossalmente un partito di sinistra, che dovrebbe essere in astratto preoccupato di garantire forza ai governi per riequilibrare le disuguaglianze sociali, finisce per difendere a lungo regole iper-garantistiche varate nel periodo della frattura verticale della Guerra fredda. Anche il Pci, insieme alle forze di maggioranza, contribuisce quindi attivamente all’esito catastrofico del primo sistema di partiti, che nel suo insieme, come nota Pietro Scoppola richiamato da Mancina, non riesce a uscire da quella sorta di grande coalizione anomala che era la solidarietà nazionale per giungere ad una fisiologica democrazia dell’alternanza europea, come avrebbe voluto Aldo Moro. Alla fine Mancina ci propone un paradosso: la personalità politica che più ha insistito per una continuità ideale con alcuni aspetti di Berlinguer, Walter Veltroni, è quella che si è più battuta per una trasformazione post-ideologica, per un nuovo centrosinistra a vocazione maggioritaria che non avesse bisogno di protesi centriste; viceversa la persona più critica con Berlinguer in nome di una visione realistica della politica, D’Alema, rivendicando orgogliosamente la continuità con la storia del Pci ha poi sempre voluto alleati centristi per accedere al governo. Alla fine, però, la mutazione molto netta del centrosinistra è arrivata, dando ragione alla frase di Aldo Moro che Mancina premette: «Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».
Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.
UN COMPROMESSO NON STORICO.
Aldo Moro, l’archivio privato sepolto (e secretato) a Palazzo Chigi. Nel suo nuovo libro, lo storico Massimo Mastrogregori segue le tracce dei faldoni in cui il presidente Dc ucciso dalle Br conservava tutte le carte, comprese quelle più riservate. Per esempio sullo scandalo petroli. Almeno 18 fascicoli sono ora sotto chiave alla presidenza del Consiglio, di altri arrivati all'ufficio legislativo dal Tribunale di Torino si sono perse completamente le tracce, scrive Stefania Limiti il 20 novembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano. La figura di Aldo Moro è un’inesauribile fonte di questioni aperte. Non solo il rapimento e la morte, gli americani e la Dc, Cossiga e Andreotti. Lo è anche il suo archivio privato. Uomo di pensiero immerso nell’azione politica, Moro curò attentamente la raccolta degli atti della sua intensa attività. Era così prudente e diffidente (non a torto) che arrivò a compartimentarli: al suo portavoce Guerzoni la chiave dell’armadio dei discorsi, a Rana e Freato, uomini chiave dei suoi uffici, quella dell’archivio della segreteria (e i materiali più riservati da custodire altrove), agli ambasciatori Pompei e Cottafavi quella della raccolta degli atti diplomatici. La sera andava in scena il rituale delle borse: di stanza in stanza Moro consegnava, o riceveva e metteva in borsa, i documenti di competenza dei singoli collaboratori, uno per uno. Dopo il suo sequestro il controllo di quelle carte passò inevitabilmente ai suoi principali collaboratori, più o meno d’accordo con i familiari. Ma se ne preoccupava anche la polizia, che pare sorvegliasse l’ingresso dello studio di via Savoia giorno e notte anche durante i 55 giorni (non avendo vigilato a sufficienza prima). Lo storico Massimo Mastrogregori, che ha già dato prova di abilità con La lettera blu (Ediesse), in cui affronta il tema sensibile della costruzione dell’ostaggio, svela in un nuovo lavoro titolato Moro. La biografia politica del democristiano più celebrato e discusso nella storia della Repubblica, per i tipi di Salerno editore, che documenti privati del presidente democristiano sono tutt’oggi custoditi e, soprattutto, segretati presso gli archivi della Presidenza del Consiglio. Mastrogregori ha inseguito per anni la storia delle carte private di Moro. “Una pista precisa portava all’archivio del tribunale di Torino, che si trova in un capannone, luminoso e sterminato, fuori città, a Pianezza: ottanta armadi “compatti” alti otto metri e lunghi trenta, ventisei file di scaffali ciascuno. I documenti del processo sullo “scandalo dei petroli” occupano decine di faldoni, riordinati da un’archivista bravissima, ma poco catalogati. I tasselli mancanti della storia dell’archivio di Moro – mai raccontata finora – saltano fuori da quelle carte quasi per caso, un minuto prima di rinunciare”. Un filo sottile e assai tortuoso che lo storico ha pazientemente riavvolto fino in fondo, tanto da affermare con precisione che almeno diciotto fascicoli sin dal 1984 giacciono coperti dal segreto a Palazzo Chigi – mentre di parte dei documenti dell’archivio di Torino versati nel febbraio di quell’anno all’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio si sono perse completamente le tracce. L’aspetto inquietante del suo racconto riguarda anche il possibile contenuto di queste carte, formalmente in possesso di Giovanni Moro dal marzo 1983: poco dopo collaboratori e familiari di Moro furono coinvolti in un’inchiesta giudiziaria, lo scandalo petroli, e lo studio di via Savoia fu perquisito dalla Guardia di Finanza. Il 20 aprile 1983 Freato fu arrestato con l’accusa di aver favorito la nomina del generale Raffaele Giudice al vertice della Guardia di Finanza. Il 23 aprile scattò la perquisizione dei finanzieri: “Lo studio era composto di quindici locali, compresi bagni, ingressi corridoi e cantina, ma furono attratti specialmente dalle tre stanze in fondo al corridoio principale: le due ultime a destra, comunicanti, contenevano cinque armadi blindati, più uno piccolo; l’ultima a sinistra uno schedario di legno. Lo “scopo della perquisizione” era quello di trovare tracce dei rapporti con ufficiali della finanza, funzionari dell’amministrazione finanziaria, petrolieri; nello schedario, in effetti, i finanzieri rinvennero e sequestrarono le schede intestate ad alcuni imputati, ma non c’erano i fascicoli corrispondenti alle schede: mancavano tutti i fascicoli, da uno a tredicimila”. Le ricerche di Mastrogregori sono dunque destinate a aprire nuove rivelazioni sulla figura e l’azione politica di Aldo Moro. Assai meno convincente la tesi politica del suo lavoro: Moro non cercò un’intesa stabile con il Pci, dunque la tesi che il compromesso storico sia all’origine della sua morte è fasulla. In effetti, chi mai può contestare che Moro fosse un anticomunista? Ma il Presidente sapeva che la Dc non poteva farcela senza il sostegno della classi popolari: da qui il suo disegno innovativo e riformatore. La tesi dello storico assomiglia molto a un sillogismo sterile, che non poteva non affascinare Paolo Mieli, secondo il quale in Italia non ci sono misteri. Gli ha dedicato due pagine sul Corriere senza accennare però alla parte più succulenta: le carte scomparse.
Moro non voleva allearsi col Pci. Un compromesso (non) storico. Il libro riesamina i rapporti di Moro con la sinistra; smentisce l’interpretazione consueta del suo atteggiamento verso i comunisti nel periodo della solidarietà nazionale, scrive Paolo Mieli il 13 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Una stretta di mano tra il segretario del Pci Enrico Berlinguer e il presidente della Dc Aldo Moro. La foto venne scattata il 3 maggio 1977, durante il periodo degli accordi ad ampio raggio di solidarietà democratica. Moro sarebbe stato assassinato un anno dopo dai terroristi delle Brigate rosse. A cent’anni dalla nascita è giunto il momento di smetterla di credere «alla favola che sia stato ucciso perché stava preparando il compromesso storico con i comunisti». È questo il punto di partenza di un importante libro di Massimo Mastrogregori, Moro (che sta per essere pubblicato per i tipi della Salerno), particolarmente attento ai rapporti tra lo statista democristiano e i partiti di sinistra. Rapporti che promettevano di evolversi in qualcosa di più impegnativo allorché Moro, già leader della Federazione degli universitari cattolici, tra il 1944 e il 1945 guardò per così dire con interesse al mondo socialista e a quello comunista. Ne è testimonianza un suo articolo su «La Rassegna» del 6 luglio 1944, in cui disegna uno scenario («assai ardito», lo definisce Mastrogregori) di conciliazione del mondo occidentale con quello sovietico. Tesi non in sintonia con le idee che all’epoca circolavano in Vaticano: passeranno tre settimane e il 1° agosto Papa Pio XII si pronuncerà esplicitamente contro la collaborazione con comunisti e socialisti. Ma l’uomo politico insisterà nelle sue relazioni con i partiti di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni. La sua rivista, «Studium», ospiterà nel numero 7-8 del 1945 la pubblicità del periodico comunista «Società» (edito da Einaudi) e nel numero di dicembre comparirà un articolo che suggerirà ai cattolici di avvicinare e riconquistare i comunisti. Lui stesso, stando ad alcune testimonianze dell’epoca, li avvicinò. Nei diari di Antonio Segni alla data 19 marzo 1960 è annotato che l’uomo dell’Ufficio affari riservati, Federico Umberto D’Amato, gli avrebbe riferito di un colloquio con l’ex dirigente comunista Eugenio Reale secondo il quale Moro nel 1944 aveva presentato — al segretario del Pci pugliese Antonio Di Donato — una domanda di iscrizione al partito di Togliatti. Dopo che questa richiesta era stata respinta (per decisione, a suo dire, dello stesso Reale), Moro ne aveva presentata una seconda, al segretario locale del Psi Eugenio Laricchiuta. Anch’essa rigettata, ma di cui, in anni successivi, furono in grado di riferire circostanziatamente Giuseppe Saragat e Francesco De Martino. Qui Mastrogregori prende per buone le testimonianze (in particolare quella di Reale), ma ipotizza che il giovane politico pugliese fosse stato autorizzato dalla Chiesa a «svolgere una missione presso i partiti anticristiani». In ogni caso Moro, entrato subito dopo nella Dc, continuò a manifestare attenzione nei confronti dei comunisti. Ai lavori della Costituente Alcide De Gasperi notò che quel politico alle prime armi aveva «sostenuto gli articoli sociali di sinistra» e lo definì (in privato) «un professore che ha combinato qualche guaio». Togliatti si accorse di «quel giovane di Bari»: secondo le testimonianze di Nilde Iotti e Luciano Barca, affidò al parlamentare comunista Renzo Laconi il compito di interloquire costantemente con lui. E decise di accordare alcune concessioni alla scuola cattolica (materia su cui Moro era relatore) anche a costo di scontentare un grande intellettuale, Concetto Marchesi, che proprio con Moro non aveva trovato l’accordo. Dopodiché, negli anni della guerra fredda, Moro fu un anticomunista inflessibile. Ma, nel contempo, si segnalò per alcuni gesti di duttilità nei confronti dei partiti di sinistra. Nel voto decisivo che il 27 maggio del 1947 escluse comunisti e socialisti dal governo, Moro si astenne. Quando si discusse del Patto atlantico, da sottosegretario agli Esteri fece avere a Giuseppe Dossetti documenti riservati utili a rafforzarne le convinzioni antiamericane: di nuovo si ebbe qui la reazione indispettita di De Gasperi. Fu relatore su un progetto assai benevolo per il pagamento delle riparazioni di guerra all’Unione Sovietica. La sera del 22 dicembre 1950 disertò il voto su una mozione governativa a favore dell’intervento statunitense in Corea. In privato però rimproverava al Pci di non essersi schierato dalla parte di Tito nella controversia con Stalin e nel 1953, alla morte del dittatore sovietico, criticava Nenni per qualche suo eccesso nelle espressioni di compianto. Il 19 ottobre del 1954 il democristiano Giuseppe Togni tuonò contro i comunisti «sudditi di un Paese straniero»: Moro, da capogruppo della Dc, prese le distanze. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, soprattutto dopo le mancate conseguenze tratte in casa comunista dalle rivelazioni di Nikita Krusciov sui crimini di Stalin e la repressione sovietica in Ungheria, Moro fu sempre più netto nella sua ostilità al Pci. Nel 1956 fu tra i principali promotori di Stay behind e nel luglio del 1960 difese fino all’ultimo il governo Tambroni sostenuto dai voti missini. Anche quando fu chiaro che sarebbe stato travolto dalle manifestazioni di piazza. Quando poi si trattò di edificare il centrosinistra, fu il regista di una costruzione assai complessa, riuscendo là dove non erano riusciti né Giovanni Gronchi, né Amintore Fanfani. Nenni all’inizio lo sottovalutò: quando Moro, nel 1959, fu eletto segretario della Dc, il leader socialista non ritenne neanche di prenderne nota nel suo diario. Poi però i due si intesero sempre di più e Nenni, divenuto suo vice alla guida del governo, ebbe modo di accorgersi di quanto invece Moro diffidasse di Ugo La Malfa. Nell’estate del 1964 Moro non credette che fosse in atto un colpo di Stato da parte del generale Giovanni De Lorenzo. E non se ne convinse neanche nel 1967, quando, sulla scia delle rivelazioni dell’«Espresso», Nenni si persuase che nel luglio di tre anni prima l’Italia era stata sull’orlo di un golpe. Fu Moro a escogitare la formula grazie alla quale Giuseppe Saragat, alla fine del 1964, fu eletto presidente della Repubblica. Poi nel 1968 i socialisti unificati non otterranno l’atteso premio dalle urne, il suo governo entrerà in crisi e lui inizierà a cercare di coinvolgere i comunisti. «Moro nella veste insolita di estremista», si allarma Nenni nei suoi diari.Niente di più lontano dal vero. Moro capisce che la Dc, per restare centrale nel sistema politico, deve dar vita ad equilibri «più avanzati», ma non riesce a convincere a fondo né la gran parte dei suoi compagni di partito, né l’alleato americano. E neanche i comunisti, il cui giudizio nei suoi confronti è altalenante. Ancora nel 1976, quando il Pci di Enrico Berlinguer entra nell’area di governo, le esitazioni sono molte. Così «l’idea di un Moro demiurgo della politica italiana, abile regista eliminato col sequestro e l’assassinio per deviare sviluppi politici ben definiti e avviati, ancorché molto diffusa», scrive Mastrogregori, «non è per niente realistica». Di conseguenza anche le pagine dedicate al rapimento e all’uccisione dello statista (1978) sono assai meno dietrologiche di quanto è consueto trovare nelle ricostruzioni anche accurate sulla sua vita. Ma allora quali furono i veri rapporti di Moro con il Pci? Nel suo recente L’arte del non governo (Marsilio), Piero Craveri osserva che c’era una sintonia solo apparente tra la visione di Moro «di una democrazia che doveva essere operante» e la proposta di Berlinguer del compromesso storico. Per Moro «l’unione delle forze politiche ai fini di una “solidarietà nazionale” era di natura transeunte e si fondava logicamente, come in tutte le democrazie liberali, sulla situazione di straordinaria emergenza che si era venuta creando, i cui caratteri erano politici ed economico-sociali». Per Berlinguer avrebbe dovuto avere invece carattere «permanente», andava considerata come «un approdo» la cui finalità era di «carattere istituzionale». Anche Guido Formigoni, in Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma (il Mulino), insiste su questo punto: il processo che aveva in mente lo statista democristiano, «doveva consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione ideologica e politica del maggior partito di opposizione, senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema berlingueriano del compromesso storico». Altro che abbraccio tra Dc e Pci. Quella rappresentata dalla statua di Maglie di Aldo Moro con l’«Unità» sottobraccio è quantomeno una forzatura. La sinistra politica e culturale guardò sempre a lui con diffidenza. Natalia Ginzburg lo definì «dromedario grande e triste»; Giorgio Agosti lo descrisse come «viscidamente pretesco» e «infido»; Palmiro Togliatti irrise a quel «De Gasperi alessandrino»; per Pietro Ingrao fu nient’altro che un «gesuita»; per Davide Lajolo dava «il senso della pioggia uggiosa delle scure giornate invernali», era «un Mefistofele di sacrestia, dalle parole foderate di grigio e dalla smorfia dolciastra, che sta seduto al banco del governo con la stessa noia con cui sta genuflesso in chiesa, molle e resistente come la gomma»; Pier Paolo Pasolini scrisse che la sua era «la lingua della menzogna». Del resto, in un volumetto del 1976 cioè l’epoca dell’unità nazionale — Moro(Feltrinelli), libro peraltro simpatizzante nei confronti dello statista democristiano — un importante giornalista comunista, che dell’«Unità» fu condirettore, Aniello Coppola, scriveva di lui in toni quasi sprezzanti: quell’uomo era «certamente uno dei principali responsabili» della «degenerazione degli apparati pubblici, del decadimento dello Stato, della riduzione della politica a gioco di formule e a mera diplomazia istituzionale». Era anzi «l’emblema di questo modo — sempre più contagioso — di fare politica». Ma davvero lo statista democristiano fu l’emblema di questo modo di fare politica? Nel libro Intervista su Aldo Moro, a cura di Alfonso Alfonsi (Rubbettino), George L. Mosse ha osservato che «la carriera politica di Aldo Moro assume un significato di interesse generale perché è strettamente collegata a quella crisi del sistema di governo parlamentare manifestatasi in tutta la sua gravità nel corso del XX secolo». Emilio Gentile ha recentemente osservato come queste acute osservazioni di Mosse (del 1979) «si leggono oggi con maggiore inquietudine», se si stabilisce un confronto tra la crisi della democrazia parlamentare degli anni Settanta e quella attuale. Mosse notò che a Moro non piaceva la televisione ed era incapace di usare i mezzi di comunicazione più moderni. Anche Mastrogregori mette in risalto come Moro non sapesse «parlare al popolo» né usare la televisione. Andò a Londra in treno — nella vettura presidenziale costruita nel 1940 per Mussolini, dotata di camera da letto, studio, saloncino, sala da pranzo — mettendoci due giorni per arrivare a Victoria Station: «Trasmetteva un’immagine di lentezza e di arretratezza». Il modo di comunicare più avveniristico per lui era scrivere editoriali molto molto complessi per «Il Giorno» (ne stava correggendo uno, in auto, anche la mattina in cui fu rapito). Tutto ciò — sosteneva Mosse — nel momento in cui, per vincere la sfida dei movimenti antidemocratici, gli uomini politici avrebbero dovuto imparare a usare miti, simboli, riti collettivi, ogni strumento della moderna comunicazione di massa. Anche se in questo Mosse intravedeva alcuni pericoli: «Nel destino di Moro si prefigurava il paradosso della democrazia parlamentare… se si vuole essere uno statista bisogna essere in una certa misura un capo carismatico, bisogna fare appello, a seconda dei casi, al sentimento nazionale e ad altre passioni, per condurre la gente verso nuove mete». Nella consapevolezza che «se si fa tutto ciò, si corre il rischio di trasformare il sistema in una dittatura». Moro in ogni caso si rifiutò di far propri questi nuovi modelli. Ai quali invece si adattò — in una certa misura — Berlinguer. E dagli «appunti» di un collaboratore di Moro, Andrea Negrotto di Cambiano, si è appreso che, anche per questo, il leader democristiano considerò quello comunista «non dotato, purtroppo, di quella vera grande visione politica» di cui era accreditato; al più «un grande tattico, capace di sfruttare con abilità le situazioni contingenti». È solo per motivi «di propaganda e apologetici», conclude Mastrogregori, che ci si è poi concentrati sulla figura di Moro come «tessitore di un accordo con il Pci». In realtà «egli fu, negli ultimi due anni della sua vita, più il negoziatore di una tregua armata — non solo metaforicamente — che non il creatore di nuovi equilibri sul punto di realizzarsi». Un giudizio in controtendenza.
I due prigionieri. Gramsci, Moro e la storia del Novecento italiano. Massimo Mastrogregori. Anno 2008 Editore Marietti. Quelle di Gramsci e di Moro sono due storie diverse: un comunista e un cristiano; un rivoluzionario sconfitto e un democratico che guida il partito al governo da trent’anni; due tempi diversi; due mondi diversi. Ma analogie e comparazioni possono aiutarci a vedere cose nuove, rivelano connessioni nascoste. La luce proiettata su una storia si riflette sull’altra, le due esperienze si illuminano a vicenda. Questo saggio di storia comparata le racconta entrambe, come due vite parallele. Dei due prigionieri offre un ritratto, un’analisi del contesto storico e un’interpretazione dei testi che scrissero nel carcere: Quaderni e lettere di Gramsci, Memoriale e lettere di Moro. Sollecitati dalle questioni fatte filtrare abilmente da compagni di partito e dai familiari o nel dialogo drammatico con i carcerieri-inquisitori, i due prigionieri scrivono lettere, appunti e "memoriali" in cui cercano di interpretare e risolvere la situazione tragica che si è creata. Così, nelle dure condizioni di prigionia, prosegue la loro riflessione sulle crisi del Novecento italiano – il fascismo, la rivoluzione, il comunismo, la democrazia. E diventa, per certi versi, addirittura più acuta.
Nuovi studi sul sequestro Moro, a cura di Massimo Mastrogregori, con Contributi di M. Mastrogregori, F. M. Biscione, M. Napolitano, P. Varvaro, 2010, pp. 308, figure in bianco/nero e a colori n.t. Fabrizio Serra editore. «Nell'archivio del tribunale penale di Roma è conservata la lettera che Moro indirizzò dal carcere del popolo, alla fine di aprile 1978, al partito della Democrazia cristiana. L'originale è riprodotto in facsimile alla fine di questo saggio. Qui la trascrivo, foglio per foglio, non solo per consentire a chi dovesse leggere di farsi un'idea del suo contenuto, ma anche per far vedere che essa è stata scritta dall'ostaggio con penne di colore diverso, blu e nera ...Forse tutte le storie sono complicate, ma questa del sequestro di Aldo Moro e di ciò che scrisse nel covo brigatista lo è in modo speciale ... Sono a metà di un lavoro su queste carte, che dura ormai da qualche anno. Confesso che i punti interrogativi sono parecchi. Questo però non vuol dire che non si possano proporre elementi nuovi: vedrete che proprio l'osservazione di questo singolare documento in due colori potrà condurre a qualche risultato nell'interpretazione di alcuni punti di questa vicenda. Si tratta delle carte, quindi delle lettere di Aldo Moro, soprattutto, e del cosiddetto memoriale, indirettamente ma si tratta anche, più in generale, del sequestro. Il modo in cui leggiamo questi scritti e ne ricostruiamo la storia dipende, strettamente, anche dall'interpretazione data al sequestro. Perché di questa storia sappiamo tante cose, nel senso che sono disponibili molte testimonianze e osservazioni di imputati, detenuti, poliziotti, giudici, giornalisti, studiosi eppure resta la sensazione che lettere e memoriale siano documenti sfuggenti, elusivi ... In realtà, la storia di Moro è interessante perché è un po’ il paradigma di una grande storia. Perché molti ancora continuano a scavare in queste vicende e ogni anno il discorso sembra ricominciare da capo, in un modo che a qualcuno specie all'estero potrebbe sembrare irritante? Forse perché è stata un'operazione terroristica, nella quale alcuni elementi d'incertezza, o controversia, si sono aggiunti all'oscurità e segretezza, di moventi e obiettivi, che sono proprie delle operazioni terroristiche ... Ma anche perché abbiamo la sensazione che si sia sollevato, con quell'episodio, per un momento, un velo: è successo qualcosa che potrebbe dirci molto sulla storia italiana più profonda» (Massimo Mastrogregori)
La lettera blu: Le Brigate rosse, il sequestro Moro e la costruzione dell’ostaggio. La morte di Moro è sempre stata rievocata entro uno schema cromatico che poneva in conflitto il rosso delle brigate e il nero delle stragi e dei servizi deviati. Era come se non si potesse prescindere dai termini di una lunga guerra civile nazionale, mai completamente risoltasi. Questo libro, invece, ci parla di quel la guerra con una lingua compiutamente post-bellica. Il Moro di Mastrogregori – certo, nelle condizioni disperate nelle quali si trovò costretto negli ultimi giorni della sua esistenza – restò politicamente lucido, combattivo nei confronti dei suoi nemici, impegnato a costruire il terreno di un dialogo tra tutte le parti. Anzi, l’analisi filologica delle lettere – dove questa volta è il blu dell’inchiostro a guidare l’attenzione del ricercatore – sembra suggerire una chiave di lettura assolutamente originale. Insomma, il leader cattolico non si arrendeva affatto ai carcerieri, non ne propugnava il riconoscimento politico, ma recitava una parte, metteva in scena un personaggio, collaborava alla costruzione di se stesso come ostaggio, «accettando di pagare un prezzo per questo (dare corpo alla propaganda terroristica)». Sicché, se il rosso e il nero erano i colori con i quali poteva essere descritta la vittima-martire, il blu della lettera di Moro sembra raccontare la vicenda di un politico che non si arrese mai a un destino già scritto, perché voleva «assolutamente tornare libero […] perché non sopportava di non poter camminare».
Recensione di Michelangela Di Giacomo. Massimo Mastrogregori, La lettera blu. Le Brigate Rosse, il sequestro Moro e la costruzione dell’ostaggio. Ediesse, Roma, 2012. Massimo Mastrogregori torna in questo suo ultimo lavoro a riflettere su un tema a lui già caro da qualche anno: gli scritti del sequestro Moro. Dopo aver analizzato il “memoriale”, si sofferma ora su “la lettera blu”, la lettera che Moro indirizzò al partito della Democrazia Cristiana alla fine di aprile del 1978, scritta con due inchiostri, nero e, appunto, blu. Il testo della lettera è oggetto ma soprattutto strumento dell’autore per costruire un percorso di ragionamento, accompagnando il lettore in un crescendo logico da alcune “deduzioni preliminari” fino ad una conclusione chiara e strutturata. Un percorso maieutico che l’autore conduce non per, ma con il lettore, evidente riverbero dell’originale esperienza seminariale dalla quale il libro nasce. L’Aldo Moro di cui parla Mastrogregori è uno dei protagonisti di una recita collettiva, condivisa da lui stesso, dalle Br, dai suoi collaboratori e familiari e dall’apparato pubblico. Una recita il cui risultato è un corpus di lettere, in cui è evidente la parte di ciascuno. Mastrogregori non si lascia ingannare dal tentativo tutto filologico dell’identificare nella lettera le parti ascrivibili a ciascuno di quegli attori, ma la usa da storico, come banco di prova della sua teoria della “costruzione dell’ostaggio”, una teoria in cui la domanda ricorrente è “perché Moro scrive? Perché si presta a interpretare un ruolo?”. Il punto dunque è abbandonare la falsa questione dell’autenticità dei suoi messaggi – e le tre immagini che da quella discussione si sono create di Moro: quella dei brigatisti che ne attestavano la veridicità; quella della scena pubblica che sminuiva il personaggio; e soprattutto quella della famiglia e di alcune interpretazioni successive al sequestro che lo trasformano in una vittima. Il libro spiega come viene costruita la prima immagine, accenna alla costruzione della seconda e per conseguenza smonta la terza. Il tentativo riesce, pur con una certa complessità – stilistica e costruttiva – che tuttavia rispecchia la complessità dell’oggetto preso in considerazione. Complessità che lo stesso autore non manca di sottolineare a più riprese e che non deve essere mai persa di vista al momento di avvicinarsi agli studi sul sequestro Moro – una dicotomia tra troppo e troppo poco, in cui anche il pieno lascia lo storico perplesso sulla possibilità di considerarlo attendibile e in cui molto è lasciato all’esigenza di immaginare. Mastrogregori immagina molto, rende il testo intrigante calandosi nel personaggio, schizzando le sensazioni che Moro deve aver vissuto dalla violenza del sequestro al vedersi costretto ad abbandonare il se stesso persona fuori dalla cella per entrare nel se stesso personaggio. E allora la spiegazione del perché Moro scrive diventa più chiara e si lega alla duplicità di una persona che non ha cessato di esistere pur nella scelta di accettare il personaggio che poi scrive: chiuso nel covo dei terroristi, scrive perché fare politica è stato il suo mestiere, una parte importante della sua vita, e gli viene naturale continuare a farla, anche in quella situazione inimmaginabile e disperata. Ma anche perché vuole assolutamente tornare libero, per fare tante cose: per esempio, perché non sopportava di non poter camminare. (p. 129) Nella duplicità politica-persona risiede la “convenzionalità” dei suoi argomenti, che l’autore interessantemente definisce come il frutto di un complesso equilibrio tra il personaggio sequestrato e l’espressione di sentimenti propri della persona Aldo Moro. Convenzionale in quanto piegato dalla situazione, non in quanto asettico. L’autore non manca di considerare il punto di vista dall’esterno della cella – di chi a quella recita ha partecipato contribuendo a costruirne una scenografia tanto adeguata quanto ingannevole: la scena di una Repubblica da difendere, quella stessa Repubblica accusata pubblicamente da più parti in quello stesso periodo. Né manca di sottolineare un aspetto indispensabile per capire gli scritti dei 55 giorni: il fatto che siano alla fine di un trentennio, politico ed umano. Giusto dunque sottolineare la lunga permanenza di Moro sotto scorta, la sua preoccupazione per le eventuali ricadute internazionali dell’instabilità italiana, il suo sotterraneo e incessante lavorio per promuovere nuovi equilibri. Il volume risulta dunque agile ma denso. Denso per la ricchissima bibliografia (36 pagine di apparato critico, oltre che la riproduzione fotografica della lettera e la sua trascrizione) e per essere un condensato di un discorso che sicuramente nella riflessione dell’autore è molto più vasto, come plausibilmente emergerà dai prossimi lavori che egli stesso annuncia a conclusione del volume. Un utile tassello, dunque, per contribuire ad un approccio storico alla vicenda Moro, un approccio che deve crearsi un proprio spazio dissipando l’eccesso di opinioni, studi, ricostruzioni che si sono negli anni accumulate intorno a quella vicenda da prospettive giudiziarie, giornalistiche, memorialistiche e politiche.
ALDO MORO. LA STORIA VA RISCRITTA.
Chi e perché ha ucciso Aldo Moro? Scrive Federica Squillante il 12 giugno 2016 “Zerottonove”. Si è tenuto stamane a Sarno un incontro con l’Onorevole Gero Grasso che ha discusso a lungo sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Questa mattina presso il Green Bar di Sarno si è tenuto un incontro con l’Onorevole Gero Grassi, Vicepresidente gruppo PD Camera dei Deputati e Componente della Commissione d’Inchiesta sul caso di Aldo Moro. L’evento è stato coordinato da Antonio Orza ed erano presenti anche il Sindaco Giuseppe Canfora, il Segretario Provinciale PD Nicola Landolfi ed il Segretario Cittadino PD Domenico Manzo. Il Sindaco Canfora ha inaugurato l’incontro con i saluti istituzionali, durante i quali ha dichiarato: “La verità è senza sé e senza ma”, ricordando il grande lavoro svolto da Aldo Moro per la realizzazione del Compromesso storico. L’Onorevole Grassi ha dato il via al suo intervento annunciando che quello di oggi era il suo 299° incontro in 2 anni per diffondere la verità sul caso Moro. L’Onorevole ha poi proseguito illustrando i numerosi retroscena che hanno portato al rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana il 16 marzo del 1978 e al suo omicidio il 9 maggio dello stesso anno dopo 55 giorni di prigionia. Infatti, Gero Grassi lavora ormai da anni nella Commissione e sul suo sito è possibile consultare tutti i documenti da lui rintracciati e che vanno a testimoniare i numerosi rapporti fra CIA, GLADIO, Carabinieri e molti esponenti politici. Durante il suo intervento l’Onorevole ha più volte ricordato anche le grandi iniziative portate avanti da Aldo Moro, a cominciare dal suo accordo col Direttore della RAI negli anni ’50 per dare forma al programma tv “Non è mai troppo tardi” che contribuì a far diminuire l’analfabetismo nei suoi 20 anni di messa in onda. Grassi ha anche raccontato le diverse minacce e pericoli che negli anni Moro subì, a cominciare dal “Piano Solo” del 1963 durante il quale i Carabinieri volevano rapirlo e ucciderlo fino ad arrivare agli scontri con Henry Kissinger, il Segretario di Stato degli Stati Uniti. Il “Caso Frizz”, come le Brigate Rosse usavano definirlo a causa del ciuffo di capelli bianchi del Presidente Democristiano, si concluse in soli 3 minuti durante i quali Aldo Moro fu rapito in Via Fani, a Roma. Dalle indagini svolte dall’Onorevole sono emersi inoltre diversi rapporti tra la Mafia siciliana, la Banda della Magliana, le Brigate Rosse e diversi politici di alto rango come Giulio Andreotti e l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, che si dimise subito dopo la morte di Aldo Moro. Grassi ha poi concluso il suo intervento ricordando anche la morte del giornalista Peppino Impastato, avvenuta a Palermo lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Moro. La sua ricerca della verità su quello che sarebbe stato di certo il successivo Presidente della Repubblica Italiana non è però conclusa, essendoci ancora diversi aspetti da analizzare. L’Onorevole continuerà infatti il suo viaggio in giro per l’Italia per istruire soprattutto i più giovani su queste oscure vicende della Prima Repubblica del nostro Paese.
Quelle due nuove perizie che riaprono il caso Moro. Grassi: cambiano ora e sequenza dell'omicidio del presidente, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 12 giugno 2016. «Il libro “Morte di un Presidente”, scritto dal giornalista Paolo Cucchiarelli, contiene tra l’altro due perizie depositate in Commissione Moro/2 insieme a tante novità: quella balistica del perito Gianluca Bordin e quella medica del prof. Alberto Bellocco, relative al decesso di Aldo Moro. Contengono rivoluzionarie verità a suffragio di alcune tesi da noi pubblicamente sostenute nel tempo», è quanto afferma Gero Grassi, vicepresidente del Gruppo Pd alla Camera e componente commissione d’inchiesta. Bellocco e Bordin provano che l’ora del decesso, a differenza di quanto sostenuto dai brigatisti e dalla perizia dell’epoca, è riconducibile alle 4,35 del 9 maggio 1978. Per quanto attiene la direzione dei proiettili, si dimostra che lo sparatore è accanto al conducente dell’auto e che Moro è seduto dietro il conducente. «E’ impossibile - dice Grassi - che il Presidente Moro sia sdraiato nel bagagliaio, come sostengo da oltre due anni, in quanto sono presenti tracce ematiche sul lato interno del finestrino laterale posteriore sinistro e sul tettuccio interno, a livello del sedile posteriore dell’autoveicolo. Analogamente è inspiegabile il ritrovamento sul corpo di Moro, tra la camicia ed il gilet, di fazzoletti di carta, atti a tamponare la fuoriuscita di sangue. Esiste una assoluta discrepanza tra i fori di ingresso e i proiettili usciti o ritenuti. Se ne deduce che i colpi non furono 11, come sostenuto da tutti sinora, ma 12 e che il dodicesimo colpo potrebbe trovarsi ancora nel corpo di Moro. Un accertamento che può essere effettuato semplicemente da un esame radiografico che al tempo fu realizzato, ma che non risulta agli atti». Le armi che hanno sparato sono una pistola mitragliatrice cecoslovacca Skorpion ed una pistola Walther PPK/S. «All’epoca - denuncia il parlamentare - non fu realizzata una perizia comparativa rigorosa fra i reperti rinvenuti sulla scena del crimine ed i test sparati dalle armi. Resta il dubbio che le armi individuate come reali siano state veramente quelle utilizzate per sparare». Le sequenze di sparo sono tre. Il presidente Moro fu colpito da due distinte sequenze a colpo singolo: 4 colpi e poi ancora 4 colpi sparati con la mitraglietta. Poi colpi singoli, tre con la Skorpion ed uno con la pistola Browning. I reperti balistici rinvenuti sulla scena del crimine e dopo l’autopsia sono questi: 9 bossoli ed 11 proiettili. Mancano 3 bossoli ed un proiettile. Secondo Grassi, «la piantina della vettura con la dislocazione dei reperti è errata. La perizia dell’epoca riporta in posizione errata 7 reperti su 10 e gli stessi periti parlano di depistaggio. La ubicazione nella parte anteriore dell’auto dei bossoli 7,65, sparati dalla Skorpion non è logica e provata. Il corpo di Moro non può, in base alle perizie, essere attinto dai colpi nella posizione in cui è ritrovato nel bagagliaio. Moro è in posizione diversa rispetto a quanto detto dalle perizie dell’epoca, il suo corpo è stato spostato almeno due volte. L’arma che uccide Moro ha il silenziatore ed i brigatisti non sanno dire il numero esatto dei colpi silenziati sparati. Moro dopo la sparatoria si accascia sul suo fianco destro. A questo punto, ancora vivo è tirato fuori dall’abitacolo e spostato nel cofano. Nello spostamento dal corpo cadono evidenti macchie di sangue, ancora oggi visibili sul paraurti della Renault 4». In base a questa ricostruzione «Moro vivo è disteso nel cofano della Renault ed avvolto in una coperta. Continuano i colpi: altri due, uno dalla mitraglietta Skorpion e l’altro dalla Browning. Il libro di Cucchiarelli racconta tante altre cose terribili ma possibili. Qui ci preme sottolineare ancora alcune osservazioni. Come mai in tanti si sforzano di spiegarci da tempo che sull’eccidio di via Fani e sull’omicidio Moro si sa tutto? Lo fanno molti dei protagonisti e quindi difendono la verità o le proprie inadempienze e le proprie complicità?». Le perizie di Bordin e Bellocco ed il lavoro di ricostruzione di Cucchiarelli evidenziano ancora una volta le «bugie delle Brigate Rosse che non riescono nemmeno a raccontare la verità sull’omicidio. Vuoi vedere - ipotizza Gero Grassi - che ha ragione Ettore Bernabei, mitico presidente della Rai, quando pubblicamente afferma che “quei quattro straccioni delle brigate rosse non sono stati i protagonisti del caso Moro”. Oppure ha ragione il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro quando il 25 maggio 1998, all’Università di Bari e il 19 giugno 1998 alla Commissione Stragi, sostiene che “Gli uomini delle BR non furono altro che colonnelli e non strateghi dell’Antistato”».
La verità sulla strategia che volle Moro morto. "Morte di un Presidente", il libro del giornalista investigativo Paolo Cucchiarelli, esperto di trame e stragi. Il libro di Paolo Cucchiarelli riapre il "mistero" irrisolto del sequestro e l'omicidio dell'onorevole Aldo Moro. Attraverso l'incrocio di dati testuali, fattuali e storici e con il supporto delle evidenze fotografiche spesso inedite, il libro disegna una nuova unitaria cornice di quei 55 giorni di terrore. Il ruolo dell' "Amerikano", scrive Simona Zecchi il 10 giugno 2016 su “La Voce di New York”. Intendiamoci. Le inchieste giornalistiche che ricostruiscono il “caso Moro” a oggi sono tantissime, molte di queste sono dettagliate e forniscono tante risposte a svariati interrogativi. La Voce di New York da par suo ha seguito in particolare attraverso una sua inchiesta specifica, e continua a farlo, il filone riguardante la presenza della ‘Ndrangheta in Via Fani il giorno del sequestro, e l’eventuale supporto dato al commando BR quel mattino quando la scorta del Presidente della Dc fu eliminata: una strage. Per questo filone la Commissione Parlamentare d’Inchiesta non ha ancora terminato le sue indagini. Ciò che mancava, invece, era un quadro unitario che insieme a una minuziosa e convincente spiegazione sulle modalità, il “come”, l’onorevole Dc Aldo Moro è stato davvero ucciso, consegnasse all’opinione pubblica, alla storia e, volendo, anche all’autorità giudiziaria una risposta univoca sulla cornice in cui maturarono le cose. La minuziosa ricostruzione presente in Morte di un Presidente, il libro di Paolo Cucchiarelli (Ponte alla Grazie, 2016) in libreria dal 9 giugno, è avvalorata dal supporto di un perito balistico Gianluca Bordin e un medico legale Alberto Bellocco. La nuova cornice che ci viene consegnata sembra dunque il risultato di un processo complesso in cui diversi elementi hanno concorso non per caso a una risoluzione tragica e finale. Una strategia, come ha rivelato Steve Pieczenik “l’Amerikano”, fatta convergere verso un’unica direzione, una trappola per le stesse BR. In mezzo, un tentato golpe della P2 e dell’estrema destra avuto luogo nel 1977, che nel libro per la prima volta viene rivelato, a fare da traino. Ma le novità di questa inchiesta, accompagnate da fotografie che ne mostrano la valenza, sono plurime. Qui ne indichiamo solo alcune:
– le innumerevoli tracce di sabbia e tessuto, tra le altre, attraverso le quali l’autore dimostra quali e quante sono state le vere “prigioni” di Moro contrariamente alla storiografia ufficiale e alle bugie delle BR: ben cinque.
– la modalità e il vero luogo ove fu ucciso Moro – poi condotto in Via Caetani – e le anomalie del pollice sinistro trapassato da un proiettile, non mostrato in nessuna perizia, che smontano la dinamica sin qui riferita sul momento dell’uccisione;
– la coperta non bucata (!) con la quale fu celato Moro – secondo i BR – prima di ucciderlo;
– la posizione in cui Moro si trovava quando il suo corpo fu rinvenuto nel bagagliaio della Renault4 (destra) opposta a quella da cui arrivarono i colpi (lato sinistro). Come si vede nella foto sopra.
E ancora tanti altri i nuovi elementi presenti, non solo di tipo criminale-giudiziario ma anche storico-fattuali. Ma intanto il lettore e tanti altri esperti, e appassionati si chiederanno: perché dopo tanti anni (38) indugiare ancora sui dettagli, sulle dinamiche della prigionia, sulle parole di Moro (che qui acquisiscono una lettura tutta nuova), sui proiettili, sulle contraddizioni che hanno trafitto i cinquantacinque giorni del sequestro? Perché dunque, se ben 5 processi e diverse commissioni d’inchiesta inclusa l’ultima, e non solo quelle dedicate espressamente al caso, se ne sono occupati? Come in tanti altri casi irrisolti e cruciali della nostra Repubblica, tutte queste evidenze sono state: o non considerate, o fatte sparire o, come a volte succede, non si è avuto il coraggio da parte della magistratura e degli organi inquirenti di approfondire il vero motivo politico che sta “dietro” e avanti a tutta la vicenda partendo anche dagli elementi più “banali”: le foto del corpo che parla. Ma veniamo al cuore del nostro articolo. Nel novembre del 2014, l’allora procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, aveva chiesto alla procura della Repubblica di procedere formalmente a carico di Steve Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato Usa ai tempi del sequestro, in quanto vi erano “gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” del presidente della Democrazia cristiana. Nel 2008 Pieczenik, infatti, psichiatra esperto di tecniche di contro-terrorismo ed elemento formalmente distaccato dall’intelligence americana, ma a essa contiguo, scrive un libro con il giornalista francese Emanuel Amara “Nous avons toué Moro” che verrà preso in considerazione appunto solo nel corso del 2014. Quell’anno il magistrato Luca Palamara vola negli Usa supportato dall’amministrazione Obama, la quale impone a Pieczenik di collaborare, pena l’imputazione nel proprio paese, e lo sente come testimone dei fatti. Poi succede che questa parte d’indagine che la procura gestisce insieme a un delicato filone che dopo archivia (quello relativo alla presenza della Honda blu in Via Fani) venga avocata dalla procura generale, Ciampoli appunto. A oggi non è dato sapere cosa ne è stato di questa indagine. Già solo questi antecedenti spiegano il livello di complessità di questa vicenda ancora a 38 anni dai fatti e anche quanto sia tuttoggi ostacolato il percorso verso la verità. Chi scrive inoltre aveva fatto richiesta tramite Foia – Freedom of information act – (in foto qui è visibile il timbro Cia a risposta) di desecretare la documentazione che appariva sotto chiave su Cia e caso Moro. Si trattava di un articolo del Washington Post del 29 maggio 1978 che riguardava proprio Pieczenik, su cui torneremo dopo. Articolo fino a poco tempo fa non disponibile on line. Lo è ora (ndr più avanti ne spiegheremo la rilevanza) e certo non sarà l’unica cosa secretata ma questo è quanto ci hanno risposto. Paolo Cucchiarelli nella sua inchiesta dedica un intero capitolo al solerte funzionario americano dal titolo “L’Amerikano e il Grande vecchio” e ci svela i nuovi elementi che hanno retto sinora tutto l’affaire, i cui prodromi erano stati già anticipati in una intervista rilasciata al giornalista di Radio24 Gianni Minoli nel novembre del 2013, intervista interamente acquisita dalla procura. Questi i maggiori punti in essa da rilevare: “No non ero favorevole all’iniziativa del Vaticano volta a trarre fuori dal sequestro Aldo Moro attraverso il riscatto; fui proprio io a bocciarla. In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Le ripeto il punto non era Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le brigate rosse e la destabilizzazione delle BR in Italia. L’obiettivo di Moro era restare vivo e a questo scopo era pronto a minacciare lo stato il suo stesso partito e i suoi stessi amici. Quando mi resi conto (di questo ndr) dissi: “nel quadro di questa crisi quest’uomo si sta trasformando in un peso e non in un bene da salvaguardare. […] Si ho detto io a Cossiga di suggerire di screditare la posta in gioco e cioé l’ostaggio (facendo dichiarare che le lettere non erano frutto di quanto da lui realmente scritto ndr). Erano tutti convinti che se i comunisti fossero arrivati al potere e la Dc avesse perso si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione; gli USA avevano un preciso interesse per quanto riguardava la sicurezza nazionale soprattutto l’Europa del Sud. Mi dicevo “di cosa ho bisogno”? Qual è il centro di gravità che al di là di tutto sarebbe stato necessario per evitare di destabilizzare l’Italia? A mio giudizio quel centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro. L’autore mette infila queste e altre innumerevoli dichiarazioni rilasciate nel tempo da Pieczenik e nel testo ne dimostra l’estrema validità attraverso una sua indagine al netto dei giudizi che da sempre circolano sull’esperto in terrorismo. La trappola in cui caddero le BR, che se avessero liberato Moro ne avrebbero guadagnato politicamente (ed era ciò che più di tutto Pieczenik temeva) ricade nello schema più ampio detto dell’ “omicidio derivativo”, termine utilizzato anche nelle indagini sull’omicidio del funzionario Luigi Calabresi avvenuto il 17 maggio 1972 (indagini di recente dato temporale, cadute nel buco nero del segreto istruttorio di cui più nulla si è saputo, sui reali motivi che l’avrebbero portato alla morte) in un rapporto del Ros del 24/11/2000 presente negli atti sulla strage di Brescia del 1974: un omicidio cioè voluto da terzi che costringe tutti, mandanti ed esecutori, ad agire verso un unico risultato, costruendo così attraverso una serie di fitte azioni e concause un intrico il cui bandolo diventa quasi impossibile sciogliere. E’ una tecnica di contro-terrorismo dunque utilizzata in questo paese non solo nel caso Moro all’interno di schemi precisi, adottata da “terzi” alla cui macabra risoluzione però il nostro Stato si è piegato. I nostri servizi segreti al tempo del sequestro Moro si trovavano in un momento di riorganizzazione delicato: il SID stava per lasciare il posto al Sismi e Sisde in una ventata di riforma che porterà ad altri scandali e abusi. Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si ritrovava sguarnito e indebolito dallo scioglimento del suo gruppo di antiterrorismo e l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga aveva chiesto alla Cia attraverso il Cesis di aiutare l’Italia ad affrontare quel grave momento di crisi. La Cia (ed è questo che l’articolo del WP rivela) non potendo ufficialmente dare man forte a causa della legge imposta dal Congresso americano del 30 dicembre 1974 che impediva “ogni possibile operazione undercover in territori stranieri” manda l’Amerikano, un loro esterno, ma contiguo, affidandogli l’intera operazione: che è come dire la stessa cosa. L’inchiesta rivela poi che l’esperto americano in realtà rimane per l’intero arco del sequestro fino a dopo la morte, contrariamente a quanto da lui stesso comunque riferito nell’arco degli anni. E’ Pieczenik che scopre “il Grande Vecchio” nascosto dietro le BR, sostiene il giornalista Cucchiarelli attraverso le sue parole. Non un personaggio singolo (materia questa buona per le fiction) ma un gruppo di intellettuali che gestisce e media con lui le operazioni. L’analista utilizza, nel tempo, come è proprio di questi schemi che si perpetrano, verità e falsità insieme, in modo che l’intero quadro poi non si veda ma la forza della inchiesta giornalistica è quella di renderle tutte in chiaro. Sono diverse le novità che caratterizzano la funzione di questo personaggio le quali si intersecano con tutto ciò che non è stato possibile spiegare sino a ora su Via Fani (l’agguato e la strage e gli eventi che l’avevano prevista) e Via Cateani (la morte). Un quadro che finalmente il lettore potrà approfondire insieme a tante altre scoperte presenti nel libro Morte di un Presidente di Ponte alle Grazie. Verità che né lo Stato né le Br hanno potuto mai raccontare sulla prigionia e la morte di Aldo Moro.
Delitto Moro: il corpo trascinato più volte. Nuova verità choc. La maglietta mostra due sgocciolature di sangue; il corpo non è stato sempre riverso nel bagagliaio, scrive Patrizio J. Macci il 9 giugno 2016 su “Affari Italiani”. Cancellate la sequenza di Aldo Moro ucciso da due terroristi delle Brigate Rosse in un garage, la mattina del 9 maggio 1978 all'interno del portabagagli di una Renault 4 di colore rosso e con targa falsa. Dimenticate la mitraglietta Skorpion ritrovata sotto il letto di un terrorista a Roma in Viale Giulio Cesare. Dimenticate anche l'ora della spietata esecuzione perché non è nell'intervallo di tempo che è stato sempre dato per certo. Dimenticate i colpi sparati verso il corpo di Moro mentre è avvolto in una coperta. I documenti giudiziari delle indagini sottoposti a un'analisi incrociata rivelano una dinamica diversa. Completamente divergente dalla "verità ufficiale" e che non è mai stata raccontata dallo Stato e neanche dalle Brigate Rosse fino ad oggi. La ricostruzione dei fatti divulgata è peggiore del lavoro svolto dalla Commissione Warren che si occupò dell'omicidio di John Fitzgerald Kennedy. Sottoposte al vaglio di un'accurata analisi critica le tessere del puzzle non combaciano. I primi a chiedere rigore nelle indagini erano stati proprio i terroristi Morucci e Faranda nel 1980, chiedendo una nuova perizia sulle armi usate per l'esecuzione. La loro richiesta rimase inascoltata, nessuno ha mai saputo il perché. A far parlare le carte del Caso Moro (e solo quelle, senza dietrologie e fiction di alcun genere) è Paolo Cucchiarelli, giornalista d'inchiesta romano che ha riversato il frutto di dieci anni di indagine in un volume zeppo di documenti con indice dei nomi "Morte di un presidente" (Ponte alle Grazie Editore). Per la prima volta il focus dell'inchiesta giornalistica non è il momento del sequestro ma l'esecuzione dell'Onorevole Aldo Moro, i luoghi nei quali è stato rinchiuso durante la prigionia e le armi usate dai terroristi per uccidere il Presidente. Avvalendosi della consulenza del perito balistico Gianluca Bordin e del professor Alberto Bellocco Cucchiarelli ha vagliato migliaia di pagine di perizie, analisi e documenti giudiziari. Moro è stato ucciso con una modalità che non ha nulla a che vedere con quanto riportato nei diversi processi e nelle commissioni parlamentari che si sono occupate del caso. Le perizie sono state lacunose, pasticciate e imprecise. I reperti alterati in maniera irreversibile senza che ce ne fosse una motivazione. I documenti presenti all'interno del volume parlano chiaro: le due armi poi sequestrate coincidono per marca e modello con quelle utilizzate, ma non vi è alcun riscontro scientifico che siano "quella" mitraglietta e "quella" pistola. Bastava osservare le foto dell'epoca per averne la certezza. La maglietta che Moro indossava sotto la camicia mostra due sgocciolature di sangue distinte, non una macchia univoca. Indice che il corpo non è stato sempre riverso nel bagagliaio ma spostato più di una volta. La fine di Moro coincide con un'operazione di rimozione di elementi fondamentali del Caso che non dovevano essere divulgati all'epoca nè mai. La lettura in sequenza delle carte fa emergere un altro finale. Per arrivare a queste conclusioni bastava utilizzare il metodo usato per analizzare il più banale degli accadimenti: il nesso causale tra il rovesciamento di un bicchiere sul tavolo e la fuoriuscita del liquido in esso contenuto. L'intera vicenda è da riscrivere, i corpi del reato dovrebbero essere prelevati dal magazzino polveroso dove giacciono e sottoposti a nuove analisi, i testimoni dell'epoca ancora in vita interrogati sulle loro dichiarazioni. I due casi giudiziari sui quali non ci si deve mai stancare di chiedere verità a squarciagola sono l'omicidio di Aldo Moro e quello di Pier Paolo Pasolini, legati a doppio filo. Capri espiatori che hanno pagato con le proprie vite le rispettive eresie. Il volume è uno squarcio di verità in quasi quarant'anni di nebbia impenetrabile su quanto accaduto in quei cinquantacinque giorni del 1978.
Moro, gli indizi che smontano il racconto delle Br. La nicotina in corpo. La ferita alla mano. E quei granelli di sabbia sui vestiti. Un'inchiesta di Cucchiarelli smentisce le Brigate rosse, scrive Fabrizio Colarieti il 9 Giugno 2016 su “Lettera 43”. Si tratta di dettagli nascosti, elementi rimasti sotto la superficie, solo in apparenza marginali, che sollevano nuovi interrogativi sul sequestro e sull'omicidio di Aldo Moro. E raccontano un’altra storia rispetto a quella narrata finora dai brigatisti, ma anche dai rappresentanti dello Stato. Dare una risposta alle tante domande su quanto avvenne nel tempo trascorso tra la strage di via Fani del 16 marzo 1978, la prigionia nel covo di via Montalcini e il ritrovamento del corpo del presidente Moro, in via Caetani, il 9 maggio successivo, è l’obiettivo delle indagini che sta conducendo, da quasi due anni, la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Beppe Fioroni. Per cogliere quell’«evidenza invisibile», di cui aveva parlato Leonardo Sciascia già nell’agosto del 1978, Paolo Cucchiarelli, giornalista dell’Ansa, nel libro Morte di un presidente (Ponte alle Grazie), propone una minuziosa ricostruzione fondata sull’analisi dei tanti indizi materiali. Che Lettera43.it è in grado di anticipare. Un lavoro che disegna una trama complessa, ma capace di demolire il castello di bugie e contraddizioni che negli anni ha reso impossibile l’accertamento della verità, fuori e dentro i tribunali. Ciò che fino a oggi sembrava incomprensibile o caotico – le allusioni delle lettere di Moro dalla “prigione del popolo”, il comportamento paradossale dei suoi carcerieri, le oscillazioni dei politici, il coinvolgimento del Vaticano, della malavita organizzata, di Gladio, della P2, dei servizi segreti statunitensi, e soprattutto l’identità di chi uccise il presidente della Democrazia cristiana – appare così dotato di saldatura logica. Piccoli elementi, in alcuni casi inediti, in altri già noti ma su cui nessuno prima aveva ragionato, assumono un altro significato. Come i granelli di sabbia marina del tratto tra Focene e Palidoro, ma anche di Fregene, che furono trovati sul telone cerato che accolse il corpo di Moro in via Caetani, nel risvolto dei pantaloni, sulle suole delle scarpe (proveniente da due luoghi diversi), sui parafanghi della R4, sul cappotto e la giacca del presidente. Durante l’autopsia i medici trovarono tracce di sabbia anche su un calzino che, con ogni probabilità, si era depositata per contatto diretto. E c’era salsedine sul colletto della camicia di Moro e sui proiettili utilizzati per ucciderlo. E sul corpo c’erano anche un capolino, una spighetta, foglie di Bosso, peli di cane e alcuni capelli rossi di una donna. Sempre sulle suole fu evidenziata anche la presenza di bitume fresco utilizzato per il lavaggio al largo delle cisterne delle petroliere e di materiale polimerico termoindurente, di solito usato per riparare le barche di resina, per contrastare la presenza della salsedine in piccoli ambienti, tipo rimesse, cantieri e stabilimenti balneari. L'attenzione sulla costa romana, come possibile ultima prigione, prima dell'uccisione a Roma, fu immediata, ma con il tempo passò in secondo piano. L'ipotesi, in base a incroci documentali, testimoniali e fattuali, è che Moro sia stato tenuto, poco prima di essere portato a Roma, in uno stabilimento balneare. Quelle dosi consistenti di nicotina ritrovate nel corpo di Moro. Ci sono poi piccoli e banali elementi che la vittima “racconta” con il suo corpo. È noto, ad esempio, che Moro fumasse per allentare la tensione, ma era solo un vezzo. Non si capisce, quindi, come mai nelle urine del presidente fu ritrovata, durante l'autopsia, un’alta percentuale di nicotina. Un elemento, apparentemente insignificante, su cui nessuno si era mai concentrato. Sappiamo che durante quei 55 giorni il presidente fu costretto a vivere chiuso in una “prigione”, ricavata nell'appartamento di via Montalcini, lunga circa due metri e larga poco più di uno. Ed è altrettanto noto che il presidente soffrisse di claustrofobia, tanto che una volta si sentì male in un ascensore che si era bloccato. Dunque, nel luogo dove era detenuto, non solo rischiava continue crisi, ma, di certo, non avrebbe potuto fumare e assorbire un tasso così alto di nicotina. Quando il brigatista Mario Moretti, la mente del sequestro, uscì da quel tugurio dopo la prima visita a Moro, raccontò un'altra carceriera, Anna Laura Braghetti, si sfilò il passamontagna con un gesto di esasperazione perché gli sembrava di soffocare. Mezz’ora dopo il presidente ebbe la prima crisi respiratoria che spinse i brigatisti a lasciare aperta la porta per un po’ di tempo. Nessuno accenna al fatto che Moro fumasse durante la prigionia, nonostante i precisi racconti che lo mostrano immobile a leggere e scrivere per 55 giorni o ad ascoltare la messa registrata. Se questo è vero, come ha fatto il presidente a incamerare nel suo corpo tanta nicotina? La assorbì passivamente? Oppure quello non era il luogo dove fu realmente detenuto? Ma non è tutto. Il presidente, al momento del ritrovamento nel baule della R4 rossa, era steso sul fianco sinistro, la testa verso il muro di via Caetani, al quale era accostata l'auto, i piedi, in posizione innaturale, piegati verso il centro della strada. Sembra impossibile che, avendo saputo che sarebbe stato trasferito altrove in tali condizioni, possa aver accettato, anche solo per un secondo, di subire quella postura del tutto innaturale. Le foto danno l’impressione netta di una sorta di “deposizione” nel portabagagli. Da morto o agonizzante. L'espressione di un uomo che attende di essere liberato. Se è vero che tutto fu meticolosamente preparato la sera prima, dopo che la decisione di uccidere Moro era stata votata, perché i brigatisti non sgomberarono per tempo l'auto dalle catene per la neve e dal triangolo trovato sui sedili posteriori? Sembra quasi che la scelta di costringere Moro, alto un metro e settantotto, in un “loculo” largo un metro e quindici nella parte più stretta sia stata il frutto di un’emergenza, di “qualcosa” di imprevisto. Un dettaglio che non ricorda nessuno dei tre Br presenti nel garage quella mattina. Evidentemente, scrive Cucchiarelli, furono tolti dal portabagagli all’ultimo minuto, in fretta e furia, dopo che – secondo i brigatisti – a Moro, appena uscito dalla cesta di vimini, era stato detto di stringersi in quello spazio angusto. Di certo Moro ha il volto sereno; non sembra aver avuto sentore che stava per essere ucciso; non se lo aspettava. La sua espressione è quella di un uomo che attende di essere liberato. Moro fu colpito nella parte sinistra del torace, dunque in una zona ristretta. Ma se non era stato spostato dal momento dell’uccisione, perché, quando si aprì il portabagagli della R4, il suo corpo giaceva sulla sinistra mostrando il fianco destro verso il portellone e non il contrario? Come poteva essere stato colpito a sinistra, dettaglia ancora Cucchiarelli, se chi apre il portellone “vede” e potrebbe colpire solo la parte destra del corpo del presidente? I periti, al contempo, sostengono che Moro non sia stato colpito dal sedile posteriore dell’auto: quindi, come e da dove è stato colpito? C’è un altro particolare che cozza con la logica del racconto delle Br: Moro ha una ferita, ben visibile, alla mano sinistra, come se l’avesse alzata per difendere il torace dai colpi in arrivo. Un proiettile attraversò infatti il pollice sinistrò da parte a parte. Eppure, anche la mano destra è insanguinata, come se il presidente le avesse alzate entrambe per ripararsi e il sangue della mano trapassata dal colpo fosse schizzato anche sul pollice destro. Innanzitutto, la ferita sul pollice sinistro non ci dovrebbe nemmeno essere perché Moro, secondo la ricostruzione delle Br, non si rese conto che stava per essere ucciso e non era certo in grado di percepire, da sotto la coperta stesa su di lui, la direzione da cui gli si stava per sparare. Quello rimasto impresso sulle due mani è un gesto naturale, istintivo, possibile solo, però, se Moro avesse avuto il viso scoperto, se avesse visto cosa gli stava per accadere e da dove proveniva la minaccia. Inoltre, perché alzare anche la mano destra se a essere colpito fu il lato sinistro del corpo? Moro si è forse piegato e girato di poco verso la sua destra come per “parare un colpo” che stava giungendo, indirizzato verso l’emitorace sinistro, con una inclinazione leggermente dal basso verso l’alto? Ha chiuso le mani “a conchiglia”, alzandole, per difendere il cuore dai proiettili in un istintivo gesto di protezione?
Aldo Moro, “nell’autopsia la firma del killer”. La rivelazione di don Fabbri. Di fronte alla Commissione parlamentare il braccio destro dell'allora cappellano delle carceri don Cesare Curioni. Che davanti alle foto dell'esame autoptico si disse certo di riconoscere la "firma" di un ex detenuto che conosceva bene. Ma poi "fece un accordo con Andreotti" per essere tenuto fuori dal caso. Secretate le rivelazioni sui 10 miliardi di lire raccolti da Paolo VI con l'obiettivo di liberare il presidente Dc, scrive di Stefania Limiti il 4 febbraio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “Studiate l’autopsia, lì c’è la firma del killer di Aldo Moro”. L’audizione di don Fabio Fabbri, il braccio destro del cappellano delle carceri Cesare Curioni, scorreva liscia, interessante ma senza particolari novità. La trattativa voluta da Paolo VI; il misterioso intermediario, forse due, che Curioni incontrava quasi sempre a Napoli, nelle toilette della metropolitana, qualche volta andò anche al Nord; i 10 miliardi raccolti dal Papa – “non erano soldi dallo Ior, questo lo so per certo”, dice Fabbri in uno dei passaggi che fin lì si annuncia come il più intrigante, tanto che la seduta per qualche minuto viene segretata (in serata in presidente Fioroni farà sapere che Fabbri ha fornito notizie utili per identificare la provenienza di quei soldi); l’interruzione dei contatti che, per tutta la durata del sequestro furono intensi, almeno una volta alla settimana; l’agente segreto “Gino“, che lo segue durante i 55 giorni, e poi incontra anche dopo: non sa il suo nome ma dà tutte le indicazioni per rintracciarlo, “era lo zio di una donna di cui ho celebrato il matrimonio”. Ma ecco che, passata una buona oretta dall’inizio, il sacerdote fa un leggero movimento sulla sedia e dice: “A questo punto ve lo devo dire: ma l’avete guardata bene l’autopsia?”. Silenzio in sala, come si suol dire. Fabbri prende a spiegare che il primo a cui furono mandate le foto dell’autopsia, proprio appena fatta, fu proprio Curioni: “Io ero lì con lui, come sempre, le guardammo insieme, in tutto erano 5, 6, forse 8. Si vedeva in modo chiaro che sei colpi erano stati sparati attorno al cuore di Moro, fotografato separatamente. Curioni ebbe un sussulto, ‘io conosco il killer, è un professionista, quella è la sua firma”. Bisogna tener presente, per cogliere il peso di questo inedito ricordo (ebbene sì, dopo 38 anni) che monsignor Curioni conosceva molto bene il mondo dei penitenziari italiani: sin dal periodo dell’attentato a Togliatti (14 luglio 1948), aveva una intensa attività e frequentissime relazioni dentro le carceri italiane, ne respirava l’aria, conosceva bene i suoi abitanti, captava gli umori, sentiva le confidenze. Ebbene di quell’uomo, il killer di professione, si parlava nell’ambiente criminale, e le dicerie erano rimbalzate anche al suo orecchio: tra quelle più macabre c’era il particolare di quella firma, i sei colpi attorno al cuore. Curioni nel tempo aveva messo ben a fuoco l’identità di quell’inquietante personaggio perché lo aveva conosciuto in passato, quando era ancora solo un piccolo delinquente e venne portato al Beccaria, il carcere minorile di Milano. Forse negli anni aveva avuto qualche altra notizia di lui, sapeva che era stato a lungo all’estero. Fino a quel giorno in cui vede il cuore di Moro e crede di riconoscere quella firma. La scena finisce qui. L’audizione è finita. C’è una nuova pista da seguire. Ma sarà possibile trovare riscontri, fare qualche passo in avanti più concreto? Avrà mai un volto questo killer? Vedremo, forse ci saranno sviluppo investigativi. L’inchiesta va avanti, ma che amarezza quella frase del sacerdote, persa tra l’immagine di un cuore colpito a morte e quella di killer maniacale: Fabbri svela che ci fu un “successivo accordo tra Andreotti e don Cesare che aveva chiesto al presidente del Consiglio la garanzia che non sarebbe mai stato chiamato a parlare del suo coinvolgimento nel caso Moro. Una richiesta che venne accolta dal presidente Andreotti”.
La Commissione ha rinvenuto negli archivi della Polizia una relazione di Domenico Spinella, dirigente della Digos, nella quale si dà conto di un incontro riservatissimo svoltosi nello studio di Aldo Moro la sera del 15 marzo 1978 e in quella occasione il presidente della Dc fece sapere di ritenere urgente l'attivazione di “un servizio di vigilanza”.
LA MEMORIA TRADITA. Due Br in cattedra alla scuola delle toghe. Gli ex Faranda e Bonisoli invitati a un incontro sulla giustizia riparativa, scrive Marzio Laghi il 3 febbraio 2016 su “Il Tempo”. L’ex «postina» del rapimento Moro sale in cattedra. L’ex brigatista rossa Adriana Faranda è stata invitata a parlare a un corso di formazione per magistrati nella Scuola di Castelpulci a Scandicci, a Firenze, di «giustizia riparativa» e di alternative al processo e alla pena. Il corso, organizzato per la formazione e l'aggiornamento professionale dei magistrati, si svolgerà da oggi al 5 febbraio e coinvolge anche altri protagonisti della lotta armata, oltre che alcune delle vittime del terrorismo degli Anni Settanta. Con la Faranda ci dovrebbero essere Franco Bonisoli, componente del «commando» che il 16 marzo 1978 sterminò la scorta di Aldo Moro e rapì il presidente della democrazia Cristiana e si dissociò dalla lotta armata dopo la condanna, la figlia dello statista Dc Agnese Moro, il presidente del comitato delle vittime della strage di piazza della Loggia di Brescia Manlio Milani, marito di Livia Bottardi, morta nell’attentato, la figlia del sindacalista ucciso dalle Br Guido Rossa, Sabina. Quindi, i moderatori del gruppo cioé Claudia Mazzucato, il padre gesuita Guido Bertagna e il criminologo Adolfo Ceretti, docente alla Bicocca. Nella giornata di giovedì 4 febbraio è prevista una sessione sul tema: «Incontro con la giustizia riparativa: testimonianze, riflessioni, confronto», sui temi del rapporto reo-vittima; le persone offese e il processo penale; il reo, la sanzione e il reinserimento sociale. L’iniziativa ha suscitato polemiche. «Sono sorpreso, non voglio entrare nel merito dell'opportunità di invitare Adriana Faranda, perché rispetto l'autonomia della magistratura. Ma la giustizia riparativa parte dalla verità e non da bugie o da racconti verosimili - ha dichiarato il presidente della Commissione d'inchiesta sul caso Moro, Giuseppe Fioroni - Il Paese aspetta di sapere cosa accadde durante i 55 giorni e l'esatto susseguirsi degli eventi nelle ore che segnarono tragicamente la vita di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta. Verità e rispetto per la sofferenza dei familiari delle vittime: per me questi due imperativi etici vengono prima di tutto». Già il 29 gennaio Agnese Moro e Adriana Faranda si erano sedute attorno allo stesso tavolo per l'iniziativa «L'arma della riconciliazione», che si è svolta a Siracusa, al centro convegni del santuario Madonna delle Lacrime. Con loro c’era il gesuita padre Guido Bertagna, animatore di un gruppo che ha fatto fare cammini di riconciliazione tra carnefici e vittime dell'epoca del terrorismo. L'incontro si inserisce nell'ambito delle iniziative in programma nell'Anno Santo dedicato alla misericordia. «Ci chiediamo cosa significano, in concreto, nella vita delle persone credenti e non credenti, parole come misericordia, giustizia, perdono, riconciliazione - ha detto don Nisi Candido, direttore dell'Istituto superiore di scienze religiose San Metodio che organizza l'incontro come riferisce il Sir -, ma ci chiediamo soprattutto se è possibile chiedere perdono e se è davvero possibile perdonare. Adriana Faranda e Agnese Moro hanno compiuto, ciascuna in modo singolare, percorsi di vita che si sono misteriosamente intrecciati: anzitutto per via del sequestro e dell'omicidio del presidente Moro. Eventi drammatici e incancellabili nella storia personale, che segnano tra l'altro anche la storia della nostra società italiana, all'interno dei quali nasce il desiderio di una qualche riparazione del torto compiuto o di accoglienza dell'altro: così sorge una possibilità di riconciliazione».
Due ex Br alla scuola dei magistrati: scandalo? Faranda e Bonisoli avrebbero dovuto partecipare a un seminario sulla "giustizia riparativa". Polemiche. Ma è quello che hanno cercato di fare: riparare, scrive il 3 febbraio 2016 Maurizio Tortorella su “Panorama". La Scuola della magistratura ha deciso di annullare l'incontro, nell'ambito di un corso di formazione per i giudici, al quale avrebbe dovuto partecipare l'ex terrorista Adriana Faranda. Lo annuncia con un comunicato in cui definisce l'incontro stesso "inopportuno". Il Comitato direttivo della Scuola, che si è riunito oggi, "ha preso atto delle posizioni espresse, anche con dolore, da numerosi magistrati e familiari delle vittime - sottolinea la nota - sull'inopportunità di coinvolgere nella formazione della Scuola, persone condannate per gravissimi reati di terrorismo, nell'ambito del corso “Giustizia riparativa ed alternative al processo e alla pena”. Ha quindi proceduto a una nuova considerazione dell'iniziativa, interamente programmata e definita nei suoi particolari dal precedente Comitato direttivo". Adriana Faranda, 65 anni, e Franco Bonisoli, 61 anni: due ex brigatisti, ex terroristi, entrambi coinvolti nel rapimento di Aldo Moro. La prima è stata la "postina" delle Brigate rosse durante il sequestro e ha fatto 15 anni di carcere, dal 1979 al 1994; il secondo ha sparato in via Fani, poi è stato arrestato nel 1978, condannato all'ergastolo nel 1983 e attualmente è in semilibertà. Che cosa li unisce? Che entrambi si sono dissociati dal terrorismo negli anni Ottanta, durante la detenzione (e per questo hanno ottenuto benefici e sgravi di pena). Faranda si oppose anche all'omicidio di Moro e per questo uscì dalle Br per dare vita a un'altra formazione di lotta armata. L'altro elemento che mette insieme Faranda e Bonisoli è la polemica che ha accolto la notizia sulla loro presenza a un seminario organizzato dalla Scuola della magistratura di Scandicci, vicino a Firenze. Il tema del seminario è la "giustizia riparativa", quella forma di risarcimento che mette di fronte le vittime e gli autori dei reati. La polemica monta, e certo non è ingiustificata: sui giornali si leggono le proteste di figli di magistrati uccisi dai terroristi, che inevitabilmente manifestano sconcerto; alti magistrati, impegnati nell'antiterrorismo, criticano la scelta di "aprire un dialogo in una sede istituzionale con chi ha ucciso per sovvertire lo Stato e la Costituzione"; altri che "esprimono dissenso". Buonismo, perdonismo o pentitismo non fanno certamente parte del bagaglio ideale di chi scrive questa rubrica, né della tradizione di Panorama. Ma va detto che Faranda negli ultimi anni si è impegnata personalmente e con apparente onestà intellettuale in un percorso di giustizia riparatrice. Nel 2015 ha partecipato alla stesura di un saggio (Il Saggiatore editore) intitolato Il libro dell'incontro: vittime e responsabili della lotta armata a confronto. E Bonisoli, che nel 1977 aveva "gambizzato" Indro Montanelli nell'attentato milanese dei giardini di via Palestro, del giornalista divenne amico dopo avergli chiesto di perdonarlo. Altre volte si è correttamente contestata la presenza in televisione di terroristi (a volte nemmeno troppo dissociati...), non si sa perché titolati a concionare su questo o su quel tema di attualità. Questo caso, invece, pare diverso: chiedere a due ex brigatisti, impegnati in qualche modo nel tema della riparazione, di partecipare su quella materia a un seminario chiuso, specialistico, e in particolare destinato a un pubblico di magistrati, non pare né uno strafalcione istituzionale, né una provocazione, né una volgarità all'italiana. E, se pure sono più che comprensibili le sensibilità ferite di chi ha avuto un parente ucciso, la polemica non ha molte ragioni.
Vorrei che qualcuno scrivesse sulle prime pagine dei giornali il nome di colui che, nel governo italiano, incaricò, personalmente, con la sua firma, l'Avvocatura dello Stato di agire a sostegno dei generali felloni, scrive Giulietto Chiesa. I denari pubblici usati per nascondere la verità ai cittadini che avevano pagato le tasse. E, di nuovo, alti tribunali della Repubblica recepirono il messaggio mafioso e assolsero contro ogni evidenza. Io penso che un futuro governo democratico di questo paese dovrà assumersi, pubblicamente, senza equivoci, il compito di accompagnare la caccia ai colpevoli delle stragi di Stato con la caccia a coloro che, annidati come avvoltoi a diversi livelli dei gangli cruciali dello Stato, permisero loro di restare impuniti. Se si ripercorre l'intera storia della strategia della tensione: dalla bomba nera di Piazza Fontana a Milano, fino al rapimento di Aldo Moro e all'uccisione dei cinque ufficiali della sua scorta, fino ai giorni nostri, alle stragi di Via Capaci e di Via Amelio, non è difficile scorgere un filo di catrame di complicità che s'attorciglia all'interno delle magistrature che avrebbero dovuto sancire verità storiche e politiche e che, invece, le cancellarono. Certo i felloni e i criminali furono molti e, appunto, furono piazzati a diversi piani della macchina del falso che doveva cancellare il sangue. Dov'era la prigione in cui Aldo Moro rimase prigioniero? C'era, ai vertici, chi lo sapeva mentre Moro era ancora vivo, ma tacque. Chi furono, nei servizi segreti, coloro che muovevano gl'infiltrati all'interno delle Brigate Rosse? Chi diede ai capi delle BR la sede di via Gradoli? Leggo l'ultimo libro di Ferdinando Imposimato, che ripercorre criticamente tutte le indagini sulle stragi impunite per farci toccare con mano come moltissime verità essenziali fossero state scoperte da inquirenti intelligenti e onesti, per poi essere occultate, nascoste, da giudici complici. E' questa la grande indagine sulle stragi che dovrebbe essere riaperta. Da anni siamo governati da "delinquenti abituali" e meno abituali (ma non per questo meno assidui) che accusano le "toghe rosse" di avere esercitato una giustizia di parte. Ma noi vediamo – perché è ormai impossibile non vedere, perché davvero, talvolta, funziona il proverbio che dice che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, come la sentenza della Cassazione civile su Ustica dimostra - che noi siamo stati per cinquant'anni in preda alle "toghe nere". Ho detto "siamo stati"? Mi devo correggere: siamo ancora. Se ci sono voluti 33 anni per restituire un po' di giustizia agli 81 morti di Ustica, se Licio Gelli gira ancora, libero, in Italia, è perché lo siamo ancora. E' in questo groviglio di fili, in questo brodo di liquame, che la democrazia italiana è affogata. Quando, come parlamentare europeo, partecipai alla Commissione Straordinaria d'indagine sulle carceri segrete della Cia in Europa, scoprii che i servizi segreti di tutta l'Europa altro non erano che delle succursali agli ordini diretti della Cia. Questa era anche la nostra "sovranità". Il nostro servizio segreto, allora guidato da Niccolò Pollari, era in prima fila a portare il caffè ai capi d'oltre oceano. E adesso? Lo stesso giorno della notizia di Ustica i giornali italiani ci hanno fatto sapere, alla trentesima pagina, che un terzo governo italiano - dopo quello di Prodi e quello di Berlusconi è stata la volta di Mario Monti - ha confermato il segreto di stato sui documenti del sequestro di Abu Omar. Chi hanno coperto i nostri primi ministri? Segreti nostri e segreti altrui. Segreti sporchi. Questi capi di governo dovrebbero essere processati per alto tradimento degl'interessi nazionali dell'Italia. Invece due di loro ce li troviamo in lizza per il prossimo parlamento, uno dei due senatore a vita. Mandarli via tutti sarà indispensabile, ma prima li si dovrebbe chiamare a rispondere di quello che hanno fatto o hanno permesso che si facesse.
Scrive Michele Imperio su “La notte on line”. Dopo tanti anni di attività professionale ho ormai maturato la convinzione che due segmenti politici dello intero schieramento politico nazionale e precisamente la destra neofascista oggi di Mario Monti e di Gianfranco Fini ma ieri anche di altri soggetti politici e la Sinistra politica democristiana, da non confondersi con la Sinistra sociale democristiana (Cisl e vecchia corrente di Forze Nuove) e nemmeno con la sinistra morotea democristiana (Aldo Moro e Piersanti Mattarella ieri, Dario Franceschini e Giuseppe Gargani oggi) che erano e sono un’altra cosa, la Sinistra politica democristiana – dicevo – (Prodi Romano, Scalfaro Oscar Luigi, Mancino Nicola e De Mita Ciriaco ieri Renzi Matteo oggi e il loro regista di sempre De Benedetti Carlo, questi due segmenti politici – dicevo – non svolgono semplicemente un’attività politica ma esercitano anche una funzione di intelligence di tipo deviato, continua Michele Imperio. Forse dispiacerò qualcuno ma voglio ricordare a me stesso che in seguito alle indagini sulla strage di Peteano il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra - reo confesso per la strage – rivelò che nell’ormai lontano 1982 il segretario del MSI di allora Giorgio Almirante aveva fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a tal Carlo Cicuttini, dirigente del MSI friulano e coautore della strage, affinché egli modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali. Tale intervento si rendeva necessario perché Cicuttini, oltre ad aver collocato materialmente la bomba assieme a Vinciguerra, si era reso autore della telefonata che aveva attirato in trappola i poveri carabinieri, poi trucidati. La sua voce era stata identificata mediante successivo confronto con la registrazione di un comizio del MSI da lui tenuto. Che cosa avevano scoperto quei poveri carabinieri se è vero come è vero che nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione di documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao ed il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti? Ed è emblematico anche come andò la cosa. Enzo Pascoli venne condannato; Giorgio Almirante invece, dopo un’iniziale condanna, si fece più volte scudo dell’immunità parlamentare, all’epoca ancora riconosciuta a deputati e senatori, si sottrasse perfino agli interrogatori e infine si avvalse di un’amnistia grazie alla quale uscì definitivamente dal processo. Nonostante la legge ne prevedesse la rinunciabilità. Cicuttini, dirigente del MSI friulano – mai disconosciuto da Giorgio Almirante ripeto – fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell’aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato dalla Francia. Questi agenti deviati neofascisti ci sono ancora, probabilmente essi si riconoscono ora nella corrente politica di Mario Monti (che non a caso fa la guerra al partito di Gianni Alemanno, Giorgia Meloni, La Russa, Giorgio Crosetto, Adriana Poli Bortone) e sono infiltrati ovunque, nella classe politica, nei Servizi, nella Polizia, nei Carabinieri, Ovunque. Ma sono infiltrati anche e sopratutto in alcuni segmenti della Magistratura associata (Magistratura indipendente). Analogamente avviene per la Sinistra Politica Democristiana. Ricordo anche qui che quando nel 1978 la polizia stava per scoprire la prigione di Aldo Moro in via Gradoli sulla Cassia a Roma, il giovane Romano Prodi si presentò personalmente alla Polizia di Roma per depistare quelle indagini e spostare le stesse da via Gradoli in Roma in Gradoli città dell’Abruzzo, e ciò perché Aldo Moro non fosse salvato ma fosse assassinato. Dopo che qualcuno (Riccardo Misasi Sinistra D.C.?) aveva mobilitato quindici picciotti della 'nrdina calabrese dei Nirta inducendoli a portarsi il 16 maggio 1978 in via Fani il giorno del rapimento Moro pronti ad intervenire nel caso le cose non si fossero messe nel verso giusto degli stragisti. La storia di Vittorio Mangano stalliere di Silvio Berlusconi (finanza laica) negli anni 70 non viene mai raccontata mai nella sua completezza. Prima del’assunzione di Mangano come stalliere Silvio Berlusconi fece tenere negli uffici della Edilnord una riunione cui parteciparono dopo essere appositamente venuti da Palermo, Stefano Bontade e Mimmo Teresi, all’epoca numeri 1 e n. 2 di Cosa Nostra Siciliana. Costoro decisero di ingaggiare il Mangano per dare un segnale alla Ndrangheta calabrese allora eterodiretta da soggetti della Sinistra poltica democristiana (Nicola Mancino, Riccardo Misasi e company?) affinchè si comprendesse che Berlusconi fosse sotto la protezione di Cosa Nostra e quindi che i figli di Berlusconi (finanza laica) non potevano essere rapiti e sequestrati. Questo particolare però non viene mai rimarcato. Perché? Perchè altrimenti si porrebbe in modo naturale il quesito: Perché mai analoghe attenzioni non furono mai rivolte dalla Ndrangheta nei confronti dei figli di Carlo De Benedetti o dei figli o dei nipoti di Giovanni Agnelli (finanza ebrea e finanza cattolica?) Magistrati e politici dell’uno e del’altro segmento politico (Destra neofascista e Sinistra politica democristiana) hanno sempre provveduto a clamorose coperture e depistaggi. Ma per farlo essi devono poter accelerare le proprie carriere. E come accelerare le carriere di questi? Stroncando le carriere dei loro rivali! Così come certamente è stata accelerata la carriera di Marco Dinapoli, Magistratura Indipendente, attuale Procuratore Capo della Repubblica di Brindisi. Chi di noi non si è sentito inorridito dai rapporti di amorosi sensi emersi dalle indagini fra questo Procuratore della Repubblica di Brindisi e il terrorista neofascista autore dell’odiosa strage di Brindisi Giovanni Vantaggiato rapporti di amorosi sensi intesi a far si che Vantaggiato non fosse imputato dell’aggravante del gesto a scopo terroristico e si scappottasse quindi la pena dell’ergastolo? Procura della Repubblica di Potenza e CSM si erano già messi meritoriamente all’opera quando anche i lampioni hanno compreso che un alto vertice istituzionale (probabilmente proprio il Presidente della Repubblica) ha bloccato tutto. Ebbene quell’attentato è servito. E’ servito a mandare un messaggio ad alcuni valorosi Magistrati per cui chiunque si fosse avvicinato troppo alla vera verità sulla strage di Capaci (simboleggiata dalla scuola brindisina Falcone e Morvillo) era un uomo morto. E proprio in quei giorni il valoroso Procuratore Capo della Repubblica di Caltanisetta stava scoprendo interessanti novità in ordine alla strage di Capaci. Dalle indagini stavano infatti emergendo responsabilità di altri soggetti neofascisti che avevano materialmente partecipato alla strage e il cui nominativo non era mai emerso prima di allora nelle indagini stesse. Ebbene anche il valoroso Procuratore di Caltanisetta Sergio Lari si è fermato e di quelle indagini non si ha più notizia. Questo caso dimostra che cellule stragiste e criminali sia della Destra neofascista diciamo così finiana e montiana che anche della Sinistra Politica Democristiana (oggi renziana) sono presenti anche all’intero della Magistratura e anzi i Magistrati che vi aderiscono godono di carriere accelerate. Il caso Di Giorgio (il Magistrato di Taranto condannato a quindici anni di reclusione) (ma da chiamarsi ora il caso Argentino-Di Giorgio) è stato finora prospettato come una sorta di lunghissimo qui pro quo fra un Magistrato della città di Castellaneta (piccolo paese in provincia di Taranto) e un parlamentare della stessa cittadina pugliese, il senatore del P.D. Rocco Loreto (nella foto), mentre invece questo caso trascende e di molto questo singolo aspetto del problema, perché esso è conseguenza del fatto che nella provincia di Taranto opera da moltissimo tempo una cellula stragista e criminale istituzionale della Sinistra politica democristiana con presenze attiva ancora oggi anche all’interno delle Istituzioni e segnatamente nella Magistratura e il caso Di Giorgio-Argentino è un singolo capitolo di una guerra in corso fra Magistratura laica e Magistratura cattolica, analogo al conflitto in essere, da sempre, fra finanza laica e finanza cattolica, se volete anche fra criminalità laica e criminalità cattolica (laddove il termine cattolico è adoperato ovviamente in senso lato, molto lato), delle cui prove dirò fra poco.
La storia dei contemporanei dopo anni va riscritti dai posteri.
1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”. In realtà i “Signori delle tenebre” cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.
Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”. Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.
Mafia Capitale, Ancora una volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”, al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi – Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il “sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…
Caso Moro, un mese prima di via Fani un documento anticipava il rapimento, scrive Gero Grassi, Vicepresidente Gruppo Pd, Camera dei Deputati, il 6 gennaio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I documenti ci sono da sempre ma o non sono stati capiti, oppure sono stati accantonati perché capiti troppo bene da parte di Governo, Magistratura, Servizi e Commissioni precedenti. In base alla ragione di Stato. L’attuale Commissione Moro ed il presidente Giuseppe Fioroni invece li hanno letti, riletti ed attenzionati ora, con opportune indagini e ricostruzioni. Quale è la vicenda? Il documento originale, sotto riprodotto fedelmente, il 18 febbraio 1978, parte da Beirut, presumibilmente dal Colonnello Stefano Giovannone. Dice notizia riservatissima. È forse la prima notizia del rapimento di Aldo Moro perché i terroristi, di cui parla il documento, sono le Brigate Rosse e la Banda Baider Meinhof tedesca. La “fonte 2000” cita Habbash e parla di operazione terroristica di notevole portata che salvaguarderebbe impegni finalizzati ad escludere il nostro Paese da piani terroristici (Lodo Moro). Attenzione: nella chiusura del documento si dice di «non diramare la notizia ai Servizi collegati all’OLP» e questa è affermazione straordinariamente importante perché conferma grandi rapporti tra parte dei nostri Servizi e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Lasciamo il documento al lettore e, per ora, alla sua fantasia. Aggiungiamo che, in una delle lettere scritte dal carcere delle BR, Moro cita il colonnello Giovannone, deceduto anni dopo improvvisamente. Così come misteriosamente è “suicidato”, anni dopo, il capitano dei carabinieri Mario Ferrario, altro protagonista di questa storia. Analogamente sospetta è la scomparsa, nell’agosto 1980, a Beirut di due giovani giornalisti italiani, mai più ritrovati: Graziella De Palo ed Italo Toni che avevano denunciato la copertura, da parte dei nostri Servizi Segreti, della internazionale e clandestina vendita di armi italiana. Il Maresciallo Oreste Leonardi, capo scorta di Moro, a fine febbraio 1978, è fortemente preoccupato e ai suoi superiori evidenzia necessità di maggiore protezione. Moro certamente ha saputo di questo documento e il 15 marzo 1978, giorno prima dell’eccidio di via Fani, chiama il Capo della Polizia, non certo per aumentare la scorta al suo studio, come invece sostengono dopo lo stesso Capo della Polizia e i suoi collaboratori Sereno Freato e Nicola Rana. Chiama perché sa ed ha paura. A questo punto va citato, perché potrebbe avere grande connessione, il documento che il 2 marzo 1978, secondo G71, al secolo il gladiatore Antonino Arconte, parte dal Ministero della Difesa, a firma dell’Ammiraglio Remo Malusardi, Capo della X Divisione SB (Gladio), con il quale si invita il Colonnello Giovannone (G219), Capo dei nostri Servizi Segreti in Medio Oriente, a “prendere contatti immediati con i Gruppi del terrorismo mediorientale al fine di ottenere informazioni e collaborazioni per la liberazione di Aldo Moro”. 14 giorni prima del rapimento. Io non so se la connessione tra i due documenti è certa. Le indagini verificheranno cosa lo Stato italiano ha fatto per rispondere al documento proveniente da Beirut. So che la perizia “Gabella” dice vero il documento Arconte, così come so che a questo documento nessuna presta grande attenzione e fede. Non so se Arconte dice il vero, ma è verosimile che Arconte abbia intercettato una notizia successiva al documento Habbash. So per certo che le armi ai palestinesi le vendevano gli italiani e che i palestinesi le hanno date anche alle Brigate Rosse. So infine che sulla porta di casa, quella mattina del 16 marzo 1978, negli occhi di Aldo Moro, mentre Maria Fida gli impediva di portare insieme il figlio Luca, di due anni e mezzo, c’era la consapevolezza che qualcosa di grave stava per succedere ed il Maresciallo Leonardi, nella telefonata alla moglie di qualche minuto prima, aveva lanciato strani e preoccupanti segnali di immediato pericolo.
“Il consulente di Cossiga deve essere indagato per concorso nell’omicidio di Aldo Moro”. La richiesta del pg Luigi Ciampoli contro Steve Pieczenik, l’ex funzionario del Dipartimento di Stato americano coinvolto nell’unità di crisi durante il rapimento, scrive Raphaël Zanotti su “La Stampa”. La richiesta è di quelle shock: il pg Luigi Ciampoli chiede che la procura generale proceda nei confronti di Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato americano e superconsulente di Francesco Cossiga, per concorso nell’omicidio dell’onorevole Aldo Moro avvenuta in Roma il 9 maggio 1978. Secondo il pg, che ieri è stato sentito dalla commissione parlamentare istituita sulla vicenda, sarebbero emersi gravi indizi nei suoi confronti in merito all’istigazione o perlomeno al rafforzamento del proposito criminale delle Br di uccidere lo statista italiano. Elementi contenuti nelle oltre cento pagine di richiesta d’archiviazione che il pg ha consegnato al tribunale per quanto riguarda le rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi Segreti a bordo di una moto Honda, in via Fani, la mattina del rapimento. Non è stato possibile identificare quelle misteriose presenze, ma altri elementi sono emersi dall’indagine. Elementi che portano a una possibile responsabilità di Pieczenik. D’altra parte un ruolo centrale nel drammatico sviluppo di quei giorni se l’era ritagliato lo stesso Pieczenik, psicologo, in un libro confessione (edito in Italia da Cooper nel 2008 e passato sotto silenzio dal titolo «Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra»). Nel libro Pieczenik raccontava: «Ho messo in atto una manipolazione strategica che ha portato alla morte di Aldo Moro». Il superconsulente racconta come, all’epoca, sarebbe riuscito a portare i comitati dell’unità di crisi dalla sua parte sostenendo di essere l’unico ad avere a cuore la sorte di Aldo Moro visto che era l’unico a non conoscerlo personalmente. In realtà, rivelava qualche anno fa, l’obiettivo era eliminare Moro: lo si voleva uccidere, ma a farne le spese sarebbero state le Br. Sempre secondo Pieczenik l’operazione sarebbe stata condotta facendo crescere la tensione in modo spasmodico, così da mettere le Br con le spalle al muro e non lasciare loro alcuna via d’uscita se non uccidendo Moro. «Mi aspettavo che si rendessero conto del loro errore e che lo liberassero facendo fallire il mio piano - racconta ancora Pieczenik - Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero. Per loro sarebbe stata una grande vittoria». Tutti sappiamo come andò. Pieczenik venne mandato dagli Stati Uniti a Roma come super esperto di terrorismo. «La sua autoreferenzialità era esasperata e quasi schizofrenica - ha detto ancora il pg Ciampoli - In un’intervista a Giovanni Minoli su Rai Storia raccontò che Moro doveva morire perché in questo modo si sarebbero destabilizzate le Brigate Rosse. Noi abbiamo acquisito il cd di quell’intervista televisiva e tutto il girato completo e siamo convinti che la sua posizione meriti un approfondimento da parte della Procura». Nell’intervista televisiva di Minoli, Pieczenik aveva spiegato anche i motivi della sua azione: «Quando sono arrivato in Italia c’era una situazione di disordine pubblico: c’erano manifestazioni e morti in continuazione. Se i comunisti fossero arrivati al potere e la Democrazia Cristiana avesse perso, si sarebbe verificato un effetto valanga. Gli italiani non avrebbero più controllato la situazione e gli americani avevano un preciso interesse in merito alla sicurezza nazionale. Mi domandai qual era il centro di gravità che al di là di tutto fosse necessario per stabilizzare l’Italia. A mio giudizio quel centro di gravità si sarebbe creato sacrificando Aldo Moro». Impossibile risalire all’identità delle due persone a bordo della Honda, quella mattina in via Fani, segnalati in una lettera anonima arrivata nel 2010 alla questura di Torino. Non erano sicuramente Peppo e Peppa (i due agenti dei Servizi il cui coinvolgimento era già stato escluso dalla polizia). E nemmeno Antonio Fissore, il fotografo piemontese morto nel 2012 in Toscana che l’anonimo dichiarava essere un agente segreto sotto il comando del colonnello Camillo Guglielmi dei Servizi. In realtà i magistrati hanno appurato che quella mattina Fissore era su un volo Levaldigi-Varese con rientro su Levaldigi alle 17.15. I magistrati hanno anche risentito l’ingegner Alessandro Marini, l’uomo che quella mattina in via Fani per un miracolo non venne colpito dai proiettili sparati dall’uomo sul sellino posteriore della Honda che s’infransero sul parabrezza del suo motorino. La Procura generale ha appurato che in quei giorni Marini aveva denunciato di aver ricevuto minacce (senza però saper spiegare quali) e che per questo motivo venne montato nel suo appartamento un baracchino per intercettare le chiamate in entrata al suo telefono. Incredibile ma vero, a 36 anni di distanza quel baracchino non era mai stato smontato e la Procura generale lo ha acquisito. Figura centrale nell’inchiesta, il colonnello Camillo Guglielmi, in servizio all’ufficio “R” della VII divisione del Sismi nonché istruttore abba base Gladio di Capo Marrangiu dove gli agenti venivano addestrati anche alla strategia della tensione. Il pg Ciampoli ha riferito che nei suoi confronti si potrebbe ipotizzare un’accusa per concorso nel rapimento di Aldo Moro e nell’omicidio degli uomini della scorta, ma è impossibile procedere perché il colonnello è nel frattempo morto. L’unica cosa certa, però, è che quella mattina intorno alle 9 il colonnello si trovava in via Fani senza un motivo ragionevole. Alla Corte d’assise ha riferito che era lì per caso, perché doveva andare a pranzo con un collega che viveva nelle vicinanze. Una versione ritenuta «risibile» dal pg Ciampoli, nonché smentita dallo stesso collega. Il suo ruolo nel rapimento, dunque, rimane per ora un mistero.
Consulente Usa accusato di concorso in omicidio nel sequestro di Aldo Moro. La procura di Roma accusa lo 007 americano Steve Pieczenik: "Deve essere processato, ci sono gravi indizi circa il suo concorso al delitto di Via Fani", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Ci sono importanti novità giudiziarie sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. ll procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli ha chiesto alla procura di procedere nei confronti dello 007 americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del Governo italiano, verso cui vi sarebbero "gravi indizi circa un suo concorso nell'omicidio" dello statista. Il presunto coinvolgimento di Pieczenik è emerso nel corso della richiesta di archiviazione che il pg Ciampoli aveva inoltrato ieri al gip del Tribunale romano per un'altra inchiesta: quella relativa alle rivelazioni dell'ex poliziotto Enrico Rossi, che aveva insinuato la presenza di uomini dei servizi segreti al momento del rapimento di Moro. Ciampoli ha quindi ordinato la trasmissione della richiesta di archiviazione alla procura romana "perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell'omicidio di Moro". Pieczenik, all'epoca consulente del Viminale guidato da Francesco Cossiga, faceva parte del comitato di crisi istituito dal ministero dell'Interno nel giorno del sequestro dello statista democristiano. Dalla procura generale di Roma viene evidenziato che a carico di Piezcenik "sono emersi indizi gravi circa un eventuale concorso nell'omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le Brigate Rosse, dell'operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, o, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse Br". Pieczenik ha studiato ad Harvard e al Mit, è stato psichiatra ed esperto di terrorismo: nel dibattito storiografico è considerato un personaggio cruciale nella storia dei rapporti tra Italia ed Usa durante gli anni delicatissimi dell'esplosione del terrorismo. Nel 2008 pubblicò un libro-intervista in cui rivelò di aver sviluppato un piano di "manipolazione strategica" che conducesse all'uscita di scena di Moro, considerata ineludibile nel piano di "stabilizzazione" del nostro Paese. Decisivo sarebbe stato il suo ruolo nell'impedire un'iniziativa vaticana (Papa Paolo VI era amico personale di Moro, ndr) per raccogliere denaro da destinare alla liberazione del presidente Dc: "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia".
L'americano che aiutò Cossiga: "L'ordine degli Usa non era di far rilasciare Moro ma di stabilizzare l'Italia". La testimonianza dello psichiatra americano che nel 1978 arrivò in Italia per aiutare il ministro dell'Interno Cossiga dopo la strage di via Fani, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Nelle drammatiche settimane del sequestro Moro "nessuno era in grado di fare qualcosa, né i politici, né i pubblici ministeri, né l'antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano assenti". Ad affermarlo, 36 anni dopo, è lo psichiatra statunitense Steve Pieczenik. Già assistente al sottosegretario di Stato del governo americano e capo dell'Ufficio per la gestione dei problemi del terrorismo internazionale, Pieczenik nella primavera del lontano 1978 fu inviato in Italia per assistere il ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Rimasto nell'ombra per molti anni, alla fine di maggio è stato interrogato dal pm Luca Palamara, che è andato a sentirlo in Florida. Ne parla oggi Giovanni Bianconi in un articolo sul Corriere della sera. Fu Cossiga a chiedere l'aiuto del dottor Pieczenik al segretario di Stato Cyrus Vance: "Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi". Insomma, si era guadagnato una certa fama e così fu chiamato in Italia, dove sbarcò una decina di giorni dopo la strage di via Fani. Lo psichiatra svela quale fosse l'intenzione del suo Paese: "L'ordine non era di far rilasciare l'ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l'Italia". Per gli Stati Uniti, dunque, la vita dello statista della Democrazia cristiana era un particolare secondario. La tesi americana, maggioritaria (a livello politico) anche in Italia, era questa: "In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche... se cedi l'intero sistema cadrà a pezzi". E il cedimento non ci fu. Anche se costò la vita a Moro. Ma cosa fece di concreto Pieczenik, oltre a passare le sue giornate nell'ufficio di Cossiga? "Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia. E la risposta è stata: niente". Prosegue mostrando un quadro a dir poco imbarazzante per il nostro Paese: "Ho chiesto a Cossiga che cosa sapeva delle trattative per gli ostaggi e lui non sapeva niente...". E poi ancora: "Dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattative e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessione". Su precisa domanda del pm Palamara (è vero che lo Stato italiano ha lasciato morire Moro?) il dottor Pieczenik risponde di no: "L'incompetenza dell'intero sistema ha permesso la morte di Moro. Nessuno era in grado di fare niente... tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti". E sottolinea che andò via prima dell'omicidio, dopo essersi reso conto che l'America poteva stare tranquilla: "Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo... nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio". Seppe della morte dello statista italiano quando era già in America. E fece questa constatazione: "Ho pensato che sfortunatamente erano dei dilettanti e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggiore cosa che un terrorista può fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione". Ai microfoni di Mix24 nel settembre dell'anno scorso Pieczenick aveva svelato altri particolari interessanti a Giovanni Minoli, parlando chiaramente di una "manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia" in quel periodo. E rivelò persino di aver temuto che Moro venisse alla fine rilasciato. "A un certo punto - raccontò ancora lo psichiatra a Mix24 - per poter incidere in una situazione di crisi, sono stato costretto a sminuire la posizione e il valore dell'ostaggio, a Cossiga ho suggerito di screditare la posta in gioco" fino a suggerirgli di dire che "quello delle lettere, le ultime soprattutto, non era il vero Aldo Moro". E infine giocò un ruolo determinante nel bocciare l'iniziativa del Vaticano di raccogliere una cospicua somma di denaro per pagare un riscatto. "In quel momento stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate rosse e il processo di destabilizzazione dell'Italia". Già in un libro del 2008 ("Abbiamo ucciso Aldo Moro", Cooper edizioni) Pieczenick aveva svelato l'importanza della manipolazione delle informazioni, nella difficile gestione del sequestro Moro. Il 18 aprile 1978 fu diramato il falso comunicato del lago della Duchessa (il luogo dove si sarebbe trovato il corpo di Moro, ndr). Secondo lo psichiatra americano era un tranello elaborato dai servizi segreti italiani che era stato "deciso nel comitato di crisi". Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma sarebbe servito soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che, alla fine dei conti, metteva in conto l’omicidio di Moro. Che poco dopo sarebbe puntualmente arrivato.
Ho manipolato le Brper far uccidere Moro. Dopo 30 anni le rivelazioni del «negoziatore» Usa, scrive “La Stampa”. «Ho mantenuto il silenzio fino ad oggi. Ho atteso trent’anni per rivelare questa storia. Spero sia utile. Mi rincresce per la morte di Aldo Moro; chiedo perdono alla sua famiglia e sono dispiaciuto per lui, credo che saremmo andati d’accordo, ma abbiamo dovuto strumentalizzare le Brigate Rosse per farlo uccidere. Le Br si erano spinte troppo in là». Chi parla è Steve Pieczenick. Un uomo misterioso, che volò in Italia nei giorni del sequestro Moro, inviato dall’amministrazione americana ad «aiutare» gli italiani. Pieczenick non ha mai parlato di quello che fece in quei giorni. Dice addirittura di essersi impegnato con il governo italiano di allora a non divulgare mai i segreti di cui è stato a conoscenza. Ed è un fatto che né la magistratura, né le varie commissioni parlamentari sono mai riuscite a interrogarlo. Finalmente però l’uomo del silenzio ha parlato con un giornalista, il francese Emmanuel Amara, che ha scritto un libro («Abbiamo ucciso Aldo Moro», Cooper edizioni) sul caso. Le rivelazioni sono sconvolgenti. Pieczenick, che è uno psichiatra e un esperto di antiterrorismo, avrebbe avuto un ruolo ben più fondamentale in quei giorni. E che ruolo. «Ho manipolato le Br», dice. E l’effetto finale di questa manipolazione fu l’omicidio di Moro. Il «negoziatore» Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Francesco Cossiga. E’ convinto che l’obiettivo sia quello di salvare la vita allo statista. Ben presto si rende conto che la situazione è molto diversa da quanto si pensi a Washington e che l’Italia è un paese in bilico, a un passo dalla crisi di nervi e dalla destabilizzazione finale. Da come maltratta l’ambasciatore e il capostazione della Cia si capisce che Pieczenick è molto più di un consulente. E’ un proconsole inviato alla periferia dell’impero. «Il capo della sezione locale della Cia non aveva nessuna informazione supplementare da fornirmi: nessun dossier, nessuno studio o indagine delle Br... Era incredibile, l’agenzia si era completamente addormentata. Il colmo era il nostro ambasciatore a Roma, Richard Gardner. Non era una diplomatico di razza, doveva la sua nomina ad appoggi politici». Cossiga è molto franco con lui. «Mi fornì un quadro terribile dalla situazione. Temeva che lo Stato venisse completamente destabilizzato. Mi resi conto che il paese stava per andare alla deriva». Nella sua stanza all’hotel Excelsior, e in una saletta del ministero dell’Interno, Pieczenick comincia lo studio dell’avversario. Scopre che invece sono i terroristi a studiare lui. «Secondo le fonti di polizia dell’epoca, ventiquattr’ore dopo il mio arrivo mi avevano già inserito nella lista degli obiettivi da colpire. Fu allora che capii qual era la forza delle Brigate Rosse. Avevano degli alleati all’interno della macchina dello Stato». Una sgradevole verità gli viene spiegata in Vaticano. «Alcuni figli di alti funzionari politici italiani erano in realtà simpatizzanti delle Brigate Rosse o almeno gravitavano nell’area dell’estrema sinistra rivoluzionaria. Evidentemente era in questo modo che le Br ottenevano informazioni importanti». Così gli danno una pistola. «Ogni volta che uscivo in strada stringevo più che mai la Beretta che avevo in tasca». Comincia una drammatica partita a scacchi. «Il mio primo obiettivo era guadagnare tempo, cercare di mantenere in vita Moro il più a lungo possibile, il tempo necessario a Cossiga per riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza, calmare i militari, imporre la fermezza a una classe politica inquieta e ridare un po' di fiducia all’economia». Ma la strategia di Pieczenick diventa presto qualcosa di più. E’ il tentativo di portare per mano i brigatisti all’esito che vuole lui. «Lasciavo che credessero che un’apertura era possibile e alimentavo in loro la speranza, sempre più forte, che lo Stato, pur mantenendo una posizione di apparente fermezza, avrebbe comunque negoziato». Alla quarta settimana di sequestro, però, quando comincia l’ondata delle lettere di Moro più accorate, tutto cambia. Una brusca gelata. Il 18 aprile, viene diramato il falso comunicato del lago della Duchessa. Secondo Pieczenick è un tranello elaborato dai servizi segreti italiani. «Non ho partecipato direttamente alla messa in atto di questa operazione che avevamo deciso nel comitato di crisi». Il falso comunicato serve a preparare l’opinione pubblica al peggio. Ma serve soprattutto a choccare i brigatisti. Una mossa che mette nel conto l’omicidio di Moro. E dice Pieczenick: il governo italiano sapeva che cosa stava innescando. «Fu un’iniziativa brutale, certo, una decisione cinica, un colpo a sangue freddo: un uomo doveva essere freddamente sacrificato per la sopravvivenza di uno Stato. Ma in questo genere di situazioni bisogna essere razionali e saper valutare in termini di profitti e perdite». Le Br di Moretti, stordite, infuriate, deluse, uccidono l’ostaggio. E questo è il freddo commento di Pieczenick: «L’uccisione di Moro ha impedito che l’economia crollasse; se fosse stato ucciso prima, la situazione sarebbe stata catastrofica. La ragion di Stato ha prevalso totalmente sulla vita dell’ostaggio».
“Quel giorno ero in via Montalcini e arrivò l’ordine di non intervenire”. L’ex brigadiere della Finanza finito sotto accusa per le clamorose dichiarazioni sul caso Moro racconta per la prima volta la sua verità: «Con altri militari presidiavamo il palazzo adiacente la prigione di Moro. Quando tutti finì ci venne ordinato di dimenticare quello che era successo». Roma, via Caetani, 9 maggio 1978. Il cadavere di Aldo Moro viene fatto ritrovare tra la sede del Pci e della Dc. Due giorni prima l’ex finanziere novarese assicura che era in servizio di vigilanza in un palazzo di via Montalcini, scrive Carlo Bologna su “La Stampa”. Giovanni Ladu, ex brigadiere della Finanza in pensione da un anno e mezzo, vive a Novara. Il suo nome è venuto alla ribalta in occasione della pubblicazione del libro dell’ex giudice Ferdinando Imposimato al quale Ladu si era rivolto anche con un’altra identità, quella di un fantomatico Oscar Puddu, per rafforzare la tesi del mancato blitz nel covo delle Brigate Rosse in cui era prigioniero Moro. L’ex magistrato, dopo la pubblicazione del libro, si è rivolto alla Procura di Roma sollecitando nuove indagini. C’è voluto poco per scoprire che Ladu e Puddu sono la stessa persona. Ora l’ex finanziere è indagato per calunnia. Per la prima volta ha deciso di rilasciare a La Stampa un’intervista sulla sua versione dei fatti. Respinge l’etichetta di «calunniatore». Giovanni Ladu, ex brigadiere della Guardia di Finanza, parla per la prima volta accanto ai suoi difensori, gli avvocati Gianni Correnti e Giorgio Legnazzi. Nel 1978, nei giorni del sequestro Moro, era un bersagliere di leva. È indagato dalla Procura di Roma perché sostiene che lo Stato era a conoscenza della prigione dello statista ed ha fatto un passo indietro due giorni prima che venisse ritrovato nella Renault rossa in via Caetani. Lui, con altri gruppi pronti al blitz per liberare il leader Dc, garantisce che il 7 maggio era in via Montalcini. Dall’«alto» arrivò l’ordine che l’ex giudice Imposimato, nel libro «I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia» traduce in una denuncia-bomba: la liberazione fu impedita da Cossiga e Andreotti. Imposimato solo a libro stampato si è affidato alla Procura.
Ladu, la sua è una verità contestata.
«Le e-mail a Imposimato sono state mandate dal 2012 a maggio di quest’anno però quei fatti del ’78 sono stati resi noti ai miei superiori, inizialmente a voce al mio comandante Alessandro Falorni. Dopo le opportune verifiche è stato contattato il giudice che si era occupato del caso Moro».
Lei ha iniziato a raccontare questi fatti nel 2008, perché solo allora? Temeva una rappresaglia?
«Sì, anche perché quando finì tutto, ci era stato detto di dimenticare quello che era successo».
Ma lei chi era in quei giorni?
«Avevo 19 anni, l’anno primo avevo finito il diploma. Ero in servizio di leva obbligatoria ai bersaglieri della caserma Valbella, ad Avellino».
Vi avevano preparato a questa missione?
«No. Ci hanno imbarcato su un pullman “dovete andare a Roma”. Sulle prime ci portano alla caserma dei carabinieri vicino all’hotel Ergife».
Sapevate che c’erano altri gruppi pronti a intervenire in quella che sarebbe risultata la prigione di Moro?
«Inizialmente no. Poi prendiamo possesso di un appartamento adiacente allo stabile dove, scopriremo poi, c’era Moro. Eravamo dieci militari, non in divisa. Non avevamo attrezzature di ascolto (queste attrezzature sono state poi messe in una cascina abbandonata che era di fronte al palazzo, lì c’era una postazione di controllo già predisposta prima che arrivassimo. Noi dovevamo solo verificare chi entrava e usciva, se c’erano persone sospette».
Quando avete intuito che poteva essere il covo?
«Ci avevano detto che c’era un noto personaggio in quell’appartamento, messo in condizione di non uscire. Moro era stato rapito il 16 marzo, in Italia si parlava solo di quello».
E arriva il 7 maggio 1978, con l’ordine di smobilitare senza liberare il «personaggio». In seguito scoprirete che là dentro c’era proprio il presidente della Dc.
«Certo, leggendo i giornali. Io mi sono anche strizzato sotto. Rientrato ad Avellino sono stato destinato subito al reggimento, alla caserma dei bersaglieri di Persano (Salerno)».
I dieci commilitoni non li ha più sentiti?
«No, non so nemmeno che fine abbiamo fatto. Nessun contatto».
Dopo trent’anni, nel 2008, decide di parlare. Perché?
«Ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’uccisione di Moro, venivano riferite falsità».
Non ha mai cercato di «vendere» la sua verità?
«Assolutamente no, all’epoca ero ancora in servizio. Non ho avuto, né cerco compensi. Ho fatto i miei passaggi rivolgendomi ai miei superiori gerarchici, loro hanno poi informato il procuratore di Novara Francesco Saluzzo al quale ho fornito un memoriale di tre pagine. Non ho fatto alcun nome, nessun riferimento ai vertici dello Stato. Ho soltanto indicato i fatti di cui sono a conoscenza. E non sono state ravvisate ipotesi di calunnia perché nel 2011 questo procedimento è stato archiviato».
Lei, in questa prima fase, è Giovanni Ladu. Poi nel 2012 si ripresenta con il nome fittizio di Oscar Puddu. Al punto che Imposimato ci casca, pensa che Ladu e Puddu siano due persone distinte. Perché questo espediente?
«Volevo che si riaprisse il caso, per venire a capo di questa vicenda. L’ex giudice faceva delle domande, io rispondevo. Ci siamo scambiati 84 mail, da privato a privato. Io ero in pensione dalla Finanza, Imposimato dalla magistratura».
Imposimato, anche sulla base della sue rivelazioni, arriva a scrivere che «Moro fu vittima della ferocia delle Br ma anche di un complotto ordito da Andreotti e Cossiga».
«Mai fatti quei nomi, sono conclusioni di Imposimato. Lui mi chiese se erano al corrente dell’ipotesi di un blitz e della decisione di fermarlo».
Il figlio di Cossiga ha definito le sue ricostruzioni da «trattamento sanitario obbligatorio».
«Non sono matto, né mitomane. E non ho mai detto che Cossiga ha ordinato quel delitto».
E a chi parla di depistaggio, cosa risponde?
«Nessuna intenzione di alzare polveroni o coprire qualcuno, chiedo l’opposto: che si arrivi alla verità. Non volevo nemmeno tutto questo clamore. Quando ho visto il mio nome nel libro di Imposimato mi sono pure arrabbiato. Ho fatto tutto questo anche contro il volere della mia famiglia ma sentivo che dovevo togliermi un peso. Tutti gli altri hanno seguito l’ordine di dimenticare, io non ci sono riuscito».
L’ex ispettore e i misteri del caso Moro “Parlerò solo con pm e in Parlamento”.
Enrico Rossi aveva indagato su una lettera inviata nel 2009 a La Stampa Al centro i due motociclisti sulle Honda comparsi in via Fani. C’era un torinese? Scrivono Grazia Longo e Massimo Numa su “La Stampa”. L’ex ispettore della Digos Enrico Rossi sa di essere, da poche ore, al centro dell’attenzione. Ha rivelato all’Ansa alcuni retroscena del caso Moro, in particolare sul ruolo - mai chiarito - di un motociclista, in sella a una Honda, comparso in via Fani nell’ora X del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Deciso a raccontare la «sua» verità, perchè gli accertamenti che furono svolti in allora dai suoi colleghi in modo scrupoloso non portarono a nulla. «Tutto è partito - ha detto Rossi all’Ansa - da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì». Le ricerche dell’ispettore sono nate da una lettera anonima inviata nell’ottobre 2009 alla redazione de La Stampa. Questo il testo: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più». La polizia avviò così le prime indagini. In una casa di Cuneo, dove l’uomo ha vissuto con la prima moglie, vengono trovate due armi regolarmente denunciate: una Beretta e una Drulov, un’automatica di precisione di fabbricazione cecoslovacca. E le pagine originali di Repubblica dei giorni del sequestro Moro. Rossi afferma di aver chiesto di sentire la coppia e di ordinare una perizia sulle armi. Ma non accadde nulla. Sui dettagli dell’indagine Rossi è pronto a testimoniare. «Ma solo con la magistratura e nelle commissioni parlamentari. Aspetto di essere convocato». Che l’Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 rappresenti un mistero è un dato assodato. Tutte da chiarire sono invece le rivelazioni di Rossi: la procura di Roma, che si sta occupando del caso, non ha per ora trovato riscontri. L’attività degli inquirenti, comunque, prosegue. Intanto la memoria ricorre a pochi mesi fa, quando - il 6 novembre scorso - l’ex brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu è stato indagato per calunnia dalla procura della capitale proprio perché, secondo la pubblica accusa, aveva fornito informazioni false sul caso Moro.
La moto Honda di via Fani Un mistero lungo 36 anni. Le rivelazioni di un ex poliziotto: “A bordo c’erano due 007”, scrive “La Stampa”. Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un “civile” presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: «Non è certamente roba nostra». L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui “ad altezza d’uomo” proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di “passare” all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo. Il conducente della moto - disse - era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: `Devi stare zitto´. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro. Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in “cerca di gloria” (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della `ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita. I Br negano ma, ha detto il magistrato, «una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile». Uomini della malavita o dei servizi? «Allora tutto si spiegherebbe». Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di “gestire” il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.
Il martire del terrorismo su cui l'Italia resta spaccata. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani: Aldo Moro rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. C'è chi ha avviato il processo per la sua beatificazione, chi lo considera un cattocomunista responsabile di molti dei problemi italiani. C'è chi esalta tuttora la sua politica di avvicinamento al Partito Comunista di Enrico Berlinguer (le famose convergenze parallele), chi è convinto che il suo progetto di compromesso storico avrebbe addirittura messo in discussione la nostra appartenenza al blocco occidentale. C'è chi ha parole di elogio per la sua politica estera filoaraba, chi la critica al punto di averlo ribattezzato Al-Domor. C'è chi ritiene che con le sue ripetute prese di distanza dagli Stati Uniti d'America abbia fatto gli interessi dell'Italia, chi lo esecra ancora per avere concluso il famigerato trattato di Osimo con la Jugoslavia di Tito. A quasi trentacinque anni dal suo rapimento ed assassinio ad opera delle Brigate Rosse, Aldo Moro, primo capo di un governo di centro-sinistra e poi per cinque volte presidente del Consiglio tra il 1963 e il 1976, rimane uno dei personaggi più controversi della Prima Repubblica. Pugliese di nascita, laureato in legge, profondamente cattolico, Moro ha fatto parte fin dal principio della corrente dossettiana di sinistra, critica della politica centrista di Alcide De Gasperi, ed è rimasto sempre su queste posizioni. Quando fu rapito il 16 marzo del 1978, era presidente del partito e si apprestava a realizzare il suo obbiettivo di inserire formalmente il Partito comunista italiano nei meccanismi del potere. I cinquantacinque giorni della sua prigionia furono i più drammatici degli anni del terrorismo, spaccando governo, partiti e parlamento in un fronte della fermezza, contrario a ogni trattativa per la sua liberazione per non dare un riconoscimento politico alle Brigate Rosse (Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, il Partito Comunista Italiano) e un fronte possibilista disponibile a negoziare uno scambio di prigionieri coi rapitori (Bettino Craxi, Amintore Fanfani, il Vaticano). Durante la prigionia scrisse 86 lettere, di cui alcune ferocemente critiche verso i dirigenti della Democrazia Cristiana («Il mio sangue ricadrà su di loro»). Ma tutto fu inutile: il 9 maggio il suo corpo crivellato di colpi fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa a pochi metri da piazza del Gesù a Roma. Per protesta, i familiari rifiutarono i funerali di Stato. Vari aspetti della vicenda sono ancora circondati dal mistero, dando vita a una pletora di teorie complottistiche che attribuiscono il suo assassinio alla P2, alla CIA, al KGB o addirittura ad ambienti democristiani. Inutile dire che nessuna è stata provata.
Troppi bugiardi sul memoriale Moro. La figlia legge il libro di Gotor sugli scritti dalla prigionia "È il momento per chi ha sempre taciuto di dire la verità", scrive Agnese Moro su “la Stampa”. Il nuovo libro dello storico Miguel Gotor, Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l'anatomia del potere italiano (Einaudi, 2011, 622 pagine, 25 euro) è un lavoro interessante, che ci accompagna nelle avventurose traversie di quel Memoriale che raccoglie le risposte che mio padre, Aldo Moro, diede alle Brigate Rosse, durante gli interrogatori ai quali fu sottoposto nel corso della sua prigionia (16 marzo - 9 maggio 1978). L'Autore ha fatto un minuzioso lavoro di ricostruzione delle vicende che interessarono quello scritto: la pubblicazione, nel corso del sequestro, di alcune pagine riguardanti l'onorevole Paolo Emilio Taviani; il ritrovamento, da parte degli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nell'ottobre del 1978, nel covo di via Monte Nevoso a Milano, di un testo consistente in fotocopie di un dattiloscritto; il secondo ritrovamento, nell'ottobre del 1990, sempre nello stesso covo brigatista, di fotocopie di lettere e di un manoscritto, il cui contenuto è parzialmente diverso da quello del dattiloscritto rinvenuto nel '78. Fino ad arrivare alla ragionevole e documentata ipotesi della esistenza di un manoscritto più ampio di quello del '90 (identificato dall'Autore come ur-memoriale), fin qui mai ritrovato. Le tracce di questo testo originario vengono seguite da Gotor attraverso una raccolta di dichiarazioni di chi quel testo - con ogni probabilità - lo vide e lo lesse. Testimoni che, nel libro, sono divisi in due gruppi: i morti (il generale Dalla Chiesa, il giornalista Mino Pecorelli) e i sopravvissuti (i brigatisti, alcuni giornalisti ad essi in qualche modo contigui, esponenti dell'area dell'autonomia, Francesco Cossiga). C'è un grande lavorio attorno al Memoriale: impossessarsene, ritrovarlo, delegittimarlo (assieme al suo autore), farlo sparire, edulcorarlo. Tutto sembra ruotare attorno alla figura di Giulio Andreotti, sul quale mio padre avrebbe fatto - è questa l'ipotesi - dichiarazioni molto compromettenti. La posta in gioco nella gara drammatica per il recupero e la pubblicazione del manoscritto originale, o, al contrario, perché ciò non avvenga, riguarda, infatti, la presa del potere in Italia, che si gioca proprio attorno alla figura di Giulio Andreotti, e degli ambienti emergenti che a lui fanno riferimento. Si tratta di una destra profonda, ben più ampia di quella rappresentata come tale in Parlamento, alla quale non sono estranee la loggia massonica deviata P2, pezzi dei servizi segreti, la criminalità organizzata, i grandi interessi privati. Una presa di potere che poi effettivamente avverrà, almeno al livello nazionale, con un cambiamento radicale della finalità e della qualità della nostra vita democratica. Non si tratta, purtroppo, di una spy-story, o di uno scritto «a tesi». E' piuttosto la puntigliosa e precisa ricostruzione di un pezzo importante di storia del nostro Paese, che Gotor fa passare sotto i nostri occhi senza abbellimenti. E con una drammaticità non retorica, dal momento che è una storia piena di speranze e di sangue. Al termine di una lettura che mi ha particolarmente, e ovviamente, coinvolta, mi pongo tre quesiti. Il primo riguarda il manoscritto completo: esiste ancora da qualche parte? Sarebbe davvero bellissimo che fosse così, perché ci aiuterebbe a comprendere meglio quello che avvenne allora. Se qualcuno ne sapesse qualcosa sarebbe il momento di dirlo. Il secondo quesito riguarda la consapevolezza o l'inconsapevolezza del mondo politico nel suo insieme rispetto a quanto stava avvenendo, ovvero alla lotta per il potere combattuta con tenacia da forze ostili alla democrazia repubblicana, con tutto quello che essa comporta in termini di sovranità di ogni cittadino, solidarietà e impegno per la costruzione della giustizia. Quanti sapevano? Chi sapeva in quel 1978? Il terzo quesito: quanto hanno pesato le vicende che Miguel Gotor descrive nel libro sulla decisione di non far nulla (come disse papà in una delle sue lettere: «Non c'è niente da fare quando non si vuole aprire la porta») per salvare Moro? Il valore di un libro non si vede solo dalle cose alle quali dà una risposta, ma anche dai quesiti che pone in tutta evidenza, senza che si possa sfuggire loro. Personalmente sono convinta che sia venuto il tempo di unire le forze per dare una compiuta ricostruzione e spiegazione di quegli anni difficili. Unire le forze: gli storici, i protagonisti attivi nella lotta armata, nelle attività eversive, nella politica, nei Servizi o nell' antiterrorismo, coloro che custodiscono i documenti e chiunque possa dare un contributo per chiarire le cose. E noi che abbiamo patito i frutti avvelenati di quella stagione. E' una strada certamente complessa e dolorosa, ma è necessario percorrerla se vogliamo avere quella verità che come Paese attendiamo da troppo tempo. E' il prezzo che dobbiamo pagare se vogliamo rimettere il passato al suo posto, e riprendere, con mitezza e serenità, il cammino che quegli anni terribili hanno interrotto.
24 Marzo 2014, tutta Italia ne parla. Moro: nuove rivelazioni, vecchi errori. Un ispettore di Polizia in pensione: «Quella mattina i servizi segreti coprirono le Br da possibili interferenze», scrive Gabriele Paradisi su “Il Tempo”. Giovedì 16 marzo 1978, ore 9.02. In via Fani a Roma un commando delle Brigate rosse sequestra il presidente della Democrazia cristiana, onorevole Aldo Moro e uccide i cinque uomini della sua scorta. Secondo quanto appurato nel corso di numerosi processi, i brigatisti presenti sul luogo dell'agguato erano in tutto dodici. Ma nell'Italia dei misteri non potevano mancare altre inquietanti presenze, mai del tutto accertate o sulle quali mai si è fatta sufficientemente luce. Ad esempio quella del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, presente all'ora della strage in via Stresa nei pressi del tragico incrocio con via Fani, ma anche quella di una moto di grossa cilindrata, una Honda blu per la precisione, con due persone a bordo («Peppo» e «Peppa», come li definì il brigatista Raimondo Etro). Un testimone, l'ingegner Alessandro Marini, in sella al suo motorino, testimoniò di esser stato preso a fucilate proprio da costoro. Ora, a 36 anni di distanza, in un'ennesima esternazione che poggia guarda caso su presunte dichiarazioni di un morto, le due sopracitate vicende sembrano trovare un legame. L'ispettore di polizia in pensione Ernesto Rossi infatti, ha raccontato all'Ansa che l'uomo seduto sul sellino posteriore della Honda, nel frattempo defunto, era in realtà un uomo dei servizi alle dipendenze proprio del colonnello Guglielmi. Quest'uomo, di cui non viene fornito il nome, avrebbe scritto una lettera nel 2009, resa disponibile solo sei mesi dopo la sua morte, in cui finalmente si liberava del suo terribile segreto: egli e il guidatore della Honda (un torinese) erano lì in via Fani per conto dei servizi e per proteggere l'azione delle Br da qualsiasi interferenza possibile. La stagione delle nuove rivelazioni clamorose, iniziata mesi fa con la notizia sull'ora effettiva del ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani il 9 maggio 1978, sembra dunque riprendere vigore. Ma vediamo cosa possiamo dire al momento circa questa nuova rivelazione dell'ispettore Rossi. Da quel che è dato sapere il parabrezza della motoretta dell'ingegner Marini fu effettivamente colpito da proiettili; il colonnello Guglielmi era sicuramente in netto anticipo sull'orario del presunto invito a pranzo ricevuto da un collega che abitava in via Stresa; infine lo stesso Vladimiro Satta, serio studioso del caso Moro e puntuale demolitore di numerose dietrologie sorte sulla vicenda, circa l'identità dei due motociclisti sulla Honda, in un suo libro del 2006 («Il caso Moro e i suoi falsi misteri», Rubbettino editore) ha riconosciuto che questo è «l'interrogativo più importante sul caso Moro, tra i pochi che rimangono aperti» e l'interpretazione complessiva della vicenda Moro cambierebbe se «venisse fuori che i due della moto Honda non erano brigatisti, bensì agenti di chissà chi». Dunque, come abbiamo riassunto, possiamo concludere che vi sono sicuramente dei passaggi, nella tragica storia del sequestro e uccisione di Aldo Moro, che non hanno ancora oggi ricevuto adeguate spiegazioni. La storia della Honda è uno di questi. Ma una cosa è evidenziare le incongruenze mai spiegate e cercare di fugare le ombre che le circondano, con ricerche serie che si basino su riscontri documentali, altro è insinuare in questi snodi oscuri e irrisolti nuove romanzesche fantasie che aggiungono solo confusione e alimentano la bulimia dei complottisti ad ogni costo. L'ispettore Rossi ha dichiarato che parlerà solo ai magistrati e al Parlamento. Bene. Tutto ciò che concretamente metterà a disposizione sarà dunque vagliato e pesato nelle sedi opportune, ma se si tratterà solo di parole di morti, non più riscontrabili, temiamo che aiuteranno ben poco a risolvere qualsiasi mistero. Forse, il compito di chiarire una volta per tutte queste zone d'ombra, potrebbe essere adeguatamente svolto dalla prevista nuova commissione bicamerale d'inchiesta sul caso Moro. Solo questo ci sembra il luogo deputato agli approfondimenti, oggi più che mai possibili anche in virtù del materiale documentale attualmente disponibile presso archivi un tempo inaccessibili.
L’altra verità: il lavoro dei nostri 007 «bruciato» da una soffiata dell’Unità, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. I misteri, o cosiddetti tali, sul caso Moro, vivono ormai di vita propria. Si perpetuano ciclicamente, fanno discutere, sospettare, ma poi non succede nulla e la verità rimane quella «ufficiale», che vuole le Brigate Rosse da una parte e lo Stato dall’altra. E quegli stessi misteri, apparentemente capaci di squarciare il velo su una delle pagine più tragiche della storia italiana, si accodano poi a quelli che li hanno preceduti e che sul rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana non hanno mai aggiunto nulla di decisivo. Ed è probabilmente questo il destino che attende anche le ultime rivelazioni che vogliono gli immancabili servizi segreti italiani presenti, a bordo di una moto, in via Fani quel maledetto 16 marzo 1978, per «scortare» e quindi «aiutare» le Br a rapire Moro e uccidere gli uomini della sua scorta. Una versione fornita dall’ex ispettore di polizia Enrico Rossi, priva di riscontri ma che soprattutto fa a pugni con un fatto accertato che contraddice totalmente le sue parole. Gli 007 italiani, secondo quanto riportato in un rapporto del Sisde, nel 1993 cercarono, infatti, in tutti i modi di ottenere la «collaborazione» di Alessio Casimirri, componente del commando brigatista di via Fani, attraverso un «sottile» tentativo di convincerlo a raccontare la «sua» verità sul rapimento Moro. E quando ormai erano sul punto di riuscirci, una soffiata stranissima al quotidiano l’Unità, che riportò la notizia dell’intenzione di Casimirri, nome di battaglia «Camillo», di «collaborare» coi nostri 007, provocò l’interruzione della trattativa fra la primula rossa e i nostri Servizi, avviata grazie all’inconsapevole ruolo del fratello di Casimirri. Ma ecco come andarono i fatti. Gli 007 «monitorano» il fratello di Casimirri tramite un proprio agente che si finge poliziotto. Attraverso di lui potrebbero arrestare Alessio lontano dal Nicaragua, lo Stato che lo protegge. Quando il finto poliziotto capisce che Casimirri non ha intenzione di lasciare la sua nuova «patria», decide di svelare la sua identità: «Sono un agente del Sisde. Posso far parlare Alessio con due funzionari che seguono questa cosa». L’operazione «Camillo», preparata a lungo e in grandissimo segreto, era praticamente conclusa, mancava solo qualche piccolo dettaglio. Ma ecco che il quotidiano comunista va in edicola con un’indiscrezione su quanto stava avvenendo. Il risultato è quello sperato da chi poi rese vana un’operazione che avrebbe potuto risolvere uno dei misteri d’Italia. L’ex brigatista, ormai bruciato, pose subito fine alla trattativa. Il tentativo dei nostri servizi segreti di accertare tutta la verità sul rapimento Moro attraverso quello che è forse l’unico ancor oggi in grado di svelarla, finisce così a causa di un articolo pubblicato dal quotidiano «rosso». La domanda, dunque, è una sola: perché se i Servizi presero segretamente parte al rapimento Moro, come qualcuno vorrebbe far credere oggi (dopo più tentativi di far crederlo in passato), poi fecero di tutto per conoscere la verità facendo vuotare il sacco alla «pregiata» primula rossa?
Un'altra «verità» sul caso Moro: le Br aiutate dai soliti servizi, scrive “Il Giornale”. Più che un giallo è una saga senza fine. Il sequestro e la morte di Aldo Moro sono una fabbrica sempre in attività di rivelazioni e scoop. Con raccapricciante puntualità escono di anno in anno memoriali inediti, lettere di protagonisti fin lì ai margini, confessioni naturalmente postume, analisi di investigatori del giorno dopo. La verità pare finalmente a portata di mano, a un centimetro dall'opinione pubblica che la reclama, ma poi a ben vedere sfuma all'orizzonte come un miraggio. E la ruota continua a girare e a macinare dettagli ancora sconosciuti, vai a sapere se veri o solo verosimili. È un meccanismo avvincente ma accecante che segna alcune grandi pagine storiche: l'assassinio di John Kennedy, la morte di Olof Palme, la tragedia di Aldo Moro. Ci riempiono di dati e alla fine ne sappiamo meno di prima. Forse ci depistano, di sicuro ci confondono. Capita anche questa volta: un poliziotto in pensione, un ispettore che si è sempre occupato di terrorismo, dice di avere risolto un capitolo di quel 16 marzo 1978, forse la giornata più buia nella notte della Prima repubblica. Quella mattina in via Fani le Br sequestrano Aldo Moro e massacrano la sua scorta. Fra i tanti misteri di quell'azione c'è anche quello della Honda blu avvistata in via Fani. Dalla Honda furono quasi sicuramente sparati i colpi che sfiorarono l'ingegner Alessandro Marini, l'unico civile coinvolto in quella carneficina. Chi erano i due giovani in sella alla moto? I brigatisti sono sempre stati categorici: «Noi con la Honda non c'entriamo». E però non si è mai saputo chi fossero il conducente e il passeggero che aprì il fuoco contro Marini e centrò il suo motorino. Ora l'ispettore Enrico Rossi ci dà la soluzione, che però non è verificabile. Rossi sostiene che i due erano agenti segreti alle dipendenze del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi e avevano un compito ben preciso: «Proteggere le Br da qualsiasi disturbo». Sì, il ruolo degli 007, guidati da Guglielmi che tanto per cambiare era in quel tratto affollato di strada per sovrintendere alle operazioni, era quello di aiutare i terroristi a portare a termine la loro sanguinaria impresa. Una tesi che s'iscrive alla nutritissima scuola dietrologica e predilige una lettura di via Fani multistrato: con i brigatisti esecutori di un disegno orchestrato da menti raffinatissime, nascoste negli apparati dello Stato e oltre i confini. Una tesi suggestiva che però, modesto dettaglio, ha sempre trovato l'opposizione feroce dei brigatisti: tutti, a cominciare da Mario Moretti, hanno sempre catalogato alla voce fantascienza i tentativi di inserire Sismi, Cia, Kgb e chi più ne ha più ne metta in via Fani o in qualche segmento della prigionia e dell'esecuzione di Moro. La vicenda s'innesca con la scioccante missiva anonima recapitata a un quotidiano nell'ottobre 2009: «Quando riceverete questa mia lettera saranno passati almeno sei mesi dalla mia morte», imminente per un tumore inesorabile. «La mattina del 16 marzo - prosegue il testo - ero su una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi. Con me alla guida c'era un altro uomo proveniente come me da Torino. Il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere». Insomma, quella mattina lo Stato, o meglio la sua parte più oscura, stava con i terroristi. Rossi legge la lettera casualmente nel febbraio 2011 e s'imbatte in alcuni particolari inquietanti: la missiva non è stata protocollata e non sono stati disposti accertamenti. Nulla di nulla. Lui, invece, si dà da fare. Uno dei due motociclisti è morto, ma l'altro è ancora vivo e Rossi lo stana facilmente. Dettaglio molto interessante: l'uomo possiede due pistole regolarmente denunciate e una delle due è una Drulov cecoslovacca, un'arma che assomiglia a una mitraglietta. Rossi telefona all'ex agente che gli indica dove è la prima pistola, ma tace sulla seconda. Allora scatta la perquisizione con sorpresa finale. In cantina ecco spuntare la Drulov, poggiata sopra la copia dell'edizione straordinaria di Repubblica di quel fatidico 16 marzo. Sembra di stare dentro un film. Che però s'interrompe sul più bello: intervengono, non si sa bene perché, i carabinieri, di fatto l'inchiesta esce dal perimetro di Rossi e s'impantana. Niente perizie. Niente interrogatori. Niente di niente. Rossi protesta, ma fa un buco nell'acqua. Decide di andare in pensione, a 56 anni, poi scopre che l'uomo delle due pistole è morto, fatalità, dopo l'estate del 2012. Non gli resta che raccontare all'agenzia Ansa quello che ha capito. Prima di aggiungere ancora un elemento: «Il guidatore somigliava a Eduardo De Filippo», proprio come aveva messo a verbale l'ingegner Marini. Tutto torna. Anche troppo. Ma nulla è certo. In ogni caso il fascicolo è confluito nell'ennesima inchiesta aperta dalla procura di Roma sul caso Moro.
Caso Moro: «007 dovevano proteggere Br». Ha del clamoroso la notizia riportata oggi dall'Agenzia Ansa a proposito del sequestro Moro, scrive “L’Unità”. "Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall'uomo che era sul sellino posteriore dell'Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all'altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì". Enrico Rossi, ispettore di polizia in pensione, racconta all'ANSA la sua inchiesta. «L'ispettore racconta che tutta l'inchiesta è nata da una lettera anonima inviata nell'ottobre 2009 a un quotidiano. Questo il testo: "Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente..."» riporta l'Ansa. «L'anonimo fornì anche concreti elementi per rintracciare il guidatore della Honda. "Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all'epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell'antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 "in modo casuale: non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani". Sarebbe lui l'uomo che secondo uno dei testimoni più accreditati di via Fani - l'ingegner Marini - assomigliava nella fisionomia del volto ad Eduardo De Filippo. L'altro, il presunto autore della lettera, era dietro, con un sottocasco scuro sul volto, armato con una piccola mitraglietta. Sparò ad altezza d'uomo verso l'ingegner Marini che stava "entrando" con il suo motorino sulla scena dell'azione» continua l'Ansa. «"Chiedo di andare avanti negli accertamenti - aggiunge Rossi - chiedo gli elenchi di Gladio, ufficiali e non, ma la "pratica" rimane ferma per diversi tempo. Alla fine opto per un semplice accertamento amministrativo: l'uomo ha due pistole regolarmente dichiarate. Vado nella casa in cui vive con la moglie ma si è separato. Non vive più lì. Trovo una delle due pistole, una beretta, e alla fine, in cantina poggiata o vicino ad una copia cellofanata della edizione straordinaria de La Repubblica del 16 marzo con il titolo 'Moro rapito dalle Brigate Rosse', l'altra arma". E' una Drulov cecoslovacca, una pistola da specialisti a canna molto lunga che può anche essere scambiata a vista da chi non se ne intende per una piccola mitragliatrice. Rossi insiste: vuole interrogare l'uomo che ora vive in Toscana con un'altra donna ma non può farlo. "Chiedo di far periziare le due pistole ma ciò non accade". Ci sono tensioni e alla fine l'ispettore, a 56 anni, lascia. Va in pensione, convinto che si sia persa "una grande occasione perché c'era un collegamento oggettivo che doveva essere scandagliato". Poche settimane dopo una "voce amica" gli fa sapere che l'uomo della moto è morto e che le pistole sono state distrutte. Rossi attende molti mesi- dall'agosto 2012 - prima di parlare, poi decide di farlo, "per il semplice rispetto che si deve ai morti"» conclude l'Ansa.
L’ex ispettore e i misteri del caso Moro: “Parlerò solo con pm e in Parlamento”. Enrico Rossi aveva indagato su una lettera inviata nel 2009 a La Stampa. Al centro i due motociclisti sulle Honda comparsi in via Fani. C’era un torinese? Scrivono Grazia Longo e Massimo Numa su “La Stampa”. L’ex ispettore della Digos Enrico Rossi sa di essere, da poche ore, al centro dell’attenzione. Ha rivelato all’Ansa alcuni retroscena del caso Moro, in particolare sul ruolo - mai chiarito - di un motociclista, in sella a una Honda, comparso in via Fani nell’ora X del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Deciso a raccontare la «sua» verità, perchè gli accertamenti che furono svolti in allora dai suoi colleghi in modo scrupoloso non portarono a nulla. «Tutto è partito - ha detto Rossi all’Ansa - da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Diede riscontri per arrivare all’altro. Dovevano proteggere le Br da ogni disturbo. Dipendevano dal colonnello del Sismi che era lì». Le ricerche dell’ispettore sono nate da una lettera anonima inviata nell’ottobre 2009 alla redazione de La Stampa. Questo il testo: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più». La polizia avviò così le prime indagini. In una casa di Cuneo, dove l’uomo ha vissuto con la prima moglie, vengono trovate due armi regolarmente denunciate: una Beretta e una Drulov, un’automatica di precisione di fabbricazione cecoslovacca. E le pagine originali di Repubblica dei giorni del sequestro Moro. Rossi afferma di aver chiesto di sentire la coppia e di ordinare una perizia sulle armi. Ma non accadde nulla. Sui dettagli dell’indagine Rossi è pronto a testimoniare. «Ma solo con la magistratura e nelle commissioni parlamentari. Aspetto di essere convocato». Che l’Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 rappresenti un mistero è un dato assodato. Tutte da chiarire sono invece le rivelazioni di Rossi: la procura di Roma, che si sta occupando del caso, non ha per ora trovato riscontri. L’attività degli inquirenti, comunque, prosegue. Intanto la memoria ricorre a pochi mesi fa, quando - il 6 novembre scorso - l’ex brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu è stato indagato per calunnia dalla procura della capitale proprio perché, secondo la pubblica accusa, aveva fornito informazioni false sul caso Moro.
Sequestro Moro, il fantomatico 007 era un fotografo che viveva a Bra. Secondo l’autore della lettera anonima c’era lui sulla moto. Ma l’ex moglie: “Nel ’78 era sempre a casa con la sua famiglia”, scrive Massimo Numa su “La Stampa”. Nome: Antonio Fissore, originario di Bra (Cuneo), morto a Firenze nell’agosto 2012. A marzo aveva compiuto 67 anni. Sarebbe lui l’agente X che, in sella a una Honda blu, con un «collega» avrebbe partecipato al sequestro Moro, il 16 marzo 1978, proteggendo la fuga dei killer delle Br. La moglie separata, Franca Faccin, lo difende: «Nel ’78 era a casa con noi, a Bra, mai stato nei Servizi». Professione fotografo, regista tv, esperto di comunicazione, commesso dal 2001 al 2010 in un negozio di dischi-video nel quartiere San Paolo a Torino. Aveva conseguito il brevetto di pilota civile nella scuola di volo dell’aeroporto di Levaldigi. Alle spalle una famiglia benestante di coltivatori. Sposato con Franca Faccin, 68 anni, padre di due figli già grandi, Flavio (titolare di una società di produzione tv, la Fimedia) e Davide, operaio. Nel 2000 si separa e inizia una relazione (durata sino al 2010) con Tiziana A., torinese, commessa nello stesso negozio. Poi si lega a una terza donna, Monica M. e va a vivere con lei a Firenze, non lontano da via Villamagna. Un uomo alto 1,90, calvo, baffi. Distinto. Secondo l’autore della lettera anonima inviata alla redazione de La Stampa nell’ottobre 2009, Fissore sarebbe stato lo 007 che spianò una mitraglietta contro un testimone, per indurlo ad allontanarsi. L’anonimo era in fin di vita, gravemente malato. Non conosceva il nome del collega con cui operò in via Fani ma offriva indicazioni per identificarlo come il «marito» della commessa del negozio. La moglie, Franca Faccin, 68 anni, vive ancora nella villetta sulla collina di Bra. Accetta di rispondere a tre domande. Nei primi Anni 70, in particolare nel ’78, dov’era suo marito? «Qui con noi a Bra, non si è mai allontanato, di certo non andò mai a Roma». E la militanza nei Servizi Segreti? Ha mai avuto percezione di una sua doppia vita? «Non ha mai lavorato per i Servizi, era fotografo e regista tv». Pare in una tv privata piemontese. Le armi. Sapeva che in casa erano custodite una pistola cecoslovacca, rara, e una semi-automatica Beretta? «Certo, le ha prese la polizia, in casa non ho più neppure una sua foto». L’autore della lettera anonima spiega di essersi deciso, prima di morire, per il rimorso di avere partecipato alla strage della scorta di Moro, di rivelare la verità. Non sa il nome del collega con cui era sulla Honda ma tutti e due - sostiene l’anonimo - erano al comando del colonnello dell’Ufficio R del Sismi, Camillo Guglielmi, che, quella mattina alle 9.15 era effettivamente in via Fani («Stavo andando a trovare un collega», aveva poi detto ai pm romani) dunque per caso. I due agenti avrebbero dovuto proteggere la fuga dei killer dopo la strage. La Digos di Torino individua subito Antonio Fissore, attraverso la sua ex amante di Torino. Si mettono in contatto con lui, sanno che aveva denunciato il possesso di due armi. Le vanno a cercare, il 24 maggio 2012, nella villetta di Bra. Trovate in una scatola di cartone. C’è anche una copia di Repubblica del 16 marzo 1978. Poi libri e saggi su temi-storico politici e ritagli di giornale, sempre su fatti di grande rilievo, come la prima guerra in Iraq di Bush padre. Poi una busta con un foglio dell’ex parlamentare dc Franco Mazzola, nel ’78 sottosegretario alla Difesa, ritenuto uno dei depositari dei segreti del caso Moro. Fissore viene denunciato per «incauta custodia» delle armi ma il procedimento della procura di Alba viene archiviato dopo la sua morte. Gli elementi dell’indagine finiscono in una nota inviata alla procura di Torino che, per competenza, trasferisce il fascicolo a Roma. L’indagine viene archiviata. Non erano emersi infatti, al di là degli elementi «suggestivi» e «sospetti» contenuti nella lettera, alcun indizio che potesse collegare il fotografo a via Fani. Chiude il sindaco di Bra, Renata Sibille: «Faceva il fotografo nei matrimoni, ha lavorato in un negozio nel centro. Una persona gentile e riservata. Lui uno 007? Impossibile».
Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero, scrive Paola Cucchiarelli su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono – sicuramente – gli unici colpi verso un civile presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: Non è certamente roba nostra. L'ingegner Marini si salvò solo perchè cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui ad altezza d’uomo proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di passare all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo. Il conducente della moto – disse – era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò "l'immagine dell’attore Edoardo De Filippo". Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: Devi stare zitto. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l'ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro. Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato). Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l'ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in cerca di gloria (ma perchè allora sparare per uccidere?); due uomini della 'ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita. I Br negano ma, ha detto il magistrato, "una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile". Uomini della malavita o dei servizi? "Allora tutto si spiegherebbe". Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c'era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di gestire il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.
Gli ingredienti di un giallo ci sono tutti: la confessione post mortem, l’indagine di un poliziotto, la distruzione delle prove e la magistratura – quella romana - che comunque indaga: fine, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ma non è così se si parla del caso Moro. «Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, quello che guidava la moto». Enrico Rossi, ispettore di Ps in pensione, racconta la sua inchiesta passeggiando sulle colline di Torino, a due passi da Superga. Spiega con puntiglio e gentilezza sabauda che, secondo colui che inviò la lettera anonima – che si qualificava come uno dei due sulla moto – gli agenti avevano il compito di «proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978». Tutta l’inchiesta è nata da una lettera anonima inviata a un quotidiano nell’ottobre 2009. Eccola: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...». L'anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio di Torino. «Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all’epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell’antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 in modo casuale. Non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani che secondo un testimone ritenuto molto credibile era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo. "Non so bene perchè ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L'uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta. Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L'uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo». Il titolo era: «Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse». «Nel frattempo – continua Rossi – erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche incomprensione nel mio ufficio. La situazione si congela" e non si fa nessun altro passo, che io sappia». «Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una "voce amica" di cui mi fido – dice l’ex poliziotto – m'informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l'inchiesta "incompiuta"». Rossi ricorda, sequestrò una foto, che quell'uomo aveva un viso allungato, simile a quello di De Filippo: «Sì, gli assomigliava». Fin qui l’ex ispettore, che rimarca di parlare senza alcun risentimento personale ma solo perchè «quella è stata un’occasione persa. E bisogna parlare per rispetto dei morti». Il signore su cui indagava Rossi è effettivamente morto – ha accertato l’ANSA – nel settembre del 2012 in Toscana. Le pistole sembrerebbero essere state effettivamente distrutte, ma il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul caso Moro.
Il caso Moro tra nuove rivelazioni e vecchie dimenticanze. Grande rumore sullo strano caso dei due agenti segreti presunti «fiancheggiatori delle Br». Ma tutti ignorano una sicura verità: e cioè che nel 1979 gli assassini di Moro furono arrestati nella casa romana del capo del Kgb in Italia, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Grande rumore stanno facendo le rivelazioni di un ispettore a riposo della polizia torinese, il quale ha dichiarato ai magistrati che il giorno del rapimento di Aldo Moro, in via Fani a Roma, su una moto Honda sarebbero stati inviati due agenti dei servizi segreti con il paradossale compito di «aiutare le Brigate rosse» nell'impresa. Come sempre in questi casi c'è chi è scettico e pensa all'ennesimo depistaggio, chi ci crede e grida allo Stato complice. E c'è chi fa spallucce, come se ormai sulla vicenda dovesse comunque scendere il silenzio: tanto... A me, ogni volta che si parla del caso Moro, torna invece alla memoria un documento che rimase sepolto nelle carte della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Mitrokhin, l'ex spione russo che aveva copiato migliaia di documenti del Kgb, nei quali si trattava anche dell'Italia. Era il 2002. La commissione Mitrokhin aveva analizzato il ruolo di Giorgio Conforto, detto «Dario», nato nel 1908 e morto nel 1986, considerato il più antico e importante agente sovietico in Italia, tanto da essere perfino decorato con la stella all'Ordine di Lenin. E sull'agente Dario, ex dirigente del ministero degli Esteri (nel 1932 era stato infiltrato dal Kgb nel Partito nazionale fascista), la commissione Mitrokhin aveva scoperto un anomalo ruolo nel rapimento di Moro. In un'audizione era stato l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro dell'Interno nel periodo del sequestro, a rivelare che il 29 maggio 1979 era stato proprio Conforto a segnalare alla questura di Roma che i due brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, un anno prima attivi nel rapimento dello statista, erano a casa dell'agente segreto. La polizia, subito accorsa all'indirizzo (il quarto piano di viale Giulio Cesare, 47), vi aveva fatto un'importante scoperta: con i due latitanti c'era la mitraglietta Skorpion usata per uccidere il leader della Dc. La figlia di Dario, Giuliana Conforto, docente universitaria e titolare dell'appartamento, fu arrestata per favoreggiamento e poi scagionata. Nella commissione Mitrokhin c'era stato chi si era convinto che la soffiata di Dario fosse in realtà il prezzo di uno scambio strategico: «Non è inverosimile» aveva dichiarato Enzo Fragalà, l'ottimo commissario di An ucciso nel febbraio 2010 in circostanze mai del tutto chiarite «che Conforto sia riuscito, in un sol colpo, a eliminare con Morucci e Faranda l'ala trattativista delle Br, più lontana dagli interessi del Kgb, e anche a ottenere l'immunità per la figlia». Ecco, ogni volta che esce qualche strana novità sul caso Moro, a me viene in mente invece l'agente Dario, con la sua bella stella all'Ordine di Lenin. E ogni volta mi domando quanto strano sia questo Paese, che si appassiona alle storie più strane e nulla sa di altre storie, peraltro sicuramente vere, come quella di Giorgio Conforto e del suo appartamento in viale Giulio Cesare. Poi sorrido nel domandarmi che cosa sarebbe mai accaduto se nel 1979 si fosse scoperto che i due brigatisti-rapitori e la mitraglietta che aveva ucciso Moro fossero stati ospitati non nella casa della figlia del capo del Kgb in Italia, ma in quella della figlia del capo della Cia.
Caso Moro: tutti i misteri. Le rivelazioni dell'ex poliziotto, Enrico Rossi, sulla complicità di alcuni 007 alimentano nuovi misteri che si intrecciano a quelli mai svelati sul rapimento dello statista democristiano, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. E’ un altro mistero. Che si aggiunge e si intreccia agli altri fatti “oscuri” che avvolgono il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Lui si chiama Enrico Rossi, è un ex ispettore della Digos, e dopo tre anni ha deciso di raccontare, tra rabbia e amarezza la sua indagine sul caso Moro nata, nel 2009, da una lettera anonima inviata a un quotidiano. "Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora e' tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...". E l'anonimo fornì, nella lettera, anche concreti elementi per rintracciare il guidatore della Honda. Elementi che Enrico Rossi non trascurò. Infatti l’ex poliziotto precisa: “Sono riuscito a rintracciare nel 2011 gli uomini sulla Honda ma mi fermarono. E non sono riuscito ad interrogare quello che era alla guida”. Adesso, però, sono morti entrambi. Ma questa lettera che ha riaperto, l’ennesima indagine finita nel nulla sul rapimento e uccisione dell’ex statista democristiano, ha creato anche nuovi interrogativi, misteri e forse anche nuovi tentativi di depistaggio. Perché infatti proprio adesso queste nuove rivelazioni? Certo è che sia per i brigatisti che per gli stessi magistrati, quella Honda blu presente sul luogo del rapimento è stata in passato ed è tutt’ora un mistero. E su questo punto, per una volta, sono tutti d'accordo.
La misteriosa moto blu: La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 e' un rompicapo. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono gli unici colpi verso un civile presente sulla scena del rapimento, l'ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: Non è certamente roba nostra. L'ingegner Marini si salvò solo perchè cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui ad altezza d'uomo proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo e disse che il conducente della moto era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che gli ricordava l'attore Edoardo De Filippo". Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro, l’autore della lettera, che esplose colpi di mitra nella direzione dell'ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: Devi stare zitto. Per giorni le intimidazioni continuarono. Poi l'ingegnere capì e decise di trasferirsi in Svizzera per tre anni.
Il mitra dello 007: A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l'ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell'agente Zizzi, che scortava Moro. Infine quella in mano all'uomo della Honda: il piccolo mitra. Il caricatore cadde dalla moto e Marini lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani. Sulla scena ce n’è anche un quarto ma non fu mai ritrovato. Ma i misteri sul caso Moro sono davvero tanti e tutti intrecciati tra loro quasi a formare, volutamente, una ragnatela di false verità.
Il trasbordo del presidente e le foto sparite nel nulla: Quella mattina, subito dopo l’attacco rapido e sanguinario del commando, il trasbordo del presidente DC avvenne invece piuttosto lentamente, una calma quasi surreale visto ciò che era appena accaduto. Così lo descrisse una testimone. Ma non era la sola. Al numero 109 di Via Fani, un altro spettatore scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando. Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura dalla moglie dell’uomo, una giornalista dell’agenzia ASCA, non si saprà più nulla.
Strane presenze in via Fani, l'uomo dei Servizi: Chi era veramente presente quella mattina in via Fani? Le Commissioni parlamentari hanno ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione ovvero di quella divisione del Sismi che controllava Gladio e al quale fa riferimento l’ex agente 007 a bordo della Honda che ha sparato a Marini e poi scritto la lettera nel 2009. Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci, esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di Bologna, confermò che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con via Fani, perché doveva andare a pranzo da un amico.
Le borse del presidente: Poi c’è il mistero sulla sparizione di alcune delle borse di Moro. Secondo la testimonianza della moglie Eleonora Moro, il presidente usciva abitualmente di casa portando con se cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. La signora Moro dichiarò: "I terroristi dovevano sapere come e dove cercare, perché in macchina c'era una bella costellazione di borse".
La seduta "spiritica": Tra le vicende inusuali accadute durante i 55 giorni del rapimento Moro è da menzionare anche quella del 2 aprile 1978. Nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, alle porte di Bologna, si riunì un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Erano presenti l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi con la moglie Flavia. Secondo i racconti, per allentare la noia di una giornata di pioggia, a qualcuno dei partecipanti venne la bizzarra idea di tenere una seduta spiritica. I partecipanti avrebbero quindi evocato gli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira, chiedendo loro dove si trovasse la prigione di Aldo Moro. Gli spiriti formarono le parole Bolsena-Viterbo-Gradoli e indicarono anche il numero 96. Secondo i racconti dei partecipanti, fu proprio il terzo nome ad incuriosirli, tanto da prendere un atlante per controllare se esistesse una località chiamata Gradoli. Il 4 aprile, a Roma per un convegno, Prodi parlò di questa indicazione a Umberto Cavina, capo ufficio stampa della DC, che la trasmise a Luigi Zanda, addetto stampa del ministro dell'Interno, il quale fece un appunto per il capo della polizia, Giuseppe Parlato. Parlato ordinò di perquisire la zona lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina. Il rastrellamento della zona viene effettuato il 6 aprile, senza risultati. Poi si scoprirà dopo la verità.
La figura discussa e controversa del brigatista Mario Moretti, ideatore del rapimento Moro: Moretti, deus ex machina del rapimento, sembra in base ad una relazione parlamentare che fosse conosciuto alle forze dell’ordine prima ancora della strage di via Fani e la cui latitanza sia stata in qualche modo “protetta” da coloro che avrebbero dovuto contrastare il fenomeno terroristico. Mario Moretti è infatti sfuggì alla cattura, mentre venivano regolarmente arrestati i suoi compagni, a via Boiardo a Milano, nel 1972 e a Pinerolo, Torino, nel 1974. Non solo ci sono altri tre interrogativi ai quali non si è mai dato una risposta certa e che proverebbero la vicinanza di Moretti ai nostri apparati di sicurezza. I tre fatti potrebbero essere così riassunti: 1- il mandato di cattura nei confronti di Moretti viene spiccato solo il 19 maggio 1978, a non il 24 aprile quando viene emesso nei confronti degli altri brigatisti; 2- il nome di Moretti non compare tra quelli dei terroristi sui quali il Capo della Polizia ipotizza di istituire una taglia; 3- la comunicazione del ministero dell’Interno inerente le ricerche di Moretti è l’unica della quale non viene segnalata l’urgenza. La Relazione presentata dall’on. Walter Bielli nel 25 luglio 2001 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, avanza anche pesanti dubbi sull’operato della magistratura romana durante i 55 giorni del sequestro del presidente della DC.
L'ASSASSINIO DI MORO (1978) - Il "mistero dei misteri", dopo le ultime dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta risvolti inquietanti. Dietro la morte del dirigente DC uno spietato gioco delle parti, scrive Giuseppe Dell’Acqua. Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9 Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in Via Caetani a Roma. Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una società; arrivino a mettere in dubbio se stessi. Il 16 marzo scorso è ricorso il 28° anniversario della strage di Via Fani (16 marzo 1978) ed è passato ancora una volta nel silenzio di tutti; quotidiani, riviste, TG, programmi TV, nessuno ha nemmeno accennato alla morte dei cinque agenti di scorta. A distanza di tempo è bene ricordare che il mistero del sequestro Moro non è ancora stato svelato e soprattutto che la dichiarazione rilasciata il 5 luglio 2005 dall'onorevole Galloni (vice segretario vicario della DC nel 1978) inerente la "certa" presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, ha alzato un grosso polverone che nel giro di pochi giorni, come per incanto, si è dissolto in un semplice ricordo. Le dichiarazioni di Galloni, Andreotti e addirittura della Santa Sede, i documenti del "Dossier e dell'Archivio Mitrokhin", devono obbligatoriamente portare la coscienza di "qualcuno" a pensare che forse sia giunto il momento di parlare per far conoscere all'Italia, la verità.
16 marzo 1978, Via Fani ore 9.05: " ...un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della DC. La sua scorta armata, composta da cinque agenti...è stata completamente annientata..."
Con questo comunicato le Brigate Rosse, il 17 marzo, rivendicano il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione del maresciallo dei carabinieri Oreste Leopardi, dell'appuntato Domenico Ricci, del brigadiere Francesco Izzi e degli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati è pronta a votare la fiducia al 4° governo Andreotti che nasce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi 8 settimane. A rendere particolare quest'evento è che, per la prima volta negli ultimi 30 anni, fanno parte del governo anche esponenti del Partito Comunista Italiano, avvicinati alla Maggioranza dal nuovo progetto politico, denominato "compromesso storico"; artefice della cosiddetta "svolta a sinistra" è proprio l'onorevole Aldo Moro. D'origini pugliesi Moro è stato capo del governo in cinque diverse occasioni dal 1963 (I governo) al 1976 (V governo) e ad oggi, è considerato come uno dei più grandi statisti italiani perché è riuscito a comprendere prima di tutti l'ondata di innovazione che stava colpendo la politica italiana. Moro dal 16 marzo al 9 maggio 1979 resterà per tutto il periodo chiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Chi erano le BR e soprattutto qual era il loro principale obiettivo? Le BR "nascono" in un convegno dei militanti del Comitato Politico Metropolitano (CPM) a Chiavari, in Liguria nell'autunno del 1970. Il CPM era una "Struttura Articolata di Lavoro in cui i militanti realizzano da una parte le condizioni per una riflessione politica.e dall'altra consentono una crescita politica omogenea della lotta."; erano gruppi di studenti ed operai che si riunivano in "assemblee" per discutere di politica e per cercare di "risolvere" i problemi della società attraverso "lotte e volantini". In questo convegno è sostenuta la necessità di intraprendere una lotta armata, della guerriglia e quindi, della clandestinità: "Non è con le armi della critica e della chiarificazione che s'intaccano la corazza del potere capitalistico e le croste della falsa coscienza delle masse. Che la lotta di classe nel suo procedere incontri la violenza del sistema, è inutile ripetercelo. Il problema della violenza non è separabile dall'illegalità. lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria nello scontro di classe.". La parola d'ordine negli anni '70 è "lotta di classe", ed è proprio questo lo scopo principale delle "neonate" BR che, infatti, si autodefinirono "combattenti del proletariato". I loro punti di riferimento erano "il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani, non accettando gli schemi che hanno guidato i partiti comunisti europei nella fase rivoluzionaria della loro storia." Le BR avevano intenzione di realizzare quello che Lenin riuscì a fare in Russia nel 1917: una "rivoluzione comunista", ma allo stesso tempo rinnegavano il modo con il quale i partiti comunisti europei hanno affrontato la "politica rivoluzionaria" fino a quel momento. L'obiettivo principale quindi era la lotta di classe che doveva portare il "proletariato", il "solo, unico, autentico, comunismo rivoluzionario" al potere. Secondo il parere di molti storici, il vero obiettivo delle Brigate Rosse era quello di essere riconosciute politicamente ed il discorso fino a qui fatto rafforza l'idea di BR come partito politico, pronto a guidare la nazione. Un esponente di spicco del partito armato però, nega questa tesi: Mario Moretti. Capo indiscusso delle BR, ideatore del sequestro Moro e quindi punto massimo delle ideologie brigatiste, nel suo libro "Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana" alla domanda di Carla Mosca e Rossana Rossanda sulla trattativa che le BR stavano avendo con il Governo per la liberazione di Aldo Moro, risponde: "Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. E' diventata sinonimo di "cedimento". Noi non volevamo ne trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo?" Le BR volevano solo l'"ammissione di uno stato di fatto" che valeva a dire " qualcuno dello Stato ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire". Non gli serviva essere riconosciute politicamente o istituzionalmente, a loro bastava solo essere "riconosciute" come avversario, come nemico da battere. Il linguaggio, leggermente "conflittuale", è appropriato nel descrivere "gli anni di piombo" ed in particolare il sequestro Moro che ha rappresentato, per la società italiana, una vera e propria "guerra civile" dove non ci sono due ideologie politico-sociale a lottare tra loro, ma tre istituzioni: lo "Stato" rappresentato dal Governo, l'"Anti-Stato" rappresentato dalle Brigate Rosse e la "Nazione" rappresentata dal popolo italiano. E' proprio questo terzo elemento che rende l'"Affaire Moro" un macigno, ancora oggi, che grava insopportabile sulla Repubblica Italiana; per la prima volta si è messa in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, "né con lo Stato né con le BR" è lo slogan del 1978 e questo significa che non solo, un popolo non riconosce più l'avversario nel "cattivo" ma addirittura, non riesce a capire chi è veramente il "nemico" da battere. Si colloca quindi in una posizione intermedia, al centro dei due "fuochi". Questo comporta la distruzione di un'identità che mai l'Italia Repubblicana proverà ancora.
Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano; ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi rispettivamente di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della stazione centrale di Bologna (2 agosto 1980). In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia intera fu colpita da gravi atti terroristici "neri" e "rossi". I colori purtroppo distinguono il terrorismo di stampo fascista o più semplicemente quello di "estrema Destra" (Nero) da quello di marchio comunista o di "estrema Sinistra"(Rosso). E' solo una coincidenza che i due attentati "spartiacque" si tingono di "nero" non solo per l'alone di mistero che tuttora li circonda, ma anche per le dirette responsabilità dell'azione. E' bene ricordare che dopo la strage alla stazione di Bologna, gli attentati continueranno, anche se, avranno volti nuovi e del tutto diversi quali la mafia, la camorra e la ndrangheta, per non parlare poi del terrorismo moderno; ma questo è un altro discorso. Come ogni "dopoguerra" che si rispetta, anche la "stagione di piombo" ha il suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda oggettività dei numeri.". 429 vittime, 2000 feriti, 199 morti e 782 feriti in 10 stragi, 144 vittime rivendicate dal terrorismo "rosso" 86 delle quali solo da parte delle Brigate Rosse e 36 vittime rivendicate dal terrorismo "nero", sono solo alcuni dei "numeri", tragici, che il terrorismo porta con se. È subito evidente che ben 86 delle 144 vittime rivendicate, appartengono alle BR, sintomo che sia stata la più grande "organizzazione terroristica italiana" della storia repubblicana. La domanda a cui sarà impossibile dare una risposta, è se le BR sono un "frutto" concimato, raccolto e mangiato esclusivamente da "contadini" italiani o se invece "qualcuno", di più grande, le ha "usate" per raggiungere i suoi obiettivi? E' questo il capitolo più difficile della storia del sequestro Moro e delle BR; la possibile influenza, nelle BR d'organizzazioni più grandi e più segrete, non appartenenti allo stato italiano, è da anni un punto cruciale su cui storiografi e critici s'interrogano.
Le ultime dichiarazioni dell'onorevole Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 alla rete televisiva "RAINews24", sembrano confermare l'ipotesi di una "collaborazione" tra le BR e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della DC all'epoca del sequestro Moro disse: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo". La possibile presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, apre nuovi ed inquietanti scenari sul caso Moro, chiudendo definitivamente le porte alla "pista russa" che fino ad oggi ha ipotizzato che a "decidere" la sorte dell'onorevole Aldo Moro sia stato il KGB russo. Nel raccontare la "Storia contemporanea" bisogna tener conto che esistono due "binari" che viaggiano nella stessa direzione e velocità e che però "trasportano" due "versioni dei fatti" distinte e separate. Il binario è quello del "conosciuto", della storia scritta sui libri, raccontata dai nonni o semplicemente vista in TV; il secondo invece porta con se una "storia" misteriosa, non conosciuta e che nessun libro di storia, nessun documentario TV e "forse" nessun nonno potrà mai raccontare: è la "Storia" scritta dai Servizi Segreti. I contatti tra le BR e i servizi segreti stranieri non sono molto documentati e quindi sono esclusivamente frutto d'ipotesi o d'invenzioni fantapolitiche che a volte hanno anche un fondamento. Nell'"Archivio Mitrokhin" - la raccolta di documenti segreti che Vasilij Mitrokhin, capoarchivista del KGB, consegnò agli inglesi del MI6 nel 1992 e che nel 1999 fu pubblicata con la partecipazione di Christopher Andrew, massimo esperto storico del KGB - ci sono due dichiarazioni molto importanti per la politica italiana: "nell'estate del 1967, Giorgio Amendola, a nome della Direzione del PCI, chiede formalmente l'assistenza sovietica per preparare il partito alla sopravvivenza come movimento illegale e clandestino nel caso di un colpo di Stato. Fino al 1976 i trasferimenti di fondi al Partito comunista sono stati molto più semplici a Roma che negli Stati Uniti, dal momento che i capi del PCI visitano regolarmente l'ambasciata sovietica, è possibile evitare la trafila di contatti clandestini e nascondigli segreti. Aiuti finanziari aggiuntivi arrivano da Mosca anche attraverso contratti lucrosi con società controllate dal PCI". La prima indiscrezione ci rivela che il PCI è finanziato direttamente dal KGB, mentre la seconda ci ricorda che: "Il PCI si preoccupava in particolar modo del sostegno che le Brigate Rosse ricevono dai servizi segreti cecoslovacchi, quando le BR assaltano nel centro di Roma l'automobile del presidente della DC, l'onorevole Aldo Moro, le preoccupazioni dei leader del PCI raggiungono l'apice, teme una fuoriuscita di notizie sul sostegno dato dai servizi segreti cecoslovacchi (StB) alle BR. Una delegazione del PCI a Praga è stata messa a tacere quando ha cercato di sollevare la questione dell'aiuto alle BR, alcuni esponenti delle quali sono stati invitati in Cecoslovacchia." Riassumendo, ci rendiamo conto che il PCI prelevava soldi dal KGB ed era a conoscenza che i servizi segreti cecoslovacchi "aiutavano" in qualche modo le BR, ma aveva paura che ciò si venisse a sapere. Perché? Forse perché in questo modo anche la collaborazione tra PCI e KGB sarebbe stata scoperta e soprattutto perché il PCI sarebbe stato accusato di aiutare indirettamente, attraverso gli amici cecoslovacchi (StB), le Brigate Rosse. In un momento caldo come quello dell'immediato "dopo-Moro", ciò avrebbe suscitato forti polemiche che avrebbero sancito il definitivo "crollo" del PCI proprio nel momento in cui si stava - per la prima volta nella sua storia - avvicinando al governo. Che il PCI ricevette finanziamenti dai servizi segreti Russi è accertato dall'Archivio Mitrokhin mentre la "collaborazione" tra BR e StB non è mai stata confermata. Nel "Dossier Mitrokhin" - la raccolta di documenti che gli Inglesi tra il 1995 ed il 1999 hanno inviato ai servizi segreti italiani - c'è il "Rapporto Impedian numero 143" che dice: "Nel dicembre del '75 Yuriy Andropov notificò quanto segue al Comitato Centrale del PCUS. Il Ministro degli Affari Interni Cecoslovacco, OBZINA, aveva informato il rappresentante del KGB sovietico a Praga di un incontro avvenuto il 16 settembre 1975. L'incontro era stato tra Antonin VAVRUS, Capo del Dipartimento Internazionale del Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e Salvatore CACCIAPUOTI, vice presidente della Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Italiano (PCI). CACCIAPUOTI affermò di essere stato autorizzato dalla dirigenza del PCI a informare il Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco che le agenzie ufficiali italiane erano in possesso di alcuni documenti.che confermavano che una delle basi dell'organizzazione terroristica italiana "Brigate Rosse" era ubicata in Cecoslovacchia e che le agenzie di sicurezza cecoslovacche stavano cooperando con essa." Ancora più dirette sono le accuse che nel settembre del '74 il capitano dei carabinieri Gustavo Pignoro del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fa ad Alberto Franceschini - uno dei fondatori delle BR - affermando che al momento della sua cattura, era appena arrivato da Praga. Dopo soli 6 mesi (marzo 1975) a conferma di quanto detto, gli appunti dei servizi segreti italiani rivelano che Franceschini soggiornò in Cecoslovacchia dal giugno '73 al giugno '74 frequentando il campo di addestramento di Karlovy Vary. A distanza di 30 anni arriva l'inattesa quanto impensata smentita. Un articolo, scritto sull'"Espresso" del 27 maggio 2005, risolve tutti gli equivoci e spegne l'incendio fin qui alimentato. Nell'ottobre del '99 il SISMI - l'apparato dei servizi segreti italiani - ha chiesto ai servizi segreti dell'ex unione sovietica tutta la documentazione riguardante i possibili appoggi della StB alle BR. Da questi documenti è venuto fuori che Franceschini e Curcio - capo storico delle BR - sono veramente stati a Praga, ma non si trattava dei fondatori delle BR. Uno è l'avvocato Renato Curcio, nato a Catanzaro l'1/3/1931, presente in Cecoslovacchia il 7 ed 8 agosto 1972. L'altro è un commerciante di Foiano (Arezzo), Sergio Franceschini nato nel 1917, presente a Karlovy Vary agli inizi degli anni '70. Grazie a Nicola Biondo, consulente della Commissione Mitrokhin che per primo ha letto e studiato i documenti provenienti dall'Unione Sovietica, un primo gran mistero è stato svelato e soprattutto, ritornando alle dichiarazioni di Galloni sulla presunta collaborazione BR-USA, possiamo analizzare da un diverso punto di vista l'intero "Affaire Moro". Il rapporto USA - Moro è sempre stato in primo piano fin da quel drammatico 16 marzo del 1978. Aldo Moro era stato più volte minacciato di morte nel caso in cui non avrebbe abbandonato immediatamente la carriera politica. Di fronte alla Commissione Parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro - moglie dello statista ucciso - ricordando il viaggio negli USA che il marito fece nel 1974 come ministro degli Esteri insieme al Presidente della Repubblica Leone, dice: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere". "Secondo alcuni collaboratori dell'onorevole Moro "il presidente fu molto scosso dall'incontro avuto con il segretario di Stato, Henry Kissinger, tanto è vero che il giorno dopo nella Chiesa di S. Patrick si sentì male e disse di voler interrompere per molto tempo l'attività politica". Il segretario di Stato USA, Kissinger, era molto ostile a Moro tanto che arrivò ad affermare che non credendo nei dogmi, non potesse credere nella sua impostazione politica e per questo lo riteneva un elemento "fortemente negativo". Sulle minacce che il presidente della DC subì prima del sequestro, è importante ricordare che tanti avvenimenti fecero presagire ad un triste epilogo. In principio fu il caso della macchina blindata che doveva essere pronta per il dicembre del 1977 e che invece non arrivò mai. Andreotti che Cossiga hanno sempre smentito che Moro fece richiesta di un'auto blindata. Il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta, fece raddoppiare la dotazione abituale di proiettili della sua pistola e quella degli agenti di scorta. Altri eventi, fecero capire che nell'entourage di Moro c'era uno stato d'animo preoccupato. Solo negli ultimi anni è giunta la notizia che il 15 marzo 1978 - il giorno prima della strage - il capo della Polizia ha visitato Moro nel suo ufficio, tranquillizzandolo sull'eventualità d'attentati nei suoi confronti. A Moro fu assicurato che i servizi segreti avevano la situazione sotto controllo e che non correva nessun pericolo immediato. "Ironia della sorte", il giorno dopo Moro fu rapito. Nella prima metà degli anni '50 la CIA chiese la collaborazione del SIFAR, il Servizio Informazioni Forze Armate. A capo dei servizi segreti italiani nel 1962 era Giovanni De Lorenzo che sottoscrisse un patto con la CIA: "deve [De Lorenzo] impegnarsi a rispettare gli obiettivi di un piano permanente d'offensiva anti-comunista chiamato in codice << Demagnetize >>. Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, atte a ridurre la presenza, la forza, le risorse materiali e non ultimo l'influenza nel governo del Partito comunista in Italia.Del piano Demagnetize il governo italiano NON deve essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". Al primo arruolamento di Gladio partecipò un colonnello del SIFAR, Renzo Rocca che "per i primi sei mesi del '63, su preciso mandato del generale della CIA Walters, s'impegnò nella campagna volta a impedire la formazione del primo centro sinistro organico preseduto da Moro". Il 27 giugno 1968, Rocca fu trovato morto in un ufficio al sesto piano di un palazzo di via Barberini 86 a Roma. Rocca aveva il compito di commerciare armi con i paesi Africani e soprattutto, doveva instaurare rapporti con i servizi segreti israeliani e palestinesi. Altro "007" che ebbe il compito di allacciare rapporti con i palestinesi fu il colonnello Stefano Giovannone. Un comunicato Ansa del 10 maggio 2002 dice: "Il colonnello, nel 1984, nell'inchiesta a Venezia su un traffico d'armi BR-Olp, avrebbe parlato di un proprio interessamento presso i palestinesi, e in particolare, presso il leader Arafat, per cercare aiuti per ottenere la liberazione di Aldo Moro, dopo il suo sequestro. I contatti tra i palestinesi e le BR.sarebbero avvenuti, ma non ebbero esito positivo perché Arafat fece una dichiarazione pubblica, proprio contro le BR". Il nome di Giovandone lo fece anche Aldo Moro durante i giorni di prigionia, indicandolo come "personalità in grado di intervenire" per cercare di ottenere la sua liberazione. Lo stesso Mario Moretti, capo delle BR, prese contatti con la guerriglia palestinese che arrivò a fornirgli delle armi. Tutto ciò avvenne un anno prima del sequestro Moro. Da queste testimonianze, ci rendiamo conto che CIA, SISMI, MOSSAD, OLP e BR erano in contatto tra loro e che almeno tre di loro erano legati da un'alleanza forte e ben radicata. Probabilmente sarà proprio quest'alleanza a decidere le sorti del presidente della DC. Nella vicenda Moro sono implicate tutte le più importanti istituzioni militari, a porre l'accento ancora una volta sul fatto che il 9 Maggio 1978 - giorno del ritrovamento del cadavere di Moro - ha rappresentato la fine di una "guerra civile" e l'inizio di un costante declino di un partito che è stato alla guida del paese dal primo giorno della Repubblica. Politici, industriali, operai, studenti, casalinghe; tutto il Paese è stato, per cinquantacinque giorni, coinvolto in un drammatico evento che ha scosso l'immaginario collettivo, facendo venire meno quei punti di riferimento che la società si era data: Stato, Nazione, Chiesa. La certezza che Moro non si sarebbe salvato era molto alta, al punto di giungere ad affermare che Moro non è morto il 9 maggio 1978 ucciso dai colpi della pistola di Mario Moretti; Aldo Moro "è morto" il 22 aprile, quando il Santo Padre Paolo VI, decise di rivolgersi alle BR: "Ed in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni." La lettera che Paolo VI scrisse agli "uomini delle Brigate Rosse" fu pubblicata sull'Osservatore Romano e, stando alle testimonianze dei brigatisti, segnò fortemente l'animo del Presidente. Anna Laura Braghetti - l'unica donna del gruppo brigatista che ha vissuto nella stessa casa dove lo statista fu tenuto prigioniero - racconta che "fu il papa a far precipitare ulteriormente la situazione. Moro gli aveva scritto tempo prima, supplicandolo di intervenire. Ma il papa non lo ascoltò.per Moro segnò il momento peggiore di quei 55 giorni, Fra tutte le cattive notizie che Mario [Moretti] gli portò, nessuna lo scosse come il documento del Papa. Capi che il cerchio si era saldato nel punto esatto in cui lui aveva confidato - e calcolato - che si spezzasse." Il messaggio era solo l'ultimo dei tanti appelli umanitari che le BR ricevettero durante i giorni di prigionia. Questa lettera però conteneva qualcosa di diverso; il Papa si era già rivolto ai sequestratori e non aveva mai chiuso la porta del dialogo. Quel giorno però, l'appello di Paolo VI, mise la parola "fine" alle trattative. Fu la presenza di due parole, "Senza Condizioni", che fece cadere nel vuoto le ultime speranze di liberazione. Su queste "quindici lettere" si potrebbero scrivere volumi interi; C'è chi in questa frase indica la presenza dei Servizi Segreti di mezzo mondo, chi invece è certo che fu aggiunta a posteriori sotto suggerimento di Giulio Andreotti, capo di quella DC, che aveva sul piatto della bilancia la legge sull'Aborto tanto cara alla Chiesa. Come giusto che sia è stupido, e poco professionale, cercare di seguire l'una o l'altra tesi. Sono i documenti che "parlano" e in questo caso sono tutti a favore della chiarezza del Pontefice. Da nessuna parte, su nessun foglio, in nessun interrogatorio, ci sono prove che confermano quanto ipotizzato; l'unica cosa certa è che Moro era un fedele credente e praticante assiduo. Ogni domenica, infatti, seguiva la Santa Messa nella chiesa di Santa Chiara tanto che i Brigatisti pensarono di sequestrarlo proprio durane la funzione religiosa, salvo poi rinunciare per le troppe difficoltà "militari". Per Moro la religione veniva subito dopo la famiglia, a cui tanto era legato e di cui tanto andava fiero.
Alla famiglia è rivolta l'ultima drammatica lettera che Moro scrisse prima di morire.
"Mia dolcissima Noretta [Eleonora Moro], dopo un momento di esilissimo ottimismo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC.Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi, bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo." Dopo aver attribuito le responsabilità della sua mancata liberazione alla DC, si rivolge alla famiglia in un tono affettuoso, ma allo stesso tempo autoritario di chi fondamentalmente è ancora "il capo di famiglia". Moro infine - e solo alla fine - si rivolge a quella Chiesa o meglio a quel Papa, che "ha fatto pochino" per salvarlo e per riportarlo tra le braccia dei propri cari. Il mistero è proprio qui. Moro sostenne che "tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta" ma perché? Era forse a conoscenza che la Chiesa ebbe qualche possibilità di salvarlo? Effettivamente la Santa Sede aveva pronto un "piano" per liberare lo statista attraverso il pagamento di un riscatto. Già durante i 55 giorni di prigionia si era a conoscenza dell'intenzione della Chiesa di aprire una trattativa con le BR; Andreotti ricorda: " Il Papa aveva fatto prendere delle iniziative, vi era stata la disponibilità a pagare anche una cifra molto forte, se fosse stato questo il mezzo per poter salvare Moro, avevano cercato in tutti i modi di avere contatti". A distanza di quasi 27 anni lo stesso Andreotti conferma quella voce, in un intervento al Senato del 9 Marzo 2005: "E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore." A confermare ufficialmente le intenzioni della Santa Sede è mons. Fabio Fabbri, stretto collaboratore di mons. Cesare Curioni - ispettore centrale dei cappellani carcerari italiani - all'epoca del sequestro. La dichiarazione fatta a Vladimiro Satta - giornalista del periodico "Nuova Storia Contemporanea" - indica in dieci miliardi di lire la somma che il Vaticano era pronto a pagare per la liberazione d'Aldo Moro; una cifra elevatissima per il tempo e soprattutto per la causa. Liberare Moro sarebbe stato un colpo durissimo per la DC e soprattutto per la Santa Sede: "Moro vivo sarebbe molto più pericoloso di un Moro morto" è il pensiero che circolava, durante i cinquantacinque giorni di prigionia, nelle menti degli uomini politici più importanti per il paese. Moro libero poteva essere una mina vagante nella politica italiana, andando contro quei "compagni di partito" che avevano dimostrato d'essere tutto, tranne che amici. Era chi aveva rivelato alle BR le linee guida della politica democristiana e quindi, forse, aveva "detto" cose che era meglio non sapere. Proprio per questo il SISMI si era preparato un piano denominato "Victor", da mettere in atto nel caso in cui Moro fosse stato liberato. Il progetto era quello di trasferire Moro in un centro clinico, immediatamente e prima d'ogni incontro con familiari e colleghi di partito. L'azione era assegnata al reparto medico degli incursori di Marina, sede principale di Gladio. Sia per la DC sia per la Chiesa quindi, la liberazione di Moro doveva essere evitata assolutamente. Le trattative tra Chiesa e BR fallirono proprio la mattina del ritrovamento del cadavere di Moro. Molti storici indicano nel "contatto", un personaggio noto alla cronaca per un altro tragico evento di quei 55 giorni: il falso comunicato n°7, quello del Lago della Duchessa. L'autore di quel comunicato fu un falsario legato alla "Banda della Magliana" (gruppo criminale romano) ed ai Servizi Segreti Americani: un certo Tony Ciccarelli. Era lui, secondo le testimonianze, il tramite tra la Chiesa e le BR. Ancora una volta entrano in scena i Servizi Segreti e questa volta però lasciano indelebilmente le tracce del loro passaggio.
Il 16 marzo 1978 alle ore 9.00 i Servizi Segreti Italiani erano presenti in Via Fani.
Il colonnello del SISMI Camillo Gugliemi, specializzato in "addestramento a scopo di imboscata" delle unità di combattimento "stay behind" alla base Nato in Sardegna, quella mattina era in Via Stresa a soli 200 metri dall'incrocio con via Fani. Guglielmi la mattina del 16 marzo avrebbe ricevuto una telefonata dal generale Musameci (P2): "Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro". Il militare non ha mai smentito la sua presenza in Via Fani, giustificandola però in un modo un po' "particolare". Egli dichiarò che "doveva andare a pranzo da un amico". In tutte le famiglie "normali" di solito, l'ora di pranzo è intorno alle 13.00 - 13.30 e non alle nove di mattina quando invece si è appena finiti di fare colazione. Mettendo da parte l'ironia, è strano che ci si presenti così di buon'ora a casa di un amico solo per pranzare. Questo stesso amico ha confermato che quella mattina Guglielmi aveva bussato alla porta della sua casa, ma ha sempre riferito che non era mai stato programmato un pranzo insieme. Fatto più inquietante è però che a poco più di 200 metri da un colonnello del SISMI furono sparati più di 90 proiettili, ci fu un tamponamento e fu rapito un grande esponente della politica italiana. Come mai un agente dei Servizi Segreti non ha avuto nemmeno l'idea di intervenire per vedere semplicemente quello che stava accadendo? Guglielmi ha sempre nascosto la sua presenza sul luogo della strage fino al 1991, quando un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, lo confidò all'Onorevole Cipriani. Ravasio disse anche che nelle BR era infiltrato uno "007". La spia era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco". Egli avvertì con mezz'ora d'anticipo che Aldo Moro quella mattina sarebbe stato rapito. Se mezz'ora non bastò per evitare la strage, il 16 febbraio 1978 - un mese prima dell'attentato - dal carcere di Matera, Salvatore Senatore disse: "è possibile che Moro sia rapito a breve". Altro preavviso giunse quindici giorni prima del sequestro. Renzo Rossellini, animatore di radio Città Futura, informò i dirigenti del PSI che Moro sarebbe stato rapito. Bettino Craxi, però, lo convocò solo a sequestro compiuto. Lo stesso Rossellini alle otto del mattino - un'ora prima del sequestro - in una trasmissione radiofonica, aprì con la notizia dell'avvenuto sequestro d'Aldo Moro. Le notizie, secondo il generale Santovito (P2), giunsero al SISMI centrale solamente dopo il 16 marzo. Purtroppo la registrazione della trasmissione radiofonica, così come le famose foto scattate da Gherardo Nucci pochi minuti dopo l'attentato, è scomparsa nel nulla. Nessuna prova, però, è più schiacciante di quella fornita da Antonino Arconte, nome in codice G.71. Arconte faceva parte di una struttura militare riservatissima: la "Gladio delle centurie" che operava fuori la nazione Italia al fine di evitare possibili colpi di Stato. Gladio fu istituito negli anni '50 con lo scopo di controllare e neutralizzare la capacità offensiva dei comunisti in caso di guerra civile. Naturalmente da quel momento si è evoluta e specializzata diventando un organo militare fondamentale per i Servizi Segreti italiani. "Il gran segreto" intorno al quale ruotavano gli interrogatori delle BR a Moro era proprio Gladio. L'argomento principale era la struttura di guerriglia e controguerriglia usata dal corpo speciale dei servizi segreti. Questa "seconda faccia" di Gladio doveva assolutamente restare segreto perché coinvolgeva i rapporti con gli USA e in particolare perché infrangeva le leggi della legislazione italiana. La legge 801/77, all'articolo 10, sancisce: "Nessuna attività, comunque idonea per l'informazione e la sicurezza, può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge". La legge di riforma dei servizi segreti 801 del '77 impone, per quanto riguarda gli agenti dei servizi segreti, di svolgere solo operazioni di "intelligence" e non operazioni armate. Il compito degli 007 italiani era solo quello di raccogliere informazioni e non di attuare operazioni militari. Gladio invece era coinvolta in molte operazioni militari all'estero ed anche in Italia tanto che il Ministro Formica dichiarò che "nell'Italia Repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento; uno stato democratico può certamente avere dei piani segreti.ma non può avere assolutamente una milizia clandestina.". Gladio agiva in modo clandestino e quindi andava contro la legge. Ecco perché rappresentò il "gran segreto" con il quale le BR volevano minacciare lo Stato. Ad un certo punto del sequestro, infatti, ci si rese conto che le trattative non erano volte alla liberazione di Moro bensì alla consegna dei documenti raccolti dai terroristi; ma questo è un argomento che tratteremo più avanti. Ritornando ad Arconte, "il gladiatore" attraverso un sito internet prima, ed un libro poi, parlò di una sua missione in Medio Oriente che ebbe sviluppi importanti nel sequestro Moro". Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". Il plico che contiene l'ordine di aprire un canale per la liberazione di Moro è autenticato dal notaio Pietro Ingozzi d'Oristano ed è firmato del Capitano di Vascello della Marina della X Divisione "Stay Behind". Il documento è datato 2 marzo 1978 e fu consegnato a Beirut il 13 marzo dello stesso anno. Moro sarà rapito il 16 di marzo, due settimane dopo la data d'emissione e ben diciotto giorni prima della "cartolina di mobilitazione" che giunse ad Arconte il 26 febbraio 1978. Arconte però non è l'unico testimone del viaggio. Un secondo "gladiatore" lo accompagnò in missione: Pierfrancesco Cangedda, nome in codice "Franz". Egli fu inviato tempo prima in Cecoslovacchia per raccogliere informazioni sull'addestramento delle BR; un tema di grande interesse per la Commissione Mitrokhin. "Franz" è a conoscenza dei legami tra il terrorismo tedesco dell'occidente e le BR. Cosa centra il terrorismo tedesco? Forse non tutti sanno che l'operazione di Via Fani è stata la perfetta copia dell'operazione della Baader-Meinhof - organizzazione terroristica nata nella Repubblica Federale Tedesca nel 1971 - del 5 settembre 1977, quando fu rapito l'industriale Hans Schleyer. La Procura di Roma tramite i NOS ha interrogato i due "gladiatori" nel novembre 2000, solo che, ad oggi, non si conoscono gli esiti. In tutta questa vicenda, l'unica certezza è che nei Servizi Segreti si sapeva con largo anticipo che Moro sarebbe stato sequestrato. Falco Accame, è stato presidente della Commissione difesa della Camera dal 1976; egli ha apertamente dichiarato che "nell'agguato di Via Fani Guglielmi incarnava la presenza di Gladio col compito di verificare che tutto andasse bene ". Falsa che sia questa ipotesi, Gladio era presente in Via Fani "sottoforma di proiettile"; è poco nota la vicenda che i bossoli rinvenuti sul luogo della strage - 92 sparati e ben 46 da una sola arma, una "mitraglietta Scorpion" di fabbricazione cecoslovacca - presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. Questa speciale vernice rende quasi certa la provenienza delle armi, poiché è la stessa usata da Gladio per preservare i proiettili nei depositi sotterranei. Perché pur sapendo in anticipo delle intenzioni dei brigatisti, non si è fatto niente di concreto per la liberazione di un uomo, prima che di un politico.
Caso Moro, i palestinesi avvertirono l'Italia. E il bar di via Fani aggiunge un mistero, scrive Alberto Custodero l'11 Dicembre 2015 su "La Repubblica". Fioroni: "Trovate tante bugie e omissioni". Grassi: "Venti bierre in via Fani, non dodici". La relazione dopo un anno di indagini della Commissione bicamerale sul rapimento dello statista democristiano. È giallo su una donna e un tedesco a bordo di una moto nel luogo della strage. Nelle carte la testimonianza di Raffaele Cutolo sui rapporti 'ndrangheta-Br. Olp, Raf tedesca, servizi segreti, informatori, infiltrati, traffico d'armi, banda della Magliana, killer sconosciuti, armi sparite, fiancheggiatori mai identificati. E poi verità monche, memoriali smentiti, inchieste incompiute, testimoni inattendibili. A trentasette anni dal sequestro di Aldo Moro e dal massacro della sua scorta, intrighi e misteri come un muro di nebbia nascondono ancora parte della verità sulla morte dello statista democristiano. Hanno fatto tutto da sole le Brigate Rosse, o c'è stato lo zampino di qualche intelligence (non necessariamente italiana) dietro il rapimento del presidente Dc che, proprio il 16 marzo del 1978, giorno della strage di via Fani, stava per dare vita al primo compromesso storico (un governo che nascesse con l'appoggio del Pci) della storia della Repubblica? Per tentare di squarciare il velo di omertà sul rapimento Moro, un anno fa è stata istituita una Commissione bicamerale d'inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni (Pd). In passato ce n'è stata un'altra dedicata al sequestro e alla morte del politico scudocrociato, ma il caso Moro è stato indagato a fondo anche dalla Commissione Stragi e da quella sulla P2. Oggi, a un anno dalla sua istituzione, è stato presentato un primo, provvisorio bilancio dell'indagine parlamentare. La relazione è stata approvata all'unanimità. "Il Paese e la memoria di Aldo Moro - ha dichiarato Fioroni - meritano verità. Ma fino ad ora, e con un solo anno di lavoro, abbiamo trovato tante bugie e omissioni. Molte le novità, riscriveremo in parte i 55 giorni". Ecco in sintesi le novità più rilevanti. Gli argomenti oggetto di indagine. La Commissione ha affidato perizie sulle armi, sui bossoli e sulle auto. In parte sono tutt’ora in corso esami del contenuto di audiocassette a suo tempo sequestrate in alcuni covi delle Brigate Rosse, l’identificazione di persone che compaiono ritratte in fotografie scattate in via Fani e nelle aree adiacenti il 16 marzo 1978, la comparazione di alcuni profili vocali, lo svolgimento di esami grafologici, nonché l’estrazione di profili genetici (dna) da reperti rinvenuti nel covo di via Gradoli, nella Fiat 128 con targa diplomatica usata per l’agguato in via Fani (dentro c'erano anche 39 mozziconi di sigaretta, ndr) e nella Renault 4 nella quale venne ritrovato il corpo di Aldo Moro, come pure dagli abiti da lui indossati. Sono state ascoltate 50 persone informate su diverse circostanze di interesse: alcune di loro – pur avendo rilasciato all’epoca dei fatti dichiarazioni a organi di informazione – non erano mai state sentite finora dall’autorità giudiziaria o in sede parlamentare. Sono stati, infine, affidati allo Scico della Guardia di finanza alcuni accertamenti relativi a società immobiliari, finanziarie e commerciali che, a vario titolo, sono state oggetto di attenzione nel corso delle indagini sulla strage di via Fani e sul covo di via Gradoli. I palestinesi avvertirono, eccezionale documento. La Commissione ha acquisito un documento definito "di notevole interesse", datato 18 febbraio 1978 e proveniente da Beirut. E' un 'dispaccio' della 'Fonte 2000': "Vicedirettore informato ALT. Mio abituale interlocutore rappresentante 'FPLP' Habbash incontrato stamattina habet vivamente consigliatomi non allontanarmi Beirut, in considerazione eventualità dovermi urgentemente contattare per informazioni riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste ALT. At mie reiterate insistenze per avere maggiori dettagli interlocutore habet assicuratomi che 'FPLP' opererà in attuazione confermati impegni miranti escludere nostro Paese da piani terroristici genere, soggiungendo che mi fornirà soltanto se necessario elementi per eventuale adozione adeguate misure da parte nostra autorità. ALT. Fine. Da non diramare ai servizi collegati OLP Roma". È evidente che, se fosse effettivamente dimostrata una relazione con il sequestro di Aldo Moro, il documento in questione aprirebbe prospettive di interpretazione del tutto nuove e, allo stato, imprevedibili". Venti bierre in via Fani, non dodici. "La ricostruzione dei fatti di via Fani è diversa, anche nei numeri, da quella che ci è stata sempre raccontata: almeno 20 persone, con ruoli attivi e omissivi, hanno agito quel 16 marzo del 1978 e non tutte erano delle Br". E non dodici, come finora accertato dall'autorità giudiziaria". Lo ha detto Gero Grassi, deputato Pd ed esponente della Commissione. Bossoli, smentito appunto Questura. "È certo che nessuno dei bossoli rinvenuti in via Fani provenisse da un deposito dell’Italia settentrionale le cui chiavi sono in possesso di sole sei persone", come al contrario si affermava nell’appunto 'segretissimo' della Questura di Roma del 27 settembre 1978. Contatti Br-famiglia Moro. Fioroni: "Voglio ricordare l’importanza, forse sottovalutata, di monsignor Antonio Mennini che aveva un rapporto di conoscenza con Moro, pur non essendo il suo confessore, contrariamente a quanto è stato sempre divulgato, e che in tre occasioni fu incaricato dalle Brigate Rosse di recarsi a prendere, in diversi punti della città, lettere di Aldo Moro e di recapitarle alla signora Eleonora Moro. Nella prima occasione (20 aprile), tra le persone presenti nella piazza dove si era recato c'era anche Valerio Morucci. Da alcune parole di Mennini si può argomentare con fondata certezza l’esistenza di un "canale di ritorno" nelle comunicazioni tra i brigatisti e l’esterno, sicuramente con la signora Eleonora Moro, mai ammessa dagli stessi protagonisti". Radio città futura, "ascolto riservato in Questura". "In merito poi alla nota vicenda dell’annuncio – sia pure in forma dubitativa (“forse rapiscono Moro”) – che l'emittente radiofonica Radio Città Futura e il suo direttore Renzo Rossellini avrebbero dato il 16 marzo 1978 dell’imminente sequestro di Aldo Moro, con circa tre quarti d’ora di anticipo rispetto al verificarsi dell’evento (notizia che la magistratura apprese solo il 27 settembre 1978, quando essa divenne di dominio pubblico, visto che la Polizia mantenne un prolungato silenzio) la Commissione ha ricercato elementi che potessero confermare l’effettivo annuncio del rapimento da parte di Radio Città Futura, tenendo conto di quanto già emerso nel corso degli accurati approfondimenti condotti dalla Commissione parlamentare di inchiesta istituita nella VIII legislatura. Tra gli elementi di novità acquisiti agli atti della Commissione, grazie alle complesse verifiche delegate agli Uffici della Direzione centrale della polizia di prevenzione e tuttora oggetto di ulteriori approfondimenti e riscontri, va annoverata l’esistenza di un’ulteriore struttura informale di ascolto delle trasmissioni di Radio Città Futura e Radio Onda Rossa: anche presso gli uffici della DIGOS romana, in attuazione di un indirizzo operativo voluto dallo stesso questore De Francesco, all’epoca dei fatti veniva espletato un servizio dedicato all’ascolto delle suindicate emittenti. Un tedesco e una donna sulla moto in via Fani. "Sono state raccolte testimonianze in base alle quali si può supporre la presenza in via Fani di due motociclette: occorre indagare in merito alla questione aperta e cruciale relativa al ruolo svolto dai loro passeggeri, in tutto quattro. Una sentenza definitiva ha assunto che gli ignoti a bordo della moto Honda di cui parlò subito l'ingegner Alessandro Marini si siano resi responsabili di tentato omicidio ai suoi danni. Si può supporre, sulla base agli elementi raccolti fino ad ora, che una moto era presente nella parte superiore di via Fani, prendendo la fuga verso via Stresa, ed un’altra indugiò sul luogo dell’agguato. La Commissione ha ascoltato due testimoni oculari, da quanto risulta mai ascoltati in precedenza. Si tratta di Giovanni De Chiara, che abitava in via Fani 106 e che vede allontanarsi a sinistra, su via Stresa, una motocicletta con a bordo due persone, delle quali una aveva sparato verso qualcuno, e di Eleonora Guglielmo, allora 'ragazza alla pari' presso l’abitazione di De Chiara, la quale riferisce di voci che dicevano "achtung, achtung", e di una motocicletta di grossa cilindrata che partì, seguendo un’auto sulla quale era stato spinto un uomo all’interno, dirigendosi da via Fani in direzione opposta verso via Stresa. La motocicletta aveva a bordo due persone; il passeggero aveva capelli di colore scuro, con una pettinatura a chignon e un boccolo che scendeva e pertanto la signora Guglielmo ritiene che fosse una donna". Cutolo e 'ndrangheta. "Cutolo – ascoltato in carcere da alcuni collaboratori della Commissione – ha riferito di aver appreso durante la sua detenzione da un boss della ‘ndrangheta di contatti intercorsi, con riferimento al sequestro Moro, tra le Brigate Rosse e ambienti ‘ndranghetisti in relazione al reperimento di armi. La Commissione ha accertato che nel carcere in cui all’epoca si trovava Cutolo vi era un solo detenuto appartenente alla malavita organizzata calabrese, il cui nome era compatibile con quello riferito dalla stesso Cutolo". Non è certo una novità il dibattito su presunti rapporti tra 'ndrangheta e bierre: nel 1993 si è svolto il processo Moro quater che ha avuto come oggetto proprio la presenza o meno del 'ndranghetista Antonio Nirta tra rapitori di Moro. Il suo nome fu fatto dal pentito Saverio Morabito al pm Alberto Nobili. Bar Olivetti e Banda della Magliana. "Si tratta di un filone di indagine dal quale ci aspettiamo proficui sviluppi, mentre di notevole interesse sono le novità relative al bar Olivetti, situato in prossimità del luogo dell’agguato. Infatti, alcuni testimoni hanno riferito che il bar non era affatto chiuso in quelle settimane, come invece hanno riferito tutte le indagini nel corso di questi 37 anni e di conseguenza la sterminata pubblicistica esistente. Alcuni testi dichiarano di aver preso il caffè o di aver usato il telefono proprio nella mattina del 16 o di essere clienti abituali. La possibilità che il bar fosse aperto al pubblico dopo la strage, nonostante la situazione giuridica formale fosse di attività in liquidazione, pone seri interrogativi sulla dinamica dell'agguato, per come è stata sempre ricostruita sulla scorta delle dichiarazioni degli stessi brigatisti, i quali hanno asserito di aver atteso l'arrivo delle auto al servizio di Aldo Moro nascosti dietro le fioriere prospicienti il bar. Questa ricostruzione – non del tutto convincente, tenuto conto che le fioriere potevano offrire un riparo poco efficace a più persone destinate a stazionare in attesa per un lasso di tempo non trascurabile – deve essere quanto meno riconsiderata alla luce dei nuovi elementi acquisiti dalla Commissione. Il mistero del bar e di Tullio Olivetti. Il titolare del bar, Tullio Olivetti, era un personaggio molto noto agli ambienti investigativi per essere stato coinvolto in una complessa vicenda relativa a un traffico internazionale di armi, ma sempre uscito 'pulito' da tutte le indagini, contrariamente ai suoi presunti complici, tanto da far ipotizzare, scrivono i commissari, "che la sua posizione sembrerebbe essere stata 'preservata' dagli inquirenti e che egli possa avere agito per conto di apparati istituzionali ovvero avere prestato collaborazione". Il nome di Olivetti, tra l'altro, figura negli elenchi predisposti dalla Questura di Bologna delle persone presenti in città nei giorni antecedenti la strage alla stazione del 2 agosto 1980. L'indagine che riguardava Olivetti iniziò formalmente il 29 gennaio 1977, con un rapporto a firma del tenente colonnello Antonio Cornacchia, ed aveva al centro le attività di un certo Luigi Guardigli, amministratore della società RA.CO.IN che si occupava, tra l’altro, di compravendita di armi per Paesi stranieri. "Tullio Olivetti - si legge nella relazione della nuova commissione - venne subito indicato da Guardigli come trafficante d’armi e di valuta falsa (aveva riciclato 8 milioni di marchi tedeschi, provento di un sequestro avvenuto in Germania) che vantava alte aderenze politiche, era in contatto con ambienti della criminalità organizzata; in una circostanza, nella villa di una persona presentatagli proprio da Tullio Olivetti, Guardigli aveva trovato ad attenderlo il mafioso Frank Coppola (indicato come persona che intervenne per dissuadere alcuni elementi della criminalità organizzata - in precedenza sollecitati da uomini politici ad attivarsi – dal fornire notizie utili a localizzare il luogo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro) che gli aveva chiesto di dare seguito ad una richiesta di armi fattagli da tale Vinicio Avegnano, in stretti rapporti con ambienti neofascisti e con quelli, non meglio precisati, dei Servizi, anch’egli indicato come amico di Olivetti". Ma le indagini su Olivetti non vanno avanti perché la credibilità del suo accusatore viene distrutta da una perizia psichiatrica eseguita dal professor Aldo Semerari. Nella sua consulenza, infatti, Semerari definì Guardigli "una personalità mitomane, con una condizione psicopatica di vecchia data, e, allo stato, permanente. I suoi atti e le sue dichiarazioni sono espressioni sintomatologiche di tale anomalia". "Il complesso di queste circostanze - scrivono i commissari - , anche in considerazione dei rapporti tra Olivetti e Avegnano, impone ulteriori accertamenti sull’ipotesi che il primo fosse un appartenente o un collaboratore di ancora non meglio definiti ambienti istituzionali; sarebbe, infatti, circostanza di assoluto rilievo verificare un’eventuale relazione tra i Servizi di sicurezza o forze dell’ordine e Tullio Olivetti, titolare del bar di via Fani, 109. Il criminologo Aldo Semerari – figura al centro di quella definitiva più volte Agenzia del crimine, cioè un crocevia di ambienti della banda della Magliana, della destra eversiva, della P2 e di organismi di intelligence – venne assassinato nel 1982 e il suo cadavere decapitato fu ritrovato il 1° aprile dello stesso anno a Ottaviano, in un’auto parcheggiata nei pressi dell’abitazione del camorrista Vincenzo Casillo, braccio destro di Raffaele Cutolo". Nel bar la figlia di Gronchi. Tra le altre cose, Olivetti aveva amministrato il bar dapprima in proprio, come impresa individuale, poi insieme ad altre persone, come Olivetti s.p.a., con un consiglio di amministrazione composto da Gianni Cigna (in qualità di presidente), dallo stesso Tullio Olivetti (in qualità di consigliere) e da Maria Cecilia Gronchi (in qualità di consigliere), moglie di Cigna e figlia dell’ex presidente della Repubblica. Un'altra area di indagine: informatori e infiltrati. Nel corso di numerose audizioni, la Commissione ha infatti avuto modo di constatare che le Brigate Rosse sono state oggetto di un attento e prolungato monitoraggio da parte degli apparati di sicurezza. Lo confermano la lettera scritta da Duccio Berio nel 1972 al suocero Alberto Malagugini, nella quale si riferiscono i contatti intercorsi con un sedicente appartenente al SID che gli propose di infiltrarsi nelle BR; la vicenda di frate Girotto e l’arresto di Curcio e Franceschini; le circostanze riferite in audizione dall’ex giudice Pietro Calogero, che dimostrano che almeno fino al 1974 i servizi di intelligence dell’epoca potevano contare su “resoconti periodici di informatori infiltrati” nelle Brigate Rosse e in altre formazioni dell’estremismo di sinistra. Pur se è ragionevole ritenere che, dopo la cattura dei vertici delle BR grazie a Silvano Girotto nel 1974, i brigatisti abbiano rafforzato le cautele per evitare ulteriori infiltrazioni, non può non sorprendere che il flusso informativo sopra menzionato si sia inaridito proprio nella fase antecedente al del sequestro di Aldo Moro. Datazione dell’ingresso nelle Br di Giovanni Senzani. La Commissione continua a svolgere accertamenti su numerose circostanze di rilievo. Da verificare il ruolo di Senzani, estraneo alle sentenze giudiziarie del caso Moro e a detta dall’allora Procuratore di Firenze Tindari Baglione, oggi deceduto, sicuramente consulente del Ministero e delle bierre, e il ruolo da lui ricoperto durante il periodo del sequestro. Il superclan e l'istituto Hyperion. Da verificare l’esatta ricostruzione delle complesse vicende connesse alla fuoriuscita degli appartenenti al cosiddetto Superclan e all’attività dell’istituto Hypérion di Parigi sul quale la Commissione ha cominciato a lavorare grazie alle sollecitazioni dei componenti del Movimento 5 Stelle. La pista tedesca. Da verificare il coinvolgimento della Raf nel caso Moro, oggetto d’accertamento fin dalle prime indagini e sulla quale la Commissione insisterà perché appare rilevante la circostanza che nel covo di via Gradoli siano state trovati due moduli di carte d'identità appartenenti al medesimo stock, rubato del 1972, del modulo utilizzato per la carta d'identità falsificata che risultò nella disponibilità di Elisabeth von Dyck, appartenente alla Raf e che, inoltre, la targa del pullmino visto a Viterbo il 21 marzo 1978 sia stata rinvenuta in Germania, danneggiata e senza alcun veicolo, pochi giorni dopo l'uccisione di Aldo Moro, e che Ehehalt, cui era intestata la targa, si sia rifiutato di rispondere a domande sulla stessa e sul veicolo.
IL MISTERO MORO. Sono stati - e sono destinati a restare - i 55 giorni più misteriosi dell’intera storia dell’Italia repubblicana.
Ancora oggi soltanto rievocare il caso Moro vuol dire preparasi ad entrare in un ramificato tunnel di segreti e interrogativi, di domande senza risposta e di inconfessabili trame.
Il tempo che corre non solo ci allontana dalla completa verità sulla strage di via Fani, la lunga detenzione di un uomo politico di primo piano e la sua orrenda fine, ma rende tutto più complesso.
Il trascorrere degli anni che sempre più ci fa apparire lontano quel tragico evento, anziché semplificare il quadro di insieme della vicenda, tende ad aggiungere nuovi tasselli ad un mosaico che appare ormai infinito. Aldo Moro, presidente della DC, per almeno vent’anni personaggio centrale della politica italiana, viene sequestrato da un commando delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, alla vigilia del voto parlamentare che – per la prima volta dal 1947 - sancisce l’ingresso del partito comunista nella maggioranza di governo.
Per rapirlo la sua scorta, composta da cinque uomini, viene sterminata. Il gruppo armato che s’impadronisce di Moro afferma di volerlo processare, per processare tutta la Democrazia Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba ad alto potenziale. I 55 giorni in cui Moro sarà detenuto in un "carcere del popolo" apriranno infatti una serie di enormi contraddizioni in seno all’intera classe politica italiana, mentre i brigatisti finiranno col dimostrarsi – con i loro documenti miopi e vetusti - completamente avulsi dalla realtà storica del paese.
La fine di Moro è nota: il 9 maggio 1978 Mario Moretti, capo dell’organizzazione armata, lo ucciderà, "eseguendo la sentenza", così come scritto nell’ultimo comunicato delle BR. Quel colpo di pistola, con tanto di silenziatore, risulta assordante ancora oggi.
Cinque diversi procedimenti giudiziari con più di una decina di sentenze, una sesta inchiesta avviata (" Il Moro sesties"); i particolareggiati racconti dei brigatisti rossi ("pentiti" o dissociati); il lungo lavoro di una commissione parlamentare d’inchiesta (la commissione Moro); l’impegno di un altro organismo parlamentare (la commissione stragi); almeno una ventina di libri. Eppure l’ombra di Aldo Moro continua a muoversi nelle segrete stanze del potere con il suo fardello di misteri, di punti non chiariti, di dubbi ed interrogativi.
Anche se il tempo passa e ci allontana sempre più da quei tremendi 55 giorni, il caso Moro continua a rappresentare il nodo dei nodi dei misteri d’Italia.
Sommersi dallo stillicidio di notizie – spesso contraddittorie – che da quasi un quarto di secolo ci vengono propinate con ossessiva regolarità, è sempre più facile giungere ad una conclusione: nell’affaire Moro la volontà di attacco allo Stato di un manipolo di terroristi si è perfettamente intrecciata con la capacità di quello stesso Stato di gestire l’intera, tragica vicenda a proprio vantaggio.
A distanza di tanti anni ancora non sappiamo: quanti brigatisti parteciparono all’assalto di via Fani; se tra loro ci fossero elementi esterni; se quell’attacco fu, in qualche modo, teleguidato; dove Moro fu custodito; cosa effettivamente il prigioniero raccontò ai suoi secondini; chi decise effettivamente di ucciderlo e, soprattutto, perché; che fine hanno fatto "le rivelazioni integrali" (il famoso memoriale Moro).
Non sappiamo neppure se quella delle forze dell’ordine chiamate a liberare il prigioniero fu solo clamorosa inefficienza oppure occulta connivenza con i sequestratori. Sappiamo però che sia gli uomini dei servizi segreti, sia quelli della P2 nel caso Moro ebbero un ruolo per certi versi determinante.
L’eco suscitato dalle clamorose dichiarazioni rilasciate dall’On. Giovanni Galloni, Vice Segretario Vicario della DC ai tempi del rapimento di Aldo Moro, aprono squarci nuovi su cosa accadde in quella primavera del 1978.
Dice Galloni: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo".
Altre inquietanti testimonianze intervengono a a dissipare la nebbia disinformativa.
La testimonianza di Francesco Fonti raccolta da Riccardo Bocca.
Il pentito della 'ndrangheta Francesco Fonti rivela come, dietro richiesta di parte della Democrazia cristiana, cercò la prigione di Aldo Moro durante il suo rapimento: dai contatti con il Sismi a quelli con la banda della Magliana e Cosa Nostra. Fino all'incontro con il segretario Dc Benigno Zaccagnini.
Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome rimbalza tra giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione nazionale antimafia, pubblicato da "L'espresso" nel 2005, i magistrati della Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre 2009, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive. Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita organizzata."Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività", lo definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici). E sempre Fonti decide di rivelare all’Espresso un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice, affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc. Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane, pubblicato da “L’espresso” del 22 settembre 2009.
"Il mattino del 20 marzo 1978 si presenta nel mio appartamento a Bovalino, sulla costa jonica in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Romeo, fratello del boss Sebastiano che in quel momento è al vertice della famiglia di San Luca: "Sebastiano ti vuole incontrare immediatamente", dice Giuseppe. E sono parole che non prevedono repliche. Sebastiano non è soltanto il mio capo, ma anche uno degli uomini più potenti della 'ndrangheta. Dunque non discuto e obbedisco, ritrovandomi poco dopo seduto al tavolo ovale del suo salone. Sono preoccupato, non so cosa aspettarmi, ma lui non perde tempo: "Ciccio, hai visto questa brutta storia di Aldo Moro?", dice. "Ecco, dobbiamo intervenire. Devi salire di corsa a Roma. Devi individuare, tramite i nostri paesani e i contatti che hai con questi cazzi di servizi segreti, dove si nascondono i brigatisti che hanno rapito il presidente".
Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall'allarme nazionale procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra organizzazione. "Ho ricevuto pressioni a due livelli", spiega: "Mi hanno chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia cristiana calabrese), ma anche certi personaggi da Roma...". Non precisa chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.
Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all'hotel Palace di via Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni sulla gerarchia interna della 'ndrangheta. Visto il solido rapporto tra me e Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro. Un'ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.
Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat 130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l'agente Pino, che nel frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo, alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto. Specificando: "In mano devi tenere la "Gazzetta del sud"", di cui mi consegna una copia. "In questo modo, il segretario ti riconoscerà facilmente".
Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico operativo gestito dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale all'appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto circa dieci minuti. Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un'occhiata attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: "È un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico", inizia senza neppure avermi detto buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a incontrare uno come me. "Mi creda", prosegue, "non avrei mai immaginato un giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio garante, saprà sdebitarsi". Poi sorseggia un sorso d'acqua, si alza per andarsene e aggiunge: "Noi non ci siamo mai incontrati... Se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona, le dirà all'agente Pino".
La mia risposta, visto l'atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili. E aggiungo: "Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno comunicate da me in prima persona". Parole che pronuncio con convinzione. Non posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche per me sorprendenti.
A partire dall'incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome di "Cinese" per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi utile: "Quelli sanno tutto?", dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all'individuazione dei carcerieri di Aldo Moro. "So bene che le promesse dei politici non vengono mantenute", mi dice, "ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere l'annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini". Da parte mia, ho forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente. Ci vediamo il 25 marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: "Lo sanno tutti dove sono nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!", ride. Impugna un boccale di birra da un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale affollatissimo: "I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli, dalle parti della Cassia", dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso non ha dubbi: "Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi lo vo' trovà, a quello?", conclude con un'altra risata.
Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si comporta il Cinese, dall'altra temo di buttare il mio tempo. Com'è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un 'ndranghetista di Sant'Eufemia D'Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi notizie interessanti. Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un 'ndranghetista di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola cicatrice sullo zigomo. Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli, annuisce: "Voi potete stare sicuro che qualcosa c'è, in via Gradoli", dice. "Mi hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente c'entra con Moro".
A questo punto, capisco che l'indicazione datami in prima battuta dalla banda della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l'agente Pino, gli faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant'è che dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare con l'appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all'ambasciata di Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso, in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l'intervento di Giovannone). "Balestra ha ottime fonti", dice l'agente Pino. E non sta esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra) negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell'Alberone, dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di Pino. Il discorso dell'appuntato Balestra è chiarissimo: "Io sto dando l'anima", dice, "per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo. Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto. In più c'è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran parte della Dc che finge di volerlo liberare". Poi sussurra: "In questo covo di cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo: sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle Br, dove l'inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati)". In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i brigatisti, anche se non sono stati fermati.
È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i covi delle Br, non viene appoggiato. Anche se è una persona seria come il democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel 1999); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il deputato parla con un certo Salvatore Varone, 'ndranghetista che noi chiamavamo Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni delle quali non conosco i particolari.
Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l'onorevole Cazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare "sta impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro". Fisso quindi un incontro con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi 'ndranghetisti abbiamo festeggiato il compleanno dell'affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve e teso, e si svolge in presenza degli 'ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese, Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: "Sostiene", mi dice Cazora, "che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e perciò possono controllare il territorio'. Io, dentro di me, penso che sono strane frasi, per uno come Varone che nella 'ndrangheta conta come il due di picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico, per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui risponde: "Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle vostre amicizie". Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più drammatica. Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell'Interno Cossiga. Il 4 aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l'angosciante missiva in cui Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente scrive: "Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone"). È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro diminuiscono, mi ricontatta l'agente Pino per farmi sapere che Giuseppe Sansovito, numero uno (piduista) del Sismi, ha espresso il desiderio di parlarmi. E così accade. Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro". In ogni caso, aggiunge congedandomi, "teniamoci in contatto tramite Pino".
La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo. Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i brigatisti, ma c'è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della futura liberazione del presidente Moro. Quando però incontro Sebastiano, lui ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz'ora, dopodiché mi stronca: "Sei stato bravo", riconosce. "Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Una frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte l'intera classe politica. Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un 'ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per accedere al massimo livello dell'organizzazione), ma sono anche una persona che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte. Dopo l'incontro con Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi al centralinista come Rocco. "Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96", scandisco, "e troverete i carcerieri di Aldo Moro". "Da dove sta chiamando?", domanda il centralinista allarmato. "Chi parla? Chi è lei?", insiste. Ovviamente non rispondo; abbasso la cornetta e provo a non pensarci più.
Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d'acqua. Dei brigatisti, come logico viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c'è stata la volontà di agire. C'è invece, molti anni dopo, nel 1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano) con il capo delle Br Mario Moretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica. I nostri rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia gli consegna una busta e annuncia: "Moretti, c'è la solita lettera". Lui la apre senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo all'ufficio conti correnti che permette l'incasso, e mi dice: "Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell'Interno". Frase che all'istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando. Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare soldi a Moretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo mistero tra i misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia tragica.
“Doveva morire”. Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell'inchiesta racconta.
Libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato.
Il caso Moro è una tragedia per la quale non tutti hanno pagato le loro colpe. Perché il suo sacrificio e quello dei cinque uomini della scorta non sia vano, scrivono gli autori, occorrono ulteriori indagini e l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale, formata da giuristi indipendenti. Dopo decenni, nonostante il tempo abbia portato a naturale declino molti dei motivi ispiratori di quella triste stagione, resta a noi la sensazione di un cammino incompiuto della democrazia nel nostro Paese. Un Paese che non sa fare i conti con il proprio passato cammina a rilento, circondato da troppe ombre e da troppi fantasmi.
«Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano….perchè uno può dire li perdono e io nel profondo li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e vado dall'altra parte». Nella breve intervista posta a conclusione del libro-inchiesta scritto dal giudice Ferdinando Imposimato e dal giornalista Sandro Provvisionato, Eleonora, moglie di Aldo Moro, lo statista democristiano sequestrato e assassinato dalle Br, non pronuncia mai i nomi dei "quattro stupidi mascalzoni" le cui "perverse mire" hanno causato la morte di un innocente. Ma quei nomi ricorrono nelle oltre 350 pagine di minuziosa ricostruzione di uno dei grandi misteri mai compiutamente risolti della storia italiana del dopoguerra. I nomi non sono solo "di quei poveretti" che gli hanno sparato, ma anche e soprattutto dei dirigenti DC, Andreotti e Cossiga in testa, che nulla fecero, meglio tutto misero in atto per impedire l'apertura di un canale di trattative per liberare l'amico di Partito, simbolo non solo del gruppo dirigente democristiano, ma responsabile dell'apertura al Pci, del tentativo di cancellare " il fattore K " ovvero l'esclusione pregiudiziale dei comunisti da qualsiasi ipotesi di governo o di maggioranza.
" Doveva morire ". A partire dal titolo, il libro di Imposimato e Provvisionato indica con nettezza una tesi. Aldo Moro è stato volutamente abbandonato al suo destino dal gruppo dirigente DC e non per la superiore " ragion di stato ", ovvero la volontà di non cedere al ricatto terrorista. La sua morte dopo il sequestro, a giudizio degli autori, non aveva alternative "per stabilizzare la situazione interna e salvare milioni di italiani dal comunismo". Non solo: l'allora ministro degli Esteri conosceva troppi segreti, dall'organizzazione paramilitare Gladio allo scandalo Lockheed, dai finanziamenti occulti della Dc all'affare Montedison fino ai veri burattinai di quel processo di destabilizzazione che tenne sotto scacco per troppo tempo il nostro Paese, passato sotto il nome di strategia della tensione.
Libro di parte, dunque. Imposimato è uno dei magistrati incaricati dell'indagine poi arenatasi per l'incomprensibile decisione di avocare l'inchiesta alla procura generale, togliendo ogni capacità investigativa ai giudici istruttori. E' lui "la voce narrante" dell'inchiesta, cucita dalle abili mani di un cronista di razza, Sandro Provvisionato, responsabile degli speciali del Tg 5 e con alle spalle una lunga carriera e dodici anni trascorsi all'Ansa, da praticante fino a capo della redazione politica. La tesi non è perciò frutto di un generico anatema, ma la puntigliosa ricostruzione dei cinquantacinque giorni del sequestro e dei fatti che precedettero e seguirono il tragico evento. Un'inchiesta densa di fatti, documenti, testimonianze che fanno da supporto all'ipotesi istruttoria. Il filo da dipanare si presenta con tale groviglio che non tutti i nodi si sciolgono al termine della disamina. Ci sono parti, soprattutto relative al coinvolgimento di servizi segreti di altri paesi o ai legami del terrorismo internazionale, che si fermano sulla soglia di ipotesi, sia pure plausibili. Sono invece le pagine dedicate alla ricostruzione del sequestro che si presentano con un impianto di indiscutibile robustezza.
Una particolare citazione merita il capitolo delle occasioni mancate, ovvero delle opportunità di giungere alla prigione dove era tenuto Aldo Moro o all'arresto di carcerieri e complici. Il 18 marzo 1978, solo due giorni dopo la strage di via Fani, i poliziotti bussano alla porta di via Gradoli, dove vivono il capo delle BR Mario Moretti e la sua compagna Barbara Balzerani, due dei brigatisti che componevano il commando di via Fani. Gli agenti non ottengono risposta e se ne vanno. La base brigatista verrà scoperta trentadue giorni dopo il rapimento. La prigione di via Montalcini viene ufficialmente trovata solo nel 1980. Ma l'Ucigos, struttura di servizi alle dirette dipendenze del ministro degli interni, c'era arrivata due anni prima raccogliendo significative testimonianze degli inquilini rimaste senza esito. Infine l'incredibile vicenda dell'appartamento di Via Monte Nevoso 8 a Milano, forse la ricostruzione più completa e ricca di documentazione tra le molte proposte di questi anni sul caso. Nello stabile i carabinieri fanno irruzione il primo ottobre 1978, a ridosso della nomina del generale Dalla Chiesa a capo dei reparti speciali antiterrorismo. Nel blitz vengono catturati i brigatisti Nadia Mantovani, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, ma soprattutto viene trovato il memoriale Moro. Tutto? No, perché a dispetto di cinque giorni di attento scandaglio, ai militari stranamente sfugge una parte dei manoscritti, celata dietro un pannello in cartongesso che verrà rimosso dodici anni dopo dai nuovi inquilini. Dietro quel fragile paravento verranno fatte trovare le carte più scottanti del memoriale, le risposte dello statista DC alle domande scritte di Moretti. Guarda caso, quelle domande riguardano proprio i misteri prima ricordati, da Gladio in poi, che rendevano crudelmente improponibile il ritorno alla libertà di Aldo Moro.
Il duro j'accuse contro i dirigenti DC alla guida del governo in quei giorni drammatici, Andreotti e Cossiga in testa, è condotto con rigore documentale. «Nella storia del delitto Moro la prudenza è d'obbligo- scrive Imposimato nelle conclusioni- Occorre evitare di passare da una verità di comodo a una scarsamente dimostrata. Ma occorre anche evitare l'errore opposto: pretendere prove matematiche e assolute, granitiche per dimostrare un fatto. La verità non è facile da scoprire, ma non è possibile chiudere gli occhi di fronte a una storia che ha nei documenti occultati e fortunosamente ritrovati il suo fondamento indiscutibile. Con l trascorrere degli anni e l'acquisizione di nuove prove – afferma Imposimato – e soprattutto dopo il lavoro di redazione di questo libro mi appare chiara una cosa: il sequestro Moro, partito come azione brigatista alla quale non è estranea l'appoggio della Raf e l'interessamento, per motivi opposti, di Cia e Kgb, è stato gestito direttamente dal Comitato di crisi costituito presso il Viminale. Il delitto Moro non ha avuto una sola causa. Ma ha rappresentato il punto di convergenza di interessi disparati. In questa operazione perfettamente riuscita, sono intervenuti la massoneria internazionale, agenti della Cia (Ferracuti, criminologo che tracciò il profilo del Moro non più Moro dentro il covo delle Br), del Kgb (l'agente Sokolov presentatosi a Moro come studente borsista), la mafia (Pippo Calò che si interessò con i suoi contatti con la Banda della Magliana per scoprire il covo) ed esponenti del governo (Cossiga ministro dell'interno ed Andreotti presidente del Consiglio), gli stessi inseriti nel comitato di crisi. Tutti questi dopo il 16 marzo 1978, hanno vanificato le opportunità emerse per salvare la vita di Moro, spingendo di fatto le Br ad ucciderlo».
ALDO MORO E GIULIO ANDREOTTI.
Il paradiso può attendere, aveva detto a metà ottobre citando il famoso “Heaven can wait” di Warren Beatty e Buck Henry, scrive Paolo Guzzanti su “Panorama”. Ma stavolta il cielo si è stancato di aspettare e non ha concesso proroghe. E così, dopo Francesco Cossiga che a confronto è morto giovane, il grande Giulio, il divo Giulio, l’uomo più sospettato e più esaltato della politica italiana, l’enigmatico, l’astuto, quello di cui Craxi diceva “tutte le volpi finiscono in pellicceria”, ha sgombrato il campo della storia viva, per andare ad abitar d’ora in più nella storia stampata, filmata, certificata, ma non più viva. Non c’è niente di peggio quando muore un personaggio importante, di un cronista che comincia con l’avvertire che “io lo conoscevo bene”. Ma il fatto è che io lo conoscevo veramente bene e lui mi conosceva altrettanto bene e non ci piacevamo moltissimo. L’ultima grande performance Andreotti l’ha infatti prodotta sul piccolo proscenio della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin di cui sono stato per quattro anni il presidente e lui, Giulio, per quattro anni un commissario assiduo, puntiglioso, provocatorio, divertente, odioso, sempre dalla parte della Russia sovietica e dunque anche in quell’occasione beniamino dei comunisti che nella commissione Mitrokhin si proponevano il compito di ostacolare in ogni modo e impedire ridicolizzando, che si arrivasse a trovare la verità sugli agenti sovietici in Italia, intendendosi per agenti non le spie, ma proprio coloro che agivano come agenti di influenza. Andreotti era lì, pronto alla rievocazione, pronto alla battuta, pronto a sabotare con armi sottilissime tutto il lavoro costruttivo che facevamo. L’ex ministro degli esteri di Gheddafi mi disse a Tripoli durante una pausa dei nostri lavori durante l’incontro con la Commissione Esteri: “Se c’è un uomo che noi in Italia abbiamo sempre adorato, veramente adorato oltre che rispettato, è il vostro Giulio Andreotti, che dio lo protegga e lo benedica”. Pensavo si riferisse soltanto al notissimo e in qualche caso sfacciato atteggiamento filo arabo del senatore a vita, ma non si trattava soltanto di questo: “Lui era qui con noi quella sera in cui a Mosca annunciarono la fine dell’Unione Sovietica e ammainarono la bandiera rossa dal Cremlino. Noi piangevamo, eravamo commossi e anche disperati. Andreotti era terreo, traumatizzato. Poi disse: da adesso il mondo sarà molto diverso e non sarà certamente migliore perché sarà un mondo americano”. Questa sua affermazione fa un po’ il paio con quella dei tempi in cui, caduto il muro di Berlino, si prospettava la riunificazione tedesca, disse: “Io amo talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei sempre almeno due”. Il suo credo politico era quello del debito pubblico senza troppi freni e navigare a vista, usando buon senso e una certa sfacciataggine unita a cinismo. Se fu riconosciuto colpevole di aver intrattenuto rapporti di reciproco rispetto e qualcosa di più con la mafia almeno per un certo periodo, ciò ha senso: Andreotti rispettava i poteri costituiti e la mafia era un antico marchio di fabbrica di potere costituito. E poi, come disse in un’altra circostanza “è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ricordo personale: la madre di mia madre e la madre di Giulio, Rosa Andreotti, erano molto amiche perché avevano entrambe avuto i loro figli al Collegio degli Orfani in via degli Orfani. La loro amicizia si estese ai figli: mia madre, mio zio e lui, Giulio, anche perché vivevano tutti nella stessa magnifica strada, via Parione nel quartiere Parione di Roma, alle spalle di piazza Navona. Mia nonna mi raccontava che Rosa Andreotti parlando del figlio bambino diceva: “Questo figlio non è normale, non somiglia agli altri bambini. Ha qualcosa dentro di sé che non capisco, che nessuno capisce. O sarà disperato o diventerà qualcuno”. Mia madre mi raccontava che il piccolo Giulio evitava tutti i giochi che impegnavano il fisico, come correre, e aveva sempre un taccuino in tasca per fare il giornalista. Così un paio di volte l’anno capitava a casa nostra per un caffè e io diffidavo moltissimo di questa presenza e speravo che se ne andasse presto perché ero un tipico adolescente di sinistra e Andreotti sembrava già allora il devoto Satana che poi è stato dipinto. Se uno scorre le foto della sua vita vede che è stato un uomo attentissimo alla vita cinematografica, amico stretto di Federico Fellini il quale lo considerava una parte essenziale del paesaggio italiano, ma anche in senso positivo. Frequentava le attrici, gli attori, i set cinematografici, aveva i capelli nerissimi imbrillantinati e pettinati all’indietro come Rodolfo Valentino e benché avesse la gobba, aveva anche un suo charme, un certo sex appeal. Era un uomo di destra all’inizio della carriera (il politico più longevo, con più incarichi di governo, una eterna carriera parlamentare) e veniva dalla nidiata di Alcide de Gasperi che lo volle giovanissimo sottosegretario nel pieno della guerra fredda, con un’Italia che sapeva di polvere e macerie e che era tutta da ricostruire, ma che già godeva, si industriava, costruiva e attraversava il boom economico, la magica crescita che proiettò il Paese dalla preistoria della guerra al XX secolo dell’industria, dell’arte, del reddito, della Seicento Fiat e delle autostrade, della commedia all’italiana, del cinema leggero e un po’ ignorante, e Andreotti era sempre ovunque. Poi lui chiuse personalmente la sua guerra fredda e diventò lentamente ma con costanza il divo dei comunisti italiani. Condivideva con Cossiga questa passione per gli ex nemici: i comunisti, compresi quelli russi, erano per lui, per loro, gente carismatica, muta, pesante, importante, spartana e allo stesso tempo ricca per le grandi risorse minerarie dell’allora Unione Sovietica. Cominciò così la marcia di avvicinamento di Andreotti al Pci di Enrico Berlinguer e i due insieme vararono la bozza di quel patto politico rischiosissimo che poi si è chiamato “compromesso storico” e sul cui altare Aldo Moro ha lasciato la pelle. La storia del Compromesso storico è la storia stessa di Andreotti. Aldo Moro accettò di aprire in piena guerra fredda ai comunisti, contando su un accordo di massima con gli americani. I termini di questo accordo sono stati pubblicati da Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli per Laterza nel settembre del 2005 e consiste in una raccolta di documenti fondamentali che mostra come gli Stati Uniti fossero estremamente e positivamente interessati al Compromesso storico, purché il Pci si sganciasse una volta per tutte dall’Urss, rompesse con il dovuto clamore accettando la prevedibile scissione, ed entrasse a pieno titolo nel novero dei partiti democratici italiani indispensabili per il ricambio della classe dirigente. E’ importante ricordarlo perché poi è stata fatta passare la vulgata secondo cui Moro voleva fare il compromesso storico con Berlinguer, ma la Cia lo fece rapire da brigatisti rossi controllati da Langley, Virginia, per far fallire l’eroico progetto. Secondo il progetto originale invece, di cui Andreotti fu un notaio e non l’unico, Moro doveva diventare presidente della Repubblica dopo Giovanni Leone e garantire dal Quirinale l’intera operazione. Andreotti sarebbe diventato il presidente del Consiglio del primo governo sostenuto in Parlamento del Patito comunista e a quel primo passo avrebbe dovuto far seguito il taglio del cordone ombelicale con Mosca e un secondo governo, benedetto anche dai Paesi della Nato, con ministri comunisti. L’attacco di via Fani, la prigionia interrogatorio e l’esecuzione di Aldo Moro, misero fine al progetto. Al Quirinale andò Sandro Pertini, ma Andreotti decise di resistere sulla vecchia linea e di dare comunque vita con i comunisti al nuovo governo con il loro appoggio determinante e ufficiale. Questo esperimento nacque nel sangue e visse poco e male. I comunisti erano molto spaventati da quel che era successo e non vollero tagliare con Mosca, dove i dirigenti del Pci seguitarono a ritirare ogni anno un gigantesco finanziamento illegale che drogava la politica italiana, anche perché costituiva un alibi per tutti coloro che in Italia erano disposti a commettere illeciti con la scusa di finanziare il proprio partito. Poi i comunisti decisero di chiudere la partita e si ritirarono definitivamente. Ma Giulio Andreotti non mollò. La mia impressione (molto più di una impressione) è che sia lui che Cossiga fecero non soltanto il possibile, ma specialmente l’impossibile per salvare la vita a Moro accettando accordi che poi saltarono perché la controparte era decisa a liquidare l’ostaggio e lo fece. Quegli eventi non sono mai stati ben chiariti e io penso che la devastazione della Commissione Mitrokhin di cui Andreotti fu parte attiva controllando strettamente ogni fase dell’inchiesta, fosse dovuta proprio al fatto che eravamo arrivato al nocciolo della questione. Andreotti lo sapeva, lo temeva e non per caso il suo amico Cossiga lo volle nominare a sorpresa senatore a vita per neutralizzarlo e promuoverlo su uno scranno dal quale non avrebbe più fatto politica. Il processo di Palermo per i pretesi rapporti con Cosa Nostra fu una sorta di corollario di quelle vicende. Andreotti si lasciò processare docilmente, scrisse molti libri sostenendo che doveva pagarsi gli avvocati, fra cui il professor Coppi, per difendersi e fu sempre lì, a Palermo, pienamente a disposizione su quei banchi, come lo era stato davanti a me per quattro anni nella Commissione Mitrokhin. Difendeva un passato, certamente ha difeso fino alla morte con Cossiga e come Cossiga il segreto su ciò che realmente accadde durante i cento giorni del rapimento Moro ed ebbe modo di sviluppare sempre la sua politica filo araba, diventando così la bestia nera degli israeliani. Lo andai a trovare più volte nel suo studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove andava ogni mattina prestissimo. Lì riceveva giornalisti, politici, industriali, gente di cultura e gente decisamente lontana dalla cultura. Io penso che sapesse qualcosa in più, qualcosa che anche io ho sospettato e di cui ho scritto molto, sulle vere ragioni che possono aver fatto scattare la decisione di uccidere Falcone quando non era più un nemico sul campo della mafia, ma un alto burocrate romano del ministero di Grazia e Giustizia. Quando il mio amico Giancarlo Lehner annunciò l’intenzione di voler scrivere della collaborazione di Falcone con i giudici russi, il procuratore generale Stepankov in particolare, per indagare sul tesoro del Kgb e del Pcus portato in Italia per essere riciclato sotto la protezione di alte figure della finanza, Andreotti lo mandò a chiamare e gli ricordò di avere lui stesso, come ministro degli esteri, inviato dei fonogrammi a Mosca per facilitare gli incontri segreti di Falcone. Gli disse che per lui avrebbe recuperato quei fonogrammi che avrebbero costituito la prova scritta di quel che stava facendo Falcone quando fu eliminato. Lo richiamò qualche giorno dopo per dirgli: “Alla Farnesina mi dicono che hanno perso quei documenti. Ora, alla Farnesina non hanno mai perso nulla e mai si perde nulla. Lo prenda come un messaggio: lasci perdere la sua inchiesta e passi ad altro, sarà più salutare per lei”.
COME MORI' MORO?
Omicidio Moro, il Ris smentisce la versione Br: “Gli spararono di fronte”. Il comandante del reparto scientifico dei carabinieri ha illustrato in commissione parlamentare la perizia sul'assassinio. Secondo la quale il presidente della Dc fu ucciso da colpi sparati da killer che potè guardare in faccia. Il brigatista Moretti ha sempre raccontato invece che l'ostaggio fu messo sotto una coperta in modo che non si accorgesse dell'esecuzione, scrive Stefania Limiti il 23 febbraio 2017 su “Il Fatto Quotidiano”. Non era sdraiato Aldo Moro quando fu colpito a morte, e chi gli ha sparato gli stava di fronte. Lo assicura il Ris, interpellato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta nel tentativo di analizzare il delitto politico più importante del ‘900 italiano come si fa con un cold case. Il comandante del Ris, Luigi Ripani, ha svolto il suo compito isolando “tutti gli elementi oggettivi”. Perché, pur a distanza di molti anni, è possibile stabilire alcuni punti fermi per capire quel che non ci hanno voluto raccontare di ciò che accadde qualche momento prima che il presidente della Democrazia cristiana diventasse un fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto parcheggiata in via Caetani. Ebbene, ciò che raccontano gli elementi oggettivi raccolti dal Reparto investigativo dei Carabinieri è questo: l’omicidio sarebbe avvenuto con una serie di tre spari, due armi e 12 proiettili esplosi. La prima serie da tre, quella che colpisce inizialmente Moro, secondo la ricostruzione esposta oggi, avviene mentre il prigioniero delle Brigate rosse “è seduto sul pianale, sopra la coperta, con il busto eretto e le spalle rivolte verso l’interno dell’abitacolo, il portellone aperto”. I tre colpi lo raggiungono “con direzione ortogonale al torace”. Moro si accascia e viene colpito da altri spari della mitraglietta Skorpion. Infine due spari, stavolta da due armi diverse: uno di una pistola Walther Pkk, calibro 9, l’altro ancora della Skorpion, un calibro 7.65. Quelle sono sicuramente le armi usate. “Faremo altre indagini per capire da dove venga quella Walther Pkk”, ha detto il presidente della Commissione Giuseppe Fioroni il quale sottolinea “l’assoluta novità di una ricostruzione che smentisce quel che i brigatisti hanno sempre raccontato”. Il primo ad auto-accusarsi di essere stato il killer di Moro fu Prospero Gallinari, poi Mario Moretti disse di essere stato lui, infine accreditarono la versione che dava la responsabilità a Germano Maccari: il racconto brigatista, insomma, non è mai stato fermo, ma non solo. Proprio riguardo a quegli ultimi istanti il capo dell’operazione, Mario Moretti, raccontò di aver fatto sistemare Moro nel bagagliaio della R4, di averlo fatto mettere sotto la coperta e, soltanto allora, di avergli sparato: accompagnato in auto, fatto sedere dietro, nel vano dei bagagli, con la prospettiva di uno spostamento o forse di un atto definitivo di libertà, il racconto brigatista ha tenuto a spiegare che Moro fu colpito nella sua totale inconsapevolezza di quel che stava avvenendo. “Salga Presidente, si accomodi”. Ebbene, la ricostruzione del Ris dice di no. La balistica afferma il contrario. “E l’ipotesi che si fossero trovati in un garage – quello di via Montalcini, come hanno sempre sostenuto le Br – è alquanto improbabile”, ha detto il colonnello Ripani in conclusione. Troppe manovre e quei dieci colpi sparati senza silenziatore avrebbero allertato il palazzo. La perizia contiene molti altri spunti e non esclude una seconda versione, ritenuta tuttavia meno probabile, in base alla quale Moro è seduto sul sedile posteriore della Renault4 e i primi colpi partono dalla parte anteriore dell’auto, dove poi furono ritrovati 5 bossoli, la cui presenza non contrastata affatto con la prima versione, quella che vuole Moro seduto sul portabagagli. In entrambi i casi, c’è certezza sul fatto che lo sparatore fosse inizialmente in posizione frontale. La dinamica di quegli ultimi attimi di vita è, dunque, riscritta definitivamente. Il racconto del Ris è scarno, essenziale, e lascia vedere al di là un’immagine, quella di un delitto compiuto da professionisti del crimine, come suggerì il presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino. Non da militanti rivoluzionari che avevano scelto la lotta armata.
CASO MORO, IL RIS APRE NUOVI SCENARI E SMENTISCE LA VERSIONE DEI BRIGATISTI. Secondo Luigi Ripani, tenente colonnello e comandante del Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri, che ha ricostruito gli ultimi momenti di vita dell'uomo politico presso la Commissione d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, la fine dello statista democristiano non è affatto come la conoscevamo attraverso le “confessioni” dei brigatisti, scrive Manuel Gandin su "Famiglia Cristiana" il 26/02/2017. La morte di Aldo Moro, il leader della Dc ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978 non è come la conoscevamo attraverso le “confessioni” dei brigatisti. Lo afferma Luigi Ripani, tenente colonnello e comandante del Ris (Reparto investigazioni scientifiche) dei Carabinieri, che ha ricostruito gli ultimi momenti di vita del presidente democristiano in audizione presso la Commissione d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro, presieduta dall’onorevole Giuseppe Fioroni. Secondo la versione delle Br Aldo Moro non vide chi gli sparò perché gli fu detto che sarebbe stato liberato, e perché gli venne messa una coperta addosso. Ma Ripani smonta la tesi: il leader rapito era “seduto sul pianale, sopra la coperta, con il busto eretto e le spalle rivolte verso l’interno dell’abitacolo, il portellone aperto”. Il capo delle Br, Mario Moretti, invece, ha sempre raccontato che Moro fu fatto sdraiare nel bagagliaio della famosa Renault 4 rossa, che gli fu messa addosso una coperta e poi venne ucciso. Moretti ha anche affermato che a Moro non fu detto che lo avrebbero ucciso: “Salga, presidente, si accomodi”. Inoltre, il vecchio capo Br dichiarò, in una storica intervista a Sergio Zavoli per la serie Tv della Rai “La notte della Repubblica”, che la verità non venne detta a Moro per “rispetto, per pietà”. Ora, la ricostruzione del comandante del Ris contraddice anche la parte più “virtuosa”, se così si può dire, della versione brigatista. La versione di Moretti e compagni non è mai stata univoca. Inizialmente le Br “accettarono” la versione dell’inchiesta secondo cui a sparare fosse stato Prospero Gallinari, salvo poi “ammettere” che il killer del presidente della Dc era proprio Moretti. Infine, terza versione, il giustiziere di Moro diventa Germano Maccari. Le conseguenze della ricostruzione del Ris, aprono nuovi scenari, sempre più misteriosi e inquietanti. Le armi utilizzate dalle Br per uccidere Moro furono due, una mitraglietta Skorpion calibro 7,65 e una pistola Walther Pkk calibro 9. Secondo Ripani, furono sparati dodici colpi in tre momenti differenti. I primi tre colpi hanno raggiunto il rapito “con direzione ortogonale al torace”. Moro si accasciò e venne colpito da altri spari della Skorpion. Infine due ultimi spari, uno dalla Walther Pkk, l’altro ancora dalla Skorpion. Ma se davvero questa è la versione più vicina alla verità, com’è possibile che nessun inquilino del palazzo di via Montalcini, presunto covo delle Br, abbia sentito le tre serie di ben dodici colpi? Dice Ripani: “L’ipotesi che si fossero trovati in un garage di via Montalcini, come sostenuto dalle Br, è alquanto improbabile”. E allora tornano i dubbi su quanti e quali siano stati i covi reali delle Br durante i 55 giorni del rapimento Moro. Così come si presenta una nuova domanda, anch’essa inquietante: il Ris parla dodici colpi. Perché la perizia effettuata nel 1978 ammette invece soli undici colpi? La ricostruzione del comandante del Ris, dice il presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, è “inedita” e mette in discussione la verità fornita dai brigatisti. E ad aumentare i dubbi, c’è anche un’altra affermazione di Ripani, derivata dall’analisi dei vestiti indossati da Moro: “Sul bavero sinistro della giacca dell’onorevole erano presenti macchie biancastre. Dagli accertamenti è emerso che si trattava di saliva, compatibile con la posizione in cui è stato trovato il cadavere e con la circostanza che la morte non sia arrivata nell’immediatezza”. E, dunque, com’è morto Aldo Moro? E dove? E quando? Bisognerebbe ritornare al celebre titolo del settimanale L’Europeo del 16 luglio 1950: “Di sicuro c’è solo che è morto”. Quel titolo corredava un famoso articolo di Tommaso Besozzi sull’uccisione del bandito Salvatore Giuliano. Lo stesso titolo potrebbe andare bene anche per la fine di Aldo Moro.
Caso Moro, "ucciso mentre era seduto o stava in piedi", scrive il 2/03/2017 "Adnkronos.com". Moro? E' stato ucciso in modo diverso da come abbiamo saputo e forse, addirittura, non dentro la macchina, la Renault 4 rossa poi ritrovata a via Caetani. Di sicuro gli hanno sparato mentre era seduto o in piedi, con il busto eretto. E le armi, che erano due (una Skorpion e una Walther) gli furono puntate contro, verso il busto, per sparare quasi a bruciapelo. Nella seconda puntata dell'audizione del comandante del Ris di Roma, Luigi Ripani, presso la Commissione parlamentare che indaga sulla morte di Moro, la ricostruzione fatta dai 'tecnici' dell'arma dei carabinieri, ribadisce i punti fermi della scorsa settimana, che le domande dei membri della Commissione, cercano di far meglio emergere. E infatti qualche aggiunta arriva. Ma, sostanzialmente, le modalità dell'omicidio di Moro, la mattina del 9 maggio del 1978, sono discordanti con quanto è agli atti, dopo le dichiarazioni dei brigatisti che in tre - Moretti, Maccari e Gallinari - si sono autoaccusati degli spari contro il leader Dc. Per il Ris è da acquisire agli atti che Moro, poco prima di essere ucciso, fosse in posizione eretta, forse seduto sul pianale della R4, con le spalle rivolte all'abitacolo ed è stato colpito dai primi spari in quella posizione, poi adagiato sul portabagagli, posizione da cui invece inizia il racconto brigatista, con la 'pietosa' coperta posta sul corpo e sul volto prima degli spari ravvicinati. Per il Ris, inoltre a sparare i primi tre colpi, 'ortogonali' e diretti al torace, è stata la mitraglietta Skorpion e non la Walther Pkk, come ricorda Maccari e che all'ultimo, uno dei colpi è di calibro 9, sparati dalla Walther, appunto. Tra le novità, di questa seconda parte dell'audizione dei Ris quanto detto da Ripani, che, a un certo punto, allontana la scena dell'omicidio dalla macchina emblema degli anni di piombo, la R4 dei brigatisti. "Io credo che Moro - sottolinea il comandante del Reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri - seduto, magari su una sedia o su un bancone", mentre era a una certa distanza dall'auto. Parole che riaprono anche la questione del garage di via Montalcini, dove i brigatisti dicono di aver ucciso il leader Dc, ma che potrebbe non essere posto dove poter sparare 12 colpi senza essere scoperti. Un dubbio che viene sottolineato anche dal presidente Fioroni: "A questo punto faremo una sorta di incidente probatorio, 'ricostruendo' le fasi finali dell'omicidio, soprattutto per verificare se la dinamica proposta dal Ris, che smentisce quella brigatista, sia possibile in quel garage, in particolare rispetto ai 12 spari esplosi", di cui alcuni addirittura senza silenziatore.
L’auto parcheggiata in via Caetani per tenere il posto alla R4 con Moro. La ricostruzione attraverso le voci di chi non si è pentito e le carte dell’Archivio di Stato. Una Renault 6 verde, spostata e portata via quando arrivò la Renault. Sono alcuni particolari nel volume Brigate rosse - Dalle fabbriche alla campagna di primavera, scrive Giovanni Bianconi il 4 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Per essere sicuri di non avere problemi di parcheggio al momento di «consegnare» il cadavere di Aldo Moro, al centro di Roma, i brigatisti rossi decisero che uno di loro andasse a occupare il posto la sera prima in via Caetani; con la sua macchina, ché altre a disposizione non ce n’erano in quel momento e rubarne una sarebbe stato rischioso. Una Renault 6 verde, spostata e portata via quando arrivò la Renault 4 rossa con il suo carico di morte. E in via Mario Fani, dove Moro era stato rapito, i terroristi si mossero con una certa sicurezza anche perché alcuni di loro avevano già fatto appostamenti quando, prima di arruolarsi nelle Br, volevano sparare a Pino Rauti, il deputato missino che abitava proprio in quella strada e che la mattina del 16 marzo 1978 fu uno dei primi a dare l’allarme telefonando al 113.
Il furgone «di scorta». La via di fuga per portare l’ostaggio nella «prigione del popolo» dove restò chiuso per 55 giorni è stata ripercorsa metro dopo metro da uno degli assalitori: vie secondarie e poco frequentate, di cui altri militanti che parteciparono all’azione erano stati frequentatori abituali: una faceva la maestra d’asilo da quelle parti, un altro aveva un negozio di caccia e pesca nella zona. Tutto filò liscio, e non ci fu bisogno di utilizzare un furgone parcheggiato lungo il tragitto, per eventuali emergenze che non si verificarono. Sono alcuni particolari contenuti in Brigate rosse - Dalle fabbriche alla campagna di primavera (DeriveApprodi, pag. 534, euro 28), primo volume di un lavoro condotto da Marco Clementi, Elisa Santalena e Paolo Persichetti, due storici di professione e un «ricercatore indipendente» (Persichetti) che ha la particolarità di aver aderito alle Br-Unione dei comunisti combattenti, e per questo è stato arrestato, condannato e ha scontato la pena dopo essere stato estradato dalla Francia. Gli autori hanno potuto contare sulle testimonianze inedite di alcuni ex brigatisti non pentiti né dissociati, ma soprattutto hanno consultato per mesi le carte trasmesse all’Archivio di Stato dagli apparati di sicurezza in seguito alle direttive degli ex presidenti del Consiglio Prodi e Renzi, che hanno tolto il segreto su molta documentazione relativa ai cosiddetti «anni di piombo». È la prima ricerca di questo tipo, la cui conclusione porta a sostenere che il sequestro Moro fu la logica evoluzione della strategia messa in campo dalle Br all’inizio degli anni Settanta, e il suo epilogo la tragica ma quasi inevitabile conseguenza della contrapposizione frontale fra lo Stato e i partiti che lo rappresentavano da un lato, e i terroristi dall’altro. Senza misteri che nasconderebbero patti segreti, verità indicibili, collaborazioni occulte e inquinamenti dell’azione brigatista. Una sorta di contro-inchiesta rispetto a quella condotta dalla nuova commissione parlamentare incaricata di provare a svelare nuovi segreti del caso Moro, ancora in attività e già foriera di scoperte e ulteriori acquisizioni; ultima in ordine di tempo le modalità dell’esecuzione di Moro la mattina del 9 maggio: con l’ostaggio colpito a morte non quando era già rannicchiato nel bagagliaio della Renault 4, come riferito finora dai terroristi, ma seduto sul pianale e poi caduto all’indietro. Una sorta di fucilazione.
I dossier di dalla Chiesa. Nel libro ci si sofferma su altri aspetti, come la centralità di un altro «covo» romano brigatista rispetto a quello molto noto di via Gradoli scoperto durante i 55 giorni, in via Chiabrera, al quartiere Ostiense, dove si svolse la riunione operativa dell’8 maggio in cui si assegnarono i compiti per l’indomani. E vengono contestati e ribaltati, anche sulla base dei documenti redatti all’epoca dalle forze di polizia, alcuni presunti misteri come quelli relativi al ritrovamento delle macchine utilizzate dai brigatisti per il sequestro, o alla scoperta del corpo di Moro. Dagli atti consegnati dall’Arma dei carabinieri emerge l’attività del Nucleo speciale guidato dal generale dalla Chiesa, ricomposto nell’estate del ’78. Dalle relazioni semestrali inviate al ministro dell’Interno, si evince una vastissima operazione di raccolta dati e schedature a tappeto, con «più di 16.161 fascicoli e circa 19.780 schede personali, che oggi purtroppo non risultano consultabili (potrebbero anche essere andati distrutti), 9.200 servizi fotografici, di cui 7.391 riferentisi a soggetti e 1.451 a luoghi di interesse operativo». La maggior parte dei fascicoli riguardavano attività svolte a Roma (4.916) e Milano (4.200), ma anche a Napoli (2.100), Torino, Genova, Firenze, Padova e altre città. Consultabili sono invece, presso la Fondazione Gramsci, i verbali delle Direzioni del Pci, nelle quali i dirigenti scelsero non solo di sposare da subito la cosiddetta «linea della fermezza», ma di non attribuire alcuna attendibilità a ciò che Moro scriveva dal carcere brigatista in cui era segregato. «Bisogna negare valore alle cose che ha detto e potrà dire, ciò gioverà alla nostra posizione», sintetizzò Emanuele Macaluso nella riunione del 30 marzo. Fu uno dei passaggi chiave del fronte del rifiuto su cui si ritrovarono i partiti di governo, con l’eccezione finale dei socialisti che provarono a smarcarsi. Storie che avvinghiarono l’Italia di 39 anni fa, e oggi si arricchiscono di dettagli e punti di vista di allora su cui ci si continua a interrogare.
CASO MORO, SE LA COMMISSIONE PARLAMENTARE GUARDA ALTROVE. Che il presidente della Dc sia stato ucciso da seduto o da sdraiato cambia poco. Cambierebbe invece sapere se pezzi dello Stato conoscevano le mosse di stragisti e terroristi e, se sì, perché li abbiano lasciati fare, scrive Annachiara Valle su "Famiglia Cristiana” il 3/03/2017. Sul caso Moro tutto da rifare? Così dicono i commenti sui lavori della Commissione presieduta da Giuseppe Fioroni. In realtà che sia tutto da rifare il Ris non lo dice. Non lo dice la perizia effettuata dagli uomini del colonnello Luigi Ripani e non lo dicono neppure, in audizione, lo stesso comandante del Reparto investigazioni scientifiche di Roma e il suo tenente colonnello Paolo Fratini. Seppur tirati di qua e di là dalle domande dei membri della Commissione Moro, i due carabinieri si limitano a mostrare le evidenze scientifiche e a formulare due ipotesi di cui una definita, «sulla base degli elementi oggettivi raccolti», la «più probabile». La «scena del crimine», per i Ris, è certamente la Renault 4 dove il corpo di Aldo Moro fu ritrovato la mattina del 9 maggio. Rispetto alla ricostruzione degli ultimi momenti del presidente fatta da Germano Maccari nell’udienza presso la Corte d’assise di Roma, il 19 giugno 1996, la differenza è sulla posizione di Moro al momento dei primi colpi sparatigli – già sdraiato secondo il brigatista, seduto sul pianale dell’automobile secondo il Ris -, mentre gli altri proiettili lo hanno raggiunto nella posizione indicata dai brigatisti. Non è la prima volta che la Commissione crea scoop e nuovi scenari sul caso Moro. I lettori ricorderanno anche la vicenda delle cassette di via Gradoli sulle quali nel 2015 – anche lì eravamo in prossimità dell’anniversario della strage di via Fani – Gero Grassi, uno dei componenti della Commissione, aveva dichiarato: «Le cassette sono state ritrovate tra i reperti del covo brigatista di via Gradoli grazie al lavoro della dottoressa Antonia Giammaria, magistrato distaccato presso l'organismo parlamentare. Da quel che si conosce dagli atti erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono nella cassaforte della Commissione». Peccato però che, proprio sulle quelle audiocassette «mai ascoltate»» ci fosse tanto di verbale dell’epoca della Digos con il contenuto dettagliato di ciascuna. Il vero quesito allora è sugli obiettivi della Commissione e sul perché non si riesca ad allargare lo sguardo su quanto successe nel nostro Paese in quegli anni soprattutto sul fronte dello stragismo, dei depistaggi e dei rapporti tra settori deviati dello Stato e terrorismo. Sul rapimento e l'assassinio di Aldo Moro, lo avevamo già scritto fin dal nascere della Commissione, si sa tanto. Quello che manca è un quadro in cui collocare tutta la vicenda e quello che accadde dopo. Senza immaginare un "Grande vecchio" - che probabilmente non c'è mai stato - manca di sapere se e quanto si sapesse su terrorismo di destra e di sinistra, sul se e sul quanto si lasciò fare (perché ad esempio, una volta individuato il covo di via Montalcini si lascia che la Braghetti traslochi senza arrestarla e lasciando così che possa uccidere due anni dopo Bachelet?), sul se e quanto i brigatisti furono “usati”, loro malgrado, anche da pezzi dello Stato, sul se e quanto lo stragismo di destra fosse funzionale a una svolta autoritaria nel Paese…E mentre i dietrologi del caso Moro giocano ai piccoli detective quasi fossimo in un episodio della serie televisiva Csi, sulle questioni vere che hanno cambiato la storia del nostro Paese si continua a tacere. Perciò ci permettiamo noi di porre un quesito alla Commissione, nella convinzione che la nostra domanda sia anche quella di tanti italiani: perché non si indaga, finalmente e fino in fondo, sulle implicazioni e i coinvolgimenti delle istituzioni e degli apparati dello Stato in questa vicenda?
CHI VOLLE LA MORTE DI MORO?
Come e perché NON hanno voluto salvare Aldo Moro, scrive il Pino Nicotri. Domenica 16 marzo ricorre l’anniversario del rapimento dell’onorevole democristiano Aldo Moro, ex ministro ed ex capo del governo, e del massacro della sua scorta, avvenuti per opera delle Brigate Rosse nel 1978. Moro come è noto è stato ucciso dopo 55 giorni di prigionia, il 9 luglio, in un angusto “carcere del popolo” ricavato dietro una parete di un appartamento in via Camillo Montalcini n. 8 a Roma. Desidero raccontare quanto ho appreso casualmente nell’agosto 1993 riguardo la mancata possibilità che lo Stato italiano liberasse Moro. E come è stata sprecata la possibilità di fare piena luce sui perché e per ordine di chi il manipolo di “baschi neri” del ministero dell’Interno venne bloccato pochi minuti prima di assaltare la prigione brigatista. Prima però è bene inquadrare la vicenda nel suo contesto storico non sufficientemente noto. Vado quindi per ordine. Un primo tentativo di assassinare moralmente Moro è del 1976 e porta già la firma di Kissinger. Negli Usa la commissione Frank Church del senato USA comincia quell’anno le sue indagini sulle attività delle multinazionali tese a organizzare in tutto il mondo scandali contro le frazioni pro-sviluppo dei propri Paesi e scopre, tra l’altro, che la potente industria aeronautica militare Lockheed usava corrompere con ricche bustarelle i politici di più parti del globo per convincerli ad acquistare i propri aerei. A prendere le mazzette in Italia era un misterioso personaggio soprannominato in codice Antelope Cobbler. Per farne naufragare la politica di apertura ai comunisti e ai palestinesi, è un assistente del Dipartimento di Stato, cioè di Kissinger, tale Loewenstein, filosionista e antiarabo come il suo famoso principale, a proporre di dare in pasto alla stampa Moro indicandolo come l’Antelope Cobbler. La proposta è resa operativa da Luca Dainelli, ambasciatore italiano negli Usa e membro dell’International Institute for Strategic Studies. Il complotto contro Moro però non riuscì. Pur messo sotto accusa, la corte Costituzionale ne archiviò la posizione il 3 marzo 1978. Vale a dire, 13 giorni prima dell’agguato di Via Fani. Ad agguato avvenuto, la Segreteria di Stato Usa invia in Italia il suo funzionario Steve Pieczenik a dirigere «l’unità di crisi» che, avallata dal primo ministro dell’epoca Giulio Andreotti e comprendente l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, decideva la linea da tenere nei confronti delle Brigate Rosse e delle condizioni da loro poste per liberare l’ostaggio. Uno dei compiti, anch’esso riuscito in pieno, ammesso dall’americano era far credere ai giornali e all’opinione pubblica che le molte lettere scritte da Moro durante la prigionia, ricche di accuse ai politici, non erano spontanee, bensì frutto di un «lavaggio del cervello», e che quindi non se ne doveva tenere conto. Tutti i giornali fecero infatti a gara a delegittimare il contenuto delle molte lettere di Moro recapitate dai brigatisti a familiari e collaboratori del rapito nonché ad alcune redazioni. La strategia impostata dall’esperto «amerikano» ricalcava fedelmente quanto previsto dal Field Manual redatto nel 1970 dalla Cia per definire il comportamento Usa verso i propri alleati in caso di loro gravi crisi. Si tratta di una strategia che definisce il terrorismo «fattore interno stabilizzante», secondo il principio «destabilizzare al fine di stabilizzare». E che non si fa scrupolo di prevedere la strumentalizzazione di eventuali gruppi eversivi dei Paesi alleati se essa può risultare positiva per gli interessi americani. Leggiamo ora cosa ha detto Pieczenik in una intervista all’«Italy Daily» del 16 marzo 2001 riguardo il suo compito durante il sequestro Moro: “Stabilizzare l’Italia, in modo che la Democrazia Cristiana non cedesse… e assicurare che il sequestro non avrebbe condotto alla presa del governo da parte dei comunisti… Il mantenimento delle posizioni della DC: quello era il cuore della mia missione. Nonostante tutte le crisi di governo, l’Italia era stato un Paese molto stabile, saldamente in mano alla DC. Ma in quei giorni il Partito comunista di Berlinguer era molto vicino a ottenere la maggioranza, e questo non volevamo che accadesse… Io ritengo di avere portato a compimento tale incarico. Una spiacevole conseguenza di ciò fu che Moro dovette morire… Nelle sue lettere Moro mostrò segni di cedimento. A quel punto venne presa la decisione di non trattare. Politicamente non c’era altra scelta. Questo però significava che sarebbe stato giustiziato… Il fatto è che lui, Moro, non era indispensabile ai fini della stabilità dell’Italia”. Più chiari e cinici di così! Intervistato per il quotidiano «l’Unità» del 9 maggio 2007 dal giornalista Marco Dolcetta, ecco cosa ha detto «l’amerikano » inviato dalla Segreteria di Stato ripetendolo inoltre nel suo libro dal titolo quanto mai esplicito “Noi abbiamo ucciso Aldo Moro”, edito in Francia da Patrick Robin: ” Il primo punto della mia strategia consisteva nel guadagnare del tempo, mantenere in vita Moro e al tempo stesso il mio compito era di impedire l’ascesa dei comunisti di Berlinguer al potere, ridurre la capacità degli infiltrati nei Servizi e immobilizzare la famiglia Moro nelle trattative. Cossiga non gestiva interamente la strategia che volevo sviluppare.[…] Fra gli altri, i simpatizzanti di estrema sinistra comprendevano anche i figli di Bettino Craxi e una delle figlie di Moro […]. Lessi le molte lettere di Moro e i comunicati dei terroristi. Vidi che Moro era angosciato e stava facendo rivelazioni che potevano essere lesive per l’Alleanza Atlantica. Decisi allora che doveva prevalere la Ragione di Stato anche a scapito della sua vita. Mi resi conto così che bisognava cambiare le carte in tavola e tendere una trappola alle Br. Finsi di trattare. Decidemmo quindi, d’accordo con Cossiga, che era il momento di mettere in pratica una operazione psicologica e facemmo uscire così il falso comunicato della morte di Aldo Moro con la possibilità di ritrovamento del suo corpo nel lago della Duchessa. Fu per loro un colpo mortale perché non capirono più nulla e furono spinti così all’autodistruzione. Uccidendo Moro persero la battaglia. Se lo avessero liberato avrebbero vinto. Cossiga ha approvato la quasi totalità delle mie scelte e delle mie proposte e faceva il tramite con Andreotti […]. Sono stato io a decidere che il prezzo da pagare era la vita di Moro. […] Cossiga era sempre informato sulla mia strategia e non poteva fare altro che accettare. Le Br invece potevano fermarsi in un attimo ma non hanno saputo farlo o voluto”. Insomma, mettere nel sacco Le Br ed eliminare Moro: due piccioni con una fava. Riguardo le responsabilità quanto meno morali di Cossiga nella volontà politica di fare uccidere Moro, mi sono casualmente imbattuto in due testimoni di eccezione: un gesuita confessore della chiesa del Gesù in piazza del Gesù e l’ex confessore di Cossiga ai tempi del sequestro Moro. Cominciamo dal gesuita. «Lo stesso attentato a Moro, no? La prigione di Moro». «Sì?» «Erano arrivati alla casa vicina a dove stava lui. Hanno avuto l’ordine di fermarsi. Lo so perché un mio alunno faceva parte di queste cose qui. Me lo ha detto lui: “Noi abbiamo avuto l’ordine di fermarci e tornare indietro”. Erano arrivati a pochi… A venti metri erano arrivati. Quindi lo sapevano benissimo. Cioè, lo sapevano. Setacciando casa per casa, alla fine lo dovevano trovare». «Via Montalcini?» «Adesso non so perché io non sono addentro alle segrete cose. Però questo me lo ha detto un mio alunno che stava lì, insomma, ecco, faceva parte di quelli lì. Hanno dovuto rimettere, capito? Ma non parliamo male che non è questa né la sede né il luogo né il caso». Questa è una parte del mio dialogo al cardiopalma con un gesuita confessore della Chiesa del Gesù in uno dei primi giorni dell’agosto 1993. Stavo scrivendo il libro Tangenti in confessionale, spacciandomi nei confessionali delle chiese più rappresentative d’Italia – dal duomo di Torino alla basilica di S. Pietro in Vaticano fino a S. Gennaro a Napoli – per un politico che accettava le mazzette dagli industriali e a volte, al contrario, per un industriale che le pagava ai politici. Dalle risposte dei preti confessori volevo capire e documentare il comportamento e l’influenza della Chiesa nei confronti di un fenomeno come quello della corruzione e delle tangenti, troppo diffuso per esserle ignoto. E infatti… Mi «confessavo» con un mini registratore avvolto in un giornale tenuto in mano perché stesse il più vicino possibile alla bocca dei religiosi. La tarda mattinata di un giorno tra il 2 eil 4 agosto sono andato nella chiesa del Gesù, in piazza del Gesù. Una scelta dovuta al fatto che in quella piazza c’era la sede della direzione nazionale della Democrazia Cristiana e al fatto che in quella chiesa Andreotti andava a messa quasi ogni mattina, dove presumevo si confessasse anche. Inoltre proprio a pochi metri di distanza, nella adiacente via Caetani, era stato lasciato a suo tempo il cadavere di Moro trasportato da via Montalcini con una Renault rossa. Più simbolismi di così! Entrato in chiesa, mi sono diretto verso il primo confessionale a destra, dove c’era un religioso in attesa di penitenti. Non avrei immaginato neppure da lontano che il discorso sarebbe piombato nel caso Moro, e in modo così tranchant: io parlavo di tangenti e il confessore per dirmi che era un andazzo molto noto e tollerato mi stava dicendo che era noto tanto quanto a suo tempo il luogo della prigione di Moro! Il cuore m’è schizzato in gola e ho cominciato a sudare non solo per il caldo. La storia che mi ha raccontato quel gesuita è la seguente: «Un mio ex alunno si era arruolato nella polizia ed era entrato nel corpo delle “teste di cuoio”. Un giorno è venuto a chiedermi l’autorizzazione morale per infiltrasi nelle Brigate Rosse, voleva cioè sapere da me se l’infiltrarsi era morale o immorale. Gli dissi che era morale. Passato del tempo, quel mio ex alunno è tornato da me schifato. Mi ha raccontato che mentre stavano andando a liberare Moro ed erano arrivati a una ventina di metri dalla sua prigione, all’improvviso ricevettero l’ordine di tornare indietro. Il mio ex alunno rimase talmente schifato che si è dimesso dalla polizia. Ora lavora nella falegnameria del padre». Chiaro quindi che si trattava della prigione di via Montalcini, altrimenti non si spiegherebbero lo schifo e lo scappar via dalla polizia. Ero sconvolto. Ma uno o due giorni dopo sarei rimasto ancora più sconvolto. Sono andato infatti a confessarmi anche nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina, nella omonima piazza, scelta perché in quella piazza aveva il suo storico ufficio privato l’ancor più storico Andreotti. Mi si è presentato un parroco con i capelli a spazzola e l’accento pugliese. Anziché nel confessionale, mi ha sorpreso facendomi accomodare in sagrestia, seduti uno di fronte all’altro su banali sedie e separati da nulla. Ero teso perché temevo si capisse che il giornale che stringevo nervosamente in mano nascondeva quello che nascondeva. Ma a un certo punto ho rischiato di cadere dalla sedia: quel parroco – anche lui per consolarmi dicendo che il fenomeno delle mazzette era noto e tollerato quanto certi «misteri» del caso Moro – mi stava dicendo che era stato il confessore di Cossiga all’epoca del sequestro Moro! «Quando, durante l’affare Moro, Cossiga era ministro degli Interni e lo confessavo io, in quel frangente dicevo: “Professore, io la posso solo assolvere dei suoi peccati. Ma la situazione sua se la deve andare a sbrigare da qualche altro”. Allora c’era Ferretto, c’era Dossetti [compagni d’Università di Moro che dopo avere fatto politica hanno infine scelto la vita in convento, ndr]. Dicevo: “Vada a sentire loro. Perché, anche, loro sono quelli che, avendo fatto carriera con lei, con Moro e col partito, a un certo punto hanno fatto un’altra scelta, possono aiutarla adesso”. A questo tipo di sollecitazione lui diceva: “Lascio perdere tutto”». Il suo ex confessore mi stava dicendo che Cossiga aveva un enorme peso sulla coscienza per le scelte fatte. Lo straordinario racconto del parroco di S. Lorenzo in Lucina confermava in pieno non solo quanto più volte più o meno chiaramente trapelato e in parte ambiguamente ammesso dallo stesso Cossiga, ma anche quanto raccontato dall’«amerikano» Pieczenik, all’epoca assai poco noto in Italia e a me del tutto ignoto. Le due confessioni hanno avuto un seguito ciascuna. Il primo è che ho scritto a Cossiga chiedendo lumi sulle pesanti parole del suo ex confessore e ne ho ricevuto la seguente risposta: «Caro Nicotri, si tratta di una faccenda troppo importante per lasciarla trattare a un prete». Il secondo è che dopo la pubblicazione del mio libro, il pubblico ministero Franco Jonta mi ha convocato per interrogarmi e chiedermi chi fosse esattamente quel confessore. Nonostante il tono perentorio del magistrato, con velata minaccia di guai giudiziari, ho opposto il segreto professionale, specificando però che ero disponibile a rispondere, ma solo dopo che l’Ordine dei giornalisti mi avesse sciolto, su mia richiesta, dall’obbligo del segreto. Tornato a Milano, ho chiesto per iscritto di esserne sollevato data l’importanza dell’argomento e della mia testimonianza. Ottenuto il permesso, sono stato riconvocato a Roma da Jonta, e questa volta gli ho portato una copia del nastro con il dialogo nel confessionale. Man mano che ascoltava il nastro il magistrato si incupiva sempre di più. E ogni tanto continuava a ripetermi: «Ma non le sembra strano?» Ho cominciato a sentirmi a disagio, e a un certo punto ho temuto che magari venissi accusato di avere falsificato il nastro. All’ennesimo «Ma non le sembra strano?» mi sono stufato e ho ribattuto: «A me sembra strano, anzi stranissimo, però la sua è una domanda che dovrebbe rivolgere non a me, ma al confessore». Silenzio di gelo. Finito il nastro Jonta guardandomi in modo che mi è parso ostile mi ha chiesto: «E chi sarebbe questo confessore?» «Credo lei volesse dire “chi è” e non “chi sarebbe”. Comunque la risposta è semplice: quello che riceve nel primo confessionale a destra entrando in chiesa», ho risposto specificandone anche il cognome: «C’è affissa una targhetta in ottone con scritto come si chiama il confessore e gli orari durante i quali è presente». «E che lo interrogo a fare? È chiaro che mi opporrà il segreto del confessionale». «Be’, ma scusi, dottor Jonta, per arrivare a questa conclusione non c’era bisogno di farmi sciogliere dall’obbligo del segreto e farmi tornare a Roma. Ma se non intende interrogarlo, qual è il motivo per cui ne vuole sapere il nome? Qualcuno vuole forse chiedere anche a lui di tacere?» «Ma come si permette!» «Guardi che quel confessore non può assolutamente accampare il segreto perché ha detto chiaro e tondo, come lei ha sentito ascoltando il nastro, che il suo ex alunno in realtà non è andato a confessarsi, a parlare cioè dei propri peccati, ma solo a chiedergli un consiglio. Lei perciò può e anzi deve interrogarlo. E se non risponde lo può anche arrestare o comunque mandare sotto processo. Proprio come ha minacciato di fare con me. O devo pensare che secondo lei io ho meno diritti del gesuita?» «Nicotri, guardi che qui cosa fare lo decido io. Lei non può certo starmi a dire cosa devo o non devo fare». «Con la sua coscienza se le vede lei. Comunque guardi che questa è l’unica occasione di chiarire finalmente la bruttissima faccenda della mancata liberazione di Moro. E in ogni caso, confessore o non confessore, è sicuro che non ce ne sono tante di ex teste di cuoio figli di falegnami infiltrate nelle Brigate Rosse e scappate dalla polizia dopo la faccenda Moro per andare a fare il falegname dal papà. Se questo ex poliziotto lo cercate, lo trovate di sicuro. Se lo volete trovare, naturalmente». «Ah, ma allora lei non vuole capire! Qui comando io, e lei non deve assolutamente dirmi cosa cavolo devo fare!» Conclusione? La prima è che sono uscito dal palazzo di Giustizia vergognandomi. Vergognandomi della mia disponibilità con il magistrato. E vergognandomi d’essermi fatto sciogliere dall’obbligo del segreto. Mi sentivo molto a disagio, in imbarazzo con me stesso. La seconda conclusione: è chiaro come il sole che NON si è voluto chiarire il «mistero» della prigione di Moro. Esattamente come a suo tempo non si voleva che la si trovasse. I «consigli» di Pieczenik parlano chiaro. I pesi sulla coscienza e le ammissioni di Cossiga anche. Il cadavere di Moro pure.
Moro, retorica e ipocrisia nell’anniversario della morte ma silenzio sui tanti misteri irrisolti, scrive venerdì 9 maggio 2014 “Il Secolo d’Italia”. L’ipocrisia va in scena fra via Caetani, dove fu ritrovato il corpo di Aldo Moro, il cimitero di Torrita Tiberina, dove il leader Dc è sepolto e Facebook dove scorrono paludati e inutili interventi istituzionali densi di chiacchiere e retorica a buon mercato. Nell’anniversario del ritrovamento della Renault 4 all’interno della quale fu scoperto il cadavere di Aldo Moro, trentasei anni dopo i fatti, le istituzioni si ritrovano a commemorare l’esponente democristiano senza che lo Stato si sia dimostrato in grado di chiarire definitivamente i mille dubbi sulla vicenda e di allontanare il sospetto che tanto il sequestro, quanto l’omicidio e, poi, l’esfiltrazione dei brigatisti che parteciparono all’omicidio siano stati eterodiretti e gestiti. Anni di indagini, decine di libri, una Commissione Parlamentare e ben cinque processi non sono riusciti a stabilire definitivamente come andarono effettivamente i fatti e se vi furono coinvolti altri soggetti oltre ai brigatisti. I misteri che ancora aleggiano sull’intera vicenda e gli interrogativi ancora senza risposta sono tali e tanti che riesce difficile comprendere come le istituzioni possano rievocare quegli avvenimenti senza provare il benché minimo imbarazzo. Sarebbe sufficiente ricordare la quantità industriale di reperti e documenti scomparsi senza lasciar traccia nel corso degli anni. Come le oltre 10 foto che un abitante della zona del sequestro, Gherardo Nucci, scatta subito dopo l’agguato a via Fani dall’alto, dalla terrazza di casa. La moglie di Nucci, giornalista dell’Asca, le consegna subito alla magistratura. E non si ritroveranno mai più. Eppure quelle foto sembrano interessare moltissimo la Democrazia Cristiana: un’intercettazione cristallizza lo strano colloquio fra Sereno Freato, il capo della segreteria di Moro che tentò di gestire una trattativa con le Br nei giorni del sequestro e Benito Cazora, anche lui diccì di spicco incaricato da piazza del Gesù di tenere i rapporti con le cosche calabresi per cercare di avere notizie sul rapimento. La preoccupazione che emerge è che quelle foto hanno immortalato qualcuno che non doveva essere ripreso lì in quel momento. Perché? Chi era? Mistero. Non l’unico, però. Subito dopo il sequestro un inspiegabile e provvidenziale blackout mandò in tilt tutte le comunicazioni nella zona dell’agguato impedendo, di fatto, il corretto coordinamento fra le forze dell’ordine. I brigatisti sostennero che alcuni compagni che lavoravano alla Sip avevano provveduto a isolare le comunicazioni ma, il giorno prima del sequestro, la struttura interna della Sip che era in rapporti con il Sismi venne allertata come accadeva, di norma, quando erano previsti eventi eccezionali. Uno dei misteri più fitti e irrisolti è quello relativo alle presenze sul luogo esatto del sequestro. Si scoprì che il colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, era presente sul posto. Interrogato, disse che lo attendeva a pranzo un amico che lo aveva invitato. A parte il fatto che l’agguato a Moro avvenne alle 9 di mattina e, dunque, ben prima dall’orario di pranzo ma l’amico di Guglielmi, interpellato a sua volta, disse di non aver mai invitato il colonnello del Sismi a pranzo e che, anzi, si stupì quando lo vide presentarsi alle 9 del mattino insalutato ospite. La presenza di Guglielmi sul luogo della strage sarebbe perfino passata inosservata se non l’avesse rivelata un ex-agente dei Servizi, Pierluigi Ravasio il quale raccontò che i Servizi avevano infiltrato fra le br uno studente di giurisprudenza, nome in codice “franco”, il quale avvertì, mezz’ora prima, che Moro stava per essere rapito. Di certo il mistero ben si accompagna alla famosa “seduta spiritica” durante la quale, secondo Prodi, il fantasma evocato di La Pira pronunciò la parola “Gradoli”. Partirono tutti per il paesino viterbese di Gradoli senza pensare che a Roma esisteva una via Gradoli dove, effettivamente, Moro era detenuto. Con scarso senso del ridicolo, Prodi ha ripetuto la storiella della seduta spiritica perfino davanti ai commissari della Commissione parlamentare d’inchiesta. Qualcuno ha inevitabilmente ricordato al professore bolognese che all’Università di Bologna, dove lui insegnava, era molto attiva Autonomia Operaia che fiancheggiava le Brigate Rosse. E forse qualcuno fece arrivare all’orecchio del profesore la parola Gradoli “ufficializzata” poi con la seduta spiritica. Proprio recentemente il mistero sulla presenza del colonnello Guglielmi si è riacceso perché quel giorno, quando l’esplosione della “geometrica potenza” dei brigatisti falcidiò la scorta di Moro senza minimamente colpire né i brigatisti né lo stesso Moro, una moto Honda con due uomini a bordo transitò sulla scena e il passeggero sparò alcuni colpi di pistola contro un abitante della zona, l’ingegner Alessandro Marini, che, con il motorino, si stava immettendo proprio lì dove i br stavano portando a termine il rapimento. Chi erano quei due sulla moto che sbarrarono il passo all’ignaro testimone? Non si è mai saputo. Gli stessi br assicurarono che non appartenevano al loro gruppo. Ma, nei mesi scorsi, un ispettore di polizia in pensione, Enrico Rossi, ha rivelato che a bordo di quella moto vi erano due uomini dei Servizi segreti gerarchicamente dipendenti dal colonnello Guglielmi. A distanza di anni dai fatti l’ispettore Rossi perquisisce la casa di uno dei due uomini, trova una pistola cecoslovacca Drulov compatibile con la descrizione fatta dai testimoni su quella utilizzata dai due uomini a bordo della Honda e la consegna alla Digos di Cuneo. Quella pistola non sarà mai periziata e verrà distrutta. Scompare, così, un’altra prova. Un altro mistero ruota attorno al cosiddetto “Tex Willer” che sparò, quel giorno, in via Fani. Dei 91 bossoli ritrovati, 49 provenivano dall’arma di un’unica persona, un killer preciso, freddo e incredibilmente professionale. Gli stessi testimoni che assistono al sequestro, fra i quali un esperto di armi, restano choccati dalla precisione e dalla capacità di chi sparò quei 49 colpi sul totale dei 91 bossoli ritrovati e periziati. I brigatisti hanno più volte sostenuto che non c’era, fra loro, nessuno così particolarmente addestrato a sparare perché ritenevano rischioso addestrarsi a sparare. I testimoni collocano il superkiller all’incrocio con via Stresa. Lì c’era Valerio Morucci al quale però l’arma, come racconta lui stesso, si inceppò dopo 2 o 3 colpi. I misteri mai risolti davvero sono centinaia e centinaia. Una specie di gigantesco puzzle che non coincide mai. Fra le carte sequestrate a Valerio Morucci c’era il numero, riservato, di Marcinkus, non proprio uno stinco di santo. Che cosa c’entrano Morucci e le br con Marcinkus? Mistero. La mitraglietta Skorpion con la quale fu ucciso Moro fu ritrovata sopra un armadio nell’appartamento di viale Giulio Cesare di Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, agente del Kgb il cui nome spunta dal dossier Mitrokhin. La lista degli interrogativi rimasti senza risposta è infinita. Forse, allora, ha ragione la figlia dell’esponente Dc, Maria Fida Moro: «Tanti vogliono dimenticare, molti non vogliono sapere, troppi ignorano e alzano le spalle eppure questa nazione non si salverà e affonderà se non vorrà capire e sapere perché nessuno mi toglie dalla testa che Aldo Moro è stato liquidato con il concorso di tanti perché ci si avviasse verso la realtà che viviamo oggi. Ripeto: questo Stato morirà e si dissolverà a causa della ignoranza e della cecità se quel nodo non verrà sciolto. Ecco perché sostengo, senza aspettative, l’azione di quella magistratura che ritiene che ben poco è chiaro in quella cruciale vicenda”.
Sequestro Moro, ricostruito l’agguato in 3D: non andò come dicono le Br, scrive Giulia Melodia giovedì 11 giugno 2015 su “Il Secolo d’Italia”. Sequestro Moro, le cose non andarono come i Br hanno fin qui sostenuto. Secondo quanto ricostruito per la prima volta con slide in 3D, sulla base dei dati delle autopsie, delle perizie balistiche e della collocazione dei bossoli sul terreno, la dinamica dell’agguato smentisce in gran parte le dichiarazioni rese dai brigatisti di quel giorno e la versione dei fatti fin qui accreditata. E allora, in base alle nuove acquisizioni, lo schema dell’accerchiamento e dell’azione terroristica sarebbe questo: quattro killer che sparano sulle auto in via Fani; colpi singoli e mirati scaricati subito sulla 130 ancora in movimento per evitare di uccidere Moro e colpire invece in maniera mirata gli uomini in macchina con lui; raffiche sulle altre auto per colpire gli uomini della scorta. Poi la mattanza e gli stessi killer che si spostano (tutti o in parte) da una dislocazione di fuoco sulla sinistra del corteo delle auto alla destra delle stesso per uccidere con 17 colpi Iozzino, l’unico uscito dall’auto per reagire, e infliggere dei colpi di grazia scaricati su uomini già morti e che hanno come conseguenza, per il rinculo delle armi, anche i colpi che si infilano sulla sinistra fin dentro le abitazioni. Tutto questo, ricostruito con slide in 3D sulla base dei dati delle autopsie, delle perizie balistiche e della collocazione dei bossoli sul terreno, va a ricomporre la dinamica del 16 marzo 1978 smentendo in gran parte le stesse affermazioni dei brigatisti che sostengono di aver sparato solo dal lato sinistro del corteo di auto. I riscontri incrociati sui dati disponibili parlano infatti di 7 tiratori sul lato sinistro, e non quattro come sostenuto prima dal memoriale Morucci che ha «stabilizzato» la versione delle Br per via Fani, ed ora proposto nelle analisi per la Commissione Moro. Audizione lunghissima stanotte per la commissione Moro che ha visto illustrare due relazioni frutto di una complessa serie di accertamenti fatti dalla Polizia scientifica e dai tecnici per conto della Commissione utilizzando le più moderne tecniche di ricostruzione della scena del crimine. La prima relazione, di Laura Tintisona, ha “smontato” molte delle contraddizioni e degli elementi di dubbio avanzati da alcuni libri negli ultimi mesi, chiarendo anche che le due auto presenti in prossimità del corteo di Moro, cioè una Mini Clubman e una Mini Cooper, erano intestate e in uso a persone che hanno dichiarato di non aver mai avuto rapporti con i servizi segreti. Chiarito anche l’orario di arrivo di una Alfasud che trasportava il Dottor Spinella a via Fani e interrogato anche il “signore con il cappotto color cammello”, Bruno Barbaro, tra i primi a soccorrere gli uomini della scorta, che ha confermato le precedenti testimonianze. Su ognuno dei soggetti sono state fatti accertamenti approfonditi sia su possibili legami, anche economici o imprenditoriali, con strutture dei servizi segreti, sia sulla loro attività e sulla “logica” della loro presenza in via Fani quella mattina. Altro passaggio importante quello delle armi usate. Sono state recuperate la pistola Smith&Wesson e la pistola mitragliatrice Fna 43, il caricatore caduto a Fiore in via Fani e altri reperti trovati in terra, tutti i bossoli e parte dei proiettili. Mancano i proiettili rinvenuti sul corpo del maresciallo Leonardi, due rinvenuti nell’Alfetta di scorta, i proiettili rinvenuti nella 130 e nella Mini. In sede di perizia è stato trovato, in un pannello di una delle auto, un proiettile. La perizia afferma anche che non sono state rilevate particolarità sui bossoli di via Fani. La relazione di Federico Boffi ha riguardato la ricostruzione in 3D. L’incrocio degli elementi indica che le macchine furono colpite in movimento; che non ci fu un vero e proprio tamponamento e del tentativi di “svincolamento” in retromarcia, come affermano i Br, ma solo dei sobbalzi della macchina che si andò ad appoggiare alla 128 delle Br e che le anomalie nei colpi sparati sul Maresciallo Leonardi sono spiegabili con il fatto che si era girato rispetto al punto di fuoco per cercare di sottrarre ai colpi il Presidente Moro. Confermato che un secondo Fna sparò 49 colpi, ma l’arma ancora non è stata ritrovata. Miguel Gotor (Pd) ha fatto notare che i 4 tiratori rappresentano la versione minima data dalle Br fin dall’inizio (poi smentita dalle successive acquisizioni) che cozza con il racconto sciorinato nella memoria Br in cui si parla di un fucile inceppato, di gente che se la faceva sotto, di pistole inefficienti, cambi di caricatore ecc. Stesse perplessità da parte di Gero Grassi. La commissione trasmetterà alla magistratura l’insieme dei documenti e la ricostruzione in 3D illustrata ai commissari.
Quella verità nascosta sulla morte di Moro: Cossiga sapeva già tutto. L'agente che ispezionò per primo la Renault 4 in via Caetani dimostra che l'allora ministro mentì sui tempi dell'esecuzione, scrive Paolo Guzzanti, Domenica, 30/06/2013 su “Il Giornale”. Oggi proviamo soltanto rabbia perché è troppo tardi: i due che sapevano tutto se ne sono andati in silenzio e per sempre: Cossiga e Andreotti. Il primo era anche un mio amico, ma sapevo che su Moro mentiva. Oggi ne abbiamo una prova. Lo avevo aggredito un paio di volte su questo tema, ma lui cambiava discorso. Andreotti era rimasto una sfinge. Sapeva di Moro, sapeva di Falcone. La vitiligine, diceva Cossiga: portava come prova del suo choc di fronte alla vista del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, il fatto che il suo corpo - viso e braccia in particolare - si fosse coperto di macchie biancastre. Ho sempre pensato che quella reazione sproporzionata dimostrasse che lui, Cossiga, fosse sopraffatto più che dal dolore per una morte ampiamente annunciata, dalla traumatica sorpresa: non se l'aspettava, aveva informazioni sbagliate. Era sicuro (con Andreotti) di aver ottenuto la liberazione di Moro e invece si trovava di fronte il suo cadavere. Ma adesso ne impariamo una nuova e la impariamo da Vitantonio Raso che fu uno dei due antisabotatori che 35 anni fa, il 9 maggio del 1978, scoprirono il cadavere di Moro nella Renault rossa due ore prima di quanto la storia e i verbali abbiano tramandato. Lo racconta nel libro La bomba umana scritto con il giornalista Paolo Cucchiarelli dell'Ansa. Ora sappiamo che Cossiga arrivò subito dopo il ritrovamento e che ben lungi dall'essere sconvolto, fu impassibile, freddo. Venne subito per constatare il ritrovamento del cadavere, salvo due ore dopo ripetere l'intera scena, in seguito alla telefonata ufficiale di Moretti. Ma quando la telefonata fu fatta, Moro era già stato ritrovato. E ancora sanguinava di ferite fresche. Dunque fu trovato pochi minuti dopo l'uccisione, o al massimo mezz'ora dopo. Eccoci dunque di fronte a una messa in scena: le ore non sono quelle e neanche le reazioni e i sentimenti sono quelli. C'è un prima sconosciuto e un dopo che fu creato soltanto per l'opinione pubblica e la stampa. Una messinscena. C'è dunque una controstoria, una storia vera che si sovrappone a quella di facciata e che si aggiunge alle tante false storie e depistaggi che accompagnano la vicenda, la madre di tutti i traumi della Repubblica, dei ricatti, delle falsità che inquinano la politica. Cossiga dunque mentì. Oggi abbiamo anche - oltre all'annunciata uscita del libro La bomba umana dell'agente Raso - la testimonianza a sostegno di questa novità, dell'ex ministro socialista Claudio Signorile, allora titolare dei Trasporti nel governo Craxi, il quale per puro caso era al Viminale per prendere un caffè con Cossiga - «e non un aperitivo» come ha voluto sottolineare per spostare indietro le lancette dell'orologio - il quale ricorda oggi che udì con Cossiga via radio il messaggio in cui si diceva che due agenti anti sabotatori stavano forzando una R4 sospetta in via Caetani, e poi che nel portabagagli della macchina era stato rinvenuto il cadavere «della nota personalità», vale a dire di Moro. Raso fornisce un'ulteriore informazione: le ferite mortali di Moro, ucciso con una mitraglietta Skorpion, sembravano recentissime. Raso se ne intendeva perché aveva visto le ferite mortali degli uomini della scorta di Moro in via Fani. Due ore dopo l'eccidio, il sangue era già secco. Nel caso di Moro, il sangue ancora sgorgava. E Cossiga, piombato sul posto con alcuni collaboratori del ministro degli Interni si comportava, ricorda Raso, come se fosse già al corrente di tutto e non fosse affatto sorpreso. E il trauma? E la vitiligine? La vitiligine era vera, intendiamoci. E di sicuro quella malattia colpì la sua pelle quel giorno e non prima, né dopo, ma il trauma doveva esserci stato in un momento ancora precedente, quello del sopralluogo segreto. Ma quando Cossiga aveva saputo? Moro fu eliminato proprio mentre era in corso a pochi metri dal luogo del ritrovamento una riunione convocata da Amintore Fanfani per accettare la richiesta dei sedicenti brigatisti rossi che chiedevano uno scambio: un «prigioniero di Stato» contro Moro. Era fatta. Così sembrava. Ma il regista vero dell'operazione Moro la pensava diversamente e prima che la Dc potesse annunciare la decisione di cedere alle richieste delle Br, fece condurre Moro probabilmente ancora vivo in via Caetani dove fu eliminato. Queste rivelazioni riaprono, direi per fortuna, il caso Moro sul quale hanno indagato quattro processi e una Commissione parlamentare d'inchiesta, senza mai venire a capo della vera storia. Io presumo di aver capito un po' di più attraverso i lavori della Commissione Mitrokhin di cui sono stato presidente e di cui fu un animatore l'onorevole Enzo Fragalà, che poi fu assassinato. Si discuteva se le Br che rapirono e uccisero Moro fossero composte soltanto da pretesi rivoluzionari comunisti, o anche da altri elementi non italiani. La questione era se le Br fossero state «eterodirette». Ebbene, la Commissione Mitrokhin fu in grado di provare che le Br contenevano al proprio interno certamente elementi che erano sotto il controllo del Kgb sovietico e della Stasi tedesca orientale. Questa certezza fu raggiunta attraverso una rogatoria internazionale che si svolse presso la Procura generale di Budapest nel dicembre del 2005, quando durante una riunione cui parteciparono membri della Commissione il procuratore ci mostrò una grande valigia piena di documenti in cui, disse, c'erano tutte le prove dei legami fra terrorismo rosso e Kgb. In particolare fu fatto il nome del brigatista Antonio Savasta che per quanto ne so è scomparso dalla circolazione. Il giorno dopo a queste rivelazioni la Procura di Budapest ci comunicò con rammarico di non poterci consegnare la documentazione a causa dei trattati diplomatici che legano i Paesi dell'ex Patto di Varsavia con la Federazione Russa. Ma quel che accadde a Budapest non ce lo siamo sognato. Cossiga, dopo il ritrovamento del corpo di Moro, passò molto tempo andando in pellegrinaggio in tutte le carceri in cui si trovavano i brigatisti con cui ebbe lunghissimi colloqui. Da quel momento Cossiga impedì di fatto che qualcuno si azzardasse a negare il carattere puramente italiano dei «compagni che sbagliano» e i brigatisti uscirono quasi tutti di galera. Così Moro fu assassinato due volte. Andreotti face parte della Commissione Mitrokhin e si comportò di fatto come un sabotatore di tutte le ipotesi che potessero ricondurre alle responsabilità sovietiche. La vera storia è ancora tutta da scrivere e la rivelazione di questo testimone riapre uno spazio sigillato per decenni. Perché Cossiga mentì? Perché già sapeva? Perché credeva di aver salvato Moro e invece fu beffato e addirittura si ammalò per il trauma?
Ferdinando Imposimato: "Aldo Moro ucciso dalle Br per volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Nicola Lettieri", scrive su L'Huffington Post il 10/07/2013. "L'uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri". Ferdinando Imposimato, al tempo giudice istruttore della vicenda del sequestro e dell'uccisione di Moro, interviene sul Caso Moro. E lo fa da Reggio Calabria, sul palco della rassegna Tabularasa dell'associazione Urba/Strill.it.
"Se non mi fossero stati nascosti alcuni documenti - ha aggiunto - li avrei incriminati per concorso in associazione per il fatto. I servizi segreti avevano scoperto dove le Br lo nascondevano, così come i carabinieri. Il generale Dalla Chiesa avrebbe voluto intervenire con i suoi uomini e la Polizia per liberarlo in tutta sicurezza, ma due giorni prima dell'uccisione ricevettero l'ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia". "Quei politici - ha detto Imposimato - sono responsabili anche delle stragi: da Piazza Fontana a quelle di Via D'Amelio. Lo specchietto per le allodole si chiama Gladio. A Falcone e Borsellino rimprovero soltanto di non aver detto quanto sapevano, perché avevano capito e intuito tutto, tacendo per rispetto delle istituzioni. Per ucciderli Cosa Nostra ha eseguito il volere della Falange Armata, una frangia dei servizi segreti". Lo stesso Imposimato all'inizio di giugno ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Secondo il giudice le forze dell'ordine sapevano dov'era la prigione di Moro. Così i magistrati di Roma hanno aperto un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati aperto per valutare se esistano nuovi indizi per riaprire le indagini sulla morte di Aldo Moro. "Massima fiducia nella volontà dei giudici di accertare la verità sulla morte di Moro". Nel testo le rivelazioni di 4 appartenenti a forze dell'ordine e armate secondo cui il covo Br di via Montalcini fu monitorato per settimane. Ma non è l'unica indagine che "riapre" il Caso Moro. Le dichiarazioni di Imposimato arrivano dopo che la procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine relativo alle dichiarazioni di due artificieri che spostano alle 11 l'ora del ritrovamento della Renault 4 con il cadavere di Aldo Moro e la presenza dell'allora ministro degli Interni, Francesco Cossiga, in via Caetani. Già, perché Vitantonio Raso e il suo collega Giovanni Circhetta non sono mai stati interrogati. E nei giorni scorsi hanno deciso di raccontare la propria verità. Gli antisabotatori, che per primi arrivarono all'R4 rossa, con il corpo di Moro nel bagagliaio, in via Caetani, il 9 di maggio di 35 anni fa, spostano l'ora del ritrovamento dell'auto e del cadavere dello statista a prima delle 11, mentre era delle 12.30 la famosa telefonata delle Br che annunciava l'uccisione di Moro ed il luogo dove trovarne il corpo.
C’è chi dice no alla riapertura del caso Moro. Strano a dirsi, è “Famiglia cristiana”…, scrive Gloria Sabatini mercoledì 7 agosto 2013 su “Il Secolo d’Italia”. C’è chi vuole la verità sui troppi buchi neri, sugli omissis, sulle “strane coincidenze” che hanno caratterizzato il drammatico caso Moro, dal sequestro del leader della Democrazia cristiana fino al ritrovamento del corpo a via Fani. E chi si accontenta della vulgata ufficiale e non vuole scavare oltre. C’è chi non si arrende dopo 35 anni e chi non vuole che si continui a indagare perché… è già è tutto noto. Ed è curioso che il portavoce del “partito” del no a una nuova commissione d’inchiesta sul caso Moro sia Famiglia Cristiana. E non importa se l’iniziativa parlamentare per fare luce sui misteri e gli enigmi di uno dei casi più amari del dopoguerra, promossa da Fioroni e Grassi, sia stata sottoscritta dai capigruppo di Pd, Pdl, Scelta Civica, Sel, Fratelli d’Italia, centrodemocratico, Lega e da altri novanta deputati. Nell’eloquente pezzo a firma Anna Chiara Valle dal titolo Commissione Moro? Non serve si sostiene che, a differenza di Piazzale della Loggia, Piazza Fontana, Italicus, Pecorelli, sulla morte di Aldo Moro si sa tutto. Questa la tesi del settimanale di ispirazione cattolica, spesso criticato per le sue prese di posizioni da associazioni ed esponenti del mondo cattolico, che hanno persino invocato l’intervento del Vaticano. Non si contano gli interventi a gamba tesa sull’attualità politica, l’ultimo dei quali l’invito a Berlusconi a «lasciare per sempre» dopo gli attestati solidarietà dei suoi “cortigiani”. Eppure nuove rivelazioni e dichiarazioni hanno riacceso i riflettori sul caso Moro lasciando il sospetto, se non la certezza, che la morte del presidente Dc poteva essere evitata. Non bastano per riaprire le carte le rivelazioni shock comparse in un libro, in cui si sostiene che lo Stato sapesse della morte del politico democristiano prima della telefonata delle Br, e le dichiarazioni di Imposimato, che è stato ancora più diretto e pesante: «L’uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, di Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri»? Tutti e tre morti. L’esito dell’unica commissione d’inchiesta istituita nel ’79 non portò a nulla se non alle rocambolesche testimonianze di Prodi a proposito di una seduta spiritica durante la quale venne fuori il nome “Gradoli”. Si fece un blitz in località Gradoli, senza esito, ignorando il piccolo particolare che a Roma esistesse una via Gradoli. Questo è solo uno dei tanti elementi che caratterizza l’incredibile coltre di fumo che circonda tutt’ora il caso Moro, di cui si parla solo in occasione delle ricorrenze. Ma per il settimanale cattolico diretto da don Antonio Sciortino si tratta di «sensi di colpa, non di casi concreti». Tutti ormai acclarati, secondo il settimanale, dopo le sentenze dei processi Moro quater e Moro quinquies e dopo i risultati di una apposita Commissione bicamerale d’inchiesta. Poi la chicca finale, che poco c’azzecca con le trattative del partito-Stato con le Br, per Famiglia Cristiana «ci si dovrebbe chiedere perché si sia riusciti a far luce quasi interamente sul fenomeno del terrorismo di sinistra e si sia rimasti pressoché all’oscuro delle trame eversive di destra». Insomma la commissione Moro non s’ha da fare né ora né mai.
Moro, quei misteri mai chiariti su Igor Markevitch e Giovanni Senzani, scrive Roberto Frulli giovedì 7 maggio 2015 su “Il Secolo D’Italia”. Si riaccendono i riflettori sull’enigmatica figura di Igor Markevitch, il direttore d’orchestra russo di origine ebree e naturalizzato italiano, indicato da una fonte del Sismi degna del maggior credito come uno degli uomini che interrogarono Moro. Torna infatti in libreria il libro scritto a quattro mani da Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca – “La storia di Igor Markevič” – e riaffiorano domande rimaste incredibilmente per tanti anni senza risposta su chi fosse davvero questo personaggio eclettico e multiforme, strettamente imparentato con una delle più importanti famiglie della nobiltà romana, i Caetani, attraverso la moglie, la duchessa Topazia e finito come attore primario nella vicenda drammatica del sequestro e dell’omicidio dell’esponente democristiano assassinato dalle Brigate Rosse. E’ oramai ampiamente assodato, secondo un rapporto del Ros dell’Arma, che fu Giovanni Senzani, il “capo” mai entrato nella vicenda Moro, a presentare Markevitch a Mario Moretti. Ma, incredibilmente, Senzani, «personaggio di levatura intellettuale e politica di gran lunga superiore a quella dei brigatisti finora noti e membro della direzione strategica brigatista all’epoca del sequestro», spiega Fasanella, pur inquisito e condannato per reati compiuti prima e dopo il sequestro e l’omicidio Moro, non è mai comparso in un’inchiesta sul caso dell’esponente Dc. Insomma Senzani, che pure rappresenta uno snodo fondamentale nelle vicende brigatiste quanto nel sequestro e nell’omicidio Moro, – viene ricordato soprattutto per il rapimento di Roberto Peci, “colpevole” di essere fratello del pentito Patrizio Peci, che Senzani interrogò per settimane e di cui filmò minuziosamente l’esecuzione – è passato indenne in tutti i processi senza mai essere chiamato a rendere conto di quanto sapeva. Ora la nuova Commissione d’inchiesta creata per fra luce sulla vicenda Moro potrebbe e, anzi, secondo Fasanella, dovrebbe convocare Senzani. Perché davvero sono troppe le incongruenze e i punti che non tornano. A cominciare dalla figura di Igor Markevitch e dal ruolo che ha avuto nella vicenda Moro dove giocò da intermediario – «non da Grande vecchio», ci tiene a specificare Fasanella, – tra alcuni servizi segreti esteri di rango e le Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro che era detentore di segreti Nato sensibili e in una sua lettera a Cossiga, allora ministro dell’Interno, aveva minacciato di rivelarli ai brigatisti. Peraltro, fa notare Fasanella, «nessuno ha mai chiarito con elementi convincenti perché si scelse via Caetani per riconsegnare il cadavere di Aldo Moro». Roma era praticamente militarizzata. C’erano posti di blocco dappertutto. Era più facile incappare in un controllo che sfuggirgli. E via castani si trovava al centro di un quadrilatero fondamentale: da una parte c’era la sede del Pci di via delle Botteghe Oscure, dal lato opposto c’era la sede della Democrazia Cristiana di piazza del Gesù. Guarda caso via Michelangelo Caetani la strada dove fu lasciata dai brigasti rossi la Renault 4 rossa con il cadavere di Aldo Moro costeggia proprio Palazzo Caetani, dove tra l’altro due agenti del Sismi lo avevano cercato mentre era ancora in vita. E i risultati dell’autopsia e gli esami compiuti su alcuni materiali rinvenuti sulle ruote della Renault rossa e nei risvolti dei pantaloni di Moro, hanno dimostrato che «il presidente della Dc fu assassinato non più di un’ora prima del ritrovamento del cadavere, e fu ucciso in un luogo distante non più di 40 metri da via Caetani». Dunque Moro fu tenuto prigioniero lì vicino. Dove? Forse proprio nelle secrete sotterranee di Palazzo Caetani? Ci sono molti, troppi, punti di contatto fra i personaggi e gli ambienti solo apparentemente lontani. Sono gli stessi brigasti a spiegare gli inizi della loro avventura che doveva essere la continuazione ideale, ma anche operativa, della lotta partigiana. Le prime armi per i Br arrivarono proprio da lì. E Markevitch aveva partecipato alla Resistenza nelle formazioni partigiane “rosse” dei Gap. Non solo. Un rapporto del Sismi datato 1980 recita testualmente: «Il 14 ottobre 1978 fonte del servizio segnalava che un certo Igor, della famiglia dei duchi Caetani, avrebbe avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle Br che, in particolare, avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “Anna” e “Franco”. Markevitch, torna la pista fiorentina mai percorsa fino in fondo. L’idea che si è fatta strada è che Markevitch fu la testa pensante di quell’interrogatorio che, secondo gli analisti, mostrava, nelle domande, un profilo psicologico non compatibile con quello dei brigatisti. E che, inoltre, dato che il coordinamento del sequestro fu collocato a Firenze, i brigasti furono ospitati e coordinati in una villa del capoluogo toscano nella quale, durante i primi 15 giorni del sequestro Moro, si riuniva il Comitato esecutivo dei brigatisti. Successive indagini giudiziarie hanno identificato questo immobile nel feudo Caetani La Farnia, a metà strada fra Firenze e Fiesole. Secondo Fasanella, Igor Markevitch era sostanzialmente chiamato a gestire la vicenda per evitare «il rischio di una grave destabilizzazione degli equilibri interni italiani e internazionali» che sarebbero, appunto, derivati dai segreti Nato di cui Moro era uno dei custodi. Ma qualcosa, forse, non andò com’era previsto che andasse. Nelle ultime ore frenetiche, forse, addirittura, negli ultimi secondi di vita dell’esponente Dc, «man mano che la trattativa procedeva, ci furono passaggi di mano dell’ostaggio, a cui corrisposero anche trasferimenti fisici da un covo all’altro. Alla fine, Moro arrivò là dove avrebbero dovuto liberarlo. E dove, invece, fu assassinato». Di qui la domanda ovvia. Ci sono elementi che la Commissione Moro potrebbe sviluppare nelle sue indagini su Igor? «Sì. Innanzitutto dovrebbe cercare di spiegare perché Moro venne assassinato, mentre invece la sua liberazione sembrava ormai certa. Quanto a Markevitch: chi gli chiese di intervenire e perché venne chiesto proprio a lui? Aveva legami con ambienti diplomatici, dell’intelligence e intellettuali che per varie ragioni avevano avuto a che fare con il terrorismo? La figura chiave per rispondere a queste domande è l’ex-brigatista fiorentino Giovanni Senzani. Bisogna ripartire da lui. E sarei davvero sorpreso – ammette Fasanella – se la Commissione parlamentare e la magistratura non avessero ancora deciso di ascoltarlo».
Moro, 37 anni dopo emergono le “verità indicibili” sul patto Dc-Br, scrive Antonio Marras sabato 9 maggio 2015 su “Il Secolo D’Italia”. Sono passati trentasette anni dalla morte di Aldo Moro. Il 9 maggio del 1978, il cadavere del giurista, ucciso dalle Brigate Rosse con dieci cartucce dopo 55 giorni di sequestro, venne ritrovato in via Caetani a Roma nel portabagagli di una Renault 4 rossa rubata. L’auto venne parcheggiata dai brigatisti vicino a piazza del Gesù, dov’era la sede nazionale della Democrazia Cristiana, e a via delle Botteghe Oscure, dove si trovava la sede nazionale del Partito Comunista Italiano. Commemorazioni e ricordi a parte, proprio in questi giorni esce un libro con delle nuove rivelazioni su quel sequestro che cambiò la storia d’Italia. È una vera e propria anatomia del delitto politico più importante del 900 italiano quella scritta da Stefania Limiti e Sandro Provvisionato per Chiarelettere. Di recente arrivato nelle librerie, “Complici. Il patto segreto tra Dc e Br” passa al microscopio i momenti salienti del caso Moro e la conclusione è impietosa: ci hanno raccontato solo una verità “aggiustata”, cioè frutto di un accordo tra i due protagonisti visibili, la Dc e le Br, entrambi intenzionati a non far emergere le zone indicibili della vicenda. Gli uni per mantenere la propria purezza rivoluzionaria, gli altri per difendersi dai sospetti di non aver saputo, o peggio voluto salvare la vita dell’uomo che rappresentava il cuore del partito e come dissero le Br dello Stato. Sono tante le cose raccontate ma non credibili a cominciare dal momento dell’agguato a via Fani, azione di alta precisione militare realizzata senza nessuna preparazione e con un armamento composto da residuati bellici da un gruppo di brigatisti dal numero ancora imprecisato: 10, 12, 9, non si sa. Più di 90 proiettili sparati, in un minuto e mezzo. Le perizie balistiche dicono anche che metà dei colpi furono sparati da una sola arma mai ritrovata. Chi è il killer che spara a raffiche brevi? Morucci ha raccontato che il suo mitra e quello di Fiore si erano inceppati. E hanno perso diversi secondi per cercare di sbloccarli. Sulla base delle perizie, inoltre, è sicuro – dicono gli autori – che c’era anche uno sparatore molto preciso da destra: perché le Br lo negano? Tanti altri sono i punti affatto spiegati: il rapporto tra il “dissociato” Morucci ed alcuni emissari della Dc; il quarto uomo fu davvero Germano Maccari? E perché Raimondo Etro – secondo gli autori del libro – sarebbe stato indotto a indicarlo tra i partecipanti ad una riunione al posto di Maurizio Iannelli per rafforzarne il suo ruolo nel gruppo e quindi la responsabilità che poi gli fu scaricata addosso, cioè di aver partecipato all’omicidio del Presidente della Dc? Il diretto interessato, Raimondo Etro, nega di aver mai partecipato a quell’incontro e di aver mai chiesto di “sostituire” Iannelli con Maccari perché sarebbe stato “più utile”, come sostenuto nel libro: «Non mi spiego quale sia la fonte di questa ricostruzione visto che nel libro è anche scritto che queste affermazioni non hanno mai trovato conferma», chiarisce l’ex terrorista Etro. Ricostruita nei dettagli (e con non poche sorprese) anche tutta la vicenda del ritrovamento delle carte nel covo in via Monte Nevoso. E infine perché la Risoluzione della direzione strategica, cioè il bilancio finale dell’Operazione Moro, fu scritta in gran parte dai brigatisti detenuti? Presentando il libro a Milano, Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Br, ha detto: “Ci arrivò in carcere solo una prima parte di quel documento. Ho sempre avuto il sospetto che a scrivere quella parte sia stato Giovanni Senzani. Lo stile era quello”. Senzani, cioè il “convitato di pietra” del caso Moro, sempre sfuggito ad ogni inchiesta.
37 ANNI DOPO. Ris indagano sui reperti di via Gradoli e sul DNA di Aldo Moro, scrive l'11 agosto 2015 “Il Secolo XIX”. Come era già stato anticipato in commissione Moro recentemente dal Presidente Giuseppe Fioroni, la commissione ha dato incarico al Ris dei carabinieri di indagare su alcuni reperti di via Gradoli tenendo conto anche del profilo genetico di Aldo Moro. Secondo quanto riferito da più fonti nella recente relazione sul tema sarebbero stati prelevati alcuni reperti per compararlo con il profilo genetico di Moro, compresi gli abiti che il Presidente indossava quando venne ucciso. Nel 1978 non esistevano ancora gli esami del Dna e il Ris sta lavorando per «estrarre» dai campioni il maggior numero di dati. Intanto sono emersi tre «incroci testimoniali» che indicano che Moro può essere stato per un certo periodo «prigioniero» in via Gradoli ma non per forza nel covo Br al secondo piano del civico 96 scala A interno 11. Una relazione di lavoro di uno dei magistrati della commissione Moro, Antonia Giammaria - secondo quanto riferito- ha riaperto il «dossier Gradoli» e ora si dovrebbe andare avanti in questo ipotesi di lavoro quantomeno per chiarire la questione e far cadere certe testimonianze accumulatesi nel tempo. La terna di riscontri riguardano Raffaele Cutolo, Alessandro D’Ortenzi, vicino alla banda della Magliana e punto di incontro tra questa e il criminologo Aldo Semerari e il nefrologo Giovanni Pedroni, il «medico dell’Anello», il servizio segreto clandestino che rispondeva politicamente a Giulio Andreotti. Interrogato recentemente Pedroni ha confermato quanto detto in una intervista all’Ansa e ripetuto durante il processo per la strage di Brescia e cioè che seppe direttamente che la struttura di intelligence di cui faceva parte aveva saputo dal boss camorrista Raffaele Cutolo che Moro era in via Gradoli che c’era la possibilità di intervenire ma che dai vertici politici ci fu un drammatico stop. «Noi potevamo liberarlo, tranquillamente, senza problemi. La politica ci ha sbarrato la strada affinché non intervenissimo. C’era un ordine superiore di non intervenire, e potevamo farlo. Moro d’altra parte se l’è proprio cercata. Un dato è certo: alle cancellerie internazionali Moro non piaceva per nulla; Kissinger non lo poteva vedere. Aveva espressioni durissime per Moro che dava fastidio in Italia ma anche all’estero. Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le Br? Mah... Non lo so». «Si è deciso di lasciare morire Moro: le ragioni e il perché riguardano però la politica». L’Anello si era preparato ad intervenire direttamente per la liberazione, cosa questa che anche Cutolo aveva ipotizzato in cambio di un «via libera» alla gestione della cocaina su Roma. Cutolo stesso in moltissime dichiarazioni anche recenti («Se parlo io viene giù il Parlamento») ha sostenuto che lui sapeva bene che Moro era in via Gradoli e che suoi uomini avrebbero potuto liberarlo per consegnarlo «allo Stato». L’ultimo «incrocio» arriva da D’Ortenzi che si era rifugiato nel 1978 al n. 91 di via Gradoli che è dirimpetto alle finestre della base Br. Da quell’osservatorio privilegiato D’Ortenzi si rese subito conto che in quel luogo poteva esserci Moro e che la polizia aveva fatto un «controllo» sullo strabile. Ora anche D’Ortenzi potrebbe essere ascoltato, forse a settembre, mentre su Cutolo si deve ancora decidere anche perché le sue dichiarazioni, anche processuali, sono sotto gli occhi di tutti. Da anni. Un’altra novità è risultata dal fatto che nel covo Br di via Gradoli durante il rapimento Moro abitava anche una persona bionda «dagli occhi di ghiaccio» che usciva dalla stabile la mattina molto presto vestito da aviatore o comunque con una divisa che ricordava l’Aviazione commerciale. La nuova rivelazione arriva da una testimone interrogata da uno dei magistrati della commissione che ha riaperto il «dossier Gradoli». Armida Chamoun, come aveva fatto nel 1978 il marito, ha raccontato che lo stabile dove era il covo Br (lei viveva nel seminterrato del n.96) era sottoposto ad una vera e propria «sorveglianza» all’ingresso del palazzo da un gruppo di giovanotti, che la sera le lampade dell’ingresso dello stabile venivano allentate per garantire oscurità; che c’era una coppia che saliva nel covo Br indossando il casco da motociclista fin dentro l’appartamento e che si era incontrata diverse volte sull’autobus che la portava da via Gradoli a via Trionfale con un uomo biondo, con occhi azzurri, che la signora definisce «di ghiaccio», e che lo stessa persona indossava una strana divisa da aviatore o comunque azzurrina. Da ricordare che in Via Gradoli fu ritrovato l’elenco con gli acquisti fatti per vestire un uomo da aviatore (berretto, divisa ecc.) In testa all’appunto una intestazione «Fritz». Lo stesso uomo fu visto dalla Chamoun, come detto in un recente verbale che è ora in commissione, nello stabile di via Gradoli 96 mentre scendeva dal covo Br sempre molto presto la mattina. Durante un incontro sul portone «l’aviere» aveva scantonato rapidamente per non incrociare la signora. Ora la commissione potrebbe verificare se altri inquilini di via Gradoli abbiano incrociato «l’aviere biondo dagli occhi di ghiaccio». Il dossier Gradoli, seguito dal magistrato Giammaria, potrebbe riservare altre sorprese perché le dichiarazioni Br su via Gradoli, su come e quando la base fu abbandonata, e se la scoperta fu frutto solo di un genuino allagamento o di un «intervento» esterno, sono piene di contraddizioni su tutti questi aspetti, contraddizione che i magistrati della commissione intendono allineare e riscontrare. Ad esempio il 5 novembre del 1993 una degli abitanti «ufficiali» dell’appartamento, Barbara Balzerani, dice a verbale che la base fu sgomberata il giorno di via Fani (16 marzo) ma che ciò non avvenne totalmente: «Ci siamo rientrati soltanto dopo la fine del sequestro cioè il 9 maggio», il che è impossibile se si sta parlando dello stesso appartamento scoperto il 18 aprile. «Insisto nel dire che la base è caduta dopo la fine del sequestro e la caduta la daterei nell’estate del 1978». L’8 novembre la Balzerani corregge il tiro: «La base è stata sgomberata la mattina di via Fani.«Fui io stessa a rientrarci per prima dopo che erano venute meno alcune ragioni di sicurezza». Mario Moretti, il compagno ufficiale della Balzerani in via Gradoli, dice che loro due uscirono insieme la mattina del 18 aprile, cosa questa smentita da diverse testimonianze degli inquilini anche perché quell’appartamento fu visitato dalla polizia tre volte: il 18 marzo, il 25 marzo e il 18 aprile. Ci sono testimonianze anche di inquilini che hanno parlato dei dialoghi che filtravano dalle mura della base Br: in uno si sente una donna chiamare a gran voce “Gianni, Gianni”. E Moretti si chiama Mario o se si tiene conto del nome di battaglia, “Maurizio”.
Moro, ecco i documenti inediti dalla cassaforte della Fondazione Spadolini, scrive Paolo Lami martedì 13 ottobre 2015 su “Il Secolo D’Italia”. Spuntano da una cassaforte della Fondazione Spadolini gli ultimi documenti, inediti e segreti, sul sequestro di Aldo Moro. La Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro ha acquisito da un armadio blindato della Fondazione Spadolini a Firenze una serie di appunti e note riguardanti colloqui inediti tra Giovanni Spadolini e Francesco Cossiga riguardanti in gran parte la vicenda Moro. I documenti non appena digitalizzati saranno restituiti alla Fondazione dove erano custoditi da tempo. «Ci sono molte carte segrete perché riguardanti aspetti delicati della politica. Non memorie o altro ma corrispondenza oppure, come in questo caso, resoconti sbobinati di colloqui registrati. Spadolini è morto da 21 anni ma stiamo ancora ordinando alcune carte e messo in ordine i 100.000 volumi della sua biblioteca», spiega Cosimo Ceccuti, responsabile della Fondazione Spadolini, rivelando che «il magistrato ha esaminato il settore delle carte segregate e, a sua discrezione, ne ha estratte alcune. La selezione è stata fatta tra le carte che erano in cassaforte». Oltre ad una lettera di Cossiga, nota, che ricostruisce l’atteggiamento del Pci subito dopo la diffusione della prima lettera di Moro all’allora ministro dell’Interno (Pecchioli: «L’onorevole Moro sia che muoia sia che torni dalla prigionia per noi è morto») ci sarebbero gli appunti, redatti da Spadolini, inerenti alcuni colloqui con l’allora capo dello Stato. L’acquisizione sarebbe avvenuta prima dell’estate da parte del magistrato Antonia Giammaria anche se erano destinate a rimanere segrete per 50 anni. Cossiga a fronte di quell’episodio riguardante il Pci aveva allegato una serie di documenti tutti noti (parte del memoriale Morucci e due lettere di Moro). Spadolini era stato nominato da Moro esecutore testamentario ma la cosa si seppe solo nel 1990 quando vennero ritrovate le carte dietro il pannello della base Br di via Monte Nevoso. La documentazione inedita riguarderebbe alcuni bloc-notes riservati sulla questione Moro del 18-19 e 21 ottobre 1990 che sintetizzano colloqui inediti tra i due uomini politici. Spadolini era rimasto sorpreso della nomina di Moro e aveva sostenuto che oltre alla lettere ritrovate ce ne erano sicuramente delle altre. Spadolini riportava anche la posizione socialista che ipotizzava nella scoperta delle carte di Moro una iniziativa dei servizi segreti americani o israeliani. In un colloquio Cossiga informava Spadolini di una iniziativa della famiglia Moro che voleva intentare una causa civile sia contro Cossiga sia contro Andreotti per non aver fatto abbastanza per liberare Moro e aver impedito la trattativa. Cossiga definiva questa iniziativa possibile sul piano giuridico, inammissibile sul piano politico. Cossiga spiegava, secondo gli appunti di Spadolini che riportavano fedelmente le affermazioni di Cossiga, che solo una minima parte della Dc esprimeva solidarietà a Moro. La Dc era profondamente spaccata al suo interno. Spadolini riteneva infondata la posizione socialista e si aspettava sostegno da Cossiga che invece affermava che l’Italia, in quel momento era il paese maggiormente in sintonia con il mondo arabo e che l’interpretazione che ipotizzava una qualche azione o cointeressenza del Mossad non poteva essere esclusa, pur non avendo di elementi concreti al riguardo. A riscontro della sua tesi, Cossiga sosteneva che uomini assolutamente insospettabili in Italia risultavano aderenti al Mossad. Spadolini annota che questa ultima affermazione, cioè che uomini assolutamente insospettabili erano al servizio di Israele, è l’aspetto centrale del colloquio con Cossiga. Negli appunti si affronta anche il tema dei rapporti conflittuali tra la signora Moro e due suoi figli e ci si dilungava sulla ipotizzata azione di risarcimento civile. Altro appunto acquisto riguarderebbe l’incontro al Quirinale tra Cossiga e il Comitato parlamentare per i servizi segreti sul caso Gladio dove si parlerebbe anche dell’interpretazione che dietro le Br ci sarebbe Gelli e la P2. Cossiga parla a lungo di una lettera ricevuta dal senatore Imposimato che esortava Cossigaa non prestare attenzione all’ondata di allucinanti e vergognose farneticazioni dei dietrologi di turno compreso un libro del senatore Flamigni. Imposimato chiudeva la lettera a Cossiga con questa affermazione: «La verità è una sola: dietro le Br c’erano solo e soltanto le Br».
La Commissione Moro acquisisce gli appunti inediti di Cossiga, scrive “Il Gazzettino” il 13 Ottobre 2015. La Commissione Moro ha acquisito da un armadio blindato della Fondazione Spadolini a Firenze una serie di appunti e note riguardanti colloqui inediti tra Giovanni Spadolini e Francesco Cossiga riguardanti in gran parte la vicenda Moro. I documenti non appena digitalizzati saranno restituiti alla Fondazione dove erano custoditi da tempo. A quanto si è saputo, oltre ad una lettera di Cossiga, nota, che ricostruisce l'atteggiamento del Pci subito dopo la diffusione della prima lettera di Moro all'allora ministro dell'Interno (Pecchioli: «L'onorevole Moro sia che muoia sia che torni dalla prigionia per noi è morto») ci sarebbero gli appunti, redatti da Spadolini, su dei colloqui con l'allora capo dello Stato. L'acquisizione sarebbe avvenuta prima dell'estate da parte del magistrato Antonia Giammaria anche se erano destinate a rimanere segrete per 50 anni. Cossiga a fronte di quell'episodio riguardante il Pci aveva allegato una serie di documenti tutti noti (parte del memoriale Morucci e due lettere di Moro). Spadolini era stato nominato da Moro esecutore testamentario ma la cosa si seppe solo nel 1990 quando vennero ritrovate le carte dietro il pannello della base Br di via Monte Nevoso. La documentazione inedita riguarderebbe alcuni bloc-notes riservati sulla questione Moro del 18-19 e 21 ottobre 1990 che sintetizzano colloqui inediti tra i due uomini politici. Spadolini era rimasto sorpreso della nomina di Moro e aveva sostenuto che oltre alla lettere ritrovate ce ne erano sicuramente delle altre. Spadolini riportava anche la posizione socialista che ipotizzava nella scoperta delle carte di Moro una iniziativa dei servizi americani o israeliani. In un colloquio Cossiga informava Spadolini di una iniziativa della famiglia Moro che voleva intentare una causa civile sia contro Cossiga sia contro Andreotti per non aver fatto abbastanza per liberare Moro e aver impedito la trattativa. Cossiga definiva questa iniziativa possibile sul piano giuridico, inammissibile sul piano politico. Cossiga spiegava, secondo gli appunti di Spadolini che riportavano fedelmente le affermazioni di Cossiga, che solo una minima parte della Dc esprimeva solidarietà a Moro. La Dc era profondamente spaccata al suo interno. Spadolini riteneva infondata la posizione socialista e si aspettava sostegno da Cossiga che invece affermava che l'Italia, in quel momento era il paese maggiormente in sintonia con il mondo arabo e che l'interpretazione che ipotizzava una qualche azione o cointeressenza del Mossad non poteva essere esclusa, pur non avendo di elementi concreti al riguardo. A riscontro Cossiga sosteneva che uomini assolutamente insospettabili in Italia risultavano aderenti al Mossad. Spadolini annota che questa ultima affermazione, cioè che uomini assolutamente insospettabili erano al servizio di Israele, è l'aspetto centrale del colloquio con Cossiga. Negli appunti si affronta anche il tema dei rapporti conflittuali tra la signora Moro e due suoi figli e ci si dilungava sulla ipotizzata azione di risarcimento civile. Altro appunto acquisto riguarderebbe l'incontro al Quirinale tra Cossiga e il Comitato parlamentare per i servizi segreti sul caso Gladio dove si parlerebbe anche dell'interpretazione che dietro le Br ci sarebbe Gelli e la P2. Cossiga parla a lungo di una lettera ricevuta dal Senatore Imposimato che esortava Cossiga a non prestare attenzione all'ondata di allucinanti e vergognose farneticazioni dei dietrologi di turno compreso un libro del senatore Flamigni. Imposimato chiudeva la lettera a Cossiga con questa affermazione: «La verità è una sola: dietro le Br c'erano solo e soltanto le Br».
Caso Moro, sapremo mai la verità? Si chiede Alessandro Ceccarelli il su Dazebao. Nuove polemiche dopo le rivelazioni di un ispettore di polizia oggi in pensione. “Quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi”. (Aldo Moro). Proprio la scorsa settimana è ricorso il 36° anniversario del rapimento di Aldo Moro e del massacro dei cinque agenti della scorta da parte delle Brigate rosse. Cinque processi, il primo nel 1983 e l’ultimo nel 1999, non sono bastati per fare chiarezza sull’episodio più drammatico della nostra storia repubblicana. Dopo la morte dello statista democristiano l’Italia non fu più la stessa. Anche il Partito Comunista dopo l’assassinio del suo interlocutore preferito (per il compromesso storico, ndr), iniziò il suo lento e inesorabile declino. Le ultime rivelazioni di un ex ispettore di polizia oggi in pensione, tal Enrico Rossi, hanno scatenato i polemisti, i dietrologisti e i complottisti. Intanto il Procuratore Generale della Capitale, Luigi Ciampoli, ha chiesto gli atti dell’indagine alla Procura di piazzale Clodio per “le opportune valutazioni”. Che cosa ha detto l’ex ispettore di polizia di così sconvolgente? In estrema sintesi, uomini dei servizi segreti (Sismi) quel giorno (16 marzo 1978) erano in via Fani, angolo via Stresa per “proteggere” il blitz dei nove brigatisti contro Aldo Moro e la sua scorta. “Anche se la politica non vuole occuparsi del caso Moro, i suoi misteri sono destinati a rivelarsi nel corso del tempo. Le novità di oggi sono sconvolgenti e mettono a tacere i detrattori della nuova Commissione d’inchiesta. Il merito va a quel giornalismo d’inchiesta che sa muoversi con cautela, indipendenza e determinazione”. Lo afferma Gero Grassi, vicepresidente dei deputati del Pd, riguardo alle ultime rivelazioni di un ispettore di Polizia in pensione, Enrico Rossi, su una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani quando fu rapito Moro. Nella missiva l’uomo sosteneva di essere alle dipendenze dell’ufficiale del Sismi che si trovava in via Fani all’ora del rapimento, e di avere avuto il compito di “proteggere le Brigate rosse da ogni disturbo”. “Ora – avverte Grassi, promotore della proposta di legge che istituisce l’organismo parlamentare di cui si attende l’approvazione al Senato- non si potrà più dire che l’agguato di Mario Fani fu il frutto della geometrica potenza delle Brigate Rosse che furono in realtà quantomeno osservate e tutelate nei loro propositi. Era del resto scritto negli atti della Magistratura che l’evento di via Fani non era riconducibile solo alle Brigate Rosse. Lo hanno dichiarato più volte Alberto Franceschini e la vedova del maresciallo Oreste Leonardi: i nodi critici della mattina del 16 marzo sono tutti inseriti nel dossier ‘Moro’ pubblicato dal Gruppo Pd della Camera che evidentemente aveva visto giusto”. “A questo punto -conclude- abbiamo la responsabilità di raccogliere questa ed altre recenti novità e tentare di ricostruire una nuova versione dei fatti per capire chi ha tramato per ottenere la morte di Moro”. Della necessità di una commissione d’inchiesta parla anche il deputato del Pd Davide Zoggia: “Quello che sta emergendo in queste ore, in merito al rapimento e all’uccisione di Moro e della sua scorta, dimostra l’assoluta necessità della costituzione di una Commissione d’inchiesta, come già deliberato dalla Camera. Ora si tratta di accelerare perché anche il Senato la approvi, cosicché si possa partire immediatamente per contribuire a fare chiarezza su uno dei casi che ha cambiato la storia del Paese”. Stessa linea quella del senatore Andrea Marcucci (Pd), presidente della commissione Cultura a Palazzo Madama: “Le rivelazioni di queste ore sulle presenze in via Fani durante il rapimento di Aldo Moro confermano la assoluta necessità di ricostituire una Commissione di inchiesta parlamentare. Dopo il via libera della Camera, il Pd chiederà una rapida approvazione anche in Senato. A distanza di 36 anni, forse è più facile arrivare alla verità oggi, in un contesto nazionale ed internazionale completamente cambiato”.
Chi volle la morte di Moro? Dopo quattro libri Pierfranco Bruni pubblica un testo scioccante sulla morte dello statista. Pierfranco Bruni protagonista di quegli anni in una Roma di fuoco, pubblica un testo scioccante sul partito della fermezza che vide insieme i comunisti e i democristiani rileggendo tutte le lettere dello statista e le pagine dei quotidiani del 1978, scrive il 14 gennaio 2016 "La Voce di Maruggio”. Chi volle affossare le trattative per cercare di salvare Aldo Moro? Chi moralmente è responsabile? Chi giudico’ lo statista rapito un uomo folle? Chi si affidò ad una seduta spiritica? Pierfranco Bruni, attento testimone e proragonista di quegli anni, in occasione del centenario della nascita di Aldo Moro (1916 – 2016) attraversa, in un nuovo romanzo – saggio, il destino tragico di una stagione di terrore tra le macerie degli anni di piombo e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Bruni rilegge le drammatiche ultime lettere dello statista ucciso nel 1978 in un testo dal titolo: “Il perduto equilibrio”, editore “Il Coscile”, Castrovillari (0981 22632), già in libreria. Con un sottotitolo preciso: “Nei giorni tristi di Aldo Moro”. Al centro del libro c’è la storia d’amore e la passione di due giovani che si raccontano raccontando i giorni di fuoco in una città misteriosa, lacerante e devastata come Roma. Si incontrano a Piazza di Spagna, tra le vie di Roma, all’Università e si amano nella disperazione di capire il dolore che attraversava un tempo tragico. Marika, una terrorista della quale si perdono le tracce (e si scopre, alla fine, che viene uccisa in uno scontro con le forze dell’ordine) e un io narrante che definisce una temperie di guerriglia in una meditazione non solo meramente politica ma anche umana e profondamente legata alla storia di un intreccio ideologico. Un libro, che fa riflettere anche per le proiezioni letterarie e culturali e per le metafore che fanno da sfondo al percorso narrante. Bruni rimette in campo la metafora di Alice (Moro) nel Paese delle Meraviglie (un’Italia illusa e disillusa) in un contesto in cui il processo politico si disputava tra la “libertà” della fermezza e la “libertà” della trattativa. La disperazione che ha portato alla morte di Moro si intreccia con la disperazione di un amore che rivela un vuoto di coscienze e il senso del perduto tra due giovani che avrebbero potuto vivere oltre la stessa ideologia il loro amore come favola e incantesimo. Gli anni di piombo distruggono anche la fantasia degli amori. Nel romanzo, che ricostruisce la stagione degli anni di piombo, Pierfranco Bruni sottolinea una precisa posizione che è quella che Moro si sarebbe potuto salvare se non fosse stata adottata la strategia della fermezza da parte di alcuni partiti politici. Il libro, nel ricostruire quella vicenda, pone all’attenzione anche uno stato d’animo che travagliava la generazione dei ventenni che allora discutevano di politica e frequentavano gli ambienti universitari. Un libro che raccorda storia ed emozioni nel racconto stesso di due giovani che parlano di amore, passione e rivoluzione. Il concetto di “rivoluzione” diventa la chiave di lettura sia sul piano politico – ideologico che su quello strettamente sentimentale – passionale. Eros e morte sono costantemente in conflitto. Marika è eros ma è anche la bellezza infranta dall’ideologia della morte. Bruni sostiene, tra l’altro, che la vicenda Moro non fu ben capita né a sinistra né a destra. Sia la sinistra che la destra tirarono in ballo la “ragion di Stato”. Da questo punto di vista Bruni condivide la posizione di Leonardo Sciascia posta nel 1978 con “L’Affaire Moro”. Il partito della fermezza non capì la vera questione. Pierfranco Bruni aveva già affrontato questa problematica in altri romanzi. Già nel 1998 aveva pubblicato il romanzo “L’ultima primavera. Aldo Moro, la tragedia di uno statista” che ha avuto tre edizioni. Nel 2004 un altro importante romanzo, dal titolo “Quando fioriscono i rovi”, filtra gli anni di piombo con la presenza di Moro all’interno di un contesto poetico – lirico, in cui l’amore è rivoluzione e l’ideologia resta la vera devastazione che ha colpito gli anni di piombo. “Il perduto equilibrio. Nei giorni tristi di Aldo Moro” ritorna come riferimento fondamentale per riportare sulla scena il personaggio di Marika, la passione e la metafora di Moro – Alice nel Paese delle Meraviglie. Ci sono capitoli molto duri nei quali si legge: “Si può morire al momento giusto? È un grido. Un urlo che non smette di farsi eco. Dalle grotte degli anni continua a farsi ascoltare. La morte giunge al momento giusto. La metafora è un agguato. Le metafore sono un agguato. Tra le parole creano ferite. Ma solo tra le parole si possono capire le metafore. “Ci si perde e ci si ritrova tra le pieghe di un raccontare che non racconta perché le metafore non hanno il senso del narrativo. Restano fisse nell’oblò delle immagini. E questa morte che giunge al momento giusto è una morte ingiusta… Ma può giudicarsi giusta la morte, una morte… Questa morte…”. Oppure: “Guardare al dopo domani. Mi pare che sia una osservazione profetica questa di Aldo Moro. Soprattutto negli anni successivi alla sua tragica morte si sono consumati nei viali della tristezza i valori di un umanesimo che doveva stare al centro di una politica testimoniata. Chi ha vissuto il tempo delle idee non può che testimoniarsi oltre ogni ideologia”. Il 1978 resta centrale, sostiene Bruni, e il libro va alla ricerca di alcune motivazioni che proprio nel corso del rapimento Moro esplosero. “Un anno terribile.Mentre si leggeva Il suicidio della rivoluzione di Augusto Del Noce – dice Bruni – c’era qualcuno che la rivoluzione si illudeva di farla realmente. Ma Moro rappresentava proprio la centralità di una situazione che stava per esplodere definitivamente. Moro era cosciente di ciò. Da allora, sul piano politico, sono cambiate tante cose. La fine della Dc è cominciata con la morte di Moro. E’ tempo ormai non di interpretare i fatti ma di entrare dentro i fatti attraverso la lettura di una realtà sia di politica nazionale che internazionale”. Il testo di Bruni presenta alcuni aspetti di una marcata lirica tragicità e riporta sulla scena le lettere che Moro scrisse dal “carcere” delle Brigate rosse e che furono diffuse proprio nel corso dei cinquantacinque giorni della prigionia dello statista democristiano offrendo una incisiva meditazione attraverso un’ampia discussione problematica sia storica che politica stessa. Le lettere dello statista democristiano, sostiene Bruni, offrivano una precisa chiave di lettura. Tra l’altro Bruni analizza il tempo di una generazione e, attraverso annotazioni di diario personale, ripercorre la storia di un giovane degli anni Settanta che si lascia alle spalle una madre cattolica e profondamente democristiana e un padre fascista e nostalgico del Mussolini regime. Tutto questo all’interno di una tragedia che accomunava una generazione. Ma è la storia d’amore con il personaggio di Marika, bella, sfuggente che ha gli occhi di “verde luna”, che campeggia lungo i giorni tristi della tragedia di Aldo Moro. Oggi, questo testo, nel centenario della nascita dello statista, si presenta di grande attualità ed emerge chiaro un preciso atto di accusa rivolto a tutti coloro che non capirono la portata tragica degli avvenimenti e non diedero ascolto al messaggio umano proveniente da quelle drammatiche lettere. La voce di Moro continua ancora oggi in un recitativo drammatico. Un libro che affronta con spirito critico e coraggioso una tragedia in una dimensione tra storia e letteratura.
SEQUESTRO MORO TRA MONTANELLI E SCIASCIA.
Montanelli e Sciascia, scrive Valter Vecellio il 9 gennaio 2016 su “L’Opinione”. Le biblioteche private, è noto, “parlano”, dicono tanto di una persona. I libri allineati negli scaffali, se li si sa interrogare raccontano molto dei loro proprietari, i loro interessi, il tipo di “percorso” di una vita: prima certi autori, visceralmente amati, e poi sostituiti da altri; i segni sul dorso, le sottolineature e le notazioni; la stessa collocazione ci dicono quali sono i preferiti, quelli a cui si chiede “consiglio”; quelli che sono “invecchiati”, riposti dopo una breve o lunga frequentazione, in scaffali più periferici: li si guarda ogni tanto con un misto di tenerezza, pensando magari alle ore sudate su quelle pagine ingiallite che poco o nulla hanno poi lasciato… Ci sono i libri preziosi, anche nella veste tipografica, quelli che ci si può permettere quando il denaro non è più un problema; magari a fianco di edizioni “povere”, economiche: preziosi perché acquistati con le poche monete che da ragazzi ballano quasi sole in tasca. Un’abitazione priva di libri rivela molto del suo “inquilino”, quasi sempre è consigliabile diffidarne. Una abitazione dove i libri abbondano, al contrario fornisce una quantità di indizi che può essere divertente cercare di cogliere. A patto, beninteso, di saper e voler vedere, e non solo guardare. Per questo sono interessanti, importanti i repertori che raccolgono titoli di volumi di uno scrittore, un artista, perfino un politico. Lo stesso ordine di collocazione: la “geometria” scelta, oppure allineati per argomenti, genere; o per autore; o alla rinfusa, come viene… E si viene afferrati da un senso di malinconia, quando si constata che un certo volume è vergine, non lo si è neppure sfogliato, che le sue pagine sono addirittura intonse. Il suo possessore magari potrà sostenere, a sua difesa, che ha un rispetto maniacale dell’oggetto libro, che intenzionalmente è ha cura di non lasciare alcuna traccia. Balle. Lo si vede, c’è sempre un lievissimo segno, quando un libro lo si “vive”. I libri di un autore, dunque. Recentemente è stato pubblicato un volume, “Tra i libri di Indro”, curato da Federica Depaolis; come informa la nota editoriale, “la libreria personale del grande giornalista (Indro Montanelli, appunto, ndr.), oggi conservata presso la Fondazione Montanelli Bassi di Fucecchio, viene qui indagata alla luce della recente riflessione sulle biblioteche d’autore. Ne viene fuori un viaggio tra i libri di Indro, quelli che sono giunti fino a noi, col loro carico di segni e indizi nascosti, e quelli che pur avendo giocato un ruolo chiave nella formazione montanelliana hanno lasciato tracce fragili o addirittura inesistenti sugli attuali scaffali d’autore”. Premessa fondamentale, opportunamente lo rileva Marcello Staglieno nel saggio introduttivo: “Con attenta cura, Federica Depaolis guarda, negli anni, sia allo stratificarsi della libreria montanelliana sia ai suoi periodici ‘smagrimenti’, sino alla consistenza attuale. Prima tiene conto dei successivi spostamenti della famiglia da Fucecchio a Rieti e a Nuoro, quindi insegue Indro nei venturosi spostamenti in mezz’Europa e nel continente americano, in un peregrinare che si conclude con il suo approdo al ‘Corriere della Sera’…”. Si sta comunque parlando di un personaggio, di un grande giornalista, consapevole dei suoi limiti e delle sue pigrizie: “Io potrei avere un grossissimo archivio di cose interessanti che non si potevano scrivere ma che avevano qualche diritto di essere registrate…Invece per pigrizia, per disordine, per incapacità di un lavoro ordinato, ho lasciato perdere. E’ un mio delitto”. La fondazione Montanelli-Bassi di Fucecchio è qualcosa che merita una visita e una riflessione per quello che è e rappresenta; qui, quello che interessa e preme è indagare sull’intreccio tra due personaggi che molto hanno in comune e al tempo stesso non possono essere più diversi: per interessi, stile di vita, percorsi umani e culturali: Montanelli e Leonardo Sciascia. I due si conoscono, si frequentano, si “seguono”. Spesso le loro scelte divergono, ma si stimano, non è arbitrario dire che sono amici. Giuseppe Traina in quell’utilissimo baedeker per orientarsi nell’opera sciasciana che è “Leonardo Sciascia”, scrive del piacere che lo scrittore prova ogni volta che approda a Milano: “la città italiana che ama di più per le memorie manzoniane e stendhaliane che conserva, per gli amici che vi ritrova: Scianna, Montanelli, Sciardelli e Consolo, il critico e manzonista Giancarlo Vigorelli, lo scrittore Daniele Del Giudice, lo stendhalista Gian Franco Grechi, i giornalisti Enzo Biafi, Piero Ostellino, Matteo Collura…”. Quando poi decide di candidarsi al Parlamento nelle liste radicali, da Montanelli viene una sorta di avallo, perché per lui Pannella e i radicali sono “figli non degeneri, soltanto un po’ discoli di un certo filone liberaldemocratico”. Quando chiedono a Sciascia cosa pensi di questo giudizio, lo scrittore risponde che si tratta di “un’analisi abbastanza probante, direi…E il consenso di Montanelli non mi impressiona, non mi imbarazza”. Una significativa traccia di questo rapporto amicale la troviamo in “Lettere dal centro del mondo”, il carteggio durato una vita tra Mario La Cava e Sciascia, amorevolmente curato da Milly Curcio e Luigi Tassoni. Il 9 marzo del 1971 La Cava scrive: “In un articolo di Montanelli ti vedo accomunato ai grandi. Insomma sei trattato bene…”. “I grandi”: Montanelli lo ribadisce su “Il Giornale” del 21 novembre 1989, ha appena saputo della morte di Sciascia: “Sciascia ci ha detto addio alla Sciascia; senza una parola. L’ultima, o una delle ultime, l’ha rivolta per posta a me: un biglietto vergato con grafia malferma, che diceva tra l’altro: ‘Mi annoio (alla lettera) mortalmente’, ed è l’unica allusione che facesse, nonostante le sofferenze, alla sua imminente fine. Non aveva mai voluto parlare (se non – credo – qualche volta con Bufalino con impegno di segreto), della sua malattia. Era una delle tante cose, se non tutte, di cui Sciascia non parlava. In questa Italia garrula dove tutti parlano di tutto, si potrebbe scrivere un saggio sui silenzi di Sciascia…Io lo considero l’ultimo cui si convenga la qualifica di ‘grande’. Non pretendo di aver penetrato i segreti di Sciascia. Ma due cose credo di aver capito bene, di lui: la sua assoluta, direi irrefrenabile, libertà, e il coraggio della solitudine. Il vuoto ch’egli lascia come scrittore è certamente grande: nessuno saprà mai più darci gli ‘spaccati’ di Sicilia che ci dava lui. Ma ancora più grande è il vuoto che lascia come uomo. Di rispetto o meno, e qualunque cosa voglia dire, in siciliano, questa parola”.
Ci sono, lì a Fucecchio, tra le migliaia di libri conservati, quelli di Sciascia? Sì, ce ne sono: il repertorio li colloca tra il 1572 al 1582. Nel dettaglio: “A futura memoria: se la memoria ha un futuro”; “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”, due copie; “La corda pazza: scrittori e cose della Sicilia”; “Dalle parti degli infedeli”; “Nero su nero”; due copie, la prima edizione Einaudi, e la successiva di Adelphi; “Le parrocchie di Regalpetra”; “Morte dell’Inquisitore”; “Porte Aperte”; “I pugnalatori”; “La scomparsa di Majorana”; “Una storia semplice”, due copie. Curiose queste “presenze”; e ancor più curiose le “assenze”. Possibile che Montanelli non abbia avuto tra le mani, e non abbia attentamente compulsato “Il giorno della civetta”? E “A ciascuno il suo”? Per non dire di “Todo Modo”, o de “Il contesto”… E manca anche uno dei più belli e intensi: “Il mare colore del vino”. Possibile che si siano persi in traslochi e cambi di abitazione; meno probabile che siano rimasti vittime dei periodici “smagrimenti”. Fatto è che non ci sono, lì a Fucecchio, dove si è avuto cura di riprodurre, tra l’altro la “Stanza” di Montanelli a Roma e a Milano: ricostruite secondo l’allestimento originario; e manca anche un libro importante della produzione sciasciana: “l’Affaire Moro”. In quel libro, oltre che in articoli per giornali e in una quantità di interviste, Sciascia sostiene che Aldo Moro rapito (e poi ucciso) dalle Brigate Rosse, quando scrive le lettere nel disperato tentativo di guadagnare tempo e di convincere le istituzioni e la politica a un qualche tipo di “trattativa”, era lui, proprio lui. Non è manipolato, drogato, plagiato, come certi suoi amici sostengono non c’è un “suggeritore”. E’ il Moro di sempre. Quel pamphlet solleva, ancora prima di uscire, feroci, violentissime polemiche; da parte soprattutto del PCI, per quel che riguarda i partiti; e “La Repubblica” di Eugenio Scalfari, tra i giornali. Anche Montanelli si schiera in quello che viene battezzato il “partito della fermezza”, ma sue sono ragioni diverse da quelle dei comunisti, di Scalfari. Lo spiega bene, anni dopo, nella risposta a un lettore, il signor Giuliano Castiglia di Cefalù. Montanelli da tempo ha lasciato il “Giornale”, la breve e sfortunata stagione de “La Voce” è alle spalle; è tornato al “Corriere della Sera”. Il 14 settembre del 1999 scrive: “Caro Castiglia, debbo confessare che sull’affare Moro mi trovai (ma solo nelle nostre private conversazioni) in disaccordo con Sciascia, perché a Moro io non concedevo gli alibi che Leonardo invece gli riconosceva. Il nostro contrasto, per ridurlo all’osso, consisteva in questo. Io, nel mio realismo guicciardiniano, dicevo (e continuo a dire): a me i sentimenti, i rovelli, i cedimenti e le astuzie di Moro non interessano perché un uomo di Stato, che dello Stato scala la vetta fino a diventarne, come Moro era diventato, l’incarnazione e il simbolo, dai sentimenti e dai rovelli non può lasciarsi dominare. In mano ai terroristi, l’uomo Moro ha tutto il diritto di avere paura, come certamente l’avrei io, se mi trovassi nelle sue condizioni. Ma l’uomo di Stato Moro non può chiedere allo Stato di genuflettersi davanti alla violenza, come Moro faceva nelle sue pietose (in tutti i sensi) lettere, e di scendere a patti con essa. Ecco il mio dissenso da Sciascia, che mai incise sulla nostra amicizia, e che durò fino a quando ci accorgemmo che non parlavamo della stessa cosa. Io lo parlavo da giornalista impegnato (se lei mi concede di attribuirmi queste altre due qualifiche), da storico e da moralista. Sciascia parlava da romanziere, che in Moro riconosceva, o credeva di riconoscere, uno dei personaggi della sua narrativa intesa a smontarne e a ricostruirne, da maestro qual era, i ghirigori psicologici, le ambiguità, gli autoinganni. Non voleva né condannarlo né assolverlo. Voleva soltanto spiegarlo. Quando io gli parlavo dello Stato e dei doveri ch’esso impone, capivo che non mi seguiva. A lui interessava l’uomo, non lo statista. Di tutti coloro che sostenevano la tesi della trattativa, Sciascia è l’unico che non mi abbia fatto arrabbiare. Prima di tutto perché tenevo troppo alla sua amicizia (come credo che lui tenesse alla mia) per metterla in forse su una questione di principio. Eppoi perché anche se lui non capiva me quando parlavo dello Stato che lui, da buon siciliano, considerava, se non una fanfaluca, certamente una pura astrazione, io capivo lui quando parlava dell’uomo Moro, anche se in quello che nella sua tortuosità ricostruiva lui, io non riconoscevo affatto quello vero, quali sono invece, scolpiti nel granito, i personaggi della sua narrativa. Amici siciliani, tenetevelo caro, Sciascia. Non solo come scrittore, ma anche come siciliano. Nessuno lo è stato più e meglio di lui. Le accuse che gli sono state lanciate, o meglio insinuate, di eccessiva indulgenza verso la mafia sono del tutto fuori bersaglio. Sciascia non ha mai giudicato la mafia; l’ha spiegata, anche se non posso escludere che ne andasse un po’ fiero in quanto parte (e che parte!) della sua sicilianitudine, come il ficodindia lo è del suo paesaggio”.
A Sciascia si rimprovera tutto: quello che scrive e dice; e anche il silenzio (lo fa il direttore di “Paese Sera” Aniello Coppola). Insomma, non va bene nulla; soprattutto non va bene il rifiuto di Sciascia di “intrupparsi”, il suo non voler essere “sentinella”; gli si incolla la paternità dello slogan “Né con lo Stato, né con le Brigate Rosse”. Tutto “solo” perché si ostina a ragionare in proprio, con la sua testa. Qualcosa di imperdonabile, allora come ora; come sempre. Tra i pochi che difendono Sciascia, c’è Montanelli, che pure sostiene le ragioni della “linea della fermezza”. E’ al “Giornale” dell’amico Montanelli, che Sciascia, l’11 ottobre del 1978, affida una “lettera al direttore” dove sviluppa e chiarisce le sue ragioni: “Caro Montanelli, vedo con ritardo, qui in campagna, il tuo articolo sul ‘Giornale’ del 23 settembre. Mi dispiace che anche tu abbia scritto di questo mio pamphlet sul caso Moro prima di conoscerlo interamente; e ancora di più mi dispiace che intitolando il tuo articolo ‘Todo Modo’, e riferendolo al mio racconto ‘Todo Modo’ di fatto parlato di un libro che io non ho mai scritto. ‘Todo Modo’ non descrive, come invece tu affermi, ‘una vicenda sorprendentemente analoga a quella di via Fani e con un protagonista sorprendentemente simile a Moro, riprodotto in una versione così ripugnante che quasi giustifica il delitto’. Per nulla. Protagonista di ‘Todo Modo’ è un prete; e non ripugnante. Non c’è nel racconto un solo elemento che ricordi l’agguato di via Fani. Ma lasciando da parte questo errore, che tu certamente riconoscerai davanti ai tuoi lettori, quel che desidero discutere con te è il personaggio Modo e il suo comportamento nella vicenda in cui è rimasto vittima. Dal momento in cui ho deciso di scrivere un libro sull’affaire Moro, e fino a oggi, ho vissuto e vivo come una esperienza religiosa, come un processo di reversibilità. Illuminista per come ‘l’Unità’ mi etichetta, laico e laicista, incommensurabilmente lontano dal Moro cattolico e dal Moro democristiano, ho sentito religiosamente il dovere di riscattare Moro prigioniero e vittima delle BR dalla vita in cui l’avete relegato. Anche tu, purtroppo. Ed è quello che non capisco. Capisco che questa operazione la facciano i vili. Capisco che la facciano certi cattolici. Capisco che la facciano certi retori. Non capisco che la faccia un uomo libero, un laico in ogni senso laico. Che tu ti sia nettamente posto dalla parte di coloro che non volevano che lo Stato cedesse al ricatto, lo capisco benissimo; e lo dico anche nel libro che sta per uscire. Non capisco però il bisogno di giustificare la tua posizione, in sé legittima, adducendo come controparte il comportamento di Moro. Per capire, dovrei attribuirti un senso di colpa; e quindi anche se inconscia, una certa malafede. Io credo che certe tue prese di posizione che sembrano fredde o addirittura ciniche siano dettate da emotività e passione. Mi piacerebbe invece che tu avessi tanta freddezza da far tabula rasa della tua passione per lo Stato e da metterti di fronte a tutti i documenti dell’affaire come se ritrovati dal fondo di un archivio: ti apparirebbe chiaro che Moro non solo – cosa che sai già – si è comportato coerentemente al suo essere ‘cavallo di razza’, e di razza democristiana; ma che non si è comportato vilmente. C’è un fatto semplicissimo da tener presente: quelle sue lettere che tu consideri espressione di viltà non sono dirette ai suoi nemici, ma ai suoi amici: a coloro cioè che coerentemente al loro essere democristiani (e lasciamo stare, per carità, il loro essere cristiani), avrebbero dovuto salvarlo. Per bollare Moro di viltà dovremmo sapere come si è comportato di fronte ai suoi nemici. E nulla ci dice che si sia comportato vilmente. Al contrario, anzi: nei suoi riguardi c’è, da parte delle BR, e ravvisabile nei documenti, una crescita di rispetto. E in quanto alla sua fede, e sul fatto che nelle lettere parla poco di Dio e solo, come tu dici, ‘di striscio’. Le lettere sono di un uomo politico e dirette a uomini politici. Non scriveva al Padreterno, né le BR sarebbero state in grado di recapitarle. E di Dio, peraltro, ne parla: serenamente invocandolo alla disperata impresa di far luce nella mente dei suoi amici. Ma non voglio abusare dello spazio del tuo giornale; e tanto più che finirei col ripetere cose che ho già detto nel pamphlet. Voglio, per concludere, ringraziarti di aver dato come impensabile il fatto che io possa essermi messo al servizio di una manovra che ‘vuol mettere sotto accusa tutti gli uomini del Presidente’. Non so di nessuna manovra, né riesco a individuare a quale Presidente tu alluda. Ma anche se c’è in corso una qualche manovra, il fatto che io – cercando la verità – possa concorrervi, non è ragione sufficiente a farmi tacere. Per troppi anni in questo nostro Paese è stato avanzato il ricatto agli uomini di destra di non dire certe cose che facevano il gioco della sinistra e agli uomini della sinistra di non dire certe cose che facevano il gioco della destra. E il risultato ne è l’endemica ed epidermica menzogna in cui l’Italia continua a vivere. Non ti pare che sia proprio questo il caso di dire che basta? Ti ringrazio e ti saluto cordialmente”.
Di Montanelli, Sergio Romano cura i “Diari”, brevi annotazioni, “schizzi”, partono dal 1957, si concludono nel 1978. Quello che segue è un quasi epigramma del 10 aprile 1972: “Clerici, Sciascia e Laurenzi a cena da me. Immoto e inespressivo, Sciascia parla alla velocità di una parola all’ora, e bisogna sollecitarlo con sguardi interrogativi e lasciargli un ampio spazio di silenzio per indurlo a pronunciarla…”. Sempre intorno all’amicizia. In un fondo Montanelli a Pavia è conservata una lettera poi riprodotta nel volume “Nella mia lunga e tormentata esistenza. Lettere da una vita”. La lettera è del 24 agosto 1988: “Caro Sciascia, la gioia che mi dà la tua disponibilità a mandarci qualcosa è superata solo dal dispiacere per i triboli dei tuoi occhi e da quel senso di disperazione. Per la collaborazione, so benissimo che non puoi e non vuoi impegnarti, e io non ti tormenterò mai per sollecitarla. Ad occhi io per fortuna sto ancora abbastanza bene, ma capisco che tormento debba essere il sentirseli indeboliti. Mi pare stano però che con tutti i progressi che l’oftalmia ha fatto in questi ultimi tempi non abbiano trovato qualche rimedio al male che ti affligge. Ti sei dato un po’ daffare, oppure il pessimismo e il fatalismo siciliani hanno avuto la meglio anche su questa minaccia? Non voglio affaticarti oltre. Se mi manderai qualcosa, dimmi come e dove vorrai che sia pubblicato: io me ne sentirò comunque miracolato. Quanto all’antologia di racconti, è già per me un alto onore che tu e Bufalino abbiate pensato al mio Della Rovere (che si trova anche nel volume ‘Incontri’, anzi lo apre), così orrendamente sfregiato, nell’omonimo film, dal duo Rossellini-De Sica. Se posso esserti utile, caro Sciascia, sono a tua disposizione. Sappi che non ti ammiro soltanto. Ti voglio anche molto bene”. Sempre nel citato fondo pavese, un biglietto, datato 27 ottobre 1989: “Carissimo Leonardo, il tuo biglietto ha fatto più piacere a me di quanto l’intervista possa averne fatto a te. Ma tengo subito a dirti che con me non hai nessun debito. Sono io che ne ho, verso di te, uno inestinguibile: l’esempio che ci hai dato. Non raccolgo i tristi presagi che fai balenare nella tua lettera: appartengono, credo, alla tua sicilianità. Ma sono convinto che ne verrai fuori. Ti mando il mio fraterno abbraccio, dolente solo di doverlo fare per lettera”. Non si tratta, purtroppo, di “tristi presagi”; piuttosto è lucida consapevolezza del proprio essere. Sciascia muore il 20 novembre. E’ a quel “biglietto” che fa riferimento Montanelli nel suo articolo di ultimo saluto all’amico scomparso. Ci porta lontano nel ricordo, e nella non inutile operazione di ricostruzione di episodi e fatti di cui è bene non smarrire la memoria, questo bel repertorio curato da Depaolis; ed è un letterale diletto perdersi in questa libera, e anche un po’ bizzarra, concatenazioni di pensieri che è capace di provocare. “Le illuminazioni che vengono dagli scaffali sono parziali”, scrive Depaolis, “ma non sono affatto di secondo piano. Invitano a scavare tra le fonti di cui un autore può essersi presumibilmente servito, permettono di ripercorrere il suo tragitto di lettore, aprono nuovi sbocchi sul suo universo culturale. Per la sua attività creativa, scrive Nora Moll riferendosi a Sciascia, i libri degli altri hanno uno statuto non inferiore alla propria esperienza vissuta o alle informazioni provenienti dalla realtà”. Appunto.
SEQUESTRO MORO: I SEGRETI.
Tra Andreotti e Moro, scrive Giovanni Di Capua il 7. Per pura coincidenza vengono in questi giorni ricordati il primo anniversario della scomparsa di Giulio Andreotti e il trentaseiesimo dell’assassinio di Aldo Moro, le cui esperienze politiche si intrecciarono (e spesso si contrastarono) e sulle cui diverse sorti, come sui reciproci sostegni, si parlerà ancora a lungo. Proprio una settimana fa venivano rese note alcune lettere segrete di Andreotti (una delle quali scritta nel corso del sequestro Moro, col presidente del consiglio dell’epoca che si chiedeva perché mai i brigatisti rossi avessero preso Moro e non lui, che pure rappresentava anche formalmente lo Stato da abbattere), che fanno ancora una volta trasparire antiche ruggini fra i due, come anche mai interrotte comprensioni umane. L’impressione che traggo nel rifiorire, quasi annuale, di interrogativi sulle condizioni di uffici centrali della nazione, con la loro consueta impreparazione ad ogni evento straordinario (oggi, l’insopportabile cedimento al potere degli ultrà calcistici che ricorrono anche all’assassinio di poliziotti e di tifosi avversari), e la riproposizione di antiche domande (spacciate per nuove) sul numero, la funzione, il ruolo dei servizi segreti delle principali intelligence del mondo, è che in troppi, specie nella cultura e nella politica di sinistra, si sbracciano a chiedere nuove commissioni parlamentari d’inchiesta, senza delle quali – si sostiene – non si potrà mai accertare la veridicità dei fatti di quel lontano 1978 (precedenti e successivi). Io credo che questi gorgheggi mediatici, sobillati da gruppi parlamentari nuovi ma di antico riferimento a protagonisti comunisti dell’epoca, valgano a distogliere – ancora una volta – l’attenzione di cittadini, politici, ricercatori e storici dalle responsabilità politiche, non dalle vittime, ma dall’ampia folla che sorreggeva le imprese brigatiste in funzione di una opposizione concreta, continua, armata, intrigante e opportunista alla linea di solidarietà che si stava faticosamente costruendo fra la Dc di Moro, Zaccagnini e Andreotti e il Pci di Berlinguer e che, invece, la sinistra nel suo complesso, pur con le sue interne divisioni, cercava in vario modo di ostacolare, bloccare, respingere. Sì, certo, le brigate rosse si trovarono impigliate in un gioco di interessi internazionali più grandi di loro; al punto da non potere più controllare i loro stessi progetti a mano a mano che le settimane passavano senza che alcuna delle richieste politiche dei terroristi fosse accolta. Ma si continua quasi ad allontanare l’attenzione dalla vasta area di consenso che la protesta brigatista incarnava, esprimendo un ribellismo diffuso proprio del ventre comunista e di quel piccolo mondo intellettuale radical-borghese-socialista che non tollerava più il primato politico ed elettorale democristiano. Se un’indagine parlamentare è necessaria, essa riguarda le coperture finanziarie e militari straniere ai disegni brigatisti, non sulla presunta estraneità dei terroristi rossi ad un popolo italiano di sinistra: che sapeva d’essere minoritario e di non potere mai diventare maggioranza per via democratica-parlamentare, e piuttosto innalzava le proprie bandiere sulle demarcazioni internazionali in nome di una unità d’azione fra tutti i ribelli della terra e di sentimenti marxistici e anticlericali. A dirla tutta, temo si tenda a rimestare episodi in fondo marginali solo perché non spiegati per distogliere l’attenzione dai possibili mandanti e ispiratori e finanziatori dei terroristi. E questo sarebbe il modo peggiore per ricordare Moro e la sua scorta, uccisi da un furore antidemocratico, mentre i brigatisti non erano arcangeli di virtù, di libertà né costruttori di democrazia sinistrorsa. Cioè minoritaria.
Le domande in attesa di risposta su Aldo Moro, scrive Gero Grassi l'. L'intervento di Gero Grassi, vicepresidente del gruppo Pd alla Camera dei deputati, pubblicato sulla rivista Formiche di maggio, dedicata ad Aldo Moro, il presidente della Dc rapito dalle Brigate rosse e trovato senza vita in via Caetani il 9 maggio di trentasei anni fa. Il 16 marzo 1978, a Roma, in via Fani, le Brigate rosse uccidono gli uomini della scorta e rapiscono il presidente Dc Aldo Moro: Oreste Leonardi, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci e Francesco Zizzi. Dal 1978 si svolgono cinque processi, si realizza nel 1979 la I Commissione Moro, 4 Commissioni sul terrorismo negli anni 1992, 1994, 1996, 2001, la Commissione P2. La Camera ha approvato, su iniziativa degli onorevoli Pd Giuseppe Fioroni, Gero Grassi e Roberto Speranza, con proposta firmata da tutti i gruppi, la legge istitutiva la seconda Commissione d’indagine sul rapimento e la morte di Moro. Perché dopo 36 anni ancora una indagine? La verità non è ancora emersa. Lo dicono la magistratura e le commissioni. “La verità è più grande di qualsiasi tornaconto. La verità è sempre illuminante e ci aiuta a essere coraggiosi”, dice Moro. Ho letto gli atti dei processi Moro e delle commissioni. Per il gruppo Pd della Camera ho realizzato una sintesi testuale, pubblicata sui siti deputatipd.it e gerograssi.it. Di seguito alcuni punti controversi e oscuri della vicenda. Anzitutto la dinamica dell’eccidio di via Fani. Non tutti i partecipanti sono individuati, soprattutto chi non fa parte delle Br. Alessio Casimirri è in Nicaragua. Non è mai stato arrestato e lo Stato non ne ha mai chiesto l’estradizione, ma ha speso oltre un miliardo e mezzo per mandare i servizi segreti a trovarlo. Perché? Completamente oscuri poi sono i nomi dei due della moto Honda, condannati per omicidio in un processo, ma mai identificati. I brigatisti affermano alla magistratura che i due non sono dei loro. La magistratura parla di motivazioni inconfessabili a proposito della non conoscenza della identità. Ancora, dove è stato tenuto prigioniero Moro? I brigatisti dicono in via Montalcini, a Roma. La magistratura accerta che le prigioni sono almeno due. Perché i brigatisti non dicono la verità? Chi fa parte della intelligentia che scrive i documenti delle Brigate rosse e che si riunisce a Firenze? Quali i rapporti tra i componenti del comitato del ministero degli Interni che si occupa del caso Moro durante i 55 giorni e la P2, considerati i tantissimi piduisti presenti? Perché generali dei Carabinieri e magistrati nel periodo del rapimento si incontrano con Gelli nella sua villa di Arezzo per discutere del caso Moro? È vero che durante i 55 giorni al ministero degli Interni entra tale ingegnere Luciani, in realtà Licio Gelli? Perché all’interno della magistratura si verificano divisioni devastanti, tanto che il Procuratore capo della Repubblica di Roma e il Sostituto procuratore che segue l’inchiesta non si parlano e lo dimostrano in occasione dell’episodio del lago della Duchessa, quando il Sostituto non segue il Procuratore al lago, dichiarando di sapere che il comunicato n. 7 delle Br è falso? Quali i rapporti tra Br e la banda della Magliana, camorra, mafia e ‘ndrangheta? La magistratura accerta che il comunicato Br n. 7 è realizzato da Tony Cucchiarelli, capo della banda della Magliana. Un affiliato della ‘ndrangheta dichiara di sapere il perché della scomparsa dalla scrivania del giudice del rullino fotografico scattato dopo l’eccidio di via Fani. Un affiliato di Cutolo dichiara che in via Montalcini la camorra aveva abitazio¬ni-rifugio. Quale la verità sulla seduta spiritica di via Gradoli? Chi fa la soffiata come chiede il giudice Priore? Perché nessuno sa dell’esistenza di via Gradoli, nonostante il 18 marzo ci sia stata una ispezione della Polizia, il prefetto Parisi dispone di 4 appartamenti in via Gradoli e i servizi segreti hanno appartamenti? Perché don Antonello Mennini, vice parroco della Chiesa di Santa Lucia e latore di diverse lettere delle Br non si è mai fatto interrogare dalle commissioni d’inchiesta, rifugiandosi dietro il suo stato di ministro del culto? È vero, come sostiene Corrado Guerzoni, capo ufficio stampa di Moro, che don Antonello si reca nella prigione e porta la comunione al presidente Moro? Quali influenze hanno avuto la Cia, il Kgb, l’Ira, il Mossad, la banda Baader-Meinhof e i servizi segreti bulgari e cecoslovacchi? La testimonianza di Alberto Franceschini non è mai stata smentita. Mario Moretti e Alessio Casimirri sono brigatisti o uomini dei servizi segreti? Franceschini e Curcio sostengono, senza dubbio, che Moretti è un infiltrato e che i carabinieri troppe volte hanno mancato il suo arresto. Chi ha la copia del memoriale Moro ritrovato in via Montenevoso a Milano nel 1978? Perché è stata fotocopiata fuori dall’appartamento senza la presenza del giudice? Perché tutti quelli che hanno visto o letto il memoriale sono stati uccisi: i generali Dalla Chiesa e Galvaligi, il colonnello Varisco, Chichiarelli, Pecorelli e infine la morte sospetta del colonnello Bonaventura, il giorno prima la sua audizione? Perché il giudice Pomarici non ha mai creduto al senatore Flamigni quando questi diceva che in via Montenevoso c’era ulteriore materiale delle Brigate rosse, ritrovato dopo 12 anni da un muratore? Perché i carabinieri e il giudice hanno sostenuto che l’appartamento di via Montenevoso era stato scarnificato mattonella per mattonella, impedendo per dodici anni la scoperta? Perché nell’omicidio Dalla Chiesa gli autori del delitto rubano la borsa che il generale porta con sé dai tempi del rapimento Moro e poi si recano nella sua abitazione prelevando dalla cassaforte documentazione riservata? Perché quando pare che si stia profilando la liberazione di Moro, il 9 maggio 1978 in via Caetani si trova il corpo del presidente? Chi lo uccide? Dove? A che ora? Eleonora Moro, alla Commissione nel 1980: “L’onorevole Moro, da penalista, non avrebbe approvato la condotta dei brigatisti; però avrebbe voluto distruggere o rimuovere le cause che portavano i ragazzi a fare cose di questo genere, in modo che potessero esprimere il loro pensiero, la loro sfiducia e tutto quello che volevano dire con armi proprie, con quelle dell’uomo che parla e fa valere la propria intelligenza, il peso della propria persona matura”. In tutta Italia il gruppo Pd della Camera organizza manifestazioni nel corso delle quali racconto ai cittadini “Chi e perché ha ucciso Aldo Moro”. Due ore di religioso silenzio da parte dei tantissimi presenti, quale omaggio a una persona mite e buona come Aldo Moro.
Aldo Moro, frammenti di un delitto politico, scrive Giovanni Di Capua l'. Intervento pubblicato sulla rivista Formiche di maggio, dedicata ad Aldo Moro, il presidente della Dc rapito dalle Brigate rosse e trovato senza vita in via Caetani il 9 maggio di trentasei anni fa. Era il 9 maggio 1978 quando in via Caetani venne ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro. Erano trascorsi 55 giorni da quel 16 marzo, quando il Parlamento era convocato a giudicare il iv governo Andreotti, zeppo di ministri dorotei e della destra democristiana, chiamato a superare lo scoglio delle fortissime resistenze dell’apparato e della base del Pci di Berlinguer a solidarizzare con la Dc, l’avversario di sempre. Moro si era speso per convincere (ma non riuscendovi totalmente) i riottosi democristiani a un accordo politico coi comunisti, dei quali continuavano a non fidarsi. Le tensioni fra i partiti della strana maggioranza non erano dovute a stati d’animo, anche se si trascinavano dietro odi e rancori risalenti alla guerra civile del 1943-1945 e a quelli maturati dopo il 18 aprile 1948. Tutti i partiti, anche per effetto di un dilagante terrorismo (l’anno emblematico della violenza armata era stato il 1977) erano smarriti. Nessuno di essi era in grado di proporre un sistema di governo chiaramente alternativo al centro-sinistra, o a una coalizione Psi-Pci-gruppi più a sinistra, ovvero a una coalizione straordinaria ma pur sempre provvisoria fra Dc e Pci. La strage di via Fani trovò un’Italia complessivamente impreparata ad affrontare l’emergenza terroristica. Incredulità, sgomento, sottostima della potenza di fuoco delle Brigate rosse e del loro ardire anti-Stato, furono i sentimenti che dominarono le prime settimane del sequestro. Per qualche tempo i cittadini accettarono la generale limitazione di libertà, se quella era la condizione – in via eccezionale – per frenare la sconosciuta (e sospetta raffinatissima) arditezza dei brigatisti. I quali si fecero ben presto vivi coi loro comunicati, scritti con parole di guerra ideologica, politica e militare, dimostranti una lunga (e non solo recente) preparazione. Se per la prima settimana la maggioranza degli italiani si strinse attorno alla cosiddetta “linea della fermezza”, voluta da Berlinguer, fatta propria da Zaccagnini e Andreotti ma anche dai socialisti, dal momento del chiaro depistaggio dell’annuncio brigatista che il corpo di Moro fosse rintracciabile nel lago della Duchessa, il fronte unitario della fermezza venne frantumato dalla improvvisa insorgenza della capacità trainante della linea trattativista lanciata da Craxi. Il trattativismo ebbe in realtà due versioni. La prima, politico-culturale, facente capo al Psi e apertamente sostenuta dai radicali e dal gruppo del manifesto, favorevole allo scambio politico richiesto dai brigatisti. La seconda, formulata da Paolo VI operò per riscattare la vita a Moro; fece appello alla sensibilità umana dei brigatisti e confidò nella disponibilità di alcuni uomini dello Stato (il presidente Leone e l’ex segretario democristiano Fanfani) per una sorta di scambio di prigionieri che, in ogni caso, si risolvesse con la liberazione di Moro e con quella di terroristi non macchia¬tisi di reati di sangue o malati. L’assassinio di Moro, effettuato il 9 maggio, proprio il giorno in cui si delineava la possibilità di uno sbocco del tipo concordato fra il pontefice e alcuni alti esponenti dello Stato, ridimensionò entrambe le forme trattativiste. Teoricamente si coniugò con la linea della intransigenza e provocò la rottura tra la famiglia Moro e la Chiesa e con l’universo politico; nonché la restaurazione apparente dello Stato di diritto, non indulgente sino a farsi sopraffare dal sovversivismo. Due gli effetti più vistosi: la linea della corresponsabilità di governo fra Dc e Pci si liquefece progressivamente; lasciando impantanati i due maggiori partiti italiani in un cabotaggio parlamentare che via via portò all’inversione di marcia del Pci e all’abbandono definitivo della solidarietà nazionale. Leone si dimise anticipatamente da capo dello Stato sotto l’aggressione giornalistica di Camilla Cederna, lasciando spazio di manovra, nelle presidenziali di luglio, ai tatticismi velenosi, tutti interni al variopinto mondo di sinistra, che portarono all’elezione di Pertini (candidato assembleare non desiderato da Craxi) al Quirinale. La Dc s’impigliò in un isolamento dal quale non si sarebbe mai più ripresa: in parte perdendo la sua centralità, che risaliva al dicembre 1945. Dalla morte di Moro certo non trasse vantaggio la Dc, che restò marchiata dalla fermezza, senza che le fosse riconosciuto il contributo di sangue che aveva versato comunque salvando lo Stato dall’assalto brigatista. Continuarono invece a incontrare consensi quegli intellettuali che si erano attestati sulla linea pilatesca “né con lo Stato, né con le Br”, sposata da non pochi media. La segreteria Zaccagnini risultò fortemente contestata dalla famiglia Moro, dai socialisti e dalla destra democristiana e clericale. Il Pci di Berlinguer tornò all’opposizione, ma lasciò anche cadere definitivamente la sua linea del compromesso storico (proposta nell’autunno 1973) che, pur non essendo stata accolta dalla Dc, aveva richiamato l’attenzione di Moro per il suo intrinseco significato di politica funzionale a una democrazia matura che l’Italia non avrebbe mai sostanzialmente conosciuto. A guadagnare un po’ di potere fu l’autonomismo socialista, rinforzato dal codazzo radicale e da una più rilevante simpatia del liberalismo riformista. Ma il brigatismo rosso, pur mandato disperso dagli arresti, da processi interminabili, da condanne che apparvero persino generose, lasciò un segno nell’indifferenziato mondo della sinistra antagonista. Sino a fare breccia in un Pci che, dimenticato totalmente Berlinguer, anche nelle sue successive trasformazioni rimase attestato sulle posizioni di un partito di lotta e di governo: non dissimili da quelle di partenza dell’aprile 1944 imposte da Togliatti.
I veri segreti su Moro, scrive Francesco DamatoSolerte come aveva promesso nella seduta del 29 ottobre scorso dell’apposita commissione parlamentare d’indagine presieduta da Giuseppe Fioroni, il sottosegretario Marco Minniti, delegato dal presidente del Consiglio ai rapporti con i servizi segreti, ha “segnalato” a Matteo Renzi la richiesta unanime votata dalla stessa commissione di estendere alla tragica vicenda di Aldo Moro la declassificazione, cioè la desecretazione, già programmata per i documenti sulle stragi compiute fra il 1969 e il 1984. In effetti, anche quella che si concluse il 9 maggio del 1978 con l’assassinio di Moro, dopo 55 giorni di penosa e drammatica prigionia, fu una strage, essendo tutto cominciato la mattina del 16 marzo con lo sterminio della scorta del presidente della Democrazia Cristiana. Che era composta di cinque uomini, fra agenti di polizia e carabinieri. D’altronde, la vicenda Moro è stata già trattata nell’ambito delle stragi dalle omonime commissioni parlamentari d’inchiesta succedutesi fra il 1988 e il 2001, per ben quattro legislature, specie dall’ultima, presieduta da Giovanni Pellegrino, illustre avvocato e giurista eletto senatore nelle liste dei Ds-ex Pci. Fu proprio Pellegrino che alla fine inviò un esposto alla Procura di Roma per prospettare la necessità di riaprire le indagini giudiziarie sul sequestro Moro in base agli elementi raccolti dalla sua commissione. Indagini che però la Procura romana ritenne di concludere con l’archiviazione, per quanto clamorosi fossero gli elementi nuovi raccolti in sede parlamentare, sui quali lo stesso Pellegrino, intervistato da Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, si soffermò a lungo in un prezioso libro pubblicato da Einaudi nel 2000, per la collana “Gli struzzi”, intitolato “Segreto di Stato- La verità da Gladio al caso Moro”. In quel libro il presidente della commissione riferì, fra l’altro, di un’audizione del magistrato Tindari Baglione, destinato a diventare procuratore generale a Firenze ma fattosi le ossa come inquirente occupandosi di terrorismo. “Alla domanda – disse Tindari Baglione – se eravamo più preparati noi (e cioè la magistratura inquirente e le forze di polizia) o loro (i brigatisti), la mia risposta con una battuta potrebbe essere che avevamo gli stessi consulenti”. Su questa storia inquietante dei consulenti comuni alle brigate rosse e a chi doveva o avrebbe dovuto combatterle, ma ne fu probabilmente condizionato o deviato, potrebbero forse aiutare a capire e scoprire qualcosa i documenti ancora riservati di cui è stata chiesta la declassificazione a Matteo Renzi. Documenti che risultano essere addirittura 12.500, di cui 474 di provenienza straniera, per i quali le procedure e gli esiti della declassificazione potrebbero risultare più lenti e incerti degli altri, non dipendendo la rimozione del segreto solo dal presidente del Consiglio. Ma i 12.026 di pertinenza solo italiana, declassificabili entro giugno dell’anno prossimo secondo le procedure stabilite nelle direttive adottate in materia dallo stesso Renzi subito dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi per fare luce completa sulle troppe stragi rimaste parzialmente o del tutto impunite, potrebbero risultare utili a svelare i segreti che ancora gravano sulla tragica fine di Moro. Che non fu certo ucciso dalle “giubbe rosse”, come ricorda il titolo sarcastico di un libro scritto a quattro mani dallo stesso Renzi con Lapo Pistelli, quando i due andavano d’amore e d’accordo, ma dalle brigate rosse. Ad uno dei segreti perduranti della vicenda Moro si riferì nel 1998, in un’intervista fattagli per Il Foglio in occasione del ventesimo anniversario del sequestro del leader democristiano, Giovanni Leone, presidente della Repubblica all’epoca dei fatti, raccontandomi i particolari della grazia che il 9 maggio 1978 egli si accingeva a firmare al Quirinale, a dispetto della linea della fermezza adottata dal governo, per uno dei tredici detenuti per terrorismo di cui le brigate rosse il 24 aprile avevano chiesto la scarcerazione in cambio di Moro. Si trattava di Paola Besuschio, condannata in via definitiva ma non per fatti di sangue, e ricoverata in quei giorni in un ospedale. Dove peraltro la detenuta, rintracciata con una certa fatica, aveva rifiutato di chiedere la grazia, che Leone decise di concederle lo stesso, sperando che il suo atto di clemenza potesse provocare fra i brigatisti un ripensamento sulla decisione già annunciata di uccidere Moro. Ma i terroristi lo precedettero di qualche ora ammazzando l’ostaggio. “A delitto consumato, mi convinsi che i brigatisti fossero al corrente di quel che stava maturando e, non volendo la liberazione di Moro, avessero affrettato quella mattina l’assassinio”, mi disse Leone. Che aggiunse, ancora tormentato da chissà quali sospetti: “Quei brigatisti erano troppo informati”. Davvero troppo per via forse dei consulenti in comune con lo Stato. Sulla pelle del povero Moro essi risparmiarono ai vertici delle brigate rosse l’esplosione di contrasti ancora più forti di quelli già verificatisi nella gestione del sequestro.
Ecco la nuova fuffa su Aldo Moro, scrive Francesco Damato Se quella di Aldo Moro non fosse stata e non fosse tuttora un’autentica tragedia, con quella sua orribile morte nel 1978 e i tanti misteri rimasti irrisolti, ci sarebbe da ridere della nuova commissione d’inchiesta parlamentare, costituita per fare più luce su quella vicenda. Una commissione che sta scambiando lucciole per lanterne e che soffre anch’essa di annuncite: la malattia politica del presidente del Consiglio Matteo Renzi e del suo governo. Il primo annuncio della commissione è stato quello di chissà quali e quanti documenti in via di desecretazione, al pari di quelli sulle stragi promessi da Renzi appena insediato a Palazzo Chigi. Ma il ministro dell’Interno Angelino Alfano si è premurato di precisare di persona ai commissari di avere tirato fuori dagli armadi del Viminale, a proposito della vicenda Moro, un faldone di carte solo parzialmente divulgabili. E per giunta riferibili ad un arco di tempo – dal 1999 in poi – tanto lontano dal 1978 da fare ritenere improbabile una loro utilità per capire che cosa non avesse funzionato all’epoca del sequestro dell’allora presidente della Dc. Un latro annuncio è stato quello del successo – chiamiamolo così – conseguito dalla commissione con il ritrovamento dell’auto nel bagagliaio della quale Moro fu ucciso e venne fatto trovare dopo qualche ora a metà strada fra le sedi nazionali del Pci e della Dc, come se in quella macchina fosse ancora possibile rinvenire elementi preziosi per la ricerca delle verità mancanti. La R4 rossa così tristemente famosa per le immagini televisive del ritrovamento del cadavere di Moro non aveva fatto alcuna fine misteriosa. E’ stata “ritrovata” regolarmente custodita in un garage del Ministero dell’Interno, ceduta qualche anno fa allo Stato dal proprietario, al quale i brigatisi rossi l’avevano rubata durante il sequestro di Moro, e destinata a un museo storico delle macchine della Polizia. Fra le quali andrebbero evidentemente annoverate anche quelle usate contro lo Stato dai criminali. Degli annunci della o alla commissione d’inchiesta parlamentare sulla vicenda Moro fa parte anche il “procedimento formale” comunicato dal Procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Luigi Ciampoli, contro il funzionario americano della Cia Steve Pieczenik, accorso alla richiesta di aiuto dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga a fronteggiare l’emergenza, ma sospettato di avere deliberatamente concorso con i suoi consigli all’assassinio dell’ostaggio. Matteo Renzi sarà stato il primo a sobbalzare di fronte a questa ipotesi. Che smentirebbe anche quell’arguto libretto da lui scritto nel 1999 con l’amico Lapo Pistelli proprio per contestare dietrologie di questo tipo. Un libretto sarcasticamente ed efficacemente chiaro sin dal titolo e dalla vignetta di copertina raffigurante una guardia canadese: “Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro”. Ad ammazzare Moro, 55 giorni dopo averne sterminato la scorta, non furono infatti né i canadesi né gli alleati americani, ma più semplicemente le Brigate rosse italiane. Che riuscirono a realizzare da sole la loro più eclatante operazione militare e politica, bastando e avanzando per il loro successo la inadeguatezza degli apparati di sicurezza dello Stato, un po’ di “consulenti in comune” che incredibilmente avevano lo stesso Stato e i terroristi, secondo le rivelazioni di un magistrato esperto di terrorismo all’ultima commissione d’inchiesta parlamentare sulle stragi presieduta da Giovanni Pellegrino, e l’impotenza cui il governo si condannò con le giaculatorie di una retorica linea della fermezza. Una linea non a caso tradita nella occasione successiva, tre anni dopo, quando fu sequestrato dalle brigate rosse e liberato con la mediazione addirittura della camorra Ciro Cirillo, un assessore regionale democristiano della Campania la cui vita fu evidentemente e scandalosamente ritenuta più preziosa di quella di Moro.
SEQUESTRO MORO: LE COMMISSIONI D’INCHIESTA.
(com)Missione impossibile. Molto chiasso, zeru tituli. Ci casca pure Renzi. Inchiesta sull’allegra inutilità delle commissioni di inchiesta, scrive Mario Sechi il 26 Dicembre 2015 su “Il Foglio”. Ricordate la commissione Stragi? Al telefono i commessi rispondevano così alle chiamate, per dire della serietà e compostezza istituzionale: “Straaaaaaggiiiiiiii, dica!” Mancavano i manifestanti al portone di Bankitalia. Sono arrivati. Lo scenario ora è completo. Quasi. Alla sceneggiatura del qualunquismo bancario manca la commissione parlamentare che studia, accusa, ausculta, prende le misure. Commissione d’inchiesta o d’indagine? Dilemma. Con poteri della magistratura o senza? Rebus. Si vedrà. Al cronista in questo caso viene in mente il vecchio detto che circola in Transatlantico: quando si vuole insabbiare bene un caso, si fa una bella commissione d’inchiesta parlamentare. Così quando qualche giorno fa Renato Brunetta ha proposto di istituirne una per indagare su banche e risparmiatori e Matteo Renzi ha detto di non essere contrario all’idea (ma poi si vedrà) sul taccuino sono cominciati a piovere un po’ di ricordi. Si può fare la commissione sugli obbligazionisti (in)subordinati? Certo, occasione succulenta per chi fa il nostro mestiere, ma vedrete quale opera magna ne verrà fuori. Una commissione d’inchiesta (o d’indagine, fate voi) serve ad alimentare il caos, fare manovre da sottosopra (per esempio indicare l’exit al governatore di Bankitalia, Ignazio Visco), portare in prima pagina un presidente che diventa protagonista per mesi (intere carriere sono state create così), scodellare rivelazioni e far bollire scoop di cartapesta. E poi c’è tutto il traffico dentro e fuori, i senatori e deputati, i segretari, i consulenti esterni. La commissione parlamentare mette in moto una macchina che voi umani non potete immaginare. L’argomento è perfetto: le banche e il povero risparmiatore mai stato investitore, al massimo investito. Il massimo per esprimersi ai minimi livelli. La storia conferma con puntualità svizzera e beffardaggine italiana il quadro. Qualche giorno fa è morto Licio Gelli, novantasei anni, nessuno ne ricordava l’esistenza. Ma quando è comparso il lancio d’agenzia sul passaggio all’altro mondo, zac! Sui giornali e i telegiornali sono comparsi titoli da strillone e pensosi commenti che avevano il tono del mistery: “Quanti segreti si è portato nella tomba…”. Ma come? Non aveva chiarito tutto la super commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2 guidata da Tina Anselmi? Perbacco, come no? Anno 1981, venti senatori e venti deputati si spremono le meningi e compulsano i volumi di Sherlock Holmes sull’arte dell’investigazione, due legislature e tre anni di lavoro, una relazione conclusiva di Tina Anselmi, cinque relazioni di minoranza (Teodori, Pisanò, Matteoli, Ghinami, Bastianini), ventiquattro volumi di allegati per un leggerissimo totale di novantatré tomi, senza considerare gli indispensabili Indici. Quella che sui giornali di ieri fu la Verità della commissione Anselmi, diventa oggi il segreto sigillato nella bara di Gelli. Strepitoso testacoda dell’archivista. E’ una storia lunga quella delle commissioni d’inchiesta, specialità del menù politico, sollazzo dei cronisti, un forno a legna sempre acceso, pronto all’ordinazione in sala, un cotto e mangiato del nostro costume nazionale e irrazionale. E’ il bisogno patrio della complicazione per evitare la spiegazione, il rapporto parlamentare come arma di distrazione di massa, un percorso di secolare inganno e meraviglia che comincia nel 1918 con la commissione sulla disfatta di Caporetto: 241 sedute dal 15 febbraio 1918 al 25 giugno 1919, 2.310 documenti e 1.012 testimoni. Due volumi pesantissimi furono consegnati al presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti. Tutto per scoprire (e coprire con pietoso coperchio istituzionale) che la dodicesima battaglia dell’Isonzo sotto il comando supremo del generale Luigi Cadorna era entrata di dritto e di rovescio nel guinness dei fiaschi militari: 13 mila morti, 30 mila feriti e 265 mila prigionieri. Queste, più o meno, le stime della storia. Sbandamento, fuga, massacro, “la madre di tutte le batoste”. Caporetto è la biografia delle commissioni parlamentari, della loro proliferazione come arma non convenzionale, indice alfabetico da emicrania di una nazione analfabeta (d’andata ieri e di ritorno oggi) e senza sprezzo del ridicolo. L’elenco avrebbe fatto impazzire François Rabelais di buffonesca gioia. Perché pantagruelico è il menù delle commissioni parlamentari d’inchiesta. C’è un problema? Risolto! Si indaga con un collegio di deputati e senatori, tiratori scelti di una battaglia che ha sempre altri scopi rispetto agli alti scopi. Varata la Repubblica, se ne avviarono subito due, di commissioni, sulla disoccupazione e sulla miseria. Correva l’anno 1948, fu il preludio di una sinfonia dove ieri e oggi quasi s’odono i tromboni. I veri solisti dello spartito d’indagine. Prima legislatura, due commissioni così scontate non potevano bastare, si capì subito che occorreva impegnarsi di più, così arrivarono le commissioni speciali, diverse dalle investigative ma sempre usate con clamore e senza candore: per le alluvioni dell’autunno 1951, sulla Cassa per il Mezzogiorno, per istituire il Cnel, per i funerali di Vittorio Emanuele Orlando, per le locazioni, per l’ordinamento degli enti locali in Sicilia (l’isola diventerà fonte di un serial di inesauribile fantasia), sui provvedimenti speciali per la città di Napoli (altra saga immaginifica, giunta fino ai nostri giorni), arrivò prontamente quella sul debito pubblico e subitissimo fu istituita la commissione di vigilanza sulle radiodiffusioni, poi mutata in Rai e domani chissà. Neanche le onde elettromagnetiche sfuggirono al radar parlamentare. Ecco, questa è la partenza, il principio di tutto, da questa sorgente sulfurea salgono e scendono, su e giù per i rami della storia, tutte le altre commissioni. Un tripudio di invenzioni politiche e impolitiche che non ha rivali nella storia d’Oriente e d’Occidente. Essenza e distillato del nostro bizantinismo. La seconda legislatura fece partire l’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori che affiancò quella sulla miseria, quella sulle ricompense al merito militare e civile, un’altra alluvione in autunno nel 1953 (in Calabria, altra lunga serie di morti e parole) alla quale si aggiunse in passerella quella sull’alluvione estate e autunno sempre del 1953, fece l’esordio la commissione speciale sulla città di Roma (telenovela giunta fino all’indimenticabile puntata marziana su Ignazio Marino), una sui provvedimenti straordinari per l’Abruzzo e ancora provvedimenti altrettanto straordinari per la Calabria. E’ il giro d’Italia del disastro con l’assegno di risarcimento incorporato, il vedo, stravedo e provvedo, il ciclo economico dell’emergenza e del fondo assegnato in eterno, del dico, non vi dico ma soprattutto spendo. E votate, mi raccomando. La terza legislatura della Repubblica ha già un discreto allenamento sulla materia, l’ingranaggio di costruzione e costituzione del collegio pronto a tutto è oliatissimo. Signore e signori, italiani! Il grande tema dell’oggi rimbalza dal passato come in ritorno al futuro, ecco la commissione d’inchiesta sull’Anonima banchieri, nota come “caso Giuffrè”, da Giovan Battista Giuffrè, ribattezzato il banchiere di Dio per i suoi agganci vaticani, impiegato di Imola che modestamente sapeva il fatto suo e non aveva bisogno dell’obbligazionista (in)subordinato per agire: garantiva un tasso di interesse del cento per cento e usava quello che divenne un classico della truffa: lo “Schema Ponzi”. Come funzionava (e funziona)? Una catena di Sant’Antonio di allocchi dove i primi investitori venivano rimborsati con i soldi versati dagli ultimi e quando i rimborsi superarono i versamenti… crash! Il caso Giuffrè fu un terremoto politico, il ministro delle Finanze Luigi Preti aprì il caso per affondare – tramite Amintore Fanfani (toh! è subito Arezzo) il suo predecessore Giulio Andreotti, accusandolo di “mancata vigilanza”, in sostanza di aver coperto Giuffrè. Spuntò un memoriale. Falso. La verità? Che importava, si faceva politica anche così. Tra gli stangati, i Frati Cappuccini, naturalmente il Papa istituì una bella commissione d’inchiesta, cardinalizia. E’ la storia che si diverte a srotolare un anticipo del futuro: sono gli anni in cui nasce la commissione Antimafia (esordio nel 1962) ma già si profila all’orizzonte tutto il capitolo retorico sulla corruzione e come un razzo decolla la commissione sulla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino. Il domani, il nostro scintillante oggi, era già scritto, previsto, sottoscritto e, naturalmente rimborsato a piè di lista dal contribuente spesso ignaro, ma in fondo consenziente sul tran tran della spesa e della costruzione del debito. Italiani che alimentano un’alluvione di leggi e denari che corrono pericolosamente a valle. E le tragedie, immani. Eccolo, il disastro del Vajont, la commissione sulla strage fa la sua comparsa nella quarta legislatura, lavora cinque anni (dal 1963 al 1968, produce una relazione finale e due di minoranza. Sono trascorsi 52 anni da quella tragica notte del 9 ottobre 1953 e ancora si inseguono una, due, tre, tante verità sulla frana del Monte Toc e la tracimazione delle acque del bacino su Longarone: 1917 morti. Altro disastro, altra commissione d’inchiesta, quella sul terremoto del Belice. Il diluvio e il movimento tettonico, lo scroscio e il crollo, nessun tema può restare scoperto, ogni pagliuzza e trave sono sottoposte all’analisi dei parlamentari. Si battano i piatti e si alzino i tromboni, la quinta legislatura manda in scena la commissione d’inchiesta sulla criminalità in Sardegna e quella che aprirà una feconda stagione di spie, spioni, colpi di stato semiveri, semiseri e molto immaginari, ecco la commissione che indaga sullo scandalo Sifar e, naturalmente l’accompagnamento delle puntuali alluvioni del 1968. Volete comparare l’opera di Ian Flemins su James Bond con il raccontone sul Sifar italiano, la schedatura italica, terreno di pascolo del giornalismo pistarolo a cui nulla sfugge? Una relazione di maggioranza, quattro di minoranza, altri due bei volumoni di storia patria e un vulcano di rivelazioni che continuano a seconda dell’archivio e del tomo. Siamo già in una fase che richiederà palazzi, stanze, biblioteche, futuri terabyte d’archiviazione. Calma e gesso, nella sesta legislatura entra nell’indice delle indagini senza fine e senza soluzione quella sulla “giungla retributiva”, un chiaro mai più senza che dà un colpo decisivo allo stato confusionale del contribuente italiano. La settima legislatura ha il suo disastro e l’automatica commissione: incidente all’Icmesa, l’inquinamento chimico di Seveso. Tripletta incredibile nell’ottava legislatura con tre commissioni d’inchiesta da abbonamento premium e serial tv garantito: Moro, Loggia P2, Sindona. Siamo nel 1978, annus horribilis, nel 1979 il Parlamento si trasforma nell’agenzia investigativa Pinkerton. Non manca un terremoto con relativa commissione incorporata, stavolta in Campania e Basilicata. E la corruzione? C’è sempre e trova risposta immediata e cura indefinita nello spazio e nel tempo. Ecco i parlamentari aprire i lavori della commissione d’inchiesta sui fondi neri dell’Iri. Vaste programme. Siamo nella nona legislatura, partenza nell’anno 1983, i collegi d’indagine precedenti hanno funzionato così bene che viene formata con velocità supersonica la “Commissione parlamentare d'inchiesta sui risultati della lotta al terrorismo e sulle cause che hanno impedito l'individuazione dei responsabili delle stragi”. Epigrafe da tesi di laurea a Tubinga, stragi rigorosamente irrisolte. Al telefono i commessi rispondevano così alle chiamate, per dire della serietà e compostezza istituzionale: “Straaaaaaggiiiiiiii, dica!”. Ma no dai, stavolta si fa sul serio, non ci sono dubbi, il momento è grave, bisogna rifare la Repubblica! Allo scopo viene attrezzata anche una commissione che d’indagine non è ma va citata come nuovo inizio di un altro ciclo eterno, quello delle riforme istituzionali, la famosa commissione Bozzi, destinata a suscitare fiumi di citazioni negli anni a venire e a non arrivare ad alcuna riforma. Al massimo tavoli. Rovesciati come in saloon. La sabbia nella clessidra è giunta al livello della targhetta del 1987, altro anno turbolento. Ad Atlanta, Stati Uniti, la filiale della Banca nazionale del lavoro concede prestiti a un dittatore iracheno chiamato Saddam Hussein. E’ in guerra con l’Iran, deve finanziare l’acquisto di armi, cerca soldi. Gli americani guardano dentro la cassaforte e scoprono che i soldi passano attraverso il manager della banca italiana, Christopher P. Drogoul. Il nome in codice dell’operazione è un’anticipazione della tarantella suonata dalla commissione di inchiesta in Italia: “Perugina”, come i baci. Cose che accadono all’estero, lontano dagli occhi, dal cuore e soprattutto dal bilancio dello Stato. A proposito di oltre confine, non disperate, nell’undicesima legislatura si fa una bella commissione sulla Cooperazione all’estero. La dodicesima e tredicesima legislatura sono il canto del cigno della prima repubblica e la nascita della seconda. Forse. Nel 1994 cambia lo scenario politico, i partiti storici sono stati decimati dalla magistratura, c’è un tal Di Pietro, c’è Berlusconi, c’è Bossi, resistono i post comunisti, bisogna dare un segnale di svolta e si torna a sventolare la bandiera dei temi sociali, perdinci. Il Senato apre i lavori d’indagine niente meno che su caporalato, ciclo rifiuti e sistema sanitario, alla Camera rispondono prontamente, non perdono un colpo, cribbio, con le investigazioni sull’Acna di Cengio. Montecitorio e Palazzo Madama puntano la lente sul dissesto di Federconsorzi, per liquidare meglio i resti della Dc, figuriamoci. Ottocento ex dipendenti ancora oggi cercano risarcimento. Tono minore, in ogni caso, rispetto all’impegno da detective del passato. Ma il riscatto pieno, il ritorno agli anni ruggenti arriva nella quattordicesima legislatura dove il centrodestra berlusconiano infila un triplete di commissioni da sballo mediatico: Mitrokhin, TeleKom Serbia e crimini nazifascisti. Le prime due avevano un camion di documenti sui quali riscrivere un pezzo di storia, la terza era un esercizio accademico. Il dossier Mitrokhin nel Regno Unito fece il botto, in Italia venne trattato come un feuilleton, salvo poi coprire con il segreto i documenti della commissione che oggi non sono disponibili neanche per gli studiosi. Stranezze. Lo scandalo Telekom Serbia invece aveva solida documentazione diplomatica, giri di soldi già tracciati, un conte come intermediario e altre sagome nell’ombra, depositi a San Marino, insomma un dossier eccellente per essere una cosa seria, ma in commissione accreditarono un teste, Igor Marini, che con i suoi racconti tanto finti e precisi da sembrare veri finì per portare la storia verso un epilogo grottesco. Fu un naufragio da manuale. Il Senato in quel periodo, siamo nel 2001, esercitò il suo sapere sul fiume Sarno, sulle morti bianche, sull’uranio impoverito, sul sistema sanitario. C’era l’Italia da rivoltare, altro che, e i parlamentari erano pronti alla grande missione. Alla Camera si occuparono della morte di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, anche qui un risultato finale con molto rumore sui giornali ma zero tituli. Al grande polverone, seguì un periodo di più modesti obiettivi, di dimesso impegno, così la quindicesima legislatura lascia sul taccuino del cronista poche tracce, a meno che non si provi folgorazione per l’intrigante caccia parlamentare agli errori sanitari. La sedicesima legislatura non offre colpi di scena, fa il punto sulle morti bianche, non si entusiasma nessuno in redazione con relazioni sulla pirateria e la contraffazione. Così, trascinati dalla corrente come un gigantesco albero sradicato dalla storia, si arriva ai giorni nostri, dove si capisce che c’è un fermento, una gran voglia, un desiderio di ribalta, di cagnara, di zuffa politica inespressa, di sottovuoto spinto a cui dare sfogo creativo. Ma ancora non ci siamo, i fermenti non sono così potenti, è una diciassettesima legislatura che si apre al Senato sotto la guida di Pietro Grasso e le commissioni sono dunque un derivato del suo stato gassoso; una commissione sugli infortuni sul lavoro (riecco l’impegno sociale), una sulle intimidazioni agli amministratori locali, e la quanto mai puntuale commissione d’inchiesta sul rogo del traghetto Moby Prince, a soli 24 anni dalla collisione tra la nave passeggeri e la petroliera Agip Abruzzo al largo del porto di Livorno. Si sa, il Parlamento in queste cose è tempestivo. Nell’impero di Laura Boldrini il recital è un po’ più vispo: pirateria e contraffazione, effetti dell’uranio impoverito, ciclo dei rifiuti e illeciti ambientali, l’antimafia bindiana in versione extended, dove c’è la Boldrini ovviamente c’è un’indagine sui migranti e infine il flashback, la fenomenale macchina del tempo di Montecitorio in piena azione: la commissione d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Trentasette anni dopo. Ancora audizioni, ricostruzioni, rivelazioni. Se ne sentiva il bisogno. Aprite il taccuino, prendete appunti. A volte ritornano.
Aldo Moro, i primi misteri svelati dalla Commissione Fioroni, scrive Francesco Damato Primo di una serie di 3 articoli dell'editorialista Francesco Damato. Buon anno, in particolare, a Giuseppe Fioroni, ex ministro della Pubblica Istruzione, deputato del Partito Democratico, alla guida dall’autunno del 2014 della commissione parlamentare d’inchiesta, l’ennesima, sul sequestro e sulla morte di Aldo Moro, avvenuti dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, quasi 38 anni fa. Era alla guida del governo Giulio Andreotti con un “monocolore” democristiano appoggiato esternamente dal Partito Comunista Italiano. Il cui passaggio dall’astensione al voto di fiducia era stato appena concordato per ragioni di emergenza e cosiddetta “solidarietà nazionale” fra lo stesso Moro, presidente e regolo della Dc, e il segretario delle Botteghe Oscure Enrico Berlinguer. Questa commissione – l’ennesima, ripeto, nata anche per questo fra lo scetticismo dei più – dovrà concludere entro questo 2016, salvo proroghe, i suoi lavori inquirenti. Che sono stati e sono tuttora condotti, secondo la prescrizione dell’articolo 82 della Costituzione, “con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria”. Limitazioni, tuttavia, che non sono proprio le stesse, ma maggiori, non potendo la commissione disporre, per esempio, intercettazioni o arresti, ma solo l’accompagnamento coattivo dei testimoni eventualmente indisponibili ad essere interrogati. Interventi sulla segretezza delle comunicazioni e sulla libertà personale potrebbero essere disposte solo dalla magistratura ordinaria per procedimenti giudiziari da essa aperti recependo indicazioni o sollecitazioni della commissione parlamentare. Ma in tal caso si potrebbero creare nuovi e più delicati problemi di rapporti fra inquirenti diversi. In attesa della fine dei lavori e della relazione conclusiva, il presidente Fioroni ha già prodotto con voto unanime della commissione, e per disposizione della stessa legge istitutiva, un rapporto parziale di circa 200 pagine sulle indagini già eseguite. Un rapporto pubblicato il 10 dicembre scorso alla Camera nel bollettino delle giunte e delle commissioni, da cui si evincono già elementi sufficienti a fare ammettere anche ai più scettici che una ulteriore inchiesta parlamentare occorresse e occorra davvero, visti i vuoti lasciati dalle precedenti, e anche dai vari processi e verdetti giudiziari che si sono susseguiti sulla tragica vicenda Moro, che “presenta profili di straordinario rilievo nella storia della nostra Repubblica”, come ha scritto Fioroni. Responsabili dei vuoti, o della nebbia che da 38 anni pesa sul sequestro e sull’assassinio di Moro sono pure i brigatisti catturati, condannati ed anche usciti dal carcere per avere scontato la pena, autori persino di libri, memoriali e interviste sulle loro gesta, ma irriducibilmente reticenti. Fra i documenti di “notevole interesse” acquisiti dalla commissione, grazie anche alla declassificazione disposta l’anno scorso dal presidente del Consiglio Matteo Renzi negli archivi dello Stato, ve n’è uno originale dei servizi segreti italiani – Ufficio R, reparto D, 1626 – proveniente da Beirut e datato 18 febbraio 1978, quasi un mese prima del sequestro Moro. Si giravano a Roma informazioni palestinesi “riguardanti operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbero coinvolgere nostro Paese, se dovesse essere definito progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste”. La nota, proveniente in particolare da “fonte 2000”, assicurava la disponibilità dei palestinesi di Habbash a prodigarsi, nell’occorrenza, per proteggere gli interessi italiani, secondo una consuetudine concordata a suo tempo e nota come “lodo Moro”. E si chiudeva con la raccomandazione di non diramare la notizia “ai servizi collegati Olp Roma”, di cui evidentemente le fonti palestinesi di Beirut non si fidavano. Moro, cui certo non mancavano per la sua lunga e autorevole esperienza di governo, da presidente del Consiglio a ministro degli Esteri, collegamenti con i servizi, aveva probabilmente saputo qualcosa di quel che da Beirut si era comunicato se, una volta sequestrato, in una delle prime lettere inviate dal covo in cui lo avevano rinchiuso le brigate rosse raccomandò che fossero attivati i contatti del governo con il colonnello Stefano Giovannone, operativo per i servizi segreti in Medio Oriente. Moro aveva evidentemente più di qualche sospetto sui collegamenti internazionali delle brigate rosse, sbrigativamente eliminate da molti studiosi come un fenomeno solo o prevalentemente endogeno, cioè nazionale. Egli riteneva che qualcuno o qualcosa potesse incidere sui suoi rapitori dall’estero. Sarà stata poi una curiosa coincidenza, ma fu proprio dopo quell’allarme inviato da Beirut il 12 febbraio 1978 che il capo della scorta di Moro, il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, apparve particolarmente nervoso, anche a me che ebbi modo di incontrarlo incidentalmente qualche giorno prima del sequestro. Ma si pose anche al vertice della Polizia il problema di una maggiore protezione del presidente della Dc, nel cui ufficio romano di via Savoia il capo della Polizia mandò il 15 marzo, cioè due giorni prima del sequestro, il dirigente dell’ufficio politico della Questura di Roma, Domenico Spinella, per “concordare – riferisce la documentata relazione di Fioroni – l’istituzione di un servizio di vigilanza a tutela” dello stesso ufficio nei giorni e nelle ore in cui non fossero presenti, con Moro, gli agenti della scorta. Un servizio di vigilanza “la cui attivazione era stata poi pianificata con decorrenza 17 marzo”, quando purtroppo Moro sarebbe stato già sequestrato e la scorta sterminata in via Fani, a poche centinaia di metri di distanza dalla casa di via di Forte Trionfale, mentre il presidente della Dc cercava di raggiungere la Camera. Dove Andreotti si accingeva a presentare la riedizione del suo “monocolore” democristiano per ottenere la fiducia dai comunisti.
Sequestro Moro, cosa ha scovato la Commissione Fioroni. Secondo di una serie di tre articoli dell'editorialista Francesco Damato. Non trascorsero inutilmente, per il povero Aldo Moro e quanti avrebbero dovuto proteggerlo, soltanto i 26 giorni seguiti alla segnalazione del 18 febbraio 1978 dalla “fonte 2000” di Beirut dei servizi segreti italiani, informati dai palestinesi di un’operazione nel nostro Paese concordata o a conoscenza a livello terroristico internazionale. Purtroppo trascorsero inutilmente anche gli ultimi, sessanta minuti- come vedremo- che precedettero il tragico sequestro del presidente della Dc, avvenuto il 16 marzo fra le 9 e tre minuti e le 9 e 5 minuti, dopo 93 colpi d’armi da fuoco di cui 49 sparati da una sola fonte e 2 soltanto da uno degli agenti di scorta di Moro: il poliziotto Raffaele Iozzino. Gli altri quattro della quadra non ebbero neppure il tempo e il modo di tentare una reazione armata. Pochi minuti dopo le ore otto, quando Moro era ancora a casa e la scorta si accingeva a raggiungerlo per accompagnarlo alla Camera, lungo un percorso rivelatosi – ahimè – troppo abituale, nell’abitazione romana del senatore moroteo Vittorio Cervone la domestica Clara Giannettino trasecolò ascoltando alla Radio Città Futura, diretta da Renzo Rossellini e appartenente all’area extraparlamentare di sinistra non certamente ignota alle forze dell’ordine, che “forse rapiscono Moro”. A sequestro avvenuto, e su segnalazione di Cervone, il capo della Polizia incaricò il vice questore Umberto Improta di ascoltare la signora. Che fu interrogata nel pomeriggio e risultò senza precedenti sfavorevoli e sana di mente, “in un appunto redatto su carta intestata del Ministero dell’Interno, senza destinatario né protocollo”, come si legge nella relazione del presidente della nuova commissione parlamentare d’indagine sul caso Moro, il deputato Giuseppe Fioroni, pubblicata il 10 dicembre scorso nell’apposito bollettino della Camera. L’appunto tuttavia conteneva anche “osservazioni aggiuntive” che, secondo la relazione di Fioroni, minavano alla radice l’attendibilità della signora, ritenuta “di livello culturale molto scadente, se non inesistente, abituata ad ascoltare soltanto canzonette e, quindi, di scarsissima ginnastica mentale”. Pertanto la donna, secondo l’impressione del dottor Improta riferita nella relazione di Fioroni “in buona fede e sotto la spinta emotiva della drammatica notizia avrebbe frainteso il significato di un comunicato radio riguardante Moro”. E la cosa, in mancanza di una registrazione delle trasmissioni di quella radio da parte dei centri autorizzati di controllo, finì nella nebbia, anche giudiziaria, fra le inutili proteste levate dopo qualche mese da Cervone in una intervista a Famiglia Cristiana. La nuova commissione parlamentare d’inchiesta ha giustamente riaperto e approfondito la vicenda. La relazione di Fioroni dice: “Eppure Improta conosceva personalmente Rossellini”, il direttore cioè della radio ascoltata dalla collaboratrice di Cervone. “Esisteva da tempo un contatto, riconosciuto da entrambi anche nel corso di audizioni parlamentari. Si trattava anzi di un rapporto privilegiato, secondo quanto riferito a collaboratori della Commissione dall’allora funzionario della Digos Vittorio Fabrizio”. Che “lasciò il servizio poco dopo la strage di via Fani, rimase del tutto estraneo all’inchiesta e non fu mai ascoltato dai magistrati inquirenti”, ha tenuto ad annotare Fioroni mostrando uno stupore condivisibile. Inoltre, Improta “circa due settimane prima dei fatti di via Fani, secondo una dichiarazione del tutto attendibile, avrebbe ricevuto da Rossellini significative informazioni su eventi eclatanti in vista”. Ma non è finita. La relazione Fioroni fa rilevare che “Rossellini conviveva con Giovanna Francesca Chantal Personè, militante di sinistra, sospettata all’epoca di essere vicina alle Brigate Rosse, coinvolta in indagini per reati associativi”, per cui “tale circostanza rende possibile l’ipotesi ch’egli potesse disporre di elementi di conoscenza tali da consentirgli di formulare, sia pure in forma dubitativa, previsioni affidabili circa iniziative di tipo terroristico”. Previsioni, d’altronde, confermate dallo stesso Rossellini davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi presieduta dall’allora senatore Giovanni Pellegrino ammettendo di avere già riferito nell’autunno del 1978 ad un giornalista del francese Le Matin che “nel suo ambiente si parlava molto di un eventuale attentato delle Brigate Rosse in coincidenza con la votazione alla Camera del governo e con l’entrata del Partito Comunista nella maggioranza”. No. Non è finita neppure con questo. Il presidente della Commissione ha voluto inserire nella sua relazione il testuale racconto fatto di quella tragica mattina del 16 marzo 1978 nella Questura di Rona, e non solo in via Fani, da Vittorio Fabrizio: “Già nelle prime ore della mattinata circolava la notizia, nell’ambiente dell’Ufficio politico della Questura, che il rapimento fosse stato annunziato da Radio Città Futura” prima dell’evento. “Nel corso della giornata – ha riferito sempre l’ex funzionario della Digos – ho commentato riservatamente questo dato con i miei colleghi dottor Infelisi –da non confondere, osservo, con l’omonimo magistrato inquirente, Luciano – e dottor De Stefano, entrambi a conoscenza della stessa circostanza. Si è trattato di un colloquio molto cauto perché eravamo tutti consapevoli” dell’abnormità della situazione “meritevole di approfondimento”. “Mi resi immediatamente conto – continua il racconto – che se la notizia fosse stata rappresentata al dirigente dell’ufficio politico, dottor Spinella, in tempo reale, come la rilevanza dell’evento lasciava presumere, ciò avrebbe avuto conseguenze colossali”. Avrebbero potuto quanto meno allertare telefonicamente la scorta di Moro, e sventare l’operazione, par di capire. Il caso – o solo il caso? – volle tuttavia che proprio il dirigente dell’ufficio politico della Questura, Domenico Spinella, corresse sul posto del sequestro in tempi così rapidi da precedere di poco l’allarme della sala operativa, secondo orari e tempi su cui la commissione ha attentamente indagato ascoltando, fra gli altri, l’allora autista del dirigente di polizia, Emilio Biancone.
Sequestro Moro, tutte le ombre descritte dalla Commissione Fioroni. Terzo e ultimo di una serie di tre articoli dell'editorialista Francesco Damato. Ammetto che fui fra gli scettici, come il mio amico Mario Sechi, quando comparvero le prime notizie sulla decisione della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro di riaprire anche il capitolo del bar all’angolo tra via Fani e via Stresa. Dietro le cui fioriere la mattina del 16 marzo 1978 si erano nascosti i brigatisti rossi travestiti da avieri per assaltare le auto su cui viaggiavano il presidente della Dc e la scorta. Di quel bar – noto come Olivetti, dal cognome di uno dei proprietari, di nome Tullio – si era tanto scritto e discusso, all’epoca del sequestro e dopo, che mi parve curioso il tentativo di scoprire qualcosa ancora di inedito. Sbagliavo. La lettura dei passaggi della prima relazione del presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, a poco più di un anno dall’inizio delle indagini e a circa uno dalla fine, salvo proroghe, mi ha fatto drizzare i capelli. E vi spiego, anzi vi racconto, perché. E’ quanto meno inquietante la storia di quel bar, frequentato per un po’ anche dalla scorta di Moro, almeno sino a quando il maresciallo non notò qualcosa di talmente strano da sconsigliare alla figlia dello statista, Maria Fida, che ogni tanto vi andava pure lei, di mettervi più piede. Il caso – o solo il caso? – volle che quel locale chiudesse per fallimento nell’estate del 1977. E chiuso apparve, o fu, anche quella mattina. Eppure, a sequestro appena avvenuto, a quel bar potettero accedere per consumare qualcosa e fare le telefonate di servizio alle loro testate giornalisti e operatori televisivi. Alcuni dei quali, ascoltati dalla commissione, hanno raccontato di esserne poi stati bruscamente allontanati, ma non prima di avere notato, fra i presenti, “tre persone – dice Fioroni nella relazione – dai tratti somatici del Nord Europa che, tenuto conto delle uniformi dell’aeronautica da essi indossate e da alcune parole pronunciate da uno di loro, potevano provenire da un’area geografica di lingua tedesca”. Tedesche furono anche quelle grida di “achtung, acthung” ascoltate in via Fani nella fase finale dell’azione dei brigatisti dalla testimone Eleonora Guglielmo. Tedesche erano le targhe di un pullmino e di un’auto con uomini armati avvistate a Viterbo qualche giorno dopo il sequestro di Moro dal maresciallo dei Carabinieri Roberto Lauricella e segnalate alla Questura locale, dove il sottufficiale fu interrogato il 6 aprile. Seguirono anche deposizioni giudiziarie. Di almeno una di quelle targhe, il 18 maggio successivo, la polizia locale rinvenne in Germania resti bruciacchiati durante una perquisizione in una tipografia, non riuscendo però a ottenere risposte di chiarimento dal titolare. Tedesca era anche la nota terrorista Elisabeth von Dyck uccisa il 4 maggio 1979 a Norimberga in un conflitto a fuoco con la polizia, che le trovò addosso – riferisce Fioroni nella sua relazione- “una carta d’identità e una patente italiane falsamente intestate a tale Fiorella Marabucci, persona risultata completamente estranea agli ambienti terroristici”. Ma “il modulo di tale carta d’identità –si legge ancora nella relazione di Fioroni- faceva parte di uno stock di moduli in bianco rubati nel 1972 a Sala Comacina (Como)”, due dei quali “furono rinvenuti” nel 1978, durante il sequestro Moro, nel covo brigatista romano di via Gradoli, scoperto dalla Polizia per una curiosissima perdita d’acqua dalla doccia. Era la base a disposizione di Mario Moretti, il capo dell’operazione del sequestro di Moro. Tedeschi erano anche gli otto milioni di marchi, provenienti da un sequestro in Germania e riciclati in Italia proprio da Tullio Olivetti, indicato in “atti della polizia di prevenzione” come un trafficante di valuta dal trafficante d’armi Guardigli, finito nel 1977 sotto indagine giudiziaria con una ventina di persone e arrestato. “Ma Tullio Olivetti non venne colpito da alcun provvedimento”, annota Fioroni nella relazione. Probabilmente gli inquirenti diedero credito ad una perizia psichiatrica del criminologo Aldo Semerari, destinato ad essere ucciso nel 1982, e fatto trovare decapitato in auto a Ottaviano nei pressi dell’abitazione del camorrista Vincenzo Casillo, braccio destro di Raffaele Cutolo. In quella perizia Guardigli, la cui compagna Maria Pia Lavo aveva fatto parte peraltro della segretaria di Franco Evangelisti, il noto sottosegretario di Giulio Andreotti a Palazzo Chigi, venne definito “una personalità mitomane, con una condizione psicopatica di vecchia data e, allo stato, permanente”, per cui “i suoi atti e le sue dichiarazioni sono espressioni sintomatologiche di tale anomalia”. Insomma, nella strada del sequestro di Moro c’erano troppe tracce e ombre tedesche. Oltre al colonnello dei servizi segreti italiani Camillo Guglielmi, presente la mattina del 16 marzo 1978 da quelle parti per fare visita con la moglie ad un collega e trattenervisi a casa per colazione, anche lui finito, per quanto ormai morto, sotto le lenti della Commissione presieduta da Fioroni. Per non parlare degli altri misteri di quella maledetta strada e in quella non meno maledetta mattina: i due passeggeri della Honda passata dopo la strage per verificare la situazione, le fotografie scattate durante o dopo il sequestro dall’appartamento in cui abitava la giornalista Cristina Rossi, affrettatasi a consegnarne il rullino al magistrato Luciano Infelisi. Ma esso si perse, diciamo così, nei cassetti degli uffici giudiziari. E siamo ancora in via Fani e a quella mattina. Figuratevi il resto, successo ormai lontano da via Fani, in quei 55 giorni che precedettero l’ultimo atto della tragedia: l’uccisione di Moro nella Renault rossa posteggiata nel box del covo brigatista di via Montalcini, e poi lasciata in sosta in via Caetani, a mezza strada, simbolica e di fatto, fra le sedi nazionali della Dc e del Pci. E tutto questo mentre il presidente della Repubblica Giovanni Leone si accingeva a concedere autonomamente la grazia ad una terrorista, Paola Besuschio, contenuta nell’elenco dei 13 detenuti con i quali i brigatisti rossi avevano reclamato di scambiare Moro. Di quella grazia, i terroristi furono avvertiti in tempo per accelerare l’uccisione dell’ostaggio, evitando di dividersi, ancor più di quanto già non fossero, nella valutazione della sua congruità per il rilascio del prigioniero. Forza, Fioroni e la commissione d’inchiesta parlamentare che presiede. Buon anno, e buon lavoro.
RILETTURA CRITICA DELLA STORIA DELLE BRIGATE ROSSE E DEL RAPIMENTO DI ALDO MORO.
Moro e «i fasti del 40ennale»: il post che fa litigare gli ex Br. L’ex terrorista Balzerani: «Chi mi ospita?». Etro: «Vergogna, ci vediamo all’inferno», scrive Fabrizio Caccia il 15 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Brigatisti contro. A due mesi dall’anniversario di via Fani, 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro e dell’eccidio della sua scorta, compare un post su Facebook: «Chi mi ospita oltre confine per i fasti del 40ennale?». Il tono sembra ironico. Chi scrive, però, non è una persona qualunque: è Barbara Balzerani, l’ex «Primula Rossa» delle Br, che in via Fani quel giorno c’era, anche se non sparò. Il post sul profilo Fb della Balzerani è del 9 gennaio e proprio ieri, poco prima d’essere cancellato, viene letto da un altro ex brigatista, Raimondo Etro, che reagisce male e scrive a sua volta una lettera aperta («Signora Barbara Balzerani, mi rivolgo a lei...») per «chiederle di tacere semplicemente in nome dell’umanità verso le vittime, inclusi quelli caduti tra noi...». La missiva viene inviata per conoscenza a poche altre persone, tra cui Giovanni Ricci, figlio di Domenico, l’appuntato dei carabinieri che in via Fani guidava l’auto dove viaggiava Aldo Moro e l’onorevole dem Gero Grassi, membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Moro, che più tardi gli risponderà: «Grazie. Bravo!». Anche Etro, però, non è uno qualunque: a lui furono affidate in custodia le armi di via Fani, una settimana dopo la strage: «C’erano un kalashnikov, una mitraglietta, alcune pistole - ricorda l’uomo parlando col Corriere - Le ebbi, mi pare, da Morucci o Casimirri, le tenni in casa di mia madre per un po’, vicino piazza Mazzini...». Oggi ha 61 anni e vende libri e francobolli su eBay, ma si è fatto 16 anni di carcere per il concorso nella strage di via Fani (partecipò nei mesi precedenti soltanto alla preparazione) e nell’omicidio del giudice Riccardo Palma («La mattina del 14 febbraio 1978 - racconta - c’ero anch’io insieme a Prospero Gallinari, Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. Ma la mia pistola, diciamo, s’inceppò...»). La lettera aperta alla sua ex compagna di lotta è durissima. Etro, tra l’altro, scrive: «Dopo avere letto il suo commento su Facebook nel quale – goliardicamente dice lei – chiede di “essere ospitata oltre confine per i fasti del quarantennale”.... avendo anch’io fatto parte di quella setta denominata Brigate rosse...provo vergogna verso me stesso...e profonda pena verso di lei, talmente piena di sé da non rendersi neanche conto di quello che dice». C’è un passaggio, poi, piuttosto inquietante: «Per nascondere di avere agito per conto e per fini che con la cosiddetta rivoluzione proletaria non avevano nulla a che fare lei nega addirittura l’evidenza. Non voglio entrare nel merito delle chiacchiere “chi c’era o chi non c’era in via Fani, infiltrazioni, depistaggi o altro”. Mi limito a dire semplicemente: “ci hanno lasciati fare”....». Etro ha rotto da tempo coi “compagni” e col suo passato e anche la Balzerani, che compirà giusto domani 69 anni, oggi è una libera cittadina che scrive libri, avendo finito di scontare la sua pena nel 2011. Ma mai pentita nè dissociata. E nella lettera Etro la incalza: «Le Brigate rosse hanno rappresentato l’ultimo fenomeno di un’eresia politico-religiosa che nel tentativo maldestro di portare il Paradiso dei cristiani sulla terra...ha creato l’Inferno...Inoltre lei dimentica che chi le permette di parlare liberamente...è proprio quello Stato che noi volevamo distruggere...così pregni di quella stessa schizofrenia che al giorno d’oggi affligge i musulmani che da una parte invidiano il nostro sistema sociale, dall’altra vorrebbero distruggerlo». E la chiusa è altrettanto drammatica: «Il silenzio sarebbe preferibile all’ostentazione di sè, per il misero risultato di avere qualche applauso da una minoranza di idioti che indossano la sciarpetta rossa o la kefiah. Ci rivedremo all’Inferno».
La «postina» del sequestro che si dissociò in carcere. Il ritratto di Adriana Faranda, scrive il 3 Febbraio 2016 "Il Tempo". Fu tra i dirigenti della colonna romana delle Br che organizzò ed eseguì il rapimento Moro. Adriana Faranda, 66 anni, entrò a far parte delle Brigate Rosse con l’allora suo compagno Valerio Morucci nell'autunno 1976. Si distaccò dall’organizzazione per contrasti sulle scelte strategiche nel gennaio 1979. Arrestata il 30 maggio di quell’anno con Morucci, durante gli anni ottanta si è dissociata dal terrorismo e ha beneficiato in seguito delle riduzioni di pena previste dalla legge. È uscita dal carcere nel 1994.
Inizialmente la Faranda entra in Potere Operaio, nel 1970 sposa Luigi Rosati (all'epoca dirigente di PotOp): dalla loro unione nasce nel 1971 la figlia Alexandra Rosati. Nel 1973 con Bruno Seghetti, Morucci e altri fu tra i fondatori del gruppo estremistico Lotta Armata Potere Proletario, poi l’adesione alle Bierre. Con Mario Moretti, Prospero Gallinari, Seghetti, Morucci, Germano Maccari e Barbara Balzerani organizzò il sequestro di Aldo Moro. Durante i drammatici 55 giorni del sequestro fece la «postina». Insieme con Morucci si oppose all'omicidio del politico e questo la portò all'uscita dall'organizzazione, che lasciò per tentare di creare con Morucci e altri una nuova formazione di lotta armata, il Movimento Comunista Rivoluzionario (MCR) . Era però stata riconosciuta dopo il rapimento dello statista come colei che aveva acquistato le finte uniformi usate per compiere l'agguato di via Fani e fu in seguito arrestata a Roma nel maggio 1979 insieme al Morucci e a Giuliana Conforto. Fu tra i promotori del movimento della «dissociazione».
A Mosca la verità sulla morte dello statista. Stretti legami tra le Br e gli agenti del KGB. Antonio Selvatici "Nel luglio del 1977 c’è stato un incontro tra le Br e il KGB a Mosca": sono gli archivi dell’Est che parlano, scrive il 17 Marzo 2015 Il Tempo. "Nel luglio del 1977 c’è stato un incontro tra le Br e il KGB a Mosca": sono gli archivi dell’Est che parlano. La nuova inchiesta voluta dai familiari delle vittime di via Fani ed ora sulla scrivania del Procuratore generale presso la corte di Appello del Tribunale di Roma Antonio Marini riguardante il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della scorta non può e non deve concentrarsi solamente su quanto in quegli anni è accaduto in Italia. Il recinto del terrorismo era più ampio. Allora, quando la fumante P38 era un simbolo ed uno strumento di morte gli investigatori per cercare di arginare il fenomeno non si sono molto concentrati sulle ricerche oltre confine. Ora, dopo la caduta del Muro e la conseguente apertura degli archivi, sappiamo che uomini delle Brigate Rosse hanno avuto frequenti rapporti sia con altri gruppi terroristici, sia con agenti dell’Est comunista, sia con uomini del Pci conviti che la Resistenza del dopoguerra li «aveva traditi» non compiendo l’atto finale. Negli anni passati «sprovincializzare» le inchieste del terrorismo degli Anni di Piombo poteva significare affrontare o scontrarsi con noti ostacoli ideologici. Oggi i tempi sono cambiati. Sarebbe quindi un buon gesto se gli investigatori italiani che indagano per conto del procuratore Antonio Marini ritrovassero il testo di una richiesta di rogatoria internazionale partita da un reparto speciale della polizia di Praga che chiedeva a Roma delucidazioni riguardanti la mitraglietta Skorpion: la micidiale arma utilizzata per ammazzare Aldo Moro. Sembra proprio che gli investigatori d’Oltralpe fossero riusciti a mappare il percorso della Skorpion.
IL PCI SAPEVA? Cinque giorni prima che Aldo Moro venisse ucciso il noto dirigente del Pci Giorgio Amendola consigliò a Vladmir Koucky, l’allora ambasciatore cecoslovacco in Italia, di essere prudenti nel trafficare con i terroristi italiani. Era una questione di possibile imbarazzo politico: se si fosse venuto a sapere che un Paese amico trafficava con i terroristi rossi italiani, la cosa avrebbe creato difficoltà in casa Pci. Già nella primavera del 1976 il dirigente del Pci Salvatore Cacciapuoti si recò a Praga per comunicare ai cecoslovacchi che due brigatisti avevano raccontato al loro legale che erano stati addestrati in Cecoslovacchia. La figlia Alba di Salvatore Cacciapuoti ha successivamente confermato l’accaduto: «mio padre era stato incaricato da Enrico Berlinguer di denunciare al governo cecoslovacco l’appoggio del suo servizio segreto alle Brigate rosse».
LE BRIGATE ROSSE NELL’ARCHIVIO STASI DI BERLINO. I documenti custoditi negli sterminati archivi suggeriscono scenari poco considerati. Ad esempio, un documento della Stasi ci dice che nel settembre del 1978 si tenne a Dubrovnik in Jugoslavia il «Congresso segreto internazionale» dove erano presenti i rappresentanti di alcune organizzazioni terroristiche tra cui Settembre nero, FPLP di Wadi Haddad, le RAF e, naturalmente, le Brigate Rosse. Un altro documento: «nel luglio del 1977 c’è stato un incontro fra le Br e il Kgb a Mosca». Gli uomini della Stasi raccoglievano informazioni sui brigatisti italiani. Alcuni di loro (Renato Curcio, Lauro Azzolini, e Barbara Balzerani) sono intestatari di schede che ho potuto visionare. Su alcune di queste (allora non si usava il computer) vi è una nota, talvolta vergata a penna altre scritta a macchina, il cui testo è chiaro: «Album di amici sul terrorismo internazionale». Tale album è un elenco di terroristi compilato dal Kgb in forma di libro. Ma allora, chi era amico di chi? Poi un mistero, vi è un documento scomparso. È quello dell’«Archivio Moro» che troviamo citato nel retro della scheda di Valerio Morucci.
BRIGATE ROSSE E CARLOS. Lo stesso archivio di Berlino suggerisce anche che Giorgio Bellini «in base alle nostre conoscenze manterrebbe un collegamento continuativo con Carlos per conto delle Brigate Rosse». Carlos, vale a dire Ilich Ramìrez Sànchez, noto terrorista internazionale una volta a capo del gruppo «Separat», oggi è detenuto in Francia dove sta scontando l’ergastolo. Ed a Bettola, piccolo paese dell’Appennino piacentino noto per essere il luogo in cui è nato Pier Luigi Bersani, ha vissuto per molti anni sotto falso nome Antonio Expedito Carvalho Perera, poi riconosciuto come un fiancheggiatore di Carlos.
BRIGATE ROSSE, OLP E ARMI. Sappiamo che le Brigate Rosse venivano rifor nite di armi dai palestinesi. Non dimentichiamo i rapporti tra Mario Moretti e Abu Iyyad, la collaborazione è stata così descritta in un testo di terrorismo internazionale: «l’Olp consegna armi alle Br; membri delle Br hanno il permesso di addestrarsi nei campi palestinesi in Medio Oriente; l’Olp offre assistenza ai membri Br fuggitivi; le Br immagazzinano armi in Italia perché possono essere usati dall’Olp; le Br parteciperanno ad attacchi contro individui israeliani in Italia». Il 9 marzo 1982, durante un’udienza del processo al rapimento del generale americano James Lee Dozier, il brigatista Antonio Savasta ammise: «il rappresentante dell’Olp chiarì che il contatto con noi era stato richiesto per costruire un fronte di lotta contro Israele da noi, e con la Raf, in Germania. In seguito a ciò l’Olp ci inviò armi e esplosivo plastico».
«Per il Comunismo, Brigate Rosse» analisi storica di un fenomeno italiano. Rilettura critica della storia delle BR e del rapimento di Aldo Moro. Un approfondimento di Roberto Bartali. “Nel rileggere 18 anni di lotta armata in Italia ci si accorge che ogni tanto, qua e là, rimangono dei buchi neri nel terrorismo rosso, buchi coperti anche di segreti, spesso inconfessabili, di chi contro quella stagione di utopie rivoluzionarie e sanguinarie ha esercitato l'arma della repressione in nome dello Stato, ma anche di chi a Sinistra ha assistito alla gestazione ed alla nascita del fenomeno BR. A parziale conferma di ciò e nella stessa direzione del mio pensiero - per quanto sarebbe comprensibile se a qualcuno sembrasse inopportuno fare della mera dietrologia con quanto affermato da un ex terrorista - vanno le parole di Patrizio Peci, primo "pentito" delle Brigate rosse: "Lo stato allora [agli inizi dell'attività brigatista] - poi non più - ti lasciava gli spazi per poter sperare nella vittoria [...] lo stato poteva avere interesse a lasciare spazio alla lotta armata. Interessi velati, e magari contrapposti, ma certamente tesi a creare confusione. Altrimenti la lotta al terrorismo sarebbe stata più immediata e aspra. Ci avrebbero stroncato subito, come hanno fatto quando gli è parso il momento". Il fatto è che non ritengo ammissibile parlare di dietrologia quando in ballo ci sono anche dei morti ammazzati, ma soprattutto quando perfino a distanza di 25-30 anni dagli accadimenti continuano ad emergere nuovi frammenti di verità fino ad ora nascoste. Analizzando la storia della folle epopea brigatista, ci si accorge che sono presenti con una certa costanza degli accadimenti "particolari", delle coincidenze strane, così prodigiosamente tempestive, da far supporre - pur nella scarsità di prove certe - degli interventi esterni ben mirati in una determinata direzione. Non possiamo però esimerci dall'aprire una finestra su una certa parte della Sinistra italiana, ed in modo particolare su quell'area "dura" che dal 25 Aprile 1945 (ma forse sarebbe meglio far risalire il tutto alla c.d. "Svolta di Salerno") non ha mai smesso di sognare la rivoluzione. Un grigio alone di mistero e di 'indicibilità' avvolge ancora certi aspetti degli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale ed in particolare gli avvenimenti che riguardano l'evoluzione di quella che fu Resistenza una volta finita la guerra. Basti pensare alle violente polemiche che il volume scritto da Pansa (Il sangue dei vinti) ha provocato. Questo ha probabilmente due ordini di ragioni: il primo concerne il fatto che la Resistenza, in quanto elemento decisivo e fondante della Repubblica, ha assunto e continua ad avere -per certi aspetti giustamente- un alone di mito. Il partigiano che combatte per la libertà dal nazi-fascismo fa parte della storia, del costume e del sentire comune della maggior parte degli Italiani. Il mito del partigiano è dunque un elemento fondamentale dell'Italia post-fascista anche perchè aiuta -se così si può dire- a "ripulire" gli italiani dalla macchia costituita dal diffuso sostegno al regime di Mussolini e -perchè no- da quel brusco cambio di alleanze (che per taluni fu un vero tradimento o, come la chiama Elena Aga Rossi, una "morte della Patria") che fu l'8 Settembre. Il secondo aspetto che non consente una tranquilla trattazione dell'argomento "Resistenza dopo la fine della Resistenza" è invece decisamente meno nobile, e riguarda direttamente la storia del PCI, un partito che -è bene ricordarlo- ebbe poi un ruolo fondamentale nella sconfitta del terrorismo nostrano, ma che dall'immediato dopo-guerra ha mantenuto un reale dualismo al proprio interno: un lato ufficiale fieramente democratico, l'altro nascosto e con delle mai dome velleità insurrezionali. Detto per inciso, per 50 anni hanno convissuto all'interno del PCI due anime frontalmente contrapposte, e se è vero che l'ala dura che faceva riferimento a Pietro Secchia venne pesto messa in minoranza, è anche vero che soldi provenienti da Mosca sono continuati ad arrivare in Via delle Botteghe oscure fino a tempi relativamente recenti (vedere pubblicazioni di Victor Zaslavsky), e che una parte del PCI ha continuato ad avere con il blocco sovietico un atteggiamento di "vicinanza" nonostante i vari allontanamenti e strappi che via via il partito ufficialmente faceva dal PCUS. Non possiamo, in qualità di ricercatori, esimerci dal sottolineare come almeno 2000 uomini dalla fine della guerra sono passati dai campi di addestramento in Cecoslovacchia, e di questi una buona parte era costituita da ex partigiani che si erano macchiati di crimini nel dopoguerra e che per sfuggire alla giustizia italiana erano stati fatti scappare in quel paese con l'aiuto del PCI. Non possiamo non notare come già nel '52 il Sifar avesse scoperto che questi uomini frequentavano corsi di addestramento al sabotaggio, psicologia individuale e di massa, preparazione di scioperi e disordini di piazza, l'uso delle armi; come trasmissioni in lingua italiana provenissero da Praga (Radio Italia Oggi) con il preciso scopo di fornire una controinformazione comunista e che gli stessi uomini che gestivano le trasmissioni avevano teorizzato una insurrezione rivoluzionaria per il 1951 (abortita per una fuga di notizie che allarmò, e non poco, i nostri servizi segreti); come l'addestramento di giovani comunisti italiani sia proseguito fino a tutti gli anni '70, quindi ben dopo il seppur pesante strappo operato dal PCI dopo la fine della 'Primavera di Praga'. La domanda che ci si deve porre, in relazione all'argomento di questa pubblicazione, riguarda dunque i rapporti che le Brigate Rosse possono aver avuto con l'area dei Secchiani e con l'Stb (servizio segreto cecoslovacco) nei loro 15 anni di storia, se quel passaggio simbolico di armi dalle mani dei vecchi partigiani alle nascenti BR di cui parla Franceschini non nasconda in realtà anche un passaggio di contatti ed aiuti con i paesi di oltrecortina e con la Cecoslovacchia in primis, se con la morte di "Osvaldo" Feltrinelli nelle BR siano confluiti solo i membri dei suoi GAP o anche tutta la rete di contatti internazionali che l'editore-guerrigliero aveva. La storia la si scrive leggendo gli avvenimenti a 360°, senza paraocchi politici o ideologici, così se è corretto considerare l'influenza che gli USA, la CIA, certi ambienti filo-atlantici e l'area neo-fascista hanno avuto nella storia repubblicana, è anche corretto considerare la fazione che ad essi era contrapposta, comprese le eventuali 'macchie'; non per infangare ma per studiare a fondo, per capire. Tutto il percorso evolutivo delle Br è caratterizzato, a cominciare dai suoi albori, dalla presenza di infiltrati di varia natura; ciò, se non fosse abbondantemente provato da riscontri e testimonianze, risulterebbe inoltre perfino facile da ipotizzare alla luce del fatto che forze di varia natura erano riuscite ad insinuarsi con successo già negli ambienti più "caldi" del periodo storico che della lotta armata fu un po' la culla: il '68. E' da considerare che già nell'estate 1967 la CIA aveva promosso la "Chaos Operation" per contrastare il movimento non violento e pacifista americano che si batteva per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam. Quindi aveva deciso di estenderla su scala internazionale, in particolare in Europa, per contrastare anche il movimento studentesco-giovanile del vecchio continente, inquinandone gli assunti anti-autoritari e non violenti. L'operazione consisteva anche nell'infiltrazione, a scopo di provocazione, nei gruppi di estrema sinistra extraparlamentare (anarchici, trotzkisti, marxisti-leninisti, operaisti, maoisti, castristi) in Italia, Francia, Germania Occidentale con l'obbiettivo di accrescerne la pericolosità inducendo ad esasperare le tensioni politico-sociali con azioni aggressive, così da determinare un rifiuto dell'ideologia comunista e favorire spostamenti "a destra" (secondo la logica di "destabilizzare per stabilizzare"). In tale direzione - dunque una conferma di quanto detto - va anche un rapporto dedicato alla contestazione studentesca datato Febbraio 1971 e redatto in forma riservata proprio nell'ambito della "Operazione Chaos" dall'Ufficio Affari riservati del Viminale: "almeno all'origine si deve rilevare la spinta di qualche servizio segreto americano [alludendo alla CIA] che ha finanziato elementi estremisti in campo studentesco". Un ulteriore dato interessante lo ritroviamo nella lettura del resoconto sulla riunione del coordinamento delle forze di polizia che si tenne a Colonia il 19 Gennaio 1973 e dedicata al problema dell'infiltrazione nei gruppi terroristici Br e RAF e nei gruppi della sinistra extraparlamentare. Risulta infatti evidente che l'intendimento dei vari servizi segreti non era quello di predisporre semplici confidenti o informatori ma anche veri e propri terroristi, in grado di arrivare al vertice del gruppo da infiltrare. E che dire delle strane "premonizioni" avute dall'allora capo del SID, Miceli, nel 1974? Egli, interrogato innanzi al giudice tamburino nel settembre di quell'anno dichiarò con una inquietante lungimiranza: "Ora non sentirete più parlare di terrorismo nero, ora sentirete parlare soltanto di quegli altri". Alla luce di ciò, non appare sconvolgente scoprire che le infiltrazioni all'interno delle Br cominciarono piuttosto presto. La prima talpa di cui si hanno notizie certe fu Marco Pisetta; già compagno di Renato Curcio e di Mara Cagol alla libera università di Trento, grazie alla sua testimonianza (il suo memoriale, che sosterrà essergli stato ispirato direttamente da uomini dei servizi segreti, fornirà una prima e importante fonte, anche cronologica, di dati sulla nascita della Br) il 2 Maggio 1972 venne individuata la principale base milanese delle Br, in Via Boiardo, ed arrestato un primissimo nucleo di brigatisti. Ma all'interno delle Br l'Ufficio Affari Riservati del Viminale era riuscito ad infiltrare un altro agente, ed anzi era stato proprio questo - nome di battaglia "Rocco" - a prelevare materialmente il giudice Sossi insieme ad Alfredo Bonavita per portarlo alla così detta "Prigione del Popolo". Francesco Marra, questo il nome di battesimo di "Rocco", era un paracadutista addestratosi in Toscana e in Sardegna all'uso delle armi e con una sorta di specializzazione nella pratica delle "gambizzazioni" (della quale faranno ampio ricorso le Br nel corso degli anni) prima di entrare nelle Brigate Rosse; in seguito, a differenza di Pisetta, la doppia identità di Marra non è venuta alla luce, ed il suo nome è rimasto fuori da tutti i processi, stranamente coperto anche dal brigatista Alfredo Bonavita dopo il suo pentimento. Per sua stessa ammissione, Marra si era infiltrato nelle Br per conto del brigadiere Atzori, braccio destro del Generale dei Carabinieri Francesco Delfino. Tra gli avvenimenti "strani" della vita delle Br è impossibile non menzionare anche l'infiltrazione da parte dei Carabinieri di Silvano Girotto, la terza infiltrazione all'interno del gruppo nei suoi primi quattro anni di vita, un'ulteriore defayans della banda di Curcio e compagni che dimostra come a confronto con l'esperienza ed il mestiere del servizio di sicurezza dello stato - o quantomeno di parte di esso - le prime Brigate Rosse possano essere tranquillamente definite come "Tupamaros all'amatriciana". Reso noto dai rotocalchi come "Frate Mitra", Girotto era un ex francescano con dei trascorsi - a dire il vero poco chiari - di guerrigliero in Bolivia ma che tra le forze extraparlamentari (Lotta Continua in primis) godeva di una fama di tutto rispetto, e che riuscì a far catturare in un sol colpo due capi storici delle Brigate Rosse del calibro di Alberto Franceschini e Renato Curcio, l'8 Giugno 1974. Come racconta lo stesso Franceschini "Frate mitra appena rientrato in Italia cercò subito di entrare in contatto con le Br [...] si fece precedere da alcune lettere dei dirigenti del Partito Comunista di Cuba in cui si attestava di essere addestrato alla guerriglia e vantò rapporti anche con i Tupamaros. La cosa non poteva non interessarci". Dopo alcuni tentennamenti i brigatisti si fecero convincere ad incontrare Girotto, e durante il terzo incontro, a Pinerolo, la trappola dei Carabinieri scattò inesorabile. I lati oscuri riscontrabili in merito a questo arresto sono diversi: anzi tutto bisogna fare riferimento ad una telefonata ricevuta dalla moglie dell'avvocato - con note simpatie brigatiste - Arrigo Levati che mise in preallarme l'organizzazione sui rischi di quell'ultimo appuntamento. Da più parti, ivi compresi i diretti interessati, si ipotizza che gli autori di quella telefonata furono gli agenti del Mossad, il servizio segreto israeliano, da sempre interessato alle attività delle Br per via dell'instabilità che la loro azione terroristica avrebbe potuto portare ad un governo - quello italiano, appunto - che da tempo stava seguendo una linea in politica estera definibile come filo-araba. A confermare questa ipotesi ci sono i racconti degli stessi terroristi, (Moretti e Peci) i quali affermano che già nel 1974 il Mossad si era fatto vivo con l'organizzazione offrendo armi e denaro, in più, per rompere la loro iniziale diffidenza, gli posero - come si suole dire - su di un piatto d'argento l'indirizzo del nascondiglio del "traditore" Pisetta, che era stato portato dalla polizia italiana in Germania. Alla luce di questi elementi non ritengo impossibile dare credito alla veridicità di questa ipotesi, una congettura che, tra le altre cose, è condivisa sia da Giorgio Bocca sia - però solo indirettamente - dal Generale Delfino, ma che non cambia l'interessante realtà delle cose: attorno alle Br ruotavano, fin dall'inizio, tutta una serie di interessi particolari, anche molto differenti tra loro. E' un fatto, comunque, che la telefonata di avvertimento ci fu veramente, e fu lo stesso Moretti ad essere incaricato di darsi da fare per cercare di rintracciare Curcio prima dell'appuntamento con Girotto; una ricerca che però si rivelò vana, come altrettanto vane e poco convincenti sono - a mio modesto parere - le spiegazioni fornite da Moretti per giustificare il suo fallimento in quella occasione. E poi, come ha scritto Franceschini, pur conoscendo ora e luogo dell'appuntamento arrivò con un'ora di ritardo, quando eravamo già stati arrestati". Come afferma sempre Franceschini: "Quella era la seconda volta che i servizi di sicurezza avrebbero potuto arrestare tutti i brigatisti e porre fine all'esperienza delle Br [...] noi avevamo concordato con Girotto di dare vita a una scuola di addestramento, da lui diretta, alla cascina Spiotta, dove nel giro di un mese tutti gli appartenenti all'organizzazione, un po' alla volta, avrebbero partecipato ad un breve corso di addestramento. Se chi lo aveva infiltrato avesse chiesto a Girotto di continuare a stare al gioco dopo un mese sarebbe stato in grado di far arrestare non solo me e Curcio, ma tutti i brigatisti. E il fatto che questo non sia avvenuto è la riprova che l'organizzazione delle Br poteva tornare comoda per qualcuno delle alte sfere dei servizi di sicurezza e del potere". Si deve fare menzione anche del vertice che i dirigenti delle Br avevano avuto giorni prima a Parma, una riunione durante la quale era stato deciso di estromettere Moretti dal "Comitato Esecutivo" per via dell'intransigenza dimostrata durante la trattativa per la liberazione di Sossi. Questa dato va tenuto presente allorché alcuni osservatori - e Sergio Flamigni tra tutti - ritengono che Mario Moretti non abbia volutamente rintracciato Curcio e Franceschini il giorno del loro arresto. L'ipotesi si accredita maggiormente se si considerano altre due (chiamiamole così) "stranezze": prima di tutto il fatto che se i Carabinieri avessero aspettato solamente qualche ora in più sarebbero stati in grado di annientare tutta la dirigenza delle Brigate Rosse arrestando, appunto, anche Moretti. La seconda cosa bizzarra è che nonostante durante le proprie esposizioni davanti alla "Commissione Moro" il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa abbia parlato chiaramente di foto scattate a tutti i brigatisti durante i primi incontri con Frate Mitra (e Moretti era presente al 2° di quegli incontri), le foto segnaletiche su Moretti non comparvero mai al processo di Torino contro il "nucleo storico" delle Br, ed in più egli non sarà coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria prima del caso Moro. Insomma, le sue foto segnaletiche erano note alle forze di polizia almeno quanto la sua identità, però - misteriosamente - non fecero la loro apparizione ufficiale se non molto più tardi. La conclusione cui si vuole arrivare, e che appare tanto perfida per lucidità quanto logica, è che per un motivo o per un altro le forze dell'ordine lasciarono volutamente in libertà Mario Moretti, in modo che egli potesse riorganizzare le Br a modo suo, seguendo cioè una logica di spietata "militarizzazione", base di partenza necessaria per una svolta sanguinaria del gruppo. Proprio come voleva il Mossad. Per correttezza vanno menzionate altre ipotesi plausibili circa il mancato avvertimento di Curcio da parte di Moretti: la prima va obbligatoriamente in contro a quanto raccontato dallo stesso Moretti, e secondo la quale lui avrebbe profuso il massimo impegno nella ricerca dei suoi compagni di avventura, ma solo il caso avrebbe influito negativamente sulla sua caccia. L'altra ipotesi che mi viene di fare, in vero trascurata dagli altri osservatori, è che Moretti abbia di sua volontà evitato di avvertire della trappola il duo Franceschini-Curcio in virtù dell'estromissione dal Comitato Esecutivo impostagli nella riunione di Parma. E' - la mia - un'ipotesi che, volendo considerare anche l'aspetto umano della storia, collegando quindi il tutto al risentimento personale ed all'ambizione di Moretti, si pone a cavallo tra chi sostiene la completa mala fede del futuro leader del gruppo e chi invece si dice convinto delle sue buone intenzioni. In direzione opposta si va invece considerando un altro fatto. Nella riunione di Parma, infatti, erano state altre le cose interessanti al vaglio delle Br, e di ciò parla lo stesso Renato Curcio nel suo libro-intervista "A viso aperto". Raccontando la storia della sua prima cattura, Curcio dice che Mario Moretti, che doveva avvertirlo del pericolo che correva, "non ritiene necessario agire subito perché sa che io e Franceschini stiamo lavorando a un certo libricino in una casa di Parma e che da quel posto non mi sarei mosso fino a sabato notte o domenica mattina". Alla domanda di Scialoja " Di che libricino si trattava?", Curcio rispose: " Avevamo compiuto un'incursione negli uffici milanesi di Edgardo Sogno impadronendoci di centinaia di lettere e elenchi di nomi di politici, diplomatici, militari, magistrati, ufficiali di polizia e dei carabinieri [insomma tutta la rete delle adesioni al cosiddetto "Golpe bianco" preparato dall'ex partigiano liberale con l'appoggio degli americani ]. Giudicavamo quel materiale esplosivo e lo volevamo raccogliere in un documento da rendere pubblico. Purtroppo avevamo tutto il malloppo con noi al momento dell'arresto e così anche quella documentazione preziosa finì in mano ai carabinieri. Qualche anno dopo, al processo di Torino, chiesi al presidente Barbaro di rendere noto il contenuto del fascicolo che si trovava nella mia macchina quando mi arrestarono e lui rispose imbarazzato: "Non si trova più" [...] Qualcuno deve averlo trafugato dagli archivi giudiziari ". Sarebbe interessante invece sapere qualcosa di più su quella sparizione. Anche in questo caso, l'intervento provvidenziale dell'infiltrato Girotto, oltre ad arrestare Franceschini e Curcio, servì a recuperare delle carte "imbarazzanti", dello stesso tipo dei memoriali e dei resoconti dell'interrogatorio di Moro nella Prigione del popolo... A questo punto un'altra supposizione nasce spontanea: l'arresto di Pinerolo da parte dei Carabinieri scattò in quanto essi sapevano della enorme pericolosità delle carte cadute in mano delle Br e dunque dovevano recuperarle in ogni modo? In questa ipotesi altri due scenari si aprono innanzi a noi: col primo si considera che fu dunque merito di quell'arresto "urgentemente anticipato" se Moretti ed il resto delle Br si salvarono dalla cattura. Il secondo considera poi la sicurezza con la quale i Carabinieri, arrestando Curcio e Franceschini, agirono al fine di trovare - assieme a loro - i fogli in questione. In questo caso chi altro della Direzione Strategica - se non Moretti - era a conoscenza del fatto che quelle carte erano proprio in viaggio per Pinerolo (e dunque può aver fatto una "soffiata")? Quella di Moretti è dunque una figura centrale nell'analisi del fenomeno Br, in primis perché ha vissuto quasi l'intera avventura del gruppo [girando - tra le altre cose - impunemente per lo stivale durante il rapimento Moro nonostante fosse il nemico pubblico n°1], poi perché a lui è legata la gestione del rapimento di Aldo Moro, apoteosi di quelle "coincidenze" particolari di cui adesso parleremo. E' da sottolineare come nel 1970 Nel 1970 un gruppo fuoriuscito dal CPM e composto, oltre che da Moretti, da Corrado Simioni, Prospero Gallinari, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, andò a creare una struttura "chiusa e sicura", superclandestina che potesse entrare in azione, come racconta Curcio, "...quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati". Dopo poco tempo il gruppo (fatti salvi Moretti e Gallinari) si trasferì a Parigi dove, sotto la copertura della scuola lingue Hyperion, agiva - secondo alcuni - come una vera centrale internazionale del terrorismo di sinistra. I contatti tra Moretti e il Superclan continuarono nel corso degli anni 12, ed è singolare sia il fatto che a gestire il rapimento Moro fu proprio il duo Moretti-Gallinari, lo stesso che rappresentò nel corso degli anni l'ala più militarista e sanguinaria delle Br, sia che la stessa scuola aprì un ufficio di rappresentanza a Roma in via Nicotera 26 [nello stesso edificio dove avevano sede alcune società di copertura del SISMI] poco prima del rapimento del leader DC per poi chiuderla immediatamente dopo, nell'estate del '78. Sulla "questione Moretti" Franceschini parla chiaro: " Non ho sempre pensato che Moretti fosse una spia ", " La prima persona che mi ha detto questo è stato Renato [Cucio, ndr.]. Era nel 1976 alle Carceri Nuove di Torino e Curcio era stato da poco arrestato per la seconda volta: Il dubbio era nato proprio dalla dinamica del suo arresto. Dai sospetti di Curcio ebbe origine un'inchiesta interna fatta da Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, i quali aprirono un'istruttoria che però non portò ad alcun risultato", ma un'altra inchiesta era già stata aperta "da Giorgio Semeria ", che già dall'esterno aveva avuto il sospetto "che Mario fosse una spia per una serie di cose avvenute a Milano". Franceschini racconta anche, che dopo il suo arresto (nel 1974) fu interrogato dal giudice Giancarlo Caselli che gli mostrò le foto degli incontri con frate Mitra "Le foto in cui c'ero io - dice Franceschini - e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Mi chiese se lo conoscevo e risposi di no. Lui si mise a ridere e mi disse: "Se non lo conosce, almeno si ponga il problema del perché l'operazione è stata fatta quando c'era lei e non quando c'era quella persona" ". Riporto questa testimonianza perché trovo doveroso completare il quadro, ad ogni modo non è difficile ipotizzare che usando quelle parole il giudice Caselli avesse avuto in mente, in qual momento, altre mire; resta comunque il fatto che alcune di quelle foto non sono più state trovate. Da citare infine una frase pronunciata dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di fronte alla Commissione Moro: "...le Brigate rosse sono una cosa, le Brigate rosse più Moretti un'altra ". Prima di passare oltre mi è sembrato quantomeno doveroso citare l'ex capo dell'ufficio "D" del SID Generale Maletti, ed in particolare una sua intervista rilasciata al settimanale Tempo nel giugno 1976 in merito alle Br: "Nell'estate del 1975 [...] avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio [...] sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili, anche per censo e cultura e con programmi più cruenti [...] questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere [...] arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire "di sinistra" ". Il culmine delle "stranezze" inerenti le Brigate rosse lo ritroviamo però nel rapimento dell'On. Moro. I 55 drammatici giorni del sequestro dello statista DC furono segnati fin dall'inizio da una serie incredibile di "coincidenze". Iniziamo col dire che quella mattina del 16 Marzo 1978, giunta in via Fani l'auto di Aldo Moro (una normalissima "auto blu", incredibilmente non blindata se consideriamo il periodo e l'importanza del personaggio) e quella della scorta vengono bloccate da un commando delle Brigate Rosse che apre il fuoco. In pochi istanti fu la strage: vengono uccisi gli agenti Iozzino, Ricci e Rivera, Francesco Zizzi, gravemente ferito, morirà poco dopo, il maresciallo Leonardi viene freddato mentre girato su di un fianco cerca di far da scudo all'onorevole. Aldo Moro venne prelevato a forza e trascinato in una FIAT 128 blu scuro targata "Corpo Diplomatico" che in breve si dileguò. Il trasbordo del presidente DC - secondo la testimonianza diretta di un'involontaria spettatrice dell'accaduto - avvenne piuttosto lentamente, una calma quasi surreale visto ciò che era appena accaduto. Intanto al numero 109 di Via Fani, un altro fortuito spettatore - Gherardo Nucci - scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando; dopo i primi scatti il Nucci sente il rumore delle sirene e vede arrivare sul posto un auto della polizia seguita poi da altre. Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura inquirente dalla moglie, non si saprà più nulla; qualche "manina" le ha fatte sparire. A tale proposito è da sottolineare come quelle foto, che evidentemente avevano immortalato qualcosa (o meglio qualcuno) di importante, furono al centro di strani interessamenti da parte di un certo tipo di malavita, la 'drangheta calabrese, di cui avremo modo di parlare in seguito e che ad una prima analisi sembrerebbe un'intrusione completamente fuori luogo trattandosi di terrorismo di sinistra, dunque politico. Ecco, ad esempio, uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sull'apparecchio di Sereno Freato, "uomo ombra" di Moro, nel caso specifico egli stava parlando con l'On. Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro:
Cazora: "Un'altra questione, non so se posso dirtelo".
Freato: "Si, si, capiamo".
Cazora: "Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo".
Freato: "Quelle del posto, lì?"
Cazora: "Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perchè uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù".
Freato: "E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove?"
Cazora: "No, no ! dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro".
Freato: "Capito. E' un pò un problema adesso".
Cazora: "Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?"
Freato: "Bisogna richiedere un momento, sentire".
Cazora: "Dire al ministro".
Freato: "Saran tante!"
Traspare lampante dunque la preoccupazione di certi ambienti malavitosi calabresi, le foto scattate dalla terrazza di casa Nucci avrebbero potuto portare gli inquirenti su di un sentiero piuttosto pericoloso sia per la persona loro "cara", sia per la precisa ricomposizione dello scenario di quella tragica mattina. Ecco poi un altro singolare accadimento: lo stesso giorno dell'eccidio di via Fani alle ore otto di mattina la notizia che stava per essere compiuta un'azione terroristica ai danni di Moro fu diffusa da un'emittente radiofonica, Radio Città Futura, da parte del suo animatore Renzo Rossellini. Poiché non si può pensare ad una divinazione, né appare credibile che si trattasse della conclusione di un ragionamento politico collegato agli avvenimenti parlamentari che nella stessa giornata sarebbero avvenuti (l'inizio del dibattito alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo di solidarietà nazionale), non resta che concludere che, nonostante la rigida compartimentazione di tipo militare che caratterizzava le Br (il famoso "cubo di acciaio" di cui ha parlato tra gli altri anche Prospero Gallinari) da qualche crepa le notizie sulla preparazione dell'agguato fossero filtrate nell'area magmatica degli ambienti dell'Autonomia Romana (con cui Rossellini era in contatto), che oggi sappiamo fossero stati abbondantemente infiltrati da parte delle forze dell'ordine. Tra l'altro la sede della radio era distante pochi passi da quella del "Collettivo di Via dei Volsci", sede storica dell'Autonomia romana. Lo stesso Rossellini il 4 ottobre '78 dichiarò in una intervista al quotidiano francese Le Matin (ma successivamente apparve anche su "Lotta Continua") che: "spiegavo che le Br avrebbero in tempi molto ravvicinati, poteva anche essere lo stesso giorno, compiuto un'azione spettacolare, e tra le ipotesi annunciavo anche la possibilità di un attentato contro Moro". Successivamente Rossellini smentì il contenuto dell'intervista, l'annuncio quel 16 Marzo era però stato ascoltato da diversi testimoni, casualmente non dal Centro di ascolto dell'Ucigos (che registrava ed ascoltava tutte le radio private...) che incredibilmente interruppe la registrazione dalla 8,20 alle 9,33. Un'altra cosa che salta subito agli occhi è la particolarità della data scelta dalle Br per portare a termine l'azione, un giorno simbolo per tutti i nemici del c.d. Compromesso Storico. Le testimonianze dei brigatisti dissociati, anche su questa scelta, non fanno alcuna chiarezza: Valerio Morucci - uno dei componenti del gruppo di fuoco - riferendo sull'accaduto ha affermato in più di un'occasione che quello in pratica era solo un tentativo, e che nel caso l'auto di Moro quella mattina non fosse giunta, le Br avrebbero aspettato anche il mattino dei giorni seguenti. Di fatto però la sera prima dell'agguato vennero squarciate le gomme del fioraio che ogni mattina sostava in Via Fani, e ciò rende sicuro che l'azione fosse stata programmata per il 16 Marzo. Come però le Br potessero essere sicure del passaggio di Moro e della sua scorta da quella via proprio quella mattina, alla luce del fatto che il percorso veniva cambiato tutte le mattine, resta tutt'oggi un mistero. Compiuta la strage e sequestrato Moro i terroristi riuscirono a dileguarsi grazie ad una sorprendente coincidenza: una volante della polizia stazionava come ogni mattina in Via Bitossi nei pressi del giudice Walter Celentano, luogo dove stavano per sopraggiungere le auto dei brigatisti in fuga; proprio qualche istante prima dell'arrivo dei brigatisti, un ordine-allarme del COT (centro operativo telecomunicazioni) fece muovere la pattuglia. In via Bitossi era parcheggiato il furgone con la cassa di legno sulla quale sarebbe stato fatto salire Moro. Un tempismo perfetto. I brigatisti avevano la certezza che quella volante si sarebbe spostata? L'unica certezza cui possiamo fare appello per questa circostanza è che tra i reperti sequestrati a Morucci dopo il suo arresto verrà trovato un appunto recante il numero di telefono del commissario capo Antonio Esposito (affiliato alla P2...), in servizio guarda caso proprio la mattina del rapimento. Secondo il racconto degli esecutori, il commando brigatista, una volta effettuato un cambio di auto nella già citata Via Bitossi, con il sequestrato chiuso in una cassa contenuta in un furgone guidato da Moretti e seguito da una Dyane al cui volante era Morucci, fa perdere le proprie tracce. Le Br per portare a termine il sequestro del segretario del maggior partito politico italiano e fronteggiare eventuali posti di blocco fecero uso solamente di due auto, veramente strano se si considera che per rapire Valeriano Gancia le stesse Br ne avevano usate tre. I dubbi si fanno insistenti se si pensa che, sempre secondo il racconto fatto dai terroristi, il trasbordo dell'On. Moro sul furgone che doveva portarlo nel covo-prigione di Via Montalcini avvenne in piazza Madonna del cenacolo, una delle più trafficate e per giunta piena zeppa di esercizi commerciali a quell'ora già aperti, mentre il furgone che doveva ospitare il rapito (e del quale, al contrario delle altre auto usate, non verrà mai ritrovata traccia) era stato lasciato privo di custodia, in modo tale che se qualcuno avesse parcheggiato in doppia fila, le Br avrebbero compromesso tutta l'operazione. Adriana Faranda in merito a questo particolare - anche di fronte alla Commissione stragi - ha risposto che in caso di contrattempi di questo tipo Moretti avrebbe portato il prigioniero alla prigione del popolo con l'auto che aveva in quel momento, un'affermazione alla quale non mi sento di credere visto l'inutile pericolo che i brigatisti avrebbero corso e considerando che, come hanno più volte dimostrato dimostrato, non erano affatto degli sprovveduti. Non è però difficile ipotizzare che i brigatisti vogliano coprire qualche altro compagno che magari non stato ancora identificato. Poco dopo la strage un tempestivo black-out interruppe le comunicazioni telefoniche in tutta la zona tra via Fani e via Stresa, impedendo così le prime fondamentali chiamate di allarme e coprendo di fatto la fuga delle Br. Secondo il procuratore della Repubblica Giovanni de Matteo - ma anche per gli stessi brigatisti - l'interruzione venne provocata volontariamente, tutto il contrario di quanto sostenuto dall'allora SIP, che attribuì il blocco delle linee al " sovraccarico nelle comunicazioni ". Su questo punto i brigatisti hanno affermato che il merito di tale interruzione era da attribuirsi a dei "compagni" che lavoravano all'interno della compagnia telefonica. Però coincidenza volle che il giorno prima (il 15 Marzo alle 16:45) la struttura della SIP che era collegata al servizio segreto militare (SISMI), fosse stata posta in stato di allarme, proprio come doveva accadere in situazioni di emergenza quali crisi nazionali internazionali, eventi bellici e...atti di terrorismo. Una strana premonizione visto che era giusto il giorno prima del rapimento di Moro. Un mistero inerente al giorno del rapimento riguarda poi la sparizione di alcune delle borse di Moro. Secondo la testimonianza di Eleonora Moro, moglie del defunto presidente, il marito usciva abitualmente di casa portando con se cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. La signora Moro in proposito ha delle precise convinzioni: " I terroristi dovevano sapere come e dove cercare, perché in macchina c'era una bella costellazione di borse ". Nonostante l'enorme quantità di materiale brigatista sequestrato negli anni successivi all'interno delle numerose basi scoperte, delle due borse di Moro non è mai stata rinvenuta traccia, un fatto di rilievo se si considera soprattutto il contenuto dei documenti che il presidente portava con se. Corrado Guerzoni, braccio destro dell'onorevole Moro, ha affermato che con ogni probabilità quelle borse contenevano anche la prova che il coinvolgimento del presidente DC nello scandalo Lockheed era stato frutto di una "imboccata" fatta dal segretario di stato americano, Kissinger. Un punto, questo, da tenere molto in considerazione, come suggerito dalle tesi del Partito Operaio Europeo. Questo delle borse scomparse (e dei documenti da esse contenute...) è un punto sul quale l'alone di mistero tarda a scomparire, tant'è che nea relazione del presidente della Commissione stragi del Luglio '99, il senatore Pellegrino continua ad indicarlo come di cruciale importanza. Chi era veramente presente quella mattina in via Fani? Le Commissioni parlamentari hanno ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione (cioè di quella divisione del Sismi che controllava Gladio...). Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci - esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di Bologna - ha confermato che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con via Fani, perché, com'egli stesso ha detto: " dovevo andare a pranzo da un amico ". Dunque, benché si possa definire quantomeno "singolare" presentarsi a casa di un amico alle nove di mattina per pranzare, sembra addirittura incredibile che nonostante a duecento metri di distanza dal colonnello ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli non sentì nulla di ciò che era avvenuto ne tanto meno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse accadendo. Ma il particolare più inquietante è che il Guglielmi non era un gladiatore qualsiasi, bensì colui che nel campo di addestramento sardo di Capo Marragiu si occupava dell'addestramento delle truppe per le azioni di comando... A dire il vero l'incredibile presenza a pochi metri dal luogo della strage di Guglielmi è stata rivelata solo molti anni dopo l'accaduto, nel 1991, da un ex agente del SISMI - Pierluigi Ravasio - all'On. Cipriani, al quale lo stesso confidò anche che il servizio di sicurezza disponeva in quel periodo di un infiltrato nelle Br: uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco" ed il quale avvertì con mezz'ora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Ad ogni modo resta il dato di fatto, perché ormai appurato, che la mattina del rapimento di Aldo Moro un colonnello dei Servizi segreti si trovava nei pressi di via Fani mentre veniva uccisa la scorta e rapito il presidente della DC e in più lo stesso ha taciuto questo importante fatto per più di dieci anni. Per la verità oggi sappiamo anche che alcune precise segnalazioni su di un possibile attentato a Moro erano pervenute ai Servizi segreti, per esempio un detenuto della casa circondariale di Matera aveva segnalato che "è possibile il rapimento di Moro"; la soffiata venne riferita alla locale sezione dei Servizi, ma, secondo quanto riferito dal generale Santovito (P2) essa giunse al SISMI centrale solamente a sequestro già avvenuto. È quantomeno singolare che una segnalazione così precisa, e che avrebbe dovuto riguardare una personalità così importante per la vita politica del paese, abbia seguito un iter burocatico così lento invece di attivare immediatamente delle efficaci procedure di controllo. Evidentemente, e la presenza di Guglielmi in Via Fani lo dimostra, all'interno dei Servizi c'è chi aveva dato credito alla soffiata, ma invece di prevenire era andato a controllare lo svolgimento dei fatti. Del resto il collega di Guglielmi, da cui l'agente segreto si sarebbe dovuto recare per pranzo, interrogato, ha confermato che egli si era effettivamente presentato nella sua abitazione ma ha anche dichiarato che non era da lui atteso, perchè non era affatto programmato un pranzo. L'ultima clamorosa novità inerente il fatto che qualcuno, negli apparati dello Stato, sapeva che le Brigate Rosse volevano rapire Moro è emersa - a dire il vero qualche anno fa - dall'oceano del web, in un sito costruito da un ex agente segreto del Sid, Antonino Arconte. Nome in codice G.71, Arconte faceva parte di una struttura riservatissima, la Gladio delle centurie, che aveva compiti operativi oltre confine: trecento uomini superaddestrati, che si muovevano all'interno delle strategie della Nato. Arconte, sardo di Cabras, raccontò la sua storia di soldato e di 007 sul suo sito geocities.com/Pentagon/4031). Arruolatosi nel 1970 a soli 17 anni, partecipò a una selezione per entrare nei corpi speciali dell'Esercito. Passò poi al Sid (Servizio informazioni della Difesa), allora guidato dal generale Vito Miceli. Così cominciò la sua avventura in un mondo sotterraneo e silenzioso, muovendosi per tutto il mondo con la copertura di uomo di mare della marineria mercantile. Intervistato Arconte, l'agente G.71, parlò di una sua missione in Medio Oriente, che si intrecciò con la tragedia di Aldo Moro. Ecco cosa disse: "Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioé, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Recentemente una perizia ha confermato che il documento "a distruzione immediata" che è stato fornito da Arconte è originale. Insomma, Gladio sapeva, e con buon anticipo, che Moro stava per essere rapito. Ma torniamo alla mattna della strage. Come ormai accertato anche in sede parlamentare, un tiratore scelto addestratissimo armato di mitra a canna corta, risolse gli aspetti più difficili e delicati della difficile operazione: con una prima raffica, sparata a distanza ravvicinata, colpì i carabinieri Leonardi e Ricci seduti nei pressi di Moro, lasciando però illeso l'onorevole DC. Fu un attacco militare di estrema precisione: la maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell'ordine) sparata da una sola arma, un vero e proprio "Tex Willer" descritto dai testimoni (tra i quali un esperto di armi, il Lalli) come freddo e di altissima professionalità. Gli esperti hanno sempre concordato sul fatto che non poteva essere un autodidatta delle Br; nessuno dei membri del commando aveva una capacità tecnica di sparare come quello che alcuni testimoni hanno definito appunto "Tex Willer" ed invece, secondo le perizie, praticamente tutti i colpi letali furono sparati da uno solo dei membri del commando. A ciò si somma il fatto che, secondo una perizia depositata in tribunale, in Via Fani non si sparò solamente da un lato della strada (quello cioè dove si trovavano i quattro brigatisti i cui nomi sono ormai noti), mentre tale ricostruzione è sempre stata negata dai diretti interessati. L'azione, definita degli esperti come "un gioiello di perfezione, attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in azioni di commando", risulta veramente straordinaria se si pensa che, come ha testimoniato Adriana Faranda (anch'ella in azione quel giorno): "gli addestramenti all'uso delle armi da parte dei brigatisti erano estremamente rari perché era considerato pericoloso spostarsi fuori Roma". La stessa Faranda ha però recentemente aggiunto che: " ...era convinzione delle Brigate rosse che la capacità di usare un'arma non era tanto un presupposto tecnico ma piuttosto di volontà soggettiva, di determinazione, di convinzione che si metteva nel proprio operato". Insomma, una - poco credibile - apologia del "fai da te" a dispetto dell'estrema difficoltà dell'azione. Nata quasi venti anni fa dal lavoro di Zupo e Recchia autori del libro "Operazione Moro", la figura di del superkiller è stata ripresa, acriticamente in tutte le successive inchieste. Zupo e Recchia affermano: " Il lavoro da manuale è stato compiuto essenzialmente da due persone una delle quali spara 49 colpi l'altra 22 su un totale di 91 [...] il superkiller quello dei 49 colpi, quasi tutti a segno, quello che ha fatto quasi tutto lui, viene descritto con autentica ammirazione dal teste Lalli anche lui esperto di armi". La perizia balistica identifica sul luogo dell'agguato 91 bossoli sparati da 4 armi diverse. Ed effettivamente 49 bossoli si riferiscono ad un'arma e 22 ad un'altra. Occorre però notare che più volte la perizia mette in evidenza la parzialità delle risultanze data la vastità del campo d'azione e la ressa creatasi subito dopo il fatto: " Non è da scartarsi nella confusione del momento, che curiosi abbiano raccolto od asportato bossoli, o che essi calpestati o catapultati da colpi di scarpa od altro siano rotolati in luoghi ove poi non sono stati più trovati (ad esempio un tombino) ed infine che i bossoli proprio non siano caduti a terra perché trattenuti dentro eventuali borse, ove era trattenuta l'arma che sparava ". Bisogna quindi precisare che 91 non sono i colpi sparati, ma soltanto i bossoli ritrovati sul terreno. Tenendo presente che i colpi sparati potrebbero essere molti di più dei 91 bossoli ritrovati, il fatto che 49 colpi sono stati sparati da un'unica arma acquista un valore del tutto relativo. Se dai bossoli, poi, si passa all'analisi dei proiettili, il dato diventa ancor più aleatorio. La perizia, infatti, afferma: " I proiettili ed i frammenti di proiettili repertati sono relativamente molto pochi, un quarto circa dei proiettili che si sarebbero dovuti trovare in relazione al numero dei bossoli. Non tutti i proiettili, e forse la maggior parte, nello stato come sono, abrasi, dilaniati, deformati e scomposti sono utili per definire le caratteristiche della presumibile arma". Quanto poi all'affermazione dei 49 colpi quasi tutti a segno le risultanze balistiche dicono: " Nei cadaveri in particolare a fronte di almeno 36 ferite da armi fuoco sono stati repertati soltanto 13 proiettili calibro 9 mm 8 di cui sparati da un'arma e 5 da un'altra ". Come si può notare quindi è cosa certa, ed emerge dalla perizia, la presenza in Via Fani di un terrorista che esplode un numero veramente rilevante di colpi. L'altro elemento che è servito per creare la figura del superkiller è l'ormai famosa testimonianza del benzinaio Lalli che afferma: " Ho notato un giovane che all'incrocio con Via Fani sparava una raffica di circa 15 colpi poi faceva un passo indietro per allargare il tiro e sparava in direzione di un'Alfetta [...] L'uomo che ha sparato con il mitra, dal modo con cui l'ha fatto mi è sembrato un conoscitore dell'arma in quanto con la destra la impugnava e con la sinistra sopra la canna faceva in modo che questa non s'impennasse inoltre ha sparato con freddezza e i suoi colpi sono stati secchi e precisi". Lalli parla quindi di una persona esperta nel maneggiare le armi, nulla può chiaramente dire sulla precisione del killer. Ma è veramente indecifrabile questo personaggio che maneggia così bene le armi? Nella sua dichiarazione, Lalli assegna all'esperto sparatore un posto ben preciso: " egli è situato all'incrocio con Via Stresa ". Secondo le ricostruzioni quella posizione è occupata da Valerio Morucci. Perché allora ci sono dubbi sull'identità del brigatista? Evidentemente Morucci potrebbe anche possedere le qualità "tecniche" indicate dal Lalli. Per sincerarcene diamo uno sguardo alla sua "carriera": Morucci entra in Potere Operaio all'inizio degli anni settanta, come responsabile del servizio d'ordine ed è tra i primi a sollecitare una militarizzazione del movimento. Nel febbraio del 1974 è arrestato dalla polizia svizzera perché in possesso di un fucile mitragliatore e cartucce di vario calibro. Alla fine del 1976, al momento dell'entrata nelle Br, devolve all'organizzazione diverse pistole, munizioni, e la famosa mitraglietta skorpion, già usata nel ferimento Theodoli, ed in seguito utilizzata per uccidere Moro. Come componente della colonna romana delle Br partecipa a quasi tutti gli attentati che insanguinano Roma nel 1977. Infine, quando insieme con la Faranda esce dalle Br, pur essendo ormai un isolato senza concrete prospettive militari, decide di riprendersi le proprie armi. Un vero arsenale formato da pistole, mitra e munizioni rinvenuto in casa di Giuliana Conforto al momento del suo arresto, il 29 Maggio 1979. A conferma del rapporto quasi maniacale che Morucci ha con le armi ci sono moltissime testimonianze di compagni brigatisti. Carlo Brogi, un militante della colonna romana nel processo Moro afferma: " Morucci aveva con le armi un rapporto incredibile, anche perché, come lui stesso mi ha detto, molte delle armi che aveva portato via le aveva portate lui nell'organizzazione provenendo dalle F.A.C. e che queste armi erano il risultato d'anni di ricerche per modificarle, per trovare i pezzi di ricambio, insomma erano sue creature. Pertanto per lui separarsene era un insulto a tutto il suo lavoro". Credo che, viste le caratteristiche di Morucci, affermare che fosse in grado di maneggiare correttamente un fucile sia davvero il minimo. Però Morucci - ed è stato confermato più volte anche in Commissione stragi - ha affermato che il suo mitra si inceppò dopo 2 o 3 colpi. Dunque egli non può essere il super killer e probabilmente è anche sbagliata la ricostruzione fatta circa la posizione dei vari brigatisti in Via Fani; se a ciò si aggiunge il fatto che nessuno degli altri membri del commando aveva una preparazione da "commando", la domanda sorge spontanea: ma allora chi era il "Tex Willer" ? I "misteri" sull'azione militare non sono però finiti. In via Fani, dei 93 colpi sparati contro la scorta dell'onorevole Moro, furono raccolti trentanove bossoli sui quali il perito Ugolini, nominato dal giudice Santiapichi nel primo processo Moro, disse quanto segue: " Furono rinvenuti colpi ricoperti da una vernice protettiva che veniva impiegata per assicurare una lunga conservazione al materiale. Inoltre questi bossoli non recano l'indicazione della data di fabbricazione ". In effetti vi era scritto "GFL", Giulio Fiocchi di Lecco, ma il calibro non veniva indicato - come normalmente fanno invece le ditte costruttrici - e nemmeno la data di fabbricazione di quei bossoli. Il perito affermò che " questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva veniva usata per garantire la lunga conservazione del materiale. Il fatto che non sia indicata la data di fabbricazione è un tipico modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari non convenzionali ". Alla luce di tali rilievi, mi chiedo come sia potuto accadere che in via Fani fossero usati proiettili di questo tipo. In ogni caso, sarebbe interessante sapere come mai questo tipo di proiettili finirono nelle mani delle Brigate rosse e di quel commando che assassinò la scorta di Aldo Moro. Un altro ragionamento poi avvalora la tesi del killer estraneo alle Brigate rosse. Per quale ragione i terroristi del gruppo di fuoco indossavano delle divise dell'ALITALIA? Quello fu effettivamente un accorgimento abbastanza singolare, talmente strano da richiamare l'attenzione dei passanti anziché distoglierla. La spiegazione che viene da trovare risiede nel fatto che forse non tutti i brigatisti del commando si conoscevano fra loro, così la divisa serviva appunto al reciproco riconoscimento, in pratica per non spararsi a vicenda. Una conferma dunque della teoria del Killer "esterno". Ma chi poteva essere questo killer professionista? Due persone piuttosto ben informate, Renato Curcio e Mino Pecorelli, in merito a tale questione hanno parlato di "occasionali alleati" delle Br; gruppi legati alla delinquenza comune che avrebbero per l'occasione "prestato" alcuni uomini per portare a termine quella strage. E quale luogo migliore delle carceri italiane avrebbe potuto fungere da punto di incontro da due realtà tanto diverse? E' infatti al loro interno che si parlò molto del sequestro (o comunque di un attentato) di un'alta personalità politica, tanto che il SISMI ne era stato debitamente informato in tempo utile [un detenuto comune, Salvatore Senese, informò il 16 febbraio 1978 appunto il SISMI che le Brigate rosse stavano progettando un simile sequestro]. Il riferimento che Mino Pecorelli fa sul suo giornale "OP" a Renato Curcio non appare quindi casuale, perché proprio lui potrebbe aver rappresentato il tramite ideale fra i suoi compagni liberi e gli ambienti malavitosi ai quali chiedere temporaneo soccorso. Certi indizi puntano direttamente in Calabria. Di questo parere sembra essere oggi anche Francesco Biscione che afferma: " probabilmente allorché Moretti costituì la colonna romana delle Brigate rosse (fine 1975) aveva già rapporti (viaggi in Sicilia e in Calabria) o con settori criminali o con compagni dell'area del partito armato in grado di metterlo in contatto con segmenti del crimine organizzato ". E ricorda tre episodi che potrebbero costituire un serio indizio in tal senso: " La presenza del Moretti è accertata - scrive - a Catania il 12 dicembre 1975 (insieme con Giovanna Currò, probabile copertura di Barbara Balzerani) presso l'hotel Costa e il 15 dicembre presso il Jolly hotel. Il 6 febbraio 1976 Moretti ricomparve nel Mezzogiorno con la sedicente Currò, a Reggio Calabria presso l'hotel Excelsior. Oltre al fatto che non sono mai state chiarite le finalità dei viaggi - prosegue Biscione - questa circostanza sembra possedere un altro motivo di curiosità: i viaggi, o almeno il secondo di essi avvennero all'insaputa del resto dell'organizzazione tant'è che quando l'informazione venne prodotta in sede processuale suscitò lo stupore di altri imputati ". Il terzo è stato rivelato da Gustavo Selva: dopo la conclusione del sequestro di Aldo Moro " nel luglio 1978 venne arrestato il pregiudicato calabrese, Aurelio Aquino, e trovato in possesso di molte banconote segnate dalla polizia perché parte del riscatto del sequestro Costa operato dalle Br ". E' ovvio che con quei soldi le Br potrebbero aver pagato alla 'ndrangheta qualche partita di armi, ma anche il "prestito" di un killer professionista. Il forte sospetto resta dunque intatto. Da valutare, infine, con la dovuta cautela, l'appunto di Mino Pecorelli ritrovato dopo la sua morte fra le sue carte: " Come avviene il contatto Mafia-Br-Cia-Kgb-Mafia. I capi Br risiedono in Calabria. Il capo che ha ordito il rapimento, che ha scritto i primi proclami B.R., è il prof. Franco Piperno, prof. fis. univ. Cosenza "; anche volendo considerare tutto questo una mera illazione si può comunque, in questo caso, concordare con Francesco Biscione che considera come l'appunto si riferisce ad un'ipotesi ricostruttiva che connette gli indizi riguardanti l'esistenza in Calabria di un terminale decisivo, sebbene di incerta definizione, dell'intera operazione del sequestro Moro. In questo modo trova una logica spiegazione la probabile presenza in via Fani di un killer di "alta professionalità", un professionista che il pentito calabrese Saverio Morabito ha indicato in Antonio Nirta, detto "due nasi" per la sua capacità di usare la lupara, anche se alcune testimonianze più recenti puntano invece il dito contro Agostino De Vuono, anch'egli calabrese ed esperto tiratore tutt'oggi latitante; l'incorgnita comunque resta. Le teorie e le supposizioni sul nome del Killer lasciano però il tempo che trovano di fronte ai fatti: quella mattina del 16 Marzo 1978 le Brigate rosse vennero aiutate, e da più parti, a compiere un'azione troppo più grande delle loro capacità. Ed anche Alberto Franceschini continua ad esternare forti dubbi in merito. Ultima particolarità da annotare riguardo alla tragica giornata del 16 Marzo 1978 è una deposizione di Nara Lazzarini, segretaria di Licio Gelli, fatta nel 1985 al processo Pazienza-Musumeci; la Lazzarini ha ricordato infatti che la mattina della strage di Via Fani il Gran Maestro della P2 ricevette la visita di due persone all'Hotel Excelsior di Roma, e durante il colloquio a Gelli sfuggirono le seguenti parole: " Il più è fatto ". Può non voler dire nulla, è però una testimonianza attendibile e come tale la riporto. E' ormai "verità processuale" (il che non vuol dire che sia verità) che Aldo Moro sia stato tenuto prigioniero, per tutti i 55 giorni del sequestro, nell'appartamento all'interno 1 di via Montalcini 8, nel quartiere Portuense, a Roma. Un primo accenno ad una prigione di Moro era comparsa in un fumetto pubblicato all'inizio di giugno del 1979 dal primo numero di "Metropoli", periodico dell'Autonomia operaia. Nel fumetto (disegni di Beppe Madaudo, sceneggiatura di Melville, pseudonimo usato da Rosalinda Socrate) la tavola con l'interrogatorio di Moro era preceduta da una didascalia che diceva: " Mentre a via Fani cominciano le indagini, nella stanza interna di un garage del quartiere Prati comincia l'interrogatorio di Moro ". Interrogato, Madaudo disse di aver ricalcato il disegno da "Grand Hotel". Certo è che in quel fumetto saltavano fuori notizie allora sconosciute, segno evidente che gli ambienti dell'Autonomia non erano poi così male informati. Dopo la versione disegnata, il primo a parlare della prigione dello statista DC è stato il pentito Patrizio Peci, che ha raccontato però di aver appreso che Moro fu tenuto nascosto nel retrobottega di un negozio poco fuori Roma. La versione di Peci venne in seguito smentita da Antonio Savasta, catturato il 28 gennaio 1982 alla fine del rapimento Dozier. Il Savasta cominciò subito a collaborare e disse di aver saputo che Moro venne tenuto prigioniero in un appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti. All'inizio l'attenzione degli inquirenti si concentrò sull'appartamento che era stato del padre in via Laurentina 501, ma poco dopo le indagini si orientarono su via Montalcini, una casa acquistata nel giugno 1977 per 50 milioni circa, e dove Anna Laura Braghetti si era trasferita nel dicembre dello stesso anno. Due anni dopo anche Valerio Morucci e Adriana Faranda hanno confermato che Moro trascorse tutta la sua prigionia nell'appartamento abitato non solo dalla Braghetti ma anche da Prospero Gallinari, e frequentato da Mario Moretti e da - ma lo si è saputo molto dopo - Germano Maccari, il fantomatico "Ingegner Altobelli". Prima cosa bizzarra è il fatto che il 5 luglio 1980 il giudice Ferdinando Imposimato apprese che l'UCIGOS, nell'estate 1978, aveva svolto indagini sulla Braghetti e via Montalcini. L'appunto sulle indagini gli venne consegnato il 30 Luglio, ma era in forma anonima e non conteneva i nomi di chi aveva svolto le indagini. Sempre a tale proposito, nel febbraio 1982 sul quotidiano "La Repubblica" Luca Villoresi scrisse: " Sono passati pochi giorni dalla strage di via Fani quando alla polizia arriva una prima segnalazione, forse una voce generica, forse una soffiata precisa [...] ma all'interno 1 di via Montalcini 8 gli agenti non bussano ". Nel 1988 si venne poi a sapere che verso la metà di luglio 1978, pochi mesi dopo il sequestro, l'avv. Mario Martignetti (che sembra lo avesse saputo da una coppia di suoi parenti) segnalò all'On. Remo Gaspari che una Renault 4 rossa come quella in cui le Br lasciarono il cadavere di Moro era stata vista in via Montalcini 8 nel periodo del rapimento ed era scomparsa dopo la morte di Moro. Gaspari informò il ministro Rognoni il quale attivò le indagini subito affidate all'UCIGOS. In seguito, l'ispettrice dell'UCIGOS incaricata del caso ha riferito che dalle indagini era emerso che, fino al giugno 1978, con la Braghetti abitava un uomo che si faceva chiamare Ingegner Altobelli. L'ispettrice disse anche che, ritenendo che una perquisizione a due mesi dalla morte di Moro avrebbe dato esito negativo e avrebbe insospettito la Braghetti, preferì farla pedinare per cercare di arrivare ad Altobelli o scoprire se frequentava gruppi eversivi. I pedinamenti durarono fino alla metà di Ottobre ma ebbero risultati negativi perché la Braghetti usciva puntualmente per recarsi al lavoro e al ritorno a casa faceva cose normali. Il 16 ottobre 1978, un appunto dell'UCIGOS informò la magistratura che gli inquilini dell'interno 1 non destavano sospetti. I pedinamenti e le richieste di informazioni sul suo posto di lavoro (di cui la Braghetti viene a sapere) spinsero però la terrorista ad entrare in clandestinità e a lasciare (il 4 ottobre '78) l'appartamento, che nel frattempo aveva venduto ad una signora (moglie del segretario particolare dell'ex ministro Ruffini). Nell'agosto 1978 la Braghetti ebbe un'accesa disputa con l'ex inquilino dell'appartamento, Gianfranco Ottaviani, che aveva mantenuto la disponibilità della cantina; la Brigatista scardinò la porta della cantina e l'ex inquilino chiamò immediatamente la polizia. Per una lite banale la brigatista rischiò così un pericoloso intervento della polizia. Ma invece proprio quella lite venne usata dall'UCIGOS per spiegare che la Braghetti e Altobelli, che risultava trasferito in Turchia da qualche mese per motivi di lavoro, non erano sospettabili, perché altrimenti avrebbero evitato la lite con l'intervento del 113. Solo nel 1993 si è arrivati alla vera identità del così detto "quarto uomo", Germano Maccari, che sembra proprio essere quell'ing. Altobelli a cui erano intestate le utenze di luce e gas, come lui stesso ammette nel 1996. Stranamente l'individuazione di Maccari avvenne proprio lo stesso giorno in cui trapelarono dalla stampa le dichiarazioni di Saverio Morabito secondo il quale Antonio Nirta, killer della mafia calabrese e confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino, era stato " uno degli esecutori materiali del sequestro dell'on. Aldo Moro " . Molto interessante mi è parsa una circostanza apparsa nel suo recente libro "Il delitto Moro" da Francesco Biscione, e riguardante il fatto che nelle immediate vicinanze di via Montalcini, a pochi passi dal covo delle Br, abitavano numerosi esponenti della Banda della Magliana. L'elenco è molto dettagliato: " In via G. Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) abitavano Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Luciano Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) abitavano Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del Boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 (a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere P2ista Carboni); infine in via Montalcini al n°1 c'era Villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra ". In effetti la "Prigione del Popolo" era situata proprio nel quartiere romano della Magliana, una zona notoriamente controllata in modo capillare da quel particolare tipo di malavita collegato, come poi si è saputo con certezza, a settori dei servizi segreti, alla P2 e all'eversione nera. Se davvero Aldo Moro è stato tenuto nel territorio della Banda della Magliana per tutto il periodo del sequestro, appare altamente improbabile che la malavita della zona non ne fosse venuta a conoscenza. Ma lo Stato si stava dando da fare per rintracciare la "Prigione del Popolo"? Ad un osservatore inesperto i numeri sembrerebbero dire di si. Dalla relazione della Commissione Moro emerge che dal 16 marzo al 10 maggio '78 vennero attuati 72.460 posti di blocco di cui 6.296 nella sola Roma; effettuate 37.702 perquisizioni domiciliari di cui 6.933 nelle case dei cittadini della capitale; controllate 6.413.713 persone (cioè circa un italiano ogni 10) impegnando ogni giorno 13.000 uomini delle forze dell'ordine con l'ausilio di 2.600 automezzi. Questa enorme mobilitazione non portò apparentemente a nulla, anzi, nel periodo del rapimento Moro le Br commisero 2 omicidi, 6 ferimenti, 5 incendi di auto ed un attentato contro una caserma dei Carabinieri. Come ha affermato il Procuratore generale di Roma Pascalino: «Tante volte si fanno azioni dimostrative per tranquillizzare la popolazione [...] non posso spiegarlo, non sta a me spiegare perchè si prferì fare operazioni di parata anzichè ricerche. E in quei giorni si fecero operazioni di parata». Però non ho usato il termine "apparentemente" a caso: nonostante tutto le forze di polizia il 3 aprile '78 era riuscita a fermare o individuare molti personaggi legati o vicini alle Br. Tanto per fare alcuni nomi importanti si potrebbero citare Valerio Morucci, Adriana Faranda, Bruno Seghetti. Incredibilmente però queste operazioni di controllo non ebbero alcun seguito di indagine. Per quanto riguarda la gestione del rapimento, il campo si ristringe, diminuiscono drasticamente le prove e di contro aumenta il numero di indizi e deduzioni logiche possibili. Due avvenimenti accaduti il 18 aprile segnarono a mio avviso gli sviluppi successivi del rapimento proprio in questa direzione: la misteriosa scoperta del covo di via Gradoli ed il quasi contemporaneo ritrovamento del falso comunicato n°7. La scoperta di una base delle Br in Via Gradoli avvenne in un modo casuale ma alquanto strano: i pompieri furono chiamati dagli inquilini dei piani inferiori per una perdita d'acqua dall'appartamento dove andava a dormire il leader delle Br, Mario Moretti (colui che interrogò Aldo Moro). L'ipotesi che ho cercato di avvalorare - come sempre tra mille difficoltà e poche prove certe - è che quel covo, sia stato "bruciato" da qualcuno [servizi segreti? Un infiltrato? Oppure dei brigatisti contrari all'uccisione di Moro?] grazie al trucchetto della doccia rivolta verso il muro per permettere a chi di dovere di recuperare le carte di Moro riguardanti la P2, Gladio e tutto ciò che era probabilmente contenuto nelle sue borse scomparse nonché le confessioni fatte dal presidente alle Br. Un'altra teoria riguarda il fatto che la scoperta del covo di via Gradoli fu in qualche modo pilotata dallo stesso Moretti per indurre un certo stato d’animo nell'organizzazione, per forzare la mano con i propri compagni e farli convincere che non c'era più tempo. Comunque sia, il tutto venne fatto in modo assai rumoroso per permettere agli inquilini di essere informati per tempo dalla TV e poter così continuare a gestire il rapimento. Serviva però un diversivo, qualcosa che distogliesse l'attenzione generale dal covo; ecco che lo stesso giorno "qualcuno" fece ritrovare il falso comunicato N°7, quello dove si sosteneva che il cadavere di Aldo Moro si trovava in fondo al Lago della Duchessa. Allo stesso tempo questa doppia operazione ha probabilmente segnato in modo decisivo il rapimento, nel senso che questo era un chiaro avvertimento rivolto alle stesse Br: "Guardate che possiamo prendervi quando vogliamo, che non vi venga in mente di far concludere il sequestro in un modo differente da quello indicato dal falso comunicato perché potreste pagarlo caro...". Dunque mentre il comunicato arrivava al Viminale, i vigili del fuoco arrivavano in via Gradoli: le due messinscene che procedettero in perfetta sincronia, due "sollecitazioni" fatte affinché il sequestro si concludesse rapidamente e nella maniera più idonea. Nello stesso comunicato - oltre a suggerire ai brigatisti quale fosse l'epilogo più opportuno del rapimento - si trovano infatti dei precisi "segnali" che dovevano indirizzare le Br in tale direzione, come l'accenno alla morte di Moro mediante suicidio, proprio come era accaduto ai capi della RAF in Germania nel carcere di Stammheim. Non è affatto credibile poi che l'appartamento di Via Gradoli 96 sia stato lasciato da Moretti e Barbara Balzerani nelle condizioni in cui è stato descritto nei verbali della polizia: bombe a mano sparse sul pavimento, un cassetto messo in bella mostra sul letto e contenente una pistola mitragliatrice, documenti e volantini disseminati ovunque [proprio come se qualcuno avesse messo sottosopra il covo per cercare qualcosa...]. E pare perfino incredibile che le forze dell'ordine si siano comportate in un modo così "rumoroso" (volanti giunsero a sirene spiegate e immediatamente si formò una piccola folla di curiosi e giornalisti) subito dopo la scoperta del covo, quando invece dopo il ritrovamento della base di Robbiano di Mediglia avevano atteso con la massima discrezione il rientro dei terroristi arrestandoli uno dopo l'altro. A mio avviso, l'occulta regia della duplice manovra del 18 Aprile poté procedere liberamente all'interno del covo predisponendo una messinscena, allo stesso tempo diffuse un comunicato falso ma "tecnicamente" verosimile, chiaro segnale di una perfetta conoscenza dei retroscena del sequestro e di come le Br e Moretti lo stessero conducendo. Appare comunque quantomeno bizzarra anche la scelta (effettuata da Moretti nel 1975) di Via Gradoli come luogo adatto a stabilirvi un covo delle Br, e non un covo qualsiasi, ma il primo e principale punto di riferimento dei brigatisti a Roma, abitato nell'ordine da Franco Bonisoli, Carla Brioschi, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Mario Moretti e Barbara Balzerani ma noto anche ad altri brigatisti. La bizzarria risiede nel fatto che via Gradoli era una strada stretta e circolare, lunga seicento metri e con un solo accesso-uscita sulla via cassia; dopo un breve tratto rettilineo di appena cento metri la strada disegnava un circuito di mezzo chilometro e ritornava al breve tratto "obbligatorio", dal quale si poteva agevolmente controllare gli spostamenti di tutti gli abitanti della via, l'esatto opposto, dunque, delle normali cautele adottate normalmente dai brigatisti. Caso vuole poi che al n° 89 di via Gradoli, nell'edificio che fronteggiava - dalla parte opposta della strada - il civico 96 con il covo delle Br, abitava il sottufficiale dei Carabinieri Arcangelo Montani, agente del SISMI. Ma i servizi segreti non si limitavano solamente a controllare la via, via avevano addirittura stabilito un proprio ufficio; di questo un ex militante di Potere operaio aveva avvisato le Br, ma esse, una volta localizzato con precisione quell'ufficio, decisero incredibilmente di mantenere ugualmente il covo in quella strada. Tornando ai giorni del rapimento, una delle possibili implicazioni logiche che la scoperta "accidentale" del covo comportò fu quella di far diventare anche la prigione di via Montalcini piuttosto insicura, dunque è possibile - anzi, assai probabile - che Moro sia stato portato velocemente in un altro covo-prigione. Le carte di Moro all'interno del covo "bruciato" furono forse ritrovate, ma probabilmente non nella loro totalità, e la cosa dovette suscitare le ire degli interessati, tant'è vero che - ma qui forse le mie ipotesi diventano troppo fantasiose - chi nel corso degli anni ne è stato probabilmente in possesso è stato in qualche modo eliminato (Pecorelli e Dalla Chiesa, tanto per fare due nomi). Con il duplice messaggio del 18 Aprile, rivolto chiaramente al vertice Br, la gestione del sequestro entrò in una nuova fase; non c'era altro tempo, le Brigate rosse non avevano più la possibilità di proseguire la "campagna di primavera" da loro progettata ma dovevano piegarsi a delle volontà indiscutibilmente superiori: apparati "deviati" dello stato ed il loro occasionale "braccio destro", la "Banda della Magliana" cui apparteneva Chichiarelli. Come vedremo, molti indizi ci indirizzano proprio in questo sentiero. Ma esiste un'altra ipotesi da valutare. Come sostenuto dal recente volume 'Il Misterioso intermediario' di Fasanella e Rocca: "A lasciare aperta la doccia potrebbe essere stato lo stesso Moretti. E usando la logica capovolta, che spiega molti episodi di queste trame occulte, se ne può comprendere anche il perché. Il capo brigatista si era impossessato della gestione del sequestro, esautorando di fatto i compagni. Forse voleva che ai militanti giungesse il messaggio che a Roma non c'era più nessun nascondiglio sicuro, visto che era stata scoperta perfino la base del capo; e che di conseguenza, bisognava affrettarsi a portare Moro fuori città". Ma se il 18 Aprile '78 fu la data dalla quale cambiò materialmente la gestione del rapimento, il momento in cui venne presa - e da più parti - la decisione di intervenirvi direttamente fu con ogni probabilità immediatamente successiva, e precisamente quando venne resa nota la prima lettera di Moro a Cossiga, in cui sollecitava la trattativa con le Br invocando la ragion di stato e non motivi umanitari. Quella lettera doveva restare segreta e nelle intenzioni di Moro doveva servire ad aprire un canale diretto per la trattativa. Invece Mario Moretti la allegò al comunicato numero 3 delle Br, in cui si annunciava che il processo a Moro stava continuando " con la piena collaborazione del prigioniero ", e la fece recapitare ai giornali. A quel punto probabilmente si attivarono molti servizi segreti: quelli occidentali per proteggere gli eventuali segreti rivelati da Moro, quelli orientali per carpirli. I primi promettendo salvacondotti ai brigatisti; i secondi aiuti e appoggi alla rivoluzione. Una conferma che la base Br di Via Gradoli 96 - "centrale operativa" del sequestro Moro - fosse nota a molti si ebbe pochi giorni dopo il rapimento di Moro, quando cinque agenti del commissariato "Flaminio Nuovo", guidati dal maresciallo Domenico Merola perquisirono appunto gli appartamenti di via Gradoli 96. Durante il primo processo, Merola racconta che l'ordine era venuto, la sera prima dell'operazione, dal commissario Guido Costa. " Non mi fu dato l'ordine di perquisire le case. - dice il maresciallo ai giudici - era solo un'operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l'autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L'interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che li' viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi ". " Fui io a disporre i controlli dei mini appartamenti della zona - conferma il vice questore Guido Costa - in seguito ad un ordine impartito dal questore, che allora era Emanuele De Francesco. L'esito dell'operazione fu negativo ". La data della mancata perquisizione del covo è il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento, almeno secondo la relazione informativa scritta da Merola e consegnata da De Francesco ai giudici solo nel 1982, perché fino a quel momento non era stato possibile trovarla. Nell'estate del 1978, il giornalista Sandro Acciari scrisse sul "Corriere della sera" che tra il 16 e il 17 marzo, alla segreteria del ministero dell'Interno era arrivata una segnalazione anonima dell'esistenza di un covo delle Br in via Gradoli e che il ministro Cossiga aveva incaricato il capo della polizia Parlato di disporre perquisizioni nella zona. Parlato, interrogato dal giudice Achille Gallucci aveva smentito questo fatto. Nel 1982, al processo, Acciari disse di aver appreso la notizia, a livello di indiscrezione, negli ambienti del palazzo di giustizia, e di avere avuto conferma da Luigi Zanda, all'epoca addetto stampa del ministro dell'Interno Cossiga. Acciari ha precisato però di aver saputo in seguito dallo stesso Zanda che nella loro conversazione telefonica ci fu un equivoco, perché Zanda credeva che Acciari si riferisse alla vicenda della seduta spiritica in cui emerse il nome "Gradoli". Anche il giornalista Mino Pecorelli, ucciso un anno dopo in circostanze ancora oscure, e anche lui presente nelle liste della P2, scrisse sul numero del 25 aprile 1978 del suo settimanale "OP": " Nei primi dieci giorni dopo il sequestro di Moro, in seguito ad una soffiata preziosa, via Gradoli e in modo speciale lo stabile numero 96 erano stati visitati ben due volte da squadre di polizia. Ma davanti alle porte degli appartamenti trovati disabitati, i poliziotti avevano desistito. Avevano bussato doverosamente anche alla porte dell'appartamentino-covo e non ricevendo l'invito ad entrare se n'erano andati ". Prima di procedere oltre mi preme sottolineare quanto affermato da Flamigni sulle fonti di Pecorelli (già affiliato alla P2 ma ai tempi del rapimento 'dissociato'): "la rete informativa e le fonti di Pecorelli durante i 55 giorni del sequestro Moro risulteranno documentate dalle agende del giornalista. Vi erano annotati contatti, telefonate e incontri [...] soprattutto con appartenenti ai servizi segreti: dal P2ista Umberto D'Amato (esperto di intelligence, consigliere del ministro dell'interno e capo della Polizia), a Vito Miceli (ex capo del SID, affiliato alla P2) dal generale Maletti (P2) al capitano Labruna (P2) al capitano d'Ovidio (P2)". Ma c'erano anche incotri con i magistrati Infelisi e DeMatteo, con avvocati, con politici di varie forze politiche, con il venerabile maestro Licio Gelli. Le informazioni a sua disposizione erano dunque sempre di primissima mano. Tra le vicende inusuali accadute durante i 55 giorni del rapimento Moro è da menzionare - se non altro per il nome dei presenti - anche quella del 2 aprile 1978. Nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, alle porte di Bologna, si riunì un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Erano presenti l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi con la moglie Flavia, Alberto, Adriana, Carlo e Licia Clò, Mario Baldassarri e la moglie Gabriella, Francesco Bernardi, Emilia Fanciulli. Secondo i racconti, per allentare la noia di una giornata di pioggia, a qualcuno dei partecipanti venne la bizzarra idea di tenere una seduta spiritica. I partecipanti avrebbero quindi evocato gli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira chiedendo loro dove si trovasse la prigione di Aldo Moro. Gli spiriti - incredibilmente - formarono le parole Bolsena-Viterbo-Gradoli e indicarono anche il numero 96. Secondo i racconti dei partecipanti, fu proprio il terzo nome ad incuriosirli, tanto da prendere un atlante per controllare se esistesse una località chiamata Gradoli. Il 4 aprile, a Roma per un convegno, Prodi parlò di questa indicazione a Umberto Cavina, capo ufficio stampa della DC, che la trasmise a Luigi Zanda, addetto stampa del ministro dell'Interno, il quale fece un appunto per il capo della polizia, Giuseppe Parlato. Parlato ordinò di perquisire la zona lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina. Il rastrellamento della zona viene effettuato il 6 aprile, senza risultati. Nel luglio 1982, al processo, Eleonora Moro, moglie di Aldo Moro, ha raccontato che, quando venne a sapere della seduta spiritica (in quell'occasione, la signora Moro dice però che l'indicazione Gradoli venne fuori " due o tre giorni dopo il rapimento " e questo contrasta con la data indicata per la seduta spiritica), riferì " la cosa all'on. Cossiga e ad un funzionario che credo fosse il capo, il responsabile delle indagini, ma non ricordo come si chiamasse. Chiesi loro - continua la signora Moro - se erano sicuri che a Roma non esistesse una via Gradoli e perché avessero pensato subito, invece, al paese Gradoli. Mi risposero che una tale via non c'era sulle pagine gialle della città. Ma quando se ne andarono da casa, io stessa volli controllare l'elenco e trovai l'indicazione della strada. In seguito mi dissero che erano stati a vedere in quella zona, ma avevano trovato solo alcuni appartamenti chiusi. Si giustificarono dicendo che non potevano sfondare le porte di ogni casa della strada ". Il giorno dopo Giovanni Moro, figlio di Aldo, conferma che fu Cossiga a sostenere che via Gradoli non esisteva nello stradario di Roma. Cossiga ha però escluso di essere lui la persona che negò l'esistenza di via Gradoli. Nel 1995, la relazione sulle stragi e il terrorismo presentata dal presidente della commissione parlamentare Giovanni Pellegrino sostenne che l'indicazione di Gradoli era filtrato negli ambienti dell'Autonomia bolognese e il riferimento alla seduta spiritica non era altro che un trasparente espediente di copertura della fonte informativa. A parziale conferma di ciò sta anche la testimonianza di Giulio Andreotti che, davanti alla Commissione, ha detto: " non credo alla storia di Gradoli a cui si arrivò con la seduta spiritica. Quell'indicazione venne dall'Autonomia operaia di Bologna. Non lo si disse per non dover inguaiare qualcuno ". Pochi giorni dopo, Bettino Craxi intervenne sul caso Moro sostenendo che " nessuno può credere alla tesi della seduta spiritica dal momento che le notizie su via Gradoli si seppero da ambienti legati strettamente all'organizzazione terroristica. Gli stessi che ci diedero notizie anche di via Montalcini ". " Gradoli - ha confermato in quei giorni l'avv. Giancarlo Ghidoni, difensore di molti esponenti dell'autonomia bolognese - era una parola che nell'ambiente di Autonomia Operaia si sussurrava. L'organizzazione all'epoca del sequestro Moro premeva perché lo statista non fosse ucciso e fosse liberato. L'Autonomia era molto preoccupata, voleva che cessassero certe attività, convinta che il fucile stesse sopravanzando la testa, e che certe cose andassero a danno della sinistra rivoluzionaria [...] Una persona, di cui non posso ovviamente rivelare il nome, mi disse: "Hanno detto che Moro è a Gradoli. Intendeva proprio il paesino del viterbese dove andarono a cercare Moro, non la via romana con lo stesso nome. Evidentemente le informazioni che aveva erano parziali" ". Infine, da una nota della DIGOS del 19 agosto 1978, che riprende un appunto precedente dell'UCIGOS, risulta che via Gradoli era sotto controllo già in epoca precedente al sequestro Moro per la segnalazione nella strada della ripetuta presenza di un furgone Volkswagen di proprietà di Giulio De Petra, militante di Potere Operaio, il cui numero telefonico era nell'agenda di Morucci. Le cose non devono però sorprendere; in effetti Valerio Morucci era ritenuto un valido appoggio "militare" da parte di tutte l'ala dura dell'ormai disciolto Potere Operaio, pochi però sanno che egli agiva d'intesa con Piperno e Pace svolgendo il ruolo di cerniera tra le Br e l'Autonomia nell'ambito della progettata unificazione di tutte le organizzazioni armate, al fine di rendere praticabile " l'irlandizzazione della capitale ". Nel 1997 l'on. Enzo Fragalà, chiedendo l'audizione di Prodi in commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi e il terrorismo, ha detto: " in via Gradoli vi erano quattro interni 11, due civici 96 con due scale ciascuna. Vi furono indicazioni diverse fra DIGOS e commissariato Flaminio Nuovo sulle scale da perquisire; vi sono legami di società intestatarie di alcuni interni 11 e altre società collegate con il ministero dell'Interno e con il Sisde; all'interno del covo Br fu ritrovato il numero di telefono dell'immobiliare Savellia, società di copertura del Sisde; perché non si é indagato sui mini-appartamenti di via Gradoli 96 e 75 intestati all'ex capo della polizia Parisi e sui rapporti tra Domenico Catracchia, già amministratore del palazzo, e lo stesso Parisi ? ". All'Immobiliare "Savellia" era intestato anche un palazzo in via di Monte Savello (vicino al ghetto ebraico e a via Caetani), di cui c'erano tracce in un appunto di Moretti. L'8 marzo 1998, l'ex deputato socialista Falco Accame, criticando la mancata attuazione del "piano Paters", segnalò l'appartamento di via Gradoli come riconducibile alla società immobiliare Savellia, società di copertura del SISDE. Secondo Accame, come per Fragalà, " i mini appartamenti di via Gradoli, numeri 96 e 75, erano intestati all'ex capo di polizia ". Attualmente l'Immobiliare Savellia risulta di proprietà del Sovrano Ordine di Malta. In Via Gradoli i servizi segreti italiani disponevano però anche di un ufficio; la cosa venne riferita alle Br da un'ex militante di Potere Operaio, ma nonostante questo, i brigatisti decisero di mantenere ugualmente il loro covo in quella strada, in barba a qualsiasi legge della logica e della sicurezza (tanto più che nella stessa via Gradoli c'era anche un covo frequentato da estremisti di destra) 46. Anche questo fatto risulta essere piuttosto strano. C'è però un'altra pista da seguire: c'era qualcuno che all'interno delle Brigate rosse riteneva talmente sbagliata l'operazione in progetto da tentare di farla fallire avvertendo in anticipo le forze istituzionali ? Un'ipotesi da fare è che all'interno delle Brigate rosse vi fosse un partito della trattativa che mirava alla salvezza della vita di Moro e che questo gruppo, oltre a discutere per tentare di far maggioranza sulla propria opinione, abbia messo addirittura lo Stato sulle tracce, per esempio, del covo di via Gradoli. Infatti, scoprire quel covo avrebbe significato arrivare subito a Moretti. Ed a via Gradoli fu mandata per ben tre volte la Polizia ed addirittura fu fatta arrivare a Prodi ed a Clò l'indicazione "Gradoli", che poi fu mistificata con la famosa seduta spiritica di cui tutti sappiamo. E' vero che vi era questo partito della trattativa (altrimenti detto "ala Movimentista") all'interno delle Brigate rosse il quale, ritenendo politicamente disastrosa l'uccisione di Moro, tentò in tutti i modi di far scoprire il covo di via Gradoli, alla fine addirittura col telefono della doccia in cima ad un manico di scopa messo contro il muro per far allagare l'appartamento di modo che, visto che non se ne poteva più di uno Stato che non riusciva a scoprire il covo, fossero almeno i pompieri ad arrivarvi, trovando sul muro steso il drappo delle Brigate rosse e sul tavolo tutte le armi affinché fosse chiarissima l'indicazione che si trattava proprio di un covo dei terroristi? E' bene ricordare che la porta del covo non era stata scassinata e inoltre che per motivi di sicurezza, era abitudine dei brigatisti non avere più di due chiavi di ogni covo, dunque siccome Via Gradoli 96 era in quel periodo frequentata solo da Moretti e da Barbara Balzerani, è logico supporre che solamente loro avessero le chiavi. Questa spiegazione è supportata - ovviamente - dalla Faranda, cioè da colei che (assieme a Morucci) potrebbe essere l'artefice di un tale piano essendo il duo notoriamente contro un epilogo tragico del rapimento Moro. Dagli atti del processo "Metropoli" traspare (a mio avviso perfino in modo un pò eccessivo) che Morucci e Faranda erano pedine in mano a Piperno, leader dell'Autonomia, e guarda caso è proprio dalle file dell'Autonomia che provenivano tutti i "messaggi" a favore degli inquirenti (da quello di Radio città futura a quello emerso nella seduta spiritica di Prodi). Dunque Morucci e la Faranda, nel periodo di circa due mesi in cui lo avevano abitato, avevano fatto delle copie della chiave che apriva il covo di Via Gradoli ? Furono loro ad architettare il tutto ? E' una possibilità, è in quanto tale la riporto, però oggettivamente non mi sento di dargli troppo peso, anche e soprattutto in considerazione della "coincidenza" temporale con il ritrovamento del falso comunicato n° 7, vero punto di svolta del sequestro. A dire il vero c'è un'altra possibilità, cioè che effettivamente il nome Gradoli sia stato fatto saltar fuori proprio come riferimento al paesino di Gradoli -sito nella zona di Bolsena- e poi effettivamente rastrellato da circa 2000 agenti, perché l'operazione di polizia in quel paese serviva a dare l'allarme agli occupanti di via Gradoli che, infatti, dopo poco abbandonarono il covo. A questa ipotesi mi sento di rispondere che in questo caso i brigatisti avrebbero certamente evitato di abbandonare il covo con tutto il materiale che vi è stato poi ritrovato, armi e documenti in primis, e poi la perquisizione del paesino è un pò troppo antecedente. A questo punto sorge però spontanea un'altra domanda: a Moretti e alla Balzerani deve aver fatto piuttosto paura sentire che la polizia stava perlustrando un posto con lo stesso nome della via ove si recavano a dormire, questo però solo usando la logica, una logica che gli avrebbe dovuto suggerire di abbandonare velocemente quel covo, un logica che invece non li ha guidati, se è vero com'è vero che i due brigatisti hanno dormito in quell'appartamento fino alla sera precedente la sua scoperta. Come potevano essere sicuri che la polizia non sarebbe arrivata e avrebbe messo sotto sopra anche la Via Gradoli dopo il paesino Gradoli del Viterbese ? Fu incoscenza o certezza ? L'8 maggio 1978, alla vigilia dell'uccisione di Aldo Moro: il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina un articolo, firmato da Sandro Acciari e Andrea Purgatori, che parlava di elenchi trovati nel covo Br di via Gradoli, scoperto il 18 aprile. Gli elenchi di cui si parlava sarebbero stati due: uno contenente nomi di politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, l'altro di esponenti della DC a livello regionale, provinciale e comunale. L'articolo rendeva noti anche alcuni dei nomi contenuti nel primo elenco: Loris Corbi, Beniamino Finocchiaro, Michele Principe, Publio Fiori. Del secondo elenco era citato solo Girolamo Mechelli (ferito in un attentato il 26 aprile 1978), la cui presenza nelle liste venne però smentita dalla DIGOS, che così confermò implicitamente l'esistenza degli elenchi. Il giorno dopo, il 9 maggio, mentre tutti i giornali si occupavano della vicenda, il Corriere della sera pubblicò un altro articolo sullo stesso argomento e vennero fatti anche i nomi di Gustavo Selva e dell'on. Giacomo Sedati (DC). Il 10 maggio i giornali furono completamente occupati dalla notizia dell'avvenuta uccisione di Moro, verificatasi il 9, e quindi la serie di rivelazioni si interruppe. Naturalmente questi elenchi, trovati in un covo Br, vennero ritenuti una "schedatura" di potenziali vittime di attentati, un'ipotesi rafforzata dal fatto che Fiori era già stato ferito in un agguato, il 2 novembre 1977. Nel 1978 però erano ancora sconosciuti gli elenchi dei presunti iscritti alla P2 [ poi trovati dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi nel 1981 ] e nessuno poteva far caso ad un qualsiasi legame esistente tra quei nomi. Solo adesso possiamo notare infatti che, a parte Sedati, i nomi delle altre cinque persone (su sei), Corbi, Principe, Finocchiaro, Fiori e Selva comparivano anche nelle liste della P2, composta, in effetti, soprattutto da politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, come l'elenco trovato in via Gradoli. E' una coincidenza un po' strana, soprattutto se si pensa che la stessa mattina del 18 aprile, giorno della scoperta del covo di via Gradoli, "qualcuno" architettò il falso comunicato del lago della Duchessa. Il falso comunicato, preparato da Toni Chichiarelli (falsario legato alla banda della Magliana) e tutto ciò che logicamente ne sarebbe seguito, sembra dunque essere stato organizzato anche per distrarre l'attenzione generale dal materiale ritrovato in via Gradoli. Se però questo materiale si trovava in via Gradoli insieme ad un elenco di iscritti e funzionari locali della DC, è probabile che provenisse da quelle famose borse di Moro che sembrano non esser mai state ritrovate (i brigatisti - o meglio Gallinari che ne fu incaricato - hanno detto di aver bruciato tutte le carte di Moro) e che poteva contenere informazioni su apparati dei servizi segreti paralleli e altre organizzazioni di sicurezza allora sconosciute (Gladio, P2, ecc...). Assolutamente incredibile - anche a detta della Commissione Moro - fu poi il ritardo con il quale venne studiato il materiale ritrovato all'interno del covo di Via Gradoli: un'analisi attenta avrebbe infatti permesso alle forze di polizia di arrivare facilmente alla tipografia Triaca di Via Foà, ove le Br stampavano tutto il loro materiale e dove lo stesso Moretti spesso passava. Le forze di pubblica sicurezza giunsero all'individuazione della tipografia soltanto dopo la conclusione del rapimento di Aldo Moro. Obbligatorio adesso fare un excursus sulla figura del falsario Toni Chichiarelli, colui che scrisse il falso comunicato n°7, ed a questo proposito nulla mi è sembrato meglio delle parole con cui il defunto On. Cipriani argomentò le sue scoperte di fronte alla Commissione Parlamentare: " Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la destra eversiva e con i servizi segreti, in particolare con la persona del generale Santovito che guarda caso faceva parte di uno dei comitati di crisi. Toni Chichiarelli era anche in contatto con un informatore, un agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia anche con la malavita romana, con i servizi segreti e la banda della Magliana. Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come dimostrano due episodi. Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa; ed è anche l'autore del comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud. Toni Chichiarelli fece trovare un borsello su un taxi, all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro. Fece trovare infatti nove proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzoletti di carta marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi l'originale in un secondo episodio. Vi è un secondo aspetto. Dopo la rapina della Securmark, ad opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa trovare - lo scrive il giudice Monastero - una busta contenente un altro messaggio con gli originali di quattro schede riguardanti l'on. Ingrao ed altri personaggi. Questa volta, come dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse. Il giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata durante il sequestro". Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un fotomontaggio. Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco ". Anche volendo ignorare buona parte delle coincidenze riscontrate e tutte le deduzioni fattibili, resta intatta una domanda: come mai ad un certo punto del rapimento Moro si iniziano a trovare tracce che portano direttamente alla Banda della Magliana ? Il bello è che la pista legata a questa feroce banda romana non si esaurisce, ma riguarda anche la morte di Aldo Moro. Ai miei occhi, infatti, è sempre stata poco credibile la versione raccontata dalle Br secondo la quale Moretti, che aveva discusso con il presidente DC per 55 lunghi giorni, con una freddezza fuori dal normale comunica al prigioniero che verrà liberato, poi gli spara a sangue freddo con due armi differenti perché la prima si inceppa, poi sale sulla Renault rossa e porta il cadavere dello statista fino a Via Caetani, poi non contento va a scrivere il comunicato conclusivo del rapimento. No, riesce veramente difficile credere a questa novella di un Moretti "superuomo". La verità forse è altrove, anche per altri motivi. Vediamo dunque cosa dicono gli appunti di Luigi Cipriani sul come venne ucciso il presidente della Democrazia cristiana: " Degli 11 colpi i primi due [sono stati sparati] col silenziatore, gli altri quando era già morto. Perché questo rituale? Dopo i primi due colpi Moro ha agonizzato per 15 minuti. Solo i primi due colpi hanno lasciato tracce sulla Renault, Moro è stato ucciso in macchina e portato altrove ? ". A conferma dei dubbi evidenziati dai quesiti che si poneva Cipriani, Francesco Biscione ha scritto: "...laddove la comune versione dei brigatisti lasciava trasparire una falla che nasconde verosimilmente una menzogna è nella narrazione delle modalità con cui l'ostaggio sarebbe stato ucciso ". Non è il solo che, a posteriori, si affianca a Luigi Cipriani. Nella sentenza del cosiddetto Moro-quinquies gli stessi magistrati giudicanti non possono esimersi dall'evidenziare il loro scetticismo sulla versione fornita dai brigatisti rossi sottolineando, ad esempio, l'impossibilità da parte dei carcerieri di " ritenere in anticipo che l'on. Moro, chiuso in una cesta da dove poteva avere una discreta percezione della situazione ambientale, non essendo né narcotizzato né imbavagliato, avrebbe continuato remissivamente a tacere senza chiedere aiuto nemmeno lungo il tragitto per le scale fino al box, pur percependo voci come quella della Braghetti. Non si comprende - scrivono ancora i magistrati - come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio quando avrebbero potuto facilmente evitarlo ad esempio uccidendo l'on. Moro nella sua stessa prigione e trasportandolo poi da morto; ed incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune degli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono rumori apprezzabili che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti ". Alle condivisibili considerazioni dei giudici del quinto processo Moro, dobbiamo aggiungere il rilievo che i colpi sparati con il silenziatore furono soltanto due. E gli altri 9, esplosi senza il silenziatore, non li ha avvertiti nessuno? Ne erano così certi i brigatisti rossi Mario Moretti e Germano Maccari ? E, infine, perché lasciare Aldo Moro agonizzante per altri 15 lunghissimi minuti, come conferma la perizia medico-legale, senza che un rantolo, un gemito, un grido disperato sia veramente uscito dalla bocca di un uomo morente e ferito ? In conclusione, " anche su questo punto, la versione delle Brigate rosse non sta in piedi, o almeno zoppica fortemente [...] un uomo che, senza essere narcotizzato, senza essere legato ed imbavagliato, si fa infilare in una cesta, deporre nel portabagagli di un'auto, ricevere nel corpo due pallottole che lo lasciano in vita per altri 15 minuti; e in tutto questo tempo non tenta la disperata reazione di chi non ha più nulla da perdere, effettivamente non è credibile ". La passività di Aldo Moro, se mai ci fu, può trovare solo logica e coerente spiegazione in due fattori: il luogo dove si trovava, solitario, dove il suo urlo disperato si sarebbe perso nel silenzio; il numero dei suoi uccisori, tale da scoraggiarne a priori ogni tentativo di fuga o reazione violenta 51. " Un testimone - scriveva Cipriani - vide una Renault rossa presso la spiaggia di Fregene col posteriore aperto. La perizia sulla sabbia dei pantaloni di Moro confermò che il litorale corrisponde a quello. Sabbia trovata in molte parti dei vestiti, calze, scarpe e sul corpo compreso bitume e sulle ruote della Renault. Sul battistrada - concludeva Cipriani - fu trovato un frammento microscopico di alga analogo ad altro rinvenuto sul corpo ". E gli accertamenti ulteriori confermano pienamente questa realtà: " Le risultanze tecniche - ricorda Biscione - riguardano innanzitutto la sabbia e i frammenti di flora mediterranea trovati nelle scarpe, negli abiti e sul corpo di Moro, come pure sulle gomme e sui parafanghi dell'auto di Moretti rinvenuta in via Caetani. Le tracce sugli abiti e sulle scarpe lascerebbero pensare ad una permanenza o ad un passaggio presso il litorale romano (la perizia giudica quel tipo di sabbia proveniente da una zona compresa tra Focene e Palidoro) ". Mario Moretti e compagni, quindi, affermano il falso, come asseriva giustamente perentorio Luigi Cipriani nei suoi appunti: " Savasta e Morucci mentono [o forse non sono a conoscenza della verità ndr.] dicendo che la sabbia era un depistaggio...". Concorda con l'ex parlamentare di Democrazia Proletaria anche Francesco Biscione, il quale scrive: " ...lascia fortemente perplessi la machiavellica spiegazione di Morucci (confermata da Moretti e ribadita anche dalla Braghetti nel corso del processo Moro-quater) secondo la quale ai primi di maggio 1978 alcuni militanti [la Faranda e la Balzerani] furono incaricati di andare a reperire sulle spiagge del litorale laziale acqua marina, sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe di Moro per depistare le indagini successive al ritrovamento del cadavere...". Quali vantaggi si proponessero di ricavare i brigatisti facendo credere agli inquirenti ed all'opinione pubblica di aver custodito Aldo Moro sul litorale laziale piuttosto che in un appartamento al centro di Roma ? A mio parere nessuno. C'è poi la testimonianza di Pierluigi Ravasio, ex carabiniere-paracadutista, ex addetto all'ufficio sicurezza interna della VII sezione del Sismi a Roma, che venne resa allo stesso Luigi Cipriani. L'ex agente del Sismi e componente delle Stay-behind affermò che "il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini vennero fermate, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati...". Francesco Biscione, pur con cautela, non può fare a meno di rilevare che " se si pensa che nel maggio 1991, allorché fu raccolta l'intervista, era pressoché sconosciuto il ruolo svolto durante il sequestro di Moro dalla banda della Magliana, si è portati a dubitare che le parole di Ravasio siano frutto di pura fantasia (semmai, per una certa brutalità nei riferimenti si sarebbe indotti a credere che egli fosse a conoscenza di questa vicenda non per averla vissuta in prima persona, bensì per averne avuto notizia da altri)...". Che il racconto di Pierluigi Ravasio sia quantomeno credibile lo dimostrano non solo il preciso riferimento fatto alla presenza del colonnello Camillo Guglielmi, suo diretto superiore al Sismi, in via Fani il 16 marzo 1978, quanto soprattutto le tracce di sabbia e bitume trovate sui vestiti, il corpo di Aldo Moro e la Renault rossa sulla quale venne poi trasportato in via Caetani. Bisogna anche rilevare, a favore della veridicità di quanto narrato dall'ex agente del Sismi, che le sue dichiarazioni, divulgate da Cipriani, caddero in un momento in cui l'intervento della malavita nel sequestro Moro veniva dato per certo, un fatto ormai acquisito ma datato ad operazione di prelievo avvenuta e considerato cessato, a seguito delle pressioni esercitate dai nemici politici dell'esponente democristiano prigioniero, entro i primi giorni di aprile del 1978. Anche il "premio" concesso ai delinquenti della Magliana dallo Stato e dai suoi apparati è perfettamente verosimile: " Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro - ha raccontato Ravasio - il Sismi consentì alla banda di compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'aeroporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'aeroporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi ". Fatti che ci riportano alla rapina alla Brink's Securmark ed a quella strana rivendicazione che ebbe con tutta probabilità il valore di un avvertimento allo Stato perché non perseguisse i suoi autori. Un solo punto, nel racconto di Pierluigi Ravasio, suscita perplessità ed interesse insieme: la pretesa che il sequestro fu organizzato e gestito da " ex detenuti e malavitosi ", dal suo inizio alla sua conclusione. Sappiamo, viceversa, che i brigatisti rossi in via Fani c'erano, come furono presenti durante tutte le fasi dell'operazione, eliminazione fisica di Aldo Moro compresa, sebbene su questo punto la verità venne presumibilmente esposta in forma criptica, da un ex appartenente alle Stay-behind che, con le sue rivelazioni, si era già esposto molto alle reazioni ed alle rappresaglie dello Stato. Dunque c'è un tassello che non ha ancora trovato la sua collocazione ufficiale, è il tassello determinante, quello che da solo sarebbe in grado di spiegare ciò che è rimasto di totalmente oscuro - ma non di insolubile - nel sequestro di Aldo Moro: i brigatisti rossi guidati da Mario Moretti, furono obbligati a cedere il loro ostaggio con tutta la documentazione da lui prodotta nei giorni della prigionia, agli "amici" della banda della Magliana ? Ha fondamento concreto questa intuizione di Luigi Cipriani, poggiata su indizi concreti e da lui esposta di fronte alla commissione parlamentare ? Cipriani aveva individuato in Antonio Chichiarelli la figura chiave per comprendere la reale dinamica del sequestro di Aldo Moro e del suo omicidio. Il mio personale punto di vista è che probabilmente ci fu un passaggio di mano dalle Br alla banda della Magliana, e che le altre organizzazioni malavitose (Mafia, Camorra, la banda di Francis Turatello), che all'inizio del rapimento erano state "attivate" dal mondo politico per ritrovare Moro, ad un certo punto - dopo aver fatto il loro compito - vennero bloccate. E di questo fatto sono sicuri perfino i membri della Commissione parlamentare d'inchiesta. D'altronde lo dimostrano le molte testimonianze: durante i 55 giorni le organizzazioni malavitose si erano mobilitate - affiancando le polizie ufficiali - nella ricerca del leader DC su precisa richiesta dei vari esponenti politici dell'ex "scudo crociato". Dopo poche settimane, improvvisamente, Mafia, Camorra e ndrangheta si ritirarono, lasciando ai loro emissari nella capitale il compito di compiacere la volontà del potere politico. Dai primi di Aprile, la parola d'ordine divenne quella lanciata, senza mezzi termini a Francesco Varone, a casa di Frank Coppola: " Quell'uomo deve morire ". Probabilmente, una volta certe delle sorti di Moro, le cosche ritirarono i loro scagnozzi. " Un'accurata lettura - ricorda Francesco Biscione - di documenti giudiziari quali intercettazioni telefoniche e altri riscontri ha consentito al giudice Giovanni Salvi di stabilire che attorno al 10 aprile cessò del tutto l'attivazione di Cosa nostra ". A conferma di questo percorso, narrato a più riprese anche da alcuni pentiti, si aggiunge poi la testimonianza di Raffaele Cutolo che riferisce come Nicolino Selis gli disse che, del tutto casualmente, era venuto a conoscere la collocazione del covo nel quale era tenuto sequestrato Aldo Moro. A dire di Nicolino Selis - racconta Cutolo - la prigione del parlamentare democristiano si trovava nei pressi di un appartamento che egli teneva come nascondiglio per eventuali latitanze. Dopo aver proposto l'ubicazione della "prigione del popolo" ad alcuni esponenti della DC, l'ex boss della camorra si sentì dire: " Fatti gli affari tuoi ". Dunque siamo in possesso di un paio di indizi che indicano la strada indicata all'inizio del ragionamento. A questo punto del discorso si inserisce perfettamente anche la domanda posta da Michela Cipriani, moglie del defunto deputato di Democrazia Proletaria: " Perché [ parlando delle Br ] non svelare e gestire politicamente il memoriale-bomba che parlava fra l'altro di Stay behind e che costituiva il maggior risultato politico conseguito dalla lotta armata? ". Eppure, nel terzo comunicato del 29 marzo 1978, i brigatisti avevano annunciato trionfanti che l'interrogatorio di Aldo Moro "...prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno attuando [...] proprio sul ruolo - prosegue il comunicato - che le centrali imperialiste hanno assegnato alla DC, sulle strutture e gli uomini che gestiscono il progetto controrivoluzionario, sulla loro interdipendenza e subordinazione agli interessi imperialisti internazionali, sui finanziamenti occulti, sui piani economici-politici-militari da attuare in Italia [...] il prigioniero politico Aldo Moro ha cominciato a fornire le sue illuminanti risposte. Le informazioni che abbiamo così modo di reperire, una volta verificate, verranno rese note al movimento rivoluzionario che saprà farne buon uso nel prosieguo del processo al regime che con l'iniziativa delle forze combattenti si è aperto in tutto il paese ". Quindi nella primissima fase del rapimento le Br, di fronte ad un Moro che gli raccontava situazioni cui probabilmente non osavano nemmeno sperare, cantano vittoria. Poi però - incredibilmente - si assistette ad un repentino cambio di rotta. Un'allucinante retromarcia delle Br si nota - è bene dirlo - già nel comunicato n°6 del 15 aprile 1978, prima quindi che venisse inviato ai brigatisti - come afferma nel suo libro Francesco Biscione - il messaggio del 18 Aprile che di fatto imponeva loro di uccidere Aldo Moro. Mario Moretti ed i suoi compagni informarono infatti che: " l'interrogatorio di Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano, ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione imperialista nel nostro paese, riesaminare i momenti delle trame di potere, da quelle pacifiche a quelle più sanguinarie, con cui la borghesia ha tessuto la sua offensiva contro il movimento proletario, individuare attraverso le risposte di Moro le responsabilità della DC, di ciascuno dei suoi boss, nell'attuazione dei piani voluti dalla borghesia imperialista e dei cui interessi la DC è sempre stata massima interprete, non ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze che non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari...". La deduzione che viene da fare è che evidentemente a Moretti, attraverso chissà quali canali, erano già giunte pressioni di una certa entità, interferenze tali da far tremare la dirigenza delle Br. I brigatisti fecero dunque intendere in modo esplicito che Aldo Moro aveva parlato di tutto e di tutti, però conclusero in una forma oscura: " Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato..." 60. Ma il messaggio per la DC, lo Stato ed i suoi apparati istituzionali era lampante: Mario Moretti ed i brigatisti rossi che hanno gestito il sequestro Moro informavano che non avrebbero rivelato niente di quanto appreso. " Non ci sono segreti che riguardano la DC " scrissero, quindi " cosa mai si potrà dire al proletariato che già non sappia ? ". Alla luce del memoriale ritrovato nel 1990 a Milano, nel covo di Via Montenevoso, e dello studio compiuto da Biscione [agli atti processuali], sappiamo che non era certamente così. Esaminando in dettaglio le dichiarazioni contraddittorie rese dai brigatisti su questo specifico punto si giunge alla conclusione che, con molta furbizia, alcuni di loro possono aver mantenuto segreti il memoriale ed il suo contenuto per poi usarlo come merce di scambio quando se ne fosse presentata la necessità nell'ambito di una futura trattativa in campo giudiziario. Ed il trattamento carcerario riservato ad alcuni di loro dal 1987 in poi (ad esempio a Mario Moretti e Barbara Balzerani) avvalorava questa ipotesi: per quanto non sia poco il tempo che hanno passato in prigione, si deve convenire che è molto poco rispetto a quanto avrebbero dovuto effettivamente trascorrere. Salta agli occhi per esempio la differenza tra un Moretti che si è fatto a malapena 20 anni di carcere essendo condannato a più ergastoli per vari reati di sangue, ed un Franceschini che si è fatto poco meno pur non avendo mai sparato un solo colpo di pistola. Forse la differenza l'hanno fatta proprio quei segreti sul caso Moro che Moretti, tacendo, ha posto a suo favore sul piatto della "bilancia giudiziaria" ? Come non sottolineare poi la mancanza delle registrazioni degli interrogatori di Moro. I nastri registrati - che avrebbero fatto conoscere meglio l'andamento dei colloqui e lo sviluppo delle strategia posta in essere da Moro - non si sono mai trovati; i brigatisti affermano di aver distrutto il tutto per motivi di sicurezza, ma questa affermazione appare assai poco credibile. Poiché si da per acquisito che ad interrogare lo statista DC fu Moretti, e poiché Moretti si era già esposto, bruciandosi, con la lunga telefonata fatta alla famiglia del sequestrato, non ha alcun senso nascondere la voce dell'interrogante per impedirne una eventuale identificazione, a meno che gli interrogatori non siano stati fatti da una persona del tutto diversa (ancora sconosciuta ed importante, dunque da proteggere) dai brigatisti finora noti. La presenza insistente della malavita, impegnata a gestire il sequestro di Aldo Moro rivestendo il duplice ruolo di fiancheggiatore dello "Stato sotterraneo" (che lo voleva morto) e dei brigatisti rossi che non sapevano più cosa fare, può essere provata dal comunicato n°7 del 20 aprile 1978 che " appare allo stesso tempo - scrive Biscione - l'ultimo della prima serie ed il primo della seconda... - perché - [...] iniziava da parte delle Brigate rosse l'offensiva sulla trattativa: il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione dei prigionieri comunisti. La DC dia risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre disponibili; seguiva l'ultimatum: 24 ore di tempo per una risposta a partire dalle ore 15 del 20 aprile ". Erano passati solo due giorni dal comunicato del lago della Duchessa, redatto da Toni Chichiarelli ed ispirato, scrivono gli stessi brigatisti su indicazione di Aldo Moro " da Andreotti ed i suoi complici ", ed i carcerieri del presidente della Democrazia cristiana abbandonano l'alta politica e passano al concreto : " Il comunicato n°7 è anche il primo - rileva Biscione - che non porta in chiusura lo slogan consueto "portare l'attacco allo Stato imperialista", ma "libertà per tutti i comunisti imprigionati" ". Un segnale preciso a quanti in carcere attendevano che si realizzasse lo scopo primario dell'operazione Moro: la liberazione dei detenuti ed allo stesso tempo un modo per tenere buoni i membri del nucleo storico. Dunque la minaccia venne recepita da Moretti, il quale rivolse anch'egli un messaggio rassicurante ai detenuti, non solo comunisti ma anche malavitosi. Avevano - ed in questo ha probabilmente ragione Biscione - indubbiamente compreso, insieme al resto, l'ordine di uccidere Aldo Moro, ma sottolineavano l'inutilità del gesto se questo fosse stato eseguito senza avere ottenuto almeno la scarcerazione dei detenuti, divenuta l'obiettivo primario di un sequestro che aveva invece prodotto, sul piano politico, frutti eccezionali come la confessione del presidente della Democrazia cristiana su fatti e misfatti del sistema di potere italiano. Considerato però che di questa confessione i brigatisti non avrebbero mai potuto fare uso, ed avendo pubblicamente annunciato questa loro rinuncia, la scarcerazione di un numero ragionevole di detenuti avrebbe permesso loro di salvare le apparenze e di riportare un simulacro di vittoria restituendo vivo Aldo Moro. Da qui la cancellazione, in tutta fretta, dello slogan " portare l'attacco al cuore dello Stato imperialista " con l'unico che potesse avere un significato per coloro che stavano in galera, " libertà per tutti i comunisti imprigionati ". Così nel comunicato n°8 le Br chiesero la liberazione di 13 detenuti, in questo modo venne segnata, definitivamente, la sorte di Aldo Moro, e per motivi opposti a quelli che gli storici ufficiali ritengono. Questi ultimi, difatti, sono convinti che " l'insostenibile richiesta dello scambio tredici contro uno, rendeva ancor più fioca la voce già flebile e minoritaria dei sostenitori della trattativa. Che il significato del comunicato n°8 fosse l'attestazione di una posizione nuova che, contrariamente a varie ragionevoli aspettative, manifestava che si stava andando verso l'esecuzione dell'ostaggio fu dunque - conclude Biscione - una considerazione abbastanza diffusa ". Secondo i calcoli dei brigatisti, fissando in tredici il numero dei liberandi, davano prova di quella ragionevolezza che li avrebbe condotti a condurre, finalmente, una trattativa riservata e diretta con la Democrazia cristiana per poi stabilire con Piazza del Gesù un accordo di cui solo una parte avrebbe avuto pubblicità; l'altra parte avrebbe dovuto rimanere segreta, uno di quegli scambi "all'italiana" destinati ad essere taciuti per sempre da entrambe le parti. Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che quella compiuta da Mario Moretti e dai suoi compagni (la richiesta di uno scambio 13 ad 1) sia stata una mossa per chiudere ogni possibilità ad ogni altra probabile trattativa e, quindi, poter procedere all'esecuzione di Aldo Moro scaricandone ogni responsabilità sulla Democrazia cristiana. Così probabilmente non fu, e per convincersene è sufficiente riascoltare la telefonata che, con totale e stupefacente imprudenza, un Mario Moretti al colmo dell'agitazione nervosa, fece a casa della famiglia Moro il 30 Aprile 1978: " Solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore e preciso di Zaccagnini può modificare la situazione " dice Mario Moretti che usa un tono giustificatorio " sa, una condanna a morte non è una cosa sulla quale si possa prendere alla leggera [...]". "Non possiamo fare altrimenti...", conclude un Moretti che appare nella posizione di chi subisce una decisione, non l'assume e tanto meno la impone. Egli si rivolse alla famiglia forse perché credeva che Eleonora Moro potesse contare qualcosa, dimostrò di essere informato sui movimenti che i congiunti del presidente avevano fatto, a riprova che riteneva la "carta umanitaria" essenziale, perché era l'ultima cosa che gli è rimasta in mano essendo stato costretto a rinunciare all'altra, la più importante, quella decisiva: le rivelazioni di Moro su uomini e fatti. L'ultimo tentativo lo fece, per loro conto, Daniele Pifano che incontrò il rappresentante del Procuratore generale Pietro Pascalino, il sostituto procuratore Claudio Vitalone, e gli propose lo scambio di uno contro uno, un detenuto magari malato contro Aldo Moro e, ricevuto un rifiuto, ripiegò sul suggerimento della "soppressione delle norme restrittive dei colloqui dei carcerati con i familiari". Ma ormai la questione Moro era irrimediabilmente arrivata al capolinea. Lo "Stato parallelo" non si era esposto in prima persona ma aveva fatto ricorso ad un altro tipo di "occasionali alleati", la spietata Banda della Magliana cui Tony Chichiarelli era legato. Ciò venne confermato anche dall'on. Benito Cazora, recentemente scomparso: " ...recentemente - scriveva Luigi Cipriani - il senatore Cazora ha confermato al magistrato romano che sta indagando sulle trattative condotte durante il sequestro Moro, che si ebbe coscienza del fatto che il presidente della DC fosse "custodito" dalla Banda della Magliana ". L'ex parlamentare di Democrazia proletaria poté così legittimamente avere una ulteriore e definitiva conferma della sua tesi e di quanto aveva dichiarato il 14 settembre 1978 al quotidiano Repubblica il senatore democristiano Giovaniello, molto vicino ad Aldo Moro ed alla sua famiglia: " Quando sapemmo che Moro stava per essere affidato a criminali comuni per il terribile atto conclusivo, facemmo le cose più impensabili per arrivare prima degli altri, ma senza fortuna ". Nel sequestro di Aldo Moro fu dunque un livello di potere occulto, e non Mario Moretti ed i suoi compagni, a stabilire tempi e modalità della prigionia e, infine, della sua morte. Lo stesso Stato che Aldo Moro conosceva come debole, insicuro, pronto a compromessi di ogni sorta, aveva improvvisamente risposto con una fermezza ed una decisione fino ad allora sconosciute; il destino dello statista DC era segnato, questo lui lo capì bene, come traspare evidente dalle sue ultime lettere, pesantissime quanto profetiche nei confronti di un partito - la DC - che pensava di conoscere come nessun altro. Durante il sequestro era accaduto qualcos'altro di molto, troppo, pericoloso: Aldo Moro stava parlando di tutto e tutti: delle trattative segrete per la nascita del centro-sinistra, del tentativo di golpe di De Lorenzo, della strage di P.zza Fontana, del ruolo della DC nella strategia della tensione, della riforma dei servizi segreti, dell'affare "Lockeed", dei piani anti-guerriglia previsti per il nostro paese dalla NATO, del sistema di potere e di sostentamento economico del colosso democristiano. Il rischio che queste verità venissero alla luce in quegli anni era veramente pesante, un rischio troppo elevato per i sostenitori e gli oltranzisti dell'alleanza atlantica, gli unici effettivi artefici della politica interna italiana. Fu così, il presidente della Democrazia cristiana si ritrovò schiacciato dalla forza delle due superpotenze, dei loro alleati e dalle loro reciproche paure, ansie dalle quali vennero liberate dalle "ignare" Brigate rosse proprio con il sequestro. " L'agguato di via Fani, l'eccidio della scorta ed il sequestro dell'onorevole Moro, lo scenario tragico dei luoghi della strage appena consumata, la rivendicazione e i successivi comunicati delle Br, la prigionia di Moro in un luogo sconosciuto e il processo cui questi veniva sottoposto, gli appelli sempre più pressanti e drammatici dell'ostaggio, il disconoscimento ufficiale della loro "autenticità", il rifiuto della trattativa, la sterile polemica che si aprì tra i fautori di questa e i sostenitori della fermezza, l'immane mobilitazione dell'apparato istituzionale di sicurezza, l'avvitarsi della vicenda verso il suo tragico epilogo, il macabro rinvenimento della salma di Moro in un luogo centrale della capitale dello Stato, equidistante dalle sedi dei due maggiori partiti presenti in Parlamento, le dimissioni del Ministro dell'Interno: queste furono le tessere che composero il mosaico visibile degli eventi, dove il delitto Moro, valutato come fatto storico, apparve come il momento di maggiore intensità offensiva del partito armato e, specularmente, come il momento in cui lo Stato si rivelò più impotente nel dare risposta appena adeguata all'aggressione eversiva ". Questo il parere espresso dalla Commissione Stragi durante l'ultima legislatura, un giudizio che pur non apparendo del tutto asettico, certamente non si lascia andare a nessun tipo di accusa diretta. E' esistito dunque (e, data la portata degli indizi, è proprio sotto gli occhi di tutti) un "lato oscuro", una sorta di mondo sotterraneo e parallelo a quello ufficiale che ha operato incessantemente sia lungo la vita delle Br, sia - e con maggiore visibilità ed incidenza - nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Anche la commissione parlamentare [della XII legislatura] sul caso Moro, pur con tutte le sue consuete e dovute cautele, è giunta ad affermare ad esempio che: " le nuove acquisizioni consentono di ritenere certo o almeno altamente probabile (come già affermato in alcune delle relazioni di minoranza della Commissione Moro, in particolare quella dell'onorevole Sciascia) il carattere intenzionale di almeno alcune delle omissioni, di almeno alcune delle inerzie che contribuirono al tragico epilogo della vicenda Moro ". O ancora che: "...inizialmente la criminalità organizzata si era attivata e sia stata attivata dall'esterno per favorire la liberazione di Moro: e che tale intervento si arrestò per valutazioni interne alla criminalità organizzata e per input esterni probabilmente coincidenti. Analogamente impressionante è la convergenza di indicazioni verso un intreccio fitto - e non ancora pienamente disvelato - di ambigui rapporti che legarono in ambito romano uomini di vertice delle organizzazioni mafiose e della criminalità locale al mondo di uno oscuro affarismo, ad esponenti politici, ad appartenenti alla Loggia P2, a settori istituzionali, in particolare dei servizi segreti ". Le Br che avevano progettato il sequestro di Aldo Moro con il ferreo convincimento che il mondo politico italiano avrebbe implorato pietà per la sua vita, si erano con ogni probabilità ritrovati nella condizione opposta: loro a cercare di salvare l'ostaggio ed il mondo politico - o almeno una parte di esso - a livello sotterraneo, a pretendere la sua morte senza condizioni. E con ogni probabilità quelle "15 gocce di Atropina", come citava un appunto rinvenuto in Via Gradoli e scritto da Mario Moretti, servirono alle Br per anestetizzare Moro e portarlo via dal covo prigione di Via Montalcini; forse proprio per consegnarlo alla Banda della Magliana. Sebbene - come sempre - manchino le prove per dimostrare che anche l'assassinio di Aldo Moro sia da far rientrare tra le interferenze attuate in Italia dal c.d. "oltranzismo atlantico", è certamente un dato di fatto che nel 1978, poco dopo l'assassinio di Aldo Moro, l'auspicato intervento del capitalismo occidentale e dei suoi investimenti avvenne massiccio. Le autorità monetarie consentirono a numerose banche Usa di aprire filiali nel nostro paese (Manifactures Hannover trust, Inrving trust Company, Wells fargo) con relativi sportelli (Security pacific). Alcune banche estere, tedesche americane e svizzere, dirottano i risparmi dei loro clienti verso la borsa di Milano. Tutti i titoli azionari - compresi quelli delle industrie decotte - subirono aumenti rilevanti: le Montedison salirono del 102%, le SNIA del 60,8%, Acqua marcia del 70,8%, Rinascente del 95,2%, le Fiat aumentarono del 40,5% superando per la prima volta le tremila lire. Un vero pompaggio di ottimismo nel capitalismo italiano, proprio nel momento in cui i governi di unità nazionale entravano in crisi e l'assassinio di Moro rimetteva in moto le forze della destra DC. Anche questa fu una semplice coincidenza ? Mino Pecorelli, già nell'ottobre del 1978, aveva scritto che il ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, sapeva tutto: " perché non ha fatto nulla ? [...] Il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto. E qui sorge il rebus - ironizzava Pecorelli - quanto in alto ? magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?..." . A chi si riferiva il direttore di "OP" ? Manco a dirlo anche su questo punto le opinioni degli osservatori divergono: " non paiono esservi dubbi sul fatto - si affretta a scrivere Francesco Biscione - che la "loggia di Cristo in Paradiso" alla quale il ministro si sarebbe rivolto per avere lumi sul da farsi fosse la P2 ". Stefano Fratini -sul suo sito internet- afferma invece che " Mino Pecorelli si riferiva a quella che egli stesso definiva la "Loggia vaticana", una loggia massonica di cui possedeva un elenco di nomi di cardinali ed alti dignitari ecclesiastici, completo di numero di matricola e data di iniziazione (nel numero di "OP" del 12 settembre 1978 Pecorelli pubblicò un elenco di affiliati alla loggia vaticana fra i quali, per limitarci ad un esempio, compariva il nome del cardinale Sebastiano Baggio, indicato come "Seba, numero di matricola 85/2640 e data di iniziazione il 14 agosto 1957"). Loggia o non loggia, il riferimento alle gerarchie ecclesiastiche è trasparente; inequivocabile dunque il fatto che anche dal Sacro Soglio qualcuno impose ad un Papa forse troppo debole l'avallo alla condanna di Aldo Moro". Difficile dire chi abbia ragione; a far pendere la bilancia dalla parte delle tesi di Fratini stanno tuttavia alcune frasi scritte da Aldo Moro e presenti più di una volta tra le 93 lettere manoscritte ritrovate nel 1990 nel covo di via Monte Nevoso a Milano [mentre le Br ne fecero recapitare solo 30 durante il sequestro]. "La chiave è in Vaticano", scrisse infatti lo statista DC, e di nuovo: " il Papa ha fatto un pò pochino...". Concludo ancora con le parole dell'informatissimo Mino Pecorelli: "L'agguato di Via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un paese industriale integrato nel sistema occidentale. L'obiettivo primario è senz'altro quello di allontanare il PCI dall'area di potere nel momento in cui si accinge all'ultimo balzo. Perchè è comunque interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l'ascesa del PCI, cioè del leader dell'eurocomunismo, dl comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente governare un paese industriale. Ciò non è gradito agli americani [...] e ancor meno è gradito ai sovietici [...] Ancora una volta la logica di yalta è passata sulle teste delle potenze minori. e' Yalta che ha deciso Via Mario Fani". Teorie, illazioni, supposizioni, castelli accusatori privi di fondamenta per la loro quasi totalità direbbe un giurista. Tutta la ricostruzione della storia delle Br, come ho cercato di mostrare, è costellata da precise interferenze . Emerge limpida una sola verità: non si hanno certezze. La realtà è ancora là, tutta da dimostrare. E' vero, esiste - ed è alquanto palese - un preciso sentiero indicato dagli indizi che ho riscontrato, però le prove certe e documentabili permangono in numero troppo esiguo per poter emettere delle sentenze, per avvalorare una tesi in modo definitivo. L'avventura brigatista, ed in questo concordo con la Commissione Gualtieri, non può e non deve considerarsi ancora materia per gli storici, ciò almeno fino a quando i dati a nostra disposizione non consentiranno di colmare i diversi vuoti di conoscenza che riguardano l'azione delle Br e quella dello Stato (ma soprattutto di chi ha agito nel nome suo...). Dalla morte di Aldo Moro sono passati 25 anni, sono stati fatti cinque processi (ed un sesto è in preparazione), i cosiddetti 'anni di piombo' sono finiti, la classe politica che in quegli anni governava l'Italia è stata spazzata via dall'esplosione di quel fenomeno giudiziario passato alla storia come "tangentopoli", molti dei brigatisti che parteciparono all'"Operazione Friz" hanno dichiarato come conclusa ed irripetibile l'esperienza della lotta armata e delle Brigate rosse, eppure di tanto in tanto emergono nuovi fatti, prove non emerse prima d'ora, testimonianze sconosciute o sottovalutate che costringono di volta in volta gli studiosi a riscrivere la storia e la magistratura ad aprire nuove indagini. L'ultima sconvolgente novità è emersa recentemente grazie alle rivelazioni di Antonino Arconte, ex agente segreto (nome in codice G71 VO 155 M, cioè agente della struttura Gladio, anno addestramento 1971, Marina Militare, Volontario numero 155) appartenente alla "Seconda Centuria Lupi" della struttura Stay Behind. Lo stesso Arconte definisce la struttura di intelligent di cui faceva parte come 'Gladio delle Centurie', gruppo appartenente ad un servizio segreto di cui si ignorava perfino l'esistenza, il SIMM (Servizio Informazioni Marina Militare) che aveva compiti operativi solo all'estero. Uomini super-addestrati che si muovevano all'interno delle strategie della Nato ed in linea con modelli operativi ispirati a quelli della CIA. Analizzando il racconto di Arconte, emerge come la 'Gladio delle Centurie' fosse una struttura ben diversa da quella 'Gladio' la cui esistenza venne svelata in Parlamento da Giulio Andreotti il 2 agosto 1990: non una rete di agenti ideata per fronteggiare una possibile invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia, ma una struttura informativa e operativa che agiva esclusivamente oltre confine, veri e propri reparti irregolari operanti fuori da quanto previsto dalla Costituzione e al di fuori della dipendenza dal Capo dello Stato, che, per l'Art. 87 della Costituzione, è il Capo delle Forze Armate.Arconte ha raccontato come i primi giorni di Marzo 1978 ricevette l'ordine di partire per una missione in Medio Oriente con il compito di " ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria D'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut ". Si imbarcò così il 6 Marzo dal porto di La Spezia sul mercantile 'Jumbo Emme'. A Beirut Arconte incontrò l'agente G-219 e una volta tornati sulla nave gli consegnò il plico; al suo interno vi era un foglio di carta azzurra firmato dal capitano di vascello Remo Malusardi della X Divisione "S.B." (Stay Behind) della direzione del personale del Ministero della Marina e conteneva un 'ordine a distruzione immediata'. Il documento porta la data del 2 marzo 1978, e cioè 14 giorni prima del rapimento dell'On. Moro e dell'uccisione della sua scorta, ed ordinava ai "gladiatori" di prendere contatti con i movimenti di liberazione nel vicino Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro. Contravvenendo agli ordini l'agente G-219 non distrusse il foglio e lo conservò fino a quando, verso i primi di luglio del 1995, decise di consegnarlo proprio ad Arconte durante un incontro avvenuto ad Olbia. Mario Ferraro venne trovato impiccato a casa sua, a Roma, un mese dopo questo incontro. L'ordine a distruzione immediata, autenticato dal notaio Angozzi, di Oristano, è stato recentemente sottoposto ad una perizia per verificarne l'autenticità. La risposta del perito è stata: " Il documento di Arconte è compatibile con l'epoca dei documenti di raffronto ", quindi dimostra che ambienti dei sevizi segreti erano al corrente del sequestro Moro prima che avvenisse, e anziché dare l'allarme si predisponevano a iniziative legate allo scenario del dopo-sequestro. Il ministro della Difesa non ha risposto alle interpellanze parlamentari (una delle quali del senatore Giulio Andreotti) sulla vicenda, nonostante sia trascorso un anno dalla loro presentazione e nonostante ripetuti solleciti. Come dicono gli inglese "The story continues...". Ma fino a quando non si riuscirà a fare piena luce sui lati oscuri, finché continueranno ad esistere dubbi e ad emergere nuove verità sulla 'Prima Repubblica' questa continuerà a gettare un'ombra sul presente, e non ci potrà essere una vera transizione verso la "Seconda Repubblica".”
BRIGATE ROSSE E RISCRIZIONE DELLA STORIA: LE VERITA' NEGATE.
Macchiarini e il primo sequestro-lampo delle Br. L'ex dirigente della Sit Siemens «processato» nel 1972: fu il primo atto dei terroristi rossi, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 13/09/2018, su "Il Giornale". Un nome diventato simbolo: Idalgo Macchiarini. La sua foto, con due pistole premute sulle guance e un cartello appeso al collo con la stella a cinque punte, segna la storia del terrorismo italiano e l'incipit delle Brigate rosse. Era il 3 marzo 1972 e il sequestro lampo del dirigente della Sit Siemens durò venti minuti di orologio, ma quei venti minuti segnano il primo capitolo degli anni di piombo e il debutto sulla scena della prima generazione di terroristi: Renato Curcio e la sua donna Mara Cagol che successivamente sarebbe stata uccisa in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine, Alberto Franceschini, Mario Moretti, l'unico capo che sarebbe sgusciato sempre fra retate e arresti, avrebbe condotto sei anni più tardi, nel 1978, l'interrogatorio del prigioniero Aldo Moro e sarebbe stato ammanettato solo nel 1981. Tre componenti miscelate all'ombra della Madonnina: i duri di Reggio Emilia, fuoriusciti dalla Fgci, come Franceschini che non avevano mai abbandonato il sogno della rivoluzione che il partito Comunista con la svolta di Salerno aveva progressivamente mandato in soffitta; gli studenti di sociologia di Trento, come Curcio; e gli operai reclutati a Milano, alla Sit Siemens, come Moretti. L'atto di fondazione è un pranzo in una trattoria in provincia di Reggio Emilia, nell'agosto 1970 e a cui partecipano un'ottantina di militanti, provenienti da Sinistra proletaria e dal Collettivo politico metropolitano. È l'onda lunga del Sessantotto: nascono le formazioni della sinistra radicale, ma c'è anche chi punta dritto verso la lotta armata. Già il 14 agosto alla Sit Siemens compaiono i primi volantini, ma si tratta di gesti da educande al confronto con la mattanza che seguirà negli anni successivi. La prima azione importante è proprio il rapimento di Macchiarini, scomparso qualche giorno fa a Imperia dopo essere rientrato nell'anonimato. Lo rilasciano quasi subito. E nel volantino di rivendicazione lo definiscono «un cane rognoso», per poi concludere con un motto che risuonerà cupo infinite volte nella stagione degli omicidi seriali: «Colpirne uno per educarne cento». La forza della formazione viene sottovalutata, anche se i primi arresti arrivano già nel '72 grazie all'infiltrato Marco Pisetta. C'è un pregiudizio culturale che impedisce di leggere la realtà per quello che è: a sinistra ritengono le Br sedicenti, fascisti travestiti o manovrati da indecifrabili poteri forti. Ci vorrà l'onestà intellettuale di Rossana Rossanda, che conierà l'immagine suggestiva dell'album di famiglia, per scoprire l'ovvio. Ma con grave ritardo. Intanto, il servizio d'ordine di Lotta continua, uno dei gruppi più dinamici della sinistra a sinistra del Pci, si militarizza e va verso il partito armato: è la genesi di Prima linea, l'altra grande sigla dell'eversione tricolore. Vengono da Lc Ovidio Bompressi e Leonardo Marino che il 17 maggio 1972, a Milano, uccidono il commissario Luigi Calabresi. Le Br vanno avanti con i sequestri e le azioni dimostrative ma il sangue resta un tabù. Fino al 17 giugno 1974 quando ammazzano Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, prime croci di una Spoon River interminabile che si concluderà solo alla fine degli anni Ottanta; con nuove fiammate dopo il Duemila.
IL CASO CIRILLO LA TRATTATIVA STATO-BR-CAMORRA. Fermate quel giudice, scrive Tullio Pironti Editore. Carlo Alemi. Presentazione di Luigi Necco Prefazione di Franco Roberti.
«Generalmente, questo tipo di trattative non lascia traccia; in questo caso però, grazie a un magistrato coraggioso e tenace, il giudice Carlo Alemi, disponiamo di informazioni assai precise a proposito delle ambigue trattative che si svolsero tra il potere e la mafia allo scopo di salvare il Cirillo». Jacques de Saint-Victor
«A dodici anni dal sequestro una sentenza sposa in pieno le conclusioni di Alemi. La trattativa c’è stata, l’hanno condotta i politici e i soldi per pagare il riscatto non sono stati il frutto di una spontanea offerta di amici e parenti di Cirillo». Bruno De Stefano
«Carlo Alemi, unico magistrato inquirente che ha osato sospettare dei notabili democristiani, uscendo dal circuito costituzionale (come dirà il Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita in pieno Parlamento per controbattere alle richieste di dimissioni del Ministro dell’Interno Antonio Gava) finisce davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. […] La Procura della Repubblica, che al contrario non sospetta nulla, al processo di primo grado sulla trattativa è rappresentata dal sostituto procuratore Alfonso Barbarano, il quale si oppone a qualsiasi richiesta degli avvocati mirante ad approfondire i retroscena della liberazione di Cirillo». Marisa Figurato
«Sulle trattative, sui rapporti con la camorra, sulla partecipazione dei politici, nessuno di loro dice nulla, a parte: “non ricordo”, “ho rimosso”. […] E rischia anche lui, il dottor Alemi. Dopo il primo processo alle BR napoletane vuole andare più a fondo sulle trattative, sul coinvolgimento di Cutolo e anche su quello di eventuali politici». Carlo Lucarelli
«È provato che, in occasione del sequestro Cirillo, vi sono stati fatti di gravissima degenerazione e deviazione dei nostri Servizi di Sicurezza». Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta del Comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi [Presidenza del senatore Libero Gualtieri, 4 ottobre 1984]
«Per quanto riguarda il giudice Carlo Alemi, l’Italia dovrebbe essere orgogliosa di aver avuto servitori dello Stato così tenaci e indipendenti. La vicenda Cirillo la dice lunga sulla solitudine che alcuni magistrati italiani hanno dovuto sopportare per tentare di fare giustizia. Speriamo che finalmente Alemi trovi il tempo di scrivere le sue memorie e raccontarci, sciolto da altri vincoli, tutto ciò che non ha potuto scrivere negli atti giudiziari». Isaia Sales
«La sentenza istruttoria del giudice Carlo Alemi si segnala per il suo coraggio civile e per aver messo in luce, pur all’interno di rigide regole processuali, contraddizioni e lacune delle versioni ufficiali sui fatti, complicità e distrazioni dell’apparato statale, pesanti compromissioni della DC nazionale e campana in tutta la storia». Nicola Tranfaglia
È la sera del 27 aprile del 1981 quando Ciro Cirillo, assessore regionale ai Lavori Pubblici della Regione Campania, viene sequestrato nel garage di casa, a Torre del Greco, da un commando di cinque uomini appartenenti alle Brigate Rosse, capeggiati da Giovanni Senzani. Nel conflitto a fuoco che segue perdono la vita l’agente di scorta di Cirillo, il brigadiere Luigi Carbone, l’autista Mario Cancello, e viene gambizzato Ciro Fiorillo, segretario dell’assessore. Ex presidente della Regione, democristiano “doroteo” molto vicino ad Antonio Gava, Cirillo è uno degli uomini politici più addentro ai meccanismi del potere; da qualche mese, inoltre, è diventato presidente della Commissione incaricata di gestire gli appalti del post-terremoto del 1980. Lo Stato annuncia la linea dura: come già per Aldo Moro tre anni prima, non tratterà con le BR. Cirillo verrà rilasciato dopo 89 giorni di prigionia, all’alba del 24 luglio, in un palazzo abbandonato di via Stadera, a Poggioreale. La liberazione era stata annunciata il giorno prima da un comunicato, in cui i rapitori dichiaravano che a sobbarcarsi l’onere del riscatto - un miliardo e 450 milioni di lire - era stata la Democrazia Cristiana, suscitando un enorme scandalo, nonché l’immediata smentita da parte dei familiari, che si assunsero la totale responsabilità di quel pagamento. La stessa liberazione fu costellata da episodi controversi, come quello per cui Cirillo, invece di essere tradotto in Questura, come da disposizioni della magistratura, venne portato a casa, dove vano sarà il tentativo di interrogatorio da parte dell’allora pubblico ministero di Napoli Libero Mancuso, causa stato di semincoscienza ascrivibile a choc - salvo poi colloquio personale, a porte chiuse, con Antonio Gava e Flaminio Piccoli, esponenti di spicco del partito. Fin da subito emersero dubbi anche in merito alla cifra pagata per il riscatto: si vociferava, infatti, che l’ammontare fosse stato pattuito grazie all’intercessione della camorra, cui sostanzialmente si doveva il merito del rilascio, e che la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo - il più sanguinario capo camorra dell’epoca - ne avesse incassato almeno una metà: la somma sarebbe stata messa insieme da un gruppo di imprenditori edili, “amici” della DC - legati a doppio filo a Cirillo per questioni di appalti - e i “colloqui”, tanto con funzionari dei Servizi Segreti che con esponenti politici, si sarebbero svolti direttamente nell’“allegro” carcere di Ascoli Piceno, in cui era detenuto ‘o Professore, per il tramite di faccendieri senza scrupoli. Inizia così quella che il presidente emerito Giorgio Napolitano ha definito «una delle pagine più nere dell’esercizio del potere nell’Italia democratica»: il sequestro è destinato infatti a divenire uno dei più clamorosi casi politici e giudiziari degli anni bui della Repubblica Italiana. A indagare sul caso Cirillo è il magistrato Carlo Alemi che, in qualità di giudice istruttore, diventa protagonista di alcune delle vicende più oscure e sanguinose degli anni di piombo, conoscendo e interrogando i personaggi più ambigui implicati nelle intricate trame della politica, della malavita organizzata, del terrorismo rosso e dei Servizi Segreti, fino a divenire, suo malgrado, inconsapevole agnello sacrificale. Gli elementi che si intrecciano nella sua ricostruzione sono tanti: fatti di cronaca nera, crimini mafiosi, ipotesi investigative, tentativi di depistaggi da parte di organi dello Stato, sparizione di documenti, misteri irrisolti, testimonianze scottanti, raggiri politici, Servizi deviati. È Alemi l’autore della straordinaria istruttoria condotta sul caso, affidatagli il 1° settembre del 1981 e conclusasi il 28 luglio del 1988, con il deposito della sentenza-ordinanza di 1.534 pagine destinata a fare Storia, un J’Accuse che scatenerà una vera e propria tempesta politica in Parlamento: c’è stata mediazione politica da parte di esponenti della DC, così come ci sono stati contatti e intercessioni con i brigatisti per il tramite di Servizi Segreti e Nuova Camorra Organizzata. Vengono chieste le dimissioni di Gava, divenuto intanto, con il nuovo governo De Mita, ministro degli Interni; il Presidente del Consiglio lo difende, respingendo al mittente le accuse, attaccando violentemente Alemi per le sue «opinioni indebitamente espresse e illazioni» e asserendo che il giudice ha abusato delle procedure, «ponendosi così fuori dal circuito costituzionale». L’esito dell’istruttoria, che Carlo Alemi portò avanti, con coraggio e ostinazione, mettendo a rischio la sua stessa vita, tra minacce di morte - il suo nome figurava nell’agenda della “Primula Rossa” Barbara Balzerani - scorte negate, procedimenti per diffamazione e commissioni d’inchiesta - portò alla comminazione di 30 ergastoli. La sua ordinanza è diventata nel tempo oggetto di studio tanto nelle forze dell’ordine che nelle università italiane e negli atenei stranieri, in quanto documentazione preziosissima atta a testimoniare e ricostruire la storia dell’organizzazione terroristica nota con il nome di Brigate Rosse. Oggi, magistrato in pensione, per la prima volta e in esclusiva, il narratore d’eccezione della trattativa Stato-BR-camorra per la liberazione di Ciro Cirillo parla e racconta, svelando, in pagine dure e toccanti a un tempo, tra ricordi intimi e analisi storiche lucide e rigorose, chi effettivamente vi prese parte, per conto di chi e per quali motivi si siano mossi i Servizi Segreti e perché lo Stato, diversamente da quanto fece con Aldo Moro, trattò con i brigatisti.
Carlo Alemi nasce ad Addis Abeba, in Etiopia, nel 1941. Magistrato di lungo corso, noto in particolare per le indagini sulle Brigate Rosse, sulla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e sul sequestro Cirillo, nonché per quelle legate all’incendio della raffineria dell’Agip e alla dichiarazione di insolvenza della Banca di credito campano del noto faccendiere Gianpasquale Grappone, ha chiuso la sua carriera come presidente del Tribunale di Napoli.
Sul caso Cirillo parla Carlo Alemi. Ieri qui si è parlato della cattura del camorrista Pasquale Scotti dopo trent’anni di latitanza e di come oggi potrebbe dare la sua versione sulla vicenda del rapimento e soprattutto della liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito dalle BR nel 1981 e liberato dopo una trattativa, scrive Massimo Bordin il 29 Maggio 2015 su "Il Foglio". Ieri qui si è parlato della cattura del camorrista Pasquale Scotti dopo trent’anni di latitanza e di come oggi potrebbe dare la sua versione sulla vicenda del rapimento e soprattutto della liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito dalle BR nel 1981 e liberato dopo una trattativa, in quel caso ci fu davvero, con molti punti oscuri. Il magistrato che se ne occupò, Carlo Alemi, allora giudice istruttore napoletano, oggi in pensione, è stato intervistato due giorni fa dal Mattino. Ha rievocato la vicenda che effettivamente vide interagire camorra di Raffaele Cutolo e servizi segreti con le brigate rosse e i politici locali. Faccenda delicata, facilissima ai depistaggi e a ricostruzioni romanzate. Se Scotti dovesse parlare è essenziale la massima professionalità dei PM. Alemi è la memoria storica dell’inchiesta. Ieri ha spiegato al giornalista del Mattino che per il sequestro venne richiamato in servizio il generale Santovito, capo del SISMI, che era stato allontanato due anni prima per lo scandalo P2. Solo che la scoperta degli elenchi di Gelli e il conseguente allontanamento di Santovito risalgono al 1981, poche settimane prima del sequestro dell’assessore campano. Cominciamo malissimo.
Morto Cirillo. Giudice Alemi: ''Tutto chiaro per me, lo Stato trattò con la Camorra'', scrive il 31 Luglio 2017 Stella Cervasio su "La Repubblica" (Antimafia Duemila). Carlo Alemi fu giudice istruttore di un caso con uno strascico lungo trent'anni, su cui si riaccendono i riflettori dopo la scomparsa ieri all'età di 96 anni di Ciro Cirillo. Alemi ascolta, poi dice con sicurezza: "Un caso chiaro, per me. È la prima volta che l'intervento della camorra in una trattativa con lo Stato è stata riconosciuta nella sentenza di II grado e in Cassazione, negli atti delle Commissioni parlamentari sui servizi segreti e sulla camorra".
C'era anche il terrorismo, in quella trattativa per il rilascio del politico. Senzani, capo del commando brigatista che lo rapì aveva lavorato nel Centro servizi culturali, a pochi passi dalla casa di Cirillo.
"Senzani fu indicato come infiltrato dei servizi segreti nelle Br ed è stato condannato anche per il sequestro Cirillo".
L'ex assessore dc però ha continuato a negare che ci sia stata una trattativa.
"L'ha scritto nel libro "Io, Cirillo e Cutolo" anche il suo segretario e sindaco di Giugliano Giuliano Granata che erano andati in carcere a parlare con il boss. In quel libro ha scritto anche cose che a me aveva assolutamente negato".
Che cosa resta di oscuro, allora, in questa vicenda?
"Ciò che non è emerso ancora è il vero contenuto delle trattative che ci sono state tra Cutolo e lo Stato. L'ex presidente dell'Avellino, Antonio Sibilia, interrogato dai magistrati per altre vicende disse che il business della ricostruzione post-terremoto era partito dopo il sequestro Cirillo".
Fu rapito per il piano della ricostruzione?
"Se non si fosse bruciato, Cirillo avrebbe gestito tutta la ricostruzione post terremoto. Dopo il rapimento non glielo hanno più consentito, si era ampiamente esposto nella ricostruzione. Avrebbe gestito i miliardi degli appalti. Galasso lo dichiara quando viene arrestato. Non ci sono dubbi neanche sul fatto che sia intervenuta la camorra".
Chi poteva essere al corrente di tutto?
"Secondo me Raffaele Russo è una figura che è emersa poco in quella vicenda e che invece ha partecipato a molte riunioni che si tenevano nell'ufficio di Gava. Fu citato nelle deposizioni da Savarese, il gestore dell'hotel Le Axidie di Vico Equense, che aveva gestito la raccolta di soldi. Il grosso del denaro venne dai costruttori, se si fa due più due si possono collegare facilmente l'affare ricostruzione e gli imprenditori".
Cirillo dichiarò che la sua vicenda servì per incastrare Gava e questo le valse la definizione di toga rossa e anche un procedimento disciplinare.
"Rossa? Io però la giornalista dell'Unità l'ho arrestata per il falso. Non è stato facile lavorare in quegli anni: ricordo che avevo il telefono sotto controllo. Agli amici che mi chiedevano quando finiva l'inchiesta dicevo "la chiudo presto, non è emerso nulla". Forse per questo mi hanno lasciato stare".
Che cosa ricorda di Cirillo?
"Da lui e dai familiari nessuna collaborazione. C'erano disposizioni che venivano dall'alto. Ai magistrati che dovevano incontrarlo appena rilasciato, Libero Mancuso e Carmine Pace fu impedito di vederlo, ma lui si era incontrato con Gava e con Piccoli. Io lo interrogai e lui mantenne una posizione negatoria. In seguito ha sostenuto che ero un comunista che voleva sfidare la Dc. Ma quando lo incontrai per la presentazione al Suor Orsola del servizio di Giovanni Minoli "La storia siamo noi" sul caso Cirillo mi definì "un giudice onesto e corretto, ce ne vorrebbero tanti come lui". Qualche anno dopo però è tornato alla vecchia tesi: ha detto che volevo fregare la Dc".
Come lo ricorda, chi era il vero Cirillo?
"Era l'uomo di fiducia di Gava. In quella trasmissione di Minoli avevo rilasciato un'intervista dettagliata ma l'hanno quasi completamente tagliata. Mi dissero che Gava aveva accettato di partecipare se fossero state accorciate le mie frasi".
Il giudice Alemi: "Nel mio libro i segreti della trattativa Stato-camorra. Cirillo serviva vivo alla Dc". Intervista a "Repubblica" su quanto accadde per la liberazione dell'ex assessore sequestrato dalle Br, scrive Dario Del Porto il 24 giugno 2018 su "La Repubblica". «Se lo Stato ha trattato una volta con la criminalità organizzata, come è accaduto per Ciro Cirillo, significa che può essere successo altre volte. E siccome nulla è veramente cambiato da allora, non possiamo escludere che accada di nuovo», dice Carlo Alemi, il magistrato che ha indagato sul rapimento e la successiva liberazione dell’allora potentissimo assessore regionale democristiano ai Lavori pubblici. Il 27 aprile del 1981, un commando delle Brigate Rosse composto da cinque persone agli ordini di Giovanni Senzani, dopo aver ucciso l’agente di scorta Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello, neutralizzò Cirillo per rinchiuderlo in una “prigione del popolo”. Ma a differenza di quanto accaduto tre anni prima con Aldo Moro, il 24 luglio successivo, l’ostaggio fu rilasciato. «Le sentenze della Corte d’Appello e della Cassazione hanno sancito che ci fu una trattativa», sottolinea Alemi, all’epoca giudice istruttore, poi presidente del tribunale di Napoli, che ha scritto per Pironti un libro dal titolo inequivocabile: «Il caso Cirillo. La trattativa Stato-Br-camorra», che sarà presentato martedì alle 17 all’Istituto studi filosofici.
Perché ha aspettato 37 anni per raccontare la sua verità sul caso Cirillo, presidente Alemi?
«Mi sembrava doveroso lasciare la magistratura, prima. Non sono d’accordo con quei colleghi che scrivono libri quando ancora i procedimenti sono in corso. Ciò nonostante, non avrei mai scritto questo libro senza le insistenze di Luigi Necco (recentemente scomparso n.d.r.) un giornalista che aveva vissuto da cronista quegli anni, venendo anche ferito alle gambe dalla camorra. Necco mi aveva più volte invitato a raccogliere le mie memorie di quella vicenda e mi ha assistito nella scrittura».
Chi trattò per liberare Cirillo?
«Lo Stato. E non mi si venga a dire che quei soggetti non rappresentavano lo Stato: gli attori di questa vicenda erano ai vertici dell’amministrazione pubblica, dei servizi segreti, del ministero della Giustizia, del partito che aveva la maggioranza relativa in Parlamento».
Perché Moro fu ucciso, mentre Cirillo tornò a casa?
«Cirillo gestiva la ricostruzione post terremoto, dunque serviva vivo alla Dc. Nessuno, invece, voleva che Aldo Moro rimanesse in vita. Non il suo partito, non gli americani e neppure i socialisti, che a parole erano per la trattativa ma temevano il compromesso storico».
Il boss della camorra Raffaele Cutolo che ruolo ebbe?
«Quello di intermediario».
In cambio di cosa?
«Aveva ricevuto promesse ben precise: la liberazione anticipata o almeno la dichiarazione di infermità mentale e favori per i camorristi detenuti».
Il patto però non fu mantenuto.
«Innanzitutto perché il documento pubblicato dall’Unità, attribuito ai Servizi ma risultato falso, in cui si riferiva di una visita nel carcere di Ascoli Piceno di Francesco Patriarca, Antonio Gava e Vincenzo Scotti, fece saltare tutto. E poi perché al Quirinale c’era Sandro Pertini, un presidente di straordinaria autonomia e autorevolezza».
Molti attori di questa storia sono morti, come Gava e lo stesso Cirillo. Restano altri misteri insoluti?
«L’omicidio del dirigente della squadra mobile Antonio Ammaturo. È una bruttissima pagina per il nostro Paese. Basti pensare che, fra i documenti scomparsi durante le indagini, figura la relazione sul caso Cirillo che Ammaturo aveva trasmesso ai suoi superiori. Manca anche la copia che il commissario aveva consegnato al fratello, a sua volta vittima di uno strano incidente di caccia».
Cosa ha rappresentato per lei questa indagine?
«Un impegno difficilissimo, portato avanti nonostante una totale mancanza di collaborazione da parte di chi aveva indagato, di chi avrebbe dovuto testimoniare, e nell’isolamento dei colleghi, tranne uno: Raffaele Bertoni. Ho dedicato il libro a mia moglie, perché mi ha aiutato a proteggere la privacy e la serenità della mia famiglia. Al tempo stesso però ho ricevuto attestati di stima da parte di tante persone, alcune anche insospettabili».
Ad esempio?
«Mentre il Mattino diretto da Pasquale Nonno mi attaccava violentemente, mi arrivò la lettera di un brigatista: “Giudice - diceva - leggendo quello che scrivono, sono contento di essere stato arrestato da lei”».
Cirillo, il sequestro e la trattativa Stato-camorra: tutti i segreti degli anni di piombo», scrive Domenica 30 Luglio 2017 Il Mattino. «Il processo sul mio rapimento fu fatto all’ombra di Antonio Gava. Nel senso che i magistrati che si occupavano del mio caso in realtà volevano coinvolgere soprattutto lui. La verità su quella vicenda? È quella che ho ripetuto in tutti questi anni». Lucido come sempre, così, nel giorno del suo 95esimo compleanno, Ciro Cirillo ricordò una della pagine più oscure della storia della Repubblica italiana. Più volte Cirillo raccontò di avere saputo che per la sua liberazione fu pagato un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire. Ma dell’accordo Stato-camorra, con il supporto dei servizi segreti e il coinvolgimento - per alcuni decisivo - di Raffaele Cutolo, ha sempre escluso categoricamente l’esistenza: «La verità - ripeteva - l’ho detta in tutti questi anni. Ogni altra trattativa posso escluderla». Da allora, dal giorno della liberazione, Cirillo lasciò il mondo della politica: «È stata una delle cose più brutte dell’intera vicenda legata al mio sequestro da parte della Br», ripeteva spesso. Ma, con orgoglio, rivendicava: «Chi parlava di una politica ‘marcia’ in quel periodo oggi dovrebbe essersi ricreduto. Nell’attuale vita politica c’è purtroppo un'evidente influenza da parte della magistratura, che spesso finisce con il condizionare l’elettorato. Ricordo quando fui indagato perché, da presidente della Provincia, si riteneva che non avessi vigilato in maniera corretta sul presunto inquinamento del Lago d’Averno. Nonostante la chiara tesi del mio avvocato, che non era un iscritto al partito, il giudice di primo grado ci fece capire che dovevo essere condannato. E così fu. E sapete come finì? Fui assolto in Appello».
Br-camorra, il giudice Carlo Alemi: "Cirillo mente ancora". Dopo 35 anni dal sequestro l'esponente Dc esclude contatti tra Stato, Br e camorra. Il magistrato Carlo Alemi che indagò sul caso: “Affermazioni incredibili, totalmente discordanti con quanto stabilito dai processi”, scrive Gianmaria Roberti il 25 febbraio 2016 su "L'Espresso". Chiamatela rimozione, un processo freudiano che spinge in soffitta le verità più indigeste. Accade per i passaggi inconfessabili della storia nazionale, molti ancora coperti dal segreto di Stato. La rimozione – o l’alterazione della verità dei fatti – si è riproposta in questi giorni a proposito del caso Cirillo ovvero per quel drammatico episodio in cui le istituzioni dello Stato riconobbero nella camorra un interlocutore di pari grado, chiedendo l'aiuto di Raffaele Cutolo, il più sanguinario capo camorra dell’epoca. Avvenne nel 1981, per il rapimento di Ciro Cirillo, assessore Dc ai lavori pubblici della Campania e presidente della commissione che doveva gestite tutti gli appalti del post terremoto del 1980. Una vicenda seppellita nel capitolo delle storie più imbarazzanti. Al punto che anche oggi è difficile accendere i riflettori. Cirillo fu sequestrato il 21 aprile da un commando delle Br guidato da Giovanni Senzani, durante un assalto in cui vennero uccisi l'autista e un agente di scorta. I brigatisti lo liberarono il 24 luglio di quell'anno dietro il pagamento di un riscatto da 1,5 miliardi di lire. E si parlò di altri 1,5 miliardi finiti alla camorra. Nel mezzo, si avverò il copione in cui lo Stato e l’antistato si siedono allo stesso tavolo per negoziare. Eppure all'inizio di febbraio di quest’anno il 95enne Ciro Cirillo sente il bisogno di riemergere dall'oblio a cui si era autoconsegnato per 35 anni. Ma lo fa per negare ogni trattativa finalizzata al suo rilascio, con la mediazione del boss. "Lo escludo, assolutamente", ha dichiarato in un'intervista alla tv svizzera italiana. E riattizzando il fuoco di antiche accuse, aggiunge: "Ci fu un'istruttoria, da parte del giudice Carlo Alemi, che aveva un solo obiettivo, incastrare Antonio Gava, allora ministro dell’Interno". Di nuovo salta fuori il nome dello scomparso leader del grande centro. E, come in un gioco di specchi, queste parole fanno rompere il riserbo a chi condusse l'inchiesta, il magistrato Alemi per anni perseguitato per la sua coerenza e per la fedeltà al principio di legalità. Il segretario democristiano De Mita lo bollò in pieno Parlamento come “giudice al di fuori dal circuito costituzionale". Il quotidiano della Dc definì il suo lavoro diffamazione a mezzo giudice. A rischio della vita Alemi seguì con ostinazione e provò la pista del patto tra esponenti dello Stato, Br e Nuova camorra organizzata. Un'intesa raggiunta col frenetico andirivieni di funzionari dei servizi, di camorristi latitanti, di esponenti Dc e della massoneria come Francesco Pazienza nel carcere di Ascoli Piceno, dove il boss era detenuto. Da magistrato in pensione Alemi ne parla ora con “l’Espresso”: “Mi sembra incredibile - dice - che il dottor Cirillo abbia oggi fatto quelle affermazioni, totalmente discordanti peraltro con quanto affermò, in mia presenza ed al mio indirizzo, il 19 maggio 2008, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in occasione della presentazione del documentario “La trattativa” del programma Rai “La storia siamo noi”, allorché mi disse: “Anzi penso che mai come in questo momento avremmo tutti bisogno di magistrati coraggiosi e onesti come lei”. Non credo possa essere considerato “onesto” un magistrato che utilizza il proprio lavoro per “danneggiare un partito politico”. “Mi sembra di tornare – racconta Alemi – ai giorni in cui subivo attacchi di ogni sorta ed ero dipinto come il giudice comunista che utilizzava il proprio lavoro per distruggere la Democrazia Cristiana. Per tali false affermazioni, il direttore del Mattino dell’epoca, fu condannato per diffamazione nei miei riguardi. Il procedimento disciplinare "tempestivamente" attivato nei miei confronti dal Ministro della Giustizia si concluse con il riconoscimento della totale correttezza del mio operato. Eguale sorte ebbe il procedimento per diffamazione attivato nei miei confronti dall’onorevole Scotti. Le conclusioni della mia istruttoria, secondo cui c’era stata una trattativa con le Br e la Nco, da parte dei massimi esponenti dei Servizi e del Ministero, oltre che di esponenti politici Dc, sono state pienamente confermate oltre che dalla sentenza di appello - confermata in Cassazione - anche dalle due commissioni di inchiesta parlamentare che hanno indagato sulla vicenda. Che il partito Dc abbia partecipato alla trattativa con il consenso, o quanto meno "con l’avallo" dei massimi esponenti del partito - l’allora segretario Flaminio Piccoli e l’onorevole Gava -, difatti, non l'ha affermato solo il giudice Alemi, ma - aggiunge il magistrato - lo ha confermato la sentenza definitiva del processo che ha concluso per la “sostanziale verità dell’affermazione, secondo cui la Dc aveva trattato con le Br per Cirillo con l’intermediazione della camorra di Cutolo”. Insomma non fu Cutolo a ricattare o minacciare, furono i ras della Balena Bianca a cercarlo per agganciare i brigatisti. Nei documenti parlamentari la realtà è consacrata già nel 1984 dal comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza, presieduto dal senatore Libero Gualtieri, e nel 1993 dalla commissione antimafia con la presidenza di Luciano Violante. La relazione Violante, approvata dalla commissione, sanciva che “la negoziazione, decisamente smentita nei primi tempi, è oggi riconosciuta senza infingimenti”. Nelle audizioni a Palazzo San Macuto il prefetto Parisi e il generale Mei, ai vertici dei servizi all'epoca dei fatti, ammisero la trattativa. Lo stesso fece Vincenzo Scotti, ministro degli Interni della Dc nei primi anni '90, però negando di avervi partecipato. “L’onorevole Scotti e la Democrazia Cristiana – ricorda Alemi – avevano querelato l'Unità per la vicenda del falso documento del Viminale, in cui si attestavano le visite a Cutolo in carcere dello stesso Scotti e del senatore Patriarca. Ma se a Scotti i giudici diedero ragione, al partito no, arrivando ad assolvere il direttore Petruccioli dal reato di diffamazione ed a condannare il partito Dc alle spese del procedimento. Pertanto quel documento, falso nella forma, fu ritenuto veritiero nella sostanza”. Raffaele Cutolo, memore di quelle promesse mai mantenute, in un'intervista a Repubblica l'anno scorso tornò a lanciare sinistri messaggi dalla cella del 41 bis. “Rifiutò ancora una volta di fornire la sua versione dei fatti, assumendo che, se avesse parlato, avrebbe potuto far ballare mezzo Parlamento, anche perché molti di quelli che oggi sono ai vertici delle istituzioni sono o tuttora protagonisti oppure eredi e promanazione di quelli che allora chiesero il suo aiuto. Se usa questo linguaggio, certo - riflette Alemi - si rivolge a personaggi attivi ai suoi tempi e operativi anche oggi. Ma, evidentemente, nessuno ha interesse a scoprire chi essi siano e quali i reali termini della trattativa, che ha sicuramente costituito una delle pagine più sporche nella vita della nostra Repubblica”. Pagine che a molti fa comodo dimenticare.
ALEMI: "SONO VIVO PER MIRACOLO", scrive Giovanni Marino il 24 settembre 1994 su "La Repubblica". "Cosa provo adesso? Amarezza e soddisfazione. Penso con amarezza a quello che ho dovuto subire per aver lavorato correttamente. Sono stato attaccato a tutti i livelli per esser arrivato troppo in alto. Così andavano le cose in quell' Italia, sicuramente oggi gli stessi attacchi non avrebbero la virulenza e la protervia di allora. Ma provo anche soddisfazione perchè, senza l'apporto della procura, con un contributo assai limitato e spesso inquinato delle forze dell'ordine, tra depistaggi, testimoni uccisi, improvvisamente morti oppure pressati affinchè negassero pure l'evidenza, io sono comunque riuscito a ricostruire la vicenda Cirillo esattamente così come oggi i molti pentiti e le investigazioni dei colleghi ricostruiscono. La mia inchiesta, vecchia ormai di sei anni, trova pieno riscontro oggi. Sei anni dopo...". Carlo Alemi, il coraggioso pioniere del caso Cirillo, l'antesignano di Di Pietro, si gode con equilibrio e persino con un po' di timidezza la sua grande e definitiva vittoria. Sì, il giudice Carlo Alemi, il “perseguitato”, aveva visto giusto nella sua contrastata indagine sul sequestro (' 81) di Ciro Cirillo, all' epoca assessore dc, liberato a tre mesi dal rapimento dopo una trattativa proibita tra dorotei, br, servizi segreti e camorristi. Adesso la nuova inchiesta della procura di Napoli smentisce, nero su bianco, i molti che attaccarono Alemi con bordate terrificanti. Alemi ha vinto. Dall' ufficio di capo della procura circondariale di Caserta il giudice racconta il ' suo' caso Cirillo. Procuratore Alemi, il caso Cirillo è costellato da omicidi, morti ' naturali' troppo improvvise per essere credibili; ha mai temuto per la sua vita? "Onestamente io mi ritengo fortunato di essere vivo. Il primo successo dell'inchiesta è poter raccontare ancora queste cose. A volte si può morire perchè qualcuno distorce la tua immagine e ti dipinge come un giudice non imparziale". Sembra proprio il suo caso... "Sono stato dipinto come un pazzo. Qualche procuratore andava a dire in giro che ero folle, qualcun altro diceva che ero spinto dal mio comunismo e volevo solo screditare la democrazia cristiana". Lei è comunista o lo è mai stato? "Non ero comunista ma per reazione alle accuse mi sarebbe venuta voglia di diventarlo". Quali segni ha lasciato nel giudice Alemi il caso Cirillo? "Nel corso dell'indagine ho fatto esperienze professionali, umane e morali indimenticabili. Purtroppo per molto tempo non ho avuto il riconoscimento della bontà del mio lavoro, l'unico che mi interessava". Come si sentì quando il presidente del Consiglio Ciriaco De Mita in pieno parlamento la definì un giudice fuori dal circuito costituzionale? "Era tutto così irreale quel 5 agosto ' 88 quando lessi sui giornali l'esternazione del presidente. Ero in vacanza, sul litorale Domitio e mi sembrò di leggere cose e riferimenti che riguardavano un'altra persona, non me. Non pensavo che si sarebbe mai arrivato a quei livelli". Ci racconti tutti i bastoni tra le ruote di quell' inchiesta scomoda. "Rischiamo di far notte. Cito qualche episodio, significativo del clima. Un pentito racconta di un incontro tra un boss e un politico in un ristorante romano, La Conchiglia. Chiedo agli investigatori di verificare l'esistenza del ristorante, di fornirmi l'indirizzo. Per otto anni mi hanno detto che quel ristorante non esisteva. Invece esisteva, era ben visibile e persino conosciuto... e poi, un altro episodio: la commissione sui servizi segreti conclude i suoi lavori sul caso Cirillo e la consegna alla presidenza del Consiglio; vengo a sapere che oltre alla relazione approvata ne esiste un'altra, del presidente Gualtieri con frasi non trasfuse nel lavoro conclusivo della commissione. La chiedo all' onorevole Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, con una lettera ufficiale inviata a Palazzo Chigi. Attendo per sei mesi: nessuna risposta. Sollecito e dalla presidenza del Consiglio replicano: “Qui non è arrivato niente”. Chiedo alla Digos come sia possibile e loro mi portano il riscontro che cercavo: quella lettera è arrivata, eccome se è arrivata...". Qualche altro depistaggio... "In breve posso ricordare i registri del carcere di Ascoli Piceno regolarmente manomessi, il poliziotto della stradale che mi ha strappato davanti agli occhi, ai miei occhi, il rapporto sul ritrovamento di Cirillo". Cosa accadde con quel rapporto? "Come risulta dall' indagine, Cirillo fu ritrovato dalla polizia stradale. Ma poi quell' auto fu ' accerchiata' dalle volanti del funzionario Biagio Giliberti che si presero Cirillo e lo riportarono a casa. Il risultato fu che per tre giorni Cirillo vide tutti, a cominciare dai massimi vertici dc, tranne i magistrati. Di questo ' accerchiamento' , proprio con queste parole, parlava il rapporto del poliziotto della stradale. Ma quando lo convocai e gli chiesi di mostrarmelo lui, prontissimo, lo fece in mille pezzettini davanti a me, esterrefatto. Di più: tentò di ingoiarli e solo quando gli feci presente che stava commettendo un'omissione gravissima, mi diede quei frammenti". Ha letto cosa dicono oggi i magistrati su Antonio Gava? "Posso dire che già dalla lettura dei miei atti, della mia inchiesta, emergeva con chiarezza il ruolo primario di Antonio Gava nelle trattative con Cutolo per la liberazione di Cirillo". Perchè i capi dc volevano Cirillo libero a tutti i costi e ad ogni costo? "Attenzione, il processo racconta che il primo intervento fatto su Cutolo puntava a far terminare in fretta il sequestro: con Cirillo o morto o libero". L' importante era fare in fretta... "Sì, era importante perchè da un lungo sequestro temevano sarebbe potuta derivare una lunga confessione di Cirillo alle BR su ciò che sapeva della Dc. Un pericolo da evitare ad ogni costo". E' stato scoperto tutto sul caso Cirillo? "No, appena il dieci per cento della verità. Il nodo resta il dopo terremoto. E' lì che bisogna insistere".
La strana storia del professor Senzani e del sequestro dell’assessore Cirillo, scrive Francesco Damato il 30 Agosto 2017 su "Il Dubbio". A un mese dalla morte dell’ex amministratore Dc rapito dalle Br non è venuto alla luce nessun memoriale segreto, come aveva promesso. Così resta il mistero. A un mese ormai dal 30 luglio, giorno della morte di Ciro Cirillo, l’assessore regionale campano della Dc sequestrato dalle brigate rosse fra il 27 aprile e il 24 luglio del 1981, e liberato dopo una misteriosa trattativa in cui fu coinvolta, a dir poco, la camorra guidata in carcere da Raffaele Cutolo, si può forse scrivere che egli non ha davvero lasciato memoriali o altro a qualche notaio. Lo aveva annunciato dopo la liberazione, fra le polemiche politiche e le indagini giudiziarie, per poi smentire, cioè per ripensarci. Sulle minacce hanno forse prevalso le promesse agli amici altolocati del suo partito, alquanto malmessi nella esposizione mediatica per avere violato con lui quella cosiddetta linea della fermezza, cioè di rifiuto di ogni cedimento al terrorismo, che tre anni prima era costata la vita ad Aldo Moro. La cui tragica scomparsa, preceduta dalla strage della sua scorta, aveva portato alla fine della politica di cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer e a quella che Carlo Donat-Cattin, molto amico del presidente democristiano, definì “l’infarto della Democrazia Cristiana”. Esponente del potente gruppo di Antonio Gava – che a sua volta deteneva l’azione d’oro, diciamo così, della segreteria del partito detenuta da Flaminio Piccoli – l’assessore Cirillo aveva tra le mani, nel momento in cui fu sequestrato, la ricostruzione dell’Irpinia e delle altre zone meridionali danneggiate dal terremoto del 1980: quello che aveva mandato su tutte le furie, per i ritardi e altri pasticci dei soccorsi, il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Forse le Brigate rosse non avevano pensato proprio a quei lavori di ricostruzione quando decisero di mettergli le mani addosso. Ma ci pensò la camorra, più lesta dello Stato nel controllo del territorio e probabilmente nell’individuazione del covo brigatista in cui il sequestrato era stato rinchiuso. Pertanto le Brigate rosse, avventuratesi in una zona off limits con una imprudenza che si erano risparmiate in una regione, per esempio, come la Sicilia, dovettero fare i conti anche con i camorristi per portare avanti e chiudere la loro avventura. Furono pagati per la liberazione, versati di notte a Roma su un tram al regista del sequestro in persona, Giovanni Senzani (poi condannato per questo ad uno degli ergastoli accumulati) un miliardo e mezzo di lire. Eppure Senzani, che vive ormai in piena e legittima libertà dal 2010, ha sempre smentito che dietro quel pagamento ci fosse stata qualche trattativa in cui fossero state coinvolte Brigate rosse, Democrazia Cristiana e camorra. Nelle Brigate rosse Senzani aveva assunto ruoli apicali dopo la cattura a Milano, proprio in quel 1981, di Mario Moretti che nel 1978 aveva diretto a Roma il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – e del compagno di idee e di lotta Enrico Fenzi. Di cui peraltro Senzani era cognato, avendone sposato la sorella. Oltre al sequestro Cirillo, toccò a Senzani gestire, nello stesso anno, il rapimento ma poi anche l’esecuzione, con altra condanna, di Roberto Peci, che pagò la colpa di essere fratello di Patrizio, il terrorista pentito che aveva permesso di sgominare mezza organizzazione sotto gli incalzanti interrogatori del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del magistrato Gian Carlo Caselli. In uno scenario quasi esoterico che si ritrova navigando tranquillamente per internet, il povero Roberto Peci fu trattenuto dai suoi aguzzini per 55 giorni e ucciso con undici colpi d’arma di fuoco: 55 quanti erano stati i giorni di prigionia di Aldo Moro, tre anni prima, e 11 quanti i colpi sparati contro l’inerme presidente della Dc processato dal fantomatico tribunale del popolo delle Brigate rosse. È curiosa davvero la storia di questo Senzani: una storia che ho avuto la sfortuna di incrociare personalmente con una vertenza giudiziaria finita anche all’esame dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e sull’assassino di Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Siamo a cavallo fra il 2000 e il 2001. Dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi incompiute, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, dei Democratici di sinistra, arrivano voci clamorose sul ruolo che avrebbe svolto Senzani anche nel sequestro di Moro, tre anni prima dei fatti terroristici che gli avrebbero procurato processi e condanne. Mi avvicina in Transatlantico, a Montecitorio, l’amico Nicola Lettieri, sottosegretario democristiano all’Interno all’epoca del rapimento del presidente del suo partito, e mi confida la sua inquietudine ritenendo che durante il sequestro proprio Senzani, da lui ritenuto quanto meno consulente del Ministero della Giustizia come criminologo, anche se lo stesso Senzani definirà pure questa una fandonia in una intervista del 2014 al Garantista, fosse stato contattato dal Viminale per aiutare politici e funzionari a interpretare i comunicati delle Brigate rosse. Tracce di questa presunta consulenza tuttavia non si trovano fra le carte del Viminale. Me lo escluse, su richiesta formulatagli personalmente, anche Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti. Vengono invece fuori dalla commissione di Pellegrino altri fatti, come una deposizione del magistrato toscano Tindari Baglioni, occupatosi di terrorismo a Firenze. Che, invitato a dire se il sequestro Moro fosse stato possibile più per la debolezza dello Stato che per la forza delle Brigate rosse, risponde che entrambi avevano in comune un consulente, appunto Senzani. Del quale viene riferito alla stessa commissione che la Procura di Firenze chiese l’arresto dopo il fermo di un giovane armato che abitava presso di lui. Il capo della Digos locale, sempre secondo il racconto alla commissione, chiese prudenza trattandosi di un collaboratore dello Stato, comunque arrestato nel 1979, ma per soli cinque giorni, come dallo stesso Senzani ricordato poi nella già citata intervista del 2014 al Garantista. Egli comparirà solo due anni dopo quel breve arresto sulla scena del terrorismo con i sequestri di Roberto Peci e di Ciro Cirillo. Che in quella stagione tuttavia, come ha ricordato sul Dubbio Paolo Comi, non furono gli unici due rapiti dalle Brigate rosse o affini. Furono prelevati dai terroristi anche il povero Giuseppe Taliercio, del polo petrolchimico della Montedison a Mestre, trovato poi ucciso, e Renzo Sandrelli dell’Alfa Romeo, fortunatamente sopravvissuto.
Quando la Commissione stragi conclude i propri lavori, nel finale della legislatura 1996- 2001, prendendo la decisione di inviare un rapporto alla Procura di Roma per chiedere praticamente un’indagine sul ruolo di Senzani nel sequestro Moro, ed esce anche un libro- intervista del presidente Pellegrino, pieno di riferimenti allo stesso Senzani, scrivo un articolo sul Giornale diretto da Maurizio Belpietro per auspicare un chiarimento sulla vicenda. Senzani, in regime allora di semilibertà, dichiaratosi sempre estraneo – ripeto – al sequestro Moro e alla sua gestione, si sente diffamato non dalla Commissione stragi, dai magistrati da essa ascoltato o dal suo presidente ma curiosamente da me. E mi denuncia. La solerte Procura di Monza manda immediatamente agenti della Polizia giudiziaria al Giornale per rilevare la mia identità e mi comunica già dopo un paio di mesi, a maggio, la chiusura delle indagini, senza mai interrogarmi e – temo – senza neppure leggere o solo sfogliare il libro intervista di Pellegrino e quant’altro. L’udienza dal giudice per le indagini preliminari, finalizzata al rinvio a giudizio, viene fissata per i primi giorni di luglio, ma salta per qualche errore di notifica e viene rinviata a pochi giorni prima di Natale.
L’avvocato del Giornale, cui naturalmente ho provveduto ad inviare tutta la documentazione raccolta, compresi alcuni verbali delle audizioni della Commissione stragi segnalatimi dallo stesso presidente, rimane colpito dai tempi dell’inchiesta giudiziaria, rapidissimi come una freccia rossa dei giorni nostri. Prende – presumo – i suoi contatti, assume le informazioni del caso e, sentendo puzza di misteriosi interventi, anche in relazione al rapporto della Commissione stragi inviato alla Procura di Roma, che in effetti dopo qualche anno archivierà i dubbi e le sollecitazioni degli inquirenti parlamentari, mi consiglia di chiudere la vicenda patteggiando. E così avviene, immagino con soddisfazione di Senzani e dell’accusa.
Anche Paolo Comi, pur non conoscendo forse la mia disavventura, nella rievocazione del sequestro di Ciro Cirillo ha giustamente e prudentemente scritto di Senzani sul Dubbio con una certa cautela, da me condivisa dopo l’esperienza avuta, ricordandone certamente il ruolo, d’altronde sanzionato in sede giudiziaria e definitiva, ma anche riportandone le smentite già ricordate ad una gestione delle trattative per il rilascio dell’assessore democristiano estesa alla Dc, alla camorra, ai servizi segreti e a quant’altro.
Eppure lo storico boss della camorra Raffaele Cutolo si è personalmente e ripetutamente vantato della collaborazione chiestagli e da lui concessa a pezzi importanti della Dc e dello Stato, intesi questi ultimi come servizi segreti, per arrivare alla liberazione di Cirillo. E non credo proprio che lo avesse fatto a titolo di generosità e di patriottismo, non essendo la camorra, in nessuna delle sue ramificazioni, un’associazione né benefica né patriottica. Anch’essa evidentemente riteneva di poterne trarre vantaggio, come poi si capì con la spartizione degli appalti per la ricostruzione delle zone della Campania danneggiate dal terremoto del 1980. Non mancarono d’altronde inchieste giudiziarie sul ruolo della camorra nella gestione del sequestro Cirillo, con grossi e inquietanti tentativi di depistaggio. Il più clamoroso dei quali fu certamente il falso dossier passato ad una giornalista dell’Unità che chiamava in causa, fra gli altri, il democristiano Enzo Scotti, soprannominato Tarzan nel partito per la facilità con cui passava da una corrente all’altra e destinato a diventare dopo molti anni ministro dell’Interno. Il giornale del Pci dovette scusarsi e il suo direttore Claudio Petruccioli dimettersi. Allora il giornalismo era una cosa seria, o più seria di adesso, e si usava fare così. Che era poi il modo più efficace anche per limitare i danni del depistaggio, evitando che si parlasse troppo a lungo non delle indagini sul sequestro Cirillo ma dell’infortunio del giornale del principale partito di opposizione.
Chi trattò con la camorra per salvare Cirillo? Forse nessuno, scrive Paolo Comi l'1 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il vecchio assessore democristiano è morto domenica a 96 anni. Fu al centro di un mistero mai risolto e di gigantesche polemiche. A 96 anni, domenica, è morto Ciro Cirillo, gran democristiano anni 70 in Campania. Aveva sessant’anni, il 21 aprile del 1981, quando un commando delle Br lo aspettò sotto casa, a Torre del Greco, la sera, all’ora di cena, e appena la sua auto si fermò, il commando iniziò a sparare, come si faceva in quegli anni. Restarono sull’asfalto, morti stecchiti, il suo autista e la guardia del copro, un maresciallo dei carabinieri. Mentre il suo segretario particolare, un ragazzo di trent’anni, si salvò, ma con la gamba maciullata. Lui restò illeso. I brigatisti lo sollevarono di peso, lo gettarono nel cassone d’un furgone e lo portarono nella prigione del popolo. Li guidava un certo Giovanni Senzani, che era stato un consulente del ministero di giustizia, era uno studioso, un sociologo. Ala militarista delle Br. Da quel giorno iniziarono mesi di fuoco, paragonabili forse solo ai due mesi di tre anni primi, quelli celebri del rapimento di Aldo Moro nel 1978. Diamo un’occhiata alle date che separano l’inizio di aprile all’inizio di agosto del 1981. 4 aprile, notte, una strada di periferia a Milano, al polizia intercetta Mario Moretti ed il professor Enrico Fenzi che stanno andando a trovare un esponente della mala che loro non sanno essere un confidente della questura. Moretti e Fenzi vengono bloccati, immobilizzati e disarmati. Moretti è considerato il capo assoluto delle Br, l’erede di Curcio, il cervello del sequestro Moro e anche l’uomo che ha sparato al presidente della Dc. Fenzi è uno dei leader dell’ala militare delle Br, e Moretti è in lite con lui. Fatto sta che le Br sono decapitate. Prendono il comando Barbara Balzerani, che guida i movimentisti, e, appunto, Senzani del quale abbiamo già parlato come leader dei militaristi. Però tutto si può dire meno che l’arresto di Moretti abbia indebolito l’organizzazione. Passano poco più di due settimane dal colpo a favore della polizia e Senzani risponde. 21 aprile, rapito Ciro Cirillo. 20 maggio, Porto Marghera, un commando, pare guidato da Antonio Savasta, entra in casa di un dirigente del Petrolchimico della Montedison, un certo Giuseppe Taliercio, e se lo porta via. Due settimane dopo un altro dirigente d’azienda, Renzo Sandrucci, uomo Alfa Romeo, viene sequestrato a Milano. È il 3 giugno. La settimana successiva, il 10 giugno, tocca a a Roberto Peci, che è il fratello di Patrizio Peci, il primo pentito della storia delle Br. Roberto non ha neanche 30 anni. Il suo rapimento è una vendetta trasversale. A questo punto le Brigate Rosse si trovano ad avere contemporaneamente nelle loro mani quattro prigionieri. Un giorno sì e uno no arrivano proclami, dichiarazioni, confessioni, fotografie, richieste di riscatto. E le azioni militari non si limitano alla gestione delle prigioni del popolo e agli interrogatori. Si spara, si ferisce, si uccide per strada. Negli stessi giorni dei quattro rapimenti vengono uccisi Raffaele Cinotti, Mario Cancello, Luigi Carbone, Sebastiano Vinci. Ciascuno in un giorno diverso e in un luogo diverso: tutti e quattro poliziotti. Era quello il clima in quegli anni. Non è facile crederci, magari, ma la lotta politica avveniva in questo clima qui. Eppure non prevaleva la pulsione repressiva, illiberale. Pensate che in quegli stessi anni il Parlamento approvava le leggi-Gozzini, e cioè una serie di norme, che oggi vengono considerate dai più ultraliberali, che attenuano le pene, introducono premi e semilibertà e misure alternative al carcere…I quattro sequestri hanno esiti diversi. Il 5 luglio si conclude tragicamente il sequestro di Taliercio. L’ingegnere viene ucciso in modo barbaro. L’autopsia stabilisce che era ferito, aveva dei denti rotti e non mangiava da cinque giorni. Taliercio si era rifiutato di collaborare, probabilmente aveva mantenuto un atteggiamento di sfida. Il processo per la sua morte si concluderà con tre condanne all’ergastolo per tre brigatisti poco conosciuti, mentre il leader della colonna, il romano Antonio Savasta, che collabora con gli inquirenti, se la cava con dieci anni. Il nome di Taliercio, chissà perché, scompare dal Pantheon degli eroi di quegli anni. Non so quanti siano gli italiani che oggi, se gli chiedi a bruciapelo chi era Taliercio, sono in grado di rispondere. Temo poche centinaia. Il 23 e il 24 luglio, nel giro di poche ore, si concludono positivamente il sequestro Sandrucci e quello Cirillo. Vengono liberati tutti e due. Per tutti e due è stato pagato un riscatto. Pochi giorni dopo, il 3 agosto, la notizia atroce dell’uccisione di Roberto Peci, che ha una figlioletta di un anno, viene processato dal tribunale dei terroristi davanti a una telecamera, e poi, davanti alla telecamera, ucciso con una mitraglietta. La cassetta di questo obbrobrio viene mandata ai giornali. Di suo fratello Patrizio, che era l’obiettivo di questa spietatezza, non si saprà mai più niente. Ha cambiato nome, ha cambiato connotati – pare – con una operazione di chirurgia plastica, vive in una località sconosciuta. Ora dovrebbe avere un po’ meno di settant’anni. Di come si sia ottenuta la liberazione di Sandrucci non si sa molto e non si parla molto. La liberazione di Cirillo invece solleva un pandemonio di polemiche. Questo Cirillo è l’ex presidente della Regione, è un uomo forte della cosiddetta corrente del Golfo, cioè quella corrente democristiana che fa capo ad Antonio Gava e che è il braccio napoletano dei dorotei. Cirillo, al momento del sequestro, è l’assessore all’urbanistica della Campania e si occupa dell’immenso affare della ricostruzione dopo il terremoto del 1980. I giornali raccontano che per liberarlo, il suo partito, che appena tre anni prima non ha voluto trattare con le Br per salvare Moro, ha trattato invece, eccome, non solo con le Br ma anche con la camorra di Raffaele Cutolo che avrebbe fatto da intermediaria. Non si saprà mai se è vero. Si sa che un riscatto di un miliardo e 400 milioni di lire (cifra molto alta per quell’epoca, quando un’automobile di media cilindrata costava circa quattro- cinque milioni) è stato pagato a Roma, il 21 luglio, all’interno di un tram (il numero 19) che va dalla stazione Termini a Centocelle. I soldi li porta in un borsone un amico di Cirillo e li consegna a Giovanni Senzani in persona, che acchiappa la borsa, scende al volo da un tram e vola via con una Fiat 128 che lo aspetta alla fermata. La Dc raccolse i soldi? Il segretario democristiano Flaminio Piccoli sapeva? E Antonio Gava? L’anno dopo l’Unità, cioè il giornale del Pci, pubblica uno scoop clamoroso: è stato il ministro Vincenzo Scotti in persona a trattare con la camorra, anzi è andato personalmente in carcere a discutere con Raffaele Cutolo. E’ una bomba atomica sulla politica italiana. Ma poche ore dopo l’uscita del giornale si scopre che il documento che accusa Scotti è falso. E’ una contraffazione realizzata da un certo Gino Rotondi (che non si saprà mai se lavorava per la camorra, o per i servizi segreti, o se era un mitomane) che la consegna a una giovanissima cronista del giornale dei comunisti. Lo scandalo a quel punto si rovescia e travolge tutti i dirigenti dell’Unità, a partire dal direttore, il giovane Claudio Petruccioli, che si dimette dopo poche ore, e persino qualche dirigente del Pci, e precisamente il vice di Berlinguer, Alessandro Natta, che si dimette anche lui dal suo incarico. Il capogruppo Giorgio Napolitano prende la parola alla Camera e chiede scusa a nome del partito e del giornale. Allora le cose andavano così, a voi verrà da sorridere ma è la verità: se un giornale pubblicava una notizia falsa (cosa che oggi avviene quasi tutti i giorni su moltissimi giornali) poi era un casino e addirittura il direttore ci rimetteva il posto. Non potevi neppure mettere in pagina delle intercettazioni un pop’ contraffatte, perché rischiavi grosso…Il caso Cirillo finì così. La Dc se la cavò. Nessuno mai seppe la verità. Recentemente Giovanni Senzani – che oggi è libero e un paio d’anni fa ha presentato un suo film, pare piuttosto bello, a Locarno – in una intervista al “Garantista” ha giurato che non ci fu nessuna trattativa né con la camorra né con la Dc. Che pagarono i parenti di Cirillo. Lui, Cirillo, una volta libero fu costretto a ritirarsi dalla politica. In un’intervista a Repubblica disse che la verità l’aveva detta a un notaio e che sarebbe diventata pubblica dopo la sua morte, Cioè ora. Poi però smentì, e disse che non c’era nessun segreto. Adesso aspettiamo un paio di giorni per vedere se esce fuori ‘ sto notaio. Altrimenti ci dovremo rassegnare all’idea che probabilmente furono davvero i parenti di Cirillo a tirare fuori il miliardo e rotti e che la Dc non c’entrava niente.
Rapimento Cirillo: le Br, Cutolo e la Dc. Così D'Avanzo raccontò la trattativa. E il suo clamoroso prezzo. L'articolo di Giuseppe D'Avanzo su Repubblica del primo febbraio 1985. "Può dirsi sufficientemente provato che nelle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo sono intervenuti esponenti democristiani ed esponenti dei servizi segreti". Il giudice istruttore di Napoli, Carlo Alemi, non ha dubbi. Nella lunga ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dei brigatisti della colonna napoletana delle Br il magistrato affronta al capitolo nono "le trattative per il sequestro Cirillo". Soltanto tredici pagine, ma un rosario di testimonianze sufficienti a fargli chiedere un'ulteriore "approfondita istruttoria" per conoscere "l'esatto ruolo svolto dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo per il rilascio di Cirillo; l'intervento di esponenti di partiti politici che hanno fatto da tramite ed eventualmente da garanti tra le Br e Cutolo nello sviluppo della trattativa; il ruolo svolto durante i giorni del sequestro dai servizi segreti e se questo sia stato contenuto nell'ambito dei compiti istituzionali". Le tredici pagine, tuttavia, con le testimonianze dei brigatisti pentiti già disegnano lo scenario della trattativa, i suoi protagonisti, il prezzo che gli intermediari si dicevano pronti a pagare per la liberazione dell'assessore regionale Dc. E se il prezzo è clamoroso - forse fu offerta anche l'indicazione del luogo dove era custodito Patrizio Peci -, altrettanto clamoroso è l'unico nome di protagonista che salta fuori, Gava: nome sussurrato da tempo ma mai entrato finora in un'inchiesta giudiziaria. A vuotare il sacco sono stati Pasquale Aprea e Maria Rosaria Perna, i carcerieri di Cirillo nei due mesi della sua prigionia. "Nella prima decade di maggio - hanno raccontato - durante la fase in cui il sequestro andava politicamente malissimo, le Br con lo spostamento dei compagni detenuti ad Ascoli seppero che la camorra dietro pressioni di esponenti politici napoletani offriva per la liberazione di Cirillo 5 miliardi, armi a volontà, un elenco di magistrati napoletani con relativi indirizzi. Anzi si offriva di effettuare agguati ai danni di magistrati indicati dalle Brigate rosse". Antonio Chiocchi, uno dei fondatori della colonna napoletana, riferì in più occasioni ai due che "Gava era andato da Cutolo per trattare la liberazione di Cirillo presso le Brigate rosse". Silvio o Antonio Gava? Il magistrato non lo scrive. Inizialmente la trattativa si arena di fronte al rifiuto dei terroristi. Maurizio Stoccoro, un altro pentito, ha confermato di aver saputo da Giovanni Planzio, capo storico della colonna, "che Cutolo era intervenuto per sollecitare il rilascio di Cirillo in quanto alla camorra serviva che venissero allentati i posti di blocco della Polizia che ne impedivano tutti i traffici illeciti". "Cutolo ci offrì - ha raccontato Stoccoro - denaro, due o più miliardi, molte armi. Quante ne avessimo volute". Un'offerta che non interessò le Brigate rosse. L'attacco delle Br, infatti, - ha spiegato Stoccoro ai magistrati - era rivolto alla Dc proprio per dimostrare che mentre la Democrazia cristiana per Moro non aveva voluto trattare, aveva invece trattato per Cirillo". A maggio la trattativa ha una svolta. Comincia l'andirivieni di camorristi e brigatisti nel carcere di Ascoli Piceno e di Palmi. Giovanni Planzio ha detto ai giornalisti che "per Cirillo cominciarono a muoversi i servizi segreti". Con l'arrivo ad Ascoli Piceno degli uomini del colonnello Musumeci aumenta anche il prezzo offerto alle Brigate rosse. Intermediari Luigi Bosso, un delinquente comune politicizzatosi in carcere, e Sante Notarnicola. "Alle Brigate rosse - annota il giudice istruttore - viene offerto un grosso quantitativo di mitra, un elenco di carabinieri e di magistrati dell'antiguerriglia, l'indicazione del luogo in cui era custodito Patrizio Peci". Il superpentito delle Br era in quelle settimane - siamo nella primavera dell'81 - nelle mani delle squadre speciali del generale Dalla Chiesa. Chi dichiarò la disponibilità di far conoscere alle Brigate rosse il preziosissimo indirizzo? Gli omissis dell'ordinanza lasciano la domanda senza risposta. Ad avviare finalmente la trattativa fu Giovanni Senzani, il leader della colonna Napoli. Ha raccontato Maria Rosaria Aprea: "Una sera Senzani, entrando a casa, disse: "Qui ci facciamo pure i soldi". Antonio Chiocchi e Pasquale Aprea si ribellarono con asprezza al loro capo. Ma Senzani ribadì "la correttezza politica di tale richiesta". "Gli obiettivi politici - spiegò - sono stati raggiunti. La corresponsione di sussidi ai disoccupati, la smobilitazione della roulottopoli dei terremotati, la pubblicazione dei verbali di interrogatorio di Cirillo. E' giusto - conclude il criminologo - espropriare Cirillo, la sua famiglia, la Democrazia cristiana"". L'intera ricostruzione della trattativa è stata confermata da altri pentiti. Michele Galati, membro del direttivo della "colonna veneta" delle Br, nel carcere di Cuneo incontrò i brigatisti Moretti, Guagliardo, Franceschini. Il giudizio politico che espressero sulla trattativa fu lapidario. "Le Br - sostennero Moretti e Franceschini - non avevano alcun interesse ad un pagamento da parte di alcuni palazzinari napoletani ma puntarono immediatamente ad una trattativa che vedesse direttamente coinvolta la Dc". Enrico Fenzi, brigatista e cognato di Senzani, molto vicino al leader Mario Moretti, ha riferito, dal suo canto, ai giudici: "Moretti ripetè più di una volta che era venuto fuori e bisognava pur dirlo che se Cirillo non era stato ammazzato ciò era dovuto all'intervento di Cutolo". Testimonianze confermate dal maresciallo Angelo Incandela, comandante degli agenti di custodia del carcere di Cuneo: "Sì, il pentito Sanna ci tracciò tutto il quadro delle trattative intercorse tra servizi segreti, camorra e Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione di Cirillo". E Luigi Bosso ha confermato, prima della sua morte improvvisa, che fu "Cutolo ad attribuirgli l'incarico di entrare in contatto con i brigatisti di Palmi, latore di questo messaggio: la Dc è disposta a trattare a tutti i livelli attraverso il canale di Cutolo".
“ARMI E BAGAGLI” DI ENRICO FENZI. Il racconto dall’interno del terrorismo italiano, scrive Francesco Vannutelli il 15 febbraio 2016. Nel 1987 uscì per l’editore genovese Costa & Nolan Armi e bagagli, un libro fondamentale per capire quello che erano state le Brigate rosse negli anni immediatamente precedenti, tra i più complicati nella breve storia della Repubblica italiana. A scriverlo era stato Enrico Fenzi, un’esponente della colonna genovese che aveva deciso di raccogliere in forma narrativa i ricordi degli anni della lotta armata, tratteggiando quello che è uno dei più interessanti quadri d’insieme dall’interno degli anni di piombo in Italia. Oggi questa opera importantissima torna in libreria grazie a Egg edizioni. Enrico Fenzi, sulla sua pagina Wikipedia è definito in apertura come «ex terrorista e storico della letteratura italiana». Come studioso, è ritenuto tra i massimi di Dante e Petrarca (nel 2008 ha pubblicato la monografia Petrarca per Il Mulino). Come terrorista, è stato un esponente della colonna genovese delle Brigate rosse, il nucleo terroristico fondato direttamente da Mario Moretti e Rocco Micaletto che nel giugno del 1976 fu co-responsabile, insieme al comitato esecutivo centrale, del primo omicidio di natura puramente politica delle BR: l’assassinio del giudice Francesco Coco e di due uomini della sua scorta. Tra il 1975 e il 1981, il nucleo ligure fu responsabile di una serie di attività tra le quali sei omicidi e quindici ferimenti. La colonna genovese fu, tra le sei divisioni delle Brigate rosse (le altre avevano sede a Milano, Torino, nel Veneto, a Roma e a Napoli), una delle più organizzate sul piano dell’azione militare e delle più coese dal punto di vista ideologico, con l’attenzione della lotta rivolta quasi esclusivamente alla questione operaia. «Che avveniva nelle fabbriche? Quello era il grande continente sconosciuto, e la meta di tutti i nostri andirivieni», è l’interrogativo che pone Fenzi, che mostra la tendenza costante della colonna alla ricerca di un programma che «permettesse di entrarci, in quel continente desiderato e irraggiungibile». Solo che nelle fabbriche non c’era più un terreno in cui far fiorire un discorso. «I giovani operai arrabbiati di qualche anno prima erano spariti», e le misure estreme che i brigatisti provarono ad adottare, incluso l’omicidio dell’operaio e sindacalista Guido Rossa, si rivelarono essere, il più delle volte, delle armi a doppio taglio. Il sistema non veniva ferito, il movimento perdeva di consenso tra gli operai, e non bastavano i goffi tentativi di spiegazione (nel volantino di rivendicazione dell’omicidio di Rossa si legge chiaro «È stato un errore») per riavvicinare la colonna alla classe operaia genovese.
Enrico Fenzi entrò nelle Brigate rosse a quarant’anni, con una carriera solida di docente universitario già avviata. Da molti è stato considerato uno degli ideologi del movimento. All’interno della colonna conservò in verità una posizione marginale, mantenendo soprattutto contatti personali con alcuni degli esponenti di spicco. Il ruolo di ideologo che la cronaca gli ha attribuito in base alla sua posizione di intellettuale lo ha sempre rifiutato. Per sé, ha sempre rivendicato il ruolo di militante semplice, di «manovale», come si è voluto definire parlando con Sergio Zavoli nel programma La notte della Repubblica. Non ha mai partecipato alla stesura di documenti brigatisti, anzi ha ammesso di averli letti raramente. Ha preso parte a una sola azione violenta, facendo da copertura a Luca Nicolotti, Francesco Lo Bianco e Alberto Franceschini durante il ferimento di Carlo Castellano, dirigente del gruppo Ansaldo ed esponente del Partito Comunista Italiano. Per il resto, ha distribuito volantini. Dagli anni Ottanta scelse la strada della clandestinità dopo essere stato inquisito e assolto dall’accusa di banda armata (Carlo Alberto Dalla Chiesa parlò di «ingiustizia che assolve», commentando la sentenza). La sua adesione nacque dalla visione del mondo capitalistico come un «dinosauro morente» contro il quale sentiva la «necessità minuziosa e concreta della lotta armata». La vera radice della sua visione politica l’ha trovata dopo gli anni della militanza nel Sartre della Critica della ragione dialettica, quello che vede «l’uomo come avvenire dell’uomo» e rivendica il ruolo del gruppo rivoluzionario in azione come unico in grado di riappropriarsi della totalità. È in questa prospettiva che inquadra l’azione terroristica come un modello in grado di ricomporre «i frammenti del presente, per riappropriarsene alla luce di una totalità integralmente attualizzata». Il brigatista come lo Spirito Assoluto di Hegel, come tentativo di realizzare «il progetto e la verità della Storia». Per Fenzi, le Brigate rosse sono state il momento terminale del comunismo italiano come movimento che ha attraversato nella realtà locale le fasi storiche dell’intera vicenda politica globale. «La sconfitta delle Brigate rosse ha avuto, qui da noi, lo stesso valore e lo stesso senso che avrà vent’anni dopo, emblematicamente, il crollo del muro di Berlino. Non solo: per le sue caratteristiche l’esperienza italiana è stata per molti aspetti un’esperienza centrale, perché in essa gli elementi della tradizione comunista sono arrivati al loro capolinea». Armi e bagagli non pretende di essere una giustificazione ideologica degli anni della militanza: «non c’è rimedio a ciò che è stato fatto […], il male compiuto ridicolizza le pretese delle parole». Per questo, Fenzi rivendica a più riprese per la sua opera la natura «dichiaratamente narrativa». «È un libro, non un atto di autocoscienza». Comunque l’autore la voglia vedere, la profondità di un’analisi così acuta e dettagliata, che intreccia la storia con la riflessione politica in una forma che sa accompagnarsi anche con la narrazione più letteraria, è la linfa di un documento fondamentale per comprendere il passato e vedere anche al presente. Alla casa editrice Egg va il merito di aver riproposto Armi e bagagli in questa nuova versione.
La dannazione perpetua del prof. Fenzi. Dalle Br si è dissociato 31 anni fa. Eppure, invitato oggi a partecipare a una Lectura Dantis, è stato attaccato per il suo passato, scrive il 16 aprile 2013 "Il Corriere della Sera”. Cosa facciamo de La resurrezione di Lazzaro o del Davide con la testa di Golia dipinti da Caravaggio “dopo” avere ammazzato Ranuccio Tomassoni in una rissa seguita a un fallo durante una partita di pallacorda? Li bruciamo? E dei saggi scritti da Enrico Fenzi “dopo” essere entrato nelle Br, dalle quali si è dissociato 31 anni fa, che facciamo: li mandiamo al rogo? Anche se hanno titoli tipo Petrarca e l’eternità del mondo: appunti per un commento al De ignorantia, Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla “montanina” di Dante (Rime, 15) o L’ermeneutica petrarchesca tra libertà e verità? Per carità, nessun paragone tra il grande pittore milanese e il docente universitario genovese. Ma le responsabilità penali e le opere pittoriche o letterarie sono cose diverse. E se è insopportabile ascoltare ogni tanto degli ex terroristi di destra e di sinistra discettare di politica magari dando pure qualche lezioncina, e se è assolutamente comprensibile che i familiari delle vittime si levino a urlare “ma stattene zitto, almeno: taci!”, è impossibile essere d’accordo con la condanna eterna, nei secoli dei secoli, di chi ha sbagliato, si è riconosciuto colpevole e ha pagato senza pietire sconti. Per carità, massima solidarietà umana con le sofferenze di chi ha subito un lutto irrimediabile per mano di commandos delle Brigate Rosse, di Prima Linea, dei Nar… Ma sconcerta leggere quanto ha detto Valerio Vagnoli, preside di un istituto alberghiero, scagliandosi contro l’invito a Enrico Fenzi a una “Lectura Dantis” organizzata dalla Società Dantesca Italiana, con Vittorio Sermonti: «Provo fastidio a vedere delle personalità che hanno partecipato a dare all’Italia lo spettacolo degli anni di inferno del terrorismo, elevarsi al ruolo di educatori, occupare cattedre e aule universitarie, o leggere uno dei poeti che sulla libertà non ha detto delle banalità». Era il 1982 quando Enrico Fenzi si dissociò dalla lotta armata. L’anno in cui veniva ucciso Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Spadolini festeggiava a Palazzo Chigi la vittoria della Nazionale ai Mondiali di calcio e in Libano veniva compiuto il massacro di Sabra e Shatila. E mancavano vent’anni all’assassinio Br di Marco Biagi. Era tantissimo tempo fa. Come ha scritto giustamente Giulia Fenzi, la figlia minore, il dantista «è stato tanti anni in carcere e in un Paese in cui pochissimi pagano per quello che hanno fatto, ha pagato il suo debito non solo con la detenzione ma anche, com’è ovvio, con difficoltà di ogni genere, e noi con lui. Bene, è giusto. Chi sbaglia paga, ma poi c’è, o ci dovrebbe essere, il fine pena». Lo ha scritto sul Corriere anche Katia Malavenda, che come avvocato specializzata nel diritto d’informazione conosce bene il tema del diritto all’oblio e ha spiegato come quello di “rifarsi una vita, senza che il passato, oramai definitivamente archiviato, continui a condizionare il presente” è un diritto che “va riconosciuto a tutti, ma proprio a tutti, in particolare a chi, dopo il clamore, ha scelto di non esporsi, ma non per questo ha rinunciato a vivere. E allora, come la mettiamo con la damnatio perpetua che sembra inseguire alcune categorie di soggetti, fra cui Enrico Fenzi, la cui vicenda è solo uno spunto di riflessione?”. Nessuno oserebbe contestare il diritto che un galeotto tornato in libertà dopo avere scontato la sua pena possa tornare a fare il falegname, l’idraulico, il fabbro, il sarto o il giardiniere. Nessuno. Perché dunque uno studioso di Dante e Petrarca con 61 saggi classificati nell’indice di ricerca delle biblioteche italiane (neppure uno di politica) dovrebbe smettere di occuparsi di Dante e Petrarca o essere addirittura rimproverato di volere “leggere uno dei poeti che sulla libertà non ha detto delle banalità”? Non è mica Cesare Battisti, il professor Fenzi. Non è un assassino che non ha mai pagato e rifiuta di chiedere perdono e accusa la giustizia italiana e invoca malintese solidarietà militanti. È uno studioso che ha passato la vita intera, compreso il periodo in clandestinità (“Avevo preso l’impegno con l’Utet per fare l’introduzione a un’opera di Dante. Una cosa importante. Passato alla latitanza mi chiesi: cosa faccio, tiro il bidone? Finii il lavoro da clandestino e lo spedii”) a leggere e studiare. E si beccò 18 anni di carcere pur avendo partecipato direttamente a un solo atto di sangue, il ferimento alle gambe del dirigente dell’Ansaldo Carlo Castellano: «Credo che avessero deciso di coinvolgermi per una forma di battesimo. Come a dire “ora sei dei nostri”. Se ci ripenso adesso non mi ci vedo: cosa ci facevo lì?». Commise un gesto terribile? Certo. Se n’è pentito? Sì, da oltre tre decenni. Ha pagato? Sì. È stato un “cattivo maestro”? Difficile da sostenere: «No, quello non lo sono mai stato. Non lo dico né come un merito né come un demerito. Io sono del tutto alieno da ogni attività di indottrinamento. Non ho mai convinto nessuno a entrare nelle Br. Caso mai ho detto a tanta gente: lascia perdere. E poi l’indottrinamento si fa scrivendo di politica…». Lui ha sempre scritto di Petrarca. Guai a dimenticare. Ma è giusto tenere le persone inchiodate per tutta la vita agli errori, confessati, del passato?
Fenzi: "Sulle Br la luce deve venire dall'alto". Per la prima volta del suo arresto nel blitz del '79 contro la colonna genovese, il professore parla in pubblico a Palazzo Ducale. E rimette in campo le responsabilità mai chiarite, scrive Donatella Alfonso il 10 dicembre 2013 su "La Repubblica". Enrico Fenzi PER dire che no, non sono le carte giudiziarie a raccontare la vera storia delle Br Enrico Fenzi, chiama in causa Alessandro Manzoni e la sua Pentecoste, ritrovando - per la prima volta in pubblico - il suo essere, prima di tutto, un italianista di valore, com'era fino a quel 17 maggio del '79 in cui fu arrestato nel blitz contro la colonna genovese delle Br. Perché la luce deve venire dall'alto, spiega Fenzi, dissociato e poi condannato a 18 anni di carcere totalmente scontati, intervenendo al Minor Consiglio del Ducale in chiusura della presentazione, con Gad Lerner, del libro di Andrea Casazza "Gli imprendibili", dedicato appunto alla colonna genovese. Una luce interiore che deve venire dall'alto, insomma: come quella della Pentecoste. E quindi, rilancia Fenzi, dai segreti di quello stato che si voleva colpire al cuore, e dai rapporti internazionali: perché "le cose vere sono tutte da dire" a partire "da quella famosa barca carica di armi: erano quattro tonnellate, ce le aveva date l'Olp", e ci furono pressioni dei servizi perché "io incastrassi l'onorevole Mancini". Da dove farla arrivare, questa luce? E poi, da fronte diverso, ma ancora a insistere verso uno stato responsabile della solitudine dei magistrati e di tante pagine oscure è il figlio di De Vita, presidente della Corte d'Appello che decise la scarcerazione della XXII Ottobre per liberare Sossi, poi fermata da Coco. Quella luce, manzoniana o meno che sia, si accenderà mai?
Terrorismo a Genova. Enrico Fenzi e il rapimento Sossi: sangue e memoria, scrive Franco Manzitti il 10 dicembre 2013 su "Blitz Quotidiano". Enrico Fenzi, prima d’ora non aveva mai parlato in pubblico a Genova della sua storia brigatista, della sua militanza nel partito armato negli “anni di piombo”, dei suoi processi, della sua condanna, della sua dissociazione, di quel che erano gli uomini della “stella a cinque punte”, che avevamo tenuto in scacco lo Stato, rapito e ucciso Aldo Moro, il presidente della Dc. Enrico Fenzi era stato inghiottito prima dal carcere duro, dai processi a suo carico, dalla condanna definitiva a 18 anni, poi dal suo pentimento che non c’era mai stato, poi dal silenzio e dalla mimetizzazione nei caruggi di Genova, da dove era partita la sua “banda armata” e dove era tornato “dopo”, come antiquario, poi come ristoratore, sempre come professore, ex docente alla Facoltà di Lettere, esperto di Dante e Francesco Petrarca, ex maestro, anzi bollato per sempre come “cattivo maestro” di una generazione sessantottina e poi “rivoluzionaria”. E di colpo, in fondo a uno dei saloni storici del Palazzo Ducale genovese, in fondo al pubblico, alla fine della presentazione di un libro sulla colonna genovese delle Br, è spuntato in piedi Enrico Fenzi, il “professore”, oggi quasi settantacinquenne e ha chiesto di parlare, il maglione scuro, il volto pallido, la voce un po’ emozionata per commentare quella storia appena raccontata sulle Br di cui aveva fatto parte. “E’ la prima volta che parlo in pubblico di questo” – ha annunciato davanti a duecento persone, all’autore del libro, Andrea Casazza, giornalista del “Secolo XIX” e agli altri relatori di quella presentazione, Gad Lerner, Giuliano Galletta, critico letterario, anche lui giornalista de “Il Secolo XIX “ e Cesare Manzitti, avvocato, difensore di imputati coinvolti in quei lontani processi anni Settanta-Ottanta, quando Genova era in cima alle cronache del terrorismo. Il libro è intitolato “Gli imprendibili” e lo ha stampato la casa editrice “Derive e Approdi”, un tomo di 500 pagine, che per la prima volta cerca di ricostruire la storia di quella colonna Br che rapì Mario Sossi e uccise il procuratore della Repubblica Francesco Coco e la sua scorta e giustiziò altri servitori dello Stato di polizia e carabinieri e l’operaio e sindacalista dell’Italsider Guido Rossa, che aveva denunciato un “postino” dei terroristi, sequestrò e gambizzò e tenne in scacco Genova per quasi un decennio nel segreto più impenetrabile, svelato solo quando i primi pentiti squarciarono il velo del terrore. Enrico Fenzi era uno di questi “imprendibili”, anche se a Genova era stato già arcinoto, un “maestro” della “rivoluzionaria” Facoltà di Lettere, uno di quelli che esaminava gli studenti a gruppi e fiancheggiava politicamente le ali più estreme dei partiti, allora chiamati extraparlamentari. E anche se era incappato in un blitz rimasto famoso, perché catturò nel 1979 una quindicina di presunti brigatisti rossi, caduti nelle maglie dei carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi tutti assolti in primo grado nel famoso processo che lo stesso generale avrebbe bollato come l’ “ingiustizia che assolve”, aveva fatto carriera nel partito armato, fino alla sua cattura a Milano, insieme con uno dei killer di Aldo Moro, il terribile Mario Moretti. Si alza e parla quasi quaranta anni dopo tutto questo, dopo il sangue, la morte, il terrore, gli equivoci di Genova, della sinistra, degli album di famiglia del Pci, le catture e i processi, Enrico Fenzi “perchè deve levarsi qualche sassolino dalle scarpe” e vuole dire la sua verità, davanti a quel pubblico “informato sui fatti”, ma lontano anni luce da quel tempo, perchè oggi siamo in un altro tempo, truce come quello, ma macchiato di altri colori. “Non è vero che mi è stato perdonato tutto “- incomincia Fenzi con il suo tono da ex professore che alza la voce per la prima volta – sono stato condannato a 18 anni e ne ho scontati diciassette, di cui sette più tre in galera e gli altri con altre misure. Ho pagato abbondantemente, ma non sono mai stato reintegrato nel mio lavoro e non mi sono mai stati restituiti i diritti civili”. Fenzi ha un tono duro, ma quasi non rivendicativo, come di chi vuole uscire da una cappa di buio che lo ha coperto per questi quaranta anni in cui il mondo è cambiato, ma lui è rimasto sotto la cappa di una specie di condanna permanente, dopo essere uscito dalle Br, come se ne può uscire senza essersi pentito, ma da dissociato critico, capovolto rispetto a come era entrato nella clandestinità, nella lotta armata, a fianco dei killer, di quelli che sparavano, uccidevano e gambizzavano per fare la rivoluzione. Troppo tempo è passato e Fenzi in quel salone dove il ricordo difficile da ricostruire della colonna genovese delle Br, quella sgominata nel 1980, in quell’appartamento di via Fracchia, sulle alture di Oregina, dove sempre gli uomini del generale dalla Chiesa, con le chiavi della casa consegnate dal pentito numero uno, Patrizio Peci, entrarono sparando con i fucili a pompa attraverso i muri e “seccando” Riccardo Dura, il capo colonna di 29 anni e Anna Maria Ludmann, l’ineccepibile professorina di 32, e Lorenzo Betassa di 25 anni e Roberto Panciroli di 28, “gli imprendibili”, di cui mai si era conosciuto il nome e il volto, malgrado sparassero e uccidessero da anni, appunto Enrico Fenzi in quel salone sembra una icona del passato, crocefisso alla sua colpa, ma anche a una memoria che non si può cancellare, seppure collocata in un altro mondo. Passato e sepolto. Ci ha provato l’autore del libro a spiegare il suo grande sforzo di ricostruire quegli anni e quei protagonisti, quella storia attraverso gli atti processuali e le testimonianze e gli intrighi delle inchieste spericolate e delle sentenze conclusive. E gli hanno detto che il suo non è un libro di storia, ma il documento preciso, perfino minuzioso, di una vicenda raccontata da un cronista che tenta una cronaca trenta anni dopo i fatti. Fenzi non ci sta del tutto a quella ricostruzione, a quei commenti, che approva, ma che vuole in parte rettificare, perchè la storia va messa a posto e lui sta zitto da quasi tutta la vita. Era un quarantenne allora, nel 1979, quando i carabinieri gli puntarono i fari addosso e uno dei primi rapporti di polizia lo descrive così come Andrea Casazza riporta nel suo libro: “Fenzi Enrico, 40 anni, è alto un metro e settanta, è di media corporatura, è praticamente calvo nella parte anteriore del cranio, ha i capelli grigi, lunghi, un po’ arricciati, sul collo e arruffati sopra le orecchie e non ha inflessioni dialettali, parla in perfetto italiano con scioltezza e proprietà, veste in maniera sportiva (jeans e pantaloni di velluto, mocassini tubolari, magliette tipo Lacoste) è professore di italiano all’Università di Genova, è nativo di Bardolino( Verona), è separato dalla moglie Chelli Maria Grazia, è stato più volte perquisito.” Non ci sta del tutto Fenzi, perchè la storia delle Br di cui tutti hanno scritto e tutti hanno parlato e straraccontato “non si può fare solo attraverso la cronaca giudiziaria, la storia di quello che sono state le Br nessuno l’ha mai scritta.”
Ecco nella sala un po’ attonita del palazzo Ducale, nel giorno in cui i “forconi” bloccano la città, con una rivoluzione così diversa da quella di quaranta anni prima imposta dalle Br, un nucleo armato fatto di poche decine di persone (così si racconta negli “Imprendibili), ecco che il prof torna in cattedra, con tono sommesso, sofferente: “Un sassolino dalle scarpe proprio vorrei levarmelo, perché sono diventato io, Fenzi, l’ombrello sotto il quale si sono protetti tutti, tra catture e processi. Va bene, mi sono dissociato, ma non ho aggiunto nulla a quello che gli altri raccontavano sulle Br, cento, duecento volte. Ero il più vecchio, ero un professore e mi hanno usato così…. ma la storia non è solo quella che è stata ricostruita a questo modo….”
E allora quale sarà questa storia da risistemare? Fenzi elenca anche un po’ polemico e quasi sfuggente quello che la cronaca giudiziaria non può sistemare, non può storicizzare: “ Mi hanno minacciato in cella che non avrei visto il giorno dopo se non ignoravo quel particolare a cui loro tenevano……hanno nascosto una pistola in casa mia per accusarmi nel processo del blitz…….ci sono verità che sono rimaste sepolte, mentre veniva distrutta la colonna veneta delle Br e si liberava il generale americano Doziere i brigatisti catturati venivano torturati con un sistema anche legalizzato e tutti si pentivano e parlavano e la colonna genovese veniva scoperchiata dalle rivelazioni di Bozzo e Cristiani…..che avevo di più da dire io, da aggiungere…..”
Sono veramente pezzi di storia questi sassolini che Fenzi si leva dalle sue scarpe di oggi, di uno che oramai da decenni è “fuori” e ha tentato invano una risalita? “Avete raccontato di quello yactht che era partito da Tripoli del Libano e aveva portato sull’Adriatico quattro tonnellate di armi non solo per la colonna genovese, ma per tutte le colonne italiane: quella barca era dello Olp di Arafat.”
Fenzi mescola la storia con la “sua” storia. “Ho testimoniato, ho aiutato Giuliano Naria [il brigatista accusato erroneamente di avere ucciso Francesco Coco, il Pg di Genova l’8 giugno del 1976], ho aiutato Sergio Adamoli,[il figlio del famoso sindaco comunista della Genova anni Cinquanta]. Che avevo da aggiungere? Per come mi sono comportato ho dovuto scontare più anni di carcere di quelli che mi spettavano.”
La penultima parola del prof delle Br è per Francesco Berardi, il “postino” che faceva propaganda dentro all’Italsider, distribuendo volantini Br e che, una volta “beccato”, aveva fatto il suo nome agli inquirenti e che finì suicida, impiccato in cella nel supercarcere di Cuneo. Fenzi ci tiene forse a dimostrare in pubblico che non ha mai avuto nulla contro quella figura piccola e tragica del postino, anche se fu Berardi a tirargli dietro i segugi di Dalla Chiesa, dopo l’omicidio di Guido Rossa, giustiziato per avere deposto in udienza contro lo sciagurato postino. “Lui si è veramente giocato la vita e non possso dimenticarlo.”.
L’ultima parola di Fenzi è, invece, una citazione letteraria e come non poteva essre diversamente per un professore dalla carriera troncata che ogni volta che tenta di riemergere, magari in un convegno sul Petrarca, di cui continua ad essere uno studioso fine e raffinato, viene subito censurato da chi non dimentica? La citazione è per “Pentescoste”, la poesia di Alessandro Manzoni, che invoca la luce che cada sui “vari color”.
Per quest’uomo, oramai anziano, spezzato ma resistente al tempo, al logorio dei processi, delle accuse, al peso di una storia cancellata dalla memoria, ma ancora in grado di fare male, ogni volta che riemerge con la sua caterva di lutti e di sofferenze, quella sulla luce è una invocazione che il pubblico, arrivato a seguire la presentazione del libro, accoglie con una specie di timido applauso. In quella sala ci sono molti reduci di un tempo macerato dai ricordi, con i famigliari delle vittime, silenziosi, con i compagni di strada nelle frange di Autonomia Operaia, di Lotta Continua, dei gruppi border line, tra l’estremismo verbale dei partiti extra e il partito veramente armato, con i cronisti dell’epoca, con un pubblico genovese, quasi sperduto in quella memoria. E così, dopo lo sfogo del professore, chi arriva a spingere le spine nelle ferite di questa lunga memoria mezza perduta, mezza irrisolta?
Arriva il figlio di un alto magistrato dell’epoca, Beniamino De Vita, che fu indirettamente vittima di quel terrorismo, quando, da presidente della Corte d’Assise d’Appello, durante il sequestro del magistrato Mario Sossi, emise un provvedimento che consentiva di liberare i cosidetti “nonni delle stesse Br,” gli esponenti della banda XII Ottobre, condizione richiesta per non giustiziare lo stesso Sossi. “Sono il figlio di un magistrato che è stato lasciato solo dallo Stato davanti al ricatto dei terroristi” – racconta, questo figlio, che esce da un’ombra molto più assoluta di quella da cui è risbucato Fenzi. Anche questa è una testimonianza che arriva non solo fuori tempo massimo, ma come da un altro mondo, oggi quasi extraterrestre, perchè rievoca uno scontro, quello tra il terrorismo e i giudici che è seminato di croci in un cimitero dimenticato. Altro che i match berlusconiani con i giudici! Fuori dal Palazzo Ducale, dove queste memorie muovono antichi brividi, ci sono i rimbombi della nuova rivoluzione, quella dei Forconi. Che hanno bloccato la città, paralizzato il suo traffico, fatto tremare i palazzi con le bombe carte.
"A Genova in via Fracchia fu un'esecuzione", rivelazioni sulla strage Br legata al Caso Moro. «A Riccardo Dura spararono un unico colpo alla nuca. Non andò come dissero i carabinieri». Così rivela all'Espresso Luigi Grasso, autore della denuncia che ha riaperto l'inchiesta sull'irruzione del 1980 nel covo genovese delle Br. Un blitz che interessa anche alla Commissione Moro: nell'appartamento sarebbero stati nascosti documenti del presidente Dc. Ma nei rapporti successivi all'operazione non ve ne è traccia, scrive Federico Marconi il 29 agosto 2017 su "L'Espresso". Un esposto presentato alla Procura della Repubblica di Genova riapre le indagini sull'irruzione dei carabinieri nel covo delle Brigate rosse di via Fracchia, trentasette anni dopo il blitz in cui persero la vita quattro esponenti della colonna genovese delle Brigate rosse. Sul covo genovese delle Br si stanno concentrando anche le indagini della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro: nell'archivio brigatista sarebbero stati tenuti documenti relativi alla prigionia dello statista ucciso il 9 maggio 1978.
IL BLITZ. Il 28 marzo 1980, poco dopo le quattro del mattino, i carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo del generale Dalla Chiesa entrarono nell’appartamento al primo piano di un palazzo nel quartiere Oregina di Genova. «I carabinieri, fatti segno a colpi di arma da fuoco, hanno reagito prontamente, sostenendo un violento conflitto nel corso del quale i quattro occupanti dell’appartamento, tre uomini e una donna, sono rimasti uccisi, mentre un sottufficiale dell’Arma è rimasto ferito» riporta il comunicato del comando generale che venne diffuso al termine dell’operazione. I quattro brigatisti uccisi erano Annamaria Ludmann, proprietaria dell’appartamento, Lorenza Betassa, Pietro Panciarelli e Riccardo Dura, l’assassino del sindacalista Guido Rossa. Come scritto nel comunicato dell'Arma, i brigatisti avrebbero aperto il fuoco dopo l'irruzione, ferendo il maresciallo Benà ad un occhio. Solo allora i carabinieri avrebbero sparato, uccidendo i quattro. Ma per Luigi Giuseppe Grasso quella notte le cose non andarono così. Per questo lo scorso 11 agosto ha presentato un esposto in procura, con cui denuncia «l’omicidio volontario, non so se anche premeditato, di Riccardo Dura». L’Espresso ha contattato Grasso, classe 1947, sfortunato protagonista di un errore giudiziario negli anni ‘80. Venne arrestato dal nucleo antiterrorismo il 17 maggio 1979 con l’accusa di essere una delle menti delle Br genovesi: nel 1984 fu condannato a tre anni di carcere per “partecipazione a banda armata” . Dopo un lungo iter giudiziario, Grasso è stato risarcito dallo Stato italiano per la sua ingiusta reclusione. E fu proprio nel corso di questa vicenda che, nel gennaio 2000, riuscì a mettere le mani sul fascicolo riservato di via Fracchia. «L’azione di via Fracchia era una perquisizione disposta dal magistrato Di Noto al fine di “acquisire nuovi o ulteriori elementi” a carico mio e degli altri presunti brigatisti arrestati nel maggio del ‘79» afferma Grasso all’Espresso «si doveva perquisire un appartamento sospetto, dato il processo che si sarebbe aperto una quindicina di giorni dopo». E proprio per ciò che è scritto nel mandato di perquisizione che Grasso riesce a ottenere il fascicolo su via Fracchia: «Ancora ricordo il commento del responsabile dell’archivio del Tribunale. “C’è stata un’esecuzione”, mi disse non appena leggemmo i documenti».
L'ESPOSTO. L’esecuzione fu quella di Riccardo Dura. «Come riporta l’autopsia, è stato ucciso da un unico colpo di rivoltella alla nuca, a una distanza tra trenta centimetri e un metro, dall’alto verso il basso. Non aveva nessun graffio, contusione, né proiettile di fucile nel corpo» prosegue Grasso. Sul corpo del brigatista non ci sono colpi di mitragliamento «come invece ci sono sugli altri tre, la cui agonia deve essere stata straziante. Non escludo che, per quanto terribile sia solo immaginarlo, gli spari che li hanno raggiunti in testa siano stati dei “colpi di grazia”». Nelle quattro pagine dell’esposto, che l'Espresso ha potuto leggere, vengono indicati altri elementi che contrastano con la versione ufficiale del blitz del 28 marzo. Come il ferimento del Maresciallo Benà. «Il foglio di ricovero del carabiniere indica le sei del mattino, un’ora e mezza dopo l’inizio del blitz. Alle cinque e mezza viene avvertito il chirurgo oculistico dell’Ospedale San Martino, dove viene portato da un’auto dei carabinieri» si legge nella denuncia «Il ferimento del carabiniere avvenne evidentemente più tardi e in altro modo. Lo sparo, secondo i rapporti, sarebbe partito dalla pistola del brigatista Lorenzo Betassa, frontalmente. Ma il foro d’entrata non corrisponde: il proiettile entra da dietro. È stato fuoco amico, forse nel trambusto seguito al terribile evento». «I carabinieri hanno detto di aver sfondato la porta dell’appartamento. Alcuni giornalisti hanno scritto invece che i carabinieri avevano avuto le chiavi da Patrizio Peci e Rocco Micaletto (due capi delle Br che hanno collaborato con la giustizia, ndr). Per me le cose non sono andate in nessuno dei due modi» afferma Grasso all’Espresso «non è credibile che i brigatisti dormissero senza una sentinella in un appartamento “caldo”, né che non avessero la porta serrata. Magari quella notte la porta è stata aperta a qualcuno di conosciuto, di cui ci si poteva fidare». A sostegno di questa ipotesi, nell’esposto sono riportati alcuni eventi: «Le sorelle di A. R., un mio conoscente, che vivevano nel quartiere Oregina, avrebbero udito delle grida “Traditore, traditore” di una voce di donna». E ancora: «Il 1 gennaio del 2000 andai al bar Guarino di Castelletto con delle persone. Mentre conversavano, indicarono una persona, e dissero “lui è l’unico che si è salvato in via Fracchia”. A tal proposito, la moglie di Guido Rossa ha raccontato di un uomo portato via dall’appartamento, coperto da un giaccone».
LE INDAGINI DELLA COMMISSIONE MORO. Sull’operazione di via Fracchia sta indagando anche la Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Le morti dei quattro Br, infatti, potrebbero essere collegate al rapimento e all'uccisione dello statista. Nell’archivio che i brigatisti tenevano nell’appartamento sarebbero stati trovati manoscritti e registrazioni del presidente della Dc durante i 55 giorni di prigionia. Lo scorso 26 aprile è stato ascoltato il colonnello Michele Riccio, a capo del blitz del 28 marzo 1980, che ha dichiarato: «Siamo arrivati all’appartamento su indicazione di Patrizio Peci e di un altro brigatista arrestato. Abbiamo fatto degli scavi nel giardino da cui è uscito fuori parte dell’archivio brigatista». Ma nei documenti delle indagini, il giardino non è mai indicato. Il 19 giugno è stato sentito anche il giudice Luigi Carli, che si è occupato del fascicolo di via Fracchia: «Durante riunioni con i giudici torinesi, ho sentito parlare del ritrovamento delle carte di Moro». Neanche di queste c’è traccia nei rapporti. «Le audizioni che abbiamo svolto in Commissione hanno fatto chiarezza sul ritrovamento di buste di documenti nell'appartamento di via Fracchia che non risultavano negli atti successivi alla perquisizione» dichiara all'Espresso Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione Moro «non si può ancora avere la certezza assoluta che queste carte riguardassero Moro, nonostante il giudice Carli abbia riferito che ne sentì chiaramente parlare nel corso di una riunione con i colleghi di Torino». La commissione si sta occupando anche del possibile coinvolgimento della colonna genovese delle Br nel sequestro Moro: «Ci sono alcuni elementi emersi che fanno riferimento a forti collegamenti tra Mario Moretti (capo della colonna brigatista che rapì e uccise il presidente Dc, ndr) ed esponenti di Genova. Ma al momento non mi è possibile dire più di questo» aggiunge Fioroni. «Non mi interessa sapere cosa è stato trovato nell’appartamento» conclude Grasso «la mia denuncia si riferisce solo alle anomalie nell’uccisione di Dura e nel ferimento del maresciallo Benà. Al colonnello Riccio, che aveva guidato le operazioni, andrebbe chiesto cosa è veramente successo. Lui conosce gli uomini che erano con lui quella notte e chi e perché ha sparato. Fu attacco di nervi? Una disobbedienza? Un ordine?».
Se un ricercatore vuole riscrivere la storia d'Italia. Il terrorismo come un "cold case", scrive Paolo Guzzanti, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Si riapre il lungo e ancora inedito dossier sui cosiddetti «anni di piombo», vale a dire lo scontro angoscioso e sanguinoso fra Stato e terroristi comunisti che si erano dati il nome di «brigatisti rossi» con la riapertura dell'indagine su quel che avvenne nel «covo» di via Fracchia a Genova dove quattro membri delle Brigate rosse (fra cui una donna, Annamaria Ludman proprietaria dell'appartamento) furono uccisi dai corpi speciali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. L'inchiesta è stata riaperta dal procuratore di Genova Francesco Cozzi su denuncia di Luca Grasso, un ricercatore universitario che ha ottenuto e studiato il rapporto dell'allora capitano Michele Riccio che guidò l'assalto nella notte del 28 marzo 1980. Grasso sostiene che almeno uno dei brigatisti uccisi, Riccardo Dura, non morì durante lo scontro a fuoco ma fu giustiziato inerme con un colpo alla nuca. Bisogna avere non meno di cinquantacinque anni avere memoria di quel sanguinosissimo scontro voluto dal generale Calo Alberto dalla Chiesa, poi barbaramente trucidato a Palermo con sua moglie Emanuela Setti Carraro, quando era prefetto del capoluogo siciliano dove custodiva documenti mai più rintracciati sui legami fra Brigate rosse e servizi dello Stato, nella sua cassaforte. Quello di via Fracchia fu l'episodio che mise fine alle attività delle Brigate rosse le quali di fatto si arresero poco dopo in seguito al fallito rapimento del generale americano James Lee Dozier, liberato dopo quarantacinque giorni di prigionia nel gennaio del 1982. A portare i carabinieri nel covo di via Fracchia fu il primo grande pentito della banda armata delle Brigate rosse, Patrizio Peci, il cui fratello Roberto fu fucilato da un vero plotone d'esecuzione brigatista, esecuzione che fu filmata e diffusa in tempi in cui ancora non esisteva internet. Il caso del pentimento di Patrizio e dell'assassinio per rappresaglia di Roberto Peci, costituì uno degli atti finali di una guerriglia cominciata all'inizio degli anni Settanta con il rapimento del giudice Mario Sossi e che insanguinò l'Italia per oltre un decennio, con un'ecatombe di servitori dello Stato e giornalisti, assassinati a freddo per il valore simbolico delle loro morti. La più famosa delle vittime fu Aldo Moro, il segretario della Democrazia cristiana che avrebbe dovuto di lì a poco essere eletto presidente della Repubblica, rapito e trucidato nel bagagliaio di una Renault nel maggio del 1978 dopo quaranta giorni di interrogatori mai rivelati. L'irruzione dei corpi speciali in via Fracchia, in cui rimase ferito il maresciallo Rinaldo Benà, si concluse con un bilancio mai visto prima nella lunga lotta fra Stato e brigatisti rossi: i quattro terroristi furono uccisi nell'appartamento in cui avevano il loro covo e domicilio: fu una strage che tutta l'opinione pubblica considerò un avvertimento ai brigatisti ancora attivi per far sapere che lo Stato aveva deciso di colpire senza fare più prigionieri. Il ricercatore universitario Luca Grasso ha lavorato per molto tempo sul rapporto ancora segreto sui fatti di via Fracchia e si è rivolto alla magistratura chiedendo di indagare sulle vere circostanze dell'uccisione di Riccardo Dura che, secondo quanto risulta dai documenti esaminati sarebbe stato giustiziato con un colpo alla nuca e dunque deliberatamente assassinato. Il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha dichiarato «un atto dovuto» la riapertura dell'inchiesta.
Genova, 37 anni dopo procura apre inchiesta per omicidio sulla morte di Riccardo Dura. Nel blitz nel covo delle Br in via Fracchia fu ucciso con un solo colpo alla nuca. L'esposto di un assistente universitario all'epoca arrestato e poi prosciolto e risarcito. Il procuratore: "Un atto dovuto l'apertura del fascicolo", scrive il 27 agosto 2017, "La Repubblica". A 37 anni di distanza dal blitz genovese nel covo Br di via Fracchia in cui vennero uccisi dai carabinieri quattro brigatisti rossi la procura della repubblica di Genova, in seguito alla presentazione di un esposto denuncia di un cittadino, ha aperto un fascicolo per omicidio "in danno di Riccardo Dura", uno dei terroristi uccisi. "Un atto dovuto", come spiega all'Ansa il procuratore di Genova Francesco Cozzi nel confermare l'apertura del fascicolo. Che aggiunge: "Adesso valuteremo modi e tempi di eventuali accertamenti". A presentare l'esposto nei giorni scorsi, come scrive il Secolo XIX che stamane ha anticipato la notizia, è stato Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto. "Quello di Dura è stato un omicidio volontario, venne ucciso con un solo colpo alla nuca" si legge nell'esposto presentato da Grasso. L'eventuale inchiesta sarà affidata dai magistrati ai poliziotti dell'antiterrorismo. Grasso alla decisione di presentare l'esposto è arrivato dopo una ricerca personale negli archivi giudiziari che gli ha permesso di ottenere il fascicolo di via Fracchia: in cui c'è la ricostruzione dei fatti spiegata da Michele Riccio, l'allora capitano che guidò l'assalto, uomo di fiducia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br. Dalla lettura di quei fatti Grasso è arrivato alla conclusione che l'uccisione del brigatista Riccardo Dura è un omicidio volontario. Grasso aveva già manifestato i suoi dubbi su via Fracchia 19 anni fa durante la presentazione di un libro di Enrico Fenzi, docente universitario arrestato e condannato per episodi legati alla stagione brigatista. ''La vera luce sulla colonna genovese delle Brigate rosse non è stata ancora fatta - disse Grasso prendendo la parola - Il blitz del 17 maggio del '79 in cui vennero arrestati Enrico Fenzi e altre 16 persone è stato frutto di una finta inchiesta messa in atto per favorire il permanere a Genova della colonna brigatista, poi sgominata nell' 80 in via Fracchia dagli uomini del generale Dalla Chiesa''. Grasso enunciò la sua tesi nel corso del dibattito sul libro ''Armi e bagagli'' di Enrico Fenzi, svoltosi a Genova nel convento di Santa Maria di Castello. Grasso venne arrestato insieme al professore genovese, poi prosciolto e risarcito dallo Stato per riparare all' errore giudiziario (venne arrestato anche per il delitto Coco) nei suoi confronti. ''La vera realtà - sostenne Grasso - è che Enrico, io e gli altri siamo stati arrestati non come brigatisti, ma per depistare le indagini. Contesto perciò quanto scritto da Fenzi nel suo libro, che considero un buon romanzo, ma senza validità storica''. A queste parole Fenzi, fino a quel momento tra il pubblico, puntualizzò: ''A Grasso dico solo che non è mai appartenuto alle Bierre, che è stato perciò condannato ingiustamente. Nel libro ho raccontato le cose che ho vissuto io''.
Irruzione di via Fracchia. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La cosiddetta irruzione di via Fracchia, o strage di via Fracchia, fu un sanguinoso episodio degli anni di piombo avvenuto a Genova in un appartamento in via Umberto Fracchia 12 nella notte del 28 marzo 1980. Grazie alle informazioni fornite dal militante delle Brigate Rosse Patrizio Peci, arrestato nel febbraio 1980 a Torino, i carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa poterono individuare l'importante base dell'organizzazione terroristica e organizzare di notte un'irruzione all'interno dell'appartamento. L'azione si concluse con un violento conflitto a fuoco che provocò la morte dei quattro brigatisti presenti, tre militanti clandestini delle colonne genovese e torinese e la giovane proprietaria dell'appartamento, oltre al ferimento del maresciallo dei carabinieri Rinaldo Benà. Le modalità dell'irruzione e l'esatta dinamica dei fatti rimasero non del tutto chiari e suscitarono polemiche, facendo sorgere dubbi sull'operato dei carabinieri e sull'effettiva necessità di uccidere tutti i brigatisti sorpresi nell'appartamento. L'irruzione di via Fracchia ebbe conseguenze decisive a Genova e provocò il rapido collasso della pericolosa organizzazione brigatista presente nella città che, a partire dal 1976, si era resa protagonista di una lunga e cruenta serie di attentati contro magistrati, politici, dirigenti industriali e forze dell'ordine.
Le Brigate Rosse, dopo aver esteso la loro attività inizialmente a Milano e Torino, avevano sequestrato a Genovanella primavera del 1974 il magistrato Mario Sossi; una vera colonna brigatista tuttavia non venne costituita fino al 1976 dopo l'intervento nella città di due importanti e capaci militanti dell'organizzazione, Mario Moretti e Rocco Micaletto. Fu a Genova che i brigatisti organizzarono e portarono a termine per la prima volta un attentato mortale uccidendo l'8 giugno 1976 il giudice Francesco Coco e i due uomini della sua scorta[3]. La nuova colonna genovese delle Brigate Rosse si caratterizzò subito per la dura efficienza clandestina, per la rigida compartimentazione e per il suo costante tentativo di sviluppare la propaganda e il proselitismo all'interno delle grandi fabbriche della città, cercando di ottenere l'adesione alla lotta armata delle frange estremistiche operaie ed entrando in aspro conflitto con la potente struttura organizzativa del PCI. I principali dirigenti della colonna organizzarono a Genova una struttura particolarmente rigida, con una dura disciplina tra i militanti e con una buona capacità militare, che fu in grado di potenziare progressivamente la sua attività terroristica senza cedimenti e senza che le forze dell'ordine riuscissero a individuare e arrestare i componenti né fermarne l'azione. I militanti clandestini più importanti erano persone completamente sconosciute agli inquirenti, come Riccardo Dura "Roberto" personalità estremamente radicale dalla violenta carica ideologica, mentre alcuni dei componenti principali della colonna, Rocco Micaletto "Lucio" e Luca Nicolotti "Valentino", erano dirigenti particolarmente determinati trasferitisi temporaneamente da Torino. Mentre dal punto di vista dell'efficienza militare la colonna genovese per quattro anni a partire dal 1976 dispiegò una continua e crescente attività terroristica con un impressionante numero di ferimenti e omicidi, dal punto di vista politico i brigatisti non riuscirono a scardinare la predominante influenza del PCI sulla forte base operaia delle grandi fabbriche e del porto. La esasperata conflittualità dei brigatisti contro il PCI giunse al punto di provocare attacchi dell'organizzazione contro dirigenti dell'industria di stato legati al partito e soprattutto fu una delle cause principali dell'attentato contro il sindacalista comunista Guido Rossa che, accusato di delazione all'interno dell'Italsider, venne ucciso nel gennaio 1979 in via Fracchia, nei pressi della sua abitazione in via Ischia, da un nucleo armato guidato da Riccardo Dura.
Nonostante il sostanziale rifiuto da parte della base operaia delle istanze estremistiche delle Brigate Rosse e il conseguente loro crescente isolamento, i brigatisti della colonna genovese continuarono nell'inverno 1979-1980 a moltiplicare gli attacchi sempre più cruenti che colpirono le cosiddette "strutture dell'apparato repressivo dello stato" e in particolare i carabinieri; a dicembre 1979 e gennaio 1980 quattro militari dell'Arma vennero uccisi in due sanguinosi agguati, a Sampierdarena e in via Riboli, da gruppi di fuoco dell'organizzazione. Mentre le altre colonne brigatiste, soprattutto a Torino e Milano, erano sottoposte alla sempre più efficace pressione delle forze dell'ordine che aveva provocato la cattura di numerosi militanti e la scoperta di basi dell'organizzazione, le Brigate Rosse genovesi mantenevano la loro capacità di attacco e non davano segni di cedimento militare; nessun importante membro della colonna era stato catturato e i brigatisti disponevano di basi sicure all'interno della città. La situazione dei brigatisti, in particolare a Torino, era divenuta così critica, a causa dell'azione di contrasto delle forze di polizia, che due militanti della colonna torinese, Lorenzo Betassa "Antonio" e Piero Panciarelli "Pasquale", avevano abbandonato la città e si erano trasferiti a Genova, ritenuto centro ancora relativamente sicuro. Fu quindi proprio a Genova che le Brigate Rosse organizzarono, nel dicembre 1979, un'importante riunione della "Direzione Strategica" con la partecipazione di militanti di tutte le colonne attive in Italia. L'incontro si svolse in un ampio appartamento al piano terra di un edificio in via Umberto Fracchia 12 nel quartiere Oregina, di proprietà di Annamaria Ludmann "Cecilia", trentaduenne militante regolare non clandestina dell'organizzazione, che contemporaneamente alla sua attività nella lotta armata aveva mantenuto la sua vita apparentemente normale di impiegata presso una scuola svizzera, il centro culturale Galliera. In precedenza nel suo appartamento in via Fracchia, ritenuto assolutamente sicuro, la Ludmann aveva ospitato numerosi militanti clandestini della colonna tra cui Micaletto e Nicolotti. Alla riunione della "Direzione Strategica" in via Fracchia 12 nell'appartamento della Ludmann parteciparono tutti i clandestini più importanti dell'organizzazione: per la colonna milanese Mario Moretti e Barbara Balzerani "Sara", per il Veneto Vincenzo Guagliardo "Pippo" e Nadia Ponti "Marta", per la colonna genovese Dura, Nicolotti e Francesco Lo Bianco "Giuseppe", per la colonna romana Bruno Seghetti "Claudio", Maurizio Iannelli e Antonio Savasta "Diego". Da Torino arrivarono in via Fracchia, oltre a Lorenzo Betassa, i due dirigenti più esperti rimasti della colonna, Rocco Micaletto e Patrizio Peci "Mauro".
Genova 28 marzo 1980. Antefatti. Patrizio Peci, "Mauro", il brigatista della colonna di Torino che decise di collaborare con i carabinieri, fornendo precise indicazioni su basi e militanti delle Brigate Rosse. Il 19 febbraio 1980 a Torino, in Piazza Vittorio, i carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa arrestarono prima Patrizio Peci e quindi Rocco Micaletto; anche se Peci nelle sue memorie ritiene che la cattura avvenne per un caso fortuito, in realtà i carabinieri da alcuni mesi avevano individuato e controllato i due importanti dirigenti della colonna torinese. Dopo alcune settimane di detenzione, Patrizio Peci prese la sorprendente e inattesa decisione di collaborare con i carabinieri; il brigatista ebbe anche un colloquio con il generale dalla Chiesa, quindi incominciò a fornire al colonnello Nicolò Bozzo, uno dei principali collaboratori del generale, informazioni dettagliate sulla struttura dell'organizzazione, le sue basi, i suoi militanti e i responsabili degli attentati di cui era a conoscenza. Egli era soprattutto informato sulle vicende delle Brigate Rosse a Torino ma, avendo partecipato alla "Direzione Strategica" del dicembre 1979 a Genova, ricordava anche sommariamente il luogo dove si era svolta quella riunione. Peci avrebbe riferito al colonnello Bozzo che, dopo essere giunto alla stazione di Genova, era stato accompagnato su un autobus da due brigatisti fino a un appartamento al piano terreno lungo una strada in salita il cui nome, via Fracchia, egli ricordava in quanto lo collegava con un personaggio dell'attore Paolo Villaggio. Peci ricordava inoltre che l'appartamento era gestito da una donna. Altre fonti hanno supposto che Peci accompagnò direttamente i carabinieri in un sopralluogo dello stabile e confermò la presenza di una base delle Brigate Rosse. Secondo il colonnello Bozzo invece le informazioni di Peci furono confermate anche da precedenti indizi raccolti sulla possibile presenza di un "covo" brigatista, in base alle testimonianze fornite dopo l'assassinio di Guido Rossa avvenuto l'anno prima nella stessa via. Dopo l'individuazione dell'appartamento, la base brigatista venne sorvegliata per alcuni giorni dagli uomini delle forze dell'ordine; in origine l'irruzione all'interno avrebbe dovuto essere affidata agli agenti dell'UCIGOS e l'azione venne pianificata per la notte del 27 marzo, ma infine il generale dalla Chiesa intervenne e ottenne che l'operazione fosse affidata ai carabinieri che erano stati sanguinosamente colpiti dai brigatisti nei mesi precedenti. L'irruzione in via Fracchia sarebbe stata effettuata la notte del 28 marzo in connessione e contemporaneamente con una operazione globale antiterrorismo in tutta l'Italia settentrionale condotta dai carabinieri sulla base delle importanti e precise informazioni fornite da Peci, la cui delazione, iniziatasi da alcuni giorni, era stata mantenuta strettamente segreta. La sera di giovedì 27 marzo Annamaria Ludmann venne osservata rincasare intorno alle ore 19:00, e subito dopo arrivarono altri due giovani sconosciuti; Peci aveva descritto le caratteristiche generali dell'appartamento e aveva evidenziato come fosse adibito anche a deposito di armi ed esplosivi e vi fossero disponibili attrezzature per la fabbricazione di targhe contraffatte. Egli non era a conoscenza di chi fossero gli occupanti abituali della base oltre alla giovane proprietaria, ma i carabinieri ritennero che l'appartamento ospitasse parecchi militanti particolarmente pericolosi dell'organizzazione. Il generale dalla Chiesa riferirà nel maggio 1980 che non si pensava di trovare la Ludmann all'interno dell'abitazione, mentre si ipotizzava che fossero presenti due latitanti e due "regolari". In effetti sembrerebbe evidente che i carabinieri ignoravano chi fossero i brigatisti presenti nella base e che l'irruzione venne effettuata in fretta senza una preliminare e accurata preparazione come era previsto dalle tecniche investigative del nucleo antiterrorismo del generale. Secondo Michele Riccio, che fu l'ufficiale dei carabinieri che diresse l'irruzione, l'azione venne affrettata soprattutto per coordinarla con le previste operazioni contro le Brigate Rosse in Piemonte che erano in corso di svolgimento; egli inoltre avrebbe preferito attendere il primo mattino per arrestare prima la Ludmann all'uscita dall'appartamento; sarebbe stato il generale dalla Chiesa in persona a ordinare l'assalto in piena notte.
L'irruzione secondo la relazione dei carabinieri. L'edificio n. 12 di via Umberto Fracchia comprendeva diciassette appartamenti in totale; l'interno 1, la base delle Brigate Rosse di proprietà di Annamaria Ludmann, si trovava nel seminterrato a cui si accedeva, dopo aver raggiunto, salendo sette scalini, l'androne di ingresso, discendo una rampa di dodici scalini. Nella stanza del seminterrato si trovavano due porte, una che dava accesso a cinque cantine e una, quella di sinistra, che era la porta d'ingresso dell'appartamento; sul campanello c'era la scritta "Corrado Ludmann", il padre deceduto di Annamaria. L'appartamento, ampio circa 120 metri quadrati, era composto da un ingresso, un lungo e stretto corridoio e sei stanze che si aprivano sul corridoio: la cucina, la sala da pranzo, il bagno, una camera da letto, un ripostiglio e sulla sinistra in fondo al corridoio, un salone; il locale disponeva anche di un giardino, a cui si accedeva dalla cucina e dalla sala da pranzo, che conduceva alla parte posteriore dell'edificio. L'appartamento, situato sotto il livello del suolo e senza vie d'uscita alternative, era ubicato in uno spazio ristretto e non si prestava facilmente a un'irruzione di sorpresa; il rischio di un conflitto a fuoco era elevato in caso di resistenza dei brigatisti. Il colonnello Bozzo affidò la direzione dell'operazione al capitano Michele Riccio il quale ebbe a disposizione il personale del nucleo operativo della Legione carabinieri di Genova; gli uomini incaricati dell'irruzione circondarono preliminarmente in forze tutta la zona equipaggiati con giubbotti antiproiettile, pistole mitragliatrici Beretta M12 e caschi protettivi; vennero messe a disposizione anche armi pesanti tra cui un fucile a pompa Benelli in grado di frantumare le pareti divisorie dell'appartamento; essendo possibile una resistenza con le armi dei brigatisti e quindi uno scontro a fuoco venne anche predisposta la presenza di due ambulanze. All'operazione prese parte anche personale dei carabinieri in borghese del nucleo antiterrorismo. Nel cuore della notte del 28 marzo 1980, sotto una pioggia torrenziale con tuoni e lampi, alcuni abitanti dello stabile videro delle ombre muoversi intorno all'edificio; l'irruzione, secondo la relazione ufficiale ebbe luogo alle ore 04:30 nel buio e con una densa foschia. La notte del 28 marzo 1980 in via Fracchia 12, interno 1 si trovavano, oltre ad Annamaria Ludmann, i due brigatisti clandestini provenienti da Torino, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, e Riccardo Dura che era il principale dirigente della colonna genovese e da alcuni mesi era anche uno dei componenti del Comitato Esecutivo dell'organizzazione, insieme con Mario Moretti e Bruno Seghetti. Dura generalmente abitava in via Zella 11 a Rivarolo nell'insospettabile appartamento abitato da Caterina Picasso, una simpatizzante delle Brigate Rosse di 73 anni. Successivamente ai fatti si ipotizzò che i tre clandestini si fossero riuniti quella notte in via Fracchia per preparare un imminente attentato contro l'ingegnere dell'Ansaldo Giobatta Clavarino, forse previsto per la mattina successiva. Il 4 aprile 1980 la Procura della Repubblica di Genova emise un comunicato in cui era riportato il resoconto ufficiale dell'Arma riguardo l'irruzione e i fatti accaduti. Secondo i carabinieri, il nucleo operativo, equipaggiato in assetto da guerra, entrò nella palazzina, discese le scale, raggiunse la porta d'ingresso dell'appartamento e intimò ripetutamente agli occupanti di aprire. Dall'interno dell'appartamento sarebbero giunte manifestazioni verbali di pronta collaborazione non seguite da fatti concreti, quindi gli uomini delle forze dell'ordine avrebbe colpito la porta che si sarebbe aperta dando accesso al corridoio che, immerso nell'oscurità, non permise di vedere bene. I carabinieri richiesero la resa a cui i brigatisti avrebbero risposto di rinunciare alla resistenza e dichiarando di essere disarmati. L'ingresso dell'appartamento: è visibile sul pavimento la macchia di sangue causata dal ferimento del maresciallo Rinaldo Benà, sulla sinistra si vedono le braccia e parte della testa del cadavere di Riccardo Dura. Subito dopo tuttavia dal fondo del corridoio venne esploso un colpo di pistola da uno dei terroristi che colpì il maresciallo Rinaldo Benà, di 41 anni, che era entrato per primo oltre il portone e che, forse per vedere meglio, aveva sollevato la visiera del casco protettivo. Il maresciallo venne seriamente colpito al volto e cadde a terra. I carabinieri aprirono quindi il fuoco dall'ingresso con le pistole mitragliatrici e subito dopo il brigatista che aveva sparato fu abbattuto; a questo punto il capitano Riccio intimò di nuovo la resa e vennero scorti due uomini e una donna che si muovevano carponi lungo il corridoio; grazie all'impiego di un faro a disposizione degli uomini del nucleo operativo, i carabinieri poterono illuminare la scena e vedere i terroristi di cui uno armato di pistola e la donna con una bomba a mano. I carabinieri riaprirono il fuoco con tutte le armi a disposizione contro i brigatisti lungo il corridoio che vennero tutti uccisi. Il racconto del colonnello Bozzo non si discosta dalla relazione originaria dei carabinieri; secondo l'ufficiale i brigatisti finsero di collaborare, ma nel momento in cui il maresciallo Benà entrò egli venne colpito da un proiettile sparato dal corridoio; i colleghi, credendolo morto, scatenarono un violento fuoco con le pistole mitragliatrici e con il fucile a pompa, uccidendo tre uomini. Il capitano Riccio diede ordine di cessare il fuoco ma, alla luce di una torcia, venne individuata una donna che strisciava sul pavimento con una bomba a mano; quindi si riprese a sparare uccidendo anche l'ultima terrorista. L'azione sarebbe durata in tutto nove minuti. Infine si dispone del resoconto del capitano Michele Riccio che guidò l'irruzione; anche secondo questa ricostruzione i carabinieri avrebbero intimato di aprire la porta, quindi, non ottenendo risposta, forzarono le serrature ed entrarono; dal corridoio uno degli occupanti sparò un colpo di pistola che ferì il maresciallo Benà. I carabinieri aprirono il fuoco e "iniziò l'inferno"; dopo tre minuti di fuoco con i mitra e il fucile a pompa, gli uomini dell'Arma incominciarono a perlustrare l'abitazione. Riccio aggiunge il particolare singolare che poco dopo squillò il telefono dell'appartamento, si sarebbe trattato di un altro brigatista della colonna genovese, Livio Baistrocchi, che chiamava per l'appuntamento del mattino. Rispose il capitano ma il terrorista riattaccò subito. L'operazione era terminata; i carabinieri provvidero a sbarrare l'accesso allo stabile e ordinarono alle persone che abitavano negli altri appartamenti, che erano fortemente impressionati dal violento conflitto a fuoco, di rimanere chiusi in casa; alle ore 06:55 il sostituto procuratore della Repubblica di Genova, Filippo Maffeo, dopo essere stato accompagnato all'interno dell'appartamento dai carabinieri, firmò il processo verbale di sopralluogo. Il maresciallo Rinaldo Benà fu trasportato in ospedale; la grave ferita al capo causò la perdita di un occhio ma il sottufficiale sopravvisse. Dagli atti processuali relativi ai fatti di via Fracchia, resi noti da un quotidiano genovese il 29 marzo 1980 e ripresi da altre testate giornalistiche il 26 gennaio 2000, il sottufficiale dei carabinieri sarebbe stato ricoverato alle ore 06:00 del mattino, quindi circa sessanta minuti più tardi dell'orario riportato dalla versione ufficiale delle autorità. Il chirurgo di turno sarebbe stato svegliato alle ore 05:30 e chiamato in servizio per visitare il ferito e sottoporlo a intervento chirurgico, che poi sarebbe stato effettuato fra le otto e mezzogiorno. La circostanza del richiamo in servizio del chirurgo all'alba del 28 marzo sarebbe confermata dal foglio di ricovero, reso pubblico venti anni dopo i fatti insieme con il resto degli atti giudiziari.
Diffusione delle notizie e identificazione dei brigatisti. Le prime notizie dei cruenti fatti di Genova vennero diffuse dall'agenzia ANSA che, allertata dal comando generale dei carabinieri, comunicò alle ore 06:53 che "quattro presunti terroristi sono stati uccisi in un conflitto a fuoco con i carabinieri... nella sparatoria è rimasto ferito anche un sottufficiale dell'Arma. Le persone morte sono tre uomini e una donna"; entro le ore 07:42 l'agenzia diramò altri due comunicati che indicavano con precisione l'ora ufficiale dello scontro a fuoco e il luogo esatto a Genova dell'irruzione dei carabinieri. Alle ore 09:00 il comando generale dei carabinieri diffuse un comunicato ufficiale in cui descriveva rapidamente le operazioni antiterrorismo in corso a Torino, Genova e Biella e parlava in termini generali del conflitto a fuoco di via Fracchia dovuto a "colpi di arma da fuoco" da parte dei terroristi a cui i carabinieri avevano "reagito prontamente". Per molti giorni questo rimase l'unico resoconto ufficiale proveniente dall'Arma; il cordone di sicurezza attorno all'edificio rimase molto stretto, fu proibito l'ingresso ai giornalisti; nel primo giorno le persone raccolte all'esterno poterono vedere solo le quattro bare in legno dei brigatisti trasportate fuori dal palazzo e due pulmini dei carabinieri che furono stipati di sacchi neri e pacchi contenenti il materiale trovato all'interno dell'abitazione. Anche il personale della DIGOS giunto sul posto venne fermato e fu impedita ogni interferenza della Questura nelle indagini. Secondo la documentazione del processo verbale del sostituto procuratore della Repubblica e la relazione del capitano Riccio, dopo lo scontro a fuoco nell'appartamento, i carabinieri trovarono i corpi di quattro persone. Procedendo dalla porta di accesso, videro per primo il cadavere di un uomo di corporatura robusta con baffi, vestito con slip e maglietta a maniche corte rossa, disteso ventre a terra tra l'ingresso e l'inizio del corridoio, apparentemente senza armi; sotto la testa, ruotata verso destra, una grande chiazza di sangue. Subito dopo lungo il corridoio c'era il cadavere di un altro uomo ventre a terra con slip e canottiera blu, la testa, sotto di cui si allargava un'altra chiazza di sangue, rivolta verso il pavimento; a livello del tronco fu repertata una pistola Beretta 81. Il terzo cadavere era quello di una donna che giaceva riversa trasversalmente rispetto al corridoio, con le gambe che si trovavano all'ingresso della stanza ripostiglio; la donna indossava un maglione avana, sottoveste e slip rosa, scarpe di corda; accanto alla testa vennero individuati un paio di occhiali da vista e una bomba a mano, dal capo si estendeva una grande chiazza di sangue. Infine il quarto cadavere si trovava alla fine del corridoio; si trattava di un altro uomo che giaceva disteso supino longitudinalmente al corridoio con le gambe che arrivavano fino all'ingresso della camera da letto. Questo individuo, di alta statura e con barba, era vestito; indossava maglione di lana e pantaloni, una scarpa era calzata al piede destro mentre l'altra si trovava vicino al piede sinistro; anche in questo caso c'era una vasta chiazza di sangue sotto il capo e la parte superiore del torace; venne repertata accanto al piede sinistro una pistola Browning HP con colpo in canna percosso ma non esploso. Inizialmente i carabinieri parvero all'oscuro dell'identità dei quattro brigatisti uccisi; il primo giorno venne divulgato solo il nome della donna, Annamaria Ludmann, l'insospettabile figlia del capitano di lungo corso Corrado Ludmann, proprietario deceduto dell'appartamento; un personaggio minore della colonna genovese del tutto sconosciuto agli inquirenti, ritenuto solo una militante "legale" unicamente impegnata a gestire l'abitazione e a metterla a disposizione dei clandestini[39]. Anche il 29 marzo non furono diffuse notizie precise sui nomi degli altri brigatisti e i carabinieri diedero l'impressione di aver agito senza adeguate informazioni preliminari; furono invece le Brigate Rosse che diffusero un comunicato di commemorazione dei militanti uccisi scritto personalmente da Mario Moretti[40]. Nel comunicato le Brigate Rosse esaltavano le qualità dei quattro "militanti rivoluzionari", "avanguardie" decise a "imbracciare il fucile e combattere"; essi venivano identificati con i nomi di battaglia: "Roberto", "operaio marittimo" e "dirigente dall'inizio della costruzione della colonna", "Antonio", operaio Fiat, tutti e due membri della "Direzione Strategica"; "Cecilia", "donna proletaria", e "Pasquale", operaio della Lancia di Chivasso. Nel volantino si accusavano i carabinieri della loro morte; essi "dopo essersi arresi, erano stati trucidati". Il comunicato concludeva minacciosamente: "niente resterà impunito". Nei giorni seguenti i carabinieri, pur permanendo un'atmosfera di riserbo e incertezza, riuscirono a identificare altri due brigatisti e fornirono alla stampa i nomi di Lorenzo Betassa, "Antonio" secondo il volantino diramato dall'organizzazione, e di Piero Panciarelli, "Pasquale". Il primo, l'uomo ritrovato parzialmente vestito in fondo al corridoio, non era affatto ricercato dalle forze dell'ordine, nonostante facesse parte secondo le stesse Brigate Rosse della "Direzione Strategica"; egli venne identificato anche grazie alla carta d'identità ritrovata sul corpo che riportava i suoi dati anagrafici reali. Il secondo, Piero Panciarelli, era relativamente più conosciuto ma non era ritenuto un militante di primo piano; era ricercato dalla metà del 1978 e considerato coinvolto negli attentati più gravi compiuti dall'organizzazione a Torino e a Genova. I carabinieri inoltre diramarono un comunicato con il lungo e dettagliato elenco della grande quantità di armi e materiali trovati all'interno dell'abitazione di via Fracchia: cinque pistole, due pistole mitragliatrici Sterling, un fucile Franchi, 2.000 cartucce, due granate Energa, due mine anticarro; esplosivo al plastico; macchine per scrivere, registratori, un riproduttore fotografico, drappi con la stella delle Brigate Rosse, materiale per la falsificazione di documenti, patenti e carte d'identità contraffatte, targhe di auto rubate, materiale propagandistico dell'organizzazione, infine un elenco con oltre 3.000 nominativi di persone verosimilmente individuate come possibili obiettivi della formazione terroristica. Rimase invece ancora sconosciuta l'identità del quarto brigatista ucciso, "Roberto", l'uomo caduto all'inizio del corridoio, descritto dalle Brigate Rosse nel loro comunicato in termini altamente elogiativi e indicato come un dirigente di primo piano della colonna genovese e un membro della "Direzione Strategica". Gli inquirenti non sembrarono in grado di identificarlo e anche l'eventualità, diffusa per breve tempo, che si trattasse di Luca Nicolotti si rivelò completamente infondata. Furono infine le stesse Brigate Rosse che il 3 aprile rivelarono con una telefonata il nome del quarto militante, Riccardo Dura; l'anonimo parlò di "macabra propaganda" e minacciò rappresaglie contro giudici, carabinieri e giornalisti. Riccardo Dura era un personaggio sconosciuto agli inquirenti, solo nel mesi successivi grazie alle informazioni fornite da Patrizio Peci e da altri brigatisti catturati e collaboranti, si appresero dettagliate informazioni sul suo ruolo importante, sulla sua partecipazione a gravissimi fatti di sangue, sulla sua personalità aggressiva e dominante all'interno della colonna genovese.
Aspetti controversi della vicenda. Perizia balistica e conclusioni giudiziarie. I carabinieri continuarono a bloccare l'accesso all'appartamento anche dopo l'identificazione dei quattro brigatisti; la magistratura emise un primo comunicato il 5 aprile insieme con la relazione ufficiale dell'Arma emessa il giorno precedente con la descrizione degli eventi accaduti in via Fracchia. Solo l'8 aprile i magistrati poterono entrare di nuovo nell'appartamento seguiti finalmente anche dai giornalisti, che furono fatti entrare uno per volta ed ebbero a disposizione tre minuti di tempo in totale per osservare il luogo del drammatico scontro a fuoco[48]. La visita non chiarì tutti i dubbi e al contrario alcuni particolari riscontrati sollevarono perplessità sulla ricostruzione dei carabinieri. I giornalisti riportarono nei loro resoconti la presenza di fori di proiettili sul pianerottolo, ad alcuni decimetri da terra, nell'ingresso e all'inizio del corridoio, alti fino quasi al soffitto; nella relazione dei carabinieri non si faceva cenno di scontro a fuoco sul pianerottolo e si parlava di colpi sparati verso persone che avanzavano carponi quasi strisciando. Fu rilevato che la porta di accesso all'appartamento non sembrava presentare segni evidenti di effrazione, a differenza della porta esistente tra ingresso e corridoio che invece apparve forzata. Inoltre ad alcuni cronisti non sembrò chiaro come i carabinieri fossero potuti entrare nell'edificio attraverso il portone principale dotato di una serratura; venne ventilata la possibilità che essi avessero le chiavi d'ingresso dello stabile[49]. Infine sorsero dubbi anche sull'effettivo responsabile del ferimento del maresciallo Rinaldo Benà che risultò colpito da un proiettile calibro 9 mm, un tipo utilizzato anche dalle armi in dotazione ai carabinieri. Per chiarire i particolari dello scontro a fuoco il Procuratore della Repubblica di Genova richiese l'8 aprile, dopo aver riportato la relazione dei carabinieri, "indagini peritali di carattere medico-legale e balistico" che vennero espletate e permisero di accertare con precisione quali e quante armi avevano sparato nella notte del 28 marzo 1980. Venne quindi stabilito che tra le armi rinvenute all'interno dell'appartamento, tutte perfettamente funzionanti, aveva sparato solo la pistola Browning HP rinvenuta accanto ai piedi di Lorenzo Betassa che aveva esploso un proiettile; questa pistola presentava inoltre una cartuccia inesplosa all'interno della camera di scoppio. Tra le armi in dotazione ai carabinieri avevano sparato tre pistole mitragliatrici Beretta M12 che avevano esploso in totale 44 proiettili e un fucile da caccia calibro 12 da cui erano stati esplosi cinque proiettili. I 44 proiettili esplosi dai tre mitra M12 si suddividevano tra un'arma che aveva sparato 28 colpi e le altre due che avevano sparato otto colpi ciascuno. Nel corpo di Piero Panciarelli infine venne riscontrato un proiettile calibro 38 special "utilizzabile da rivoltella a tamburo"; l'impiego anche di questa arma era peraltro stato segnalato nel rapporto dei carabinieri. Dopo le perizie balistiche e medico-legali, le conclusioni definitive della magistratura genovese giunsero il 29 febbraio 1984; dopo aver riepilogato la ricostruzione ufficiale dei carabinieri che non si discostava da quella presentata il 4 aprile 1980, il Procuratore della Repubblica descrisse le ferite riscontrate dai periti sui corpi dei quattro brigatisti, di cui si confermava l'ora del decesso intorno alle 04:00. Riccardo Dura era stato colpito al capo da un solo proiettile mortale che era penetrato dalla regione occipitale dal dietro in avanti; Piero Panciarelli aveva subito ferite mortali encefaliche e toracico-addominali causate da quattro colpi penetrati in direzione cranio-caudale. Annamaria Ludmann aveva ricevuto "gravissime lesioni cranio-encefaliche e toraco-addominali" a seguito di numerosi colpi di arma da fuoco, tra cui alcuni da proiettili multipli, sparati da distanza superiore a trenta centimetri, penetrati principalmente da dietro in avanti. Infine Lorenzo Betassa era stato raggiunto da numerosi proiettili singoli e multipli con lesioni mortali "cranio-encefaliche, polmonari, cardiache ed epatiche", con direzione da dietro in avanti, dall'alto in basso, da sinistra a destra. Dopo questa accurata descrizione, il magistrato trasse le sue conclusioni: partendo dall'assunto che i carabinieri "all'atto dell'irruzione nell'appartamento di via Fracchia 12/1 stavano agendo legittimamente nell'ambito dei poteri loro riconosciuti", si considerava che il comportamento di Lorenzo Betassa che "fraudolentemente", dopo aver dichiarato la volontà di arrendersi, aveva esploso un colpo di pistola ferendo gravemente il maresciallo Benà, aveva reso inevitabile, a causa dell'immediata necessità, l'uso delle armi da fuoco da parte dei carabinieri per superare la resistenza della parte avversa. La presenza di almeno tre carabinieri nello spazio angusto dell'ingresso, teoricamente esposti al fuoco dei terroristi dal corridoio, rese la situazione di grave e "incombente" pericolo per la vita degli uomini delle forze dell'ordine che quindi non poterono che contrapporre "una reazione adeguata e proporzionata all'offesa ricevuta". Il magistrato ritenne pienamente giustificato, dopo l'uccisione di Betassa, anche il successivo impiego delle armi da parte dei carabinieri che, di fronte alla presenza di altri brigatisti che avanzavano armati carponi lungo il corridoio nell'oscurità, tra cui la donna con una bomba a mano, ebbero la "fondata convinzione di trovarsi nuovamente in imminente pericolo di vita". Dopo aver ritenuto che la perizia avesse confermato sostanzialmente la relazione dei carabinieri, evidenziando le traiettorie dei colpi sui corpi prevalentemente da dietro in avanti e dimostrando che i quattro "terroristi furono colpiti a distanza, mentre due di essi procedevano carponi e con la testa abbassata", il magistrato concluse quindi, non essendo "emersi né ravvisabili estremi di reato", con la richiesta di archiviazione definitiva di tutto il procedimento.
La versione dei brigatisti. La sanguinosa irruzione di via Fracchia provocò grande emozione nelle file dei brigatisti e anche nell'ambiente dell'estremismo giovanile; si manifestarono reazioni di odio e propositi di vendetta. Fin dall'inizio, come risulta dal documento diffuso il 29 marzo, le Brigate Rosse non diedero alcun credito alla relazione dei carabinieri e ritennero che si fosse trattato di una vera rappresaglia militare orchestrata dalle forze dell'ordine per dimostrare la potenza dello stato e intimorire con un brutale atto di sangue militanti e simpatizzanti. In ricordo dei brigatisti rimasti uccisi nell'appartamento le Brigate Rosse denominarono poco dopo la loro colonna veneta "Annamaria Ludmann-Cecilia" mentre la colonna romana divenne la "28 marzo"; alcuni giovani estremisti costituirono anche autonomamente a Milano nel maggio 1980 una "Brigata XXVIII marzo" che si rese responsabile del tragico omicidio del giornalista Walter Tobagi. Nel documento del 29 marzo le Brigate Rosse accusavano i carabinieri di aver "trucidato" volontariamente i militanti dell'organizzazione, che a loro dire, di sarebbero arresi; tra i brigatisti apparve inizialmente inspiegabile come avessero fatto i carabinieri a entrare nell'appartamento cogliendo completamente di sorpresa i loro compagni che non avrebbero avuto modo di reagire. Fu dopo la diffusione delle notizie sulla collaborazione di Patrizio Peci con i carabinieri che i brigatisti ritennero di aver compreso la reale dinamica degli eventi. Mario Moretti ritenne che le forze dell'ordine disponessero delle chiavi dell'abitazione sottratte a Rocco Micaletto, che le avrebbe avute con sé al momento dell'arresto e che Peci avesse fornito precise indicazioni sul luogo e l'edificio; i carabinieri avrebbero quindi sorpreso i brigatisti aprendo con le chiavi l'abitazione e cogliendoli nel sonno. Nelle loro memorie Mario Moretti, Anna Laura Braghetti, Barbara Balzerani, Vincenzo Guagliardo e Prospero Gallinari sostengono tutti la versione dell'atto deliberato da parte dei carabinieri che sarebbero entrati agevolmente grazie alle chiavi e alle informazioni di Peci e avrebbero agito con la precisa volontà di uccidere i terroristi. Le disposizioni previste dall'organizzazione in caso di scoperta di una delle sue abitazioni, prevedevano che gli occupanti non opponessero resistenza di fronte a soverchianti forze dell'ordine e si arrendessero; i brigatisti ritengono probabile che i compagni sorpresi in via Fracchia avessero tentato di arrendersi ma fossero stati ugualmente uccisi dai carabinieri; secondo Moretti e altri il maresciallo Rinaldo Benà sarebbe rimasto ferito a causa di un proiettile esploso per errore nella concitazione del momento dagli stessi colleghi dell'Arma. Anche Patrizio Peci nelle sue memorie esprime sorpresa per il cruento esito dell'irruzione in via Fracchia ma egli imputa la responsabilità degli eventi in gran parte alla probabile decisione dei quattro brigatisti all'interno dell'abitazione di tentare di resistere. Egli ritiene che soprattutto i tre clandestini, aggressivi e determinati, forse pensarono di essere in grado di sfuggire ai carabinieri con le armi. Il brigatista collaborante, che era amico di Panciarelli e Betassa, esprime il proprio dispiacere per la morte dei quattro ma nega ogni responsabilità negli eventi ed esclude di aver fornito le chiavi dell'appartamento.
Le foto ventiquattro anni dopo. Nel 2004, a distanza di ventiquattro anni dai fatti, il quotidiano genovese Corriere Mercantile, è riuscito a venire in possesso delle foto scattate dai carabinieri subito dopo lo scontro a fuoco e le ha pubblicate, a cura del giornalista Andrea Ferro, dal 12 al 15 febbraio, insieme con una nuova analisi della vicenda. Queste foto pongono nuovi dubbi sullo svolgimento reali dei fatti. Le immagini mostrano i corpi dei quattro brigatisti lungo lo stretto corridoio sostanzialmente nelle posizione descritte nel processo verbale del magistrato genovese: Dura, Panciarelli e la Ludmann sono allineati uno dietro l'altro, scalzi, svestiti e in posizione supina. In fondo al corridoio giace invece prono Betassa, che è vestito ma con le scarpe slacciate e senza calze; è verosimile che anche lui stesse dormendo, forse nel sacco a pelo disteso nella sala da pranzo, e che abbia affrettatamente calzato le scarpe dopo aver sentito i primi rumori o le ingiunzioni dei carabinieri. Secondo alcuni autori, la posizione delle braccia dei primi tre terroristi solleva dubbi sulla ricostruzione ufficiale; Dura, Panciarelli e la Ludmann nelle foto hanno le braccia distese in avanti e nessuno impugna delle armi; se i brigatisti fossero avanzati carponi come riportato nel documenti dei carabinieri, questa posizione dei cadaveri sarebbe poco congruente; se Panciarelli e la Ludmann avessero impugnato rispettivamente una pistola e una bomba a mano queste armi verosimilmente sarebbero rimaste nelle loro mani o accanto ai cadaveri. Nella foto che ritrae la Ludmann si vede una bomba a mano a terra nel piccolo spazio compreso tra il volto e il braccio destro parzialmente addotto; la posizione è sembrata piuttosto singolare. Il fatto che i quattro brigatisti siano caduti in fila lungo il corridoio e che tre di loro fossero con le mani e le braccia parzialmente distese in avanti, ha fatto ritenere poco probabile che i terroristi volessero opporre resistenza e avessero la volontà di ingaggiare un conflitto a fuoco; allineandosi lungo lo stretto corridoio, invece di ripararsi nelle stanze laterali, si sarebbero fatalmente esposti ai colpi dei carabinieri. Alcuni autori ritengono possibile che i quattro intendessero arrendersi, sfilando uno dietro l'altro lungo il corridoio con le braccia alzate o forse dietro la nuca. Anche l'orario dell'irruzione è stato messo in dubbio; mentre la relazione dei carabinieri indica le ore 04:00, l'orologio portato al polso sinistro dalla Ludmann segna le ore 02:42. Infine è stato evidenziato come il primo cadavere della fila dei terroristi sia quello di Riccardo Dura, in teoria il dirigente più esperto e quello considerato più aggressivo; egli è a terra scalzo e senza alcuna pistola in mano o vicino al corpo, sicuramente non sparò. È possibile che egli sia stato il primo ad alzarsi e a avanzare lungo il corridoio verso l'ingresso dove egli sarebbe stato raggiunto da colpi sparati a distanza ravvicinata attraverso la porta di separazione. Dopo la diffusione delle foto, il brigatista dissociato e collaborante Adriano Duglio, componente della colonna genovese, ha ritenuto che questa documentazione fotografica confermi i dubbi sulla vicenda. Egli ha ripreso la versione brigatista che i carabinieri disponessero delle chiavi dell'appartamento e che i brigatisti fossero in procinto di arrendersi come sarebbe dimostrato dalla posizione delle braccia dei corpi di tre terroristi. Il giornalista Giuliano Zincone, intervistato nel 2004 dal Corriere Mercantile, ha affermato che già all'epoca dei fatti aveva manifestato, insieme con altri giornalisti entrati nell'appartamento, perplessità sulla dinamica degli eventi e aveva ritenuto probabile che i carabinieri avessero voluto imporre una prova di forza militare escludendo tecniche operative idonee a permettere una cattura incruenta dei brigatisti.
Conseguenze e conclusione. Crollo della colonna genovese. La sanguinosa irruzione in via Fracchia ebbe importanti conseguenze: insieme con le contemporanee operazioni dei carabinieri del generale dalla Chiesa in Piemonte, a seguito delle rivelazioni di Peci, provocò un indebolimento sostanziale della struttura delle Brigate Rosse in Italia settentrionale e dal punto di vista psicologico sembrò dimostrare in modo inequivocabile che le strutture dello stato erano decise a impiegare mezzi militari per interrompere la continua crescita dell'attività terroristica di estrema sinistra. Secondo l'avvocato Giannino Guiso l'azione dei carabinieri era soprattutto un impressionante monito rivolto ai più irriducibili brigatisti e anche una rappresaglia contro la colonna genovese responsabile di molti fatti di sangue. L'irruzione di via Fracchia diffuse lo sconcerto e la paura tra le colonne brigatiste, favorendo la perdita della coesione tra i militanti e anche fenomeni sempre più ampi di collaborazione; il generale dalla Chiesa aveva parlato in precedenza di à la guerre comme à la guerre, e i fatti del 28 marzo sembrarono la concretizzazione reale di questo avvertimento del comandante della divisione carabinieri "Pastrengo". In realtà paradossalmente nella fase iniziale dopo l'irruzione molti giovani dell'estrema sinistra decisero di passare alla lotta armata nella colonna genovese spinti dal desiderio di vendicare i militanti uccisi, ma questi nuovi elementi mancavano di disciplina e preparazione e inoltre ormai l'organizzazione della colonna era in disfacimento. Dopo la morte di Riccardo Dura, Francesco Lo Bianco cercò di organizzare i superstiti ma nuove operazioni dei carabinieri e il moltiplicarsi del fenomeno della collaborazione e della delazione provocarono il crollo definitivo; entro la fine del 1980 in pratica la colonna genovese si dissolse. La maggior parte dei militanti vennero arrestati e le strutture logistiche individuate e smantellate; alcuni dei più aggressivi brigatisti, come Livio Baistrocchi e Lorenzo Carpi, invece espatriarono all'estero e fecero perdere le loro tracce. I carabinieri individuarono anche persone insospettabili come l'anziana Caterina Picasso e l'avvocato Edoardo Arnaldi che in realtà era solo un simpatizzante in contatto con alcuni capi della colonna ed era stato avvocato difensore dei brigatisti; egli tuttavia, coinvolto dalle rivelazioni di Peci e in precarie condizioni di salute, si suicidò, mentre stava per essere arrestato, per timore della detenzione in carcere.
Conclusioni. Giorgio Bocca fu tra coloro che espressero fin dall'inizio la convinzione che gli eventi di via Fracchia derivassero anche dalla volontà dei carabinieri di infliggere una clamorosa sconfitta militare alle Brigate Rosse; egli alcuni mesi dopo ebbe un colloquio direttamente con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che, pur negando che i terroristi fossero stati uccisi deliberatamente senza dargli possibilità di arrendersi, si dimostrò freddo e molto duro, evidenziando come i brigatisti avessero agito per primi ferendo gravemente il maresciallo Benà. Dal colloquio e dal tono risentito della replica del generale, Bocca ritenne che in ogni caso gli avvenimenti in via Fracchia non si fossero svolti esattamente secondo la ricostruzione ufficiale dell'Arma. Permangono peraltro ancora dubbi sulle reali finalità dei carabinieri nell'azione di via Fracchia; accanto all'interpretazione che considera l'irruzione e la sua metodica connessa alla volontà di dimostrare la potenza dell'Arma, di rinsaldare il suo prestigio presso il mondo politico per favorire anche l'adozione di una "legge sui pentiti" già preparata dal Presidente del Consiglio Francesco Cossiga e di vendicare i colleghi uccisi dalla colonna genovese nei mesi precedenti, si è ventilata anche un'altra ipotesi. L'eventualità che il generale dalla Chiesa fosse convinto di trovare nell'appartamento, sede di una recente "Direzione Strategica", documenti di grande importanza sul caso Moro, forse l'originale del cosiddetto "Memoriale" o le bobine degli interrogatori, da mantenere strettamente riservati. Da questo fatto deriverebbe in parte lo stretto riserbo iniziale e il rifiuto per molti giorni di permettere l'accesso di magistrati e giornalisti. Di questi documenti tuttavia non c'è alcuna traccia nel materiale sequestrato. Lo storico Marco Clementi ha presentato nel 2007 una sintesi equilibrata che tiene conto di tutta la documentazione disponibile. Egli considera come in linea generale fosse vero che le disposizioni delle Brigate Rosse prevedessero di non opporre resistenza e di arrendersi nel caso si fosse stati sorpresi all'interno di appartamenti, ma rileva che in precedenti occasioni si erano ugualmente scatenati conflitti a fuoco, anche con morti e feriti dalle due parti, nel corso di irruzioni delle forze dell'ordine, a causa del tentativi dei militanti di evitare l'arresto. Egli segnala inoltre come tutti i brigatisti risultarono colpiti, secondo la perizia medico-legale, dal dietro in avanti e dall'alto in basso, il che sarebbe stato possibile solo se effettivamente essi si fossero mossi carponi lungo il corridoio. L'unico brigatista che avrebbe sparato fu Lorenzo Betassa che esplose un solo colpo dalla fine del corridoio prima dell'inceppamento della sua pistola. Questo proiettile avrebbe raggiunto all'occhio il maresciallo Benà; Clementi ritiene questa azione del brigatista illogica ma in linea teorica, considerando l'ora, le circostanze e l'estrema tensione, possibile. Le ricostruzioni dei carabinieri riferiscono in modo sostanzialmente concorde di una reazione generale con tutte le armi a disposizione dei quattro o cinque uomini presenti all'ingresso in risposta all'azione ostile di Lorenzo Betassa. L'autore ritiene in conclusione che è verosimile che non sia trattato di una premeditata eliminazione fisica dei quattro terroristi per rappresaglia, ma che la metodica scelta per l'irruzione e la violenta e generale reazione dei carabinieri, farebbero ritenere che le disposizioni operative delle autorità superiori prevedessero la possibilità di un conflitto a fuoco e non si curassero molto di catturare vivi gli occupanti dell'appartamento in via Fracchia 12, interno 1.
L'inchiesta del 2017. Nel 2017 la procura di Genova, a seguito dell'esposto presentato dal ricercatore universitario Luigi Grasso (nel 1979 accusato di terrorismo e successivamente prosciolto con formula piena), ha aperto un fascicolo di inchiesta con l'ipotesi di omicidio in riferimento ai fatti relativi alla morte del brigatista Riccardo Dura.
Br “imprendibili”, il commento di Giuliano Galletta dell'8 dicembre 2013 su "Il Secolo XIX". Il 24 gennaio del 1979, otto mesi dopo l’omicidio di Aldo Moro, la colonna genovese delle Brigate Rosse uccide il sindacalista Guido Rossa. All’attentato partecipano Riccardo Dura, Lorenzo Carpi, Vincenzo Guagliardo. Dura, 29 anni, è il capo del gruppo e ha già partecipato agli omicidi del magistrato Francesco Coco e del commissario Antonio Esposito, morirà un anno dopo, il 28 marzo 1980, sotto il fuoco dei mitra dei carabinieri del generale Dalla Chiesa nel blitz in un appartamento di via Fracchia a pochi metri di distanza dal luogo in cui è stato assassinato Rossa. Con Dura perdono la vita altri tre terroristi: Annamaria Ludmann, 32 anni, Lorenzo Betassa, 27 anni, e Piero Panciarelli, 25 anni. Intorno a queste due date, per molte ragioni fatidiche, si costruisce il racconto degli anni del terrorismo a Genova che Andrea Casazza, giornalista del Secolo XIX, ha disegnato nel suo libro “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate Rosse” (DeriveApprodi, 25 euro), da mercoledì in libreria. Quattrocentonovanta pagine in cui con una acribia al limite dell’iperrealismo Casazza ricostruisce quegli anni scegliendo un punto di vista preciso e (relativamente) limitato, quello degli atti giudiziari: verbali di interrogatori, perquisizioni, arresti, rinvii a giudizio, sentenze, atti parlamentari messi a confronto con le cronache giornalistiche dell’epoca e con importanti inserti biografici dei protagonisti della lotta armata. Nel libro il linguaggio burocratico di poliziotti e magistrati, lo stile ripetitivo e spesso agghiacciante dei comunicati Br, le metafore melodrammatiche dei cronisti di nera, i mea culpa e le autocritiche, a volte sinceri, dei brigatisti dal carcere, ci restituiscono un microcosmo, in fondo composto da non più di un centinaio di persone, che agisce in uno scenario che probabilmente, oggi, agli occhi di un ventenne, appare di un altro pianeta. Su quel tragico palcoscenico recitano la loro parte i terroristi, vertici e manovalanza, i cattivi maestri, i fiancheggiatori, i simpatizzanti, i militanti dell’estrema sinistra estranei alla lotta armata ma stritolati nel meccanismo delle leggi speciali, i pentiti, i dissociati, i pentiti di essersi pentiti, le spie, gli infiltrati, gli agenti provocatori. Di ciascuno Casazza racconta, a oltre trent’anni distanza, la storia, grande o piccola, miserabile o dignitosa. Il libro copre un arco temporale di circa un ventennio, dal caso della banda XXII Ottobre (1969) alla conclusione dei processi alla colonna genovese negli anni Ottanta, passando attraverso i rapimenti Sossi e Costa. Ma gli anni centrali sono quattro, dal 1977, quando la colonna genovese si costituisce, al 1980, quando inizia a essere smantellata grazie alle dichiarazioni dei pentiti. Sul filone principale della storia della colonna genovese si innesta un’altra vicenda, contigua e parallela, che coinvolge un gruppo di militanti dell’area dell’Autonomia genovese (fra cui Giorgio Moroni, Luigi Grasso. Mauro Guatelli e Massimo Selis) arrestati nel blitz del 17 maggio 1979, con l’accusa di essere la struttura portante delle Br a Genova, assolti, in primo grado, con la sentenza che Dalla Chiesa stigmatizzerà con il celebre commento “l’ingiustizia che assolve”, condannati in Appello e infine totalmente scagionati, nel 1993, dopo che fu dimostrato che le prove a loro carico erano state costruite ad arte per “incastrarli”. Lo Stato li risarcirà, per ingiusta detenzione, con un miliardo di lire. «La principale critica che mi attendo è che nel libro si parla molto dei “carnefici” e poco delle vittime - spiega Casazza - il che è, in buona sostanza, vero. Credo però che la storia di quel periodo sia già stata da più parti raccontata, come dire, dalla prospettiva delle vittime. Il tentativo del mio libro, è diverso: è quello di raccontare l’epoca del terrorismo non come una “semplice” deriva criminale ma come un periodo che ha avuto per protagonisti uomini e donne mossi da ragioni politiche su una strada che si sarebbe ben presto macchiata di troppo, inutile e ingiustificabile sangue».
Per chi ha vissuto quegli anni la lettura del libro riporterà alla luce gli stessi schieramenti e contraddizioni dell’epoca, per gli altri c’è il rischio che l’enorme mole di dettagli, a volte microscopici, facciano smarrire la visione d’insieme. Casazza non ha la pretesa di sostituirsi agli storici ma mette sotto i nostri occhi, da buon giornalista, una lunga teoria di fatti. E non è poco.
Br e via Fracchia: Gad Lerner tra i possibili testimoni, scrive il 28 Agosto 2017 Levante News. Il 28 marzo 1980 irruzione delle forze dell’ordine nel covo dei brigatisti di via Fracchia a Genova: restarono uccisi quattro terroristi tra cui Riccardo Dura; il maresciallo dei carabinieri Rinaldo Benà, sorpreso dal fuoco dei brigatisti, perse un occhio. Fu un durissimo colpo inferto ai Br che secondo una teoria non confermata erano nate a Chiavari ed avevano due covi a Recco e nelle cui fila era Baistrocchi, un camogliese tuttora latitante che sembra si sia rifatto una vita a Cuba. Sulla morte dei quattro ci fu un’inchiesta, chiusa il 29 febbraio del 1984, senza che i giudici rilevassero irregolarità nel blitz. Solo nel febbraio del 2004 dagli archivi della polizia giudiziaria saltano fuori le immagini dell’irruzione che pubblica il Corriere Mercantile. Oggi un esposto ha riaperto l’inchiesta perché Riccardo Dura, ex “garaventino” tormentato da una situazione familiare difficile, fu ucciso con un colpo alla nuca. Ne parla oggi sul Secolo XIX, il giudice Luigi Carli (che a Chiavari indagò l’ex sindaco Vittorio Agostino) che si occupò dell’inchiesta seguita al blitz di via Fracchia. Testimone della nuova inchiesta potrebbe essere il giornalista Gad Lerner, all’epoca cronista politico de “Il Lavoro” (diretto da Giuliano Zincone) che si recò in via Fracchia riportandone un’idea ben precisa.
Blitz di via Fracchia, inchiesta per omicidio. Esposto ai pm per riaprire il caso, scrivono Alessandra Costante e Tommaso Fregatti su "Il Secolo XIX" il 27 agosto 2017. Via Fracchia, 28 marzo 1980: grazie alle prime “confidenze” del brigatista Patrizio Peci, i carabinieri del nucleo antiterrorismo fanno irruzione in un appartamento al civico 12. A terra restano quattro terroristi della Brigate Rosse. Sono: i torinesi Lorenzo Betassa e Pietro Panciarelli; e i genovesi Annamaria Ludmann, che è anche la padrona di casa, e Riccardo Dura. A 37 anni di distanza da quel blitz, la Procura della Repubblica di Genova ha aperto un fascicolo per omicidio “in danno di Dura Riccardo”. Inchiesta affidata ai magistrati genovesi dell’antiterrorismo ai quali, nei giorni scorsi, è stato trasmesso un esposto contro ignoti. “Quello di Dura è stato un omicidio volontario (...) venne ucciso con un solo colpo alla nuca” si legge nella denuncia presentata da Luigi Grasso, ricercatore che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto. Un “cold case” per il quale la Procura di Genova si muove con circospezione. Per il momento l’apertura del fascicolo è un atto dovuto in seguito ad un esposto: nei prossimi giorni i magistrati valuteranno come e se procedere.
Nei primi anni del Duemila dagli archivi giudiziari di Genova, Luigi Grasso riesce ad ottenere il fascicolo di via Fracchia. Insieme ad altri tre genovesi nel 1979, Grasso era stato accusato di terrorismo, arrestato, inquisito, mandato a processo e infine assolto e pure indennizzato per il lungo calvario giudiziario. Ma come “imputato in un procedimento collegato” alla fine riesce a mettere le mani sulle carte. C’è tutto. Ci sono i referti delle autopsie giudiziarie eseguite dai professori Renzo Celesti e Aldo Franchini. C’è la ricostruzione dei fatti spiegata da Michele Riccio, il capitano che guidò l’assalto e che era uomo di fiducia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al quale era stato affidato il compito di condurre la battaglia contro le Br e che stava raccogliendo le dichiarazioni del terrorista Patrizio Peci. E c’è la richiesta di archiviazione che il 29 febbraio 1984 venne firmata dal sostituto procuratore della Repubblica Luigi Carli e che convalida le indagini del giudice istruttore. Per la Procura dunque, come aveva testimoniato Riccio, è un blitz finito male: i carabinieri intimano la resa, i brigatisti fingono di arrendersi e invece sparano. Il maresciallo Rinaldo Benà resta ferito ad un occhio e nell’appartamento si scatena un inferno di fuoco.
Ma è sui referti delle autopsie che Grasso si ferma: Ludmann, Betassa e Panciarelli furono falciati da numerosi colpi di arma da fuoco. Riccardo Dura, allora trentenne, no: lo uccide un solo proiettile alla testa, «penetrato in regione occipitale sinistra». Quanto alla distanza da cui viene esploso il proiettile, Franchini e Celesti parlano di «una distanza superiore ai 30 centimetri».
Il resoconto dei carabinieri confermato dall’inchiesta della magistratura, in verità non fu mai accettato dai reduci della lotta armata. Troppi fatti contribuirono ad alimentare in quei mesi e negli anni successivi interpretazioni differenti. Subito dopo il blitz, i carabinieri strinsero un cordone di sicurezza intorno all’appartamento di via Fracchia: per giorni nessuno potè entrare nell’alloggio in cui vennero trovate armi e documenti delle Br (volantini e risoluzioni, in tutto oltre 700 reperti) e per giorni l’identità di Riccardo Dura restò ignota anche ai militari finché non furono le stesse Br a renderne noto il nome. Il 29 marzo un documento delle Br accusava i carabinieri di aver «trucidato» volontariamente i militanti dell’organizzazione. Per Mario Moretti, addirittura, i militari avevano a disposizione le chiavi dell’alloggio trovate in tasca a Peci.
Un’inchiesta risveglia i “fantasmi” di Via Fracchia, crocevia della nostra democrazia, scrive Fabrizio Cerignale il 27 agosto 2017 su "Genova 24". “Che era stata una specie di esecuzione lo dicevano tutti nei giorni dopo il massacro”. Chi in Via Fracchia vive da sempre ricorda così quel blitz dei carabinieri, 37 anni fa, che portò alla morte di quattro brigatisti rossi e alla prima vera dimostrazione di forza dello stato nei confronti della lotta armata. D’altra parte come dimenticare un quartiere messo sotto assedio per buona parte della notte, un strada praticamente militarizzata, gli accessi al palazzo bloccati per diversi giorni. E così nessuno dei residenti si stupisce se oggi, anche se a 37 anni di distanza dal blitz nel covo Br, la procura della repubblica di Genova, in seguito alla presentazione di un esposto denuncia di un cittadino, Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 venne accusato di terrorismo e negli anni successivi completamente prosciolto, ha aperto un fascicolo per omicidio “in danno di Riccardo Dura”, uno dei terroristi uccisi. Secondo l’esposto, frutto di una minuziosa ricerca tra gli atti giudiziari, quello di Dura, che viveva nell’appartamento in clandestinità con il nome di battaglia di Roberto, sarebbe stato un omicidio volontario: “Venne ucciso – si legge nell’esposto – con un solo colpo alla nuca”. La riapertura dell’inchiesta, però potrebbe finalmente ricostruire una pagina importante della nostra storia facendo luce, sulla colonna genovese delle Brigate Rosse, considerata una delle più importanti. L’eventuale inchiesta, che sarà affidata dai magistrati ai poliziotti dell’antiterrorismo, potrebbe quindi chiarire i tanti interrogativi, e i tanti silenzi, attorno a questa vicenda. Dalla vera ricostruzione di quanto accaduto durante il blitz, guidato dal Maresciallo Riccio, fino agli eventuali ritrovamenti di materiale nel covo, sui quali si è ciclicamente fantasticato ma non si è mai avuto una parola definitiva. Un’inchiesta che, forse, permetterà anche di far tacere i “fantasmi” di via Fracchia, una strada semplice, in un quartiere della Genova operaia diventata crocevia dei destini della nostra democrazia. Proprio a “cento passi” dal covo, in un parcheggio poco lontano dai giardini dove e’ stata collocata la stele in memoria, c’era l’auto dove e’ stato trovato il corpo di Guido Rossa. E sarebbe stato proprio Riccardo Dura, il terrorista per il quale si riapre l’inchiesta, a schiacciare il grilletto e a sferrare il colpo fatale che uccise il sindacalista.
A Via Fracchia ci fu uno scontro a fuoco come dichiarato ufficialmente dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa o venne eseguita la condanna a morte di quattro brigatisti? Scrive Valerio Lucarelli autore di "Buio Rivoluzione".
Diario di viaggio. Il Disertore. E dica pure ai suoi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, io armi non ne ho. Boris Vian›› [Ascoltala da Ivano Fossati]
28 marzo 1980. Ore 2.42. All’interno 1 del civico 12 di via Fracchia Riccardo Dura, Annamaria Ludman, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli stanno dormendo. La colonna genovese delle BR sta per essere annientata. Da giorni i carabinieri sono sulle loro tracce grazie alle rivelazioni del pentito Patrizio Peci. Dalla Chiesa non vuole più attendere e ordina il blitz. Una trentina tra uomini del reparto antiterrorismo, carabinieri e personale del Nucleo operativo irrompe nell'appartamento. Giù la porta, i primi spari. Il maresciallo Rinaldo Benà viene ferito alla testa, colpito forse da fuoco amico. Ai brigatisti, sorpresi nel sonno, non viene dato il tempo per pensare. Molta parte dell'opinione pubblica ebbe l'impressione si fosse trattata di una esecuzione. Giuliano Zincone, editoralista del “Corriere della sera”, direttore nel 1980 del quotidiano genovese “Il Lavoro”: "Quel giorno il giornale titolò: “Non è una vittoria”. Sostenevo la teoria che lo Stato non doveva rispondere sullo stesso piano dei terroristi. Giorgio Bocca: "Intervistai il generale Dalla Chiesa alcuni mesi dopo il blitz. Gli chiesi se ai quattro brigatisti fu data la possibilità di arrendersi o furono uccisi subito. Non mi disse chiaramente che li avevano ammazzati ma il tono usato per parlare rivelava intransigenza, durezza. Per me, al di la delle parole, non andò come era stato raccontato nella versione ufficiale". Nei mesi precedenti a Genova le BR avevano ucciso quattro carabinieri. Forse Via Fracchia fu la risposta decisa dal Generale Dalla Chiesa. Lo Stato gridava: "Ora in guerra ci siamo anche noi".
Ringrazio il Corriere Mercantile per avermi concesso di pubblicare l'inchiesta di Andrea Ferro sui fatti di Via Fracchia. Documenti straordinari e interviste che lasciano al lettore il compito di formarsi una libera interpretazione dei fatti.
Giovedì 12 Febbraio 2004 Corriere Mercantile. LE PRIME PAGINE DEI QUOTIDIANI CON LA NOTIZIA DEL BLITZ. Sui giornali una città sotto shock.
Il mistero della bomba a mano, scrive Andrea Ferro. L’orologio fermo alle 2,42, l’ora del conflitto a fuoco «Quattro terroristi uccisi in un covo vicino alla casa di Rossa», strillava così la prima pagina del Corriere Mercantile nell’edizione del pomeriggio di venerdì 28 marzo 1980. Sotto due grandi foto: il palazzo dove c’era il covo dei terroristi e una bara con all’interno uno dei quattro terroristi uccisi. Nell’occhiello, in alto, le altre notizie principali della cronaca: Stanotte alle 4.30 i carabinieri hanno fatto irruzione in un appartamento di via Fracchia. Sotto, nel sommario: ferito gravemente nel conflitto a fuoco un maresciallo. Gigantesca perquisizione casa per casa al Carmine, centro storico e Prà. Il resoconto del blitz era raccontato freddamente, come si fa sempre quando le notizie sono così importanti e chiare da non avere bisogno di aggettivi superflui: «Quattro terroristi sono rimasti uccisi in un appartamento covo situato in via Fracchia, nel quartiere di Oregina. E’ la stessa strada dove, all’alba del 19 gennaio dello scorso anno, venne assassinato il sindacalista Guido Rossa. Nel corso della sparatoria è rimasto ferito il maresciallo Rinaldo Benà». Nelle pagine successive altri titoli a tutta pagina: «Sembravano marziani, poi il crepitio dei mitra...». Poi un titolo sulla morte della donna brigatista: «Quella professoressa la vedevo spesso. Era una donna tranquilla...». «La gente sbigottita ricorda Anna Ludmann terrorista insospettabile». Spazio anche al ritratto del maresciallo ferito e a un particolare che tutti avevano subito notato: Dalla finestra di casa Rossa a guardare il blitz dei carabinieri è spuntata la moglie di Guido Rossa che poi, accortasi della presenza dei giornalisti, si è rifugiata nell’abitazione.
Annamaria Ludman aveva 32 anni. L’appartamento-covo di via Fracchia era intestato alla sua famiglia. Nella foto, agghiacciante, che pubblichiamo in questa pagina il corpo della donna è in posizione prona, nel corridoio. Tra il volto e l’avambraccio destro si nota una bomba a mano, una lente e la stanghetta degli occhiali. In corrispondenza della testa c’è una lunga striscia di sangue che corre parallela al muro e copre completamente il pavimento “alla genovese”. Da altre immagini si evince che le gambe erano distese nel ripostiglio e il cadavere era in posizione perpendicolare rispetto al corridoio. Ma c’è un altro elemento, molto importante, per la ricostruzione “storica” dei fatti. Al polso destro Annamaria Ludman portava un orologio con il cinghino d’acciaio. Da un semplice ingrandimento della foto si vede, chiaramente, che le lancette sono ferme alle due e quarantadue. E’ la prova inequivocabile che il blitz scattò in quegli istanti. Nella scarna ricostruzione ufficiale non fu mai specificata l’ora esatta dell’irruzione.
LA BORSA ARSENALE - Nell’altro foto che pubblichiamo in questa pagina è ritratta una borsa (presumibilmente di tela) con la cerniera completamente aperta. All’interno si nota la canna di un’arma lunga, presumibilmente un mitra. Sotto si intravedono altre armi e munizioni (ma lo si deduce più chiaramente dalla nota posta a margine della foto inserita nel dossier dei carabinieri). La borsa si trovava in fondo al corridoio all’altezza dell’ingresso del salotto. Così come è stata “repertata” dai carabinieri si evince che qualcuno dei quattro brigatisti l’avesse trascinata in fondo al corridoio e aperta con l’intento di impugnare le armi e fare fuoco contro il commando dei militari.
LA STORIA DELLA LUDMAN - Annamaria Ludman nasce a Chiavari il 9 settembre 1947, si trasferisce a Genova nel 1963 dove si iscrive alla Scuola Svizzera. Figlia di un capitano di lungo corso in pensione, si diploma alle “Magistrali” e poi si iscrive a vari corsi di lingue. Per un’estate lavora anche come interprete all’hotel “Regina Elena” di Santa Margherita. Nel 1970 si sposa nella chiesa di Oregina, ma il matrimonio dura pochi mesi. Dopo la separazione torna a vivere con i genitori. Nel frattempo lavora come segretaria in una ditta di spedizione di Carignano e nel ’71 passa all’Italimpianti dove resta impiegata meno di due anni. Poi, per un breve tempo, gestisce con la famiglia una tabaccheria in via Siffredi, a Cornigliano. Per alcuni mesi si trasferisce a Como, sempre come segretaria. Torna a Genova. E’ il 1978, trova un impiego al Centro culturale italo-francese Galliera, in via Garibaldi. Il padre, Corrado Ludman, muore.
IL RITORNO A CHIAVARI - Annamaria e la madre tornano a vivere a Chiavari. La giovane è costretta a fare la pendolare tra Genova e la Riviera di levante. Nel giugno del ’79 si licenzia dal Centro Galliera nonostante godesse di grande stima da parte dei colleghi e dei dirigenti. Motiva la sua decisione per ragioni economiche, stipendio troppo basso. Ma da quel momento si sa più poco di lei. Alle amiche che incontra parla genericamente di un lavoro in porto, come segretaria in una ditta di spedizioni. Poi la mattina del 28 marzo il suo nome è il primo a trapelare tra quelli degli occupanti del covo. Di lei parlano con affetto i vicini di casa che mai avrebbero immaginato la verità. Nel gergo dei brigatisti Annamaria Ludman era rimasta fino all’ultimo una militante “irregolare”, cioè non era entrata in clandestinità.
IL RICORDO DELL’AMICA - In una lettera pubblicata sul “Il Manifesto” alcuni giorni dopo il blitz Liliana Boccarossa aveva ricordato così l’amica Annamaria Ludman: «Certi ti vedranno come un mostro, altri ti hanno già messo sull’altare insanguinato dei “combattenti comunisti”. Io non so se hai ammazzato; so solo che ti hanno ammazzato e che questo poteva essere evitato. Ho pensato, ho sperato che tu non sapessi niente di quello che succedeva nella casa di Oregina. Mi si dice che è impossibile, che c’era un arsenale, che sei morta con una bomba in mano. Allora? Allora non capisco, come non capiscono quelli che ti hanno conosciuto... Io ti ricorderò sempre per quella che eri: una brava e simpatica donna incasinata, fregata dal perbenismo del tuo ambiente, in quella maledetta città, fregata dall’ultima moda in fatto di perbenismo totale e rassicurante: il terrorismo». ANDREA FERRO
Tessandori: «Fu la fine delle Brigate Rosse» Vincenzo Tessandori, inviato de “La Stampa”, ha seguito sin dagli albori degli anni di piombo la storia delle Brigate rosse. E’ l’autore di “Br, Imputazione: banda armata”, una ricostruzione certosina degli anni di piombo firmati dalla stella a cinque punte. Cosa accadde in via Fracchia quel 28 marzo di ventiquattro anni fa? «Dobbiamo, forzatamente, accettare la ricostruzione ufficiale. D’altronde non ci sono testimoni o elementi sui quali riscrivere i fatti». Ma non hai avuto dubbi? «Qualche perplessità è inevitabile, è il nostro mestiere sospettare. Certamente quattro morti ammazzati pesano e inducono interpretazioni di vario tipo». Per esempio? «L’interrogativo di fondo è questo: che obiettivo avevano i carabinieri? Mi spiego: Dovevano prenderli vivi o morti? E secondo lei? «Impossibile stabilirlo, tantopiù adesso. E’ indubbio che quella fu un’operazione ad altissimo rischio. Dentro c’erano uomini armati. Gente che aveva sparato, ammazzato. Pensare ad una loro reazione non è certo pura fantasia». E infatti all’interno del covo i carabinieri sequestrarono parte del micidiale arsenale della colonna genovese delle Brigate rosse. Resta il fatto che quel blitz segnò la sconfitta militare, decisiva, del “partito armato” «Da anni le Brigate rosse avevano dichiarato guerra allo Stato. E fino al sequestro Moro lo Stato aveva risposto in maniera blanda. Se l’affaire-Moro fu una vittoria politica delle Br, contemporaneamente scatenò una vera controffensiva. Efficace sul piano investigativo e repressivo «I fatti di via Fracchia presentarono uno scenario nuovo. Lo Stato adesso può uccidere per difendersi, conduce sul serio una guerra. Cioè brigatisti, potete morire». E infatti da quel momento le Brigate rosse colarono a picco «Finché il terrorismo era “vincente” erano più facile attirare nuove leve verso la lotta armata. Quando invece si inizia a perdere, i più scappano. E per le Brigate rosse dopo via Fracchia andò così. Sul piano del reclutamento le conseguenze di quel blitz furono più forti della notizia della cattura e della successiva “collaborazione” di alcuni capi brigatisti». Tornando alla ricostruzione dei fatti e ai dubbi che accompagnarono la versione ufficiale. Prima di quell’irruzione e poi dopo altre operazioni di polizia furono portate a termine con un minore spargimento di sangue. Invece in via Fracchia... «Mi viene in mente un’operazione, diciamo così analoga, finita però in maniera diversa. Penso al sequestro Dozier, un anno dopo. Quando la polizia fece irruzione nel covo-prigione di Padova non fu sparato nemmeno un colpo» Ma neppure da parte dei brigatisti... «Talvolta è una questione di addestramento. Esistono tradizioni operative e armi diverse. Ma poi c’è il caso. Qualcuno ha scritto “in amore e in guerra non esistono regole”. Penso che avesse ragione». [Andrea Ferro]
Carabinieri e cronisti nei pressi del portone del caseggiato di via Fracchia Zincone: «Pensammo subito a un’esecuzione» Giuliano Zincone, editoralista del “Corriere della sera”, nell’80 era direttore de “Il Lavoro”, voce della sinistra genovese e quotidiano molto attento ai fenomeni dell’eversione. Cosa ricorda di quella mattina di ventiquattro anni fa? «Ricordo che un confidente mi informò di quello che era successo in via Fracchia. Invia sul posto due cronisti di razza, Gad Lerner e Manlio Fantini. Quando tornò in redazione Gad era sconvolto». Quale fu la prima impressione? «Ci convincemmo subito che era stata un’esecuzione. In redazione era l’interpretazione prevalente». Ma su quali elementi ne foste così certi? «Quattro morti, tutti brigatisti, ci sembrarono subito troppi. Non era possibile pensare al conflitto a fuoco come invece sostenevano i carabinieri». E infatti il suo fondo quel giorno suscitò grande scalpore. «Titolammo: “Non è una vittoria”. Sostenevo la teoria che lo Stato non doveva rispondere sullo stesso piano dei terroristi. Una posizione che suscitò critiche pesanti all’interno di una certa sinistra, tra i nostri lettori. Non mancarono le polemiche». Però all’interno del covo fu sequestrato un autentico arsenale, alcuni dei brigatisti uccisi vennero indicati come i responsabili di numerosi fatti di sangue. «D’accordo ma nostra convinzione era che i carabinieri avrebbero potuto agire in maniera diversa. Scoprimmo infatti che la zona attorno al covo era presidiata da giorni da un esercito di carabinieri. Ritenevamo che potevano esserci altri modi, meno cruenti, per portare a termine quel blitz. Non potevano credere che una forza armata moderna, come l’arma dei carabinieri, non avesse la capacità e i mezzi per intervenire in un altro modo». In sostanza per i carabinieri era meglio ucciderli che prenderli vivi? «Il sospetto che le cose fossero andate in maniera diversa rispetto alla versione ufficiale derivava dal fatto che a Genova nei mesi precedenti i brigatisti avevano ucciso quattro carabinieri». Una vendetta rabbiosa? «Non potevano non pensarla così. Quando Gad Lerner ebbe la possibilità di entrare in quella ci raccontò di aver visto fori di proiettile ovunque. Una carneficina, insomma. In seguito alla posizione assunta dal nostro giornale Dalla Chiesa si rifiutò di incontrarmi per tanto tempo, continuò a negarmi interviste». Ma la lotta alle Brigate Rosse non fu contrassegnata solo da blitz sanguinosi. «Certamente. Al di là di quello che accadde in via Fracchia l’operato di Dalla Chiesa e dei suoi uomini fu frutto di un grande lavoro di intelligence. Penso all’opera diplomatica per convincere i pentiti a collaborare. Dimostrarono un’indubbia capacità investigativa».
Quella telefonata nel cuore della notte, scrive Mimmo Angeli. La telefonata arrivò nel cuore della notte. L’apparecchio di casa squillò alle tre. Una voce chiara dall’altra parte del filo disse: «Direttore, c’è stata una strage di brigatisti in via Fracchia». Poi il clic metallico interruppe il contatto. Era l’alba del 28 marzo 1980. Rimasi di sasso. Per un attimo pensai a uno scherzo di cattivo gusto. Qualche minuto dopo telefonai ai colleghi Attilio Lugli, Alfredo Passadore e al fotografo Luciano Zeggio, trasmettendogli testualmente il contenuto del messaggio telefonico. Tutti eravamo scettici ma, nel dubbio, diedi disposizione di andare a vedere. Erano i tempi delle Br scatenate in città, con i loro messaggi e gli attentati sanguinosi. I giorni della paura, in cui vivevo con la scorta e l’incubo delle minacce telefoniche, scritte, sussurrate da chi aveva intercettato misteriosi dialoghi al bar. I giorni in cui uscivi di casa e non eri sicuro di tornare vivo in famiglia. Quella telefonata con l’interlocutore preciso, calmo, telegrafico poteva essere una bufala come una tremenda verità. Quando i colleghi arrivarono per primi si trovarono di fronte a una scena impressionante. Dappertutto carabinieri in borghese e in divisa. I colleghi non ebbero nemmeno il tempo di dire «Siamo giornalisti» che si trovarono faccia al muro con i mitra spianati. «Fermi, non muovetevi» ripeteva un tipo alto, con i capelli biondi che gli arrivavano alla schiena, l’abbigliamento da tupamaro, gli occhi gelidi. Era uno degli uomini del generale Dalla Chiesa protagonisti della tragica irruzione nell’appartamento di via Fracchia. Un cordone ferreo attorno al palazzo. L’ordine perentorio: «Nessuno può entrare» veniva ripetuto seccamente con monotonia quasi ossessiva dai carabinieri in borghese. Neppure il vicequestore Arrigo Molinari riuscì a entrare; anzi, con decisione, venne invitato ad allontanarsi. Quel “muro” davanti alla casa della strage venne incrinato dieci giorni dopo quando, per soli tre minuti, i giornalisti furono ammessi a entrare nell’appartamento dove erano stati uccisi i quattro brigatisti. Un sopralluogo preparato per evitare l’impatto con la cruda realtà di quella notte. A distanza di ventiquattro anni, quello che accadde durante l’irruzione degli uomini del reparto speciale è testimoniato dalle foto inedite che il nostro giornale pubblica oggi. Questo documento è l’epilogo di uno scontro tra i brigatisti e lo Stato. La parola finale dopo lunghe indagini fatte anche di clamorosi insuccessi. Quella notte, ci sembra ovvio, gli uomini di Dalla Chiesa andarono a colpo sicuro. Quando fecero irruzione nell’appartamento, erano preparati alla reazione di brigatisti armati fino ai denti e decisi a vendere cara la pelle. Il maresciallo Bennà, componente il commando, perse un occhio colpito da da una pallottola. Non si è mai riusciti a capire se fosse partita dalla pistola di un brigatista o invece rimbalzata dal mitra di un carabiniere. Un fatto è certo: i quattro terroristi erano armati fino ai denti e uno aveva persino una bomba a mano che, evidentemente, non ha avuto il tempo di usare. Queste foto servono a non dimenticare quei giorni pieni di rabbia e sangue. Sì, perché nel nostro Paese sono in molti ad avere la memoria corta. Quegli anni di piombo hanno lasciato una lunga scia di sangue. La nostra città ha pagato un forte tributo di vite umane, di attentati, persino il rapimento di un magistrato. Di Riccardo Dura, per esempio, si disse che aveva la sua lunga lista di “condannati”, che era deciso a continuare a colpire, uno dopo l’altro. L’irruzione dei carabinieri venne preparata con molta cura e fu il frutto di lunghe indagini, appostamenti e di qualche “dritta” ricevuta. Quella nonnina, intestataria dell’appartamento, in realtà risultò poi una basista lucida e spietata. Quel covo nascosto tra un pugno di case popolari sulle alture della città, a due passi dall’abitazione del sindacalista Cgil Guido Rossa, ucciso dai terroristi, nascondeva il gruppo di fuoco delle Br genovesi. La strage rimane un fatto drammatico: una risposta a un atto di guerra, come avevano rivendicato i brigatisti nei loro proclami. In queste drammatiche immagini, la fine di quella guerra. Forse. Mimmo Angeli
Le foto di un blitz storico che vennero tenute nascoste, scrive Andrea Ferro. La pubblicazione delle foto scattate dopo il blitz di via Fracchia rappresenta un documento storico. Ventiquattro anni dopo, per la prima volta, vengono mostrate le immagini del più discusso blitz compiuto dai carabinieri contro le Brigate rosse. La morte dei quattro terroristi, i lunghi silenzi prima della ricostruzione ufficiale indussero sospetti ed interpretazioni diverse. Non è nostra volontà proporre questo eccezionale documento con la presunzione di riscrivere un tragico capitolo di storia contemporanea, cercare elementi che possano avvalorare dubbi o confermare, pedissequamente, la verità di Stato. Siamo consapevoli che queste foto (alcune agghiaccianti e simboliche al tempo stesso) possano essere “lette” con occhi diversi schiacciando l’angolo di visuale su posizioni preconcette. Non ci interessa inseguire il sensazionalismo con l’ansia di trovare il particolare capace di infiammare lo scoop a tutti i costi. L’unico intento che ci spinge a riaprire questa pagina è raccontare con il supporto, inedito, delle immagini i fatti inserendoli nel contesto di vita e di morte entro i quali sono maturati. Succedeva ventiquattro anni fa, ma forse sembra passato già un secolo, in una città squassata dal piombo, dall’odio, dalla disperazione di decine di famiglie. In queste pagine speciali (la pubblicazione delle foto proseguirà nei prossimi giorni) ospitiamo ricordi, testimonianze, commenti, interpretazioni. [Andrea Ferro.]
COSÌ VENNE “ANNIENTATA” VENTIQUATTRO ANNI FA LA COLONNA GENOVESE DELLE BR. Una fila di cadaveri a terra. L’immagine choc che riassume l’orrore di un’epoca, scrive Andrea Ferro. Quattro cadaveri lungo un corridoio, quattro morti in fila indiana. Quattro vite spezzate, la colonna genovese delle Brigate “annientata”, polverizzata dal piombo dei carabinieri. E’ l’immagine-choc che riassume l’orrore di un’epoca e l’inizio della sua fine anche se altro sangue scorrerà ancora e la campana a morto rintoccherà tante, troppe, volte nel buio della notte della Repubblica. La fotografia che il “Corriere Mercantile” pubblica in esclusiva insieme ad altro materiale inedito, fu scattata all’alba del 28 gennaio del 1980 nell’appartamento di via Fracchia 12/1, a Oregina, poche ore dopo il blitz compiuto dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Era la base strategica della colonna genovese delle Br, qualcosa di più di un covo. La fotografia ritrae i corpi (nell’ordine) di Riccardo Dura, Piero Panciarelli, Annamaria Ludman e Lorenzo Betassa. L’istantanea fa parte di un dossier riservato custodito negli archivi dell’Arma dei carabinieri e della polizia. Il rapporto venne redatto dai carabinieri della Sezione rilievi del Nucleo operativo di Genova (in sostanza la squadra di polizia scientifica dell’Arma). E’ la ricostruzione “fotografica” dell’operazione, in tutto una sessantina di immagini, del “conflitto a fuoco” . Copia del dossier venne successivamente inviata all’autorità giudiziaria.
SOPRALLUOGO DEI PM - Il sopralluogo dei magistrati avvenne l’8 aprile, quindi undici giorni dopo il blitz. Nel frattempo l’appartamento fu “sigillato” dai carabinieri e presidiato in forze dai Reparti speciali. Solo dopo il sopralluogo di due sostituti procuratori i giornalisti, per tre minuti, furono accompagnati all’interno del covo “in visita guidata”, tre minuti in tutto. Il tragico epilogo del blitz (testimonianze e commenti sono riportati in altri articoli pubblicati su questa edizione del “Corriere Mercantile”), la “blindatura” dell’appartamento, i mezzi silenzi ufficiali, alimentarono il mistero e la sensazione di trovarsi di fronte ad una pagina tanto decisiva quanto ambigua della lotta al terrorismo. Ma ecco l’analisi delle prime due foto che compaiono a corredo di questo articolo (le altre saranno pubblicate domani e dopodomani).
IL CORRIDOIO - Tre dei quattro corpi sono in posizione prona (Dura, Panciarelli, Ludman). Il cadavere di Betassa (quello ritratto più lontano) è invece supino. Secondo la prima ricostruzione dei fatti trapelata sui quotidiani dei primi giorni successivi al blitz sarebbe stato quest’ultimo a sparare contro i carabinieri. Accanto al suo corpo fu “repertata” una pistola, una calibro nove dalla quale sarebbero partiti numerosi colpi. Un’altra pistola fu trovata sotto il cadavere di Panciarelli, mentre accanto al corpo della Ludman compare una bomba a mano (articolo a pagina 2).
LA PIANTINA DEL COVO - L’appartamento di via Fracchia 12/1 è situato al piano terra del caseggiato. E’ un alloggio composto da ingresso, tre camere, bagno, cucina e ripostiglio. Come documenta il dossier fotografico al momento dell’irruzione dei carabinieri, tre dei quattro brigatisti si trovavano all’interno della camera da letto. Dormivano su una rete matrimoniale e su una brandina-armadio. Il quarto occupante del covo (presumibilmente Betassa) riposava invece nel salotto (il vano più grande dell’appartamento) in un sacco a pelo disteso accanto al divano. Il sospetto che fosse Betassa deriva da una circostanza precisa. Come testimoniano le foto scattate dai carabinieri, era l’unico a indossare un maglione e un paio di pantaloni. Gli altri tre avevano slip e magliette. Panciarelli e Dura erano scalzi, la Ludman calzava un paio di pantofole. Betassa invece portava mocassini con i lacci (non stretti). L’impressione è che svegliato nel sonno dai rumori abbia fatto in tempo a calzare le scarpe a mo’ di ciabatte e poi raggiungere il corridoio. I corpi dei tre uomini sono in posizione parallela al lato lungo del corridoio mentre quello della Ludman è perpendicolare rispetto agli altri cadaveri con le gambe distese nel ripostiglio. I corpi dei quattro terroristi rimasti uccisi nel covo di via Fracchia. Andrea Ferro
NEL RAPPORTO UFFICIALE SI PARLA DI FRAGOROSI COLPI ALLA PORTA INTIMANDO LA RESA. Una doppia verità sull’irruzione in via Fracchia. I fori dei proiettili sul muro della scala dello stabile. Sabato 5 aprile 1980. Dalla sanguinosa irruzione nel covo delle Brigate Rosse di via Fracchia - nata dalle rivelazioni del pentito Patrizio Peci - è passata una settimana. Nel muro alzato dall’Arma su quanto accaduto alle 2 e 30 di venerdì 28 marzo ’80 si apre una breccia. La magistratura rende pubblico il comunicato ufficiale in cui i carabinieri ricostruiscono l’irruzione nel covo brigatista. Poche righe, la cui stesura ha richiesto diversi giorni. Una pagina per descrivere la prima vera risposta alla guerra civile intentata dai terroristi contro lo Stato. «Dalla ricostruzione riferita dai carabinieri sul conflitto a fuoco avvenuto venerdì scorso, 28 marzo - scrivono i vertici dell’Arma - nel corso del quale hanno perso la vita Anna Maria Ludman, Lorenzo Betassa, Pietro Panciarelli, Riccardo Dura ed ha riportato gravi lesioni il maresciallo Rinaldo Benà, è emerso che i medesimi portatisi all’esterno dell’appartamento interno 1 di via Fracchia n. 12, dopo ripetute intimazioni ad aprire rimaste senza esito, nonostante la dichiarata accettazione di resa, senza effetto, colpivano la porta di accesso, che cedeva spalancandosi». I militari, seguendo il protocollo, avrebbero bussato fragorosamente, intimato agli inquilini dell’appartamento di arrendersi. Quindi avrebbero fatto irruzione. Altra lettura dei fatti è stata data nel corso degli anni da vari esponenti di area politica della sinistra, secondo cui i militari fecero irruzione senza annunciarsi, entrando, sparando, uccidendo. Guerra, insomma. «(I militari) Potevano così intravvedere, al di là di una tenda, un corridoio buio, dal quale non proveniva alcun rumore - prosegue la nota dei carabinieri - Intimavano allora agli occupanti la resa ed una voce maschile rispondeva: “Va bene, siamo disarmati”». I militari avrebbero per una seconda volta chiesto ai brigatisti di arrendersi. Lorenzo Betassa avrebbe accettato la resa. Di fatto, sempre secondo i carabinieri, sarebbe stato armato di una calibro nove. Vediamo: «Subito dopo, però, dal fondo del corridoio veniva esploso un colpo di pistola che colpiva al capo il maresciallo Benà» si legge nel comunicato. Il passaggio è drammatico. Lo scontro a fuoco entra nel vivo. «I carabinieri aprivano il fuoco e udivano il tonfo di un corpo che cadeva a terra - scrive l’Arma - Intimata nuovamente la resa, essi potevano notare due uomini e una donna avanzare carponi nel corridoio provenendo da una stanza laterale». Si tratta di Ludman, Panciarelli e Dura (due di loro indicati come sicari delle BR, tra cui autori dell’uccisione dell’operaio Guido Rossa). Si spiegherebbe perché i cadaveri sono stati fotografati in fila nel corridoio. E’ a questo punto che un fascio di luce taglia il buio del covo. «A questo punto era possibile far luce con un faro in dotazione - prosegue la nota - Seguiva, immediatamente, da parte dei tre una brusca reazione, ed i carabinieri, hanno notato che uno dei due uomini impugnava una pistola e la donna una bomba a mano, riaprivano il fuoco con tutte le armi». I brigatisti sono stati freddati. «Cessato il fuoco si constatava che i tre erano stati colpiti a morte». Poi una fredda e stringata analisi del sito: «La pistola dalla quale è partito il colpo che ha colpito il maresciallo Benà è stata trovata con un proiettile in canna percosso, ma non esploso - chiudono i militari - Nell’appartamento, oltre a vario materiale documentale e a strumenti per la falsificazione di carte di identità e patenti, sono stati rinvenuti fucili mitragliatori, bombe da fucile e anticarro, pani di esplosivo plastico e numerose munizioni». L’analisi dell’artiglieria e delle armi leggere effettuata successivamente dimostrerà che furono usate in vari attentati genovesi, tra cui quello contro i carabinieri Tosa e Battaglinia Sampierdarena, Esposito e, come detto, Rossa. [r.c.]
Venerdì 13 Febbraio 2004 Esclusivo Corriere Mercantile. CON LE FOTO DEL CORRIERE MERCANTILE, AL CIVICO 12 SI RIVIVONO I GIORNI PRECEDENTI IL BLITZ E LA NOTTE DI TERRORE. Via Fracchia, ricordi indelebili: «Quella donna in giardino, l’uomo col piccone. Poi gli spari», scrive Simone Traverso. LA TELEFONATA DI ZORA LUDMAN A UN’INQUILINA DELLO STABILE: «E’ mia figlia, lo sapevo» «E’ la casa di mia figlia? E’ l’appartamento di Anna Maria?». «Sì, Zora, è successo qualcosa, non so... forse... sì, è lei». «E’ mia figlia, quella disgraziata, lo sapevo». Sono le 9,30 di venerdì 28 marzo 1980. In via Fracchia, al civico 12, i carabinieri del generale Dalla Chiesa, alle 2,40, hanno fatto irruzione nel covo delle brigate rosse all’interno 1. Lorenzo Betassa, Riccardo Dura, Piero Panciarelli e Annamaria Ludman sono morti, colpiti dai proiettili dei militari. I loro corpi sono riversi nel corridoio dell’appartamento, nel sangue. Gli inquilini dello stabile sono invece chiusi nelle loro case, terrorizzati. E una signora di mezz’età riceve una telefonata dalla mamma della Ludman, Zora. Il tono della donna è teso, la voce rotta dall’impazienza e dalla paura. Il giornale radio ha appena divulgato la notizia dell’irruzione e della sparatoria. La mamma di “Cecilia” (il nome di battaglia della brigatista uccisa in via Fracchia) sa. O almeno ha intuito qualcosa. L’inquilina che rispose alla telefonata di Zora Ludman ricorda con assoluta nitidezza quella drammatica conversazione. «Mi chiese cos’era capitato, ma non sapevo cosa risponderle. Eravamo “prigionieri” nelle nostre abitazioni e sapevamo pochissimo. I carabinieri sorvegliavano l’ingresso e l’atrio, il giardino e le strade del quartiere. Dissi alla mamma di Annamaria che era accaduto qualcosa di brutto nell’alloggio di sua proprietà e lei rispose: «Lo sapevo, è mia figlia, quella disgraziata». Un mese dopo entrammo nell’appartamento e Zora pianse. La sostenni quando stava per svenire, le impedii di vedere la biancheria intima della figlia ancora stesa in bagno. Trenta giorni dopo il blitz tutto era ancora uguale, immutato, congelato. E l’odore del sangue e della morte riempiva la gola e i polmoni, insopportabile». [Simone Traverso]
Le porte in legno sono sempre le stesse, uguali a quella che i carabinieri del generale Dalla Chiesa sfondarono a calci e pallottole la notte del 28 marzo 1980, scrive Simone Traverso. A cambiare semmai, nel palazzo di via Fracchia che ospitò il covo delle Brigate Rosse, sono stati il portone (allora era in legno, oggi è in acciaio scuro) e la tinta alle pareti, passata da un “crema” anonimo a un raffinato impasto di graniglia in marmo. Ventiquattro anni dopo quel drammatico blitz in cui trovarono la morte Annamaria Ludman, Riccardo Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, la gente del civico 12 sfoglia il Corriere Mercantile attonita, quasi senza parole. Le fotografie pubblicate in esclusiva dal nostro giornale risvegliano antichi ricordi: il ticchettio della macchina da scrivere (sentito «anche a notte fonda»), quella ragazza bruttina ma con un corpo da pin-up che prendeva il sole in giardino, un uomo misterioso, forse Dura, che scavava con un piccone nell’erba alta delle aiuole, eppoi il fumo dei lacrimogeni, l’odore della polvere da sparo, un carabiniere portato via sanguinante, le urla e i tonfi sordi, «non come quelli dei film, diversi, ma inequivocabilmente spari».
“CECILIA”. La prima immagine che restituisce la memoria degli anni Settanta è quella di Annamaria Ludman (nome di battaglia Cecilia). Ai suoi genitori era intestato l’appartamento in via Fracchia divenuto covo delle Br. Lei vi si stabilì prima da single, poi in compagnia di un giovane: «Credo fosse Luca Nicolotti - racconta uno degli inquilini che chiede, come tutti i suoi vicini, di restare anonimo -. Restarono assieme a lungo, poi lui sparì e lei rimase nuovamente sola. Era una ragazza tranquilla, non proprio bella, ma con un corpo davvero notevole. Ogni tanto si sdraiava in giardino a prendere il sole. La madre ci disse spesso che sua figlia collaborava con istituti scolastici esteri e che ospitava studenti provenienti dalla Francia e dalla Svizzera».
FANTASMI. La gente che oggi abita in via Fracchia non è più la stessa del 1980. Alcuni inquilini sono morti, altri si sono trasferiti. Chi è rimasto è comunque cambiato e sa di vivere accanto ai fantasmi della “rivoluzione fallita”. Fantasmi che quand’ancora erano in vita trascorrevano le notti a scrivere documenti, volantini, rivendicazioni. I condomini di oggi ricordano il racconto di un’anziana signora che pochi giorni dopo la sanguinosa irruzione delle forze dell’ordine disse: «Li sentivo la notte battere a macchina. Scrivevano, scrivevano, sempre. Il mio appartamento era proprio sopra il loro, sopra un salotto adibito a camera da letto, ma pure a pensatoio, perché lì dentro passavano notti e giorni e il ticchettio dei tasti della macchina da scrivere non mi faceva dormire. “Chissà che avranno da mettere nero su bianco”, mi dicevo».
LE VACANZE. Eccezion fatta per la Ludman, i condomini del civico 12 di via Fracchia non videro mai i brigatisti. «Solo in un paio di occasioni - ricorda una signora - vidi un uomo scavare in giardino. Era armato di piccone e stava preparando una buca grossa così». Dalla descrizione, «abbastanza massiccio, senza barba, ma con i capelli mossi e un tatuaggio sul braccio», pare trattarsi di Riccardo Dura, “Roberto”. Tre giorni prima della tragica sparatoria del 28 marzo, un’altra inquilina vide “Cecilia” assieme a “Roberto”: «Li incrociai nell’androne delle scale. Portavano borse pesantissime, quasi le trascinavano. Tenni loro aperto il portone e chiesi: «Si parte per le vacanze?”. La risposta fu un laconico “Eh, sì...”, ma lo sguardo non era certo quello di due amici che s’apprestano a godersi un periodo di riposo».
SIGARETTE. I primi giorni di marzo dell’80 sono quelli in cui gli uomini del generale Dalla Chiesa iniziarono gli appostamenti. Un anziano che vive al 12 di via Fracchia da almeno trent’anni dice di esserne sicuro: «Una mattina andai alla mia auto, ma trovai le portiere aperte, anzi forzate. Dentro, nell’abitacolo, un puzzo di sigarette insopportabile. Ma io non fumavo... dopo il blitz nel covo compresi che i carabinieri avevano usato la mia utilitaria per sorvegliare il palazzo tutta una notte».
L’ASSALTO. Il ricordo più vivo per tutti gli abitanti dello stabile è certamente quello della notte del 28 marzo 1980. Nessuna ricostruzione dettagliata, per carità. Bensì tanti frammenti, ricchi di dettagli, di suoni, rumori, immagini strazianti. «Sentimmo tonfi assordanti, una gran confusione nelle scale, molte urla. Fuori, di fronte al giardino (quello asservito al covo delle Br, ndr), c’erano un sacco di carabinieri con i mitra puntati e di fronte all’ingresso dell’interno 1 altri militari, in borghese. Dalla porta usciva fumo, forse lacrimogeni. C’era puzza di polvere da sparo e sentimmo distintamente i colpi delle armi da fuoco. Poi portarono fuori un uomo. Era disteso su una coperta, perdeva sangue (era il maresciallo Rinaldo Benà, ferito a un occhio da un proiettile, ndr). I suoi colleghi ci dissero di chiamare un’ambulanza. Poi tutto finì e per un giorno intero fummo “prigionieri” nelle nostre case. Vennero Dalla Chiesa e altri pezzi grossi. Non potevamo uscire, ci dicevano ch’era meglio non vedere. L’odore del sangue era pungente e invadeva tutto il palazzo».
BRIVIDI. Gli inquilini del civico 12 seppero che quell’appartamento al primo piano era un covo di brigatisti solo un paio di giorni dopo l’irruzione dei carabinieri. «Un militare venne nella mia casa - dice una condomina -. Mi chiese se poteva fare una telefonata. Chiamò la moglie, rassicurandola: “Tutto bene, amore. Sto bene, non preoccuparti”. Mi fece effetto, gli offrii un caffè ma quello rifiutò, spiegando: “Devo calmarmi, allentare la tensione. Signora - ammise passandosi una mano sul cuore - se non fossimo stati così lesti, noi, voi e loro saremmo tutti quanti saltati per aria”. Compresi che non si trattava di criminali comuni, ma di gente pronta a tutto. E oggi, a distanza di ventiquattro anni, ripensando a quelle parole, mi vengono ancora i brividi». Simone Traverso
L’INTERVISTA. PARLA UN BRIGATISTA CONDANNATO PER ATTENTATI A GENOVA: «Ecco cosa sapevano i carabinieri», scrive Matteo Indice. Adriano Duglio: «Ma queste foto rischiano di esasperare ancora gli animi» Dice che davanti alle pagine del Mercantile ha sgranato gli occhi: «Sono uscito di casa ieri mattina verso le undici, ho preso il giornale e ho avuto come una fitta allo stomaco». Adriano Duglio, 51 anni - oggi vive a Bogliasco dove gestisce un circolo ricreativo - ha fatto parte della colonna genovese delle Brigate Rosse. Arrestato nell’80 dopo le rivelazioni di un pentito, è stato successivamente processato e condannato a undici anni di carcere: tra le azioni a cui ha preso parte anche l’assassinio del commissario capo di polizia, Antonio Esposito, ucciso su un bus in via Pisa, ad Albaro. - Allora Duglio, che effetto fanno queste foto, ventiquattro anni dopo? «Terribile, lo dico chiaramente. Ho provato a sfogliare un po’ il quotidiano, ma poi mi sono come bloccato e vorrei sapere innanzitutto se i tempi di questa pubblicazione sono casuali». - Perché? «Perché la situazione politica è in fermento, tra poco ci sono le elezioni europee e servizi del genere creano tensione». - In che senso? «Nel senso che rischiano di estremizzare le posizioni contrapposte. Mi spiego meglio: chi è orientato a destra, non farà altro che pensare “hanno fatto bene a ridurli così”. Dall’altra parte, i giovani dei centri sociali o del movimento potrebbero interpretare la brutalità del blitz in via Fracchia come una specie di provocazione lanciata con molti anni di ritardo, non so...». - Ma non credi che questo materiale costituisca uno straordinario documento storico, e contribuisca a chiarire la dinamica di un’azione oscura fornendo al contempo un monito per non ripiombare nel buio? «Perdonatemi, ma non credo che sulla cosiddetta dinamica ci fosse molto da scoprire. Leggo oggi un’intervista a Giuliano Zincone che parla di “esecuzione”. Ebbene, la condivido in tutto e per tutto, anche perché le informazioni in mio possesso sono abbastanza precise». - Ovvero? «Sappiamo che i carabinieri arrivarono a Oregina grazie alle dichiarazioni del pentito Patrizio Peci. Per quanto ne so io, Peci aveva accesso al covo e pure le chiavi, dato che lassù si tenevano le riunioni della direzione strategica. Non credo le avesse tenute per sé...Inoltre, pregherei di osservare la posizione delle mani nell’immagine che ritrae i quattro cadaveri in fila nel corridoio. E’ come se i morti fossero caduti mentre le tenevano dietro la testa, pronti ad arrendersi». - Quanti brigatisti conoscevi di quelli uccisi? «Con Riccardo Dura avevamo partecipato ad alcune azioni, lo conoscevo bene. Betassa e Panciarelli non li avevo mai visti, Annamaria Ludman l’avevo incrociata di sfuggita alla facoltà di Magistero, dove lavoravo, ma non avevamo mai avuto contatti all’interno dell’organizzazione». - Sapevi del covo di via Fracchia? «Quando ci fu l’irruzione io ero già fuori dalle Br da almeno due anni. Però, appena appresa la notizia non ebbi dubbi su com’era andata: le Brigate Rosse dovevano pagare l’uccisione dei carabinieri a Sampierdarena, l’attentato del 21 novembre 1979 nel quale morirono il maresciallo Vittorio Battaglini e il militare Mario Tosa. Non dimentichiamo che in quell’episodio erano stati coinvolti terroristi poi pentiti, i quali misteriosamente non hanno mai pagato con un giorno di carcere. D’altronde, la guerra era stata scatenata con l’uccisione di Mara alla Cascina Spiotta (Margherita Cagol, detta “Mara” e moglie di Renato Curcio, morì in un conflitto a fuoco con i carabinieri il 5 giugno 1975 ad Arzello d’Acqui, durante il sequestro dell’imprenditore Vallarino Gancia)». - Concludendo secco: che effetto può sortire, nel più ampio dibattito sugli anni di piombo, la diffusione delle foto finora inedite? «Sono solo un pezzo di verità. Ma per fare chiarezza davvero, i protagonisti di allora dovrebbero, in senso figurato, sedersi intorno a un tavolo e confrontarsi sul serio. E tutti, ma proprio tutti, dire quello che ancora non hanno avuto il coraggio di dire, non solo sul terrorismo». - Non solo? «Perché invece di rievocare fatti oscuri risalenti a decine di anni fa non ci concentriamo su eventi più freschi, sfoderando documenti importanti? Penso al g8, e a tutto quello che si è taciuto sulla repressione di polizia e carabinieri. Lì sì che ci sono cose da scoprire». Ma questa, per ora, è un’altra storia. Matteo Indice
Il più veloce a uscire nel corridoio al momento dell’irruzione, scrive Andrea Ferro. IL GIORNALISTA RICORDA L’INTERVISTA AL GENERALE SU VIA FRACCHIA. Bocca: «Dalla Chiesa mi fece capire...» «Intervistai il generale Dalla Chiesa alcuni mesi dopo il blitz per il mio libro “Noi terroristi”. Gli chiesi: “Ai quattro brigatisti fu data la possibilità di arrendersi o furono uccisi subito?”. Non mi disse chiaramente che li avevano ammazzati ma il tono usato per parlare rivelava intransigenza, durezza. Per me, al di là delle parole, non andò come era stato raccontato nella versione ufficiale». Giorgio Bocca sfoglia i ricordi della memoria di un’epoca con la chiarezza del linguaggio e le frasi nette, precise, del testimone. Raccontò le Brigate Rosse da grande inviato e da scrittore. Ha studiato i fenomeni dell’eversione scandagliando nella vita dei protagonisti e delle vittime e tra le pieghe di una società sulla quale attecchì l’odio di classe fino a sbocciare nel piombo. «Non era la prima volta che il generale Dalla Chiesa aveva usato un certo metodo militare. Ricordo la rivolta nel carcere di Alessandria (il maggio del ’74). Fu stroncata dagli uomini dei reparti di Dalla Chiesa, ci furono morti e feriti. Il generale aveva ordinato ai suoi di sparare». Ma quale fu la prima sensazione dopo la notizia del sanguinoso blitz di via Fracchia? «Mi fece impressione il fatto che dentro quella casa ci fossero i cadaveri di due operai torinesi della Fiat (Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, ndr). Fino a quel momento credevo di trovarmi di fronte ad un terrorismo strutturato su base locale, a brigatisti legati alla loro fabbrica, alla loro città. Fu invece il segnale che il terrorismo era in crescita, si ramificava sul territorio». L’altro segnale, quella mattina, venne dallo Stato. «Sì, lo Stato diceva: “Ora in guerra ci siamo anche noi”. Un messaggio chiarissimo: “Adesso possiamo condurre la lotta senza fare prigionieri”». E lo Stato da questo momento poteva contare su un’arma in più: i pentiti. Infatti fu Peci a rivelare l’indirizzo di via Fracchia ai carabinieri. «Sui pentiti Moretti sostiene una tesi politica. Cioè che furono la conseguenza e non la causa della fine delle Brigate rosse. Cioè segnarono il fallimento di un progetto politico più che militare». Si sostiene che i quattro brigatisti morti valevano un monito per tutti gli altri. Della serie arrendetevi, altrimenti farete la stessa fine. «E’ discutibile. Quando la repressione arriva a questi punti le reazioni possono essere anche di segno opposto. Soprattutto quando il senso di ribellismo è già alto» Che ricordo ha di Genova in quegli anni? «Certamente all’epoca in città c’era un terreno fertile per i terroristi che ebbero un forte impatto sul proletariato. Ma non mi riferisco solo al periodo delle Brigate Rosse. Già anni prima dell’esplosione del terrorismo partecipai a Genova ad alcuni riunioni di ex partigiani. E c’era già chi teorizzava il ritorno alla lotta armata». E le ultime leve dei brigatisti? «Sono penosi. Hanno sparato a due uomini indifesi dopo indagini durate mesi, pedinamenti infiniti». Proprio come facevano le vecchie Br... «Allora correvano molti più rischi sotto il profilo militare». Ma oggi esistono le condizioni per una nuova stagione di piombo? «Questi fenomeni hanno un’evoluzione misteriosa. Le Brigate rosse si affermarono negli anni Settanta quando la fase più dura della lotta di classe era stata superata. Oggi stiamo entrando in una nuova fase di conflittualità sociale. Ma non mi sento di fare pronostici». [Andrea Ferro]
Giorgio Bocca ha studiato il fenomeno del terrorismo in Italia tra gli anni ’70 e ’80, scrive Andrea Ferro. Nell’irruzione di via Fracchia, sostiene, venne adottato il metodo militare I corpi del quattro terroristi nell’appartamento di via Fracchia Il corpo di Riccardo Dura è il primo nella fila di cadaveri che si allunga nel corridoio dell’appartamento diventato la fossa comune della colonna genovese delle Brigate rosse dopo l’irruzione dei carabinieri e il conflitto a fuoco. Il cadavere è in posizione prona. Le gambe si allungano nel corridoio mentre dalla vita in su il corpo occupa una porzione del pavimento del corridoio. Dalla foto che pubblichiamo oggi si evince che Dura sarebbe stato il primo ad andare incontro ai carabinieri. E’ scalzo, non ha pantaloni, indossa slip e maglietta. Questa la probabile sequenza degli ultimi suoi istanti di vita. Quando i carabinieri sfondano la porta, è il primo ad alzarsi dal letto. Presumibilmente era uno dei tre a dormire nella stanza, il quarto (quasi sicuramente Betassa) riposava in un sacco a pelo trovato nel salotto. I due vani sono in fondo al corridoio. Dura si affaccia nell’ingresso, o più probabilmente), si ripara dietro la porta che (forse) chiude di scatto (altre foto mostrano numerosi fori di proiettile di medio e grosso calibro). E’ armato? Accanto al cadavere non c’è alcuna pistola (come documentano altre foto del dossier pubblicato in esclusiva dal “Corriere Mercantile”). Le armi saranno infatti “repertate” sul pavimento accanto ai corpi di Panciarelli (il secondo) e Betassa (il quarto).
IL CARABINIERE FERITO - Il cadavere è lontano un paio di metri dalla macchia di sangue contrassegnata dalla lettera A (vedi almtra foto). Il cartellino indica il punto nel quale il maresciallo Rinaldo Benà rimase ferito al volto (perderà un occhio). Ma al di là del fatto che nessuna arma è stata trovata accanto al cadavere di Dura non si può escludere che possa essere stato lui stesso a sparare. La pistola sarebbe successivamente scivolata verso il centro del corridoio. Un’ipotesi, precisiamo. All’epoca qualcuno avanzò il sospetto che in realtà Benà sarebbe stato ferito da “fuoco amico” (cioè dai suoi colleghi) anche se la successiva perizia balistica confermò la versione diramata nei giorni successi dalla Procura con un comunicato ufficiale. Tornando alla foto dell’ingresso si evince che l’unica macchia di sangue è quella riferibile al ferimento di Benà. Per il resto la parte del pavimento vicina alla porta d’ingresso è “pulita”. Significa che nessuno dei brigatisti è mai arrivato fin lì, tantomeno vi era appostato nel corso della notte per il “turno di guardia” (come ipotizzavano alcune cronache dell’epoca).
FERITE ALLA TESTA - La macchia di sangue inizia in corrispondenza della testa e si estende, allargandosi, per almeno un metro (prosegue oltre il margine della foto). Riccardo Dura è stato raggiunto alla testa presumibilmente a distanza piuttosto ravvicinata da più colpi. Ingrandendo al computer la foto scopriamo che vicino all’angolo formato dal muro d’ingresso con la mini parete di sostegno della porta del corridoio ci sono tre bossoli esplosi da un’automatica di medio calibro. Tra il gomito destro e la parete dell’ingresso spunta un ombrello pieghevole.
“ROBERTO” - E’ il nome di battaglia di Riccardo Dura. La sua storia. Nasce a Roccalumera, in provincia di Messina, il 12 settembre 1950. Si trasferisce a Genova giovanissimo. Nel ’66 viene iscritto al “Garaventa”, la nave-scuola per ragazzi in difficoltà. Dopo il Militare in Marina Riccardo Dura si imbarca sui mercantili, “di coperta”. Successivamente, è il ’71, lavora per alcune ditte che operano in appalto all’interno dell’“Italsider” di Cornigliano. In quegli anni inizia la sua militanza in Lotta Continua fino ad approdare alle Brigate rosse.
GLI OMICIDI - “Roberto” venne indicato dai pentiti come uno dei killer più spietati delle Brigate Rosse. E’ ritenuto l’esecutore materiale dell’assassinio del commissario capo della polizia, Antonio Esposito (ex funzionario dell’Antiterrorismo e all’epoca dirigente del commissariato di Nervi), ucciso il 21 giugno del 1978 su un bus della linea “15”. Secondo la ricostruzione dei giudici fu sempre Dura a sparare e uccidere Guido Rossa, l’operaio e sindacalista, freddato sulla sua “Fiat 850” il 24 gennaio del ’79 in via Fracchia, a duecento metri dal covo. Il nome di Dura compare poi agli atti dei processi per gli agguati ai carabinieri Vittorio Battaglini e Mario Tosa, freddati il 21 novembre del ’79 al bar “Da Nino” di via G. B. Monti, a Sampierdarena. E sempre Dura fece parte del commando che il 25 gennaio dell’80 in via Riboli (Albaro) sparò contro un’altra auto dei carabinieri. Sotto il piombo brigatista morirono il colonnello Emanuele Tuttobene e l’appuntato Antonino Casu. Nell’agguato rimase gravemente ferito il colonnello dell’Esercito Luigi Ramundo. ANDREA FERRO
Guagliardo: «Strage decisa per spingere al pentitismo» Dal libro “Sguardi Ritrovati” della collana Progetto Memoria edito da “Sensibili alle foglie” pubblichiamo la testimonianza scritta nel 1994 dal carcere di Opera, Vincenzo Guagliardo, esponente della colonna genovese delle Br. «Non è facile ricordare Riccardo in poche parole, dato il modo in cui morì, le cose che allora su di lui stampa e pentiti dovettero inventare per giustificare la strage e sbiadirne il senso all’opinione pubblica, e l’amarezza rabbiosa che tutto questo suscitò in quelli come me. La strage di via Fracchia non fu affatto, come disse a caldo un primo comunicato delle Br in preda all’emozione, il risultato di uno scontro, ma una fredda esecuzione comandata dal generale dei CC Dalla Chiesa per ottenere – credo –, a partire dalla delazione di Patrizio Peci, l’inizio della politica del “pentitismo”. Riccardo ed io ci chiamavano “compari” per ironizzare sulla nostra comune origine siciliana. Quando dovevamo incontrarci in questa o quella città, quello di noi che combinava l’incontro cercava il posto migliore dove pranzare assieme come meglio potesse piacere all’altro, nell’ambito del possibile. Credo che in cuor suo individuasse, giustamente, la solitudine umana come il grande nemico, come la più grave contraddizione di questa società. Per lui dunque la militanza brigatista diventava una condizione totale in cui si faceva quel che era “giusto”; e poi si sarebbe visto come andava a finire... Come un nuovo Pisacane, vedeva le Br come un piccolo reparto delle masse oppresse che cominciava a fare la sua parte nel comune destino. Io ero più “politico”, individuavo me e lui in una comunità più vasta e contraddittoria delle Br, e citando Mao dicevo che il nostro cammino era un governo della contraddizione all’interno di questa più sconfinata realtà. Alla fine però, convenivo con lui che personalmente non sapevamo quanto noi avremmo visto, quanto sarebbe durata. Insomma, dopo lunghe discussioni trovavamo sempre l’accordo. Il paradosso brigatista era proprio questo: che in esso era sempre possibile la convergenza finale di esperienze umane diverse. In quella dimensione, come sappiamo, quella potente allusione a una superiore e vivace concordia è stata confitta, ha incontrato dei limiti. Dove e come far rivivere questa convergenza delle singole esperienze umane in nuove dimensioni è quello che si vedrà. Esse comunque richiedono un cammino che ha bisogno di verità: a partire dal passato.
Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli, i “bierre” venuti da Torino Il corpo di Lorenzo Betassa è in fondo al corridoio, scrive Andrea Ferro. Era l’unico dei quattro che al momento del blitz dei carabinieri era vestito. Presumibilmente riposava nella sala da pranzo, in un sacco a pelo disteso sul pavimento, accanto al divano (le altre foto del covo scattate negli altri vani saranno pubblicate sull’edizione in edicola domani). C’è un particolare che escluderebbe, almeno secondo la ricostruzione più verosimile, l’ipotesi che Betassa fosse di guardia. I mocassini sono slacciati, è senza calze: addosso ha una sola scarpa, l’altra è scivolata sul pavimento all’interno della camera da letto. E’ più probabile che dopo aver avvertito i primi rumori sospetti Betassa abbia frettolosamente indossato i mocassini a mo’ di ciabatte. Tra il piede e la scarpa c’è una pistola di medio calibro dalla quale (secondo la perizia balistica) sarebbero partiti alcuni colpi.
IL SANGUE - E’ l’unico cadavere in posizione supina, la testa è piegata sulla destra in una pozza di sangue. Oltre a quella, mortale, alla testa lungo il corpo non si riscontrano altre ferite o tracce ematiche. Al polso sinistro porta un orologio. Pur ingrandendo l’immagine non si riesce a leggere sul quadrante l’ora che segna (nella foto del cadavere di Annamaria Ludman pubblicata giovedì l’orologio segna le due e quarantadue).
UN ALTRO CADAVERE - E’ di Piero Panciarelli. Il corpo è in posizione prona, lungo il corridoio tra i cadaveri di Riccardo Dura e di Annamaria Ludman. Anche in questo caso la macchia di sangue si estende vicino alla testa e “scende” fino alla parte alta del torace. La freccia indica il “cane” della pistola che, presumibilmente, ha usato per sparare contro i carabinieri. Come Dura (si evince da altre foto) è scalzo, indossa una canottiera e un paio di slip. Evidentemente stavano dormendo quando i carabinieri hanno sfondato la porta.
LA LORO STORIA - Lorenzo Betassa nasce a Torino il 30 marzo 1952. Frequenta le scuole Medie a Torino e fino al ’69 lavora come operaio alla Italimpianti e successivamente è assunto alla Fiat (sezione Carrozzerie) diventando anche rappresentante sindacale per la Fim-Cisl. La sua militanza politica inizia in Potere Operaio. Poi passa alle Brigate rosse ma gli inquirenti scopriranno la sua militanza solo dopo il blitz di via Fracchia. “Antonio” era il suo nome di battaglia. Piero Panciarelli nasce a Torino il 29 agosto 1955. Dopo il diploma di Scuola Media è assunto come operaio alla “Lancia” di Chivasso. Rispetto a Betassa era conosciuto dalle Sezioni antiterrorismo di polizia e carabinieri già prima dell’irruzione in via Fracchia nell’ambito di una serie di indagini condotte tra militanti e fiancheggiatori della colonna torinese delle Br. Nel maggio del ’78 entra in clandestinità. Il nome di Panciarelli (“Pasquale”) compare in più inchieste dei giudici genovesi per fatti di sangue avvenuti all’ombra della Lanterna. Insieme a Riccardo Dura avrebbe preso parte all’assassinio dei carabinieri Vittorio Battaglini e Mario Tosa freddati al bar “Da Nino” di via G.B. Monti a Sampierdarena il 21 novembre del ’79. Panciarelli è indicato anche come uno degli autori dell’attentato contro la sede della Finligure, compiuto il 14 giugno del 1979. Andrea Ferro.
“Antonio”, il terrorista che somigliava a Battisti Il ricordo di Lorenzo Betassa (nome di battaglia Antonio) tratto da Testimonianze al Progetto memoria - Ernesto Amato, Torino 1994, pubblicato su “Sguardi Ritrovati”, casa editrice “Sensibili alle Foglie”. «L’ho conosciuto in fabbrica nel 1973, siamo diventati amici, molto amici, ho conservato in tutti questi anni un ricordo vivo di lui, della sua grande generosità, giovialità e disponibilità umana... In fabbrica lo chiamavano “Lucio” a causa dei suoi capelli crespi e lunghi a cespuglio che lo rendevano simile a Lucio Battisti; la sua militanza politica non è mai stata di quelle finalizzate ad emergere sugli altri, il suo rapporto con i compagni di lavoro era di assoluta normalità e cordialità, oppure di giusta contrapposizione qualora ne sussistessero i motivi. Fare politica per Lorenzo significava vivere la vita di tutti i giorni in mezzo agli altri, cogliendo le contraddizioni e cercando una strada per migliorare le proprie condizioni e quelle degli altri. Mi ricordo che ai picchetti eravamo quasi sempre i primi ad arrivare, ci si trovava ai cancelli arrivando da strade diverse, quasi sempre erano le 2 o le 3 del mattino e le porte erano quasi sempre quelle degli impiegati. La sua scelta politica l’ha fatta in piena libertà e convinzione, facendola soprattutto per sé, infatti mi ricordo una sua frase ricorrente, mi diceva: “Caro Ernesto, la rivoluzione va fatta innanzitutto per noi stessi e di conseguenza per gli altri, devi rivoluzionare prima al tuo interno ciò che non ti va e poi fuori...” Non credo comunque che avesse preventivato, nelle sue scelte, una fine così cruenta. La sua semplicità, il suo atteggiamento “normale” lo avvicinano molto agli altri... «È sparito dalla fabbrica e dalla vita civile alla fine del 1979 e solo alcuni mesi più tardi è stato ucciso, quindi ha fatto una breve militanza da clandestino; sinceramente, conoscendolo bene, non credo che quel ruolo da “regolare” si confacesse molto al suo carattere e alla sua personalità, anche in termini di rinunce. Al suo funerale eravamo in molti, grande era la rabbia, la commozione, il senso d’impotenza, l’angoscia. Fummo tutti, per quanto possibile, vicino alla famiglia che, come tutti noi, vide arrivare la bara chiusa e sigillata; questo rese faticoso prendere coscienza della morte di Lorenzo. A me successe, poi, diverse volte, di vedere, per strada, delle persone che gli assomigliavano e cercare di avvicinarle per vedere se era lui o meno.
IL RICORDO DI UN AMICO CHE POI LO AVEVA RITROVATO IN UN’ORGANIZZAZIONE EXTRAPARLAMENTARE. «Pasquale, con lui quanti concerti» Il ricordo di Piero Panciarelli (nome di battaglia Pasquale) tratto da un brano scritto da un amico e pubblicato su “Sguardi Ritrovati”, Progetto Memoria, casa editrice “Sensibili alle foglie”. «O dalla cantina si partiva per i concerti di allora (’70-’73) con il minimo necessario per la “sopravvivenza” e via a prenderci quello che ritenevamo nostro e di tutti, la musica come espressione di un certo linguaggio ed immaginario collettivo. E quanti stratagemmi (anche scontri) per riuscire nell’obiettivo. Non voleva essere “padrone” né avere “padroni” di nessun tipo e non voleva che gli rubassero il tempo di vivere e il suo spazio. Quando ci incontrammo nella stessa organizzazione, dopo un periodo che si erano percorse strade diverse, esperienze diverse, ci sentimmo particolarmente ed intensamente emozionati e ricordo una sua curiosissima espressione di gioia per esserci ritrovati nuovamente. Era fatto così! E l’ultima volta che ci siamo incontrati in quartiere, anche come militanti, sapendo che poteva succedere che non ci saremmo più visti, decise che dovevamo salutarci a modo nostro, con i nostri riti... Piero è sepolto nel cimitero di Staglieno a Genova, vicino a un gruppo di alberi e così capitando in quella città, quando non mi fermo da lui, osservo da lontano gli alberi e lo saluto a modo nostro».
IL RICORDO DI MORETTI: «SCRISSI IL VOLANTINO IN UNA CASA DI SAMPIERDARENA». Mario Moretti fu l’ultimo leader indiscusso delle Brigate rosse. Alla guida dell’organizzazione sostituì Curcio e Franceschini dopo la loro cattura. Gestì l’operazione Moro, interrogò il presidente delle Dc nei 55 giorni del sequestro, lo fulminò col colpo di grazia prima di far ritrovare il cadavere nello statista in via Caetani. Fu arrestato il 4 aprile dell’81 alla stazione “Centrale” di Milano insieme a Enrico Fenzi, genovese, “il professore”, e altri due militanti delle Br. In “Brigate Rosse una storia italiana”, intervista di Carla Mosca e Rossana Rossana, Milano 1994, Anabasi Editore, Mario Moretti ricorda così Riccardo Dura. «Ho scritto il volantino per commemorare quei nostri quattro morti, in una casa di Sampierdarena Oregina, Ndr), dove abitava una compagna operaia e una sua figlia, allora diciottenne. Eravamo in tre generazioni intorno a quel tavolo e certo per la mente ci passavano cose diverse, a mala pena saprei dire quello che passava nella mia. Ma dovevamo avere qualcosa di molto forte in comune per stare tutti e tre a guardare in faccia la morte di quattro che sentivamo come fratelli. «Un dolore terribile, che non vogliamo neppure che si veda. “Mia figeû, semo ne ’a bratta, ma u sciû Costa ha già pagoû” (Senti, noi siamo nella merda fino a collo, ma il signor Costa ha già pagato), avrebbe detto Roberto, un marinaio comunista come ne ho conosciuti tre nella vita, che dopo l’azione Costa ci ripeteva questo tormentone ogni volta che ci trovavamo nei guai. Lo immagino anche stavolta».
VIAGGIO NELL’APPARTAMENTO ALL’INTERNO 1 DEL CIVICO 12 DI VIA FRACCHIA. Nella “casa dei fantasmi” Il covo delle Br è uguale a 24 anni fa, ma con un dobermann in più, scrive Simone Traverso. Entrare nell’appartamento che fu il covo delle Brigate Rosse a Genova è come fare un salto indietro nella storia. Negli angoli dell’appartamento dove si consumò il blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa, tra quelle pareti oggi linde si respira l’aria di un dramma, si percepisce il peso di un’epoca insanguinata. Eppure c’è una signora che da ventun’anni vive in quella stessa casa, dorme nella stanza che ospitò Lorenzo Betassa, Piero Panciarelli, Riccardo Dura e Annamaria Ludman, pranza lì dove i brigatisti consumarono la loro ultima cena, ripone le bevande e i cibi della spesa nello sgabuzzino che i militanti usavano come laboratorio fotografico. «Nessun timore reverenziale, nessuna paura dei fantasmi, quella storia è acqua passata». La donna che abita l’ex covo chiede di restare anonima, ma ammette: «Nel mio appartamento nulla o quasi è cambiato dal 1980. E’ stato abbattuto un muro, ma un altro è stato innalzato. Il giardino è tale e quale, alle pareti è stata solo modificata la tinta. Il sangue? I fori di proiettile? Quando ho acquistato la casa era tutto sparito». Eppure la forza della storia è ancora percepibile e colpisce duro, proprio come le fotografie pubblicate dal Corriere Mercantile in esclusiva.
LA TRATTATIVA. La donna che oggi vive all’interno 1 del civico 12 di via Fracchia acquistò l’appartamento tre anni dopo l’irruzione dei reparti speciali Antiterrorismo. «Trattammo con la signora Ludman, Zora - dice oggi - ma non sapevamo cosa fosse accaduto, tant’è che cademmo dalle nuvole quando ci rivelarono di quel dramma. Ero incinta e non volli sapere nulla, per non subire traumi. Le foto? Be’, oggi posso anche guardarle, ma allora mi sarei rifiutata». Non manca il dettaglio curioso, colorito, per quanto drammaticamente allucinante: «La proprietaria era convinta che sapessimo, che fossimo al corrente del blitz delle teste di cuoio. Ci disse che volevamo “tirare sul prezzo”, che “volevamo approfittare della disgrazia” capitata alla figlia. Quando finalmente ci dissero la verità decidemmo ugualmente di acquistare l’abitazione». Nonostante chi condusse le trattative non fu del tutto corretto, almeno secondo l’attuale proprietaria: «Ci spiegarono che il covo fu scoperto cinque anni prima, invece erano passati soltanto tre anni... chissà, magari fu un errore in buona fede».
LA MALASORTE. Prendere possesso di quell’alloggio signorile non fu comunque facile. «Dovemmo vincere anche l’“ostruzionismo” di mia suocera - racconta la proprietaria -. Diceva che portava iella abitare nella casa dov’erano morte delle persone, quasi che i fantasmi potessero perseguitarci. Non so se sono stata fortunata o colpita dalla malasorte, ma io avevo bisogno di quell’appartamento. La mia famiglia cresceva, avevamo bisogno di spazi e di un giardino, pur non allontanandoci troppo dal quartiere dov’eravamo cresciuti. L’ex covo delle Br era l’abitazione giusta e poco importa cosa avvenne prima lì dentro».
I FIORI. I primi anni di convivenza con la Storia non furono però facili. «A marzo, in prossimità dell’anniversario del blitz, veniva sempre un poliziotto. Il 27 marzo 1983 un agente mi disse: “Domani signora non esca di casa, resti qui, al sicuro. Forse verrà qualcuno a deporre dei fiori... usano fare così. Nel caso, non faccia nulla, non apra la porta”. Non accadde nulla e col passare degli anni fu facile dimenticare anche quei frammenti».
IL CORRIDOIO. A distanza di ventiquattro anni, comunque, il corridoio dove i brigatisti trovarono la morte è sempre lo stesso: «Il pavimento è identico, le pareti sono state ripulite, i fori delle pallottole tappate. Non si vede più nulla». La signora che oggi vive in quelle stanze guarda alle foto del Corriere Mercantile e cerca di orientarsi. «La porta dove è caduto il primo terrorista (Riccardo Dura, ndr.) non c’è più. La donna (Annamaria Ludman, ndr.) sembra essere appena uscita dallo sgabuzzino... quello è cambiato. Non c’è più la rientranza che faceva da laboratorio fotografico, ma è più ampio, più spazioso.
IL SALOTTO. L’ultima camera in fondo al corridoio, quella dove i brigatisti scrivevano a macchina e trascorrevano, ore e ore a pensare ed elaborare testi, documenti e rivendicazioni è l’unica ad essere stata stravolta. «C’era un arco, ora c’è una parete. Il muro in fondo, invece è stato abbattuto per acquisire anche un paio di cantine. Ora è una camera da letto». Lo era anche allora, almeno stando al divano letto con sacco a pelo ritrovato dai carabinieri del generale Dalla Chiesa la notte dell’irruzione.
IL GIARDINO. Lo spazio verde all’esterno della casa oggi è curato, l’erba tagliata bassa, un tratto è piastrellato e ricoperto da un gazebo. «Ho letto che la donna, la Ludman prendeva il sole qui, in questo giardino. E che forse i brigatisti passavano da qui per entrare in casa, così da non farsi vedere dagli altri condomini. Mi pare francamente impossibile... non c’è modo di scendere dalla strada senza farsi notare, senza contare che bisognerebbe fare un salto impressionante». In un angolo del terrazzino spiccano i segnali che fanno intuire quanto i tempi siano davvero cambiati per questa casa di fantasmi: una cuccia e una ciotola. Appartengono a un dobermann alto così. Quello, ai tempi delle Br, non c’era. I “mastini”, quelli dell’Antiterrorismo, erano fuori, pronti ad entrare nel covo e cambiare la storia. Simone Traverso
PER LA PRIMA VOLTA L’UFFICIALE DEI CARABINIERI CHE GUIDÒ IL BLITZ IN CUI VENNERO UCCISI I QUATTRO BRIGATISTI RACCONTA. Riccio: «Spararono per primi» «Rispondemmo al fuoco, per tre minuti fu l’inferno». Intervista di Andrea Ferro. Michele Riccio, 55 anni, è l’ufficiale dei carabinieri che guidò il blitz. Dopo 24 anni racconta al “Corriere Mercantile” come venne individuato il covo di via Fracchia e ricostruisce minuziosamente tutte la fasi dell’irruzione nell’appartamento e del conflitto a fuoco in cui rimasero uccisi i quattro brigatisti. Il colloquio (durato un’ora e mezza) è avvenuto ieri mattina in un bar del centro. Riccio ha tenuto a precisare che mai aveva rilasciato un’intervista-ricostruzione sui fatti di via Fracchia. «Venimmo a sapere dell’esistenza di un covo in via Fracchia quattro-cinque giorni prima dell’irruzione. Patrizio Peci (il primo grande pentito delle Br, ndr.) aveva fornito elementi piuttosto vaghi. Aveva detto di aver dormito una notte in quella casa, circa sette-otto mesi prima. Secondo le sue rivelazioni l’abitazione era una sorta di “pensione” per terroristi latitanti. L’intestataria ufficiale dell’appartamento era una donna abbastanza giovane, della quale però non sapeva il nome. Dell’appartamento ricordava con grande precisione che era situato al piano terra. Dell’indirizzo conosceva solo la via, Fracchia appunto, ma non il numero del civico, tantomeno l’interno. Insomma c’erano tre elementi dai quali partire: un appartamento al piano terra di uno stabile di via Fracchia abitato da una donna, piuttosto giovane. Peci ci fornì le chiavi? Falso. «All’epoca dipendevo dal tenente colonnello Nicolò Bozzo (responsabile per il nord-Italia del reparto antiterrorismo di Dalla Chiesa). La mia squadra era formata da dieci uomini. Il primo accertamento fu al catasto. Sequestrammo tutte le piantine degli appartamenti situati ai piani bassi dei caseggiati di via Fracchia. Le sottoponemmo all’attenzione di Peci. Contemporaneamente mandai alcuni uomini per le strade della zona, a sentire la gente. Ufficialmente dicevamo che eravamo sulle tracce di una gang di trafficanti di droga. E per questo chiedevamo se attorno a via Fracchia qualcuno aveva notato movimenti sospetti, facce strane. Ci rivolgemmo anche al parroco di Oregina. Alcune vecchiette ci indicarono decine di sospetti, chiaramente tossicodipendenti, sbandati. Noi immagazzinavamo tutti i dati, anche i più insignificanti nella speranza di un’indicazione che potesse indirizzare la nostra indagine. Patrizio Peci riconobbe l’appartamento da una piantina «Quando non più di 48 ore dopo Peci riconobbe dalla piantina l’appartamento al 12 interno 1 arrivammo alla prima conferma importante. I vicini di casa dissero in che quella casa abitava una donna sola e piuttosto giovane (Annamaria Ludman, fino a quel momento completamente sconosciuta agli inquirenti, ndr.). E aggiunsero: “Qualche tempo fa abbiamo notato un certo via via di persone, gente perbene, tutti molto educati”. Informammo il generale Dalla Chiesa degli sviluppi dell’indagine, ci sentivamo a buon punto. Lui ci ordinò di fare presto. Il motivo era strettamente operativo. A Torino erano ormai pronti a far scattare una serie di blitz nei covi e nelle basi della colonna locale. Peci aveva fornito infatti elementi molto più precisi sulla colonna torinese, con indirizzi, nomi, cognomi. L’operazione doveva quindi scattare simultaneamente tra Genova e Torino. In sostanza ci aspettavano. Fosse stato per me avrei atteso ancora qualche giorno, tenuto sotto osservazione la base con l’obiettivo di raccogliere più elementi possibili per sviluppare le indagini sulla colonna genovese. Invece da quel momento iniziò una corsa contro il tempo. Individuato al novanta per cento il covo, bisognava capire quanta gente avremmo potuto trovarci dentro. Pedinammo la donna per due giorni, ci appostammo intorno alla casa ma non ricavammo indicazioni sul numero degli occupanti. Contemporaneamente controllammo i consumi del gas e della luce, i contatori erano praticamente fermi da giorni. Evidentemente i terroristi sapevano che potevano essere spiati anche così e per questo limitavano al minimo indispensabile i consumi. Provammo con la spazzatura. Per due sere bloccammo lo spazzino che ritirava i sacchetti davanti alle porte. Quello dell’interno 1 era sempre piuttosto pieno, segno che dentro la casa c’era vita, ma non trovammo tracce utili per quantificare il numero degli abitanti. Il tempo era scaduto. «Il 27 marzo insieme ad altri uomini della “squadra” cenai a casa del maresciallo Rinaldo Benà, l’anziano del gruppo (rimarrà ferito nel conflitto a fuoco, ndr.), nella abitazione casa di San Fruttuoso. In serata il tenente colonnello Bozzo convocò una riunione in caserma, in via Ippolito D’Aste. Bisognava decidere quando e come intervenire, Dalla Chiesa non voleva più aspettare. Io ero per farlo la mattina successiva: “Aspettiamo che esca la donna, la fermiamo, saliamo in casa con lei”, suggerii. Ma da Torino il generale non fu d’accordo. E ordinò: “Alle 4”. Il colonnello Bozzo informò il prefetto e le altre autorità. Un’ora prima dell’ora x eravamo già tutti in via Ippolito d’Aste. Noi dieci, più il personale del Nucleo operativo, altri del comando di Torino ma anche carabinieri in divisa. L’azione fu studiata così. Il tenente colonnello Bozzo rimaneva nella sala operativa per coordinare i collegamenti. Le “gazzelle” dovevano essere posizionate a qualche centinaio di metri. Il personale in divisa sarebbe intervenuto per tranquillizzare la popolazione se qualcuno degli abitanti della zona si fosse allarmato di fronte a tutti quegli uomini in Michele Riccio, l’ufficiale dei carabinieri che guidò il blitz Rinaldo Benà, il maresciallo rimasto ferito nel conflitto a fuoco. Colpito alla testa, resterà a lungo in ospedale e perderà un occhio I corpi dei quattro brigatisti nel corridoio dell’appartamento-covo Il sangue di Benà sul pavimento dell’ingresso La borsa con le armi per un nuovo agguato borghese, armati, con il rischio di scatenare il panico. Attorno alla casa varie squadre in borghese. Poi noi. Per entrare nel portone giocammo sulla complicità della signora anziana che abitava al piano di sopra. Le preannunciammo il nostro blitz facendole credere che sarebbe stata un’operazione antidroga. Le chiedemmo di tenersi pronta ad aprirci, nel cuore della notte, non appena avesse sentito suonare il citofono. «Ci presentammo nel portone in sei. Suonammo, la signora ci aprì subito. Eccoci nelle scale. Rispetto agli altri avevo il giubbotto antiproiettile ma non il casco perché mi avrebbe impedito di percepire i rumori. A quel punto ci dividemmo in due gruppi. Tre davanti, tre dietro. In prima fila io, Benà e un altro maresciallo. Imbracciavo un fucile a pompa, gli altri avevano i mitra. Salimmo una breve rampa di scale, l’appartamento era situato ad un piano rialzato. La porta, non blindata, era chiusa con tre serrature. Per l’epoca era un po’ strano. «Suonai il campanello “Aprite, è una perquisizione”» «Suonai il campanello. “Carabinieri, aprite, è una perquisizione”, ordinai. Dall’interno sentimmo dei passi, pensammo che qualcuno ci avrebbe aperto. Invece chi si avvicinò diede altri giri alla serratura. Allora impartii a Benà e all’altro maresciallo l’ordine di sfondare la porta. Non usammo alcun attrezzo, lo fecero a calci, portavano stivaloni. Una volta saltata la serratura ci trovammo di fronte ad una spessa tenda nera, da cinema che ci coprì subito la visuale dell’ingresso. La spostammo subito, all’interno iniziò a filtrare la luce delle scale. “Arrendetevi”, gridai. Benà sollevò la visiera del casco, era appannata dal sudore. Fu un attimo. Sentiì gli spari, poi vidi il maresciallo Benà cadere all’indietro, lentamente come al rallentatore. In quegli attimi ribollirono nella mia testa paura e stupore. Per il mio uomo ferito e per la reazione di chi si trovava nella casa. Mi sembrò incredibile che qualcuno pensasse di ingaggiare un conflitto a fuoco all’interno di un piccolo appartamento. Benà cadde sul pavimento al centro dell’ingresso, a mezzo metro dalle mie gambe. Ricordo ancora il getto di sangue alto un metro che saliva dalla sua testa. Nonostante fosse stato colpito (il proiettile gli perforò un occhio, ndr.) riusciva ancora a muovere la mano, come per tastare il pavimento, e a parlare. Ricordo le sue parole: “Dov’è il mitra? Non mi sono fatto niente, non dite niente a mia moglie”. Nel frattempo sparai col fucile a pompa, cinque colpi in rapida sequenza. Gli altri due colleghi avevano armi caricate con più proiettili. Iniziò l’inferno. Dal pianerottolo i tre uomini del secondo gruppo balzarono all’interno della casa e iniziarono a sparare pure loro. Uno me lo ritrovai alle spalle, disteso sul pavimento, le raffiche sfioravano le mie gambe. Tutto avveniva alla luce solo di una torcia imbracciata da un sottufficiale: noi attestati nell’ingresso sul pavimento o accanto ai muri, loro nel corridoio. Terrorizzato dagli spari, un maresciallo non più giovanissimo che era appostato all’esterno del caseggiato fece fuoco in aria per avvertire gli altri. Le radio portatili non funzionavano. I bossoli finirono in giardino. Un altro del mio gruppo iniziò a gridare a quelli che erano fuori: “Hanno colpito Benà, al capo”. La frase fu pronunciata balbettando, per la concitazione il nome del maresciallo non fu afferrato. Mi raccontarono che i più capirono che era stato colpito “il capo”, cioè io. «Sentii la voce di un carabiniere “Attenti hanno una bomba”» «Dentro intanto si continuava a sparare. Sparavano tutti, all’impazzata. Ad un certo punto gridai. “Venite avanti, arrendetevi”. Sentì una voce. “Hanno una bomba”, era un mio uomo. Riprendemmo a sparare, ricaricai un’altra volta il fucile a pompa. Un inferno, un inferno. «In tutto, dall’esplosione del primo colpo, passarono tre minuti. I miei uomini entrarono nel corridoio dove c’erano i corpi di quattro persone, una bomba a mano, le pistole. Io mi precipitai al telefono. Saranno state le 4,35. Chiamai la centrale: “Mandatemi subito un’ambulanza”. Bozzo mi rispose che aveva già saputo, che l’ambulanza stava arrivando. Riattaccai e il telefono squillò subito dopo. Dall’altro capo una voce maschile. Era Livio Baistrocchi, lo accertammo successivamente: “Roberto (nome di battaglia di Riccardo Dura, ndr.), state pronti, tra mezz’ora...”, disse. Pensava di parlare con Dura. Compresi che era un messaggio, replicai: “No, vieni qui, ti aspettiamo”. Lui capì, riattaccò. Baistrocchi infatti non cadde nella trappola. Scappò, è tuttora latitante. Quella telefonata, anche questo lo stabilimmo dopo, era l’ultimo segnale prima dell’agguato che i brigatisti avrebbero dovuto compiere all’alba. In fondo al corridoio trovammo infatti una borsa contenente due mitra e due parrucche. Erano pronti per un agguato contro un dirigente dell’Ansaldo. Il telefono squillò ancora Era il generale Dalla Chiesa «Il telefono squillò ancora. Questa volta era Dalla Chiesa. “So tutto, sto arrivando, dimmi cosa c’è”. Voleva sapere quali documenti avevamo trovato. Mirava a quelli, obiettivo primario dell’operazione era acquisire nuove informazioni. Gli risposi che dentro la casa c’erano dei morti, che dovevamo ancora fare la perquisizione. Nell’appartamento, sangue dappertutto. Entrai in cucina e iniziai a stilare il primo inventario del materiale che i miei uomini di volta in volta mi portavano dalle stanze. Ordinai che in casa non entrasse più nessuno. Ebbi il tempo di dare un’occhiata in strada. C’erano lampeggianti azzurri, auto di servizio, uomini in divisa, giornalisti, fotografi, un mare di gente. Diedi disposizione di allontanare tutti con modi spicci, poliziotti compresi. Nessuno doveva avvicinarsi. «Il sopralluogo dei magistrati non avvenne quattro giorno dopo (come è sempre stato scritto, ndr.). Già in mattinata il dottor Di Noto (all’epoca sostituto procuratore, ndr.) e un altro pubblico ministero entrarono nel covo. Rimanemmo in via Fracchia fino a sera con il pensiero fisso rivolto a Benà e a sua moglie. Avrei voluto essere al suo posto. Per un anno io e miei uomini ci alternammo a passare le notti accanto a lui. E fummo costretti a fare pressioni affinché ottenesse i giusti riconoscimenti. «Ho raccontato al “Corriere Mercantile” per onore della verità. Mi permetta di aggiungere solo due considerazioni. Il generale Dalla Chiesa è stato un capo eccezionale. Insieme a lui ho lavorato per anni con abnegazione e grande fiducia reciproca. E pensando a via Fracchia ricordo che ho eseguito un ordine, che non era certo quello di uccidere. Se si fossero arresi sarebbe stato meglio per tutti. Anche per noi».
LE ARMI E IL MATERIALE SEQUESTRATO DOPO L’IRRUZIONE DEGLI UOMINI DI DALLA CHIESA. Nella base l’arsenale della colonna genovese. Ecco l’arsenale sequestrato il 28 marzo del 1980 nella base brigatista di via Fracchia, scrive Andrea Ferro. L’elenco delle armi è tratto dagli atti al processo istruito contro la colonna genovese delle Brigate rosse. - due mitra Sterling cal. 9 para. matricola KR23161 e 21882 con complessivi 4 caricatori; - un fucile a ripetizione Franchi cal. 20; - una pistola Browning H.P. 35 cal. 9 para. matricola 71464-1 con due caricatori contenenti 23 cartucce; - una pistola Walter P. 38 cal. 9 para. con due caricatori contenenti 16 cartucce; - una pistola Beretta modello 81 calibro 7,65 matricola D-25204W con due caricatori contenenti 23 cartucce; - una pistola Beretta modello 70 calibro 7,65 con matricola punzonata; - una pistola Beretta calibro 7,65 para. matricola G-00257 priva di canna e caricatore; una canna per pistola cal. 7,65 para. senza matricola; - un castello per pistola Walther P. 38 matr. 9658-F; - due caricatori per pistola cal. 7,65; - due bombe a mano M.K.2.; - due bombe da fucile contro carro a carica cava mod. Strim-FM M 32 2A; - due bombe da fucile ad azione polivalente mod. Fren Rifle n. 103; - un tubo in plastica per il lancio di bombe; - due pani di esplosivo tipo SemtexH per kg. 4 circa; mt. 6,20 di miccia impermeabile; - dieci spezzoni di miccia detonante; cinque detonatori; - n. 665 cartucce cal. 9 para; n. 149 cartucce cal. 9; - n. 683 cartucce cal. 7,65; n. 75 cartucce cal. 7,65 para; - n. 140 cartucce cal. 7,62 Nato; - n. 32 cartucce cal. 357 magnum; - n. 145 cartucce cal. 22. Ma nel covo delle Brigate rosse non furono trovate solo armi. L’appartamento di via Fracchia è considerata la vera e propria base logistica e operativa della colonna genovese. Altrettanto lungo infatti è l’elenco dell’altro materiale sequestrato dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. In particolare nell’abitazione erano custodite 17 carte di identità in bianco risultate rubate nel gennaio del ’69 negli uffici comunali di Quarto Flegreo, in provincia di Napoli. L’elenco comprende anche 5 patenti di guida rubate un anno prima (in due tempi diversi) all’Ispettorato della Motorizzazione di Cremona e altre 7 sottratte negli uffici della Ripartizione generale della motorizzazione di Catanzaro (furto consumato nel febbraio del ’79). Nel covo i carabinieri sequestrarono un’altra trentina di documenti (carte di identità, patenti e passaporti) intestati a cittadini e rubati prevalentemente a Genova e provincia tra il ’77 e il ’79. I brigatisti erano pure in possesso del tesserino di una guardia di pubblica sicurezza intestato ad un agente regolarmente in servizio sottrattogli sul treno Napoli-Salerno e di una tessera del Circolo ufficiali del presidio di Genova rubata nel ’77. [Andrea Ferro].
Il 18 settembre 1980 fu sventato un attentato al sindaco Cerofolini. La geografia dei covi genovesi delle Brigate rosse è una serie di puntini sparsi sulla piantina della città. In questo articolo proviamo a ricostruire dove erano le basi della “colonna”. La ricostruzione è fondata su una ricerca di archivio e sulla lettura degli atti del processo avviato nell’aprile dell’81 nei confronti di una trentina di imputati, tra militanti regolari (cioè entrati in clandestinità), irregolari, fiancheggiatori di vario “spessore”. Per esigenze editoriali il materiale è stato analizzato in poche ore. Siamo consapevoli che si tratta di una “ricomposizione” forzatamente parziale della mappa delle Br.
IL BLITZ DI VIA PESCHIERA - Le foto che qui pubblichiamo si riferiscono alla cattura di due brigatisti avvenuta il 18 settembre del 1980 in via Peschiera,nei pressi della casa dell’allora sindaco Fulvio Cerofolini. In manette finirono due terroristi Secondo la Digos stavano per compiere un attentato. Un terzo uomo riuscì rocambolescamente a scappare. Fu successivamente identificato per Leonardo Bertulazzi. Dopo una lunga latitanza il br fu catturato dalla Digos genovese il 3 novembre di due anni fa a Buenos Aires (è stato successivamente rilasciato per motivi procedurali). Quella operazione consentì polizia e carabinieri di scoprire quattro basi brigatiste.
VIA ZELLA - Il covo era nell’abitazione della nonnina delle Br. Caterina Picasso aveva 73 anni quando i poliziotti della Digos fecero irruzione nella sua casa di via Zella 11/2, nel quartiere di Rivarolo. Era il 10 ottobre del 1980. L’anziana custodiva un autentico arsenale, secondo in ordine di importanza solo alla base di via Fracchia scoperta sei mesi e mezzo prima. Su tutte spicca la pistola CZ calibro 9 matr. 276754 con relativo caricatore: fu usata per uccidere Aldo Moro in via Montalcini la mattina del 9 maggio 1978. Queste le altre armi trovate a casa della “nonnina”. «Un mitra Sterling M.K. 4 cal 9 para, matr. KR- 27401, con cinque caricatori, moschetto Sterling 95, cal 8 matr. 9839- G/9586-M; la pistola Colt cal. 22 L.R. matr. 1092021, con relativo caricatore; una pistola Beretta mod. 35 cal. 7,65 con relativo caricatore e matr. punzonata; una pistola Beretta mod. 1915 cal. 7,65 priva di matr. e con relativo caricatore; una pistola lanciarazzi “Modern”; cinque caricatori per pistola di cui 4 cal. 7,65 e 1 cal. 9; la canna per la pistola cal. 7,65 matr. T-34121; n. 12 cartucce a salve cal.7,62 Nato, n.160 cartucce cal. 7,62 Nato, n. 26 cartucce cal 9; n. 30 cartucce cal. 38 Special; n. 138 cartucce cal. 9 para; n. 26 cartucce cal. 7,65 para; n. 10 cartucce cal. 38 Special; ; una bomba da fucile contro carro a carica cava mod.Strim-FN MM 32 2A:una bomba da fucile ad azione polivalente mod. Cren Rifle n. 103; due bombe da fucile di fabbricazione artigianale; gr. 400 circa “gelatina - dinamite”; un ordigno incendiario formato da una tanica contenente benzina e nafta con attaccato un contenitore con gr. 100 di clorato di potassio; 11 detonatori elettrici; 9 detonatori a miccia; 2 congegni per esplosione a telecomando; 60 accendimiccia; 2 bombolette di gas paralizzante».
VIA PALESTRO - Il covo era situato nell’appartamento situato al civico 19 interno 1. La base fu scoperta il 4 ottobre del 1980. Il locale fu definito dagli inquirenti “appartamento-laboratorio-magazzino. All’interno furono sequestrati «un mitra Sterling M.K.4. cal 9 para matr. KR.-29531 con due caricatori; una Browning cal. 7,65 abrasa con relativo caricatore n. 18 cartucce cal. 7,65; parti di pistola cal. 4,5 mod; Mondial - Oklaoma; canna e parte del carrello di pistoAgenti e carabinieri armati alla ricerca del terrorista sfuggito alla “trappola” di via Peschiera Documenti sequestrati nel box di via Montallegro Folla in via Peschiera: il blitz in diretta Un carabiniere mostra alcuni documenti rinvenuti nel covo di via Palestro.
APPARIZIONE - Il 28 settembre1980 in località Poggio agenti della Digos e carabinieri trovarono nei pressi di una casa colonica il mitra Beretta m. 12 cal. 9 para, matr. E-9730, sottratto a Vittorio Battaglini, il maresciallo dei carabinieri freddato il 21 novembre del ’79 al bar “Da Nino” di via G. B. Monti a Sampierdarena insieme al collega Mario Tosa. Oltre al mitra furono sequestrati una pistola monocolpo a due canne cal. 6 mm Flobert matr. 11334; n. 300 cartucce cal. 22; n. 15 cariche lancio per fucile mitragliatore F.A.L. cal 7,62 Nato; n. 100 cartucce cal. 6 Flobert; n. 1 tromboncino per F.A.L.. Alcuni ritagli di giornali trovati tra le armi indicarono che quel deposito era stato individuato da tempo.
VIA MONTALLEGRO - Più che un covo era un magazzino. Nel box di via Montallegro 8 i poliziotti fecero irruzione il 25 settembre sempre del 1980. Dentro trovarono: «un mitra M.A.B. cal. 9 para matr. KR-30010 con due caricatori; due caricatori per fucile mitragliatore F.A.L. la pistola Beretta mod. 81 cal. 7,65 matr. D-18349 munita di due caricatori e silenziatore, una pistola Franchi - Lama cal. 22 l.R; munita di caricatore con matricola punzonata; il revolver Arminius HW3 cal. 22 con matricola abrasa e sul tamburo matr. 4063; una canna per pistola cal. 7,65, cm 12 di miccia colore rosso; n. 13 cartucce cal. 9 corto; n. 42 cartucce cal. 9 para; n. 100 cartucce cal. 7,65 n. 36 cartucce cal. 22 LM.R.; una bomba a mano M.KI.2.; n. 15 detonatori elettrici; n. 13 detonatori ed un telecomando per brillamento».
SALITA SAN FRANCESCO DA PAOLA - Sempre negli stessi giorni in un’abitazione al numero 53/11 furono rinvenute una pistola lanciarazzi Mondial e n. 6 cartucce cal 6 mm Flobert; un pezzo di miccia; un caricatore per pistola con n. 6 cartucce cal. 9.
SAMPIERDARENA - In corso Martinetti, sempre intorno a metà ottobre, furono sequestrati 35 chili di esplosivo. Un autentico arsenale (non siamo in grado di indicare le armi che vi erano custodite) fu scoperto nei pressi del forte Crocetta, sulle alture di Sampierdarena.
NERVI, VIA CASOTTI - Fu una delle ultime operazioni condotte dai carabinieri contro i resti della colonna genovese. Risale infatti al 20 dicembre 1981. Il covo era in un magazzino al 142 rosso di via Casotti.All’interno furono trovati i “fascicoli” relativi ad alcune inchieste su nuovi obiettivi da colpire. Nel mirino c’erano un politico con incarichi nazionali e un economista.Il primo avrebbe dovuto essere ucciso, il secondo gambizzato. Andrea Ferro.
GRAZIANO MAZZARELLO DEPUTATO DIESSINO RICORDA GLI ANNI DI PIOMBO NELLA NOSTRA CITTÀ. «Facemmo un lavoro capillare per impedirne l’accesso in fabbrica», scrive Paolo De Totero. «In quell’epoca ero il responsabile delle fabbriche del ponente. Conoscevo bene Guido Rossa» Graziano Mazzarello, cinquant’anni, deputato diessino, un passato come consigliere regionale e come segretario della federazione comunista ricorda bene quel periodo, “gli anni di piombo a Genova”: il blitz di via Fracchia, la spietata esecuzione di Guido Rossa, il sindacalista dell’Italsider ucciso proprio da Riccardo Dura (il terrorista che trovò la morte un anno dopo proprio nel covo di Oregina). Mazzarello, allora operaio dell’Italcantieri, iscritto al Pci, nel 1980 era il responsabile delle fabbriche del ponente. «Ricordo - spiega il parlamentare diessino - che ebbi immediatamente la sensazione che qualcosa stesse cambiando. Come se si trattasse di una vera e propria svolta nella guerra che lo Stato stava combattendo contro la lotta armata dei brigatisti rossi. La consideravo anche una nostra vittoria perché in quel momento noi pensavamo che le “Bierre” fossero nemici della classe operaia. Tanto - confida Mazzarello - che fra noi e la polizia esisteva una sorta di collaborazione, seppure riservata». E il momento della consapevolezza piena e generale che i brigatisti non erano più “Compagni che sbagliano” ma come ricorda Mazzarello “Nemici della classe operaia” era stato proprio quello dell’uccisione di Guido Rossa. «Dopo quella efferata esecuzione - conferma il deputato dei Ds - ebbi la consapevolezza che la fase stesse cambiando. Insomma, che i brigatisti fossero nemici della classe operaia era diventato un assunto ben presente nella coscienza dei lavoratori e un’idea condivisa dalla generalità dei nostri iscritti e degli iscritti al sindacato». «Sotto questo aspetto a Genova - afferma ancora Mazzarello - c’era meno ambiguità nel tessuto operaio, rispetto ad altri centri industriali dell’Italia del Nord. C’era una maggior attenzione, una vera e propria partecipazione militante per impedire che qualcuno di loro potesse introdursi nelle fabbriche. Noi stessi avevamo una coscienza particolarmente sviluppata sotto questo punto di vista. A capo di tutto questo lavoro di vigilanza a livello nazionale c’era Ugo Pecchioli, una sorta di ministro dell’interno del Pci. E dopo Rossa, quando la polizia otteneva dei risultati, il successo era come se fosse stato anche nostro». Ma c’è ancora un luogo comune che Graziano Mazzarello intende sfatare ed è quello più volte ripetuto nel corso di ogni commemorazione, ossia che Guido Rossa fosse isolato. «Non è vero, io stesso lo conoscevo e ho lavorato insieme a lui. Probabilmente non si poteva supporre che i brigatisti potessero arrivare a tanto, che ci sarebbe stato un simile salto di qualità nella lotta armata». Paolo De Totero.
Una partita a scacchi iniziata, brandine e tanto disordine, scrive Andrea Ferro. Le ultime tracce che sanno di vita nella casa prima che si scateni l’orrore sono inquadrate alla luce dei flash dei carabinieri durante la “ricognizione” fotografica avvenuta nelle prime ore del mattino di quel maledetto 28 marzo di ventiquattro anni fa. Le foto che pubblichiamo nell’edizione di oggi sono le ultime immagini, inedite, in nostro possesso dopo quelle comparse sulle edizioni del “Corriere Mercantile” in edicola giovedì, venerdì e ieri. E con oggi si chiude la nostra rievocazione di quella pagina, tragica, discussa, molto probabilmente decisiva, della lotta ingaggiata dallo Stato contro le Brigate rosse che lo avevano attaccato al cuore, come recitava il proclama che rivendicò la prima strage: l’agguato contro il procuratore generale Francesco Coco, il brigadiere di polizia, Giovanni Saponara e l’appuntato dei carabinieri, Antioco Dejana compiuto dalle Br l’8 giugno del 1976.
L’ULTIMA CENA - In cucina si accede direttamente dall’ingresso. E’ un vano di pochi metri quadrati, il più piccolo. La foto è stata scattata all’altezza della porta, sul lato destro dell’ingresso rispetto al pianerottolo. Di fronte appare il lavabo. Si intravedono una padella, un “colapasta”, lasciati da lavare. A fianco il forno con pentole, una teglia, mestoli. Il tavolo è piccolo e quadrato con la mensola allungabile. Si vede la spalliera di una sedia, poi due sgabelli, uno rettangolare (basso), l’altro rotondo. I piatti sono tre, tutti fondi, uno per lato. Contengono i resti dell’ultima cena consumata nel covo. Si intravedono distintamente una caffettiera, un fiasco coperto da un cartone. La sensazione è di un pasto frugale. La cucina è l’unico vano all’interno del quale non si notano tracce della sparatoria. Nell’intervista pubblicata nella nostra edizione di ieri Michele Riccio, l’ufficiale dei carabinieri che guidò il blitz, racconta che dopo il conflitto a fuoco e la constatazione della morte dei quattro si fermò a lungo in cucina per eseguire l’ordine impartito telefonicamente dal suo capo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: compiere l’inventario del materiale che di volta in volta i suoi uomini trovavano negli altri vani della base di Oregina. Sempre secondo le dichiarazioni rese da Riccio al nostro giornale i brigatisti avrebbero cercato di manifestare segnali precisi che potessero indicare il numero degli occupanti dell’abitazione. Consapevoli delle tecniche investigative dell’avversario avrebbero infatti ridotto al minimo indispensabile i consumi di luce, gas e acqua. «Constatammo che i contatori erano quasi fermi», ha ricordato Riccio.
LA CAMERA DA LETTO - La foto è stata pubblicata già nella prima pagina di ieri. Ritrae la camera da letto. Il vano si allarga in fondo al corridoio. La prima sensazione è di un grande disordine. Evidentemente i carabinieri dopo aver percorso il corridoio sul quale giacevano i corpi dei quattro brigatisti si precipitarono armati in tutte le stanze alla ricerca di altre persone che nel frattempo avrebbero potuto nascondersi in ogni angolo della casa. Secondo la ricostruzione di Riccio il conflitto a fuoco avvenne praticamente al buio fatta eccezione del faro impugnato da uno dei suoi uomini. Dopo essersi assicurati che dentro la casa non c’era nessun altro i carabinieri iniziarono la perquisizione alla ricerca del “materiale”: armi, documenti, schede e tutto quanto potesse avere “valenza investigativa”. Su questo punto Dalla Chiesa si raccomandò già nella riunione avvenuta nelle ore precedenti il blitz (la sera del 27 marzo) negli uffici dell’Arma di via Ippolito d’Aste e alla quale il generale intervenne telefonicamente riferendo al tenente colonnello Nicolò Bozzo, suo braccio destro per il Nord Italia (lo ha raccontato ancora Riccio, il brano ieri è stato parzialmente omesso nella ricostruzione pubblicata ieri per ragioni di spazio).
UNA BRANDA E UN LETTO - La foto è scattata frontalmente, dal lato destro rispetto alla porta d’ingresso. I due lati del muro sono tappezzati con carta da parati che richiama una fantasia tipica dell’epoca. In primo piano c’è la rete matrimoniale sulla quale, evidentemente, dormivano due dei quattro occupanti dell’appartamento. L’altro letto è un mobile-branda reclinabile sul quale è rimboccata una coperta “scozzese”. C’è grande disordine sul pavimento accanto alla branda. Sulla mensola superiore ci sono una pistola e un sacchetto di cellophane all’interno del quale c’è un’altra arma. A occhio nudo il particolare non si nota. Lo abbiamo stabilito dopo l’ingrandimento al computer dell’immagine e la lettura degli atti processuali. I documenti si riferiscono al procedimento avviato un anno dopo nei confronti di una trentina di imputati finiti davanti ai giudici della Corte d’Assise perché indicati come i componenti della colonna genovese delle Brigate rosse.
IL TAVOLO - Il televisore è di colore bianco, con le antenne sollevate parallelamente; si intravede il filo. Sul tavolo le carte sono ammucchiate. Si evince che prima dello scatto qualcuno abbia rovistato, piuttosto freneticamente, tra il materiale. Presumibilmente sul tavolo erano custodite carte, documenti, schede, “atti” delle indagini condotte dai brigatisti su altri possibili obiettivi della lotta armata: da uccidere, da gambizzare. Si intravede la copertina di un libro sul quale è stampata una fotografia. Accanto c’è una targa automobilistica, primo modello, risultata rubata. Inizia con la sigla della città “GE”. Dagli atti processuali deduciamo che i numeri seguenti sono: 49909. La targa apparteneva ad una “Fiat 200-B/F 850”. I brigatisti erano in possesso anche della relativa carta di circolazione (nell’edizione di ieri abbiamo pubblicato l’inventario di tutti i documenti sequestrati nel covo).
LA VALIGETTA - E’ una cartella, presumibilmente di pelle. Sembra chiusa. A pochi centimetri c’è il piede di una sedia con il sedile e lo schienale imbottiti.
LA MENSOLA - Del mobile-branda pubblichiamo una seconda fotografia. Ritrae la mensola inferiore. In uno spazio ridottissimo c’è un po’ di tutto. Il particolare più “suggestivo” è costituito dal denaro. E’ una mazzetta da centomila alta almeno un centimetro. Le banconote sembrano uscite direttamente dalla zecca. Sono impilate alla perfezione. Una mazzetta appunto. Quasi sicuramente il denaro faceva parte del bottino di qualche rapina compiuta nei mesi precedenti dall’organizzazione e costituiva la “riserva di cassa” della base. All’interno del covo (da quanto possiamo stabilire) non fu sequestrato altro denaro.
LA SCACCHIERA - La mazzetta è sopra una scacchiera, i pezzi (bianchi e neri) sono ammucchiati verso la parete. Sotto la scacchiera si intravedono alcuni fascicoli. Sulla mensola sono appoggiati un vaso di vetro, un cappello (una coppola) e un paio d’occhiali da vista. Andrea Ferro.
IN UN LIBRO L’AUTORE RICOSTRUISCE LE CONSEGUENZE DEL BLITZ NEL COVO DI OREGINA. Bocca: «Si infiltrarono nelle fabbriche prima della fine» Così Giorgio Bocca ricostruisce le conseguenze politiche e militari del blitz di via Fracchia con l’uccisione dei quattro brigatisti nel libro “Noi terroristi, dodici anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti” edito da CDE e pubblicato nel gennaio del 1986. Il brano è tratto dal capitolo “BR genovesi, il mito della imprendibilità”. «La strage provoca un’“esplosione ritardata”. Decine di giovani sull’onda della emozione chiedono di entrare nelle Br e Lo Bianco, rimasto solo a guidarle, li accetta. «Ai primi arresti», dice Fenzi - «arrivarono in questura le madri, abbracci e baci con i ragazzini piangenti, l’invito materno subito accolto a vuotare il sacco e in pochi giorni finirono tutti in galera, le BR genovesi erano finite e finite per sempre. Ci fu anche un caso patetico dell’avvocato Arnaldi, per certi aspetti simile a quello di Feltrinelli, due che dovevano recuperare la loro resistenza mancata. Arnaldi si sentiva orfano di antifascismo e di rivoluzione, voleva fare il brigatista. Se incontrava uno di noi chiedeva ansioso: «Dici che mi apprezzano? Che mi stimano? Sembra incredibile, ma sperava che suo figlio studiasse da brigatista». Ebbene la certezza di essere scoperto quando seppe che Peci parlava. Pochi giorni prima, durante un colloquio con Micaletto, presente Peci gli aveva detto di essere entrato nella colonna genovese. Peci era lì a due passi, aveva certamente sentito. Era anche malato, gravemente, ma non voleva farsi operare perché aveva l’ossessione dei servizi segreti: «Quelli mi fanno parlare sotto anestesia», diceva. Ma aveva pochissimo da dire. Quando la polizia suonò alla porta di casa sua, sentì che era la fine e forse pensò che il suicidio avrebbe risolto tutti i suoi problemi. Chiese di andare nella toilette e si sparò. A mio avviso anche la sua scomparsa totale, irrimediabile nelle BR genovesi testimonia della loro genovesità. Il partito guerriglia, il cavalcamento di tutte le trasgressioni a Genova era impensabile: o si trovava un rapporto con le fabbriche oppure si chiudeva bottega. Per ironia della sorte le prime infiltrazioni brigatiste nelle fabbriche ebbero successo pochi giorni prima della fine, eravamo riusciti a portare a casa nostra tre o quattro sindacalisti veri, importanti. Che resta da dire? Che anche a Genova come a Milano, ci fu il rigetto della Balzarini, mandata da Moretti a reggere la colonna. Era, nel privato una donna bella e gentile, lei e Moretti si scambiavano piccoli doni, tenerezze. Ed era amica piacevole, colta. Ma come dirigente si trasformava in una capetta dogmatica, intrattabile», Ma questi sono i misteri della psicologia guerrigliera. Città dura Genova: la sua borghesia ha pagato senza recriminare dal rapimento Costa al ferimento dell’ingegner Sibilla, senza alzare pianti scomposti, senza uscire dal suo riserbo. C’è un doppio pudore comunista a Genova: quello della classe operaia e quello della genovesità. Di certe cose non si parla né fuori dalla classe né con i foresti.
NESSUN MISTERO DIETRO LA PUBBLICAZIONE DELLE IMMAGINI ESCLUSIVE. In quelle foto c’è la storia, scrive Mimmo Angeli. La rievocazione storica della strage di via Fracchia, con la pubblicazione delle foto inedite del blitz, ha suscitato una serie di commenti, illazioni, critiche. E’ bene chiarire subito che il collega Andrea Ferro ha semplicemente fatto - molto bene - il suo mestiere di cronista. Il nostro giornale ha svolto la sua funzione di informare. Quelle foto, indubbiamente crude, costituiscono una novità per i lettori e rappresentano un documento storico. Perchè vengono pubblicate dopo 24 anni? Semplice la risposta: perchè soltanto oggi chi le aveva cercate è riuscito ad averle. Niente dietrologia in questa vicenda, nessun scopo recondito, nessuna intenzione di sposare tesi precostituite in favore di nessuno. Lo testimoniano i servizi che hanno corredato le immagini. Chiunque fosse stato interpellato ha espresso, in piena libertà, il suo punto di vista sulla vicenda. La storia è ricca di “se” e “ma”, interpretazioni, giudizi, analisi. Non era certo nostra intenzione riaprire polemiche ma, semplicemente, integrare la ricostruzione fin qui nota di quella tragica notte. Non tutti hanno approvato la nostra scelta. Sono opinioni libere e come tali le rispettiamo. A noi però preme ribadire che, dietro quelle immagini, c’è soltanto il lavoro, la volontà, il desiderio del giornale di offrire ai propri lettori un documento di storia contemporanea. Mimmo Angeli
A UN SETTIMANALE Le fotografie “cedute” solo per beneficenza. Le immagini che abbiamo pubblicato nelle nostre ultime quattro edizioni costituiscono un eccezionale documento storico. Come abbiamo scritto più volte in questi giorni, le foto furono scattate dai carabinieri poche ore dopo il blitz. Materiale inedito, insomma. Di un valore storico ma anche “commerciale”. I diritti per la pubblicazione delle foto sono stati ceduti (esclusivamente per sette giorni) ad un noto settimanale nazionale che le pubblicherà nel numero in edicola venerdì prossimo. Ma nè l’autore di questo servizio, nè il giornale hanno mai pensato di trarne un vantaggio economico. Si è deciso di concedere i diritti esclusivamente in cambio di un’offerta, generosa, a favore delle attività assistenziali del Reparto di Chemioterapia dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna diretto dal professor Gaetano Bacci.
Brigate Rosse - La verità negata. Quindici domande di Valerio Lucarelli senza risposta. Solo una parte di quelle che la storia infinita delle Brigate Rosse ha seminato dietro di sé. Un abisso insostenibile per un paese che non avrà mai un futuro se non farà luce sul proprio passato. Nessuna affannosa dietrologia, solo la ricerca di una Verità chiara e definitiva. Ma la domanda che è urgente porsi oggi è una sola. Le Br sono state definitivamente debellate o per miracolo sapranno rigenerarsi? Azzardo una risposta: all'occorrenza.
Marco Pisetta, Silvano Girotto, Francesco Marra. Nei primi anni 70 le forze dell'ordine sono state in grado di infiltrarsi almeno tre volte nelle BR. Possibile che tale fenomeno non si sia più verificato di fronte a BR più vaste e sanguinarie? Perché Frate Mitra è stato bruciato subito anziché approfittare del ruolo che si stava ritagliando all'interno delle Brigate Rosse? Non le si voleva annientare del tutto?
Alla Cascina Spiotta, dove era imprigionato l'industriale Vallarino Gancia, Mara Cagol cadde in un conflitto a fuoco o bisogna credere all'autopsia che parlò di colpo sparato per uccidere?
Chi consegnò all'agente G.71 Antonino Arconte, alcuni giorni prima del sequestro di Moro, il plico diretto ai servizi segreti israeliani con la richiesta di aiuto per salvare lo statista democristiano?
Cosa conosceva Mino Pecorelli per fargli annunciare che il 15 Marzo 1978 sarebbe accaduto qualcosa di gravissimo in Italia? Era entrato in possesso del memoriale di Moro? Fu ucciso per le verità che minacciava di portare allo scoperto?
Perché Andreotti aveva l'auto blindata e l'analoga richiesta fatta da Oreste Leonardi, capo della scorta di Moro fu rifiutata?
L'istituto francese Hyperion era realmente una scuola di lingue o la stanza di compensazione di diversi servizi segreti?
Che fine hanno fatto le borse di Aldo Moro? Il leader democristiano le portava sempre con sé. Contenevano documenti compromettenti? Il memoriale scritto durante la prigionia era completo? Perché non fu mai trovata la copia originale?
Chi ha commissionato a Toni Chicchiarelli della Banda della Magliana il falso comunicato n°7 che annunciava la morte di Aldo Moro? Quale era il messaggio trasversale che voleva lanciare?
È lecito credere che personaggi dello spessore di Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò, in una tranquilla domenica trascorsa in famiglia, decidano di fare una seduta spiritica e che proprio in quella circostanza esca il nome di Gradoli? Da dove proveniva realmente quell'informazione?
Chi e perché ha voluto far scoprire il covo di Via Gradoli dove si nascondeva Mario Moretti? Possibile che Barbara Balzerani fosse distratta al punto da lasciare una scopa nella doccia causando un'infiltrazione (scusate il gioco di parole...) al piano inferiore? Perché si diede immediata evidenza della scoperta del covo consentendo a Moretti di svignarsela tranquillamente?
Mario Moretti: spia o puro rivoluzionario?
Cosa si nasconde dietro l'omicidio di Guido Rossa? È plausibile che Riccardo Dura non abbia rispettato il compito di gambizzare il sindacalista, inferocito per la denuncia che aveva portato all'arresto del postino Belardi?
A Via Fracchia ci fu uno scontro a fuoco come dichiarato ufficialmente dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa o venne eseguita la condanna a morte di quattro brigatisti fra cui lo stesso Dura?
Un'informativa redatta da un ufficiale dell'Arma, nome in codice Ciondolo, descriveva come imminente un attentato a Walter Tobagi, indicando persino l'area in cui quel delitto stava maturando. Perché venne tralasciata, di fatti condannando a morte il giornalista?
Perché fu revocata la scorta a Marco Biagi nonostante le continue minacce ricevute e una relazione dei servizi segreti, pubblicata da "Panorama", che lo identificava come un chiaro obiettivo delle BR? Cosa si stava per scoprire riguardo la mail di rivendicazione dell'omicidio?
MAI DIRE DEPISTAGGIO…
Alla scoperta del "Collettivo" che cerca la verità sul caso Moro. Emergono nuovi importanti elementi prima sfuggiti. Intervista a Franco Martines, membro del "Collettivo Sedicimarzo", che da alcuni anni indaga sul rapimento e uccisione di Aldo Moro. Le loro ricerche sono tutte pubblicate su un sito internet, scrive Michele Metta su "L’Antidiplomatico" il 26/01/2018. Ho avuto modo di conoscere una realtà che mi ha colpito in maniera estremamente favorevole. Sto parlando del Collettivo Sedicidimarzo, il quale, come intuibile dal nome, è un gruppo di individui che hanno deciso, nobilmente, di mettere a disposizione le proprie abilità, le proprie conoscenze, il proprio tempo, alla ricerca della verità sia sul rapimento di Aldo Moro, allo straziante costo dello sterminio della sua scorta, il 16 marzo del 1978, sia sulla uccisione di Moro, sopraggiunta il maggio successivo. Ho, qui con me, Franco Martines, che farà da portavoce del gruppo.
Franco, grazie per aver accettato questa intervista. Partirei proprio dal chiederti, per favore, come nasce il vostro gruppo, da chi è composto, e come mai avete deciso di darvi la struttura di Collettivo, forma che ha il sapore – lo dico in positivo – di altri tempi, dato che Collettivo era la maniera aggregativa della Sinistra degli anni Settanta.
«Michele, grazie a te. Be’, è stata, la nostra, una lunga gestazione. Ci incontrammo – il passato remoto è d’obbligo – ormai agli inizi del 2014, o forse alcuni mesi prima, sul forum del sito di Manlio Castronuovo, che prendeva il nome dall’omonimo suo libro, da noi tutti letto e apprezzato: vuotoaperdere.org. Abbiamo iniziato lì a porci domande e a cercare, reciprocamente, risposte. È venuta poi da sé, dopo un annetto, l’esigenza di avere uno “spazio” nostro e più privato, creando noi pure un sito web e, successivamente, pure una pagina Facebook, al nostro sito collegata. Venendo, invece, al chi siamo, rispondo che, accanto a me, ormai architetto e insegnante in pensione in quel di Tivoli, dato che sono del ’51 e, quindi, ahimè, il decano del gruppo, abbiamo: Alberto Gentilini, che è un ingegnere cinquantunenne di Cagliari; Andrea Guidi, che di anni ne ha 53, è di Roma, ma vive ad Imperia, dove fa il notaio; Domenico D’Avanzo, 49 anni, di Avella, dove esercita la professione di biologo; Francesco Velocci, poco più che trentenne, anche lui di Roma, ma che vive e fa il consulente di marketing in America, nel Missouri. Questo, insomma, è il nostro quintetto che, come hai giustamente sottolineato, ha voluto effettivamente richiamarsi, nel nome, alle strutture aggregative di quegli anni».
Sono rimasto davvero ammirato dalla qualità del vostro lavoro. Adottando il metodo della analisi meticolosa e puntuale della mole documentale accumulatasi negli anni sul Caso Moro, siete riusciti a scoprire elementi importantissimi, prima sfuggiti. Mi riferisco, ad esempio, a quanto avete messo in rilievo circa l’agente Di Leva presente in via Fani. Ce ne vuoi parlare?
«Sì, certo. Quella fu una ricerca iniziata appunto su Vuoto a Perdere, e poi proseguita e conclusa una volta creato il nostro Collettivo. In pratica, ci siamo accorti di parecchie stranezze ed incongruenze relative alle vicende di questo signore. Il che, ovviamente, non significava nulla di per sé, ma ci sembrava opportuno che venisse approfondita la sua posizione. In breve, ci siamo resi conto che lui, pur presente negli istanti dopo la strage, in 40 anni non era mai stato sentito da nessuno; e questo, malgrado il fatto che Imposimato, già nel ’78, interrogando altri, avesse chiesto di lui. Inoltre, il verbale firmato dal Di Leva, presentava una serie di inesattezze, come se il suo redattore non fosse stato realmente presente sui luoghi, ma lo avesse compilato basandosi su racconti altrui. Nei faldoni, abbiamo a quel punto rintracciato una seconda copia dello stesso verbale. Seconda copia con una firma palesemente diversa. A quel punto, approfondiamo, e ci accorgiamo pure che gli era stato attribuito un premio in denaro, per lo spirito di iniziativa dimostrato in via Fani appena un mese dopo i fatti. Una cosa, questa, che avrebbe dovuto, di norma, accendere i riflettori su Di Leva. E invece, niente: non un magistrato ebbe a convocarlo. Infine, ancor di più approfondendo, ecco capitare sotto i nostri occhi un trafiletto de La Stampa. Trafiletto da cui risultava che il Di Leva era stato arrestato nel 1980 per gravi atti contro la persona! Ovvio che, a quel punto, abbiamo ritenuto doveroso inviare un nostro documento riepilogativo e dettagliato di tali nostre scoperte all’on. Gero Grassi, affinché lo trasmettesse alla Commissione Moro. Dopo alcuni mesi dalla presentazione del nostro documento, ecco il Di Leva finalmente audito formalmente in Commissione. Audizione, a dire il vero, un po’ kafkiana, e dove il Di Leva fece a suo modo uno show, come chiunque si può rendere conto andando ad ascoltare l’audio di tale audizione, disponibile sul nostro sito. Audizione dove, comunque, tutto quanto avevamo ipotizzato deducendolo dalle carte, fu dal Di Leva confermato: il verbale, effettivamente, non l’aveva fatto lui; una delle due firme era falsa; era stato effettivamente arrestato. Comunque, sia 40 anni fa che adesso, ha testardamente mantenuto un punto che sembra inverosimile; sostiene di aver visto al suo arrivo l’ultima auto dei brigatisti in fuga ma, come dicevo, la cosa è inverosimile! A meno che, ma risulta un po’ difficile come ipotesi, non sia errato, viceversa, tutto il quadro testimoniale altrui! Resta la curiosità di capire, ma la Commissione, purtroppo, non glielo ha chiesto, come mai Imposimato, che aveva mostrato intenzione di convocare il Di Leva, alla fine non l’abbia più convocato. Data la recente morte di Imposimato, è qualcosa che non sapremo più».
Eccellente lavoro, il vostro, anche sulle incongruenze circa il proiettile che fora il parabrezza dell’auto su cui viaggiava Moro al momento del suo sequestro. Che anomalie avete riscontrato?
«Sì. Anche qui abbiamo fatto una segnalazione e, per la verità, ci auguriamo prima o poi giunga, direttamente o indirettamente, una risposta al quesito. In pratica, la Polizia Scientifica di oggi ha fatto una nuova ricostruzione della dinamica, ipotizzando che il tiro sia iniziato con la 130 ancora in movimento, perché la traiettoria del foro sul parabrezza – così come da loro ipotizzata sulla base di un impatto rilevato all’interno – non era compatibile, a differenza degli altri colpi, con la posizione dell’auto nella fase di arresto in cui fu ritrovata. Bene, c’è però un piccolo problema: andando a rileggere i rilievi della Polizia Scientifica dell’epoca, si scopre che, in base alle caratteristiche dell’impatto sul vetro – tieni presente che nella faccia di fuoriuscita i margini sono sempre slabbrati, in quella di entrata sono sempre più netti – si valutò, all’epoca, che il proiettile fosse penetrato dall’interno del parabrezza e uscito dalla faccia esterna. Insomma: in verso opposto a quello ipotizzato oggi. Solo che, se si rivelasse esatta la versione del 1978, questo significa inevitabilmente che non è più dimostrato che l’auto, all’inizio della sparatoria, fosse ancora in movimento! E allora? Chi ha ragione e chi ha sbagliato? Non vorremmo, visto che la Scientifica di oggi non fa cenno alla vecchia Relazione, che si sia dato oggi frettolosamente per scontato, senza andare ad esaminare le caratteristiche del foro sul parabrezza, che anche quel colpo, come tutti gli altri, fosse di entrata. Intendiamoci: non voglio certo dire che qualcuno all’interno della 130 abbia esploso un colpo verso il parabrezza; si tratterebbe ovviamente di un colpo sempre esploso dall’esterno a destra dell’auto, direzione obliqua, e però con verso dietro-avanti, che penetra nell’abitacolo e impatta il parabrezza dall’interno, uscendone. Certo potrebbe pure essere tutto originato da un refuso di chi batté a macchina la relazione e poi sfuggito alla revisione. Però, onestamente, le foto che abbiamo a disposizione sembrerebbero confermare quanto fu detto nella relazione del ’78, e solo un esame diretto da parte di un esperto, di un Perito, potrebbe risolvere la questione».
C’è poi la storia della targa della famosa Renault rossa.
«È una delle tantissime stranezze del Caso Moro. La targa applicata sulla R4 rossa, corrispondeva a quella di un’auto di una Società con sede a Roma, la ATI, che ne trasferì la proprietà ad una di Napoli. Poiché, all’epoca, le targhe riportavano la sigla della provincia di residenza del proprietario, l’auto fu obbligatoriamente ritargata. La stranezza è, quindi, che quella targa originaria, in realtà, doveva essere distrutta. E allora, ci siamo domandati, e abbiamo domandato, se la targa ritrovata sulla R4 in via Caetani fosse semplicemente contraffatta, o se si trattasse proprio di quella targa che – ipotesi ancora più inquietante – invece che distrutta, sarebbe finita, non si sa come, in mano ai brigatisti. Tra i documenti pubblicati da noi, c’è la dichiarazione dell’impiegato della Motorizzazione di Napoli. Ricordo, per la cronaca, che la targa che si vede oggi nelle foto recenti, è un fac-simile. Quella a suo tempo rinvenuta sull’auto, dovrebbe essere archiviata da qualche parte come corpo di reato».
Nelle maglie della vostra acuta investigazione, è incappata anche la palazzina al civico 117 di via Stresa.
«Certo. Lì, lo stimolo che ci ha mossi è stato l’ascolto dell’audizione, presso la Commissione d’Inchiesta, del Generale Inzerilli. Audizione nella quale Grassi gli faceva presente, desumendolo da elenchi del telefono degli anni ’70, che il colonnello Guglielmi aveva abitato nella famosa palazzina a 150 metri dall’incrocio maledetto. Dato che tutta la palazzina era abitata da alti gradi militari e dei Servizi, e non risultava accatastata, siamo andati alla ricerca di qualche ulteriore riscontro. E allora, come abbiamo documentato in un articolo sul sito, le nostre ricerche ci hanno fatto imbattere in una conferma importante. Sono due lettere, pubblicate dalla rivista Demanio Militare. Lettere da cui si evince che effettivamente quella palazzina era del Demanio Militare, e che era, e forse è tutt’ora, uso dello stesso Demanio non accatastare le sue proprietà. A quel punto, abbiamo pure noi messo sul nostro sito tali lettere. Inoltre, grazie alla cortesia dello storico Giacomo Pacini, che nuovamente ringrazio, abbiamo anche messo in rete un documento che dimostra che Guglielmi era un habitué dei Servizi fin dai tempi del SIFAR, e poi ufficialmente in pausa dal ’74 fino a riprendere questa attività giusto nel giugno o luglio 1978. Certo: ci sarà chi obietta che sono solo coincidenze, ma quando, in una vicenda, di cosiddette coincidenze se ne accumulano così tante, forse dovremmo smetterla di chiamarle coincidenze».
Tornando agli spari in via Fani, avete svolto una controanalisi sui bossoli. Ce la puoi descrivere?
«Difficile sintetizzare in poche parole. Ci provo. Il Perito dell’epoca non riuscì – lungo adesso spiegare perché – ad accoppiare tutti i 93 bossoli che furono rinvenuti con la loro posizione a terra. Ben 10 rimasero senza localizzazione precisa, con un riferimento generico: cad. La Polizia Scientifica di oggi, nella sua relazione alla Commissione, non ha fatto progressi in questo, perpetuando, quindi, queste indeterminatezze e, soprattutto, incorrendo in quelli che, a noi, sembrano evidenti errori di attribuzione dei bossoli alle armi. Quel che occorreva fare, invece, era confrontare con la dovuta pazienza le foto di ogni singolo bossolo con la corrispondente descrizione fatta nella relazione dei rilievi tecnici del 16 marzo 1978. Noi, questa pazienza l’abbiamo avuta, e abbiamo costruito una nuova piantina, con la distribuzione dei bossoli a terra, e distinguendoli per colore in base alle armi attribuite. Un lavoro che ha permesso l’emergere, appunto, di alcuni dati molto diversi da quelli viziati dagli errori accumulatisi in tutti questi anni. In particolare, sulla pistola Smith&Wesson. Tale arma, nella distribuzione e attribuzione da noi compiuta, sembra proprio suggerire una dinamica più complessa, con almeno un quinto sparatore in contemporanea ai quattro noti e riconosciuti. Anzi, lasciami sinceramente dire che, in base a quanto abbiamo determinato, viene da pensare che alcuni degli inceppamenti di armi raccontati dai Bierre siano in realtà serviti ad occultare la presenza di uno o più sparatori aggiuntivi, che agirono in contemporanea agli altri. Anche perché quegli asseriti problemi alle loro armi stonano non poco con la fin troppo incredibile fortuna che, secondo quanto da loro stessi affermato, avevano avuto fino a quel momento. Infatti – così dicono loro – ad incepparsi sarebbero state tutte, e sottolineo tutte, le loro machine-pistole! Ma torniamo alla Smith&Wesson: approfondendo il nostro lavoro, ci siamo a quel punto accorti che, chissà perché, c’erano due bossoli di tale arma che, dalla Polizia Scientifica del 2015, erano stati tagliati fuori dalla scena. Ci mettiamo allora a ricontare e riverificare e, con un po’ di sconcerto, scopriamo che, comunque, di bossoli ne erano stati raffigurati 93: il numero giusto, insomma. Come poteva essere? La spiegazione è che erano stati raffigurati e conteggiati tra i bossoli due reperti ben diversi: un proiettile e un frammento di proiettile in vicinanza dell’Alfetta!»
Più in generale, avete smontato alcune perizie scientifiche riguardanti la balistica di via Fani.
«Oddio, “smontato” è una parola grossa, davvero grossa. Diciamo che abbiamo notato e rilevato delle criticità mai emerse prima. Quanto debbano pesare queste criticità nell’economia generale delle valutazioni conclusive nelle Perizie balistiche che si succedettero negli anni a partire dal ’78, lo dovrebbero dire altri. Ed infatti, proprio per questo, le avevamo segnalate alla Commissione, sinceramente sperando che venissero valutate. Speranza che si è rivelata errata, perché, invece, il nostro lavoro, per quanto ci è stato dato di capire, non è stato esaminato. Come mai? Forse, una sottovalutazione di quel che avevamo ricostruito? Sinceramente, non lo so. So, però, che avevamo elencato – sempre dando tutti i riferimenti – una serie di incongruenze interne alle singole Relazioni peritali sui proiettili, perché di incongruenze dobbiamo parlare se in un punto si affermava una cosa, e successivamente un’altra. Incongruenze interne cui si somma pure una serie di incongruenze esterne, e cioè tra una Perizia e l’altra. Per tacere del fatto che, dall’analisi comparativa delle varie Perizie, tra l’altro emesse nell’arco di ben una quindicina d’anni, ci sono, da un lato, alcuni reperti che scompaiono e, dall’altro, nuovi che compaiono all’improvviso!»
Cosa puoi dirmi del singolare tamponamento avvenuto il giorno prima del rapimento di Moro?
«Già. Singolare anche quello, in effetti; tanto per cambiare. Guarda, noi siamo andati direttamente alle fonti; vale a dire: gli incartamenti della prima Commissione Moro e, via via che venivano pubblicati da Gero Grassi, quelli della seconda. E abbiamo sgranato gli occhi quando, scorrendo uno dei 130 volumi della prima Commissione, ci siamo imbattuti in un verbale, riguardante il giorno 15, che descriveva – fatto per noi del tutto nuovo – una dinamica pressoché identica a quella che si sarebbe verificata il giorno dopo. Infatti, verso mezzogiorno del 15 marzo, dalle parti di piazza Galeno, un’auto davanti alla 130, condotta quella mattina da Otello Riccioni, fa una manovra maldestra, costringendo la 130 a inchiodare. Ma l’autista dell’Alfetta di scorta viene colto di sorpresa, e va a tamponare la 130. L’Alfetta, che fra le due auto aveva avuto la peggio, verrà poi sostituita durante la pausa per il pranzo e, infatti, nella seconda parte della giornata, farà servizio quella che il giorno dopo verrà crivellata. Tra l’altro, nella seconda parte della giornata del 15, la 130 la guiderà il Ricci carabiniere perito il giorno dopo, durante il sequestro di Moro, come attestato dal figlio Giovanni Ricci. Preciso, per completezza, che, probabilmente, quel giorno – sempre il 15, dico – ci fu uno scambio di mezzo turno, per una cortesia di uno all’altro, come avviene in tutti gli ambienti di lavoro. Concludo dicendo che non si può tacere che, proprio perché si tratta di un episodio singolare, è ancora più singolare che Riccioni, interrogato pochi mesi dopo sul punto – la vedova di Moro lo aveva in precedenza raccontato in dibattimento – , neghi che sia avvenuto, ricordandosi solo di un altro tamponamento, di anni prima, e in tutt’altra zona della città».
E circa la vicenda della 132 blu?
«La 132 è stata oggetto di un recente nostro articolo, cui ne seguirà un altro, entrambi riguardanti complessivamente il nodo di via Licinio Calvo. La parte già pubblicata, riguarda principalmente la fase del suo ritrovamento, a tempo di record, da parte della pattuglia Squalo4. Anche qui ci sono stranezze. Come si può vedere andando a leggere l’articolo, già alle 9:05 viene diramato l’invito a ricercare l’auto 132 blu, con l’esatta indicazione della targa. Chi fornì quest’indicazione? Non si sa. Nessuno dei testimoni verbalizzati l’ha mai detto. Per certo, tra tali testimoni ce n’è uno il cui nome mette un brivido, dato che si tratta del notissimo fascista Pino Rauti. Rauti racconta d’aver visto l’auto dall’alto, stando su un balcone a via Stresa. Posizione dalla quale afferma di essere pure riuscito a prendere la targa. Presa la targa, chiama. Solo che la sua telefonata risulta essere di 10 minuti dopo: delle 9:15. Dunque, probabilmente, esiste in realtà un testimone mai verbalizzato, di cui però non c’è traccia nelle comunicazioni delle autopattuglie giunte sul posto, e in quelle della sala operativa. Bene, andiamo avanti. Nel frattempo, uditi i primi drammatici appelli, la pattuglia Squalo4 si dirige verso il luogo indicato dalla Sala Operativa, e cioè via Fani, ma giunta nei pressi di tale strada, apprende, anche qui non si sa e non si saprà mai da chi, che la 132 con uomini incappucciati a bordo era stata vista dirigersi verso la Balduina. E come faceva mai un eventuale informatore nei pressi di via Fani a poter dire che la 132 si dirigeva verso la Balduina? Semplicemente, non avrebbe potuto. Guardando la piantina della zona, che abbiamo inserito nell’articolo, ci si può rendere conto sia di questo che di altro, sempre supportato da stralci dei documenti. Vicenda che si conclude come segue: la Squalo4 trova l’auto, alle 9:23, nella poi famosa via Licinio Calvo, e chiama a sua volta la pattuglia Digos4. Tale pattuglia prende il comando delle operazioni, chiama la Scientifica per i rilievi, redige un verbale che, omettendo di dire di essere stati lì chiamati dai colleghi, fa intendere che siano stati proprio loro a trovare l’auto. E infatti, saranno i componenti della Digos4 ad essere convocati in Tribunale nei Processi, mentre i 4 componenti l’equipaggio Squalo4 scompariranno definitivamente dalla scena. E non gli si poté chiedere, ammesso che qualcuno oltre noi ne avesse maturato la “curiosità”, chi e come li avesse informati e come fecero a trovare l’auto 132 in così breve tempo».
In sintesi, credo di poter affermare che il vostro, oltre ad essere un lavoro encomiabile, è altrettanto un lavoro che sopperisce a quanto, di norma, avrebbero dovuto svolgere già da tempo le Istituzioni. Concluderei la nostra intervista chiedendoti, per favore, della tua visita al box di via Montalcini. Cosa è accaduto?
«Le cose andarono così. Ero in contatto con una giovane avvocato: Benedetta Piola Caselli, che all’epoca attraversava un momento di forte interesse per il Caso Moro. Mi comunicò che sarebbe andata a dare un’occhiata alla palazzina di via Montalcini insieme ad altre persone, e ci invitò ad unirci; essendo l’unico vicinissimo a Roma, potei andarci solo io, pensando che potesse essere comunque interessante guardare, oltre che la palazzina, i luoghi circostanti. Alle volte, in un certo senso, i luoghi ci parlano. Avevo però sottovalutato le capacità di Benedetta, che riuscì ad un certo punto, andando appresso ad un fattorino, ad entrare, accedere al garage e, a quel punto, fare entrare anche noi altri. Mentre ci aggiravamo nella penombra, ecco la bascula del garage aprirsi. Qualcuno era arrivato per parcheggiare. Inutile dire che ho davvero temuto che quel qualcuno ci avrebbe cacciati, e anche in malo modo. E invece, Benedetta, dimostrando una volta di più la sua bravura, avvicinati i due signori che occupavano l’auto appena entrata, riuscì a conquistarne la disponibilità in pochi secondi. Non solo: scoprimmo pure di avere avuto un colpo di fortuna clamoroso, perché i due si rivelarono essere addirittura i proprietari proprio del box in questione! È così che, con nostra grandissima emozione, siamo riusciti a entrare, guardare, fotografare, e capire, sia pure ad occhio, che qualcosa nelle dimensioni non tornava. Quando, mesi dopo, pure la Commissione parlamentare fece il suo sopralluogo, con foto, misurazioni, simulazioni con una R4 identica, prove di sparo e prove audiometriche connesse, e dopo che il RIS presentò le sue risultanze provvisorie, notammo, proprio nelle foto allegate, un dettaglio perfino più ragguardevole. Oltre alle foto fatte dalla Commissione, la stessa aveva infatti accluso pure quelle fatte dalla Polizia negli anni ’80. È stato così che ci siamo accorti che, in passato, il box era, con tutta evidenza, ancora un po’ più corto di oggi».
L'ENIGMA DI VIA MONTALCINI 8. Qualcuno dirà: "Ci sono dei rei confessi che hanno dichiarato di aver tenuto segregato Moro in quell'appartamento in via Camillo Montalcini 8 all'interno 1 e di averlo ucciso nel box di pertinenza. Perché parlare di un enigma?". Scrive giovedì 11 gennaio 2018 "Sedicidimarzo.org". Dubbi su questa questione, in realtà, ne sono stati sollevati tanti già in passato ma, a prescindere dalle perizie autoptiche che contrastano con l'asserzione di un Moro ristretto in una angusta intercapedine per due mesi, vogliamo soffermarci, attraverso la consueta analisi delle carte, sulla genesi dell'attribuzione della qualità di "prigione di Moro" a quell'appartamento. In breve i fatti salienti:
1) L'appartamento e la sua proprietaria (ma anche su questo termine ci sarebbe qualcosa da ridire) furono "sotto osservazione" dell'UCIGOS già nell'estate del 1978. Un'osservazione nemmeno troppo discreta ma al tempo stesso "distratta" se è vero, come è vero, che la Braghetti se ne accorse e tuttavia potè anche vendere l'appartamento e traslocare tranquillamente nel giro di alcuni mesi.
2) Di questa "osservazione" non fu riferito alla Magistratura per due anni e anche dopo la notizia rimase molto circoscritta.
3) Della ubicazione della prigione in via Montalcini si inizierà a parlare solo nell' '82 in base ad indizi derivati dalle confessioni di Savasta. E comunque solo a dieci anni dai fatti la cosa prenderà corpo.
4) Che una abitante del condominio abbia detto di aver visto in quel box proprio una R4 rossa è, come vedrete, un falso mediaticamente diffuso e basato sulla forzatura di quanto realmente affermato dalla testimone, quasi per confermare a quell'appartamento la "qualità" di vera prigione di Moro. Ma lasciamo spazio appunto a questo primo articolo-inchiesta sulla questione.
NEI MEANDRI DELLA PRESUNTA “PRIGIONE DEL POPOLO” (A cura di: Andrea Guidi). Tra l'estate e l'ottobre del 1978, L'Ucigos (acronimo di Ufficio Centrale Investigazioni Generali e Operazioni Speciali, sintetizzando, l'"Ufficio politico" della Polizia) di Roma svolse continuate indagini sull'appartamento situato in Via Montalcini 8, interno 1, che poi solo in seguito si rileverà essere stato, stando alla verità "ufficiale" stabilita in sede giudiziaria e raccontata dagli ex brigatisti, l'unica "prigione" di Aldo Moro. Quelle indagini, rimaste ignote alla Magistratura fino al 1980 cioè subito dopo l'arresto della Braghetti avvenuto alla fine di maggio, avevano riguardato tanto l'appartamento che i suoi occupanti, in particolare la formale proprietaria, Anna Laura Braghetti (all'epoca non ancora "clandestina" e il cui nome sarebbe stato appunto per questo utilizzabile), e colui che risultò apparire quale convivente di costei, quel "Luigi Altobelli" risultato in realtà di falsa e sconosciuta identità, finchè nella prima metà degli anni '90, come noto, venne ufficialmente identificato in Germano Maccari. Ma se fino al 1980 quelle indagini erano rimaste ignote, va detto che addirittura l'intera ricostruzione della vicenda, dalla segnalazione che originò quelle indagini agli sviluppi poi presi, verrà disvelata e ricostruita, come si vedrà tra breve, solo a partire dal maggio 1988. Si verrà così a sapere che le indagini dell'Ucigos a carico della Braghetti e dell'appartamento di Via Montalcini 8 erano iniziate a seguito di una segnalazione fatta pervenire, a quanto sembra in un periodo variabile tra due settimane e un mese dopo l'omicidio dell'On. Moro, da due condomini dell'edificio di Via Montalcini all'avvocato Martignetti, loro cognato. I due condomini, coniugi Piazza-Ciccotti, stando alle loro stesse parole, che essi peraltro difenderanno e ribadiranno sempre pervicacemente nel corso degli anni in ogni sede processuale, avevano riferito all'Avv. Martignetti un insieme di generici sospetti già maturati sulla coppia di inquilini dell'appartamento interno 1 (la Braghetti e il suo convivente) in ragione di una serie di "stranezze" o presunte tali riscontrate negli atteggiamenti della coppia; nel corso degli sviluppi successivi e a seguito delle varie deposizioni nel corso del 1988, e successivamente in dibattimento nel 1993, era altresì emerso che, in virtù di un processo mentale ovviamente fatto a posteriori, cioè dopo il ritrovamento dell'On. Moro in Via Caetani, la signora Ciccotti aveva collegato ai precedenti sospetti generici già maturati da ben prima, e solo quale ulteriore elemento di sospetto, la circostanza di avere notato, la mattina presto di un giorno collocabile tra una settimana e poco prima del 9 maggio (data dell'omicidio di Aldo Moro), mentre era intenta a prendere la propria auto, la parte anteriore di un'auto rossa nel garage della Braghetti. Fermo restando il fatto quindi, stando alle costanti e convinte deposizioni dei coniugi in ogni sede in cui essi vennero ascoltati, della marginalità, rispetto ai sospetti già maturati, e nella stessa segnalazione fatta a Martignetti, dell'osservazione da parte della signora della porzione anteriore dell'auto, va comunque rilevato che quest'auto venne sempre indicata, dai testi e specialmente dalla signora Ciccotti, solo quale una generica auto rossa, dunque, e non già una specifica "Renault rossa", cioè il tipo di auto- o la stessa auto- nella quale la mattina del 9 maggio venne ritrovato il corpo dell'On. Moro in Via Caetani. A quanto pare, invece, nei successivi passaggi di questa segnalazione verso gli organi competenti, il contenuto centrale dell'informazione divenne, non si sa come né perché, non solo proprio l'auto, ma soprattutto proprio una "Renault rossa". La sintesi dei successivi passaggi della trasmissione della segnalazione è la seguente: per la precisione, L'Avv. Martignetti trasmise la segnalazione ricevuta dai cognati all'On. Gaspari, che abitava nello stesso palazzo dove egli aveva il proprio studio legale. L'On. Gaspari aveva poi informato immediatamente l'allora ministro dell'Interno, On. Virginio Rognoni, subentrato all'inizio di giugno di quell'anno al posto del predecessore Cossiga, dimessosi il giorno dopo l'omicidio di Moro. Il ministro Rognoni aveva quindi riferito a sua volta di quella segnalazione al suo capo di Gabinetto, Prefetto Coronas, il quale attivò a cascata i dirigenti operativi dell'Ucigos, Noce e De Francisci, per avviare le indagini sui luoghi cui quella segnalazione faceva riferimento. Quelle indagini, conclusesi senza nessun esito concreto e con il tranquillo trasloco della Braghetti dall'appartamento il 4 ottobre 1978, rimarranno come detto ignote alla magistratura e all'opinione pubblica per circa due anni. Fu infatti solo a seguito dell'arresto della terrorista, avvenuto a Roma a fine maggio del 1980, e di alcune bene informate indiscrezioni di stampa subito apparse, che emerse con certezza ed adeguato risalto pubblico, nel giugno 1980, il fatto che la terrorista fosse proprietaria, all'epoca del sequestro e dell'omicidio dell'On. Aldo Moro, dell'appartamento in Via Montalcini. Incuriositi da questa vicenda e del perché la Braghetti non fosse stata arrestata subito, prima del suo trasloco, in quella fine estate del 1978, abbiamo affrontato lo studio delle fonti di libera consultazione disponibili (non solo il testo dell'On. Flamigni "Il covo di Stato e la prigione fantasma", ed. Kaos, 2016; ma soprattutto l'archivio pubblico dell'On. Gero Grassi, disponibile sul sito gerograssi.it, e il materiale disponibile sui volumi della prima Commissione parlamentare di inchiesta. Nel corso dello studio, ricostruiti sistematicamente tutti i documenti rinvenuti (appunti degli uffici di Polizia, deposizioni varie, passaggi di alcune sentenze, ecc.), abbiamo maturato forti dubbi sulla storia di quelle indagini e sul loro esito totalmente inconcludente. Nonostante l'avallo giudiziario recato all'operato degli organi di Polizia e segnatamente dell'Ucigos dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore del 1990 nel corso del così detto processo "Moro Quater", la vicenda delle indagini compiute da questo organo di Polizia nell'estate 1978 senza alcun esito immediato e soprattutto senza alcun intervento in danno della Braghetti, costituisce un aspetto fondamentale nella complessiva vicenda del covo di Via Montalcini, e la questione della ragionevolezza o meno del comportamento inerte dell'Ucigos e delle giustificazioni addotte per la mancata adozione di una qualche alcuna azione concreta è una questione a nostro avviso ancora aperta ed è un grosso punto debole della versione ufficiale cristallizzatasi sulla vicenda. La mancata adozione di interventi immediati e concreti a carico della Braghetti, quali il suo arresto e l'irruzione tempestiva nell'appartamento prima che costei traslocasse in tutta tranquillità (irruzione che pure era stata riservatamente preannunciata, come si vedrà, agli altri condomini dell'edificio proprio pochissimi giorni prima che la Braghetti poi traslocasse), è riassumibile, sintetizzando gli elementi desumibili dalle fonti, con l'affermazione reiterata dalle varie strutture di polizia (dai funzionari dell'Ucigos fino al Ministro dell'Interno) della supposta carenza di sufficienti elementi di sospetto, in quanto nel corso di quelle indagini nulla sarebbe emerso a carico della Braghetti e del suo convivente, l'evanescente “Ing. Altobelli”. A nostro parere invece i fondati elementi di sospetto non solo esistevano, ma furono persino espressamente manifestati dagli stessi agenti dell'Ucigos agli altri condomini dello stabile, nel corso della riunione tenuta con alcuni di essi in casa dei coniugi Manfredi-De Seta intorno alla fine del settembre 1978. In esito al nostro studio, infatti, ci pare di poter concludere che emerga invece con sufficiente chiarezza che la tesi sostenuta dalle Autorità e dagli organi di Polizia a giustificazione del proprio operato, alla fine delle indagini inerte, si impernia sostanzialmente su vari elementi, dei quali quello a nostro giudizio divenuto il principale e per certi versi il più ambiguo, è proprio la circostanza già accennata della apparente mutazione dell'oggetto principale della segnalazione originaria non solo nella supposta presenza di una certa auto, ma, ancor più, nel salto qualitativo da una generica "auto rossa" alla specifica "Renault rossa". Infatti da un certo punto in poi nella rendicontazione degli esiti delle indagini partite dalla trasmissione della segnalazione, si assiste alla reiterazione dell'affermazione, da parte delle autorità di Polizia, del fatto che nulla fosse emerso, durante gli accertamenti in Via Montalcini, in merito alla presenza nei luoghi di una “Renault rossa”, che finirà addirittura per essere qualificata, in un successivo documento prodotto, come si vedrà, dalle autorità stesse nel febbraio 1982 alla prima Commissione parlamentare di inchiesta, come “l'oggetto principale della segnalazione” ricevuta a suo tempo. Come se, in sostanza, divenuto addirittura "oggetto principale della segnalazione", nella trasmissione di mano in mano dell'informativa, proprio una "Renault rossa", ma non avendo evidentemente avuto riscontro dai condomini di Via Montalcini in merito alla presenza o meno di un'auto del genere sui luoghi, per gli agenti dell'Ucigos dovette finire con l'essere del tutto consequenziale non rilevare alcun elemento di sospetto sulla Braghetti e sul suo convivente misterioso. Cosa che avrebbe dunque giustificato la mancanza di qualunque intervento tempestivo degli agenti nei confronti della Braghetti e di quell'appartamento. Come accennato, infatti, è' in sostanza solo nel maggio 1988 che, a seguito del rinnovato interesse suscitato sul “caso Moro” dalla pubblicazione del libro-inchiesta del Sen. Sergio Flamigni della prima edizione del “La tela del ragno”(Edizioni Associate) in occasione del decennale dei tragici fatti – testo fondamentale per l'indubbio merito di avere riportato ad una generale e da allora mai scemata attenzione l'analisi e lo studio dell'intera vicenda- emersero con compiutezza la cronistoria della segnalazione e degli altri fatti in questione, e i nominativi di alcuni dei protagonisti di questo specifico aspetto della vicenda, primi tra tutti i coniugi Piazza- Ciccotti come autori dell'originaria segnalazione, l'avv. Martignetti, l'On. Gaspari, quest'ultimo quale tramite tra gli originari segnalanti e il Ministro Rognoni, il quale nella sua veste istituzionale conferì l'impulso decisivo per la trasmissione dell'ordine esecutivo, tramite il prefetto Coronas, ai dirigenti dell'Ucigos, per l'attivazione delle indagini effettuate nel 1978. La pur complessa articolazione dei fatti può, in sintesi, riassumersi nei termini seguenti. Ai primi di maggio di quel 1988, il Sen. Sergio Flamigni nel citato suo primo libro-inchiesta sulla vicenda appena edito, tra l'altro chiedeva: "Perchè il ministro Rognoni non ha mai riferito il nome dell'uomo politico del suo partito che poco dopo l'uccisione di Moro fece la segnalazione sulla Renault rossa vista a casa della Braghetti (in Via Montalcini 8), del tutto simile a quella su cui si trovava il cadavere (di Moro) in via Caetani?" (per il testo riportato, cfr. S. Flamigni, "Il covo di Stato e la prigione fantasma", ed. Kaos, 2016, pagg 289-290). In esito ad alcune dichiarazioni rilasciate dal ministro Rognoni al quotidiano "Il Manifesto" a commento del libro di Flamigni appena pubblicato, che lo tirava in ballo per la vicenda delle indagini del 1978, nelle quali il ministro confermava ai giornalisti la veridicità delle affermazioni contenute nel libro circa il suo ruolo avuto nell'attivazione delle indagini nel 1978, ma rifiutandosi tuttavia di fare il nome del suo collega di partito che gli aveva trasmesso una certa segnalazione su Via Montalcini, il 13 maggio 1988 il ministro stesso deponeva spontaneamente innanzi al magistrato titolare in quel momento dell'inchiesta, raccontando la propria versione della sequenza dei fatti e facendo in quella sede il nome dell'On. Ramo Gaspari, suo collega di partito, quale latore, nel giugno o luglio 1978, della segnalazione in questione (per il verbale della deposizione di Rognoni, cfr. faldone On. Grassi 320_01, pag. 31 e seg.). E' in questa occasione che il ministro dichiara che nel 1978, precisando subito "direi intorno ai primi di luglio", si era recato da lui al Viminale il ministro Remo Gaspari per segnalargli, a dire di Rognoni stesso, che era stata vista precedentemente all'omicidio di Moro, in Via Montalcini, una "macchina rossa del tutto simile a quella ritrovata in via Caetani...". Le parole del ministro, si deve osservare, riprendevano in sostanza, nel 1988, lo stesso concetto già utilizzato da De Francisci (Dirigente dell'Ucigos) nella su accennata risposta alla Commissione parlamentare di inchiesta del febbraio 1982, e già fatto proprio dallo stesso Rognoni nella sua audizione innanzi la Commissione parlamentare stessa del 1983, nella corso della quale egli aveva tra l'atro affermato (CM-1, Vol. 11, pag. 159). Tornando alla deposizione di Rognoni del 1988, come si vede a questo punto l'equiparazione, sia pure fatta a posteriori, tra la generica “auto rossa” di cui parleranno due settimane dopo di lui invece i coniugi Piazza, e la specifica “Renault di Moro” (per usare le stesse parole usate dal ministro 5 anni prima) diviene un fatto compiuto anche in sede giudiziaria. Il ministro Rognoni aggiunge quindi: "Ricordo di aver preso un breve appunto della segnalazione...che trasmisi subito al Capo di Gabinetto (nda: Coronas), dicendogli anche il nome della persona che mi aveva dato l'informazione. Qualche tempo dopo ho chiesto a Coronas quale riscontro aveva avuto l'informazione e ne ebbi risposta negativa. Gaspari mi riferì la notizia oralmente. Ho parlato pochi giorni fa nuovamente con Gaspari, dopo che sulla stampa erano apparsi articoli con diverse valutazioni concernenti la segnalazione pervenuta alla Polizia dal Gabinetto del Ministro sulla macchina rossa e conseguenti sopralluoghi. Il collega mi ha confermato la sua visita al Viminale e il contenuto della segnalazione. Mi ha riferito inoltre che la sua fonte era un medico". Tuttavia il ministro Gaspari, se conferma la visita al Viminale, rettifica invece, e non di poco al di là delle espressioni e del tono utilizzato, le affermazioni di Rognoni quanto al contenuto della segnalazione che egli avrebbe trasmesso a quest'ultimo. Il giorno successivo alla deposizione di Rognoni, infatti, Gaspari - tirato in ballo per la prima volta nella vicenda - emette un “comunicato stampa” nel quale afferma invece di non ricordare a distanza di dieci anni dai fatti, se tra i particolari che l'avvocato Martignetti (di cui però Gaspari ancora non fa il nome) gli ebbe a riferire (e che il Ministro ha affermato di avere appuntato su un foglietto) “ci fosse quello della macchina rossa. Ricordo solo che Rognoni mi ascoltò e prese appunti” (cfr. faldone On. Grassi 320_01, pag. 1). Una notazione va fatta immediatamente: tenuto conto della unicità delle circostanze storiche per le quali quell'auto assurse a tanta sinistra fama, appare poco plausibile che Gaspari non ricordasse se tra i particolari della segnalazione da lui ricevuta e poi trasmessa a Rognoni ci fosse quello dell'”auto rossa”; pare in altre parole che in qualche modo il Ministro Gaspari abbia voluto smentire o quanto meno affievolire le dichiarazioni resa al giudice il giorno prima dal suo collega Rognoni, circa l'elemento dell'auto rossa e in particolare della sua corrispondenza (o quasi) a quella nella quale era stato lasciato il corpo di Moro in Via Caetani affermata invece da Rognoni stesso. La dichiarazione del ministro Gaspari alla stampa dava poi conto, prima di tutto, di come egli fosse venuto a conoscenza della segnalazione: “Una mattina, scendendo dalla mia abitazione (nda: in Viale delle Milizie), ho incontrato un collega avvocato, il quale, con grande cautela e circospezione, disse che doveva darmi qualche notizia di particolare interesse. Mi fece presente che aveva avuto elementi in base ai quali riteneva che la prigione di Aldo Moro potesse trovarsi in una certa zona di Roma”. Con quel chiaro riferimento al luogo dell'incontro e alla professione svolta, l'individuazione del latore della segnalazione fu in pratica immediata, anche da parte dei mezzi di informazione. Infatti, già il 16 maggio, alle ore 12.10, inizia, davanti al giudice Priore, la deposizione dell'Avv. Mario Martignetti, subito identificato (cfr. faldone On. Grassi 320_01, pag. 33 e seg.). L'avvocato consegna al giudice una lettera, allegata al verbale, che aveva predisposto quel giorno stesso allo scopo di consegnarla ai giudici. Nella missiva (cfr. faldone On. Grassi 320_01, pag. 2), l'avvocato, riferendosi “alle notizie oggi diffuse dalla radio e dalla stampa”, rende noto in particolare che: “E' vero che a causa di una prestazione professionale da me svolta all'epoca del rinvenimento del corpo dell'on.le Aldo Moro, mi convinsi della opportunità che le ricerche della sua prigione fossero estese anche a Via Montalcini”. Quanto alla sua deposizione vera e propria, l'avvocato Martignetti, da quanto risulta nel verbale, afferma, in sintesi:
- di avere incontrato l'On. Gaspari successivamente all'omicidio dell'On. Moro;
- i fatti gli erano stati riferiti dalle sue fonti - che egli non rivela- nell'ambito di una prestazione professionale occasionale, e, a suo dire, certamente dopo la morte dell'On. Moro;
- di avere detto a Gaspari che, a seguito di un colloquio con un "cliente", era opportuno estendere la ricerca della prigione di Moro a Via Montalcini (la circostanza è peraltro anche riferita da Gaspari nel suo comunicato stampa di 2 giorni prima, anche se, come si è visto, con generico riferimento, da parte del ministro, a "una certa zona di Roma");
- che lo stesso Gaspari ancora in epoca recente o recentissima gli aveva ricordato l'episodio del loro incontro e l'indicazione datagli nel 1978 da Martignetti stesso circa la necessità di estendere le indagini sulla prigione a Via Montalcini;
- di non avere "punti di riferimento per collocare più esattamente nel tempo" la sua segnalazione, così "come la dichiarazione del cliente", in quanto non procedette a redigere alcun atto giudiziario; ma che comunque il colloquio con Gaspari avvenne la mattina successiva al suo colloquio con il "cliente".
Al di là di alcune evidente incongruenze sulle modalità di acquisizione delle informazioni dalle sue "fonti" (in realtà non un cliente, bensì semplicemente il cognato, stando a quanto risulta ufficialmente), la menzionata lettera da lui predisposta e allegata al verbale testimoniale contiene, inoltre, un'affermazione che si pone in sostanza in perfetta analogia con quanto riportato da Gaspari in merito al suo colloquio con Rognoni in merito ai dettagli sul contenuto della segnalazione originaria, poiché in sostanza in quella lettera Martignetti afferma in sostanza di non ricordare il contenuto preciso del colloquio avuto con il "cliente" nel 1978, sia pure motivandolo in base a due ragioni ben poco verosimili, e cioè " forse perchè di scarsa importanza e certamente a causa del tempo da allora decorso oltre che a causa della mancanza di un riscontro obbiettivo della sua rispondenza al vero". Circostanze, ovviamente, entrambe smentite dal successivo arresto della Braghetti quale militante delle Brigate Rosse e ufficialmente compartecipe attiva nella fase di gestione del sequestro dell'On. Moro. L'avvocato Martignetti viene nuovamente ascoltato, quindi, il giorno successivo, 17 maggio 1988, alle ore 20.10, dal giudice Priore (cfr. faldone On. Grassi 320_01, pag. 3 e seg.), deposizione nel corso della quale – a parte una serie di doglianze per il fatto che la vicenda, a cominciare dal suo nome, fosse emersa sui mezzi di informazione, i quali erano arrivati tra l'altro ad occuparsi della sua pregressa militanza in un partito politico di destra oltre che della sua attività di difensore di militanti del movimento neo fascista "Ordine Nuovo" – ai fini che qui rilevano ciò che più conta è che egli non menziona affatto neppure una generica "auto rossa", né alcuna domanda in merito, a quanto si deduce, gli viene posta dal giudice. Vale la pena rilevare incidentalmente come rimarranno sempre privi di qualsiasi approfondimento le modalità e gli elementi in virtù dei quali egli avrebbe maturato la propria convinzione, poi riferita a Gaspari, del fatto che a Via Montalcini si potesse trovare addirittura proprio la “prigione” di Moro, nonostante questa ipotesi non sia mai stata neppure solo ventilata dai suoi referenti Piazza e Ciccotti. Depongono quindi innanzi ai giudici, il Prefetto Coronas, il dr. Noce e, finalmente, ormai individuati quali latori dell'originaria segnalazione del 1978, in data 1° giugno 1988 anche i coniugi Piazza e Ciccotti. Nella sostanza, i funzionari di Polizia Coronas e Noce ribadiscono la centralità, già acquista negli anni precedenti dalle varie autorità di polizia stando agli ordini e segnalazioni impartiti e ricevuti, dell'avvistamento in Via Montalcini di una Renault rossa: in ultima analisi, Coronas e Noce confermano le parole espresse dal Ministro dell'Interno Rognoni, a definitiva consacrazione del mutamento dell'oggetto della segnalazione e della centralità asseritamente assunta ex novo in suo seno proprio dalla specifica "Renault rossa", rispetto invece al suo contenuto originario, ben più generale o generico, sempre ribadito dai coniugi Ciccotti e Piazza e di fatto concorde con i ricordi di Gaspari e Martignetti, a dir poco "freddi" in merito alla questione dell'auto. Vale tuttavia soffermarsi più in dettaglio sulla deposizione, del 18 maggio (1988) del Dr. Noce. Vi sono in verità anche alcuni altri elementi, che meritano un successivo approfondimento, delle parole utilizzate dal teste, in particolare i dubbi che suscita il riferimento nelle sue parole a potenziali "altri" soggetti che per ipotesi si sarebbe dovuto verificare, da parte dell'Ucigos, se avessero notato l'auto in questione: "altri" rispetto a chi, se l'identità specifica degli originari segnalanti - coniugi Piazza e Ciccotti - emergerà solo nei giorni successivi? Ma a parte questo, e alla rivelazione - finalmente, dopo la richiesta del giudice Imposimato che risaliva al luglio 1980 - dell'identità di almeno un paio degli agenti dell'Ucigos che operarono in via Montalcini durante le indagini del 1978 in questione, il dr. Noce, nelle sue conclusioni, elabora infine una mirabile sintesi di quegli indici di presunta mancanza di sospetto che avrebbero spinto l'Ucigos a non proseguire oltre, elementi testualmente reiterati come un costante filo conduttore, in tutti gli appunti ed altri documenti prodotti sulla vicenda dall'Ucigos, da Uffici di Polizia e dal Ministero, a partire dal'8 agosto 1978, fino a quello stesso maggio 1988. Dichiara, infatti, il dr. Noce (la suddivisione per capi numerati e le sottolineature sono nostre):
1) "Gli investigatori riferirono di avere interpellato gli inquilini …e che nessuno aveva dichiarato di avere notato la presenza nel garage dell'auto in questione";
2) "Gli investigatori mostrarono anche degli album di fotografie agli inquilini di quel palazzo, album di terroristi noti, tra cui Gallinari, ma nessuno trovò rassomiglianze tra Altobelli e alcuno dei personaggi rappresentati nelle fotografie";
3) "Ricordo che furono fatti anche numerosi pedinamenti sulla Braghetti, ma da essi non risultò alcun elemento meritevole di ulteriore sviluppo investigativo".
Dopo di che, evidentemente individuati a seguito in particolare delle pressioni che, pare, l'autorità giudiziaria dovette esercitare sull'Avv. Martignetti – che in un primo momento aveva opposto il segreto professionale - per fargli rivelare le sue fonti, i coniugi Piazza- Ciccotti, autori dell'originaria segnalazione, vengono dunque finalmente ascoltati sullo specifico punto in questione (l'auto rossa) entrambi il 1° giugno 1988, dal giudice Cudillo, alla presenza del giudice Priore e del P.M. Sica. Alle ore 14.20 del 1° giungo 1988 depone per primo il marito (faldone On. Grassi 320_001, pag. 23 e seg.), Giorgio Piazza. Il signor Piazza racconta, tra le altre cose, appunto, che fu la moglie a vedere, “qualche giorno prima” dell'uccisione dell'On. Moro, un'auto di colore rosso, attraverso la serranda basculante del box della Braghetti, senza riuscire tuttavia ad identificare con precisione quest'auto. Dopo “una settimana o quindici giorni” dall'omicidio, egli ne parla con suo cognato, Avv. Martignetti, al quale, afferma, già in precedenza aveva chiesto un colloquio per manifestargli i propri sospetti. Il verbale della deposizione del signor Piazza prosegue poi con questa affermazione (le sottolineature sono nostre): "Evidentemente riferii che nel box mia moglie aveva visto una macchina rossa e presumo di avere aggiunto che il box era di pertinenza dell'appartamento della signora Braghetti". Come si desume, la precisazione segue a specifica domanda sia pure inespressa ("Evidentemente..."), in quanto con tutta evidenza per il teste la questione dell'auto non aveva assunto un ruolo centrale nel suo colloquio con Martignetti. Quindi Piazza dichiara appunto che l'avvocato Martignetti lo aveva sul momento tranquillizzato, data la genericità dei sospetti manifestati, senza aggiungere nulla circa sue eventuali iniziative. Alle ore 14.50 dello stesso giorno depone la moglie, signora Graziana Ciccotti, e, tra le altre cose, dichiara appunto: “in un tempo variante da tre giorni a una settimana prima della morte dell'on. Moro, ho intravisto, attraverso la serranda basculante della Braghetti e mentre costei era intenta a chiudere il garage, il parafango anteriore destro di una autovettura di colore rosso”. (ibid., pag. 21 e segg.). (Sul punto, il più volte citato testo di S. Flamigni "Il covo di Stato…", pag. 288, reca un'inesattezza, poiché attribuisce questa dichiarazione alla precedente deposizione della signora del 15 dicembre 1987, che invece, come si è tratteggiato, verteva esclusivamente su altro). La signora dichiara prima di tutto in modo generico (le sottolineature sono nostre): "Ho notato nel comportamento della coppia degli atteggiamenti che davano adito a sospetti". Proseguendo, poi, la signora, narrato l'episodio della vista dell'auto rossa – da lei genericamente individuata - nella settimana antecedente l'omicidio, aggiunge: "Io ho successivamente manifestato a mio marito il sospetto che si potesse trattare di brigatisti e questi, di sua iniziativa, ne ha parlato con l'avv. Martignetti. Successivamente alla morte dell'On. Moro non sono stata mossa da alcuna curiosità per esaminare i luoghi pertinenti al box, anche perchè non avevo elementi per affermare che si trattasse sicuramente di brigatisti che avessero partecipato all'omicidio Moro." Prosegue, la signora, dichiarando che il marito, a seguito del colloquio dal lui avuto con l'Avv. Martignetti, le riferì che quest'ultimo lo aveva tranquillizzato. Sono queste, a dieci anni dai fatti, le prime fondamentali dichiarazioni dei due protagonisti dell'origine delle indagini sul contenuto delle loro osservazioni e segnalazioni a Martignetti. In definitiva, dunque, della questione dell' “auto rossa”, tra tutti i testi, ne parleranno espressamente e in modo specifico solo i coniugi Piazza-Ciccotti, solo nel 1988, e in ben diversi termini, rispetto a quanto sin qui visto promanante dalle Autorità e dalle forze di Polizia, quanto alla sua presuntapuntuale identificazione con una “Renault 4”. Questa essenziale differenza qualitativa nei riferimenti a quell'auto, pone la necessità di interrogarsi sul fatto che se è vero quanto pervicacemente affermato dai coniugi circa la genericità di quanto visto dalla signora Ciccotti nel box della Brgahetti, allora ci si deve conseguentemente chiedere da dove, in quale momento e perchè , in sede politica e di Uffici di Polizia, si afferma che l'oggetto principale della segnalazione fosse costituito proprio da una “Renault rossa” (anziché una generica “auto rossa”). In realtà, come si vede, proprio la ricostruzione e la delimitazione del contenuto della segnalazione originaria da parte della coppia di condomini di Via Montalcini che ne fu artefice, da un lato, e il diverso contenuto con il quale invece pare essa fosse stata trasmessa dal ministro Rognoni a cascata alle autorità di Polizia, dall'altro, costituiscono nel loro insieme uno dei maggiori punti critici dell'intera vicenda. Si tratta di una divergenza di contenuto che caratterizza in modo costante le rispettive dichiarazioni e deposizioni dei coniugi, da un lato, e delle autorità, dall'altro. Ci è parso di constatare in particolar modo, a nostro avviso, il fatto che l'espressa qualificazione, a partire da quel documento già citato dell'Ucigos del febbraio 1982, di una "Renault rossa" quale elemento centrale della segnalazione ricevuta, sembra proprio avere proceduto quasi di pari passo con la sua sussunzione a elemento cardine della tesi auto assolutoria affermata in sostanza dagli organi di polizia e dalle autorità politiche, stando in particolare alle deposizioni sopra riportate del maggio 1988 dal ministro Rognoni e dai dirigenti di Polizia Coronas e Noce. Sintesi mirabile ne è appunto la deposizione del Dr. Noce nella parte conclusiva che si è riportata in dettaglio.
Viceversa, come si è visto, nelle deposizioni o dichiarazioni tanto dei coniugi latori dell'originaria segnalazione, che in quelle dell'avv. Martignetti e dell'On. Gaspari- passaggi intermedi della sequenza informativa prima dell'arrivo a Rognoni- sembra proprio che si fosse parlato prima di tutto di generici e antecedenti sospetti maturati dalla coppia di condomini di Via Montalcini, e solo incidentalmente, a tutto concedere, di una generica "auto rossa", quale cioè ulteriore e postumo (rispetto al 9 maggio) mero elemento di sospetto, uno tra altri in quanto ricollegato solo a posteriori dai due condomini, cioè dopo il fatto di Via Caetani, ad un complesso di sospetti già in precedenza da loro covati e maturati sugli occupanti dell'appartamento interno 1 Braghetti e "Altobelli". Riassumendo, in sintesi questo è quanto accadde. I due, coniugi Piazza-Ciccotti, furono in effetti il punto di partenza di tutta la non chiara vicenda. La signora Ciccotti dichiarerà infatti - finalmente individuata solo nel 1988 come originaria fonte dell'informazione- che in un tempo da circoscrivere tra due giorni ed una settimana prima dell'omicidio dell'On. Moro, aveva intravisto nel box della Braghetti la parte anteriore di una generica ed imprecisata “auto rossa”. Dopo il ritrovamento del cadavere dell'On. Moro in Via Caetani, il 9 maggio 1978 dentro la tristemente famosa Renault 4 rossa, la signora aveva esternato al marito il collegamento da lei fatto ovviamente a posteriori con i generici sospetti sulla coppia occupante l'appartamento interno 1 maturati già in precedenza dai due (nonché dagli altri condomini) in ragione della presunta “stranezza” di atteggiamenti della coppia stessa. Nonostante le perplessità del marito - signor Piazza - costui si era infine risolto, un po' di tempo dopo (che egli quantificherà come visto in circa due settimane dopo l'omicidio dell'uomo politico) a rivolgersi a suo cognato, l'avv. Martignetti, per manifestargli nulla più che questi generici sospetti, comprensivi forse - ma la cosa non è nemmeno certa, stando ai rispettivi ricordi di Piazza, Martignetti e Gaspari - del riferimento all'auto rossa avvistata a suo tempo dalla moglie nel box della Braghetti; auto rossa che, come si evince, non fu dunque di certo “l'oggetto principale della segnalazione” come definita dalle autorità nel menzionato documento del 1982. Eppure, come risulta dai documenti esaminati, se la relazione più volte citata del febbraio 1982 ricostruendo la vicenda del 1978 per la Commissione parlamentare aveva per l'appunto definito la “Renault rossa” quale “oggetto principale della segnalazione”, stando alla deposizione del ministro Rognoni innanzi al giudice istruttore del 1988 ci è parso di poter rilevare che è proprio solo a partire dalla successiva trasmissione dell'informativa da parte dell'ex ministro ai suoi sottoposti in linea gerarchica che questa generica “auto rossa” diventò ex novo "elemento principale della segnalazione" e soprattutto venne improvvisamente individuata o indicata in modo specifico come una “Renault rossa”, nonostante i coniugi Piazza – Ciccotti ribadiranno sempre, in ogni sede, di non avere mai parlato di una “Renault rossa” (né, peraltro, di alcuna altra specifica auto). In definitiva, la tesi degli Organi di Polizia, appare suggestiva ed ha in effetti avuto pregio anche in sede giudiziaria. Ed è suggestiva al punto, ci sembra, da avere perfino indotto a nostro parere (come tale ovviamente passibile di fallacità) ad una esiziale petizione di principio anche uno dei più profondi studiosi del “caso Moro”, l'ex Sen. Sergio Flamigni, di certo non tacciabile, per usare un eufemismo, di particolare accondiscendenza verso le acquisizioni ufficiali sul sequestro dell'On. Moro e in special modo sulla vicenda di Via Montalcini. Scrive, infatti, Flamigni (cfr. “Il covo di Stato e la prigione Fantasma" ed. Kaos, 2016, pagg. 293-294), commentando le testimonianze rese nel 1988 dai coniugi Piazza-Ciccotti in sede istruttoria: “...non si comprende perchè la semplice vista di un “parafango anteriore destro di una vettura di colore rosso” li abbia poi indotti a sospettare che l'auto intravista fosse la Renault rossa contenente il cadavere di Moro in Via Caetani”. In realtà i coniugi non "si indussero" mai a parlare di un specifica "Renault rossa", ma rimasero per l'appunto sempre fermi all'avvistamento di una porzione limitata del lato anteriore di una generica "auto rossa". Essi inoltre tanto meno affermeranno mai di avere neppure lontanamente ipotizzato che in quell'appartamento vi fosse addirittura “la prigione” di Aldo Moro, come si espresse testualmente – lo si è visto- il loro interlocutore diretto, Martignetti, nel trasmettere le proprie personali convinzioni all'On. Gaspari. Donde Martignetti, poi, avesse tratto questa sua convinzione, che andava ben al di là delle parole dei coniugi Piazza, è peraltro circostanza che non risulta essere mai stata approfondita. La domanda che allora di necessità ci siamo posti, di fronte per così dire a due pervicaci e reiterate manifestazioni di contenuto diametralmente opposto, è perchè da un certo momento in poi della catena informativa quella generica “auto rossa” sia stata indicata proprio come una specifica “Renault rossa”, ed a che tipo di ricostruzione giudiziaria e storica dei fatti, semmai, questo cambiamento di identità di quell'auto, e la sua sussunzione ad elemento centrale della segnalazione, abbiano finito eventualmente con l'essere stati oggettivamente funzionali. In ogni caso, che quella "trasformazione" da generica "auto rossa" a specifica "Renault rossa" abbia oppure no finito per costituire un oggettivo parafulmine a fronte dei dubbi accumulatesi in sede parlamentare, giudiziaria e pubblicistica sulle cause del mancato arresto immediato della Braghetti nella tarda estate 1978, resta il fatto, di agevole percezione ad un sistematico studio dei documenti disponibili, che l'Ucigos di elementi di sospetto ne aveva, o avrebbe dovuto averne, più d'uno. Ci limitiamo ad elencarne alcuni, senza particolari commenti per esigenze di sintesi:
a) gli stessi agenti dell'Ucigos rilevarono in sostanza la falsa identità di colui che si presentava quale "Luigi Altobelli", occupante con la Braghetti dell'appartamento-covo; già questo avrebbe dovuto essere un pregnante elemento di sospetto, in un'epoca in cui si sfondavano porte per molto meno;
b) poco prima che la Braghetti traslocasse indisturbata, dunque verosimilmente nel settembre 1978 (ma potrebbe essere anche prima), su iniziativa della stessa Ucigos si tenne in casa di altri due condomini, coniugi Manfredi-De Seta, un riunione alla quale oltre ai due funzionari dell'Ucigos parteciparono sei condomini dell'edificio, tra i quali gli stessi Piazza e Ciccotti. Nel corso della riunione, le testimonianze concordi dei sei condomini raccolte negli anni successivi in sede giudiziaria affermano chiaramente che venne loro mostrato una sorta di album di fotografie di sospetti terroristi, nell'ambito del quale venne mostrata anche la foto della Braghetti: per quanto dunque non ancora "clandestina" e apparentemente insospettabile secondo la versione ufficiale, è evidente che l'avere mostrato anche la foto di costei, persona che i condomini conoscevano bene per essere coinquilina del palazzo, non può che trovare giustificazione nel fatto che al contrario di quanto affermato la Braghetti era invece persona già sospettata;
c) nel corso di quella stessa riunione, venne preannunciata ai condomini presenti una imminente perquisizione e anzi, secondo le versioni di alcuni di loro, una vera e propria irruzione, con tanto di raccomandazioni per la loro incolumità; perquisizione che rimase lettera morta e la cui mancanza lasciò di stucco i condomini di via Montalcini;
d) nei rapporti dell'Ucigos disponibili, tra l'agosto e l'ottobre 1978, si dà ripetutamente atto del fatto che la Braghetti avesse sottoscritto il contratto preliminare di acquisto per l'appartamento di Via Montalcini – poi acquistato con rogito definitivo il 3 agosto, tempestivamente trascritto dal notaio rogante il giorno 10 di quello stesso mese, senza che però né L'Ucigos, né i Carabinieri di Dalla Chiesa riuscissero mai ad individuare l'avvenuta stipula dell'atto notarile; circostanza, questa, meritevole in sé di ulteriore prossimo approfondimento- impegnandosi ad acquistarlo per Lire 45.000.000, e che la stessa avrebbe dichiarato (non sia bene a chi, peraltro) che la somma proveniva da eredità paterna. Eppure, negli stessi rapporti, si dà parimenti atto del fatto che l'eredità del padre della Braghetti ammontava a somme nel complesso ammontanti a circa Lire 1.300.000.
Quest'ultima circostanza avrebbe potuto e dovuto costituire, a nostro giudizio, uno dei massimi indici di sospetto su Anna Laura Braghetti, in sede di quelle indagini. Si deve inoltre aggiungere che ai primi di luglio 1980 – a seguito delle menzionate indiscrezioni di stampa dalle quali era emerso che la brigatista arrestata aveva la disponibilità anche di questo appartamento- vennero chiamati a deporre a quel punto innanzi il giudice istruttore, dott. Imposimato, recentemente scomparso, i condomini dell'edificio in questione, per quanto, tuttavia - quali che furono le cause di questa carenza (variamente attestate dallo stesso magistrato negli anni seguenti) - non vennero invece ascoltati in quel momento i principali autori della segnalazione originaria, i già citati coniugi Piazza-Ciccotti, nonostante che i loro nomi fossero comunque emersi subito davanti al giudice nel corso delle deposizioni degli altri condomini, quali compartecipanti alla suddetta riunione tenutasi in casa Manfredi con i due agenti dell'Ucigos. Comunque sia, da queste prime deposizioni dei condomini (coniugi Manfredi-De Seta, signor Signore) dell'estate 1980, emerse infatti con chiarezza che l'Ucigos aveva svolto indagini reiterate nel corso dell'estate-autunno 1978, organizzando anche la riunione condominiale in casa dei coniugi Manfredi, poc'anzi citata. Il 5 luglio 1980 il giudice Imposimato richiese all'Ucigos dettagliate informazioni sulle indagini svolte. Il 30 luglio quell'ufficio di Polizia rispose inviando un “unito appunto”, non firmato, datato 16 ottobre 1978, recante in sostanza una mera sintesi delle operazioni svolte e dell'esito negativo raggiunto dalle indagini. Fermo restando l'avallo che l'operato e le giustificazioni addotte dall'Ucigos riceveranno con la sentenza-ordinanza del giudice Priore nel Moro-quater nel 1990, è comunque necessario tentare di comprendere l'importanza centrale, nell'ambito di tutta la vicenda del sequestro e dell'omicidio dell'On. Moro, assunta dalla questione dell'accertamento di quanto accaduto a Via Montalcini nell'estate-autunno 1978, e cioè delle indagini ad opera dell'Ucigos, e il disorientamento che indubbiamente l'intricato susseguirsi dei fatti, dell'acquisizione di dati e notizie in merito, può avere generato e genera tutt'oggi; a tale scopo, può essere utile fare rinvio anche ad alcune parole espresse verosimilmente più in libertà dal giudice Imposimato in alcune dichiarazioni di stampa attorno alla metà degli anni '80, poco prima e durante l'iter scaturito alle varie interrogazioni parlamentari proprio su questa specifica vicenda che si stavano susseguendo in quegli anni. Ne segnaliamo pertanto alcune, che appaiono caratterizzate da toni rammaricati che tuttavia ci appaiono oggettivamente difficilmente giustificabili a fronte della sostanziale carenza di approfondimento in sede giudiziaria del contegno dell’Ucigos e soprattutto del fatto che le motivazioni avanzate da quell’ufficio e dalle autorità politiche del mancato intervento immediato nei confronti della Braghetti vennero in sostanza recepite e fatte proprie anche dalla stessa magistratura. Il 24 maggio 1986 – siamo nel corso della sequela di interrogazioni parlamentari, indagini amministrative e risposte dei ministri, che avevano toccato in parte anche l'operato della magistratura, sopra accennate- poi, il giudice Imposimato rilascia un'intervista a “L'Unità”, nella quale in sostanza esclude “misteri” nel caso Moro, dicendo – stando al testo dell'intervista trascritto da Sergio Flamigni- che semmai si dovrebbe parlare di “punti oscuri, forse ombre. Noi giudici abbiamo lavorato bene, credo scientificamente. Per me il il grosso punto oscuro, il vero mistero, resta uno solo: è la storia di Via Montalcini, la prigione di Moro, e di quello strano rapporto Ucigos che io sollecitai. Non si è mai capito chi fece quel rapporto falso, e perchè non fu detta la verità su quel covo.” (cfr. Flamigni, op. cit., pag. 279, testo e nota 15 in calce). Anche queste affermazioni, di certo non sfumate, e che palesano un ruolo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Roma quasi di impotente soggetto passivo di quel “rapporto” dell'Ucigos, per essere giustificabili avrebbero ovviamente dovuto poter presupporre l’avvenuto compimento di approfonditi accertamenti e riscontri da parte del giudice e dei suoi colleghi, in merito alla fondatezza dei vari elementi posti a base dell’asserita carenza di sospetti riscontrata dall’Ucigos nel corso delle proprie indagini. Non si vede cioè su che basi il giudice nel 1986 potesse lamentarsi della – diciamo - lacunosità – di quell’ “unito appunto” inviatogli nel 1980, posto che almeno fino al 1988 non consteranno neppure generiche deposizioni giudiziarie dei funzionari responsabili (fatta eccezione per l’audizione innanzi alla Commissione parlamentare del ministro Rognoni nel 1983, rimasta peraltro anch’essa senza alcun seguito immediato neppure in quella sede). Basti ricordare che, ad esempio, fu tra l'altro anche una scelta istruttoria del giudice Imposimato quella di non far ripetere alcuna ricognizione fotografica ai condomini sulle foto dei sospettati, e a non chiarire subito quale “album fotografico” fosse stato mostrato ai condomini dai due dell'Ucigos nella riunione in casa Manfredi, pur avendo egli in mano, sin dalle prime deposizioni dei testi Manfredi, De Seta e Signore, praticamente la certezza che l'Ucigos, invece, sospettava eccome, al punto di prefigurare la perquisizione nell'appartamento della Braghetti poi mai avvenuta. Per inciso: queste pur di per sé stesse dure parole, espresse dal giudice alla stampa nel 1986, rendono poi tanto più difficili capire, a posteriori, la sentenza-ordinanza del Moro-quater (cfr. faldone On. Grassi 318_01, pag 17 e segg.) del 1990 ad opera del suo collega istruttore giudice Priore, il quale ribadirà in sostanza che in base alle circostanze emerse nel 1978 come attestate dall'Ucigos, fu del tutto giustificata l’affermazione della mancanza di sospetti da parte dei membri di quell'ufficio di Polizia. In ogni caso, quale che fu la causa reale del fatto che i coniugi Piazza-Ciccotti non deposero a caldo, già nel 1980, innanzi a sé, a differenza degli altri condomini, l'ex giudice Imposimato renderà su questa circostanza, negli anni, due versioni apparentemente in contrasto. Infatti, il 25 marzo 2015, ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta attualmente in carica l'ex giudice affermò sul punto: "Come ultima cosa vorrei dire – credo sia importante – che, quando io ho ritenuto di trovare la prigione, ho sentito tutti gli inquilini. Ho chiamato un funzionario dell'UCIGOS e gli ho detto che intendevo sentire tutti gli inquilini dell'edificio di via Montalcini. Se quella era la prigione, ho pensato, gli inquilini non potevano non aver visto delle persone entrare e uscire dall'appartamento all'interno 1 del palazzo. A questo punto le cose si sono complicate. Mentre io pensavo di aver fatto una cosa che poteva essere gradita agli investigatori, così non è stato. Quando ho chiesto di avere la presenza di tutti gli inquilini, sono venuti tutti, tranne il più importante, ossia la professoressa Ciccotti Piazza, che poi sarebbe stata sentita, a distanza di anni, da Priore e Sica." E' ovvio che un'affermazione del genere, anche a prescindere da un'eventuale omissione di collaborazione da parte dell'Ucigos nella convocazione e traduzione dei testi innanzi al giudice o da un eventuale atteggiamento ostativo da parte dei due coniugi, implica di necessità l'affermazione che il giudice istruttore fosse carente del potere di reiterare d'imperio la convocazione, se del caso anche con l'ausilio della forza pubblica, nonchè, in caso di eventuale reiterata mancanza di ausilio, di adottare i provvedimenti del caso per ogni eventuale ipotesi di reato riscontrabile nei confronti di chiunque fosse responsabile della mancata presentazione innanzi a sé dei due coniugi. Ma anche prescindendo dalla verifica degli effettivi poteri di cui fosse o non fosse munito il giudice, resta il fatto che in precedenza, sulla stessa questione, ascoltato dalla "Commissione Stragi" il 24 novembre 1999, l'ex giudice aveva, tra l'altro, affermato: "La cosa abbastanza grave, che noi cercammo di sapere in tutti i modi, era come e quando la polizia era arrivata a via Montalcini n. 8; ma questo per molti anni non fu possibile saperlo. Poi ho letto sugli atti, dieci anni dopo, che ci sarebbe stata una signora Piazza che avrebbe segnalato la presenza della Renault rossa." L'affermazione ci appare oggettivamente poco o nulla coordinabile con quella sopra riportata: insomma, a differenza di quanto dichiarato nel 2015, nel 1999 parrebbe doversi capire che l'ex giudice fosse proprio all'oscuro dell'esistenza stessa della signora Ciccotti (e di suo marito). Ma se così fosse, questa affermazione lascerebbe trasparire quanto meno il fatto che l'ex giudice evidentemente non ricordava che l’esistenza dei due coniugi Piazza e Ciccotti, quali compartecipi di quella riunione in casa Manfredi, era emerso chiaramente e verbalizzato proprio innanzi a lui, già in quel luglio 1980, dalle deposizioni degli altri condomini. Come che siano andate le cose, resta il fatto che la mancata deposizione a caldo, cioè già nel luglio 1980, dei due coniugi Piazza e Ciccotti, rimane a tutt'oggi con ogni evidenza un rebus di difficile soluzione. In conclusione, rinviando per maggiori approfondimenti e dettagli ad un successivo e più ampio documento, con riferimento alla vicenda di Via Montalcini e alle indagini che la riguardarono nel 1978, verrebbe da dire vicenda quasi paradigmatica dell'intera storia del sequestro dell'On. Moro, riteniamo si possa affermare, in esito alla complessiva esposizione oggetto di questo documento, che quanto meno qualcosa, per certi versi, oggettivamente ancora oggi non quadra. Sta di fatto, lo aggiungiamo per completezza della cronaca dei fatti, che Anna Laura Braghetti ebbe ancora modo pochi mesi prima del suo arresto, nel 1980, di rendersi compartecipe dell'omicidio del Prof. Vittorio Bachelet avvenuto all'Università “La Sapienza” di Roma.
L'ENIGMA DI VIA MONTALCINI 8 - seconda parte - giovedì 18 gennaio 2018. Continua in questa seconda parte su "Sedicidimarco.org" il nostro approfondimento su via Montalcini e le zone d'ombra che si affollano anche qui come in quasi ogni aspetto del caso Moro. Abbiamo anticipato nella prima parte, fatti salvi i successivi approfondimenti futuri, la completa differenza di descrizione, ruolo ed importanza assunti nella segnalazione originaria di due condomini (concernente generici sospetti sull'interno 1 di Via Montalcini): dall' "auto rossa", da un lato - nelle parole degli stessi testimoni - e dall'altro nella ricostruzione della vicenda che sarà invece adottata dagli organi di polizia e dal Ministro Rognoni. Prima di passare all'esame degli ulteriori elementi che ci portano nella direzione di poter dubitare fortemente che non vi fossero sufficienti elementi di sospetto tali da condurre all'immediata perquisizione dell'alloggio e all'arresto della Braghetti già nell'estate del 1978, vogliamo dar comunque conto conto di quelli , pur quantitativamente minori , che porterebbero però a pensare che addirittura vi possa essere stata da parte degli inquirenti un'attenzione a quell'appartamento già nei 55 giorni. Il che non significa necessariamente che gli inquirenti sospettassero di quell'appartamento come di una prigione di Moro. Come abbiamo visto, e vedremo anche successivamente, tutto ciò appare più frutto di forzature posteriori. Tornando alla questione di questi indizi di attenzione al covo da parte degli inquirenti già nei 55 giorni, vogliamo sottolineare che quanto segue non ha nulla a che fare, sia chiaro, con le tesi di Imposimato, enunciate nel suo libro "I 55 giorni" e basate sui racconti - invero apparentemente fantasiosi - di persona poi finita indagata per falsa testimonianza in quanto, tra l'altro, si era presentato allo scomparso giudice anche sotto mentite spoglie per confermare ciò che egli stesso in precedenza gli aveva raccontato, presentandosi con la sua vera identità. Si tratta qui di piccoli indizi e contraddizioni in alcune dichiarazioni di cui, prima di proseguire, riteniamo opportuno dare conto e che, se confermati, renderebbero ancora più incomprensibile e inquietante la libertà con cui la Braghetti poté muoversi durante e dopo i 55 giorni.
VIA MONTALCINI ERA SORVEGLIATA GIA' DURANTE IL SEQUESTRO? (a cura di: Andrea Guidi ). Dalle deposizioni riportate nel primo capitolo del nostro documento su questa vicenda, si evince pacificamente come punto fermo della complessiva ricostruzione il fatto che la signora Ciccotti – come ormai noto, la condomina di Via Montalcini che in un imprecisato giorno antecedente il delitto avrebbe visto nel garage della Braghetti la parte anteriore di un'imprecisata "auto rossa"- non parlò mai di “Renault 4 rossa” (né di nessuna altra auto specifica). Su questo aspetto, abbiamo rilevato altresì la sintonia dell'Avv. Martignetti e del Ministro Gaspari, riscontrata nelle loro rispettive dichiarazioni, nel non dire nulla, o non ricordare nulla, in merito ad un'auto rossa. Eppure non si trattava certo di un'auto qualsiasi, né di un contesto storico qualsiasi. Sembrerebbe cioè poco comprensibile una vera e propria rimozione da parte di costoro proprio del ricordo di un elemento del genere. Forse si sarebbe dovuta approfondire tempestivamente questa carenza di memoria da parte di Martignetti e di Gaspari su un aspetto delle segnalazione (l'auto rossa) che di certo, se effettivamente la “fonte” ne avesse parlato in termini tali da farne il cardine dei propri sospetti, non sarebbe potuto essere facilmente dimenticato dai due interlocutori; fatto sta che, come si è visto, nel maggio 1988 Gaspari stesso nel suo "comunicato stampa" quanto meno affievolirà non di poco le presunte certezze che il ministro Rognoni, deponendo davanti al giudice istruttore, aveva manifestato appena il giorno prima in merito alla presunta centralità del ruolo rivestito dalla “Renault rossa” nella segnalazione da lui ricevuta da parte dello stesso collega di partito. La ricostruzione più probabile dei fatti, pertanto, in quanto concilierebbe lo scarso o nullo rilievo dell'auto rossa nei ricordi di Martignetti e Gaspari e, in senso conforme alle amnesie dei due su questo punto, le costanti dichiarazioni dei coniugi Piazza nella direzione della assoluta secondarietà di questo elemento nei loro sospetti, da un lato, con le deposizioni del Ministro Rognoni, di Coronas e di Noce imperniate invece sulla presunta centralità della vera e propria “Renault rossa” nell'ambito della segnalazione, dall'altro, pare possa essere quella secondo la quale molto semplicemente quell'auto rossa, come che siano andate le cose, non costituì affatto, l'"elemento centrale" della segnalazione trasmessa al ministro Rognoni prima, e all'Ucigos poi. Questa ipotesi, lo rileviamo incidentalmente, manterrebbe inoltre la propria validità anche nell'ipotesi che l'Avv. Martignetti abbia per avventura avuto informazioni anche da qualche altra fonte sua propria, parallela ma diversa dai coniugi Piazza, ipotesi che tra l'altro porterebbe a dover rovesciare completamente la prospettiva in quanto imporrebbe di chiedersi di riflesso se per caso la segnalazione di coniugi Piazza (che non intendiamo mettere di certo in dubbio) non avrebbe potuto finire per costituire oggettivamente, semmai, un utile diversivo idoneo a sviare l'attenzione da altre segnalazioni da parte di eventuali altre fonti. Eventualità, quella di altri “contatti” avuti da Martignetti ulteriori rispetto ai suoi cognati, che purtroppo non venne neppure prospettata in sede giudiziaria e che di conseguenza, allo stato delle conoscenze acquisite, si deve ritenere sia destinata a rimanere ormai priva di risposta. Tuttavia, pur in mancanza di approfondimenti giudiziari e quindi di dati oggettivi diversi e/o maggiori sull'effettivo ruolo di Martignetti nell'impulso sia pure indiretto alle indagini dell'Ucigos, ricordiamo che costui in un certo senso disse perfino qualcosa "di più", se non "di troppo", e comunque qualcosa di diverso dai coniugi Piazza, in quanto nella lettera consegnata ai giudici nel corso della sua prima deposizione (faldone On. Grassi 320_01, pag. 2, cit.) come si è visto affermava, confermando in sostanza le parole del comunicato stampa di Gaspari del 14 maggio 1988, di avere maturato personalmente la specifica "convinzione" che a Via Montalcini avrebbero dovuto essere estese le ricerche non già solo di qualche persona sospetta, bensì proprio della prigione di Moro; affermazione, come si comprende, ben diversa da ciò che, come abbiamo visto, i coniugi Piazza-Ciccotti si limiteranno sempre a riferire in tutte le sedi senza per di più mai fare neppure in via ipotetica alcun cenno ad un'eventuale prigione del Presidente della D.C. Sarebbe stato dunque ben meritevole di approfondimento, come si può facilmente intuire, tentare di capire donde l'avvocato avesse tratto questa sua specifica e personale convinzione, la cui portata era ovviamente tale da oltrepassare, aggirare, rendere del tutto superflua e irrilevante, la stessa questione se in Via Montalcini fosse stata vista oppure no un'auto rossa (o una Renault rossa). Fermo restando il limbo di mancanza di qualunque considerazione e a maggior ragione di possibili sviluppi, in cui questi spunti rimasero, come probabilmente ormai rimarranno, confinati, l'indagine che ci occupa rimane dunque di necessità limitata all'importanza a nostro avviso fondamentale che riveste il tentativo di individuare le ragioni in forza delle quali, stando ai documenti e alle deposizioni delle autorità politiche e di polizia emersi negli anni successivi, la generica auto rossa diviene da un certo momento in poi, e precisamente, a quanto pare, solo a partire dagli ulteriori impulsi di indagine dati dal ministro Rognoni in poi, una vera e propria "Renault rossa" nonché il presunto “elemento centrale” della segnalazione. Torneremo nella terza parte di questo studio ad esporre in dettaglio la cronistoria delle varie relazioni ed appunti dell'Ucigos; possiamo tuttavia anticipare che ci pare di avere riscontrato un netta cesura terminologica e qualitativa tra la forma e il modo in cui la questione della “Renault rossa” viene trattata nei rapporti in senso stretto sulle indagini in corso, redatti tra l'agosto e l'ottobre 1978, tutto sommato posta in modo equivalente e confuso con gli altri elementi affrontati dagli agenti, da un lato, e viceversa l'improvvisa e conclamata centralità che quell'auto viene ad assumere nella già menzionata relazione del 1982 del capo dell'Ucigos De Francisci in risposta alla Commissione parlamentare, dall'altro. E' per la precisione solo da quest'ultimo documento che la “centralità” del riferimento a quell'auto viene attestata dalle autorità, documento – ci limitiamo a dare qui atto del mero fatto “storico”- rispetto al quale, ed è un fatto, si conformeranno costantemente di lì in poi e prontamente le successive dichiarazioni, scritte o in audizioni, delle autorità, a cominciare dallo stesso Ministro Rognoni fin dalla sua prima deposizione del 1983 davanti alla Commissione di inchiesta, nel corso della quale egli manifesterà espressamente (come si è già visto nella prima parte) per quanto lo riguardava per la prima volta lo stesso concetto: la “Renault rossa”, per la polizia e per il Ministro, era “l'oggetto principale” della segnalazione. Prescindiamo per ora, comunque, da questi aspetti su cui per l'appunto torneremo in quanto in sostanza costituenti l'oggetto specifico del nostro studio, per affrontare in sintesi preliminarmente in questa sede l'eventualità – variamente ventilata nella pubblicistica e sulla stampa nel corso degli scorsi decenni- che appostamenti e controlli, in una parola le indagini, su Via Montalcini, possano in realtà essersi svolte già durante il sequestro, e non solo a partire dall'estate 1978 cioè dopo la sua tragica conclusione avvenuta il 9 maggio. In quest'ottica, è chiaro – è un dato desumibile con la pura logica - che, ragionando in linea puramente teorica, l'affermazione e la successiva consacrazione anche sul piano giudiziale del fatto che “oggetto principale” della segnalazione fosse proprio una “Renault rossa” avrebbe potuto costituire (anche) un elemento perfettamente funzionale, dal punto di vista delle autorità, a stroncare alla radice qualunque illazione su presunte indagini, per definizione segrete, risalenti a data anteriore al 9 maggio 1978. Prima di questa data, infatti, sarebbe stato semplicemente impossibile che un qualsiasi comune cittadino segnalasse come elemento di sospetto una “Renault rossa” in sé e per sé, e che quindi una qualche indagine potesse attivarsi su questa base; questo per l'evidente ragione che fino al tragico epilogo e al risalto anche “mediatico” del ritrovamento del corpo dell'On. Moro in quell'auto (avvenuti come noto il 9 maggio), per un qualsiasi cittadino quell'auto sarebbe stata di per sé sola perfettamente insignificante ed irrilevante; in altre parole, un'auto come milioni di altre circolanti per Roma. Se la segnalazione – in tesi - proveniente da due comuni cittadini aveva avuto come oggetto principale la “Renault rossa”, dunque, le uniche indagini svolte non potevano che avere avuto luogo solo dopo la conclusione del sequestro, e non durante. Tuttavia va pur detto che, nonostante la nostra opinione che quell'auto- comunque si siano svolti i fatti e che cosa, e da chi, abbia appreso Martignetti - non costituì affatto un elemento centrale dell'originaria segnalazione, e sempre ammesso che di segnalazioni vi sia stata solo quella ufficialmente nota dei coniugi Piazza, e nonostante dunque che cadendo, per ipotesi, la centralità di quell'auto nell'impulso alle indagini si aprirebbe in linea teorica la possibilità dello svolgimento di indagini in epoca ben anteriore a quelle accertate ufficialmente, bisogna pur dire che, allo stato delle conoscenze di dati oggettivi, diretti o desumibili con la logica da quelli noti, non risultano al momento particolari e decisivi elementi che possano spingerci in modo sufficientemente provato ad affermare che altre indagini ed appostamenti su Via Montalcini fossero in realtà avvenuti già in pieno sequestro. Per mera completezza espositiva, diamo però conto di alcuni fatti, in ogni caso per l'appunto non sufficientemente probanti nella direzione che qui si sta ipotizzando, ma che magari potrebbero contenere spunti meritevoli di ulteriori approfondimenti. In primo luogo, una “Renault bordeaux” era ricercata sin dal giorno dell'agguato di Via Fani, 16 marzo, come risulta dai brogliacci delle comunicazioni dei Carabinieri (CM-1, Vol. 110, pag. 20), nei quali si legge che già il pomeriggio del 16 marzo, alle 17.15, il colonnello Varisco comunicava di ricercare riservatamente quest'auto (targa Roma-T 75812; la targa è tuttavia un dettaglio, essendo nota e conclamata la costante mutazione di targhe false da parte dei brigatisti sulle auto in loro possesso). A prescindere dall'esito delle ricerche, che non ci consta, evidentemente un'auto di quel modello e di colore analogo era già stata oggetto di specifica attenzione sin dalle prime ore del 16 marzo successive all'agguato. La circostanza è confermata da un altro rapporto del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma (CM-1,Vol. 35, pag. 594) a firma del Ten. Col. Cornacchia, del giorno 8 febbraio 1979 e indirizzato al giudice Priore, nel quale si dà conto del fatto che “fonte attendibile” aveva riferito “tempo fa”che un testimone, tale Vasco Bertini, sarebbe stato in grado di fornire elementi utili alla ricostruzione dell'agguato, e che immediatamente dopo si era messo all'inseguimento, o conoscerebbe chi si era messo all'inseguimento, di “una Renault 4 di colore rosso”che era immediatamente partita al seguito delle auto del commando in fuga. A prescindere dalle perplessità suscitate dal fatto che avendo appreso queste notizie dalla fonte “tempo fa” il Reparto Operativo, in persona del suo comandante, si sia risolto a informare il giudice Priore solo l'8 febbraio 1979, dalle due segnalazioni appena viste deve necessariamente farsi scaturire che se, come abbiamo detto, prima del 9 maggio per un qualsiasi cittadino romano la “Renault rossa” costituiva un'auto tra milioni, forse per “fonti attendibili” o per le stesse forze dell'ordine allertate nei termini di cui sopra, una “Renault rossa” non era più un'auto qualsiasi. In altre parole, non si può escludere almeno in linea teorica la possibilità che eventuali segnalazioni “qualificate” concernenti quell'auto (almeno come tipo e colore) siano avvenute già prima del 9 maggio 1978 (pur non risultando agli atti elementi che indichino che, ad esempio, quell'auto fosse stata per avventura rintracciata e pedinata anche fino ad eventuali soste in Via Montalcini). La qual cosa parrebbe confermata anche dalla recente audizione innanzi alla Commissione parlamentare attualmente in carica dell'ex agente di polizia del Commissariato Monte Mario, Adelmo Saba (artefice con un suo collega del ritrovamento della Fiat 128 bianca dei rapitori in Via Licinio Calvo nella notte tra il 16 e il 17 marzo), nel corso della quale l'ex agente di polizia ha espressamente – anche con toni di una certa durezza- confermato che si ricercava una “Renault rossa” ben prima del 9 maggio. Oltre a queste circostanze, segnaliamo anche quanto segue. Ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta attualmente in carica il 22 settembre 2015, il Prof. Achille Lucio Gaspari, figlio dell'ex ministro e uomo politico DC, richiesto espressamente di fornire, tra l'altro, un suo ricordo o comunque quanto di sua conoscenza sulla vicenda delle indagini del 1978 su Via Montalcini, ha narrato appunto dell'incontro avuto dal padre con l'avv. Martignetti (cfr. in particolare il resoconto stenografico della seduta, pag. 5). Ebbene, nella descrizione fatta dal figlio delle circostanze che avrebbero spinto Martignetti ad attivare suo padre, non viene minimamente menzionato alcun riferimento ad un'auto rossa, nè tanto meno ad una “Renault”. Martignetti, secondo il figlio dell'ex uomo politico DC, avrebbe soltanto fatto riferimento all'osservazione da parte di suo cognato (Piazza), definito come un tipo curioso, di movimenti sospetti: per la precisione, a detta del Prof. Achille Lucio Gaspari - che si è detto certo di ricordare bene- Martignetti avrebbe detto a Remo Gaspari, parlando di suo cognato (Piazza): "..il quale è un tipo curioso, osserva, guarda dalla finestra e ha notato dei movimenti e ha visto delle cose che gli hanno dato la sensazione che quello potrebbe essere il covo dove Moro è detenuto. A questo punto Martignetti ha fornito a mio padre l’indirizzo, che io non ricordo». Il predicato "è detenuto" si collega strettamente con la circostanza riferita dal Prof. Gaspari (parliamo sempre del figlio dell'ex uomo politico) a parere del quale Martignetti avrebbe detto a suo padre: "«Credo di sapere dove è detenuto Moro». Non disse «Dove era detenuto», ma «Dove è detenuto ». Secondo quanto io ricordo, l’episodio si è verificato prima del ritrovamento del cadavere di Moro, credo diversi giorni prima, non nell’imminenza del fatto." A prescindere ovviamente dalla certezza o meno dei ricordi del prof. Gaspari sulla tempistica su riferita (sulla quale qualche elemento di dubbio può rinvenirsi nella incerta indicazione da parte sua quale ministro dell'Interno, al quale il padre subito riferì, ora in Rognoni, ora in Cossiga, con tutte le evidenti e diverse implicazioni cronologiche nell'uno ovvero nell'altro caso, essendo Rognoni subentrato solo nel giugno 1978), ci è sembrato quanto meno opportuno evidenziare questo aspetto della recente audizione del Prof. Gaspari. Sempre per completezza dell'esposizione, si deve poi parimenti rilevare che nel comunicato stampa del 16 maggio 1988, più volte menzionato ed esaminato nella prima parte già pubblicata di questo documento, l'allora Ministro Gaspari riferendo per l'appunto in ordine al colloquio avuto con Martignetti in un comunque imprecisato giorno del 1978, scrisse testualmente: "(Martignetti) Mi fece presente che aveva avuto elementi in base ai quali riteneva che la prigione di Moro potesse trovarsi in una certa zona di Roma". Per quanto poi lo stesso Gaspari (padre) nel prosieguo del comunicato stampa del 1988 confermi di essersi recato da Rognoni (e non da Cossiga), tuttavia volendo estrapolare il mero dato testuale e comparandolo con la terminologia utilizzata dal figlio nell'audizione del 2015, si rileva che dire"potesse trovarsi" è cosa diversa, ad esempio, da “potrebbe essersi trovata”(o equivalenti coniugazioni più idonee a meglio collocare "la prigione" in un passato definitivamente compiutosi, anziché, come potrebbe apparire dalle parole usate, idonee piuttosto ad individuare un fatto o un'azione ancora in essere). Insomma, la sintassi di Gaspari (padre) del 1988 sembra sicuramente più idonea a riferire un fatto raccontatogli mentre il sequestro era in corso, cioè un fatto collocato dall'interlocutore nel tempo presente al momento del colloquio, e non già terminato e dunque collocabile nel passato, sia pure recente, rispetto al colloquio stesso tra i due. Piuttosto, come unici dati oggettivi, se così li si può definire, circa l'eventualità dello svolgimento di indagini a sequestro ancora in corso, ci sono poi gli articoli e le indiscrezioni di stampa, ed alcuni elementi processuali emersi nel corso dell'istruttoria del processo per la vicenda "Argo 16" e rilevati a suo tempo dal giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni. Quanto alle notizia di cronaca, c'è infatti – tra l'altro- un articolo del quotidiano romano “Il Messaggero” del 2 giugno 1980 (faldone On. Grassi 318_002, pag. 49) secondo il quale già a marzo del 1978, cioè appena avvenuto il sequestro, sarebbe già esistito un rapporto di polizia sulla coppia (Braghetti e Altobelli) e sull'appartamento (via Montalcini). Quanto invece all'inchiesta sulla vicenda "Argo 16", stando a Sergio Flamigni (già ne "La tela del ragno", cit., pagg. 232-233, testo e note in calce, e poi ne "Il covo di Stato…" cit), che riporta stralci della sentenza-ordinanza del giudice Mastelloni, il maresciallo Mango (passato all'Ucigos dopo vari incarichi tra i quali circa venti anni all'Ufficio Affari Riservati e poi all'antiterrorismo con Santillo) ha dichiarato (cfr. stralcio della sentenza-ordinanza suddetta come riportato ne "La tela del ragno", quinta edizione, 2003, Ed. Kaos, pag. 233 e note 29 e 30): " Durante il sequestro Moro ho saputo dal dottor Schiavone e dall'assistente di polizia Paola Carraresi che furono fatti accertamenti a seguito di segnalazioni fiduciarie pervenute alla Squadra anche nella zona dove era ubicata Via Montalcini a seguito, in particolare, di indicazioni avute sulla Braghetti". Nel corso di altri due interrogatori, sempre stando ai passaggi riportati da Flamigni, egli ha poi ulteriormente dichiarato:"...che fu proprio durante il sequestro, e non dopo, che fu pedinata Anna Laura Braghetti da parte di un elemento della squadra, e cioè dalla Carraresi Paola". Tuttavia, nel quarto interrogatorio, il maresciallo Mango dichiarò (cfr. S. Flamigni, op. cit.): " Non intendo confermare, visto il tempo trascorso, la circostanza da me più volte riferita, secondo cui fu durante il sequestro che la Carraresi mi parlò di Via Montalcini in relazione a indicazioni o segnalazioni fiduciarie pervenute alla squadra sulla Braghetti". Risulta sempre dall'Autore citato, in merito a quanto appena illustrato, che il giudice Mastelloni trasmise gli atti alla procura di Roma. Non ci risulta null'altro, sul punto. Mancando ulteriori elementi, non possiamo che astenerci sul prendere una posizione di merito circa le affermazioni del maresciallo Mango. Di sicuro, però, solo una di esse è vera: o egli era certo- come ribadito in tre interrogatori- della tempistica ben anteriore delle indagini rispetto a quella ufficialmente emersa, o al contrario questa certezza egli non l'aveva, come dichiarò alla fine. Sarebbe interessante poter approfondire nuovamente questo aspetto, ove possibile. Nella stessa sentenza-ordinanza del giudice Mastelloni, si riscontra inoltre (sempre Flamigni, “Il covo di Stato...” cit., pag. 359-360) un ulteriore contrasto tra il maresciallo Attilio Di Maio e la Carraresi. Di Maio aveva infatti dichiarato nel corso di quel procedimento: “Durante i pedinamenti avvenuti, lo ribadisco, nella fase immediatamente successiva al rapimento di Moro, la Paoletta (nda: Carraresi) mi riferì di avere individuato il brigatista Seghetti come soggetto che spesso si accompagnava alla Braghetti. Io Suggerii di riferire ai funzionari che era anche possibile bloccarli e arrestarli, ma la cosa non ebbe seguito. Prendo atto che il Giuseppe Mango ha riferito che si pervenne a via Montalcini e alla Braghetti sulla base di “segnalazioni fiduciarie pervenute alla squadra”. Escludo di essere stato io a ricevere tale segnalazione: probabilmente le segnalazioni pervennero in precedenza <ad altri colleghi>. All'esito adduco che non mi è mai andato giù il fatto che non si fosse proceduto subito all'arresto della Braghetti e del Seghetti”. Di diverso avviso la Carraresi, che dichiarò invece di essersi attivata con i pedinamenti ai primi di settembre, affermando che in quelle occasioni non vide mai la Braghetti insieme a Seghetti. Tuttavia, la Carraresi pare a sua volta smentita sul punto dallo stesso dott. Noce, il quale, nello stesso processo, dichiarò che la Carraresi gli aveva parlato di Seghetti, aggiungendo: “Comunque la Braghetti era nota come appartenente all'estrema sinistra”. Siamo a questo punto, è bene rilevarlo, al 2 ottobre 1997 (Flamigni, op. cit. pag. 360, nota in calce n. 10) cioè oltre nove anni dopo le dichiarazioni di Noce rese al giudice istruttore nel 1988, esaminate nella prima parte che abbiamo già pubblicato. A quanto pare, va osservato incidentalmente, a distanza di nove anni, e a distanza di sette dalla sentenza-ordinanza del giudice Priore (1990), sono proprio alcuni componenti degli stessi organi di polizia a smentire se stessi sulla mancanza di sospetti asserita in precedenza in ordine alla Braghetti e a Via Montalcini ed avallata da quella sentenza-ordinanza di Priore. Ritornando con la mente alla deposizione del dott. Noce del 1988 (alla quale si rinvia), non pochi dubbi sorgono sul mancato approfondimento – a quanto risulta dalle pubbliche fonti documentali a nostra disposizione più volte menzionate - di questa sua particolare contraddizione tra la mancanza di sospetti da lui affermata nella prima occasione, e le sue affermazioni del 1997, dalle quali si dovrebbe dedurre esattamente il contrario, perché se fosse vero che la Carraresi gli aveva parlato già nel 1978 di Seghetti (e ciò, evidentemente, come persona in contatto con la Braghetti, dato l'oggetto delle sue indagini) , non si vede come, essendo Seghetti persona già ampiamente sospetta, Noce avesse potuto concludere innanzi ai magistrati di Roma, nel maggio 1988, nei termini viceversa "tranquillizzanti" riportati nella sua deposizione e analizzati nella prima parte di questo lavoro. Tornando alle affermazioni della Carraresi nel processo “Argo 16” , è opportuno riportare anche le parole di un altro dei protagonisti della vicenda delle indagini del 1978, autore quanto meno degli “appunti” preliminari redatti dall'Ucigos il 14 ottobre di quello stesso anno (e che esamineremo in dettaglio in un prossimo capitolo), cioè il dott. Pasquale Schiavone, il quale, nell'interrogatorio in pari data di quello della Carraresi (25 settembre 1997; Flamigni, op. cit., pag.360-361, nota in calce n. 11), dichiarò tra l'altro:”...Circa il Seghetti – che mi viene detto, secondo una deposizione raccolta, fu segnalato assieme alla Braghetti- io ricordo che fu il predetto effettivamente segnalato come persona che si era incontrata una volta con la stessa”. A parte le considerazioni di analogo contenuto a quelle poc'anzi svolte con riferimento al dott. Noce che le affermazioni di Schiavone suscitano con riferimento alle proprie conclusioni degli appunti a sua firma del 1978 attestanti – come si vedrà in apposita parte di prossima pubblicazione- il presunto esito negativo delle indagini sulla Braghetti, ed a parte poi i riflessi di queste ultime dichiarazioni del 1997 sulla tempistica di effettuazione di indagini e pedinamenti, che oggettivamente non ne risulta chiarita, rimane il fatto che anche il dott. Schiavone, dunque, a distanza di anni, pare smentire radicalmente le conclusioni affermate dall'Ucigos negli appunti del 1978 e poi riaffermate come si è visto dalle altre autorità politiche, di polizia e della magistratura fino alla sentenza ordinanza del giudice Priore del 1990, in ordine ad una del tutto presunta mancanza di sufficienti sospetti per agire tempestivamente nei confronti della Braghetti e dell'appartamento di Via Montalcini. Come anticipato, sospendiamo tuttavia al momento ogni valutazione di merito in ordine all'ipotesi che la Braghetti e Via Montalcini fossero stato oggetto di indagini già in pieno sequestro, e non già solo dopo il 9 maggio. Certo che se non vi furono indagini o appostamenti anteriori al 9 maggio, resta a maggior ragione poco spiegabile quella perquisizione, apparentemente isolata e fine a sé stessa, eseguita in Via Benucci, ovvero sia dietro l'angolo di Via Montalcini, il 12 aprile 1978, cioè in pieno sequestro, sulla quale torneremo comunque più avanti, in un apposito capitolo dedicato ad analisi e commenti.
SQUALO 4, LA VOLANTE (DIMENTICATA) CHE QUASI BLOCCO` LA FIAT 132 IN FUGA DA VIA FANI, scrivono Andrea Guidi e Francesco Velocci martedì 19 dicembre 2017 su "Il Sedicidimarzo.org". Il 23 febbraio del 1978 l'avvocato Giorgio Bruno, non si aspettava che, scendendo dal suo studio in via dei Gracchi, non avrebbe più ritrovato la sua Fiat 132 GLS 1600 cc di colore blu. Per la fretta aveva dimenticato le chiavi nel cruscotto (CM-1 vol. 31 pag. 226). Soprattutto – l'avvocato - non sapeva che quell'auto sarebbe di lì a poco finita tra le carte dell'inchiesta sul rapimento di Aldo Moro. Esattamente ventuno giorni dopo il furto - il 16 marzo alle ore 9:03 - dalle autoradio della Polizia gracchiò l'annuncio: “via Mario Fani, si sono uditi colpi di arma da fuoco”.
CM-1 Vol. 29 pag. 1001 - Brogliacci di Polizia, canale 13 - distretti e commissariati. Dopo appena 2 minuti dalla comunicazione della Sala Operativa della Questura, alle ore 9:05 pervennero da via Fani le prime drammatiche notizie: “inviare subito ambulanze sono della scorta di Moro e hanno sequestrato l'onorevole i responsabili sono scappati a bordo di auto 128 bianca Roma M53995, sono in numero di quattro e vestono divise da marinai o poliziotti”. Fa seguito, sul canale 13, una comunicazione della Sala Operativa rivolta a tutti i commissariati: “si ricerca anche 132 blu Roma P79560".
CM-1 Vol. 29 pag. 1001 - Brogliacci di Polizia, canale 13. Alle 9:10 sul canale 23, la Sala Operativa informa tutte le volanti che in “via Balduina si è allontanata 132 blu Roma P79560 e una 128 bianca Roma M53995 – quattro giovani a bordo armati allontanati zona Monte Mario”.
CM-1 Vol. 29 pag. 1016 - Brogliacci di Polizia, canale 23 volanti. Eccola! E` la Fiat 132 GLS 1600 cc di colore blu dell'avvocato Bruno. La targa è diversa, si scoprirà da qui a poco che fu sostituita. Esattamente nel giro di pochi minuti dall'ultimo annuncio della Sala Operativa, l'auto “civetta” Squalo4 ne comunica il ritrovamento. Ore “9:23 Via Licinio Calvo è stata abbandonata la 132 blu tg Roma P79560”.
CM-1 Vol. 29 pag. 1016 - Brogliacci di Polizia, canale 23 volanti. Secondo la versione ufficiale, l'on. Aldo Moro venne prelevato in via Fani e fatto entrare in questa Fiat 132 blu; l'auto avrebbe preso via Stresa verso via Trionfale; sarebbe transitata per le stradine via Belli e via De Bustis; avrebbe superato un cancelletto chiuso con catenella e sarebbe, infine, stata abbandonata in via Licinio Calvo, n. 1. L'auto fu individuata dalla “civetta” - auto civile della Polizia - Squalo 4, il cui equipaggio era composto dall'appuntato (?) Mammoliti Saverio - capo pattuglia - e le guardie Celestini Tommaso, Valvona Aldo e Sapia Gerardo. Non risulta che essi siano stati auditi in sede giudiziaria, né che la loro relazione sia stata acquisita agli atti dei processi. Fortunatamente una copia della relazione di servizio è contenuta negli atti della prima Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro.
(CM-1 Vol. 31 pag. 219). Vi si legge che verso le ore 9.05 la pattuglia avrebbe appreso dalla Sala Operativa di una "sparatoria" in atto in via Fani. La volante, quindi, si sarebbe lì diretta. “Giunti "nei pressi" di questa via i componenti della Squalo 4 venivano informati "che un'auto Fiat targata Roma P79560 pochi istanti prima si era allontanata in direzione della Balduina con a bordo delle persone incappucciate".
CM1 - Vol. 31 pag. 219 - Relazione di servizio Squadra Speciale Squalo 4 del 16 marzo 1978. Appare evidente come la formula utilizzata nella relazione sul luogo e sulle modalità di ottenimento delle informazioni sull'auto in fuga siano quanto meno molto generiche. In particolare si pongono tre importanti questioni:
a) chi fornì le informazioni agli agenti della Squalo 4? Nessuno dei testimoni della strage (cfr. Vol 30, CM-1) indicò in modo preciso la presenza di una Fiat 132: non vi è traccia di testimoni che ne indichino né marca e modello né la targa;
b) dove esattamente la Squalo 4 ricevette le informazioni? Nella relazione si legge “nei pressi di via Fani”, ci si chiede come fosse possibile che un qualche testimone negli intorni di via Fani abbia potuto indicare, come direzione di fuga, la Balduina. Realisticamente nessuno intorno a via Fani avrebbe potuto avere la certezza della direzione di fuga una volta che l'auto si infilò in via Stresa;
c) come mai si descrivono le persone a bordo della Fiat 132 come "incappucciate"? Alla lettura delle testimonianze risulta che nessuno dei testimoni parlò mai di una circostanza del genere. Gli assalitori di via Fani vennero descritti generalmente come indossanti delle divise.
La relazione di servizio dell'appuntato Mammoliti continua, infine, affermando che "del fatto ne davamo immediata notizia alla Sala Operativa, mentre noi ci ponevamo alla ricerca della 132, rinvenendola in Via Lucinio (sic!) Calvo altezza civico 1". Questa affermazione, di fatto conclusiva, è quella che apre il campo ad altri dubbi e riflessioni. Innanzitutto non risulta nei brogliacci una comunicazione proveniente dalla Squalo 4 in cui si informa la Sala Operativa della Fiat 132 in fuga: la prima comunicazione da parte di Squalo 4 è quella relativa al ritrovamento dell'auto alle ore 9.23. Mentre, in orario precedente al ritrovamento, risulta che la Sala Operativa diramò i due comunicati di ricerca della Fiat 132 già citati. Un primo alle ore 9:05 circa, sul canale 13 destinato a tutte le questure con cui “si ricerca anche 132 targata Roma P79560”. E unsecondo sul canale 23, alle ore 9:10 destinato a tutte le volanti, “via Balduina si è allontanata 132 blu Roma P79560 e una 128 bianca Roma M53995 – quattro giovani a bordo armati allontanati zona Monte Mario”. Non si può non notare come molti elementi tra la comunicazione appena trascritta e la relazione della Squalo 4 non siano coincidenti: la Sala Operativa parla di una Fiat 128 insieme alla Fiat 132 e, inoltre, non si accenna al fatto che i passeggeri siano incappucciati. Ciò che più colpisce, invece, è come sia la relazione della Squalo 4 sia la comunicazione della Sala Operativa forniscano come zona della fuga la Balduina o con maggior precisione via della Balduina. Da dove arrivò questa informazione? La risposta, sfortunatamente, non è reperibile tra gli atti disponibili, eppure ci resta difficile ipotizzare l'esistenza di un soggetto che a quell'ora, trovandosi in via della Balduina, avesse potuto riconoscere le due auto come in fuga da un fatto delittuoso e, di conseguenza, ne avesse informato la Polizia. Altra questione centrale che la relazione di Mammoliti pone, è sulle azioni che permisero alla Squalo 4 di ritrovare, in modo praticamente immediato, la Fiat 132. Si trattò di un caso fortuito? Non lo sapremo mai, perché, di fatto, la relazione è priva di qualunque concreta informazione sul percorso seguito dall'equipaggio dal suo arrivo nei “pressi di via Fani” fino a via Calvo. Da quanto fin qui esposto, appare evidente che le due principali questioni di interesse riguardano la tempistica della segnalazione sulla Fiat 132 in fuga: fu Squalo 4 a comunicarlo alla Sala Operativa, come afferma nella relazione, o viceversa? L'altra questione riguarda il soggetto che fornì la segnalazione. In questa ricerca ci imbatteremo, come si vedrà in seguito, in un altro elemento che non si esita a dire sconcertante: non vi è tra i testimoni oculari escussi il 16 marzo alcuno che abbia riferito con precisione né della presenza di una Fiat 132 tra le auto utilizzate nella azione di via Fani, né della targa Roma P79560, e, soprattutto, non ve ne è alcuno che abbia riferito che l'on. Moro sia stato condotto su un'auto di questo modello. Le testimonianze, nella prima verbalizzazione del 16 marzo, sono disponibili nel vol.30 CM-1 ed è facilmente verificabile quanto qui affermato (Tabella delle testimonianze di via Fani). Ulteriore elemento a riprova della nostra tesi è riscontrabile nelle due relazione di servizio del 16 marzo una degli agenti Di Berardino e Sapuppo e l'altra del maresciallo Abbondandolo relative ai primi accertamenti compiuti in via Fani.
CM-1 Vol. 30 pag. 40 - Relazione di servizio della guardia di P.S. Di Berardino del 16 marzo 1978. L'unica auto indicata è la Fiat 128 targata Roma M53095, qui definita di colore blu. Si noti che il colore dell'auto (blu) non coincide con quello indicato nei brogliacci che e` bianco. La Fiat 128 di colore bianco con targa Roma M53055 (si noti che il 9 era un 5) fu rinvenuta anch'essa in via Calvo nella primissima mattinata del 17 marzo.
CM-1 Vol. 30 pag. 41 - Relazione di servizio M.llo Abbondandolo del 16 marzo 1978. Nei verbali di interrogatorio dei testimoni identificati dal Mareciallo Marini, Pistolesi, Proietti - nessuno indica tra le auto in fuga una Fiat 132. (CM-1 Vol. 30). Solo il rapporto redatto in data 17 marzo - cioè il giorno dopo i fatti - dal capo della Digos Spinella per il sostituto Procuratore Infelisi, indicherà la Fiat 132 targata Roma P79560 come l'auto sulla quale venne trasportato l'on. Moro. Che la Fiat 132 fosse ricercata già dai primi minuti successivi alla strage è un dato accertato, come ampliamente fin qui esposto. Resta oscuro il soggetto che la segnalò alla Polizia, così come rimane incerto se su questa auto vi fosse stato trasportato l'on. Moro. Una testimonianza che, per prima, fa pensare che l'on. Moro fosse stato trasportato con la Fiat 132, è quella di Antonio Buttazzo, verbalizzata il 17 marzo, quando - bisogna dirlo - il ritrovamento della Fiat 132 e la targa erano già stati resi noti a mezzo stampa. Antonio Buttazzo raccontò che mentre era in attesa dell'Ing. Pellegrini di cui era autista, resosi conto del rapimento in corso si sarebbe posto all'inseguimento del convoglio in fuga per un tratto di strada che va da via Stresa angolo Via Molveno fino all'intersezione di via Trionfale con via della Camilluccia. Buttazzo riferì che all'altezza di questo incrocio, dove interruppe l'inseguimento, fermò una sopraggiunta auto della polizia; nel corso del tempo, sottoposto a più deposizioni, descrisse l'auto ora come “civetta” ora come “volante”. Ai poliziotti Buttazzo indicò targa e tipo di auto che stava inseguendo: la Fiat 132 blu targata Roma P79560. Alcune coincidenze potrebbero far ritenere che Buttazzo sia proprio l'informatore della Squalo 4. Eppure altri elementi sembrerebbero non confermare questa ipotesi: la Squalo 4 nella relazione fa riferimento alla sola Fiat 132, mentre Buttazzo dichiarò di aver notato anche una seconda auto di complici - una Fiat 128 di colore blu -, inoltre, Buttazzo riferì ai poliziotti che le auto si sarebbero allontanate in direzione di villa Stuart, quindi in direzione opposta a via della Balduina e, a dire il vero, anche opposta a via de Bustis - la strada attraversata dalle auto in fuga secondo la versione ufficiale-. Di queste due versioni ci sembrano più rilevanti gli aspetti divergenti e pertanto possiamo affermare con una certo livello di convinzione che Antonio Buttazzo sia da escludere come fonte.
(CM-1 - Vol. 30 pag. 78 - Vol. 40 pag. 84 - Vol. 41 pagg. 412, 435, 631, 938). L'altra ipotesi percorribile è quella relativa alla telefonata in Questura - sul “canale 2400” - da parte dell'on. Pino Rauti. Alle ore 9.15 l'onorevole del MSI - abitante in via Stresa, 133 - comunicò che si era “allontanata una Fiat 132 blu targata Roma P79560 con dei giovani a bordo due vestiti da ufficiali dell'aeronautica”.
CM-1 Vol. 29 pag.994 - Chiamata dell'on. Rauti in questura del 16 marzo 1978 alle ore 9:15. Va notato che questa informazione arriverebbe alle ore 9:15, quindi in un momento successivo – di almeno 5 minuti - dalla comunicazione di ricerca diramata dalla Sala Operativa. Inoltre, nella chiamata dell'on. Rauti non si fa riferimento alla direzione di fuga, tantomeno, quindi alla zona della Balduina o di via della Balduina. Non possiamo, inoltre, non osservare che questa segnalazione telefonica abbia dei tratti problematici; innanzitutto perché è la sola testimonianza scritta del 16 marzo in cui un cittadino indichi, tra le auto in fuga da via Fani la Fiat 132 blu con targa Roma P79560, e lo faccia con estrema precisione. In secondo luogo le caratteristiche dell'auto sarebbero state raccolte da una certa distanza – da un balcone - in un punto in cui via Stresa compie una curva repentina. Inoltre, nel corso degli anni l'on. Rauti, in alcune interviste, aggiunse ulteriori particolari, come la visione del corpo dell'agente Iozzino a terra, cosa sulla quale è lecito avanzare più di un dubbio data la posizione reciproca dell'osservante e del corpo. A prescindere dai dubbi appena esposti, va rilevato che la relazione dell'appuntato Mammoliti è inequivocabile. Vi si afferma che l'equipaggio apprese della Fiat 132 "nei pressi" di via Fani e che abbia, quindi, comunicato questa notizia alla Sala Operativa, non il viceversa. Le domande che ci siamo posti restano inevase. Chi è il soggetto che per primo segnalò la Fiat 132? Chi disse che quest'auto si fosse allontanata in direzione della zona Balduina o di via della Balduina? Chi comunicò della presenza dell'on. Moro su quell'auto? Con rammarico ammettiamo che ci sfiora anche l'idea che qualcuno, tra le forze dell'ordine, abbia potuto inseguire questa auto in fuga da via Fani. Di sicuro sui brogliacci della Sala Operativa da Squalo 4 abbiamo solo due comunicazioni. La prima, quella del ritrovamento delle 9:23, la seconda delle 9:27 in cui si informa che “da via Calvo si sono allontanati due giovani a piedi di cui una donna e un uomo armati”.
CM-1 Vol. 29 pag. 1017 - Broglicci di Polizia sul canale 23, volanti. E poi Squalo 4 sparisce dai brogliacci di giornata, come sparisce in generale dall'inchiesta: la relazione di servizio che redigono non chiarisce i molti dubbi fin qui discussi e non ci risulta che i quattro componenti dell'equipaggio siano stati escussi in altre sedi. Se si vuole aggiungere un'altra piccola riflessione sulla Squalo 4 vale la pena ricordare che la Sala Operativa comanda in via Fani quattro volanti: V12, B4, V. Zara e SM91, come si vede non la Squalo 4 che tuttavia si recherà “nei pressi” del luogo della strage. Cosa è la sezione Squali? Nel libro “Giorgiana Masi: indagine su un mistero italiano” di Concetto Vecchio (link) si apprende che il"gruppo Squalo” sarebbe “una squadra di super addestrati che viene utilizzata solo per contrastare reati in svolgimento, ovvero quando c'è la possibilità di scontri a fuoco. Poliziotti che dipendono dalle sezioni sportive della PS, che fanno molti ritiri, i migliori tiratori scelti della polizia …". Se erano “nei pressi” di un conflitto a fuoco della portata di via Fani, perché la Sala Operativa non comandò anche loro? Se provassimo a riassumere in poche righe quanto sin qui esposto, potremmo dire che Squalo 4 si trovò “nei pressi” di via Fani casualmente; che trovò da quelle parti un soggetto – il cui nome non venne verbalizzato - che li mise all'inseguimento della Fiat 132 di colore blu fornendo loro anche la targa; che Squalo 4 trovò nel giro di pochi minuti l'auto abbandonata in via Calvo. Di stranezze ne abbiamo messe insieme un bel po', ma, a dire il vero, non finisco qui. Perche` intorno alle ore 10:00 in via Calvo interviene Digos 4, auto con a bordo il commissario capo Mario Fabbri e il brigadiere di P.S. Vittorio Faranda. E si badi bene, l'auto compare sulla scena senza che dai brogliacci si legga che questa fosse stata comandata dalla Sala Operativa. La prima cose che colpisce nella relazione di servizio è che in essa non si fa cenno a Squalo 4: non si dice che il ritrovamento della Fiat 132 sia da addebitare ad essi.
CM-1 Vol. 30 pag. 106 - Relazione di servizio di Digos 4 del 16 marzo 1978. Sorvolando su alcune imprecisioni contenute nella relazione (come ad esempio la posizione di rinvenimento dell'auto) su cui torneremo in un prossimo articolo, ciò che piu` ci lascia perplessi è il modo in cui viene descritto il ritrovamento dell'auto. Non si indica il motivo per cui la Digos 4 si fosse recata in via Calvo; non si dice che il ritrovamento sia avvenuto ad opera di Squalo 4, si ha quasi l'impressione che a rinvenire l'auto fossero stati gli stessi agenti della Digos; si indica come orario di abbandono dell'auto le 9:30-9:40, quando sappiamo che l'auto fu individuata alle ore 9:23. Perchè queste imprecisioni? Che la Fiat 132 fu trovata da Squalo 4 alle ore 9:23 lo si legge negli atti: nei brogliacci e nella relazione di servizio a firma del capopattuglia Mammoliti. Tuttavia le notizie che da essa si ricavano sono scarne e frammentarie, regna una vaghezza estrama. Squalo 4, non viene citata nella relazione della Digos appena detta e scompare dalle carte dell'inchiesta, come se quel ritrovamento fosse un fatto naturale. Una considerazione finale è a questo punto d'obbligo. Da quanto fin qui esposto e dalla documentazione disponibile il ritrovamento della Fiat 132, in particolare la sua tempistica, priva di ogni fondatezza la versione sostenuta dagli ex brigatisti in ordine alle modalità della fuga e in particolare del presunto trasbordo dell'On Moro dalla 132 sul furgone in Piazza Madonna del Cenacolo, prima di condurre l'auto in Via Calvo. La Commissione di inchiesta sul caso Moro presieduta dall'on. Fioroni che si appresta a concludere i lavori, pare che abbia rilevato alcune delle incongruenze del racconto brigatista sulla fuga. I lavori sembrano conclusi, eppure alcune risultanze non sono ancora state rese pubbliche. Tra queste le analisi del DNA sui reperti. Facciamo presente che anche su su tutte e tre le vetture comunemente accertate quali componenti del convoglio di fuga del commando - Fiat 132, Fiat 128 bianca e Fiat 128 blu (anche nella Fiat 130 su cui viaggiava Moro) - furono individuate macchie di sangue. Auspichiamo che gli esiti delle indagini sui reperti biologici vengano resi quanto prima di pubblico dominio perché, se vi sono gli elementi per appurarlo, che si renda noto come minimo su quale auto fu trasportato l'on. Moro.
Di seguito l’inchiesta di Marianna Gianna Ferrenti pubblicata su “L’Indro” il 17 maggio 2016. “La storia della Repubblica tra gli anni Settanta e Ottanta, fino al 1993, è stata macchiata da alcuni clamorosi depistaggi che hanno alterato, con modalità diverse, il percorso delle indagini riferite ad alcuni eccidi più sanguinari. Una macchia oscura che con le sue metastasi si estende all’Italia di oggi. Dalle stragi di Bologna e di Piazza Fontana a Milano, fino a quella di Piazza della Loggia a Brescia. Dall’omicidio di Aldo Moro a quello di Peppino Impastato, sino al mistero che avvolge il ritrovamento dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e alla Trattativa Stato-Mafia, tanti sono stati i tentativi di inquinare le prove o di occultare la documentazione che avrebbe potuto rappresentare un tassello importante per scoprire tutta la verità, senza strascichi o zone d’ombra. Antonio Giangrande, sociologo e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore di numerosi libri sulle più grandi stragi del passato, tra cui “‘Aldo Moro. Quello che si dice e quello che si tace’ esprime numerose perplessità sul Disegno di Legge in questione. “Dopo tanti anni ancora non sappiamo la verità su una vicenda storica che ha cambiato l’Italia. L’esigenza della verità su un fatto storico, induce le persone offese dal reato, da singoli o in associazione, a pretendere più la punibilità dell’ostracismo, che la conoscenza della stessa verità. Il legislatore, da parte sua, prima o poi, questa esigenza la soddisfa”. È risaputo, infatti, che molti lati oscuri di queste inchieste, che hanno portato alla decelerazione, affievolimento o addirittura al fermo delle indagini derivano proprio dalla mancata collaborazione di pubblici ufficiali con l’autorità giudiziaria, come testimoniano numerosi dossier (dossier mitrokhin, dossier Ustica, i documenti sui depistaggi nella strage di Bologna e molti altri ancora). L’11 maggio è stato approvato in Commissione Giustizia un DDL che predispone le condizioni per introdurre nell’ordinamento giuridico il reato di depistaggio e di inquinamento processuale. Il provvedimento prevede l’introduzione di pene detentive dai 6 ai 12 anni per chi, con modalità diverse, depista le indagini, e si arriva 20 anni di carcere, con applicazione della pena massima, nel caso in cui intervengano particolari aggravanti, come il coinvolgimento di persone innocenti. Saranno considerate inoltre tutte le aggravanti che vanno dal traffico illegale di armi o del materiale nucleare, chimico o biologico, fino al favoreggiamento di attività terroristiche. L’attuale relatore del provvedimento, Felice Casson (Pd) annuncia che il provvedimento sarà calendarizzato sicuramente per la fine del mese e puntualizza che dovrà comunque tornare alla Camera perché sono state apportate alcune sostanziali modifiche al testo originario. Per esempio l’inasprimento delle pene se a commettere il reato è un pubblico ufficiale. Eppure Giangrande non è affatto convinto che il Disegno di Legge apporterà dei cambiamenti significativi, soprattutto in relazione alla scoperta della verità sulle stragi passate e presenti, ma neppure configura degli elementi di chiarezza in una prospettiva futura. “Non è una norma aggiuntiva a quelle già esistenti ad indurre l’autore del depistaggio o dell’inquinamento processuale a cambiare comportamento o a far conoscere l’agognata verità. Il Codice Penale italiano prevede già la calunnia, la falsa perizia, la falsa testimonianza, la falsa informazione al Pubblico Ministero od al difensore, la frode processuale o il favoreggiamento processuale. La novella speciale si aggiunge alle precedenti, affidandosi all’interpretazione delle toghe per la sua applicazione. Inoltre, applicata all’autore del reato primario, come concorso del reato, potrebbe in alcuni casi aggravare la pena, tanto da farla diventare non proporzionale al fatto commesso” chiarisce il sociologo. Tra gli aspetti preminenti del provvedimento vi è anche la reclusione fino a quattro anni per chiunque impedisca, ostacoli o svii un’indagine o un processo penale, anche attraverso l’occultamento delle prove o l’alterazione della documentazione, con un inasprimento della pena (da un terzo alla metà) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale. La pena invece è diminuita dalla metà a due terzi nei confronti di coloro che si adoperano a ripristinare lo stato originario dei luoghi, delle cose, delle persone o delle prove, o ad evitare che il delitto commesso comporti d ulteriori conseguenze. In pratica, la riduzione della pena è prevista per coloro che collaborano con la Polizia o l’autorità giudiziaria per ricostruire il fatto che ha causato l’inquinamento processuale e per identificarne gli autori. L’Indro su questo Disegno di Legge ha interpellato anche uno dei relatori del provvedimento, il senatore Nico D’Ascola (AP), che ha seguito gran parte del percorso legislativo conclusosi con l’approvazione del testo in Commissione Giustizia. Gli abbiamo chiesto le motivazioni che hanno allungato i tempi di approvazione, tenendo conto che si tratta di un provvedimento già approvato alla Camera nel settembre 2014. Sembrava aver subito un blocco dei lavori al Senato, fino a quando non è stato assegnato alla Commissione competente nel luglio 2015. D’Ascola riferisce la difficoltà di dover intervenire su una materia così complessa come quella che riguarda norme del diritto penale incriminatrici e fortemente limitative della libertà personale. Ma ammette che una volta superati gli ostacoli tecnico-giuridici, il proseguo dell’iter parlamentare è stato in discesa. Non ci sarebbe stato quindi alcun conflitto di natura politica, tant’è che l’11 maggio il provvedimento è stato approvato all’unanimità. Tra gli aspetti che il provvedimento prende in considerazione vi è la proporzionalità del reato in relazione sia alla sua gravità sia allo stato di luogo, di cose o di persone. “Il depistaggio nasce sostanzialmente da una sommatoria tra le falsità processuali e la falsa testimonianza. Si punisce separatamente la condotta di chi abbia commesso depistaggio durante l’attività processuale, ovvero abbia reso falsa dichiarazione o taciuto con falsa testimonianza circostanze rilevanti, con attività di inquinamento durante la fase di accertamento del giudice. Il depistaggio, inoltre, è aggravato se commesso in relazione a procedimenti dedicati all’accertamento di reati particolarmente gravi” aggiunge D’Ascola. In pratica, viene punita soltanto la fattispecie in cui vi è l’intenzionalità a compiere un reato, magari per favoreggiare persone o organizzazioni criminali. È proprio su questo, secondo Giangrande, che il Disegno di Legge non interviene adeguatamente per punire, in proporzione alla gravità del fatto commesso, chi colposamente commette delle gravi imperizie che ostacolano, impediscono o fuorviano il proseguo delle indagini. “ Il provvedimento non aggiunge niente di nuovo all’effetto sperato. D'altronde si dà sempre per scontato che l’opera degli inquirenti e degli investigatori sia meritoria. La carenza strutturale è che non si prevede la punibilità del responsabile delle indagini che durante le sue funzioni abbia trascurato per "Colpa" degli elementi probatori essenziali e non rinnovabili alla soluzione del caso ed alla conoscenza della verità. Questo affinché l’impunità dello stragismo non sia impunità di Stato” commenta il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Su questo aspetto, però, D’Ascola obietta che “punire una sottovalutazione per colpa, cioè di un soggetto che non si è reso conto dell’importanza dell’elemento investigativo, magari sulla base d elementi intervenuti successivamente ai fatti contestati, creerebbe un circuito mostruoso di presunzioni. Francamente, mi sembrerebbe fortemente limitativo della libertà dell’investigatore. Non credo che nessun ramo del Parlamento avrebbe avallato una impostazione di questo genere. Poi, nel caso in cui si verificano gravi imperizie, imprudenze o negligenze da parte di un investigatore, un Pubblico Ministero o un giudice c’è già la responsabilità disciplinare o civile, che interviene a seconda del contesto, del tipo di antigiuridicità, valutando se ci sono degli elementi illeciti rispetto ai quali commisurare una sanzione. In certi casi, la sottovalutazione può essere del tutto incolpevole” precisa il senatore. Arriviamo quindi all’aspetto politico della vicenda legata all’occultamento delle prove o all’universo delle omissioni, delle bugie o alla distruzione di materiale che poteva essere utile allo svolgimento delle indagini. Pur non essendoci elementi che facciano pensare ad un coinvolgimento diretto di influenze politiche nel depistaggio delle indagini, esistono delle comprovate connivenze, per esempio, tra alcune frange estreme della politica e alcune associazioni criminali o terroristiche. La vicenda del rapimento di Aldo Moro e della conseguente uccisione ne è la dimostrazione lampante, ma anche la strage di Piazza Fontana a Milano su cui “le indagini si susseguiranno nel corso degli anni, con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e neo-fascisti; tuttavia alla fine tutti gli accusati sono stati sempre assolti in sede giudiziaria” argomenta Giangrande. O ancora, sulla Strage di Piazza della Loggia a Brescia, le indagini si protrarranno a lungo, per ben 41 anni. “Nella strage dalla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, si giunse ad una sentenza definitiva della Corte di cassazione il 23 novembre 1995. Vennero condannati all'ergastolo, quali esecutori dell'attentato, i neofascisti dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che si sono sempre dichiarati innocenti (mentre hanno ammesso e rivendicato decine di altri omicidi, con l'eccezione di quello di Alessandro Caravillani, di cui la Mambro si dice innocente” chiosa il sociologo. Per Giangrande la vera falla di questo provvedimento è che interviene semplicemente per punire coloro che depistano le indagini, ma non contribuisce in alcun modo alla scoperta della verità. Inoltre non interviene sulle complicità istituzionali, che non sono quelle strettamente legate al mondo politico, come si potrebbe pensare, ma sono ad esempio legate ai Servizi Segreti. “I politici nel tempo cambiano e se fossero loro gli influenzatori o gli occultatori, prima o poi uno di loro canterebbe. Credo che si debba intervenire di più sulla capacità investigativa e sulle complicità istituzionali ed avere diritto a dirlo quando questi sono carenti o devianti e porvi rimedio. Cosa diversa è il mea culpa che la stampa dovrebbe farsi. Un buon cane da guardia della democrazia, se fosse all’altezza della sua autocelebrazione, la verità la scoverebbe al posto degli inquirenti incapaci o delle istituzioni deviate, come fosse un osso nascosto. Senza partigianeria” sottolinea il presidente dell’associazione Contro Tutte le Mafie. All’interno del provvedimento non è prevista la retroattività che, come sostiene il relatore Nino D’Ascola, sarebbe incostituzionale. Tuttavia se fosse stato introdotto molti anni fa, secondo il presidente dall’associazione ‘Tutte le mafie’, non sarebbe cambiato molto nel proseguo delle indagini sulle più grandi stragi del passato. “Non sono le aspettative della piazza a far cambiare le cose, ma la consapevolezza che le norme sono solo frasi in nero su foglio bianco. Quando qualcuno sarà veramente libero di scrivere o parlare e gli sarà permesso di farlo senza ritorsioni, allora la verità verrà a galla. Perché oggi viviamo in un mondo dove se parte la legittima critica, scatta immediata la querela per diffamazione o per calunnia. E purtroppo il potere probatorio è solo in mano alle toghe: giudicanti, ingiudicate” conclude Giangrande.” Marianna Gianna Ferrenti.
Esempio lampante di “colpa” degli investigatori. Le stragi di Parigi e Bruxelles? Colpa di una faida tra poliziotti. Un'ispettore belga aveva consegnato un dettagliato dossier sui terroristi con le mappe dei bersagli. Ma il suo capo lo ignorò per un'antipatia personale, scrive Luigi Guelpa, Lunedì 16/05/2016, su "Il Giornale". La polizia belga disponeva da settembre delle mappe degli obiettivi dei gruppi di fuoco di Parigi e Bruxelles, ma per mesi nessuno le ha consultate. Neppure il tempo di metabolizzare la vicenda dei sessanta militari radicalizzati che il Belgio finisce ancora una volta nella bufera per l'ennesima falla dei servizi di sicurezza. Protagonista in negativo della storia è Yves Bogaerts, il capo della polizia di Malines-Willebroek (località a metà strada tra Bruxelles e Anversa), che non avrebbe preso sul serio un dossier su Salah Abdeslam e i suoi «compagni di merenda». Un carteggio nel quale uno zelante ispettore aveva segnalato tutti gli spostamenti del gruppo jihadista. Non solo, secondo ambienti vicini al ministero degli Interni tra i documenti consegnati a Bogaerts c'erano anche mappe di obiettivi da colpire a Parigi e a Bruxelles e rapporti sugli spostamenti di Abid Aberkan, l'uomo che ha nascosto Salah nella sua casa di Molenbeek fino alla cattura del 18 marzo. Il tutto corredato anche da indirizzi «di possibili covi», compreso quello del civico 79 di rue des Quatre vents, dove venne arrestata la primula rossa delle stragi di Parigi. Il commissario della stazione di Malines avrebbe di proposito dato poco peso al fascicolo redatto dal suo ispettore perché quest'ultimo non avrebbe voluto rivelare le fonti. In realtà, sottolinea il presidente del sindacato di polizia Vincent Gilles, «Bogaerts aveva chiuso ogni tipo di rapporto col suo collaboratore» per vicende sindacali che risalivano all'anno precedente, quando «l'ispettore aveva prolungato il periodo di convalescenza dopo un intervento chirurgico». La matassa è passata al «Comitato P», l'organo di controllo dei servizi di polizia che dovrà pronunciarsi nelle prossime settimane e, con molta probabilità, sollevare dall'incarico il comandante della caserma di Malines. «Non capisco come una relazione informativa così delicata non sia stata letta o trasmessa all'antiterrorismo - spiega il sindaco Bart Somers, confermando la storia - non posso però esprimere ulteriori giudizi. Quando è scoppiato il caso ho manifestato sostegno al comandante Bogaerts, ma la nostra comunità merita maggiore attenzione. L'integralismo anche qui è una minaccia concreta». Nella cittadina fiamminga (80mila abitanti) ci sono stati infatti cinque arresti dopo gli attentati all'aeroporto di Zaventem e alle due linee della metropolitana. Tutti «fiancheggiatori» dei kamikaze dei tragici fatti del 22 marzo. Dall'inizio dell'anno almeno una ventina di giovani originari del Marocco si sono radicalizzati, andando a combattere in Siria e Iraq per il Califfato. Malines dista da Molenbeek (quartiere jihadista per eccellenza) appena 24 chilometri. I problemi sono più o meno gli stessi. Sulle falle della polizia è intervenuto ieri anche Olivier Vanderhaegen, direttore dei mediatori culturali di Malines, gettando ulteriore benzina sul fuoco. «Lavoriamo in situazioni critiche e sotto minaccia. É inconcepibile che la polizia si permetta di giocare con la nostra vita non prendendo sul serio denunce, segnalazioni o, peggio ancora, rapporti di funzionari». Ironia della sorte circa un mese fa i borgomastri di Molenbeek, Francois Schepmans, e di Malines, Bart Somers, avevano firmato un accordo per scambiarsi i funzionari di polizia, in modo che potessero accedere a più informazioni possibili. Alla luce di quanto accaduto le due municipalità hanno deciso per un opportuno passo indietro.
Esempio lampante di “colpa” degli investigatori. Aldo Moro e l’articolo di “Repubblica” del 16 marzo 1978, scrive Giovanni Terzi il 15 marzo 2016 su "Il Giornale". Domani 16 marzo 2016 saranno passati trentotto anni dalla data del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro avvenuto nel 1978. Trentotto anni in cui la verità su chi e perché ha ucciso il presidente della democrazia cristiana stenta a farsi luce nonostante i grandi sforzi prodotti anche dalla ultima commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dal l’onorevole Gero Grassi che con grande abnegazione sta cercando di riportare alla luce la verità storica fino ad oggi troppo spesso volutamente dimenticata. Dal 16 aprile 1978 per cinquantacinque giorni Aldo Moro rimase nelle mani delle Brigate Rosse fino a quel maledetto 9 maggio in cui il corpo del politico italiano venne ritrovato a Roma all’interno di una Renault 4 rossa in via Caetani. In questi giorni voglio ripercorrere, come in un diario, ciò che è accaduto nei 55 giorni di sequestro di Moro; scriverò sia la cronaca del tempo come veniva raccontata nel 1978, sia ciò che negli anni seguenti è emerso dagli atti processuali, dalle commissioni d’inchiesta e dalle molteplici testimonianze. Oggi, il giorno prima del rapimento voglio riportare un documento a mio avviso importante che fa comprendere quale fosse il clima politico nel nostro paese in quegli anni. Questo documento riguarda la prima pagina del quotidiano “La Repubblica” in cui si dava lettura degli atti depositati riguardanti lo scandalo “Lockheed” dove si registravano tangenti pagate a politici di mezza Europa per vendere i propri aerei. Il giorno della strage di via Fani “La Repubblica ” usciva con questo titolo ” Antelope Cobbler? Semplicissimo è Aldo Moro presidente della DC”. Antelope Cobbler doveva essere colui che faceva da testa di ponte tra l’azienda aereonautica statunitense ed il governo italiano ricevendo in cambio tangenti. Potete ben immaginare come quel titolo e , soprattutto quella dichiarazione , potesse essere devastante per il politico italiano. L’articolo rendeva noto le dichiarazioni di un teste, Luca Dainelli un ex diplomatico che visse molto negli Stati Uniti. Suggestivamente possiamo immaginare che proprio pochi istanti prima del rapimento Aldo Moro stesse leggendo quell’articolo di “Repubblica”. Insomma mentre Aldo Moro stava per varare un “governo di solidarietà nazionale” un clima non certo benevolo aereggiava sulla sua testa quasi a far capire come quella scelta politica fosse non gradita a molti.
Esempio lampante di “colpa” degli investigatori. Per la Nato Moro non possedeva segreti che mettessero a rischio la sicurezza atlantica, scrive Marco Clementi il 3 gennaio 2016 su “Insorgenze”. Prosegue la nostra inchiesta che prende spunto dall’attività della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro. La storia del sequestro del leader democristiano da parte delle Brigate rosse è costellata di diversivi, false piste, intossicazioni, disseminate per fare confusione. L’ultima drammatica telefonata che Mario Moretti fece alla famiglia Moro è la migliore risposta alla domanda che viene continuamente riproposta: il sequestro avebbe potuto avere un esito diverso? Per sbloccare la situazione il 30 aprile 1978 le Br rinunciano persino a quanto indicato nel loro precedente comunicato, il numero 8: fanno sapere che sarebbe bastata una presa di parola, un segnale per sospendere l’uccisione del prigioniero. Ma la Democrazia cristiana continuò a tacere fino alla mattina del 9 maggio. Perché questo silenzio? Perché la Dc restò immobile anche difronte ai segnali di ammorbidimento della posizione brigatista? Oggi ci dicono che il presidente della Repubblica Leone, informato della chiamata fatta dalle Br avrebbe risposto alla stessa signora Moro, «tengo la penna in mano», pronto a firmare la grazia per la liberazione di Paola Besuschio, militante delle Br incarcerata; sembra anche che la mattina del 9 maggio 1978Amintore Fanfani dovesse pronunciare un discorso davanti ai vertici del partito, riuniti nella sede nazionale di piazza del Gesù, ma l’intervento alla fine sarebbe stato rinviato a dopo le elezioni amministrative del 14 maggio per evitare di avvantaggiare gli avversari politici… E perché il Pci si mostrò tanto ostile verso il prigioniero Moro, suo referente fondamentale nella strategia del compromesso storico, decretando l’inautenticità delle sue lettere e addirittura considerandolo «già morto» dopo lo scritto su Taviani (Lettera al sen. Paolo Emilio Taviani allegata al comunicato n. 5 del 10 aprile 1978)? Un Pci che il 18 aprile 1978 vide uno dei suo massimi dirigenti, il futuro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ottenere il visto e partire per la prima volta verso gli Stati uniti dove avrà incontri molto importanti con l’establishement a cui avrà modo di esporre la posizione del partito comunista sul rapimento Moro e trovare ampia comprensione e condivisione per la scelta della «linea della fermezza» (affronteremo meglio questo capitolo in una delle prossime puntate). La mancata trattativa e l’esito del sequestro trovano una buona dose di spiegazioni nell’atteggiamento tenuto dalle due maggiori forze politiche dell’epoca. Proprio per evitare di indagare le ragioni di queste scelte, con il loro portato di conseguenze e responsabilità, si sono diffuse le dietrologie più diverse: tra queste spicca la teoria del «doppio ostaggio», un cervellotico scenario alla Le Carré. Secondo questa ipotesi, elaborata del senatore Pellegrino presidente della precedente commissione che si occupò del caso Moro, ad un certo punto del sequestro per le Br come per la loro controparte avrebbe perso importanza la persona di Moro. La sorte del prigioniero sarebbe passata in secondo piano rispetto ai segreti contenuti nelle carte (il «secondo ostaggio») che su indicazione di Moro le Br avrebbero ricevuto da emissari a lui vicini e barattato con i Servizi segreti (un’altra variante ipotizza una intercettazione da parte dei Servizi delle carte) di non meglio specificate potenze straniere (che in questa teoria si equivalgono senza particolari differenze tra Est e Ovest). La morte di Moro, anzi la decisione di rinunciare alla sua liberazione dalla prigione, «già individuata» secondo i propugnatori di questa suggestiva trama noir, sarebbe stata la diretta conseguenza del soggiungere sulla scena del sequestro delle carte segrete tenute da Moro nel suo studio di via Savoia. Ed è propio sul contenuto delle carte dell’archivio Moro, depositate da qualche tempo presso l’Archivio centrale dello Stato, che si è incentrata l’attenzione di Marco Clementi. E così l’approccio diretto alle carte ci dimostra che ogni qualvolta i documenti riemergono sulla scena le narrazioni noir devono lasciare in tutta fretta il posto alla storia. Una delle ipotesi che circolano ancora oggi sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro riguarda la possibile consegna di documenti custoditi da Moro nel suo studio di Roma alle Brigate rosse o, per loro, a entità diverse, diciamo straniere. Si tratta, per estensione, della teoria del doppio ostaggio, formulata dal presidente della Commissione Stragi sen. Giovanni Pellegrino, per la quale le Br, acquisiti i documenti riservati, ebbero la possibilità di trattare sia per Moro, sia per le carte. L’ipotesi non ha mai trovato riscontri oggettivi, ma continua a circolare. Oggi, a differenza del passato, si è in grado di illustrare il contenuto dell’archivio di Aldo Moro di via Savoia e di come fu gestito dopo l’uccisione dell’uomo politico. Per la Nato e i Servizi Moro possedeva informazioni riservate ma non sensibili. Siamo, com’è noto, nel 1978. La situazione politica italiana è complessa. Il partito che ha governato il paese per 30 anni non ha più il controllo del Parlamento e solo un concreto aiuto del Pci può consentire il governo del paese. Si tratta del “compromesso storico”, se visto da Botteghe oscure, o della “solidarietà nazionale”, se si usa l’espressione coniata dai democristiani. La Nato, ovviamente, temeva l’ingresso del PCI al governo (fatto indicato specialmente da ambienti dell’ex partito comunista come il movente del rapimento), ma non perché avrebbe portato i cosacchi ad abbeverare i cavalli in Vaticano. Il problema era l’accesso di un partito finanziato da Mosca ai segreti militari dell’Alleanza Atlantica. Quando Moro cadde nelle mani di una entità sconosciuta a Bruxelles, la situazione si complicò ancora di più. Appurato che nessun italiano all’epoca fosse a conoscenza del targeting Nato e che il Pci non avrebbe mai avuto accesso a informazioni sensibili, la situazione si chiarì nel corso di pochi giorni. La nota dell’Autorità nazionale per la sicurezza. Ecco cosa riporta un documento contenuto inACS, MIGS b. 23 C parte A, dispacci MAE, f. 18 cartella 1: «Appunto autorità nazionale per la sicurezza siglata il 31 marzo 1978 da Ambasciatore Malfatti, segretario generale MAE per la politica estera, dall’ammiraglio Mainini, sottocapo di stato maggiore della difesa, per la parte militare. Per le questioni Nato è stato sentito l’ambasciatore presso l’alleanza atlantica Catalano. Il rischio di sicurezza connesso al rapimento dell’on. Moro va considerato rispetto ad alcuni temi che potrebbero essere argomento di interrogatorio e che sono ipotizzabili anche attraverso comunicazioni contenute nei messaggi delle Br numeri 2 e 3… Il segretario Generale del nostro Ministero Affari Esteri, interpellato sulla possibilità che all’on. Moro possono essere strappati segreti connessi alla politica estera italiana o ai rapporti internazionale del nostro paese, esclude l’esistenza di fatti riservati di rilevante importanza, in quanto tutto è praticamente noto attraverso la stampa normale e specializzata. In effetti il ruolo dell’Italia non è tale da poter influire sugli equilibri internazionali e quindi, da necessitare una specifica e così clamorosa azione di ricerca da parte di altra nazione. Nel settore militare di interesse esclusivamente nazionale non esistono elementi a conoscenza dello On. Moro che possono costituire un rischio di sicurezza. L’uomo di stato era indubbiamente a conoscenza di cose riservate nelle loro linee generali ma evidentemente non poteva scendere nei dettagli operativi. Per quanto riguarda i nostri rapporti con la Nato può essere ripetuto il discorso precedente, in quanto nessun uomo politico scende nei dettagli operativi… L’unico punto debole potrebbe essere quello che l’Italia è membro permanente del Nuclear Planning Group ma il nostro ambasciatore presso la Nato esclude che l’on. Moro fosse a conoscenza di fatti capaci di incrinare la sicurezza dell’alleanza. Inoltre va rilevato che la parte più riservata della strategia nucleare è rilasciata solo alle nazioni in possesso di proprio armamento nucleare e che pertanto il targeting completo e le norme di impiego non sono a conoscenza di nessun elemento nazionale». Le carte dell’ufficio di via Savoia. Chiarito che Moro non aveva informazioni sensibili, se ne può dedurre logicamente che nel suo Archivio non conservasse neanche documenti in tal senso. Altre informazioni, diverse dal targeting Nato, davvero non valevano l’uccisione di 5 uomini e il rapimento di Moro. Comunque, vediamo quale fosse la consistenza del fondo di via Savoia. Si tratta di sei armadi blindati contenenti documentazione di varia tipologia, in parte proprietà dello Stato (e che, dunque, non doveva trovarsi lì), in parte privata, che richiese mesi di lavoro alle Commissioni incaricate della stesura di un inventario e che, infine, venne acquisita dallo Stato italiano, comprandola, per la parte privata, dalla famiglia Moro. È altamente, per non dire certamente, improbabile che Moro conoscesse l’ubicazione di documenti specifici, visto il loro alto numero (229 faldoni). Tuttavia, sono presenti documenti segreti e riservati. Essi furono acquisiti dalla Pubblica amministrazione nel 1983 e custoditi presso la Segreteria speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Riguardavano due casi importanti per Moro: il processo De Lorenzo e lo scandalo Lockheed. Il dossier De Lorenzo. Nella prima vicenda sulla quale, com’è noto, Moro aveva posto il segreto di Stato, lasciando che fossero condannati per diffamazione due giornalisti come E. Scalfari e L. Jannuzzi (condanna poi non confermata in secondo grado per la remissione della querela del generale De Lorenzo e del colonnello Mario Filippi) [Elenco dei documenti contenuti nel pacco n. 1 ora in ACS, fondo Moro, Carabinieri, busta 174]. I documenti riguardanti questioni militari e la Nato risalgono al periodo 1963-1969, mentre sono molto più recenti, ossia del 1977, due documenti su forze di polizia e ordine pubblico. Il carteggio sullo scandalo Lockheed. Il carteggio sullo scandalo Lockheed per lo più proviene dal Parlamento, sebbene alcune carte siano state prodotte da Ovidio Lefevre, uno degli uomini coinvolti nello scandalo, e dal senatore Luigi Gui, uno dei ministri della Difesa coinvolti nello scandalo con Mario Tanassi. Qui va fatto un inciso. Lo scandalo, infatti, che riguardava la vendita all’Italia di aerei forniti dalla ditta Lockheed, costrinse il Parlamento a formare una commissione inquirente. La seconda, in particolare, che operò nel 1976-77, fu presieduta dal senatore Mino Martinazzoli, coadiuvato da due vice, uno del Pci e uno del Psi e composta da 8 Dc, 7 Pci, 2 Psi, un membro di Sinistra Indipendente, uno di Democrazia Nazionale e uno del Gruppo Misto-Union Valdotaine. Il voto di Martinazzoli fu decisivo per non incriminare l’ex primo ministro coinvolto, Mariano Rumor, mentre Gui e Tanassi vennero incriminati. Durante la seguente discussione in aula, Moro pronunciò un discorso divenuto famoso per questo passaggio: «…Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare…». Le commissioni Dainotto e Serra. Tornando all’archivio di Moro, la documentazione riservata e segreta successiva riguarda l’attività del presidente democristiano quando era ministro degli Esteri, dunque fino al 1974. Della metà degli anni Sessanta sono un consistente numero di documenti riguardanti la “società Cogne”, attiva in Val d’Aosta nel comparto energetico (1965-1968). La prima commissione incaricata di inventariare l’Archivio e valutarne il contenuto fu istituita nel 1983, presieduta dal prefetto Aldo Dainotto. Fu questa a individuare la serie di documenti coperti da segreto (una porzione «assai esigua» rispetto al contesto archivistico, scrisse nella sua relazione), serie trasferita presso la Segreteria speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Una seconda commissione, istituita nel 1992 e presieduta dal prof. Enrico Serra, concluse i suoi lavori affermando che «non esistevano documenti rilevanti sotto il profilo del segreto di Stato oltre a quelli già acquisiti alla Pubblica Amministrazione dalla Commissione Dainotto». Arrivo in Acs e commissione Porpora. Nel 1995 l’archivio Moro fu acquisito dall’Archivio centrale di Stato e venne ad affiancarsi agli archivi personali di altri uomini politici come Giolititi, Orlando, Parri, Sforza e altri. Si diede inizio a un lavoro di lettura e inventario delle carte in vista della apertura alla consultazione del fondo, rispettando la sequenza dell’ordinamento dato da Moro (o da suoi collaboratori). Le carte, oltre a quelle segrete e riservate già citate, sono relative all’attività del presidente come ministro di Grazie e giustizia (1955-1957), della Pubblica Istruzione (1957-1959) di segretario della Dc (1959-1963), di ministro degli esteri (in più fasi dal 1964 al 1974) e di presidente del Consiglio (1963-1968 e 1974-1976) [Archivio centrale dello Stato, fondo Moro, CC, b. 174]. Le prime 32 buste sono oggi liberamente consultabili. Contengono documenti degli anni 1959-1978 costituiti da minuti di testi e discorsi, molti dei quali pubblici. Le buste 33-37 sono parzialmente consultabili. Contengono note biografiche, appunti, rassegne stampa, fotografie, interventi parlamentari, messaggi di saluto. Le buste 38-58 non sono consultabili. Contengono carte sull’ordine pubblico e la sicurezza interna (1971-1977), carte dell’Ufficio del capo di Gabinetto di Moro ministro degli Esteri e del presidente del Consiglio. Le buste 60-196 contengono documentazione varie relativa all’attività di Moro in qualità di ministro di Grazia e giustizia, della Pubblica istruzione ecc., questioni Onu, Nato e Cee. Le altre buste contengono interventi parlamentari, documenti sulle visite di Stato di Moro e di personalità straniere in Italia. L’ultima commissione, istituita nel 2003 e presieduta dal Consigliere di Stato, prof. Giuseppe Porpora, fu incaricata di verificare l’eventuale permanenza di motivi che impedivano il trasferimento della documentazione conservata presso la Segreteria speciale della Presidenza del Consiglio dei Ministri all’Archivio centrale dello Stato. Alla fine dell’esame, una parte venne declassificata (159 fascicoli), mentre su 7 fascicoli è stato mantenuto il segreto. Senza conferme il teorema del “doppio ostaggio”. Alla luce di questa breve ricognizione del fondo Moro, appare molto difficile credere a un passaggio di carte da via Savoia a via Montalcini o Rapallo, in Liguria, dove si riuniva permanentemente l’esecutivo brigatista. Andiamo per logica. Se Moro fosse stato rapito da un servizio occidentale, non esistevano segreti che egli conoscesse e non conoscessero i suoi eventuali rapitori. Se a farlo fosse stato un servizio dell’Est, allora questo avrebbe sbagliato persona. Molto più semplice e meno vistoso sarebbe stato operare come di solito agiscono i servizi, ossia ricattando, infiltrando o corrompendo. Se, infine, furono le Br, come noi crediamo, in questo caso nessuno dei pentiti o dei dissociati ha mai ricordato la circostanza. Né, se consegna di documenti ci fu, nessuno dell’eventuale canale di ritorno ha mai detto una parola in proposito, neanche oggi a distanza di 37 anni, né le eventuali carte sono mai saltate fuori, nemmeno dal luogo dove in questo caso sarebbero dovute naturalmente finire, ossia la base di via Monte Nevoso a Milano. Non che quei documenti non potessero suscitare l’interesse delle Br, specialmente considerando che l’uomo di potere Aldo Moro aveva nel suo studio Dossier, conservava segreti che potevano essere usati in politica, dandogli potere di intervento in determinate situazioni. E, come vedremo in uno dei prossimi interventi, proprio nei giorni precedenti il sequestro, Moro si era attivato per far mettere sotto controllo il proprio studio di via Savoia, ma solo “quando era assente”. Eppure, il Memoriale redatto da Moro in via Montalcini smentisce qualsiasi ipotesi di consegna. Se, infatti, ci fosse stato un passaggio di documenti, a cosa sarebbero servite le memorie di Moro sugli stessi argomenti, senza peraltro incontrare un solo riferimento a eventuali carteggi? Se le Br avessero saputo che Moro conservava le carte degli scandali, del Sifar o della Lockheed, e che Moro era stato prima di tutto interessato a salvare, o salvaguardare, il suo partito e se stesso, allora avrebbero potuto usarli davvero come mezzo di pressione per rompere il muro della fermezza. Ma non lo fecero. Semplicemente perché non avevano in mano alcuna di quelle carte. Infatti annunciò: «Forse rapiscono Moro» pochi minuti prima del sequestro del politico Dc.
Rapimento Moro, nuove carte mostrano che l’allarme lanciato dai palestinesi non riguardava il presidente della Dc, scrivono il 16 marzo 2016 Marco Clementi e Paolo Persichetti su “Insorgenze”. Il 20 aprile 1978, in pieno rapimento Moro, un ex appartenente ai Servizi di sicurezza del Venezuela fornisce al Sismi informazioni su due riunioni segrete tenute a Madrid e poi a Parigi nei primi mesi del 1978 sotto la direzione di una «Giunta di coordinamento rivoluzionario», la JCR (Junta coordinadora revolucionaria). La notizia, esposta in questi termini, era già nota alla prima commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro (presieduta tra gli altri dal senatore Libero Gualtieri nel corso dell’VIII legislatura, 1979-1983). Il Sismi ne aveva scritto all’interno di una Relazione (pag. 21-22) inviata alla commissione, dove forniva «elementi specifici di risposta in funzione dei quesiti posti alla Commissione Parlamentare d’inchiesta». Oggisiamo in grado di presentarvi nella sua versione integrale quell’appunto del 20 aprile citato dal Sismi. Si tratta di un testo di due pagine redatto senza intestazione, data, numeri di protocollo e altri riferimenti (lo potete visionare qui accanto) ritrovato tra le carte della direttiva Prodi depositate presso l’Archivio centrale dello Stato (Direttiva Prodi, “Caso Moro”, Fondo Ministero Interno Gabinetto Speciale, busta 11). Perché questo documento è importante? Recentemente si è tornati a parlare, contro ogni evidenza, di segnali che avrebbero anticipato il progetto di sequestro del presidente della Democrazia cristiana e messo addirittura in allarme il caposcorta e lo stesso Moro. Lo ha fatto la nuova commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta da Giuseppe Fioroni, mischiando episodi diversi, in passato ampiamente indagati e rivelatisi infondati, che suscitarono una certa preoccupazione da parte del leader democristiano, non per la sua persona ma per le carte riservate presenti nell’archivio personale di via Savoia (oggi sappiamo – leggi qui – che vi erano conservati documenti di Stato, in particolare le carte del caso Sifar e dello scandalo Lockeed, di cui si discuteva molto in quel periodo). La preoccupazione per la tutela di quei dossier era tale che Moro chiese alle forze di polizia «un servizio di vigilanza a tutela dell’ufficio di via Savoia» nelle ore della giornata in cui non era presente, richiesta che mostra quanto fosse poco allarmato per la sua persona. Altro spunto utilizzato dalla commissione per rilanciare la pista dell’allarme preventivo è stato il cablo pervenuto da Beirut il 18 febbraio 1978 (in realtà comunicato al Sismi il giorno precedente), dove la fonte 2000 (presumibilmente il colonnello Giovannone capocentro in Libano) riferiva la notizia fornitagli dal capo del FPLP George Habbash di una possibile azione terroristica che avrebbe potuto coinvolgere l’Italia. Il documento è stato rinvenuto da chi scrive nella scorsa primavera tra i files depositati dall’Aise presso l’Archivio centrale dello Stato, nell’ambito delle Direttive Prodi e Renzi, e reso pubblico nel corso dell’audizione tenuta il 17 giugno 2015 davanti alla nuova commissione d’inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Poiché il colonnello Giovannone era un uomo vicino a Moro e per suo conto svolgeva un ruolo centrale nella gestione del cosiddetto “Lodo Moro”, la commissione ha ipotizzato che Moro stesso fosse stato informato di quell’allarme senza tuttavia aver trovato conferme che l’informazione di Habbash facesse riferimento a un progetto di attacco contro il presidente della Dc. La ratio che sta dietro il tentativo ostinato di voler a tutti i costi dimostrare l’esistenza di un preallarme che avesse anticipato la preparazione di un attentato contro Aldo Moro, nella migliore delle ipotesi condurrebbe a denunciare la colpevole negligenza dei Servizi di intelligence e delle forze di Polizia per aver trascurato i segnali premonitori del pericolo imminente; in realtà serve ai fautori delle tesi complottiste, e delle narrazioni dietrologiche che imperversano sulla storia del sequestro Moro, per dimostrare il ruolo connivente, se non addirittura attivo dei Servizi, e di “forze oscure dello Stato”, nella organizzazione, esecuzione e gestione del sequestro. L’appunto del 20 aprile assume dunque una rilevanza particolare perché dal raffronto incrociato con le indicazioni contenute nel cablo di Beirut si riscontra la presenza di due informazioni sovrapponibili: L’incontro avvenuto non molto tempo prima in un Paese europeo: «progetto congiunto discusso giorni scorsi in Europa», riferisce il cablo di Beirut; due riunioni segrete, una a Madrid e l’altra a Parigi, secondo l’appunto del 20 aprile. Il contenuto della riunione: progetto di una «operazione terroristica di notevole portata» per il cablo proveniente da Beirut; «l’esecuzione di azione clamorosa contro un’eminente personalità politica pubblica dell’Europa Occidentale», riferita nel documento del 20 aprile. Entrambi i documenti si riferivano a Moro? La domanda è più che logica alla luce di quanto avvenuto il 16 marzo in via Fani, ma la risposta è negativa. Come vedremo meglio nella seconda puntata il Sismi svilupperà una intensa attività informativa per verificare la portata e il significato della informazione del 18 febbraio, sia precedentemente che successivamente all’azione di via Fani. Ripetutamente interpellate e sollecitate le varie organizzazioni palestinesi non solo ribadirono di non aver mai avuto notizia del progetto brigatista di sequestro, ma si mostrarono incapaci di instaurare un qualsiasi contatto, diretto o indiretto con i rapitori, e di riuscire a influenzarne politicamente, anche a distanza, l’azione. Come già sottolineato nell’audizione del 17 giugno 2015, il cablo proveniente da Beirut, in realtà, porta ad escludere ogni riferimento all’imminenza di un’azione delle Br in Italia, perché l’interlocutore del FPLP, ossia George Habbash, sembra voler rassicurare il Sismi che l’Italia ne sarebbe stata fuori. Altre informative e indagini svolte dal Servizio – su cui ci soffermeremo sempre nella seconda puntata – corroborano piuttosto l’ipotesi di un attentato nei confronti di un obiettivo riguardante l’area mediorientale, che avrebbe potuto coinvolgere l’Italia al massimo come luogo di transito. Nel successivo appunto del 20 aprile si precisa con molta nettezza che il progetto di esecuzione di una clamorosa azione contro un’eminente personalità politica dell’Europa Occidentale «non è riferita all’On. Moro, come da recente precisazione della fonte». Sempre nello stesso appunto, tra i gruppi politici rivoluzionari indicati come partecipanti alle riunioni segrete della «Giunta», non sono mai menzionati gruppi combattenti europei come Eta, Raf, Br, Pl. L’appunto del 20 aprile 1978. Il documento, suddiviso in tre punti, riferisce di una prima riunione segreta della “Giunta di coordinazione rivoluzionaria” tenutasi a Madrid nel gennaio 1978, nella quale avrebbero partecipato i rappresentati di formazioni politiche rivoluzionarie, in prevalenza sudamericane: il Mir cileno, l’Erp e i Montoneros argentini, l’Eln boliviano, i Tupamaros uruguaiani, il Mrp brasiliano, Baniera roja e la Liga socialista venezuelani. Insieme a loro viene segnalata la presenza di rivoluzionari di sinistra di altri Paesi (formulazione che lascia pensare ad una partecipazione di tipo individuale), dalla Colombia al Centroamerica, Usa, Germania occidentale, Giappone, Singapore. Avrebbero partecipato anche i guerriglieri del Fplp di George Habbash (il che fornirebbe una spiegazione sul possesso delle informazioni riferite nel cablo del 18 febbraio), il Fronte polisario, il Pcte spagnolo, una formazione francese d’ispirazione trotzkista che nel punto successivo è indicato tra i gruppi iberici e Lotta Continua. Preciso nel riferire delle realtà politico-rivoluzionarie del Sudamerica, che evidentemente la fonte, vista l’origine geografica, conosce direttamente, le informazioni diventano molto più lacunose quando si tratta di riportare la composizione dei gruppi degli altri continenti ed è ipotizzabile un errore per quanto riguarda LC. Nella seconda riunione segreta tenutasi a Parigi si sarebbe decisa una strutturazione per aree regionali del coordinamento: sezione latino-americana; iberica; europea, nordamericana e asiatica. Il punto tre affronta i contenuti operativi di questo secondo incontro:
la finalizzazione di un piano per il trafugamento di equipaggiamento altamente sofisticato (armi portatili, laser con congegni di mira di nuovo tipo ecc);
l’esecuzione di un’azione clamorosa contro un’eminente personalità politica pubblica dell’Europa Occidentale (non riferita all’On. Moro, come da recente precisazione della Fonte);
la creazione di una centrale in Europa per la produzione di documenti personali falsi;
l’istituzione di un comitato tecnico-scientifico per lo studio di armamenti atomici;
l’addestramento dei guerriglieri in campi angolani da parte dei cubani;
l’incremento della lotta armata, soprattutto in Argentina, Brasile e Cile;
lo sviluppo di azioni terroristiche in occasione del campionato di Calcio in Argentina;
una nuova riunione in Svezia.
L’ex agente dei servizi venezuelani viene sentito a rapimento in corso e si offre per organizzare un’azione di infiltrazione utilizzando un nucleo di propri informatori. Offerta in seguito esclusa dopo una serie di trattative – spiega il Sismi nella relazione inviata alla commissione – per le «scarse garanzie offerte dagli interlocutori» che tentano di accreditarsi millantando «il possesso di primizie informative» al momento del rinvenimento del cadavere di Moro, «giocando sulla differenza dei fusi orari rispetto all’immediata diffusione della notizia sul piano mondiale». Oltre alla coincidenza con i contenuti del cablo del 18 febbraio, è proprio questa mancanza di informazioni sulle Brigate rosse e il rapimento in corso che paradossalmente rafforza quanto riferito sulle riunioni della “Giunta” che, palesemente, nulla hanno a che vedere con quanto stava avvenendo in Italia. La Junta coordinadora revolucionaria. Qualche informazione in più va spesa sulla JCR. Sorprende, infatti, ritrovare nel 1978, e per giunta in Europa, la sigla di questa organizzazione internazionalista nata nel 1974 dalla decisione delle formazioni rivoluzionarie dell’America Latina di stringere un’alleanza dopo il golpe cileno dell’anno precedente e coordinare le proprie forze e strategie per combattere le dittature militari del Cono Sud ispirate e sostenute dagli Stati Uniti. La JCR, soprattutto tramite l’ERP argentina, ha avuto relazioni intense con la Quarta internazionale, in particolare con i francesi della Ligue communiste révolutionnaire che appoggiarono l’opzione armata in Argentina. Gli storici più accreditati spiegano come la JCR, che le feroci dittature militari affrontarono dispiegando il piano Condor, entrò in crisi nel 1977 a seguito delle divisioni emerse all’interno dell’Erp e alle relazioni stabilite dal Mir con Cuba in vista di un rientro in Cile. Un colpo molto duro arrivò nel 1975 con l’arresto e la tortura in Paraguay, da parte della polizia segreta di Alfredo Stroessner, di due dei suoi maggiori dirigenti: Jorge Fuentes soprannominato “El Trosko”, membro del Mir cileno, e Amilcar Santucho esponente dell’Erp argentino. Nella metà degli anni 70, la JCR che aveva il suo massimo radicamento in America latina, aprì delle sedi in Messico, ad Algeri e in Europa, dove per un periodo stabilì il suo segretariato centrale. E’ probabile che nel 1978, grazie alla rete degli esuli, si sia tentato di rilanciare la struttura internazionalista. Questo spiegherebbe le riunioni di Madrid e Parigi, anche se sembra che in questa fase la JCR non avesse più alcuna operatività reale. Aldo Marchesi, ritenuto uno degli studiosi più competenti delle vicende di questa organizzazione rivoluzionaria, scrive che in alcuni rapporti dei Servizi dei regimi Sud dittatoriali Americani si riferiscono riunioni tenute in Europa, dopo il 1977, con formazioni rivoluzionarie locali da coordinamenti indicati con la sigla JCR, che tuttavia non avevano più l’estensione organizzativa della prima JCR. La nota del 15 aprile 1978. Il 5 aprile 1978 un’agenzia di stampa di destra, l’Aipe, dirama un dispaccio (n° 1640) in cui si riporta un allarme dei servizi di sicurezza francesi sul rischio di un nuovo gesto spettacolare. «Il servizio segreto francese, cioè lo SDECE, – riferisce l’agenzia – è in stato di preallarme. Ha informazioni in base alle quali i terroristi comunisti europei stanno preparando spettacolari imprese, questa volta contro impianti e servizi, in alcuni Paesi dell’Europa Occidentale. Questo allarme è stato comunicato anche alle autorità di sicurezza dell’Italia, che oggi è il Paese più esposto al terrorismo comunista». La nota d’agenzia suscita una richiesta di verifiche e spiegazioni all’interno del Sismi. Il 15 aprile il Servizio redige un appunto di particolare interesse, in «Visione per il signor Capo Reparto», in cui nonostante la presenza di alcuni omissis (di cui sarebbe necessario provvedere alla rimozione) emergono ulteriori informazioni, per esempio un allarme del mese di Gennaio 1978 che avrebbe interessato le città di Londra e Parigi, e dal quale si scopre la presenza di altri documenti non ancora resi pubblici. Dispaccio Aipe. L’estensore precisa che «nessun preallarme relativo ad attentati terroristici in Europa Occidentale è recentemente pervenuto daOmissis. Siamo stati invece noi, nel gennaio scorso ad estendere inOmissis [nel testo sono appuntati a mano i numeri di protocollo di documenti ancora non versati in Acs, nel fondo della direttiva Prodi, 361=2 pal 38 (1512 + 1514)] un allarme (all. 2) pervenutoci da “R” ed interessante in particolar modo Londra e Parigi. Poiché in tale messaggio si fa riferimento ad “organizzazioni terroristiche europee” non è da escludere che si tratti proprio di quello cui fa riferimento la nota d’agenzia». «Altro Stato d’allarme – prosegue sempre la precisazione del Sismi – esteso più recentemente in Omissis» è quello in allegato 2 [numero aggiunto a penna insieme ai protocolli 1526 + 1527 + 1528, rispettivamente il cablo proveniente da Beirut, e la stessa informazione girata al Sisde, Ministero interni e Servizi alleati] sempre originato da “R”. E anche tale messaggio ha qualche assonanza con la nota d’agenzia poiché si parla di una “operazione di notevole portata” e nella nota si dice “spettacolari imprese”. Non si dispone di elemento utile a risalire al responsabile della diffusione delle notizie di cui alla nota successiva». L’allarme dello Sdece francese sarebbe stato – almeno stando a quanto sostiene il Sismi – soltanto un’eco delle informative diffuse dal Servizio italiano presso quelli alleati. Ma quel che appare ancora più interessante in questo documento, con il beneficio del dubbio degliomissis, è l’indicazione di Londra e Parigi come sedi possibili degli attentati.
A fronte di quanto pubblicato da "Insorgenze" scopriamo che Radio Città Futura sapeva di Moro. Il direttore Rossellini disse che era una voce che girava, scrive Francesco Damato su "Formiche.net". Non trascorsero inutilmente, per il povero Aldo Moro e quanti avrebbero dovuto proteggerlo, soltanto i 26 giorni seguiti alla segnalazione del 18 febbraio 1978 dalla «fonte 2000» di Beirut dei servizi segreti italiani, informati dai palestinesi di un'operazione nel nostro paese, concordata, o a conoscenza, a livello terroristico internazionale. Purtroppo trascorsero inutilmente anche gli ultimi, sessanta minuti- come vedremo - che precedettero il tragico sequestro del presidente della Dc, avvenuto il 16 marzo fra le 9 e 3 minuti e le 9 e 5 minuti, dopo 93 colpi d'armi da fuoco di cui 49 sparati da una sola fonte e 2 soltanto da uno degli agenti di scorta di Moro: il poliziotto Raffaele Iozzino. Gli altri quattro della quadra non ebbero neppure il tempo e il modo di tentare una reazione armata. Pochi minuti dopo le ore otto, quando Moro era ancora a casa e la scorta si accingeva a raggiungerlo per accompagnarlo alla Camera, lungo un percorso rivelatosi - ahimè - troppo abituale, nell'abitazione romana del senatore moroteo Vittorio Cervone la domestica Clara Giannettino trasecolò ascoltando alla Radio Città Futura, diretta da Renzo Rossellini e appartenente all'area extraparlamentare di sinistra non certamente ignota alle forze dell'ordine, che «forse rapiscono Moro». A sequestro avvenuto, e su segnalazione di Cervone, il capo della Polizia incaricò il vice questore Umberto Improta di ascoltare la signora. Che fu interrogata nel pomeriggio e risultò senza precedenti sfavorevoli e sana di mente, «in un appunto redatto su carta intestata del Ministero dell'Interno, senza destinatario né protocollo», come si legge nella relazione del presidente della nuova commissione parlamentare d'indagine sul caso Moro, il deputato Giuseppe Fioroni, pubblicata il 10 dicembre scorso nell'apposito bollettino della Camera. L'appunto tuttavia conteneva anche «osservazioni aggiuntive» che, secondo la relazione di Fioroni, minavano alla radice l'attendibilità della signora, ritenuta «di livello culturale molto scadente, se non inesistente, abituata ad ascoltare soltanto canzonette e, quindi, di scarsissima ginnastica mentale». Pertanto la donna, secondo l'impressione del dottor Improta riferita nella relazione di Fioroni «in buona fede e sotto la spinta emotiva della drammatica notizia avrebbe frainteso il significato di un comunicato radio riguardante Moro». E la cosa, in mancanza di una registrazione delle trasmissioni di quella radio da parte dei centri autorizzati di controllo, finì nella nebbia, anche giudiziaria, fra le inutili proteste levate dopo qualche mese da Cervone in una intervista a Famiglia Cristiana. La nuova commissione parlamentare d'inchiesta ha giustamente riaperto e approfondito la vicenda. La relazione di Fioroni dice: «Eppure Improta conosceva personalmente Rossellini» il direttore cioè della radio ascoltata dalla collaboratrice di Cervone. «Esisteva da tempo un contatto, riconosciuto da entrambi anche nel corso di audizioni parlamentari. Si trattava anzi di un rapporto privilegiato, secondo quanto riferito a collaboratori della Commissione dall'allora funzionario della Digos, Vittorio Fabrizio». Che «lasciò il servizio poco dopo la strage di via Fani, rimase del tutto estraneo all'inchiesta e non fu mai ascoltato dai magistrati inquirenti», ha tenuto ad annotare Fioroni mostrando uno stupore condivisibile. Inoltre, Improta «circa due settimane prima dei fatti di via Fani, secondo una dichiarazione del tutto attendibile, avrebbe ricevuto da Rossellini significative informazioni su eventi eclatanti in vista». Ma non è finita. La relazione Fioroni fa rilevare che «Rossellini conviveva con Giovanna Francesca Chantal Personè, militante di sinistra, sospettata all'epoca di essere vicina alle Brigate Rosse, coinvolta in indagini per reati associativi», per cui «tale circostanza rende possibile l'ipotesi ch'egli potesse disporre di elementi di conoscenza tali da consentirgli di formulare, sia pure in forma dubitativa, previsioni affidabili circa iniziative di tipo terroristico». Previsioni, d'altronde, confermate dallo stesso Rossellini davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi presieduta dall'allora senatore Giovanni Pellegrino ammettendo di avere già riferito nell'autunno del 1978 ad un giornalista del francese Le Matin che «nel suo ambiente si parlava molto di un eventuale attentato delle Brigate Rosse in coincidenza con la votazione alla Camera del governo e con l'entrata del Partito Comunista nella maggioranza». No. Non è finita neppure con questo. Il presidente della Commissione ha voluto inserire nella sua relazione il testuale racconto fatto di quella tragica mattina del 16 marzo 1978 nella Questura di Roma, e non solo in via Fani, da Vittorio Fabrizio: «Già nelle prime ore della mattinata circolava la notizia, nell'ambiente dell'Ufficio politico della Questura, che il rapimento fosse stato annunziato da Radio Città Futura» prima dell'evento. «Nel corso della giornata – ha riferito sempre l'ex funzionario della Digos – ho commentato riservatamente questo dato con i miei colleghi dottor Infelisi – da non confondere, osservo, con l'omonimo magistrato inquirente, Luciano – e dottor De Stefano, entrambi a conoscenza della stessa circostanza. Si è trattato di un colloquio molto cauto perché eravamo tutti consapevoli» dell'abnormità della situazione «meritevole di approfondimento». «Mi resi immediatamente conto - continua il racconto - che se la notizia fosse stata rappresentata al dirigente dell'ufficio politico, dottor Spinella, in tempo reale, come la rilevanza dell'evento lasciava presumere, ciò avrebbe avuto conseguenze colossali». Avrebbero potuto quanto meno allertare telefonicamente la scorta di Moro, e sventare l'operazione, par di capire. Il caso – o solo il caso? – volle tuttavia che proprio il dirigente dell'ufficio politico della Questura, Domenico Spinella, corresse sul posto del sequestro in tempi così rapidi da precedere di poco l'allarme della sala operativa, secondo orari e tempi su cui la commissione ha attentamente indagato ascoltando, fra gli altri, l'allora autista del dirigente di polizia, Emilio Biancone.
Caso Moro, il leader democristiano temeva l'agguato, scrive Andrea Piccoli su “Pontile News” il 20 gennaio 2016. Un giorno prima, Moro chiese il rafforzamento della protezione. La rivelazione è contenuta nella prima relazione depositata dalla Commissione Parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni. Aldo Moro aveva avvertito il pericolo incombente. La sera del 15 marzo 1978, poche ore prima dell'agguato delle Brigate Rosse in via Fani, il presidente della Democrazia Cristiana chiese «un servizio di vigilanza a tutela dell'ufficio di via Savoia», dove si trovava lo studio privato del politico. Alla luce dei fatti, la protezione si sarebbe rivelata inutile, ma il particolare è significativo del clima di quei giorni e della distanza che ancora ci separa dalla verità completa sul caso Moro. È solo una delle scoperte che emergono dalla relazione della Commissione Parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni. Il documento è stato approvato da tutte le forze politiche presenti, compreso il M5s. Il particolare è emerso dagli archivi della Polizia, contenuto in una relazione firmata da Domenico Spinella, dirigente della Digos che Moro incontrò proprio nello studio di via Savoia la sera precedente all'agguato. La relazione di Spinella reca la data del 22 febbraio 1979, cioè 11 mesi dopo il rapimento. Perché? La risposta è in un articolo uscito proprio quel giorno sul quotidiano di Genova Il Secolo XIX, che alludeva a un non meglio precisato timore di Moro per un eventuale agguato nei suoi confronti. «Trentasette anni dopo abbiamo scoperto questa relazione “post-datata”, dalla quale apprendiamo con certezza che Moro, poche ore prima di essere colpito, aveva chiesto tutela. Nella relazione è scritto che non avrebbe chiesto aiuto per sé e per la sua scorta ma per il suo ufficio. Ma oramai sappiamo che Moro era preoccupato per sé e non per le sue carte. Come confermato da altri dati: per esempio abbiamo appreso che in quei giorni il maresciallo Leonardi chiese improvvisamente più caricatori e altri particolari emergeranno prossimamente». A conferma dei timori di Moro, c'è anche la decisione del leader Dc di non portare con sé quel giorno il nipotino, come invece faceva abitualmente. Le sorprese non finiscono qui. Il 18 febbraio 1978, vale a dire 25 giorni prima dell'azione delle Br, un agente dei Servizi segreti di stanza a Beirut spedì un cablogramma ai superiori di Roma. Una fonte interna al Fronte per la liberazione della Palestina gli aveva rivelato che «organizzazioni terroristiche europee si [erano] riunite per pianificare un'operazione terroristica di notevole portata che [avrebbe potuto] coinvolgere l’Italia». Non c'è riferimento diretto a Moro, ma la Commissione pensa che a spedire il cablogramma sia stato Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro in Medio Oriente. In questo caso, è presumibile che Giovannone abbia avvertito non solo i suoi superiori, ma anche lo stesso Moro. Altri particolari riguardano la dinamica degli eventi avvenuti la mattina del 16 marzo 1978 in via Fani. La Commissione ha scoperto ad esempio che una delle automobili di cui per anni non si era potuta accertare la proprietà, apparteneva in realtà a Spinella, cioè proprio il dirigente della Digos che aveva ricevuto la richiesta di protezione da parte di Moro la sera prima. Spinella arrivò sul luogo dell'agguato fra i primi, tanto presto che la Commissione sospetta «una partenza anticipata». Secondo quanto dichiarato dall'autista, la macchina partì dalla Questura alle 8:30, più di mezz'ora prima dell'inizio dell'azione dei brigatisti, che cominciarono a sparare alle 9:03. La Commissione pensa che Spinella fosse in preda all'ansia o al senso di colpa per aver sottovalutato l'allarme di Moro. Il bar Olivetti, davanti al quale si svolse l'attentato, è un'altra fonte di dettagli interessanti. Il suo amministratore, Tullio Olivetti, era «noto agli atti della polizia di prevenzione per essere stato coinvolto in una complessa vicenda di traffico internazionale di armi, nonché citato in una corrispondenza con la questura di Bologna relativa alla presenza nei giorni antecedenti la strage alla stazione del 2 agosto 1980». «La gravità di simile omissione non risulterebbe attenuata anche se si dovesse accertare che nessun legame esiste tra il caso Moro e il complesso intreccio di interessi, tra intelligence, criminalità organizzata, ambienti dell’eversione, massoneria e terrorismo internazionale che ruotava attorno alla figura di Olivetti e alle sue frequentazioni», aggiunge la Commissione. Un quadro che rende ancora più inquietante ciò che disse il deputato Dc Benito Cazora: «Dalla Calabria mi hanno telefonato per informarmi che in una foto presa sul posto quella mattina si individua un personaggio a loro noto». Per «loro» Cazora intendeva persone affiliate alla 'ndrangheta. La Commissione continuerà ora a lavorare anche tenendo in considerazione le testimonianze oculari ritenute poco attendibili all'epoca, nella speranza di riuscire a fare chiarezza su uno degli eventi più drammatici nella storia del nostro paese.
La rivelazione. «Un mese prima del sequestro Moro ho dato io l’allarme a Roma». Parla Abu Sharif, l’ex portavoce del Fronte popolare: una donna misteriosa è stata mandata dall’Italia a Beirut, scrive Davide Frattini su “Il Corriere della Sera” del 15 maggio 2016. Di dita ne ha perse quattro dopo averle appoggiate sulla copertina delle Memorie di Che Guevara, l’occhio destro è cristallizzato in uno sguardo di stupore. Quel regalo del Mossad serve a Bassam Abu Sharif per riordinare i ricordi, c’è un prima e un dopo il 25 luglio del 1972, «doveva essere passato un anno dalla bomba, sì era la fine del 1973», mormora sotto al gracidare elettrico dell’apparecchio acustico. A 70 anni qualche nome l’ha dimenticato, le facce invece sono ancora lì davanti a lui, soprattutto il sorriso di quella bella italiana che bussa al suo ufficio a Beirut e chiede di parlare con George Habash, il leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Finito sulla copertina di Time come il «volto del terrore» durante i dirottamenti di Dawson’s Field, Bassam allora dirige la rivista Al Hadaf(il Bersaglio) e si occupa della politica estera dell’Fplp. «Mi dice di essere la moglie di un ufficiale italiano e di voler vedere il capo. Le spiego che se l’avevano mandata per conquistare Habash con la bellezza, non avrebbe funzionato, era un monaco. Mi ha risposto: no, sono qui perché sostengo la vostra causa». L’«accordo» tra i palestinesi e l’Italia. La donna misteriosa si ripresenta il giorno dopo — «da bionda era diventata castana» — e nell’incontro chiede ad Habash dettagli sull’intesa siglata dal gruppo marxista-leninista palestinese con l’Italia, quello che sarebbe il Lodo Moro: nel 2008 Bassam ha già raccontato al Corriere dell’accordo che permetteva all’organizzazione di muovere uomini e armi lungo la Penisola. In quest’altro pomeriggio nella sua villa di Gerico, circondata dalle rocce del Monte delle tentazioni, rivela altri dettagli. «Il presidente della Dc era in pericolo». «Non ho mai capito a quale pezzo degli apparati appartenesse. Qualcuno a Roma voleva verificare i resoconti di Stefano Giovannone (capocentro del Sid e poi del Sismi a Beirut, ndr): avevamo discusso i dettagli del patto con lui e con l’Ammiraglio. La signora voleva assicurarsi che l’avremmo rispettato, che non avremmo commesso attentati in Italia. In cambio ci offrì perfino di inviare istruttori dell’esercito per i nostri combattenti». Avete avvertito dell’intesa le nazioni arabe che vi appoggiavano? «La Libia, lo Yemen, l’Iraq, l’Algeria, la Siria. Muammar Gheddafi si mise a ridere: “Ricordate agli italiani che ci sono debitori per l’epoca coloniale, il vostro accordo non risolve le faccende tra noi e loro”». In Italia una commissione parlamentare sta indagando sul rapimento di Aldo Moro. È emerso un cablogramma del 18 febbraio 1978 spedito da Beirut, molto probabilmente da Giovannone. Scrive di aver incontrato «il suo abituale interlocutore» nel Fplp che lo ha avvertito: gruppi europei stanno organizzando «un’operazione terroristica di notevole portata» e potrebbe coinvolgere l’Italia. «L’allarme riguarda Moro?». È quello che i parlamentari stanno cercando di capire. «Io lanciai un allarme: Moro era in pericolo. Credo un mese prima del sequestro (avvenuto il 16 marzo del 1978, ndr). In quei giorni Giovannone non era a Beirut, incontrai un suo giovane assistente e gli riferii quel che mi aveva raccontato una delle ragazze di Carlos. Era tedesca e aveva partecipato a una riunione dov’era stata discussa l’idea di colpire Moro. Le feci capire che il Fronte lo considerava un errore: Moro era contro l’egemonia americana, non andava toccato». Avevate influenza sui gruppi europei? «Fin dal 1968 in Giordania e poi in Libano il mio incarico è stato quello di gestire i campi di addestramento per gli occidentali, anche italiani. Lì ho conosciuto Andreas Baader e Ulrike Meinhoff (i fondatori della Rote Armee Fraktion, ndr). Ho reclutato io Ilich Ramirez Sanchez e gli ho dato Carlos come nome di battaglia. Lo Sciacallo, quello ci è diventato da solo».
Sequestro Moro, il capo della Digos che arrivò “troppo presto” in via Fani. La Commissione vuole sentire l’autista. L'Alfasud di Domenico Spinella sfrecciava verso il luogo dell'agguato già prima che il centralino della Questura ne desse la comunicazione. La vicenda ripropone il tema degli allarmi che precedettero l'azione delle Brigate rosse. Alcuni parlamentari chiedono l'audizione di di Emidio Biancone, al volante quella mattina, scrive Stefania Limiti il 17 febbraio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. 16 marzo 1978, ore 9.02. Il centralino della Questura di Roma dà l’allarme: “Agguato in via Fani, rapito Moro, ammazzati gli uomini della sua scorta”. Ma in quel momento il capo della Digos della capitale, Domenico Spinella, è già sull’Alfasud targata S88162 che lo porta a tutta velocità nel luogo dell’agguato. E’ andata davvero così? E chi lo avvisò? Sono due pesanti interrogativi ai quali stanno cercando di rispondere gli investigatori della Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Giuseppe Fioroni. La faccenda è piuttosto seria perché coinvolge uno degli organismi più direttamente impegnati nelle indagini di quelle ore e dei mesi seguenti. L’ipotesi assai consistente è che Spinella – nel frattempo deceduto – si sia precipitato sul luogo della strage perché aveva appreso che stava per scattare l’azione. Forse sperava di arrivare per tempo, di riuscire a bloccarla, sperava di salvare tutti, eroicamente. Invece, arrivò comunque tardi, non deludendo solo le sue intrepide aspettative: se davvero Spinella si mosse prima dell’allarme, c’è da pensare che, dopo il massacro di via Fani, ogni particolare di quei primi momenti sia stato poi coperto, tenuto segreto. Che figura avrebbe fatto la Digos di Roma davanti a quei morti? L’autista di Spinella, Emidio Biancone, al terzo interrogatorio cui lo hanno sottoposto i collaboratori della Commissione, ha ammesso che partì dall’ufficio centrale alla volta di via Trionfale, e di lì verso via Fani, subito dopo le ore 8,30. “Insisto perché questa storia sia chiarita, chiedo l’audizione di Biancone, che venga a dire come andarono le cose”, ha detto il senatore Federico Fornaro seguito dal collega Gero Grassi: entrambi avevano già avuto modo nei mesi scorsi di affrontare l’argomento, sostenendone l’assoluta rilevanza. L’audizione di Biancone potrebbe essere dunque molto utile, anche se non è affatto detto che l’ex autista sappia qualcosa dell’eventuale fonte della notizia di Spinella. Ma qui gli elementi investigativi non mancano. Ne ricordiamo solo alcuni. E’ noto che prima del 16 marzo erano giunti vari segnali sull’imminenza di un sequestro di una personalità dello Stato. Lo stesso Domenico Spinella il 22 febbraio 1979 scrisse una relazione per il Questore di Roma spiegando che il 15 marzo 1978 l’allora Capo della Polizia, contattato da un collaboratore di Moro, Nicola Rana, gli disse di recarsi presso lo studio di Aldo Moro per concordare l’istituzione di un servizio di vigilanza dell’ufficio privato del presidente Dc che si trovava in via Savoia: fu deciso anche il giorno della sua attivazione, il 17 marzo. La Commissione ha poi acquisito un documento del 18 febbraio proveniente da Beirut che reca l’intestazione “Ufficio R, reparto D, 1626 segreto”, “fonte 2000”, in base al quale il colonnello Stefano Giovannone riferiva che il suo “abituale interlocutore rappresentante Fplp Habbash” gli aveva parlato di una operazione terroristica di notevole portata che stava per scattare in Italia. E poi si è tanto parlato dell’annuncio di Radio Città Futura dai cui microfoni il direttore Renzo Rossellini parlò dell’imminente sequestro di Aldo Moro con circa tre quarti d’ora di anticipo rispetto al verificarsi dell’evento: ma la magistratura venne informata della vicenda solo il 27 settembre 1978, quando essa divenne di dominio pubblico grazie al settimanale Famiglia Cristiana. Perché la Polizia mantenne sulla vicenda della trasmissione di Radio Città Futura un così prolungato silenzio, dal 16 marzo al 27 settembre 1978? Eppure il vice questore Umberto Improta conosceva personalmente Rossellini: esisteva da tempo un contatto, un “rapporto privilegiato”, secondo quanto ha riferito alla Commissione l’allora funzionario della Digos Vittorio Fabrizio, fino a oggi mai sentito da nessun inquirente. E poi le Radio erano attentamente monitorate: è emersa anche l’esistenza di una struttura informale di ascolto, di cui non si è mai saputo nulla, delle trasmissioni di Radio Città Futura e Radio Onda Rossa, le seguitissime emittenti del movimento antagonista romano. Lo stesso questore De Francesco era estremamente sensibile all’ascolto delle Radio, secondo la testimonianza del funzionario Riccardo Infelisi, cugino del magistrato, sentito della Commissione. Davvero impossibile che quella frase di Rossellini non fosse stata raccolta da tante orecchie vigili. E una notizia del genere, ha detto Vittorio Fabrizio, “sarebbe stata portata subito a conoscenza del dirigente dell’ufficio politico”. Cioè Spinella, l’uomo che arrivò troppo presto in via Fani.
RAPIMENTO DI ALDO MORO. LA POLIZIA SAPEVA E NULLA HA FATTO.
Dodici ore prima del rapimento, Aldo Moro chiese aiuto alla polizia, scrive Fabio Martini su “La Stampa” ed “Il Secolo XIX il 19 gennaio 2016.Più si scava sul caso Moro, più aumentano le scoperte spiazzanti, quelle capaci di riscrivere interi capitoli di una delle storie più misteriose della Repubblica. Trentotto anni dopo il rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, la apposita Commissione parlamentare di inchiesta sta svolgendo un lavoro al “ralenti” su singoli segmenti, per ingrandire ogni dettaglio. Come dimostrano anche i tempi di “lavorazione”: dopo un anno d’indagine sono state passate al setaccio le prime due ore del rapimento, oltre ai tanti segnali che lo precedettero. Un metodo pragmatico che ha consento diverse scoperte, alcune clamorose e ora accessibili grazie ad una prima relazione, completata nei giorni scorsi. Scoperte favorite dal clima nel quale ha lavorato la Commissione, «senza la volontà di riscrivere la storia, senza tesi precostituite, senza clamori», dice il presidente Giuseppe Fioroni. E senza la pressione di alcuni protagonisti di quella vicenda, ormai scomparsi e anche senza i partiti allora più “implicati”: la Dc e il Pci. Uno sforzo corale, come dimostra la prima relazione, approvata all’unanimità da un arco di forze che va dai Cinque Stelle agli ex missini di Fratelli d’Italia. Il caso Moro, vicenda piena di enigmi e depistaggi, lungi dall’essere compresa fino in fondo. Come dimostra una novità: su alcuni filoni scoperti dalla Commissione si sono riaccesi i riflettori della Procura di Roma. Da decenni l’enigma resta senza risposte chiare: è mai possibile che non scattò nessun allarme preventivo nelle settimane che precedettero l’assalto a Moro e alla sua scorta? La Commissione di indagine ha compiuto diverse scoperte. La prima è un documento, rimasto secretato per 37 anni. Il 18 febbraio 1978 (l’azione Br scatterà 25 giorni più tardi, il 16 marzo) un agente dei Servizi di stanza a Beirut scrive un cablogramma ai superiori di Roma, nel quale riferisce quanto appreso da un suo «abituale interlocutore» del Fronte per la liberazione della Palestina Habbash: «Organizzazioni terroristiche europee» si sono riunite per pianificare «una operazione terroristica di notevole portata che potrebbe coinvolgere» l’Italia. Scrive nel suo rapporto, la Commissione: «È evidente che se fosse accertata una relazione con il sequestro Moro, il documento aprirebbe prospettive allo stato imprevedibili», a partire dal fatto che occorrerebbe «riconoscere che si era in presenza di un quadro di elevata allerta, i cui segnali furono probabilmente percepiti dallo stesso Moro». Perché alla Commissione ritengono che l’autore del cablogramma possa essere stato Stefano Giovannone, l’uomo di Moro in Medio Oriente. Che evidentemente avvisò, oltre ai superiori, il suo leader di riferimento. I superiori “sottovalutarono”. E Moro? E qui scatta la seconda scoperta. La Commissione ha rinvenuto negli archivi della polizia una relazione di Domenico Spinella, dirigente della Digos, nella quale si dà conto di un incontro riservatissimo svoltosi nello studio di Aldo Moro la sera del 15 marzo 1978 (mancano 12 ore all’azione brigatista) e in quella occasione il presidente della Dc fece sapere di ritenere urgente l’attivazione di «un servizio di vigilanza a tutela dell’ufficio di via Savoia». Ma la relazione del dottor Spinella al questore - ecco un altro punto oscuro - è datata 22 febbraio 1979, ben undici mesi dopo l’attentato, e oggi se ne capisce la ragione: è stata scritta d’urgenza, dopo un articolo uscito quel giorno sul Secolo XIX e relativo a un generico timore di Moro per un attentato. Sostiene il presidente della Commissione Fioroni: «Trentasette anni dopo abbiamo scoperto questa relazione “post-datata”, dalla quale apprendiamo con certezza che Moro, poche ore prima di essere colpito, aveva chiesto tutela. Nella relazione è scritto che non avrebbe chiesto aiuto per sé e per la sua scorta ma per il suo ufficio. Ma oramai sappiamo che Moro era preoccupato per sé e non per le sue carte. Come confermato da altri dati: per esempio abbiamo appreso che in quei giorni il maresciallo Leonardi chiese improvvisamente più caricatori e altri particolari emergeranno prossimamente». Per esempio che la mattina del 16 marzo Aldo Moro non volle portare con sé il nipotino, come faceva quasi sempre? La Commissione ha scoperto che un’Alfasud presente in via Fani dopo l’attentato e della quale per decenni non si era individuata la proprietà, apparteneva allo stesso dirigente della Digos che il giorno prima aveva raccolto l’allarme di Moro. La Commissione ha scoperto che la mattina del 16 marzo il dottor Spinella fu tra i primi ad arrivare in via Fani. Ma con qualche probabilità (anche se non con certezza), l’arrivo tempestivo sulla scena dell’attentato è determinato da quella che viene definita «una partenza “anticipata”». L’attentato scatta in via Fani alle 9,03, ma come ha raccontato alla Commissione Emilio Biancone, che allora svolgeva il compito di autista, l’Alfasud della Digos parte dalla Questura alle 8,30, più di mezzora prima dell’assalto brigatista. Perché tanto presto? Ansia? Senso di colpa? Consapevolezza di una sottovalutazione? Le indagini della Commissione hanno scoperto che il bar Olivetti, davanti al quale si svolse l’assalto a Moro, era un luogo ricco di “ambiguità”. Scrive la Commissione: «Suscita sconcerto la totale assenza di indagini sul bar e sul suo amministratore Tullio Olivetti», «noto agli atti della polizia di prevenzione per essere stato coinvolto in una complessa vicenda di traffico internazionale di armi», «nonché citato in una corrispondenza con la questura di Bologna relativa alla presenza nei giorni antecedenti la strage alla stazione del 2 agosto 1980». E «la gravità di simile omissione non risulterebbe attenuata anche se si dovesse accertare che nessun legame esiste tra il caso Moro e il complesso intreccio di interessi, tra intelligence, criminalità organizzata, ambienti dell’eversione, massoneria e terrorismo internazionale che ruotava attorno alla figura di Olivetti e alle sue frequentazioni». Alla luce di questo quadro assume una luce diversa quanto disse al telefono, il primo maggio 1978, il deputato dc Benito Cazora: «Dalla Calabria mi hanno telefonato per informarmi che in una foto presa sul posto quella mattina, si individua un personaggio a loro noto». E «loro» sarebbero personaggi legati alla ’ndrangheta. E sarebbero state preziose per gli inquirenti anche tutte le foto che furono scattate sul luogo dell’attacco, ma la Commissione denuncia che diversi rullini «sono scomparsi». In particolare quello consegnato ad uno dei magistrati inquirenti, che secondo una testimone tagliò cinque negativi e restituì il resto, senza «redarre verbale». E ancora: «Numerosi testimoni oculari sono stati del tutto ignorati dagli inquirenti dell’epoca e le loro dichiarazioni sono state messe a verbale per la prima volta dalla Commissione».
ALDO MORO ED IL COMPLOTTISMO.
I documenti UK che fanno gelare il sangue: da Enrico Mattei ad Aldo Moro, scrive il 12 novembre 2015 Claudio Messora su Bioblu. Ho intervistato Giovanni Fasanella, giornalista che da anni scava in quella storia italiana che nessuno vi racconta, autore di oltre 21 libri. Insieme a Mario José Cereghino ha scritto “Colonia Italia. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra”.
Sono cose che dobbiamo sapere.
«Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro Paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime.
Che cosa succede dalla seconda guerra mondiale in poi?
«L’Italia perde la guerra e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte. Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla seconda guerra mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica.
Questa influenza come si è esplicata?
«C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino agli Aldo Moro – sovranista, cioè che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico e per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi.
Facciamo dei nomi: Enrico Mattei…
«La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica, petrolifera dell’Italia. De Gasperi, Presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’AGIP. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’AGIP lui fondò l’ENI, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’ENI, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’ENI, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli. C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle sette sorelle. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo e il padre, Ministro degli Esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. E poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente. Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddegh, primo ministro iraniano, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo e l’Italia dell’ENI e di De Gasperi violarono quell’embargo. Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di dare una lezione agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran.
E quindi, la morte di Mattei?
«Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Mattei, attraverso la sua politica, emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento -, seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi emarginando addirittura nel corso degli anni la presenza britannica. In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – “un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo”. E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono: “[Mattei] è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo. Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence”. Sei mesi dopo Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio.
E Aldo Moro?
«La vicenda di Aldo Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Enrico Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Aldo Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era Ministro degli Esteri in diversi Governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di stato che rovesciò la monarchia filo britannica e portò al potere il colonnello Muammar Gaddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico. E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche e l’ENI era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia”, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969 il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: “Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana”. Quindi invita il suo Governo: “Dobbiamo adottare altri metodi”. Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: “Ma perché non chiedete al Governo britannico la desecretazione di quella parte del documento in cui sono spiegati gli altri metodi da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?”. Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono mostro più scettici, e dissero agli inglesi: “Ma voi siete pazzi! Un colpo di stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, ma poi c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue!”. Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: “Visto che non è possibile attuare un colpo di stato militare classico, per l’opposizione di Germania, e Stati Uniti d’America, passiamo al piano B”. Qual era questo piano B? Purtroppo anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa azione sovversiva, naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: “Siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia, beh: quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la diversa azione sovversiva contro Moro?”. Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle brigate rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era una scampagnata soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia. Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: Piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di Piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro.
La manipolazione dell’opinione pubblica italiana da parte della Gran Bretagna è ancora in essere, oppure nel tempo si è attenuato?
«Allo stato delle nostre ricerche, che ovviamente continuano – non posso fare riferimenti precisi, per il momento, a documenti sui quali stiamo ancora lavorando -, sulla base di quello che abbiamo letto e pubblicato finora, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro Paese sia ancora più forte di prima.
ALDO MORO TRA BUFALE E DEPISTAGGI.
Ferdinando Imposimato: "Aldo Moro ucciso dalle Br per volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Nicola Lettieri", scrive L'Huffington Post il 10 luglio 2013. "L'uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri". Ferdinando Imposimato, al tempo giudice istruttore della vicenda del sequestro e dell'uccisione di Moro, interviene sul Caso Moro. E lo fa da Reggio Calabria, sul palco della rassegna Tabularasa dell'associazione Urba/Strill.it. "Se non mi fossero stati nascosti alcuni documenti - ha aggiunto - li avrei incriminati per concorso in associazione per il fatto. I servizi segreti avevano scoperto dove le Br lo nascondevano, così come i carabinieri. Il generale Dalla Chiesa avrebbe voluto intervenire con i suoi uomini e la Polizia per liberarlo in tutta sicurezza, ma due giorni prima dell'uccisione ricevettero l'ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia". "Quei politici - ha detto Imposimato - sono responsabili anche delle stragi: da Piazza Fontana a quelle di Via D'Amelio. Lo specchietto per le allodole si chiama Gladio. A Falcone e Borsellino rimprovero soltanto di non aver detto quanto sapevano, perché avevano capito e intuito tutto, tacendo per rispetto delle istituzioni. Per ucciderli Cosa Nostra ha eseguito il volere della Falange Armata, una frangia dei servizi segreti". Lo stesso Imposimato all'inizio di giugno ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Secondo il giudice le forze dell'ordine sapevano dov'era la prigione di Moro. Così i magistrati di Roma hanno aperto un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati aperto per valutare se esistano nuovi indizi per riaprire le indagini sulla morte di Aldo Moro. "Massima fiducia nella volontà dei giudici di accertare la verità sulla morte di Moro". Nel testo le rivelazioni di 4 appartenenti a forze dell'ordine e armate secondo cui il covo Br di via Montalcini fu monitorato per settimane. Ma non è l'unica indagine che "riapre" il Caso Moro. Le dichiarazioni di Imposimato arrivano dopo che la procura di Roma ha aperto un fascicolo di indagine relativo alle dichiarazioni di due artificieri che spostano alle 11 l'ora del ritrovamento della Renault 4 con il cadavere di Aldo Moro e la presenza dell'allora ministro degli Interni, Francesco Cossiga, in via Caetani. Già, perché Vitantonio Raso e il suo collega Giovanni Circhetta non sono mai stati interrogati. E nei giorni scorsi hanno deciso di raccontare la propria verità. Gli antisabotatori, che per primi arrivarono all'R4 rossa, con il corpo di Moro nel bagagliaio, in via Caetani, il 9 di maggio di 35 anni fa, spostano l'ora del ritrovamento dell'auto e del cadavere dello statista a prima delle 11, mentre era delle 12.30 la famosa telefonata delle Br che annunciava l'uccisione di Moro ed il luogo dove trovarne il corpo.
Caso Moro, spunta audio inedito, scrive Francesco Saita su "L'ADNKronos" del 30/09/2015. "Attenzione, messaggio numero 13 delle Brigate Rosse, Aldo Moro è stato giudicato dal tribunale del Popolo, questa mattina alle ore 12 è stato giustiziato, potete trovare il suo corpo attorno al forte di San Martino. Fine messaggio". E' questo il testo dell'audio che il Ris ha recuperato da uno dei nastri rinvenuti nel covo brigatista di viale Giulio Cesare, a Roma, dove furono arrestati Valerio Morucci e Adriana Faranda, nel maggio del 1979. Nell'audio un presunto brigatista sembra fare le prove della telefonata di rivendicazione dell'omicidio di Moro, che nella realtà, venne fatta da Valerio Morucci il 9 maggio del 1978, indicando in Via Caetani, il luogo dove era stato abbandonato il corpo di Moro. Nell'audio, su cui hanno lavorato i carabinieri su incarico della Commissione parlamentare di inchiesta sull'omicidio di Aldo Moro, la voce maschile che registra il comunicato "numero 13", dice che il corpo dello statista Dc si trova nella zona del Forte San Martino, riferendosi probabilmente all'omonimo quartiere di Genova. Il Reparto Investigazioni Scientifiche dei carabinieri ha consegnato alla Commissione di inchiesta sull'omicidio di Aldo Moro oggi i risultati delle ricerche fatte con le nuove metodologie, che - come dichiarato dal comandante dei Ris di Roma Luigi Ripani - "ha riguardato 1115 reperti provenienti da diversi covi romani delle Br, da quello di Via Gradoli a quello di via Ugo Pesci, a quello di Viale Giulio Cesare". L'audio con la rivendicazione recuperata dai Ris, della durata di 38 secondi, è ascoltabile in esclusiva sul sito dell'Adnkronos. Dai reperti analizzati da Ris, provenienti dal covo brigatista di Via Gradoli, dove si nascondevano Mario Moretti e Barbara Balzarani, non è emerso Dna compatibile con quello di Aldo Moro, ha rivelato il colonnello Luigi Ripani, comandante del Ris di Roma. Secondo Ripani "confrontando i profili con quello dell'onorevole è emerso che sono diversi". "Questi profili ignoti potranno essere eventualmente confrontati con persone sospettate per vedere a chi appartengono", ha detto riferendosi ad eventuali riscontri possibili con i brigatisti che hanno partecipato al sequestro e all'omicidio di Moro. "Abbiamo trovato due profili maschili - ha spiegato ancora il capo romano del Ris - ignoto A e Ignoto C e due profili femminili, Ignoto B e Ignoto D. tutto relativo a materiale "isolato, tra l'altro, su due spazzolini, su un rasoio, su alcune paia di scarpe e su una pinzetta. Si tratta, per la quasi totalità, di dna "da contatto", depositato dal sudore". Da esami emerge che Moro non morì subito: "Sugli indumenti indossati da Moro quando fu ritrovato cadavere - ha detto Ripani, parlando dei risultati degli esami sulla canottiera, sulla camicia e sul cappotto dello statista Dc - è stato cercato dna di altre persone, come accade di solito in questi casi". Inoltre "sul bavero sinistro della giacca dell'onorevole Moro erano presenti delle macchie biancastre. Dagli accertamenti fatti è emerso che si trattava di saliva, compatibile con la posizione in cui è stato trovato il cadavere dell'onorevole e con la circostanza che la morte non sia arrivata nell'immediatezza".
MORO PER SEMPRE - CHI HA MANOVRATO LA FONTE TAROCCA DI IMPOSIMATO AL DILETTO SCOPO DI SPUTTANARE COSSIGA E ANDREOTTI?
Nel 2008 l’ex brigadiere delle Fiamme gialle Giovanni Ladu raccontò che le forze dell’ordine, vicine alla liberazione di Moro, furono “fermate” - Ora si scopre che Oscar Puddu, “nuova” fonte di Imposimato, in realtà è lo stesso Ladu - E la pista si sgonfia…, scrive Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" del 6 novembre 2013. Tra i misteri veri e presunti sul «caso Moro» che hanno suggerito addirittura l'istituzione di una nuova commissione parlamentare d'inchiesta, ce n'è almeno uno che rischia di evaporare anzitempo. È quello intorno alla prigione del presidente democristiano messa sotto sorveglianza da non meglio identificati servizi segreti italiani e stranieri, che controllavano i terroristi ed erano pronti a liberare l'ostaggio ma inspiegabilmente furono rimandati a casa l'8 maggio 1978, alla vigilia dell'omicidio. La Procura di Roma, che in passato s'era limitata a chiedere l'archiviazione delle indagini aperte su queste «rivelazioni», ora cambia strategia per provare a scoprire che cosa c'è dietro: l'ex sottufficiale della Guardia di finanza da cui tutto è scaturito è indagato per calunnia, accusato di aver «falsamente incolpato, pur sapendoli innocenti, i vertici istituzionali e militari nonché le autorità di polizia giudiziaria dell'epoca», di conoscere il luogo dove Moro era segregato ma di non essere voluti intervenire, lasciandolo uccidere. La storia risale al racconto dell'ex brigadiere delle Fiamme gialle Giovanni Ladu, il quale nel 2008 raccontò che trent'anni prima, in pieno sequestro del leader dc, lui appena ventunenne fu spedito a Roma per una missione segretissima: il controllo di un appartamento alla periferia di Roma, con tanto di telecamere e microspie, che in seguito si rivelò la «prigione del popolo» in cui le Br tenevano rinchiuso Aldo Moro. Ma la liberazione sfumò perché il giorno prima dell'esecuzione della condanna a morte, tutti i militari e agenti segreti impegnati ricevettero l'ordine di abbandonare il lavoro e rientrare alle rispettive basi. Le dichiarazioni di Ladu, sottoscritte in alcuni verbali giudiziari, finirono pure in un libro dell'ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato, finché nel 2011 il pubblico ministero Pietro Saviotti chiese e ottenne l'archiviazione del fascicolo poiché «ogni tentativo di dare un contorno di attendibilità all'allarmante versione del dichiarante ha dato esito univocamente negativo, senza che sia emersa alcuna pur frammentaria conferma di una missione per liberare l'onorevole Aldo Moro deliberatamente annullata». Un falso mistero, insomma. O quantomeno indimostrato. Quest'anno però un nuovo volume firmato da Imposimato - che come avvocato rappresenta Maria Fida Moro, primogenita dello statista assassinato dalle Br, e in questa veste ha sollecitato gli inquirenti a riaprire l'indagine - ha rilanciato la questione. Nei 55 giorni che hanno cambiato l'Italia, libro che ha scalato le classifiche delle vendite ed è uno degli elementi che hanno convinto decine di deputati di tutti gli schieramenti a proporre una nuova commissione d'inchiesta, l'ex magistrato torna su quella storia grazie a un'ulteriore testimonianza: un ex appartenente a Gladio, tale Oscar Puddu, che ribadisce i particolari svelati da Ladu e ne aggiunge altri, conditi con nomi altisonanti di politici e generali. Da Andreotti a Cossiga, passando per sottosegretari e leader di partito come Zaccagnini e Donat Cattin; e poi i vertici del servizio segreto militare, da Maletti a Musumeci e Santovito. Aggiungendo particolari che sovrappongono mistero a mistero, fino a segnalare che l'esplosivo utilizzato per le stragi mafiose del 1992 proveniva da un arsenale clandestino di Gladio. Per l'autore del libro è la riprova della tesi precedente: Aldo Moro «doveva morire». E nella prefazione a I 55 giorni il giudice Antonio Esposito (divenuto famoso in estate per aver presieduto il collegio della Cassazione che ha reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale) avvalora le clamorose ricostruzioni che «trovano oggi definitiva conferma e certezza» grazie alle «dirompenti dichiarazioni di due dei numerosi militari» coinvolti nell'operazione. Uno è Ladu, l'altro il sedicente Oscar Puddu, che attraverso quasi cento messaggi di posta elettronica ha risposto alle domande di Imposimato (sempre negandogli un incontro) avvalorando la «storia vera» del delitto Moro: i servizi segreti italiani e stranieri sorvegliavano la prigione, conoscevano i brigatisti e le loro auto, ne registrarono i colloqui, ma anziché liberare l'ostaggio smantellarono la vigilanza e lo fecero ammazzare. Per verificare questo secondo capitolo della storia il pubblico ministero Luca Palamara ha affidato ai carabinieri del Ros di Roma un'ampia delega, con lo scopo di identificare il secondo «testimone». E l'analisi tecnica dei messaggi di posta elettronica consegnati agli inquirenti da Imposimato, attraverso le intestazioni che permettono di scoprire la provenienza della corrispondenza inviata e ricevuta via computer, ha portato a una clamorosa conclusione: Oscar Puddu non esiste, è solo un nome di fantasia dietro il quale si nasconde Giovanni Ladu, il primo «testimone» che aveva visto archiviate le sue precedenti propalazioni. L'ipotesi investigativa è che l'ex finanziere abbia raggirato Imposimato per insistere sulle teorie rimaste senza conferma, proponendosi come un ulteriore protagonista sotto mentite spoglie. Resta da capire il movente dell'invenzione, se ci siano mandanti e scopi reconditi dietro il falso mistero. È ciò che si cercherà di capire nel seguito dell'indagine. A cominciare dall'analisi dei documenti e del materiale informatico sequestrato ieri nella perquisizione a casa di Ladu.
Aldo Moro, don Mennini: “Mai entrato in prigione Br. Ma confessione è segreta”. Audizione in Commissione parlamentare per il sacerdote che, secondo Cossiga, visitò lo statista sequestrato prima che fosse ucciso dalla Br. L'attuale nunzio apostolico in Regno Unito smentisce, ma ricorda che la riservatezza intorno al sacramento non può essere messa in discussione neppure dal Papa. Grassi (Pd): "Non mi convince", scrive "Il Fatto Quotidiano" del 9 marzo 2015. Non ha confessato Aldo Moro. E non gli ha mai fatto avere documenti e oggetti nel “carcere” delle Br. Così l’Arcivescovo Antonio Mennini, nunzio apostolico del Regno Unito, che a quanto scrisse Cossiga visitò lo statista sequestrato prima che fosse ucciso dalla Brigate rosse, ha testimoniato oggi di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta. Ma il sacerdote ricorda anche che le circostanze e i luoghi della confessione sono coperti “dalla legge divina” su cui nessuno può intervenire, nemmeno il Papa. È stato infatti proprio Papa Francesco a prendere la decisione di far testimoniare don Mennini, scegliendo di rompere le regole dell’immunità diplomatica di cui godono i nunzi, per cercare dopo 37 anni di fare luce sui giorni di prigionia dello statista democristiano rapito dalle Brigate Rosse e trovato morto il 9 maggio 1978. “Mai confessato Aldo Moro nella prigione delle Brigate rosse”, ha affermato Mennini di fornte ai parlamentari. “Purtroppo non ho avuto questa possibilità, ma nella coscienza dei miei doveri sacerdotali sarei stato molto contento di farlo. Non avrei difficoltà ad ammettere che sarei andato nel covo delle Br”. E se si fosse presentata un’opportunità del genere, ha aggiunto, “credete che sarei andato lì dove tenevano prigioniero Moro senza tentare di fare niente? Mi sarei offerto di prendere il suo posto, avrei tentato di intavolare un discorso o come minimo ricordare il tragitto fatto”. “Ma poi – ha continuato – di che si doveva confessare il povero Moro?”. Mennini ha precisato che sulla confessione in ogni modo “non solo non si può dire nulla sui contenuti ma neppure sulle circostanze temporali e logistiche”, ha concluso. La figura di don Mennini è cruciale in quanto considerata “ponte fra le Br e la Santa Sede, con l’obiettivo di salvare il prigioniero”. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca del rapimento Moro ha raccontato che “Don Antonello (come molti lo chiamavano, ndr) Mennini raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi non lo scoprimmo. Ci scappò don Mennini”. Ma le dichiarazioni dell’arcivescovo non convincono Gero Grassi, deputato Pd e vicepresidente della commissione d’indagine: “Non era quello che mi aspettavo, non mi convince che lui non ci sia stato nel carcere brigatista”. Non ci sono elementi per smentire la versione di Mennini ma “il percorso di questi anni ci spingeva a pensare che ci fosse stato un canale di ritorno e che qualcuno fosse stato da Moro. E ritenevamo fosse lui. Ora lui smentisce, dicendo che potrebbe essere stato un altro sacerdote, amico dei brigatisti. Ne prendiamo atto. Oggi viene fuori che è stata altra persona, la cercheremo”.
ALDO MORO, LE CARTE SEGRETE. I DOCUMENTI ESCLUSIVI di ALBERTO CUSTODERO su "La Repubblica" del 16 maggio 2012.
Erri de Luca, i comunisti e la P2. Il rapimento Moro secondo i servizi segreti.
Gli 007 italiani, dieci giorni dopo la strage di via Fani, avevano nel mirino Erri De Luca, il responsabile del servizio d'ordine di Lotta Continua. Lo consideravano un "elemento irregolare delle Brigate Rosse". Tirano fuori anche un elenco di esponenti del Pci, "schedati" dal Sismi perché sarebbero andati alla scuola-Kgb di Mosca. Su Moro fu scritto di tutto. Nulla sulla sua liberazione, solo un unico cenno alla loggia P2.
"Il mandarino è marcio": gli appunti dei servizi. I servizi segreti, durante il sequestro Moro, avevano tirato fuori dai loro cassetti anche un vecchio elenco di 507 politici (quasi tutti esponenti del Pci) che, a detta loro, avrebbero partecipato dal 48 al 73 a corsi organizzati a Mosca dal Kgb. Nelle carte anche la lettera di Gheddafi, la sala operatoria in via Gradoli, i sospetti su un sacerdote e le accuse alle indagini del Pci.
In via Fani il sosia di Erri De Luca: "elemento irregolare" delle Br. I servizi segreti, dieci giorni dopo la strage di via Fani, avevano nel mirino Erri De Luca, il responsabile del servizio d'ordine di Lotta Continua che loro consideravano "elemento irregolare delle Brigate Rosse". In una velina, si legge che "una fonte aveva riferito di avere visto subito dopo l'eccidio, in via Mario Fani, un suo sosia".
I servizi segreti citano la loggia segreta P2 di Licio Gelli - nonostante le sue oscure trame golpiste ed eversive fossero ben conosciute molto prima del sequestro Moro - solo sei giorni dopo l'uccisione dello statista. Non come oggetto di una loro indagine, s'intende, o come l'imbeccata di una loro "fonte". Bensì riportando, in un appunto del 15 maggio, i malumori dei vertici del partito comunista, in particolare di Emanuele Macaluso, a proposito della conduzione delle indagini. "Secondo i responsabili del Pci - annotavano gli 007 - dietro il rapimento Moro si nasconde una trama ordita, fra l'altro, dai massoni della P2".
I servizi segreti, 10 giorni dopo la strage di via Fani, avevano nel mirino Erri De Luca, oggi scrittore all'epoca responsabile del servizo d'ordine di Lotta Continua. Lo consideravano "elemento irregolare delle Brigate Rosse": in una velina, si legge che "una fonte aveva riferito di avere visto subito dopo l'eccidio, in via Mario Fani, un suo sosia". I servizi segreti riferivano poi che le bierre volevano costruire una sala operatoria in via Gradoli: durante la perquisizione del 18 aprile 1978, in quel covo brigatista furono sequestrati i progetti per la realizzazione della struttura di emergenza sanitaria. I servizi segreti, durante il sequestro Moro, avevano tirato fuori dai loro cassetti un vecchio elenco di 507 politici (quasi tutti esponenti del Pci) che, a detta loro, avrebbero partecipato dal 48 al 73 a corsi organizzati a Mosca dal Kgb. Oppure in Cecoslovacchia dai servizi cechi. Oppure a Cuba o in Albania. Fra chi avrebbe frequentato la scuola-Kgb di Mosca, (stando al Sismi), anche Claudio Petruccioli, Pio La Torre e Luigi Longo, segretario del Pci dalla morte di Togliatti nel 1964 al 1972, quando sarà sostituito da Berlinguer. Ma perché durante il sequestro Moro riesumare quel vecchio brogliaccio, peraltro poco realistico? Roma, Archivio centrale dello Stato, primo piano, sala consultazioni. Dopo due mesi di attesa per ottenere dal ministero dell'Interno la necessaria e indispensabile autorizzazione, finalmente le carte dei servizi segreti relative al sequestro Moro, rese pubbliche per volontà dell'ex capo del Dis Gianni De Gennaro, dell'ex sottosegretario di Stato Gianni Letta, e del presidente del Copasir Massimo D'Alema, sono finalmente accessibili a un ristretto pubblico di studiosi. Finora i permessi accordati sono 5. Uno di questi, al cronista di Repubblica, un altro al giornalista inglese Philip Willam autore di un libro sulla morte di Calvi. Decine di faldoni di documenti, migliaia di pagine, sono contenuti in un Dvd consultabile solo su un solo computer dell'Archivio appositamente dotato di un programma in grado di decriptarne il codice di lettura riservato. La consultazione appare subito complicata e laboriosa. Un esempio. Dopo aver digitato il nome in codice e una password segreta, si clicca "esplora dvd", e si apre l'indice dal codice numerico 73-2-50-6-180. Si ri-clicca, e si presentano dunque due cartelle. In quella di destra c'è il materiale dei 55 giorni del sequestro. A questo punto si decide di studiare il fascicolo 16 che contiene al suo interno un centinaio di documenti pdf. Li si apre uno ad uno, e, dopo qualche ora di ricerca, si fissa l'attenzione sui numeri 1017, 1018, 1019 e 1020. Si pigia il tasto stampa e poi si torna indietro e si ricomincia da capo. Ore e ore, giorni e giorni di paziente e certosino lavoro. Ma se uno avesse il retropensiero di trovare là documenti che rispondano finalmente, a 34 anni dal sequestro, ai numerosi interrogativi rimasti tuttora senza risposta, ben presto si rende conto che in quella mole di carte l'unica cosa che si scopre con certezza, è la confusione che regnava sovrana nei giorni del sequestro all'interno della nostra intelligence. Confusione voluta o meno, non è dato sapere. Ma confusione. Se uno si aspettava di trovare la carta a dimostrazione del sospetto che le bierre fossero eterodirette dai servizi segreti deviati nostrani, o sovietici o financo filopiduisti argentini. Oppure la prova regina per dimostrare la presenza di infiltrati della Cia o del Mossad. Insomma, se uno si aspettava di trovare lo zampino, la manina o la manona di qualche Gladio, o la prova di una fronda fratricida democristiana, sarebbe ben presto rimasto deluso. Gli 007, in pieno sequestro rispolverano un documento datato cinque anni prima coi nomi di politici della sinistra che avrebbero partecipato a corsi "con denominazioni ufficiali dei copertura" organizzati nei Paesi dell'Est dal Kgb. "Scopo" di quei corsi, "specializzazione politica" e "istruzioni di carattere militare". Erano quasi tutti esponenti del Pci quelli "schedati" dal Sismi che risultavano essersi in effetti recati in Unione Sovietica, ma non certo per seguire lezioni dai potenti servizi segreti sovietici. Ma che c'entravano Pio La Torre o Luigi Longo o Petruccioli coi sequestratori di Moro? Va detto che in una parte dell'intelligence era in voga una corrente di pensiero (ben tratteggiata in un articolo di Pecorelli su OP del 17 ottobre del 1978) secondo la quale le bierre avevano "un'unica matrice, il Pci". Le bierre, in sostanza, sarebbero "nate del cuore di questo partito, nel cuore dei suoi rapporti con i Paesi del Patto di Varsavia. "116 brigatisti - svelava Pecorelli su OP - iniziarono la loro milizia nei Gap di Feltrinelli" addestrandosi in campi militari in Cecoslovacchia. Si spiega forse così il motivo per cui il Sismi decide, a rapimento in corso, di rimestare quelle carte ingiallite: per accreditare quell'equazione tanto cara ad alcuni ambienti dell'intelligence anticomunista: Br=Pci=Urss=Feltrinelli=Gap=Cecoslovacchia. Evidentemente agli 007 faceva comodo in quel momento tirare in ballo, in qualche, i sovietici. Fra quei 507 nomi, c'erano Pio La Torre, segretario regionale del Pci in Sicilia, protagonista delle lotte contro l'aeroporto militare di Comiso. Lauro Casadio, ex partigiano, segretario del Comitato regionale della Cgil e consigliere regionale in Lombardia. Claudio Petruccioli, ex presidente del consiglio d'amministrazione Rai, e ex segretario nazionale della Fgci. Lia Cigarini, destinata a diventare una delle protagoniste intellettuali del movimento delle donne. Lanfranco Turci, presidente della regione Emilia Romagna, uno dei comunisti dell'ala estrema della corrente migliorista-riformista, poi presidente della Lega delle cooperative. Paolo Ciofi Degli Atti, deputato esponente del Pci di Roma e suo fratello Claudio, fisico. Dina Mascetti, (probabilmente Nascetti), attuale presidentessa di una organizzazione di cittadini benemeriti per la tutela del centro storico "Vivere Trastevere". Filippo Maone, giornalista de "il manifesto". Carla Pasquinelli, femminista e antropologa. Lovrano Bisso, presidente del Consiglio regionale Liguria e deputato. Antonio Rubbi, responsabile Esteri del Pci con Alessandro Natta. Giovanni Cervetti, migliorista milanese membro della segreteria con Berlinguer e responsabile organizzazione del Pci. Rocco Curcio, deputato della Basilicata. Olivio Mancini, senatore del Pci romano. Fosco Dinucci, uno dei fondatori del pcd'i, il Partito comunista d'Italia filocinese (e, dunque curiosamente, antisovietico). Fra chi, sempre secondo i nostri servizi segreti, avrebbe "partecipato in Cecoslovacchia a corsi di attivismo politico o di addestramento al terrorismo", Rodolfo Mechini, a lungo alla sezione Esteri del Pci (segretario Berlinguer) proprio ai tempi dalla presa di distanza dai russi. E Renato Pollini, tesoriere Pci dall'82 al 90, sindaco di Grosseto dal 51 al 70, senatore due volte, arrestato maggio 93 per Tangentopoli, inquisito 8 volte, ma sempre assolto. Dopo aver rievocato gli "allievi" del Kgb e dei servizi cecoslovacchi, la nostra intelligence passa al setaccio la vita di Erri De Luca, considerato oltranzista e rivoluzionario, analizzando i suoi dissidi all'interno di Lc con la linea moderata del leader Adriano Sofri. Poi passano dalle considerazioni sui deliri di un radioamatore austriaco che millantava di avere intercettato con le sue antenne notizie sul sequestro. Al ruolo di mediatore con la sinistra extraparlamentare svolto da padre Davide Turoldo, dell'ordine dei servi di Maria, esponente del clero cattolico di sinistra. Quindi si dilungano su una fonte che li avvisa che Moro sarebbe stato tenuto prigioniero in una cella frigorifera in un capannone alla periferia di Roma. Catalogano gli articoli di Mino Pecorelli che su Op lancia messaggi cifrati, e monitorano pure il settimanale satirico il Male, che aveva pubblicato un oroscopo di Moro forse ritenuto sospetto. Registrano minacce bierre alla Svp di Bolzano e ascoltano radio Rosa Giovanna. Quindi tengono d'occhio i commenti sul sequestro della stampa sovietica. Annotano che a un posto di blocco viene fermata una vettura intestata a Marco Donat Cattin e fotocopiano la lettera che Franca Rame scrive al noto brigatista Paroli Tonino, in carcere. Si procurano la lettera di solidarietà che Gheddafi scrive alla moglie di Moro e stilano un elenco di latitanti brigatisti. Quindi lanciano l'allarme su un possibile atto terroristico che potrebbe essere realizzato di lì a poco da Marina Petrella. Prendono in considerazione le dritte di un medium e quelle di una veggente parapsicologa olandese, e si arrovellano per decifrare frasi misteriose intercettate come "Moro rapito, rivediamo i piani". Oppure "il mandarino è marcio", il che sarebbe, secondo la sezione Crypto dei servizi segreti, l'annuncio della sua imminente morte, essendo l'anagramma de "il cane morirà domani". Riferiscono infine delle iniziative del nunzio apostolico di Beirut e spiano discretamente il via vai di persone che frequentano la famiglia dell'esponente Dc. Insomma, di tutto e di più su tutto e il contrario di tutto. Ma nulla che porti alla liberazione del rapito. Da sottolineare l'assordante silenzio sulla P2: nonostante fosse notissima prima del sequestro la sua matrice eversiva in chiave anticomunista, i servizi segreti (diretti, manco a farlo apposta, da piduisti) finsero di ignorarla. Limitandosi a citarla quasi di straforo in un appunto che, all'indomani della scoperta del cadavere di Moro, riferiva gli "errori" che, secondo il Pci, sarebbero stati compiuti durante le indagini. "Queste forze oscure come la P2 - era la tesi dei comunisti ripresa e riferita dagli 007 - possono anche non avere creato il terrorismo. Ma certamente in questo momento se ne servono per i loro obiettivi, che sono anti-Pci".
L'ANALISI di FEDERICO IMPERATO. E' la politica che cerca di recuperare "Il sequestro Moro come l'8 settembre". Il ritrovamento del cadavere dell'onorevole Moro. Era il 9 maggio 1978. "Ad accomunare il sequestro dell'onorevole e la Resistenza è l'inadeguatezza delle istituzioni, alla ricerca disperata di recuperare le basi di una convivenza civile disgregata dal duro colpo sferrato al sistema politico e istituzionale". Le carte dei servizi segreti sul "caso Moro" reperite e analizzate da "Repubblica" confermano in pieno i giudizi storici che su quel tragico avvenimento sono stati formulati dagli studiosi. Agostino Giovagnoli, autore di una molto ben documentata storia politica del "caso Moro", ha proposto un parallelismo tra la situazione politica italiana durante i 55 giorni del sequestro dello statista pugliese e quella esistente all'indomani dell'8 settembre 1943. Ad accomunare quei due tragici momenti della storia d'Italia è l'inadeguatezza delle istituzioni, alla ricerca disperata di recuperare le basi di una convivenza civile disgregata dal duro colpo sferrato al sistema politico e istituzionale. In questo senso, non stupisce l'attenzione rivolta dai servizi segreti al PCI e a presunti corsi di politica per militanti comunisti svoltisi in diversi Paesi dell'Est europeo e comprendenti anche esercitazioni di carattere militare. L'immagine dell'"album di famiglia", usata da Rossana Rossanda, per indicare una certa contiguità o derivazione politica tra le BR e il PCI, poteva aprire un filone di indagini per i servizi segreti o gli inquirenti, ma più per verificare se esponenti delle BR avessero in passato usufruire di un addestramento militare all'estero che per coinvolgere esponenti del partito comunista come Pio La Torre, Claudio Petruccioli o Luigi Longo. Il PCI doveva respingere le insinuazioni che provenivano da questi settori dell'estrema sinistra e, in quest'opera, Emanuele Macaluso fu uno dei dirigenti comunisti più attivi. La critica alla DC, svolta dal partito comunista in tutto il periodo repubblicano, non aveva mai avuto, secondo Macaluso, come obiettivo la ricerca dello scontro frontale con il partito cattolico, mirando, invece, a far emergere le sue contraddizioni, in modo da spingerla alla collaborazione con le forze della sinistra, PCI compreso. Il sequestro Moro era, secondo l'esponente comunista, un complotto di vaste dimensioni, che, oltre alla BR, vedeva coinvolti ambienti politici e di potere reazionari, contrari all'ingresso del PCI nel governo di solidarietà nazionale. Macaluso fa riferimento, in particolare alla P2 di Licio Gelli, il cui ruolo nella vicenda non è mai stato chiarito. Gli accenni al "caso Moro" contenuti nel memoriale che Gelli presentò, nel 1984, alla commissione bicamerale d'inchiesta sulla loggia P2, dimostrano, come ha scritto lo storico Piero Craveri, la "profonda intelligenza che egli aveva degli avvenimenti". Rimane da chiarire, però, il ruolo che la P2 ebbe in quei 55 giorni: se abbia fatto quasi le veci dei servizi segreti, considerato il fatto che a capo delle strutture di intelligence e di sicurezza erano stati posti molti uomini aderenti alla P2, o abbia avuto addirittura un ruolo di regia occulta nella pianificazione e nella conduzione dell'"affaire Moro", grazie ai numerosi contatti e collegamenti internazionali, dall'ovest all'est, di cui poteva godere Gelli, e che erano, in molti casi, rafforzati dall'affiliazione massonica. Il coinvolgimento di elementi dei servizi segreti stranieri è un altro dei punti oscuri dell'"affare Moro". Non è mai stato chiarito se ci sia stato effettivamente un rapporto tra i gruppi terroristici delle Brigate Rosse e i servizi segreti stranieri, specialmente dei paesi comunisti dell'Europa orientale, o se le nostre strutture d'intelligence abbiano ricevuto aiuto dai loro omologhi stranieri. Anche sui rapporti che le BR intessevano con gruppi armati del terrorismo palestinese o con la Libia, le notizie sono troppo frammentarie per arrivare a misurare il grado di influenza che queste relazioni avevano sul fenomeno terrorista di casa nostra. Il messaggio di solidarietà inviato da Gheddafi alla moglie di Moro, arrivato pochi giorni prima della morte dello statista pugliese, fu interpretato, dalla stampa dell'epoca, come una sorta di excusatio non petita. Rimangono oscuri, però, i motivi che avrebbero potuto indurre il dittatore libico ad appoggiare, direttamente o indirettamente, l'azione eversiva contro Aldo Moro, che, specialmente nel periodo in cui detenne la carica di ministro degli Esteri, quasi ininterrottamente tra il 1969 e il 1974, impresse una forte spinta alla politica mediterranea dell'Italia. Il governo italiano fu, tra le altre cose, il primo governo non arabo a riconoscere il regime del colonnello libico, pochi giorni dopo la sua presa del potere, avvenuta il 1°settembre 1969. Una disposizione favorevole che rimase tale anche dopo l'esproprio dei beni degli italiani in Libia, decisa da Gheddafi nel luglio del 1970 e a cui il governo italiano reagì con misura e moderazione, evitando di rompere le relazioni diplomatiche bilaterali. Un'ultima considerazione sull'attenzione riservata dai servizi segreti ai gruppi extraparlamentari dell'estrema sinistra. Esisteva di sicuro una certa permeabilità tra le BR e altri gruppi armati dell'estrema sinistra e l'ampia galassia dell'Autonomia operaia. Più difficile appare ipotizzare un coinvolgimento di Lotta Continua, che aveva già rotto con i movimenti extraparlamentari all'epoca del I Congresso Nazionale, tenutosi a Roma dal 7 al 12 gennaio 1975. In quell'occasione, la dirigenza di LC decise di votare, alle successive elezioni regionali, per il Partito Comunista Italiano. L'anno successivo LC si presentò alle elezioni politiche, indette per il 20 giugno, all'interno di liste comuni con il PdUP per il comunismo, con Avanguardia Operaia e con il Movimento Lavoratori per il Socialismo. Questa svolta verso il parlamentarismo segnò, in qualche modo, la fine di LC, che, di fatto, si sciolse dopo il II Congresso Nazionale, svoltosi a Rimini tra il 31 ottobre e il 5 novembre 1976. Anche l'ala dura del movimento, rappresentata a Roma, secondo i documenti in possesso da "Repubblica", dal servizio d'ordine del gruppo capitolino di LC, di cui faceva parte Erri De Luca, non volle mai intraprendere la strada della clandestinità, come ha rivelato lo stesso scrittore napoletano.
Federico Imperato è dottore di ricerca in storia delle relazioni e delle organizzazioni internazionali e collabora all'attività scientifica e didattica della cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro". E' autore del volume "Aldo Moro e la pace nella sicurezza. La politica estera del centro-sinistra 1963-68" (Bari, Progedit, 2011).
Lo scrittore Erri De Luca, con un passato importante in Lotta Continua, spiega cosa c'è dietro all'elenco di nomi di presunte spie dei servizi segreti russi in Italia: "Dopo il sequestro Moro c'era una grande confusione all'interno dell'intelligence e quel documento ne è la prova".
Petruccioli: ''Mai partecipato ad alcun corso in Urss''. Carlo Petruccioli, ex segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana negli anni Settanta, è presente nella lista di nominativi stilata dai servizi italiani di politici e attivisti che avrebbero effettuato viaggi 'sospetti' in Unione Sovietica, ma nega qualsiasi rapporto con il Kgb. "Penso che nei giorni del sequestro Moro - spiega l'ex presidente della Rai -, nel disordine e nell'ansia causati dalle pressioni che arrivavano dall'alto per raccogliere il maggior numero di informazioni utili sul rapimento, i servizi abbiano recuperato questo documento - vecchio di cinque anni - in cui erano stati inseriti semplicemente nomi noti di giovani che erano allora alla guida della Fgci, ma senza riscontri approfonditi"
Macaluso: ''Nessuna infiltrazione nel Pci''. Il racconto dell'ex senatore Emanuele Macaluso, autore di un articoli su "Rinascita" che spiegava quali fossero i "santuari" del terrorismo: "Erano altre le forze in campo per destabilizzare l'ordinamento democratico del Paese. In primis la P2, infiltrata nei vertici di tutte le maggiori istituzioni statali". Diverso il caso del partito comunista. "La scuola di Mosca era una sorta di università della politica, non c'era nulla di clandestino".
Turci: ''Mai avuto rapporti con il Kgb''. Il racconto di Lanfranco Turci, ex presidente della Regione Emilia Romagna: "Sono andato per la prima volta in Russia in terza liceo con una gita organizzata e poi ci sono tornato da governatore. Mi sembra difficile che in qualcuna di queste due vesti possa avere avuto contatti con i servizi segreti russi". E su come sia finito il suo nome nelle liste spiega: "Non ne ho idea, mi viene da pensare che chiunque si recasse a Mosca in quegli anni venisse monitorato".
Le trame "eversive" della P2 erano già note ma nessuno la indagò durante il sequestro, continua Alberto Custodero su "La Repubblica". "Dietro il caso Moro uomini intoccabili" quelle trame indicate da Macaluso. Nelle indagini non si parla mai di P2. Se non in questo appunto del 15 maggio dove si registrano i malumori dei vertici del partito comunista, in particolare di Emanuele Macaluso, a proposito della conduzione delle indagini. "Secondo i responsabili del Pci - annotavano gli 007 - dietro il rapimento Moro si nasconde una trama ordita, fra l'altro, dai massoni della P2". "In nome della loggia" nel 1976 già si scriveva di P2. Quattro anni prima il sequestro degli elenchi nel bunker di Gelli di Castiglion Fibocchi da parte dei magistrati milanesi (17 marzo 1981), e due anni prima del rapimento di Aldo Moro, della P2 si sapeva già tutto. O quasi. Ma nessuno, durante i 55 giorni del sequestro Moro, ha pensato di metterla sotto inchiesta. La magistratura, che pur la conosceva bene, non lo fece. E si guardarono bene dal farlo le forze dell'ordine e, soprattutto, i servizi segreti. Eppure, l'influenza della P2, nei giorni del sequestro, fu tutt'altro che secondaria. La mattina del 16 marzo 1978 al Comitato di crisi del Viminale tra i convocati c'erano molti affiliati alla loggia. Se i nomi dei piduisti erano ancora segreti, le trame di Gelli erano già note. L'unico che la denunciò fu il Pci. Quattro anni prima il sequestro degli elenchi nel bunker di Gelli di Castiglion Fibocchi da parte dei magistrati milanesi (17 marzo 1981), e due anni prima del rapimento di Aldo Moro, della P2 si sapeva già tutto. O quasi. Ma nessuno, durante i 55 giorni del sequestro Moro, ha pensato di metterla sotto inchiesta. La magistratura, che pur la conosceva bene, non lo fece. E si guardarono bene dal farlo le forze dell'ordine e, soprattutto, i servizi segreti. Eppure, l'influenza della P2, nei giorni del sequestro, fu tutt'altro che secondaria. Basti considerare il numero delle alte cariche dello Stato che appartenevano alla loggia di Gelli. La mattina del 16 marzo, giorno del sequestro di Moro, si riunisce al Viminale un Comitato di crisi. Tra i convocati, molti sono affiliati alla P2: il generale Santovito, capo del Sismi, il servizio segreto militare (tessera P2 1630), il generale Giulio Grassini, capo del Sisde, il servizio segreto civile (tessera P2 1620), il generale Raffaele Giudice, capo della guardia di finanza (tessera P2 1634), il generale Donato Lo Prete, capo di stato maggiore della Gdf (tessere P2 1600), l'ammiraglio Giuseppe Torrisi, capo di stato maggiore della Marina (tessera P2 1825), l'ammiraglio Marcello Celio, vicecapo di stato maggiore della Marina (tessera P2 815). Fanno parte della loggia di Gelli anche il segretario generale del Cesis (coordinamento Sismi e Sisde), Walter Pelosi. Il generale dei carabinieri Giuseppe Siracusano, cui saranno affidate le prime indagini, il comandante del nucleo investigativo dell'Arma di Roma, colonnello Antonio Cornacchia, il vicecapo della Mobile romana, Elio Cioppa, chiamato, dopo il tragico epilogo del sequestro, alla vicedirezione del Sisde, il commissario Antonio Esposito, che, quel 16 marzo 1978, prestava servizio alla centrale operativa della Questura di Roma. E il cui nome, indirizzo e numero di telefono fu trovato in una agendina di Valerio Morucci, uno dei capi della colonna romana delle Brigate rosse. Se quei nomi di piduisti nel marzo del 1978 erano segreti, l'esistenza della P2, e soprattutto le sue trame, erano invece ben conosciute dalla metà degli anni Settanta. E alla loggia di Gelli si attribuiva un qualche ruolo, già in quel periodo, nell'incredibile catena di colpi di stato pensati, tentati, rinviati, a cominciare da quello di Junio Valerio Borghese (dicembre 1970), per passare a quello fallito dell'estate del 1974. E per finire con le iniziative eversive della Rosa dei Venti. È forse una nemesi storica, va osservato, che proprio la massoneria, che nel 1923 fu perseguitata dagli squadristi fascisti mandati da Mussolini, negli anni Settanta, grazie proprio alla P2, sia stata sospettata come cabina di regia di una strategia della tensione eversiva di matrice fascista. Sui giornali tra il 1976 e il 1977 già trapelava qualche nome di iscritti alla P2, in particolare quelli coinvolti in inchieste giudiziarie. Si leggeva, ad esempio, che "tesoriere della Rosa dei Venti era il piduista avvocato De Marchi". E che della loggia segreta facevano parte "Adelino Ruggeri del gruppo eversivo Mar, Loris Civitelli del "golpe bianco" di Edgardo Sogno, Agostino Coppola coinvolto in storie di mafia, l'avvocato Minghelli accusato di riciclare i soldi dei sequestri di persona dell'anonima romana", combine, quella, tra banda della Magliana e clan dei Marsigliesi. È però quasi una certezza che nei vari tentativi golpisti più o meno credibili, o poi, nelle varie fase più critiche della Repubblica - compreso il sequestro Moro - si ritrova sempre, in ordine sparso, ma mai troppo casuale, un gruppetto di iscritti alla P2. Il primo magistrato a occuparsi della P2, nell'aprile del 1976 (cinque anni prima, dunque, del sequestro di Castiglion Fibocchi), fu il pm Vittorio Occorsio che indagò sui rapporti tra terrorismo neofascista, massoneria e apparati deviati del Sifar. L'ex ufficiale dei Parà Sandro Saccucci, ad esempio, interrogato in carcere, gli confidò di appartenere alla massoneria e gli parlò di Licio Gelli e della Loggia P2. Sui giornali d'epoca, si legge che Occorsio, indagando sulla P2, aveva scoperto "un documento datato 22 marzo 1975 nel quale si parlava di presunte attività illecite, dalla corruzione di esponenti politici e sindacali, al pagamento di tangenti per ottenere licenze edilizie, dalle presunte attività golpiste della P2 a un grosso traffico d'armi scoperto a Livorno". In precedenza Occorsio si era occupato anche del golpe Borghese. E aveva diretto le indagini sul boss dell'anonima sequestri romana (Albert Bergamelli), e, per riciclaggio, sul suo legale, avvocato Minghelli, che risultò essere iscritto alla P2. Il convincimento maturato in Occorsio al termine di quelle indagini è sintetizzato in una significativa dichiarazione fatta all'amico e collega giudice istruttore Ferdinando Imposimato: "Sono certo che dietro i sequestri ci siano delle organizzazioni massoniche deviate, e naturalmente esponenti del mondo politico. Tutto questo rientra nella strategia della tensione: seminare il terrore tra gli italiani per spingerli a chiedere un governo forte, capace di ristabilire l'ordine". L'illegalità in nome della legalità, destabilizzare con attentati terroristici per stabilizzare, vecchia storia d'Italia. Occorsio fu ucciso da Pierluigi Concutelli di "Ordine nuovo" il 10 luglio del 1976. Ma fu proprio dopo l'omicidio Occorsio, nel 1977, che la magistratura di mezza Italia si scatenò contro la P2. Licio Gelli fu interrogato per tre volte dal pm di Firenze Pier Luigi Vigna e il procuratore generale Giulio Catelani che poi si avocò l'inchiesta. Ma indagarono anche il giudice di Bologna Angelo Vella. E poi il pm Domenico Sica e ancora il giudice Ferdinando Imposimato. A Vigna, Gelli ammise di essere stato repubblichino, di essere consigliere economico dell'ambasciata argentina a Roma, ammise che Miceli faceva parte della P2, consegnò un imponente materiale sulla loggia da allora andato misteriosamente scomparso. Lino Salvini, il gran maestro del grand'Oriente d'Italia, l'Obbedienza massonica nel cui seno si annidava la P2, anch'egli interrogato da Vigna, disse che Gelli aveva come amici, in particolare, "Andreotti, Piccoli e Mariotti". In alcune lettere anonime indirizzate ai giudici, Gelli era indicato come "capo del servizio di spionaggio argentino in Italia e nel contempo membro influente del Sid". Fabio Isman, sul Messaggero, scrisse che "fu persecutore di partigiani inquadrato fra le truppe tedesche d'occupazione, dopo la Liberazione finì in Sudamerica dove divenne amicissimo di Peron e, pare, anche del nero Lopez Reca". Le indagini allora furono agevolate da una faida fratricida che si consumava sotto le volte stellate del Goi. A contendersi il controllo della potente obbedienza massonica, da una parte, il gran maestro Salvini, dall'altra Gelli, che non faceva mistero di avere dossier per mandarlo in carcere in mezz'ora. A dare impulso a quelle inchieste fu in effetti un "fratello" espulso dal grand'Oriente perché in rotta di collisione con Gelli, tal Francesco Siniscalchi, ingegnere. In un dossier esplosivo consegnato alla procura e pubblicato nel 1976 sul numero 562 di Panorama, l'ex massone svelò le oscure manovre politiche di quel gruppetto oltranzista e piduista collegato, secondo le sue accuse, a mafia, magistratura, finanza e mondo militare. Siniscalchi denunciò l'attività eversiva della P2 alla magistratura e rilasciò numerose interviste. In un articolo di Panorama del 13 dicembre del 1977 intitolato "Dietro tutto, la P2", ad esempio, l'ex fratello dichiarò essere "ampiamente dimostrata" l'appartenenza di Vito Miceli - coinvolto nel golpe Borghese - alla P2, la loggia che lo raccomandò al vertice del servizio segreto Sid. "Cominciarono dal 1953 - disse in un'altra intervista - a crearsi forti commistioni tra la massoneria e il mondo militare, soprattutto i servizi segreti. Si creò così un altro anello tendenzialmente più oltranzista disposto e disponibile a portare avanti operazioni politiche spericolate. La P2, negli anni successivi, è divenuto il ricettacolo segreto di questo potere militare che secondo me ha avuto per lungo tempo capofila Miceli in contatto attraverso il maestro venerabile Gelli con personaggi come Michele Sindona, Carmelo Spagnuolo e così via. A legarli era un acceso anticomunismo". "Non dimentichiamoci che la maggior parte degli ufficiali coinvolti nell'inchiesta sulle trame eversive della Rosa dei Venti appartengono proprio alla P2". La P2 era legata alla Cia, svelava ancora Siniscalchi. Per difendersi dalle accuse della magistratura, dei giornali e dell'ex fratello Siniscalchi, Gelli fu costretto, per la prima volta, a uscire allo scoperto. E contrattaccò ribattendo che tutti quei veleni su di lui e sulla P2 "nascevano da lotte intestine interne alla massoneria", fomentate da "qualche fratello, o ex fratello, espulso". La faida all'interno del grand'Oriente aveva raggiunto una tensione talmente elevata che c'era chi, a gran voce, invocava lo scioglimento della loggia segreta P2. Ma Salvini si guardò bene dal farlo. Prima del sequestro Moro, tra il 1975 e il 1978, circolavano alcuni nomi di presunti appartenenti alla P2, puntualmente smentiti dal gran maestro Salvini secondo cui alla P2 erano affiliati solo 62 fratelli. Tra i nomi pubblicati dai giornalisti, "il generale di Ps Osvaldo, i generali Miceli e Maletti, Saccucci, il capitano La Bruna, l'ex procuratore generale Carmelo Spagnuolo". Interrogato dal giudice istruttore Imposimato, Salvini disse che la loggia Propaganda 2 esisteva già ai tempi di Garibaldi. In effetti, la storia della P2 è antica. Fu inventata dal gran maestro Lemmi alla fine dell'Ottocento, dopo che la P1 (Propaganda 1), aveva in qualche modo esaurito il suo compito di loggia che raccoglieva deputati e ministri italiani, numerosissimi. La P2 conservò il carattere di segretezza della P1 continuando a raccogliere al suo interno ministri, deputati, militari, magistrati, industriali, funzionari che non ritenevano di far conoscere pubblicamente la loro qualità di massoni. Nel 1966 l'allora gran maestro Giordano Gamberini affidò a Gelli la sua riorganizzazione. La loggia decollò tra il 1969 (l'anno della strage di piazza Fontana) e il 1970 e da quel periodo si diceva che, sotto la direzione Gelli, fossero confluiti i cosiddetti "fascipisti", ovvero i golpisti di destra. Il "manifesto" della loggia, prima del sequestro Moro, del resto, non era affatto segreto. Anzi. Nel giugno del 1976 fu divulgato l'editto politico di Licio Gelli (che lui disse essergli stato richiesto dal Quirinale, nei cui ambienti era stato introdotto dai fratelli Lefebvre). Dopo una premessa sconsolata sulla "scomparsa politica di uomini della levatura di uno Scelba, di un Pella e di un Tambroni", Gelli accusava il centrosinistra, colpevole secondo il Venerabile "di aver determinato l'instabilità politica, lo sfacelo economico e l'insofferenza sociale, favorendo lo sviluppo di formazioni criminali che hanno assunto, forti della protezione del Pci, atteggiamenti da quasi potere". Tre capitoli ("Propaganda", "Aspetti del comunismo russo", "Aspetti e strategia del Pci") erano diretti a dimostrare la consistenza del pericolo rosso in Italia "dal momento che il vero artefice della crisi attuale non è altro che lo stesso Pci che, pur sconfessandole, ha istruito organizzato e finanziato frange estremiste di sinistra di cui ha il pieno controllo". A chi si riferiva il venerabile Gelli? Ma il caso Gelli-P2 deflagra proprio a ridosso del sequestro Moro, quando le cronache riportano le notizie dell'inchiesta sul dissesto delle banche di Sindona. Era l'11 febbraio del 1978, un mese prima del sequestro. Paolo Guzzanti, in un articolo su Repubblica intitolato "E in mezzo al gioco la loggia P2", attacca Gelli. "Quello massonico non è solo un coté dell'affare Sindona, ma molto più probabilmente il buio centro di tutta la storia. Mario Barone ha fatto finora solo pochi nomi tra quelli dei 500 esportatori di capitali. Ma sono comunque sufficienti per azzardare le linee di una mappa che promette di coincidere con quella del più occulto luogo di potere parallelo del nostro Paese: la loggia massonica P2". Continua Guzzanti: "Che non si tratti di tenebrose fantasie o della mania di chi vede trame occulte dappertutto, sembra indicato da pochi, ma incontrovertibili fatti. Primo fra tutti il nome indicato da Mario Barone, di Licio Gelli capo della P2 emerso già in decine di occasioni legate alla cronaca del golpismo, della fuga dei capitali, del traffico delle armi, dei movimenti fra gli altri gradi delle Forze Armate e dei servizi segreti". La lotta fratricida Salvini-Gelli ebbe il suo epilogo finale proprio in pieno sequestro Moro. Il 18 marzo 1978, quando Roma era setacciata dalle forze dell'ordine, il grand'oriente si riunì all'Hotel Hilton di Roma. Di fronte ai maestri venerabili delle 496 logge (fra queste, la P2), molti dei quali riverivano Gelli, Salvini si dimise con un anno di anticipo. E lasciò il passo a una istanza di Gelli secondo la quale la futura giunta dell'Obbedienza non sarebbe più stata costituita in base alle rappresentanze regionali. Bensì chiamandovi a fare parte fratelli di alto e indiscusso prestigio, guarda caso in gran parte della P2: generali, alti magistrati, importanti burocrati di stato, banchieri, industriali, professionisti illustri. Insomma, di Gelli, della P2 e delle trame oscure di quella loggia, prima del sequestro di Aldo Moro, si sapeva già tutto. Perché, allora, continuò ad agire indisturbata durante tutto il periodo del rapimento dello statista Dc? E poi ancora per tre anni agì indisturbata?
IL COMPLOTTO INTERNAZIONALE.
Aldo Moro ucciso per un complotto internazionale, scrive "Il Tempo" l'1/11/2009. E' quanto afferma Sergio Flamigni, parlamentare del Pci dal 1968 al 1987 ed ex componente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro. Flamigni, 84 anni, è intervenuto venerdì sera ad un dibattito pubblico organizzato a Sezze in occasione della presentazione del film-documentario «Se ci fosse luce - I misteri del caso Moro», scritto e diretto da Giancarlo Loffarelli e realizzato in collaborazione con le «Teche Rai». Nel corso dell'incontro, cui hanno preso parte anche Agnese Moro, figlia dello statista, e lo storico Giuseppe De Lutiis, Flamigni ha detto di essere «oggi ancor più convinto che in molti, in Italia e all'estero, hanno voluto la morte di Moro per bloccare l'accordo tra Dc e comunisti». Forse anche una risposta indiretta al Presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, che di recente aveva dichiarato al nostro giornale che «Moro è stato ucciso dalle Brigate Rosse e le Brigate Rosse sono un fatto tutto italiano». L'ex parlamentare ha dichiarato anche di «avere inviato una richiesta al ministro Maroni, senza avere risposta, per avere accesso ad alcuni documenti sul caso Moro coperti da segreto di stato, segreto che è caduto con l'apposita legge del 2007». Tra le carte a cui Flamigni ha chiesto di avere accesso, ce n'è una, in particolare, redatta dal Ministero dell'Interno, che nei 55 giorni del rapimento Moro (dal 16 marzo al 9 maggio 1978) era retto da Cossiga, in cui il Viminale indicava «un sito nell'area aeroportuale di Fiumicino» quale prigione dello statista. «Non capisco perché Maroni non risponda ai miei solleciti», dice Flamigni, cui ha fatto eco De Lutiis che si è augurato che anche in Italia si possa avere libero accesso ai documenti dopo trenta anni dai fatti. E ancora Flamigni, tra gli argomenti toccati, ha riferito della famosa seduta spiritica a cui partecipò anche Romano Prodi, il 2 aprile 1978, a Bologna, a casa del professore Alberto Clò (futuro ministro) in cui uscì il nome di Gradoli. E' la via a nord di Roma in cui la polizia aveva già fatto un controllo, senza esito, perché nessuno aprì la porta in un appartamento al civico 96, due giorni dopo la strage di via Fani. Flamigni ha detto di aver assistito alle deposizioni davanti alla commissione di tutti i partecipanti alla seduta, di averli visti «sinceri nelle loro dichiarazioni ma sono convito che il nome Gradoli sia uscito perché, comunque, qualcuno dei presenti aveva già sentito quel nome in relazione alla vicenda Moro».
Sequestro Moro, La Torre e Piersanti Mattarella. La pista siciliana, scrive Alberto Di Pisa il 21 marzo 2016 su "Sicilia Informazioni". La mattina del 16 marzo 1978, allorquando il nuovo governo, guidato da Giulio Andreotti, stava per essere presentato in Parlamento, per ottenere la fiducia, un nucleo armato delle Brigate Rosse intercettava in via Mario Fani, a Roma, l’autovettura a bordo della quale vi era Aldo Moro che si accingeva a raggiungere la Camera dei deputati. Furono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco automatiche e nell’agguato rimasero uccisi i due carabinieri che si trovavano a bordo dell’auto in cui viaggiava Moro e tre poliziotti che si trovavano sull’auto di scorta. Moro venne sequestrato dai Brigatisti e il nove maggio, dopo una prigionia durata 55 giorni, venne ucciso e il suo cadavere fatto ritrovare a Roma nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, ubicata tra la sede della DC e quella del PCI. Numerose furono le ipotesi che si fecero sui motivi e sugli esecutori e mandanti del sequestro e della uccisione dell’onorevole Moro. Si ipotizzò un possibile coinvolgimento della P2 e dei servizi segreti, dell’URSS, degli Stati Uniti, di Israele e persino della mafia. Si arrivò alla fine alla conclusione che tutto era chiaro, il grave delitto era riconducibile esclusivamente alle Brigate rosse, soprattutto dopo il c.d. “memoriale” scritto in carcere dal brigatista Valerio Morucci, avallato dall’ex capo delle BR Mario Moretti e da una parte della magistratura che ricostruì la vicenda Moro basandosi prevalentemente su ciò che Morucci aveva scritto. Nel memoriale e nelle dichiarazioni rese agli inquirenti nella primavera del 1984 e nel processo di appello, Morucci descrisse dettagliatamente tutte le fasi dell’agguato e le attività delle Brigate rosse. Il memoriale, in un primo momento non conteneva i nomi degli altri brigatisti. Successivamente, nel 1986, Morucci inviò dal carcere a Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, una versione “aggiornata” del memoriale in cui invece faceva i nomi dei terroristi. Il processo di appello si concluse nel 1985 e la condanna all’ergastolo, riportata da Morucci nel giudizio di primo grado, fu ridotta a 30 anni di reclusione. Morucci, che nel giudizio di appello aveva letto un documento con cui, insieme ad altri 170 detenuti formalmente si dissociava dalla lotta armata, vide ulteriormente ridotta la pena a 22 anni e mezzo di reclusione in virtù della applicazione della legge sulla dissociazione. Grazie poi al regime della semilibertà e alla concessione della libertà condizionale, ha finito di scontare la pena nel 1994. Nel libro “Patto di omertà” il senatore Flamigni ha denunciato la assoluta inattendibilità del cosiddetto “memoriale Morucci”, affermando di non credere alla veridicità di quanto sostenuto da quest’ultimo, secondo cui l’omicidio Moro sarebbe stato un delitto maturato esclusivamente all’interno della organizzazione terroristica senza nessuna complicità o input da parte di soggetti estranei all’ organizzazione. In tale libro Flamigni (che ha fatto parte della prima Commissione di inchiesta sul delitto Moro) sostiene la tesi secondo cui il memoriale di Morucci altro non sarebbe se non il punto di arrivo di “un patto di omertà” stipulato dagli ex terroristi con settori politici, statali ed istituzionali. Lo scopo del memoriale sarebbe stato quello di non rendere possibile una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro. In altri termini si tratterebbe di una versione di comodo che, se da un lato salvaguardava “la purezza rivoluzionaria” delle Brigate rosse, dall’altro faceva comodo alla DC (soprattutto Cossiga ed Andreotti) perché serviva a giustificare lo scarso impegno posto in essere dal governo per salvare la vita di Moro. In effetti è sospetto e fa riflettere il fatto che il memoriale Morucci venne scritto a seguito di una serie di colloqui intervenuti tra quest’ultimo e Remigio Cavedon, direttore allora del quotidiano DC “Il Popolo” e consulente personale di politici quali ad esempio Mariano Rumor. Ma la parte più interessante del libro di Flamigni è quella in cui l’autore esamina il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro. Ed è questo il punto su cui voglio soffermarmi anche per le analogie che tale delitto presenta, almeno per quanto riguarda il possibile movente, con alcuni delitti “eccellenti” verificatisi in Sicilia. E’ un fatto notorio che negli anni 70 Moro perseguiva una politica volta a fare partecipare i comunisti alle responsabilità di governo cosi come è altrettanto noto come, negli USA, tanto l’amministrazione repubblicana che quella democratica erano manifestamente contrarie a questa politica. Allorquando nel 1974, Moro, allora ministro degli esteri, si recò, insieme al Presidente della Repubblica Leone, negli Stati Uniti, ebbe un confronto se non uno scontro, su tale tema, con l’allora segretario di Stato Henry Kissinger il quale minacciò di tagliare gli aiuti economici all’Italia se i comunisti fossero andati al governo. La posizione dell’amministrazione americana non mutò nemmeno allorquando Napolitano, recatosi in America, diede ampie assicurazioni al governo americano. Io credo che nessuna persona di buon senso penserebbe che gli Stati Uniti, a fronte della possibilità che in Italia i comunisti andassero al governo, sarebbero rimasti a guardare. Ciò non significa certamente che l’ordine di sequestrare ed uccidere Moro sia venuto da Kissinger o da chi per lui, ciò sarebbe assurdo pensarlo. Ma il discorso è più sottile e bisogna comprendere come funziona e come si muove la politica. Negli Usa non vi fu certamente qualche politico o esponente di governo a ordinare esplicitamente il sequestro di Moro, ma fu lanciato un messaggio del seguente tenore: “I comunisti stanno per impossessarsi del potere; la situazione è grave”. Questo messaggio proveniva dal livello politico più alto e venne recepito da un livello inferiore e diverso che non aveva nessun contatto con il livello superiore. Il livello inferiore comprese la preoccupazione del vertice politico per rischi che correva la democrazia e trasmise questa preoccupazione al livello successivo. Alla fine si arriva al livello che dice: “Ho capito cosa devo fare”. E’ un meccanismo che ho avuto modo di riscontrare anche in alcuni delitti di mafia. Ricordo che il pentito Calderone, parlando dell’omicidio del Generale Dalla Chiesa, ci disse che alcuni imprenditori catanesi, rivolgendosi a lui gli avevano detto: “ma a Palermo non fanno nulla?”. Osservò Calderone in proposito che se l’imprenditore non poteva essere considerato, per questa sola frase, il mandante dell’omicidio, era tuttavia evidente che, rivolgendo una tale domanda ad un esponente mafioso, ciò significava indurre l’organizzazione mafiosa ad agire eliminando Dalla Chiesa che aveva rivolto la propria attenzione sugli appalti in Sicilia. A mio avviso è da escludere che le BR abbiano fatto tutto da sole. Ciò costituirebbe una lettura superficiale del delitto Moro. Qualcuno fece pervenire loro il messaggio proveniente dagli USA e loro eseguirono gestendo sostanzialmente “un appalto”. Non è infatti senza significato il fatto che Moro viene ucciso proprio quando la DC, con il Presidente del Senato Fanfani, si apriva alla trattativa con il partito comunista. Avvalora la tesi qui sostenuta quanto dichiarato da Giovanni Galloni in una intervista rilasciata, il 5 luglio 2005, nella trasmissione NEXT, di Rai News 24, secondo cui Moro gli aveva confidato di essere a conoscenza del fatto che sia i servizi americani che quelli israeliani avevano degli infiltrati nelle BR, circostanza questa di cui, tuttavia, venivano tenuti all’oscuro i servizi italiani. Galloni aggiungeva che, durante il sequestro Moro, vi erano state notevoli difficoltà a mettersi in contatto con i servizi statunitensi. E sempre Galloni, nel luglio 1988, nel corso di una audizione dinanzi alla Commissione stragi, affermò che in occasione di un suo viaggio negli Stai Uniti, nel 1976, gli fu detto che per motivi strategici gli Stati uniti erano contrari ad una apertura ai comunisti, politica questa perseguita da Moro. I motivi strategici erano costituiti dal timore degli americani di perdere le basi che gli Stati Uniti avevano sul suolo italiano che costituivano una importante linea di difesa in caso di invasione dell’Europa da parte dell’Unione Sovietica. Dichiarò in particolare Galloni alla Commissione: “Quindi, l’entrata dei comunisti in Italia nel Governo o nella maggioranza era una questione strategica, di vita o di morte, “life or death” come dissero, per gli Stati Uniti d’America, perché se fossero arrivati i comunisti al Governo in Italia sicuramente loro sarebbero stati cacciati da quelle basi e questo non lo potevano permettere a nessun costo. Qui si verificavano le divisioni tra colombe e falchi. I falchi affermavano in modo minaccioso che questo non lo avrebbero mai permesso, costi quel che costi, per cui vedevo dietro questa affermazione colpi di Stato, insurrezioni e cose del genere.» (Dichiarazioni di Galloni alla Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia, 39° seduta, 22 luglio 1998). Si ricorderà come una pista per l’uccisione di Pio la Torre fu quella della sua campagna contro la realizzazione della base americana a Comiso che certamente si poneva in contrasto con gli interessi americani come riferiti da Galloni. Che Moro fosse inviso al Governo degli Stati Uniti a causa della sua politica che mirava ad un ingresso del Partito comunista al Governo, è circostanza riferita esplicitamente dalla vedova, Eleonora Chiavarelli, al primo processo contro il nucleo storico delle BR. In questa sede dichiarò che il marito più volte era stato “ammonito” da esponenti politici americani a non violare la cosiddetta “logica” di JALTA e che nel 1974, in occasione di una di lui visita negli Stati Uniti, Kissinger lo aveva esplicitamente avvertito della pericolosità di un “legame” con il PCI. Riferì poi la signora Moro che nel 1976, allorquando gli avvertimenti erano divenuti più espliciti, il marito era stato avvicinato da un alto personaggio americano che ancora una volta lo aveva duramente ammonito. Questo episodio fu poi riferito dalla vedova dinanzi alla commissione parlamentare di inchiesta in questi termini: “È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona. […] Adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole (detto in altra lingua, naturalmente), lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere"».
Non c’è dubbio che l’ipotesi che si potesse realizzare in Italia un compromesso tra i partiti di governo e il partito comunista non piaceva agli americani, perché si poneva in contrasto con gli interessi USA. L’eliminazione di Moro sarebbe risultata vantaggiosa sia Oltreoceano che per alcuni settori della politica italiana, scrive ancora Alberto Di Pisa il 23 marzo 2016 su "Sicilia Informazioni". In un articolo pubblicato sull’Unità il 26 settembre 1982 scrisse Emanuele Macaluso: “Noi siamo tra coloro che non hanno mai creduto che a rapire e ad uccidere il presidente della DC siano state solo le Brigate rosse che organizzarono l’infame impresa. Abbiamo sempre pensato che gli autonomi obiettivi politici delle BR coincidessero con quelli di potenti gruppi politico-affaristici, nazionali ed internazionali che temevano una svolta politica in Italia”. C’è una circostanza che avvalora l’ipotesi di Macaluso: che il sequestro e l’omicidio Moro non fosse riconducibile alle sole Brigate rosse e che queste avessero dei collegamenti con i servizi segreti, lo faceva sospettare una circostanza: la stampatrice trovata nella tipografia di via Foà a Roma, dove le Brigate rosse avevano stampato, durante i 55 giorni del sequestro i comunicati, e che era stata ivi portata da Morucci, proveniva da un reparto unità speciali dell’esercito, sigla RUS, che altro non era, come si accertò, se non uno dei compartimenti segreti di Gladio. Ed ancora più inquietante è la vicenda del famoso comunicato numero 7 delle BR e cioè quello in cui il 18 aprile del 78 i brigatisti annunciavano l’esecuzione di Moro e indicavano un laghetto ghiacciato in provincia di Roma il luogo dove era stato abbandonato il cadavere. Ebbene, si accertò che questo comunicato era stato redatto da Chicchiarelli, pregiudicato e confidente dei servizi segreti; il che porta alla conclusione che la stessa macchina per scrivere era utilizzata, nello stesso periodo di tempo sia dai brigatisti rossi che da un soggetto della malavita romana e dai servizi segreti. Questa, che poteva essere soltanto una ipotesi, ha trovato conferma in quanto dichiarato il 7 novembre 1980 alla Commissione Parlamentare d’indagine sul delitto Moro, dall’ex capo dell’Ucigos Fariello. Questi, allorquando, in Commissione, gli venne mostrato il comunicato numero 7 affermò: “…era autentico, lo do per scontato…io mi baso sui miei collaboratori tecnici, i quali hanno riconosciuto che la battuta e la testina erano le stesse (di quelle usate per gli altri comunicati brigatisti (n.d.r)”. Non sono mai stati approfonditi i motivi per cui Chicchiarelli, confidente dei servizi segreti, avrebbe compilato e diffuso falsi comunicati delle BR. Pur non avendo giudiziariamente valenza di prova vi è un ulteriore fatto che forse meritava un approfondimento. Nell’estate del 1978 pervenne al direttore dell’istituto di criminologia dell’università di Roma, Semerari, una lettera a firma di tale “Mister Brown” nella quale si diceva che il sequestro e la morte di Moro erano da attribuire ad un complotto della Cia. La lettera, che venne aperta dal Semerari alla presenza del collega Antonio Mottola, fu da entrambi inviata al generale dei carabinieri Ferrara. Nel luglio 1981 Mottola venne ucciso dopo essere stato prelevato in casa da tre uomini, mentre Semerari venne trovato decapitato il 1° aprile del 1982 ad Ottaviano, regno di Raffaele Cutolo il quale, al processo Cirillo, dirà che Semerari era stato eliminato da Enzo Casillo (luogotenente di Cutolo) ma per conto dei servizi segreti. Chi era Aldo Semerari? Un docente universitario, simpatizzante di destra, iscritto alla Loggia P2 e amico di Licio Gelli, in contatto con il Sismi. Ma la circostanza più rilevante che induce a ritenere, nel sequestro Moro, un qualche collegamento con i servizi americani, ci è data dallo psichiatra Franco Ferracuti che faceva parte degli esperti del Comitato tecnico operativo costituito al Viminale durante il sequestro Moro. Era iscritto alla P2 (tessera numero 2137) e fu coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna. Ebbene, il generale Giulio Grassini, ex capo del Sisde, iscritto alla P2 e componente anche lui del suddetto Comitato, al processo per la strage di Bologna dichiarò che il Ferracuti aveva rapporti con elementi del FBI e della Cia. Nel medesimo processo il Ferracuti dichiarava di conoscere Cossiga e di essere stato introdotto da lui nel Sisde. Ve ne è abbastanza, quantomeno, per sospettare che il sequestro Moro non sia stato gestito esclusivamente dalle BR, tesi questa sostenuta dai magistrati inquirenti e avallata dal presidente Cossiga. Voglio ricordare che quando Andreotti, allora Presidente del Consiglio, il 4 aprile, a tre settimane dal sequestro, si recò alla Camera per riferire sulla situazione, dichiarò di essere certo del fatto che le lettere di Moro fossero false. Senza volere trarre conclusioni e indicare colpevoli del sequestro e uccisione dell’onorevole Moro, mi limito a costatare come questo grave delitto presenti degli elementi che lo accomunano, quanto alle possibili motivazioni, ad alcuni “delitti eccellenti “verificatisi negli anni 70-80 in Sicilia, a Palermo. Mi riferisco agli omicidi del segretario provinciale della DC, Michele Reina, del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, del segretario regionale del partito comunista Pio la Torre. Reina aveva aperto al partito comunista, Mattarella era stato portatore di una linea di rinnovamento e di apertura alla sinistra, Pio la Torre si era opposto tenacemente alla realizzazione della base di Comiso e confliggeva con quei soggetti che volevano impedire che la sinistra andasse al governo. Solo coincidenze? Alberto Di Pisa
Moro, Pertini, Berlinguer e i tempi degli animali nobili. Italian Farm e il passaggio in politica dagli animali alle bestie, scrive venerdì 23 settembre 2016 Gabriele Della Rovere su "L'Indro". Il primo, il più giovane dei due, era un castoro. Costruiva, gli distruggevano l’opera e lui ricominciava a costruire. Ha avuto contro la peggiore destra italiana, e la destra italiana era ed è una delle peggiori al mondo, oltretutto per mediocrità di struttura e comportamenti. E contro la politica (quasi) tutta, sia italiana (anche, e a volte specialmente, della sua parte) che internazionale (anche, e a volte specialmente, statunitense), l’economia (anche, e a volte specialmente, petrolifera), la religione (anche, e a volte specialmente, chi gli era stato e si professava sodale), la comunicazione (anche e specialmente quasi tutta), la massoneria… A fare il lavoro sporco ha provveduto gente che si credeva di sinistra, molto di sinistra, preda di concezioni e comportamenti che più di destra non potevano essere. Il secondo, quasi esattamente venti anni di più e avrebbe quindi potuto essergli tranquillamente padre, era un lupo. Solitario e allo stesso tempo amante dei suoi simili, protettivo e appassionato. Severo ma giusto. Giunto ai vertici dello Stato in maniera inaspettata riuscì a fare amare le Istituzioni, oltre che se stesso, come nessuno prima e dopo. Il terzo era un muflone. Solido, paziente, testardo e buono. Animale in via di estinzione, causa caccia dei nemici e decadimento sociale. Aldo Moro è nato a Maglie, Lecce, il 23 settembre 1916. Sandro Pertini è nato a Stella, Savona, il 25 settembre 1896. Enrico Berlinguer è nato a Sassari, Sassari, il 25 maggio 1922. L’anagrafe, il giorno di nascita a venti anni di distanza, accomuna i primi. La storia, anzi la Storia, fa sì che anche il terzo sia pienamente della stessa partita. E della stessa razza. «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni, chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra» diceva il Principe di Salina, don Fabrizio, ne ‘Il Gattopardo’ di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Raccontando questa nostrana postorwelliana fattoria degli animali, Animal Farm appunto, e quindi l’Italian Farm, partiamo ricordando quando ancora vivevano tra noi, e ci guidavano, ed era bello farsi guidare, nobili animali. Adesso, in gran parte, soprattutto bestie. Aldo Moro è morto a Roma, Prigione del Popolo, il 9 maggio 1978. Sandro Pertini è morto a Roma, Roma, il 24 febbraio 1990. Enrico Berlinguer è morto a Padova, Padova, l’11 giugno 1984. Ma ne siamo proprio sicuri?
Gli Anni 70 dell’omicidio Moro Primo Levi: “È il buio del Paese”. Così il giornale, già ferito dall’uccisione di Casalegno, racconta i 55 giorni di prigionia. La scena dell’agguato delle Brigate Rosse ad Aldo Moro in via Fani a Roma il 16 marzo 1978: vennero uccise cinque guardie del corpo, scrive il 02/10/2016 Marco Neirotti su "La Stampa". Il 16 marzo 1978, poco prima delle 9,30, irrompe la notizia del rapimento di Aldo Moro e del massacro di cinque uomini di scorta. La vita della Stampa è ancora insanguinata dall’agguato al vicedirettore Carlo Casalegno quattro mesi esatti prima (morirà in ospedale il 29 novembre 1977) e la redazione sta scrivendo sull’assassinio del maresciallo Rosario Berardi, freddato sei giorni prima a una fermata del tram a Torino. La Stampa, per tutti i 55 giorni di prigionia di Moro, racconta e analizza senza lasciarsi deviare dall’orrore che l’ha da poco colpita. Scrive il direttore Arrigo Levi nel primo editoriale: «Con i terroristi non si tratta», ma ammonisce: «Sono frutto di comprensibili reazioni emotive le ipotesi di proclamazione della legge marziale, o di instaurazione della pena di morte». La cronaca è racconto e indagine: l’agguato attimo per attimo, stranezza per stranezza (i dodici uomini del commando usano una 128 con targa diplomatica venezuelana, armi particolari), la blindatura immediata della capitale, le perquisizioni a raffica, ma anche la vedova Moro china sui corpi degli agenti che accompagnavano il marito, poi lo Stato che si compatta, le reazioni nei palazzi del potere, il Paese in lutto con cinema e negozi chiusi, manifestazioni, 200 mila persone in piazza nella sola Roma. Liliana Madeo si addentra in vita e morte, ideali e sacrificio delle cinque vittime, colleghi sorvegliano le indagini e le vane ricerche di Moro prigioniero a Roma, fino al 9 maggio, quando in via Caetani, vicino alla sede del Pci, è segnalata una R4 rossa con un cadavere nel bagagliaio. In un’area subito resa inaccessibile Marco Tosatti si infila tra gli sbarramenti incollato al ministro dell’Interno Cossiga ed è lì quando aprono il portellone su quegli occhi semiaperti. Scrive Tosatti: «Sembra assopito, ma un’aria sofferente è sul volto, coperto dalla barba lunga di qualche giorno». Accanto ai fatti via via accertati si vuol trasmettere al lettore la tensione dei passi che portano alla notizia e l’indomani, anticipando - seppur in un unico blocco - gli aggiornamenti in tempo reale di Internet, si pubblicano in fila le agenzie che minuto dopo minuto da un’auto ancora chiusa con un corpo ripiegato si avvicinano alla verità. C’è, nelle pagine del 10 maggio, l’orrore di fronte a quella lotta armata, ma ci sono la pietà per l’uomo e l’omaggio allo statista. Giovanni Spadolini racconta l’ultimo incontro: «Lo inquietava il terrorismo, ma più ancora lo inquietavano le radici e i consensi giovanili». Vittorio Zucconi analizza la strategia del sangue passo dopo passo: «E adesso uomini delle Brigate rosse?», domanda e, indagando quali strade siano aperte, scrive: «La lezione del massacro non riguarda la natura del terrorismo ma la sua condizione attuale, che è massicciamente di crisi ideologica». La scure di Norberto Bobbio tronca l’immagine degli assassini: «Che parlino per il proletariato, vindici di quelli che soffrono e hanno sete di giustizia, ci riempie di disgusto e di orrore». Ed è Primo Levi a puntare contro il mistero che accompagna spari e vittime, parlando di «buio del Paese cominciato nel ’69 e sul quale non si è voluto o saputo fare luce». E delinea «un gioco cinico e spietato che è incominciato a Dallas e che forse non ci sarà mai dato di capire».
Moro avrebbe impedito l'implosione del sistema, scrive Carlo Valentini su "ItaliaOggi" Numero 232 pag. 2 del 30/09/2016. Le Brigate Rosse sono state sconfitte sul piano militare ma hanno del tutto modificato il cammino della politica italiana e anche per questo c'è chi continua a ipotizzare occulte complicità in chi dentro e fuori l'Italia voleva questa inversione di rotta che aveva un unico protagonista: Aldo Moro. Certo, la sua strategia era intrecciata a quella di Luigi Berlinguer ma il passo decisivo, quello di portare la Dc all'incontro col Pci in un governo d'unità nazionale, lo stava compiendo lui. Sarebbe stato un bene o un male l'incontro tra le due maggiori forze politiche? Le opinioni, ovviamente, divergono. Ma è indubbio che quel «governo della nazione» avrebbe fatto scrivere una storia politica diversa da quella che si è verificata. Bettino Craxi non avrebbe trovato con tanta facilità la porta aperta verso il governo e i partiti della prima repubblica non sarebbero crollati in quel modo disastroso. L'occasione per ricordare un delitto politico fondamentale per capire e interpretare la storia italiana del dopoguerra è il centenario della nascita di Moro, avvenuta il 23 settembre 1916, a Maglie, provincia di Lecce. Un anniversario offuscato dalla lettera inviata dalla figlia primogenita, Maria Fida Moro, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui lamenta di non essere stata coinvolta nelle iniziative ufficiali di ricordo perché, scrive, unica a difendere la memoria del padre cercando quelle che considera le verità nascoste dietro il sequestro, un intreccio di interessi per far fallire il suo disegno politico. Al di là della dietrologia, è vero che il compromesso storico fu tumulato insieme ad Aldo Moro, strenuo combattente, dentro e fuori la Dc, ma sempre ispirato da visioni lungimiranti, guardava al domani e non alla legge finanziaria del giorno dopo. Era uomo di fede ma in dialettica con la gerarchia, tanto da riuscire a far superare, almeno a una parte di essa, le perplessità sull'apertura al Pci. La preghiera funebre di Papa Paolo VI in San Giovanni in Laterano in un certo senso ufficializzò lo stretto legame che era intercorso tra loro anche quando egli prese la decisione non facile di quella che chiamò la «strategia dell'attenzione» verso quel mondo comunista che vedeva non consanguineo ma di supporto a un cambiamento che i «tempi nuovi» (concetto che ripeteva spesso) rendevano indispensabile per evitare quello che poi, senza di lui, avvenne: l'implosione del sistema politico.
«Moro non fu ucciso nel bagagliaio della Renault 4». Gero Grassi rivela le ultime novità su un caso che lo vede impegnato in prima persona, scrive "Terlizzi Viva" Giovedì 13 Ottobre 2016. Il parlamentare terlizzese Gero Grassi continua la sua indagine su Aldo Moro. Uno studio che dura ormai da anni, tra i misteri che avvolgono ancora il caso del rapimento e dell'assassinio dello statista rapito e ucciso nel 1978. L'onorevole Grassi, componente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e l'uccisione dello statista pugliese da parte delle Brigate Rosse, ha fatto di questa storia quasi un centro della sua attività politica e forse anche della sua vita stessa. Pubblicazioni e convegni in giro per l'Italia, l'ultimo dei quali l'altro giorno in consiglio regionale davanti a davanti a numerosi studenti delle scuole superiori baresi. "Siamo ormai all'80% della verità e stiamo per ricostruire anche il 20% che manca: ad esempio Moro non è mai stato nella prigione di via Montalcini a Roma, e non è stato ucciso nel bagagliaio della Renault 4, secondo le nuove perizie balistiche" ha dichiarato Grassi. Insieme con lui anche Giovanni Pellegrino, già componente della Commissione Stragi del Parlamento fra il 1994 e il 2001. Grassi da diversi anni ha dato impulso a nuove ricerche sulla vicenda del rapimento, poi della detenzione e infine dell'omicidio di Aldo Moro, riassumendo in favore dei giovani presenti le numerose novità che stanno emergendo, grazie alla desecretazione dei documenti riservati promossa dal Governo nel 2016. "Sul caso ci sono ben 4 milioni e mezzo di pagine processuali e delle diverse Commissioni che se ne sono occupate - ha ricordato Grassi - e oggi sappiamo che sul luogo del rapimento non c'erano solo i terroristi delle Brigate Rosse ma anche altre persone. Lo sappiamo dopo aver indagato, ad esempio, sul Bar Olivetti, che sorgeva alle spalle della siepe di via Fani da cui i terroristi avrebbero sparato, e di cui mai nessuno si era occupato prima. Anche le circostanze dell'esecuzione sono totalmente diverse da come gli esecutori le hanno raccontate, così come è accertato che Aldo Moro non sia morto subito, secondo analisi fatte oggi con moderni strumenti di rilevazione dai Ris dei Carabinieri. Dobbiamo ricostruire oggi la verità come debito che abbiamo verso le future generazioni". "L'Italia di quegli anni era su una tragica frontiera nel pieno della Guerra Fredda - ha detto a sua volta il senatore Pellegrino - e Moro è stato vittima di una sorta di 'patto di indicibilità' fra le due parti in guerra. La Prima repubblica è stata una democrazia difficile dove tante cose si sapevano, ma semplicemente non si potevano dire. Moro era visto come il fumo negli occhi sia dagli Usa che dall'URSS con la sua politica tesa a voler spostare in avanti gli equilibri politici del Paese aprendo al Partito Comunista". "Moro fu ucciso dalle Brigate Rosse -ha ribadito - ma anche dall'altra parte della barricata si fece un calcolo costi/benefici tra Moro libero e Moro morto: si decise che se lo statista fosse tornato libero avrebbe fatto più danni all'equilibrio internazionale".
Mafia, organizzazioni segrete, Stati Uniti: il caso Moro non finisce mai. Il Presidente della Democrazia Cristiana poteva essere salvato: lo Stato conosceva il luogo della prigione e aveva i contatti per trattare, ma Moro era una figura scomoda per molti, in Italia e all'estero, scrive Federico Fornaro il 15 Ottobre 2016 su “L’Inkiesta”. Nel marzo del 1978 quando nella capitale si perpetrò il più drammatico e sconvolgente omicidio politico della storia dell'Italia repubblicana, con il rapimento e l'assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e dei cinque uomini della sua scorta, Antonio Cornacchia comandava il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma. Cornacchia, pugliese, classe 1931, ha recentemente dato alle stampe per l'Editoriale Sometti di Mantova un libro sulla sua lunga carriera di servitore dello Stato, prima nell'arma dei Carabinieri e poi nei servizi segreti militari, dal titoloAirone 1 Retroscena di un'epoca, a cura di Angelo Giannelli Benvenuti. Nei giorni scorsi, inoltre, il generale Cornacchia è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro; un'audizione che ha arricchito di alcuni particolari sia il racconto sia i giudizi espressi nel libro. Nel suo libro Cornacchia, ad esempio, è tornato sui viaggi che Mario Moretti avrebbe fatto «in compagnia di Giovanna Currò (Barbara Balzarani?)» in Sicilia e in Calabria tra il novembre 1975 e il febbraio 1976, ricordando come il pregiudicato calabrese Aurelio Aquino, al momento del suo arresto, fosse stato trovato in possesso di «banconote appartenenti al riscatto, versato alle BR proprio di Moretti, per la liberazione dell'armatore Costa». Una pista, quella dei rapporti tra BR e criminalità organizzata a cui gli investigatori dell'epoca non dettero mai troppa importanza, nonostante una voce indicasse tra i presenti in via Fani il mattino del 16 marzo 1978 un esponente della famiglia Nirta, il giovane Antonio "due nasi", classe 1946. Una presenza tra la folla di curiosi che il lavoro della Commissione parlamentare d'Inchiesta consente oggi di poter confermare con ragionevole certezza, anche se è ancora in via di accertamento se e quale ruolo Nirta potrebbe aver avuto nella dinamica dell'agguato. Sia nel libro sia nell'audizione in Commissione, Cornacchia ha confermato, inoltre, che nei giorni immediatamente successivi furono molteplici i tentativi di contatto per trovare la prigione di Moro in particolare con «i mafiosi Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Pippo Calò; Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati, Nicolino Selis della banda della Magliana; Francis Turatello, figlio naturale di Frank Coppola, collegato alla stessa banda». Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le BR? Mah... Non lo so. Come noto, poi, arriverà un contrordine e Cornacchia si spinge a scrivere che «la malavita, dunque aveva avuto il compito di eseguire quella sentenza (conseguenza della linea della fermezza ndr), di gestire, cioè, il piano d'azione così come mutato e programmato». Cornacchia conferma, poi, autorevolmente che sul teatro romano si mosse anche l'organizzazione supersegreta, detta Noto Servizio, o Anello, di cui verrà scoperta l'esistenza solo nel 1996. «C'è una organizzazione segreta e clandestina italiana - si legge nel libro Airone 1 - composta da ex-ufficiali della RSI, ex-ufficiali badogliani, imprenditori, industriali, soggetto del mondo politico ed economico, della malavita e della criminalità comune organizzata che funge da collegamento tra gerarchie politiche e civili, e tra gerarchie militari e servizi segreti, usata in funzione anticomunista». A capo dell'Anello, nel 1978, c'era Adalberto Titta, che a detta di Michele Ristuccia, altro esponente dell'organizzazione, «è a conoscenza del luogo ove Moro è detenuto per essere riuscito ad avere contatti con esponenti delle BR»; ma anche lui, secondo Cornacchia, «viene fortemente ostacolato dal potere politico da cui dipende, e cioè dalla Presidenza del Consiglio», leggi Andreotti. Altro esponente dell'Anello che si diede da fare per liberare Moro fu il francescano Padre Enrico Zucca, che era balzato agli onori della cronaca, nel maggio 1946, per aver nascosto a Milano, la salma di Mussolini, trafugata da un gruppo di neofascisti. Cornacchia racconta di un suo viaggio, la sera del 6 maggio 1978, in compagnia di Padre Zucca e dell'ispettore dei cappellani delle carceri italiane dell'epoca, don Cesare Curioni, con destinazione la sede estiva pontificia di Castel Gandolfo: «Alle 7.30 del 6 sera (...) vedo il segretario del Papa rispondere al telefono, convinto, forse, sia il segnale per la conclusione delle trattative e la consegna del cofanetto pieno di soldi, ma quando depone la cornetta, pallido in volto, ci informa che "Tutto è andato a monte". Le parole di circostanza non servono a sapere niente di più, ma non è questo il problema, il dramma è che anche a Sua Santità viene preclusa la possibilità di liberare Moro». Ancora più enigmatica è la dichiarazione all'Ansa, riportata da Cornacchia, di un altro personaggio di rilievo dell'Anello, il professor Petroni: «Eravamo pronti a liberare Moro senza problemi. La politica ci ha sbarrato la strada affinché non intervenissimo. C'era l'ordine superiore di non intervenire. Moro, d'altra parte se l'è proprio cercata. Nel '62 a Napoli vara il centro-sinistra per isolare i comunisti e nel '78 li porta al governo. Un dato è certo: alle cancellerie internazionali Moro non piaceva per nulla. Kissinger non lo poteva vedere. Aveva espressioni durissime per Moro, il quale dava fastidio in Italia, ma anche all'estero. Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le BR? Mah... Non lo so». E dire che c'è chi sostiene che la nuova Commissione d'Inchiesta sul caso Moro sia solo una perdita di tempo, perché è tutto chiaro, nessun mistero.
TRENTOTTO ANNI SENZA UNA VERITÀ SULLA MORTE DI MORO O CON TROPPE VERITÀ. Le commissioni parlamentari verso la verità su Moro, scrive “Stato Quotidiano” il 10 ottobre 2016. Dopo quasi quarant'anni tante domande restano senza risposta. Trentotto anni senza una verità sulla morte di Moro o con troppe verità. Un patto omertoso tra brigatisti e pezzi dello Stato ha fatto calare una cortina di segreti, depistaggi, bugie. Oggi, grazie al lavoro di due commissioni parlamentari – una tuttora in attività – si comincia ad avere la sensazione di poter venire a capo di quanto è successo, dove, come e perché è stato compiuto. Si comincia a vedere la luce nel buio di uno dei più grandi misteri della storia d’Italia: il direttore di Telenorba, Enzo Magistà, lo ha fatto presente aprendo nella sua veste di moderatore del convegno che la Presidenza del Consiglio regionale ha voluto organizzare a conclusione delle celebrazioni del centenario della nascita dello statista di Maglie, assassinato nel 1978. Un evento promosso con l’Associazione consiglieri regionali e la Federazione centri studi Moro, in un’Aula consiliare gremita di studenti, dello scientifico “Amaldi” di Bitetto e dei commerciali “Giordano” di Bitonto e “Salvemini” di Molfetta. Dopo quasi quarant’anni tante domande restano senza risposta. “Abbiamo deciso di completare il ricordo di Moro – ha introdotto il presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo – parlando dei tanti misteri e reticenze che ancora circondano i fatti di via Fani e mettendo a confronto due personalità autorevoli che alla ricerca sulla tragedia e sulle trame oscure continuano a dedicare un impegno ammirevole e nello stesso tempo utile nel percorso verso la verità”, il sen. Giovanni Pellegrino, già presidente della Commissione stragi e il deputato Gero Grassi, componente dell’attuale Commissione di inchiesta sul caso Moro. Un’iniziativa “coraggiosa”, quella del parlamento pugliese, ha sottolineato l’on. Grassi, perché “è importante discutere dell’uccisione di Moro in una sede istituzionale qual è il Consiglio regionale della Puglia. In una realtà distonica come quella italiana è una scelta forte parlare del mistero Moro, mentre si preferisce parlare solo del pensiero di Moro”. Il sen. Pellegrino ha ricostruito lo scenario in cui è maturata la vicenda è stato, rendendo pienamente la “tragicità della situazione italiana dell’epoca”. Il Paese era una frontiera della Guerra Fredda, diviso politicamente a metà tra due grandi partiti: la DC, espressione del blocco occidentale e il PCI di quello sovietico. Il tentativo di farli collaborare non poteva passare: Moro per questo era visto come fumo negli occhi da entrambi gli schieramenti internazionali opposti, ha osservato il senatore. “Rischiava di far saltare gli equilibri precari su cui si reggeva la democrazia della prima Repubblica. Il “patto reciproco di indicibilità” che vigeva allora ha fatto il resto, occultando ogni verità. La sua sorte, secondo Pellegrino, “è stata segnata da un calcolo costi-benefici tra Moro libero e Moro ucciso, condotto da una parte e dall’altra della barricata”. Il lavoro della bicamerale stragi si è scontrato contro veti incrociati, quello della commissione di cui fa parte l’on. Grassi ha dalla sua però tecniche inedite d’investigazione scientifica e si avvale della desecretazione degli atti disposta dal Governo nazionale. “La verità l’avremmo già avuta se tutti avessero fatto il loro dovere per intero”, ha sostenuto Grassi. “Ora siamo all’80%, i lavori precedenti erano stati costretti a fermarsi al 20%, ma grazie all’impegno passato e presente del Parlamento (4 milioni e mezzo di pagine) Moro sta finalmente uscendo dalla Renault rossa in cui il potere ha voluto lasciarlo”. Ed oggi, ha concluso, “nel Consiglio regionale della sua Puglia, abbiamo raccontato un pezzo di storia non senza qualche pugno nello stomaco, in attesa di poterla raccontare tutta”.
Commissione Moro, coordinamento con Procura generale per ricostruire strage di via Fani. Arriva pm che indagò su Brescia. Francesco Piantoni ha lavorato tenacemente per individuare le responsabilità sulla bomba di piazza della Loggia. A fine ottobre le audizioni del capo della Procura di Reggio, Federico Cafiero de Raho, e del suo sostituto, Giovanni Lombardo, per capire se c'è stato un coinvolgimento della 'ndrangheta, scrive Stefania Limiti il 29 settembre 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. La scorsa settimana il capo della Procura generale di Roma, Giovanni Salvi, ha trascorso parecchio tempo nell’ufficio del presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, Giuseppe Fioroni. Scopo dell’incontro il coordinamento delle azioni investigative finalizzate a scoprire quel che non è ancora chiaro (tanto) della dinamica della strage di via Fani e dell’assassinio del presidente della Dc. La collaborazione tra i due uffici è avviata da tempo ma ora la novità è l’arrivo alla Procura generale di Roma di una grande professionalità come quella assicurata da Francesco Piantoni che lascia la Procura di Brescia dove ha testardamente e incessantemente lavorato per ricostruire le responsabilità della strage di Piazza della Loggia. Piantoni trova a Roma il collega Otello Lupacchini, grande esperto di eversione di destra e criminalità organizzata, oltre allo stesso Salvi e alla dottoressa Laura Tintisona, della Polizia di Stato, ufficiale di collegamento con la Commissione parlamentare. Quest’ultima continuerà ad avere uno sguardo anche alla ricostruzione storica del caso, terreno estraneo al lavoro dei magistrati della Procura che cercando di scavare, in particolare, da quel che si apprende, dentro i segreti delle strutture occulte come Gladio e del loro possibile coinvolgimento nel caso Moro. Dove porterà tutto questo lavoro? Se non mancano osservatori critici che lamentano la scarsa concretezza delle acquisizioni fin qui ottenute dal lavoro dell’organismo parlamentare, occorre tuttavia ricordare che numerose dichiarazioni dei commissari e dello stesso presidente evidenziano la certezza di aver smantellato tutto il falso raccolto dei fatti proposto dal Memoriale di Valerio Morucci, avallato dal capo brigatista Mario Moretti e dal protagonista democristiano della ‘narrazione’ (taroccata) del caso Moro, Remigio Cavedon, all’epoca della stesura del Memoriale (1984) vice direttore de Il Popolo. Punto per punto, a cominciare dal numero dei partecipanti all’agguato di via Fani, quel racconto sarà oggetto della prossima relazione della Commissione attesa per fine anno (l’altra è stata fatta lo scorso dicembre). Del resto, per chi voglia esercitarsi nelle critiche, suggeriamo di non scegliere il terreno dei costi: la legge istitutiva della Commissione (82/2014) stanzia 17.500 euro per l’anno 2014, 35.000 per il 2015 e 17.500 per il 2016 – metà a carico del bilancio interno del Senato, metà a carico di quello della Camera. Le spese sostenute dalla Commissione nel 2015 ammontano a circa 7.500 mentre nel 2016, fino ad oggi, a circa 12.300 euro. Non molto se si considera che la posta in gioco è la ricostruzione del delitto politico più importante del Novecento italiano. Il compito di una Commissione parlamentare è quello di contribuire alla comprensione dei fenomeni oggetto della propria ricerca: ad esempio, il precedente organismo guidato dal senatore Giovanni Pellegrino, noto come Commissione Stragi, non riuscì a votare un documento conclusivo ma scrisse pagine fondamentali per la nostra attuale conoscenza della strategia della tensione.
Vedremo, dunque, se l’attuale Commissione Moro saprà essere all’altezza del suo importante mandato. A proposito di novità, sarà molto interessante ascoltare le audizioni del capo della Procura di Reggio, Federico Cafiero de Raho, e del suo sostituto, Giovanni Lombardo, previste per la fine di ottobre: si parlerò di ‘ndrangheta e il caso Moro. Il 27 torna a parlare Alberto Franceschini, l’ex Br arrestato nel 1974 che ha dato un grande contribuito di analisi e comprensione del fenomeno brigatista, delle sue origini e dei suoi torbidi inquinamenti.
L'indagine infinita. Dopo 38 anni rispunta via Gradoli, scrive Paolo Persichetti il 21 ottobre 2016 su "Il Dubbio". I membri di palazzo san Macuto vogliono sapere chi di loro è disponibile a fornire il proprio profilo genetico per effettuare delle indagini comparative su alcuni reperti. Convocati anche alcuni membri dell'esecutivo brigatista dell'epoca, come il semilibero Mario Moretti. Da alcuni giorni gli uffici Digos della maggiori città italiane stanno convocando molti ex brigatisti su mandato della commissione parlamentare che indaga ancora, dopo quasi 39 anni, sul rapimento e la morte di Moro. I commissari di san Macuto vogliono sapere chi di loro è disponibile a fornire il proprio profilo genetico per effettuare delle indagini comparative su alcuni reperti: molto probabilmente si tratta di quelli rinvenuti nella base di via Gradoli, nella Fiat 128 giardinetta con targa diplomatica che la mattina del 16 marzo bloccò in via Fani l'auto di Moro e della scorta e delle tracce ematiche e di alcuni bossoli rinvenuti nella Renault 4 rossa, dove il presidente della Dc venne ucciso, trasportato e fatto ritrovare in via Caetani, a metà strada tra i palazzi della Dc e del Pci che lo avevano decretato morto dopo le sue prime lettere. Non tutti i nomi che fino ad ora sono trapelati risultano coinvolti nelle inchieste che in passato hanno riguardato il rapimento e l'uccisione del leader democristiano. Tra questi ci sono Giovanni Senzani e Paolo Baschieri, il che fa pensare al tentativo di dare vita ad una pista toscana. Sono stati convocati anche alcuni membri dell'esecutivo brigatista dell'epoca, come il semilibero Mario Moretti; l'autista della 132 che caricò Moro in via Fani, Bruno Seghetti; Barbara Balzerani che il 16 marzo controllava la parte inferiore di via Fani; il responsabile della tipografia di via Pio Foà, Enrico Triaca, arrestato una settimana dopo il 9 maggio 1978 e torturato la sera stessa dal professor De Tormentis, quel Nicola Ciocia, funzionario dell'Ucigos, esperto di waterboarding, la tortura dell'acqua e sale, a cui nessuno chiederà mai il profilo del dna. Pare che il presidente della Commissione Giuseppe Fioroni confidi molto nelle indagini scientifiche. Almeno così dichiara in pubblico. Eppure stando ai risultati prodotti dalla sua commissione non sembra proprio. Nella relazione sul primo anno di attività, il lavoro svolto dalla polizia scientifica e dallo Servizio centrale antiterrorismo non è stato tenuto in grande considerazione. La ricostruzione tridimensionale dell'attacco brigatista in via Fani, i nuovi studi balistici sugli spari avvenuti quel giorno, non sono stati apprezzati dalla stragrande maggioranza dei commissari, che hanno ritenuto il lavoro dei poliziotti troppo "filobrigatista". Risuonano ancora i commenti sorpresi di fronte alle relazioni dei funzionari Giannini, Tintisona e Boffi: «Ma state confermando la ricostruzione fatta dalle Brigate rosse!». Sergio Flamigni, il grande vecchio della dietrologia, non riesce a trattenere la stizza per un errore così infantile a suo avviso commesso dalla Commissione, come quello di aver chiesto nuovi accertamenti; lui che è rimasto affezionato ad un'unica perizia, la prima, quella di Ugolini, la più incerta e inesatta di tutte, la perizia "cieca" per definizione perché fatta quando ancora non erano state recuperate le armi impiegate in via Fani, e dunque la più manipolabile, quella che meglio si addice alle invenzioni dietrologiche del "superkiller" e dello "sparatore da destra". In via Gradoli la Commissione non ha trovato tracce biologiche di Moro, con buona pace di chi ha sostenuto (e sostiene ancora) che fosse stato tenuto almeno per un periodo in quella base, ma ha isolato quattro profili di dna: due femminili e due maschili. Non è un mistero che in quella che fu la prima casa delle Br a Roma, hanno risieduto stabilmente almeno tre coppie di militanti: Carla Maria Brioschi e Franco Bonisoli all'inizio, Adriana Faranda e Valerio Morucci dopo, Barbara Balzerani e Mario Moretti fino al 18 aprile 1978. Nella 128 con targa diplomatica vennero trovati ben 39 mozziconi di sigaretta. I responsabili del Ris che hanno in carico le analisi dovranno scoprire chi furono i fumatori: i proprietari effettivi del mezzo rubato dai brigatisti e/o i brigatisti stessi? Quali e quanti? L'informazione, ammesso che giunga, comunque non ci dirà nulla di certo sulla mattina del 16 marzo, perché quel mezzo venne usato nelle settimane precedenti. Il dna non ha data e ora. E dunque a cosa serve tutto questo dispendio di energie e soldi pubblici (l'estrazione del dna e la sua comparazione è una procedura di laboratorio che costa molto) quando sulla vicenda Moro si continua a non vedere la storia politica di quella vicenda, le ragioni che spinsero Dc e Pci a rifiutare la trattativa? Forse più che cercare nuovi brigatisti, con il dna qualcuno sogna in cuor suo di trovare il non brigatista. Fioroni, che ha auspicato «un contributo alla corretta ricostruzione dei fatti» anche da parte di chi è stato condannato, non troverà la disponibilità degli ex militanti, i più hanno già declinato la richiesta. Perché mai dovrebbero accettare? Nella relazione del dicembre scorso, la Commissione ha dovuto riconoscere, foto alla mano, che nessuna moto sparò al testimone Marini, che il suo parabrezza non venne colpito da proiettili ma si ruppe nei giorni precedenti per una caduta del motorino dal cavalletto. Non risulta che Fioroni abbia chiesto alla procura di Roma di attivare la revisione della condanna per tentato omicidio, emessa contro gli imputati del primo processo Moro. Da oltre un anno pende una richiesta di audizione di Enrico Triaca e di Nicola Ciocia per la vicenda delle torture, ma il presidente Fioroni fa ostruzionismo e provocatoriamente manda a chiamare Triaca per chiedergli il dna. Forse vorrà scoprire in quale caserma venne torturato la notte del 17 maggio 1978? Questa commissione ha ripetutamente dimostrato di non possedere alcuna credibilità, nei due anni che ha avuto per guadagnarsela ha dato spazio solo ai peggiori cialtroni. Per chi dovesse nutrire ancora delle aspettative, vale quanto scrisse Mario Moretti lo scorso anno in risposta ad una missiva inviatagli dal presidente Fioroni: «Esauriti definitivamente da decenni tutti gli aspetti giudiziari - sebbene la mia prigionia perduri da oltre 34 anni, in mancanza di decisioni liberatorie e conclusive doverose nell'ambito politico - la vicenda delle Brigate rosse appartiene ormai solo alla riflessione storica. [..] In un ambito storico-politico e con quanti si sono accostati all'argomento con onesta intellettuale, la mia disponibilità è stata sempre totale. [?] Per contro, mi sento estraneo e a disagio nell'ambito delle ricostruzioni faziose che hanno la loro giustificazione solo nell'interesse politico di chi pensa di trarne vantaggio».
Sequestro Moro, il colonnello Cornacchia: “Rapporti Br-‘ndrangheta? Diedi tutto al pm Infelisi”. In commissione l'audizione dell'ufficiale dei carabinieri, iscritto alla P2: "Un'informatrice ci rivelò tra Mario Moretti e i capi della criminalità calabrese", scrive Stefania Limiti il 12 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano”. Nadia era una tipa esuberante, faceva la redattrice di Controinformazione: era proprio lei – “assomigliava tanto ad Anna Magnani” dice a ilfattoquotidiano.it Antonio Cornacchia al termine della sua testimonianza in commissione Moro – l’infiltrata che gli fece scoprire già tra il 1976 e il 1977 le audaci relazioni del capo delle Br, Mario Moretti, con gli uomini della ‘ndrangheta. Di quelle informative fatte realizzare da Cornacchia, allora comandante del nucleo investigativo dei Carabinieri, poi braccio destro di dalla Chiesa, si perse poi ogni traccia – in Sicilia si mise alle calcagna del capo brigatista un investigatore di prim’ordine, il colonnello Giuseppe Russo, ammazzato dalla mafia nei pressi di Corleone il 20 agosto del ’77. Cornacchia, presunto piduista (“generale le dice niente il numero 871?”, gli dice il commissario Gero Grassi rinfrescandogli la memoria della sua tessera di appartenenza alla Loggia), aveva del resto realizzato un importante indagine in quello stesso periodo sul traffico di armi che coinvolgeva un certo Luigi Guardigli e Tullio Olivetti, proprietario del bar che si trovava di fronte al luogo dell’agguato ad Aldo Moro e alla sua scorta e che sempre più pressantemente emerge come la base usata dal commando brigatista. Tuttavia, Olivetti incredibilmente fu sottratto a ogni indagine, il suo nome cancellato, e il suo bar fu fatto miracolosamente uscire dalla ‘scena del crimine’ con due parole magiche: era chiuso. Punto. In realtà, era un luogo nevralgico, come sta emergendo dalle indagini in corso alle quali, da quanto si apprende, partecipa anche il procuratore di Roma Pignatone, oltre che la Procura generale della Capitale, dove si vendevano armi di tipo ‘scenico’, apparentemente armi giocattolo con un corpo centrale in plastica che venivano poi adattate dentro laboratori clandestini. Ma di tutto questo per quale motivo durante i 55 giorni non si tenne conto? “Ma non so… io avevo dato tutto al Procuratore Infelisi, era lui che seguiva le indagini sul rapimento di Moro”, ha sostenuto Cornacchia. “Per quel che sia sa, Infelisi durante la prigionia di Moro si recò in Calabria, disse che doveva scegliere la sua casa per le vacanze estive” fa notare il presidente Fioroni che attorno alle novità sul ruolo della ndrangheta e sul bar Olivetti fa ruotare una parte della ricostruzione fino ad ora negata del caso Moro. “Certamente si tratta di un aspetto importante, nella relazione di dicembre dimostreremo che le Br usarono gli appoggi e le armi della ‘ndrangheta, ma non è questo il cuore del caso Moro”, fa notare un commissario che preferisce restare anonimo. Il prossimo 3 novembre Cornacchia tornerà a dire la sua. Sarà la tappa finale di una lunga audizione piena di non detti, anche se il generale si è fatto scappare un particolare che non aveva mai rivelato: padre Zucca, una figura di notevole spessore, cappellano del servizio segreto clandestino chiamato l’Anello (le informative che lo svelarono si riferiscono al Noto Servizio) aveva preso parte attivamente alla trattativa svolta dal Vaticano. Una circostanza cruciale, di cui padre Zucca parlò pubblicamente in due intervista a L’Espresso subito dopo il 9 maggio, completamente inabissata, non considerata né dalla magistratura né dalle precedenti Commissioni parlamentari e il motivo è semplice: l’argomento era top secret, non si poteva parlare dell’Anello, di cui il generale Cornacchia, ci confida al margine dell’audizione, aveva anche conosciuto anche la figura centrale, Adalberto Titta, il fac totum di un servizio segreto che ha ripulito gli affari sporchi della Repubblica .
Terrorismo e crimine organizzato, la joint venture ultrasegreta, scrive Alberto Di Pisa il 15 ottobre 2016 su "Sicilia Informazioni". Il generale Antonio Cornacchia, oggi ultraottantenne, iscritto alla P2 di Licio Gelli (tessera numero 871) e nel 1978 comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, sentito di recente in commissione Moro, ha riferito di rapporti tra le Brigate rosse e la ‘Ndrangheta e in particolare, come da lui riferito al “Fatto Quotidiano”, al termine della sua audizione, di avere appreso, da una informatrice, tale Nadia (redattrice di Controinformazione) di rapporti tra il capo delle BR Mario Moretti ed esponenti della n’drangheta. Su tali collegamenti sembra siano attualmente in corso indagini da parte della Procura della Repubblica di Roma. Il generale Cornacchia fu il primo, il 9 maggio del 1978, ad arrivare in via Caetani dove era parcheggiata la Renault rossa all’interno della quale si trovava il corpo di Aldo Moro. Sul posto arrivò insieme a Francesco Cossiga e al capo dell’Ufficio politico Domenico Spinella. Il coinvolgimento della ‘ndrangheta così come della mafia o di altre organizzazioni criminali come ad esempio la banda della Magliana, nel sequestro Moro, costituì all’epoca dei fatti e negli anni successivi, oggetto di indagini anche a seguito delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Tale ipotizzato coinvolgimento, risultato controverso, non portò però a risultati concreti o forse non furono le indagini adeguatamente approfondite. Il primo a parlare del coinvolgimento della ‘ndrangheta nel sequestro Moro fu il boss Saverio Morabito, esponente di spicco di tale organizzazione. Divenuto collaboratore di giustizia, tra le altre propalazioni riguardanti la mafia e la ‘ndrangheta, parlò anche del sequestro Moro affermando che nel commando di via Fani era presente Antonio Nirta, capocosca della n’drangheta ed infiltrato dei Servizi segreti, cosa che avrebbe appreso da Domenico Papalia e Paolo Sergi. Entrambi esponenti di rilievo di una potente ndrina calabrese originaria di Plati e secondo i quali il Nirta era un informatore del Generale dei carabinieri Francesco Delfino. Si legge infatti nei verbali del Morabito: “Nirta era da sempre un suo informatore (di Delfino n.d.r.), l’aveva aiutato a risolvere molti sequestri di persona. Quel giorno in via Fani c’era anche Antonio “Due Nasi, si Antonio Nirta”. Ma il Morabito disse di più e cioè che il Nirta si trovava in via Fani il giorno del rapimento di Moro non perché richiesto dalle Brigate Rosse bensì perché richiesto dal generale Delfino. A tale affermazione quest’ultimo rispose: “C’è senz’altro un errore. Non ero io quello che aveva infiltrati nelle Brigate Rosse”. Che il Nirta fosse un confidente del Generale Delfino lo disse anche il collaboratore di giustizia Ubaldo Lauro:”….a dire del Palamara, Antonio Nirta era un infame e confidente del Generale Delfino”. Ed ancora: “Nirta e i Di Stefano erano infami tragediatori e legati ai servizi segreti dice Pasquale Condello…E Pasquale dice realtà”. A confermare poi la presenza del Nirta sul luogo dell’agguato vi sarebbe stata anche una foto, scattata nei minuti immediatamente successivi al sequestro, quando in via Fani non era ancora arrivata la prima volante della Polizia, foto che testimonierebbe della presenza del Nirta. La foto venne scattata direttamente dalla strada da Gherardo Nucci che abitava al numero 109 di via Fani. Il Nucci dichiarò inoltre che, dopo avere scattato le fotografie dalla strada, era tornato a casa dove, dal terrazzo, aveva fatto altre foto mentre cominciavano ad arrivare le prime auto della Polizia. Aveva quindi consegnato, lo stesso giorno, il rullino da sviluppare alla moglie, una giornalista dell’ASCA, agenzia vicina alla DC, che recatasi in Procura le aveva consegnate al Sostituto Luciano Infelisi che coordinava le indagini sul sequestro Moro, Tali foto finirono nel dimenticatoio. Sembra peraltro che dal rullino sviluppato mancassero i negativi relativi alle foto di via Fani che non furono più ritrovati. Luciano Infelisi, sentito in proposito dalla Commissione Fioroni, riferì che quelle foto non furono acquisite agli atti perché prive di un qualsiasi valore probatorio. Ma il collaboratore Ubaldo Lauro, dopo avere spiegato che “Nirta era uomo dei servizi” lo riconobbe nella foto, l’unica esistente (oltre quella negli uffici della Questura) acquisita dall’archivio del Messaggero dai giudici di Perugia che indagavano sull’omicidio Pecorelli e scattata dal Nucci in via Fani il giorno dell’agguato. Tuttavia il sospetto della presenza in quelle foto di esponenti della ‘ndrangheta è avvalorato da una conversazione intercettata l’1 maggio 1978 tra Benito Cazora, parlamentare della Democrazia cristiana e Sereno Freato. Cazora era stato incaricato dalla Dc di cercare di contattare elementi della n’drangheta nel tentativo di avere informazioni sul luogo in cui si trovava prigioniero l’onorevole Aldo Moro e la ndrangheta gli aveva promesso di aiutarlo ad individuare la prigione di Moro. La conversazione fu del seguente tenore:
CAZORA: “Un’altra questione, non so se posso dirtelo.”
FREATO: “Si, si, capiamo”.
CAZORA: “Mi servono le foto del 16, del 16 marzo".
FREATO: “Quelle del posto, lì?”
CAZORA: “Si, perché loro (nastro parzialmente cancellato)…perchè uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù”.
FREATO: “E’ che non ci sono…ah, le foto di quelli, dei nove”.
CAZORA: “No, No! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio…noto a loro”.
FREATO: “Capito. E’ un po’ un problema adesso”.
CAZORA: “Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?
FREATO: “Bisogna richiedere un momento, sentire”.
CAZORA: Dire al ministro”.
FREATO: “Saran tante!”
Certamente quando Cazora parla di un personaggio a loro noto si riferisce alla ‘ndrangheta e probabilmente a un loro affiliato e si intuisce dalla conversazione che la ‘ndrangheta aveva interesse a che quelle foto non circolassero. Dopo questa telefonata Freato si rivolse al ministro dell’interno Cossiga per cercare di recuperare le foto che gli aveva richiesto il Cazora, ma inutilmente. Si comprende l’importanza che tali foto avrebbero rivestito per le indagini, non soltanto per individuare eventuali falle nelle indagini stesse effettuate nelle ore immediatamente successive al sequestro, ma soprattutto per accertare la presenza in via Fani, il 16 marzo del 1978 di esponenti della ‘ndrangheta. Un cronista dell’Unità poi, come scrive Antonio Giangrande nel suo libro sul sequestro Moro, avrebbe notato nelle stanze della Questura una gigantografia di quelle foto appese “con i volti dei personaggi sullo sfondo cerchiati in rosso anche se negli archivi non ce n’è traccia. Un cerchio rosso avrebbe indicato proprio Antonio Nirta” I magistrati di Milano, non avendo trovato riscontri alle dichiarazioni del Morabito archiviarono la vicenda. Lo stesso pubblico ministero del processo Moro quater, Antonio Marini, si mostrò scettico sulla possibilità che la ‘ndrangheta avesse avuto un ruolo attivo in via Fani e in particolare sulla presenza di Antonio Nirta sul luogo dell’agguato. Sostenne che le dichiarazioni di Morabito non erano da ritenersi attendibili e che forse si trattava di una azione di depistaggio. In ogni caso si trattava di dichiarazioni che non avevano avuto un riscontro processuale. Certo il Morabito dovette trovare una notevole credibilità presso i giudici se la sua collaborazione che si protrasse per circa un anno riempiendo circa 1200 pagine di verbali, coinvolgendo avvocati, magistrati, carabinieri, massoni e politici, sfociò nella emissione di 221 ordini di cattura nei confronti di altrettanti imputati, 85 dei quali arrestati e sedici rimasti latitanti. Il generale Delfino, che l’anno precedente aveva arrestato Balduccio Di Maggio (che consentì l’arresto di Totò Riina) ricevette una informazione di garanzia perché indagato per favoreggiamento e occultamento di documenti nei confronti proprio di Antonio Nirta che sarebbe stato un suo informatore. In particolare veniva contestato al Generale di avere favorito Antonio Nirta, sottraendo da un fascicolo processuale una sua fotografia con i complici mentre stavano telefonando alla famiglia di un sequestrato. Intervistato da un giornalista del Corriere della Sera escluse categoricamente di avere mai avuto tra i suoi confidenti il Nirta affermando di potere dimostrare che quest’ultimo non era mai stato un suo informatore e dichiarava: “Mi chiedo a chi giova che io venga screditato. La mafia e la ‘ndrangheta hanno subito durissimi colpi. Alla Commissione antimafia (…) ho consegnato proprio nelle mani del presidente Luciano Violante la mappa delle cosche del Piemonte e della Val d’Aosta collegate con la Calabria e con la Sicilia. Alcune di esse, anzi quelle che fanno capo ai Nirta sono in rapporto col “cartello di Medellin. Il collegamento sarebbe quindi plausibile. Ma è la magistratura a dovere chiarire tutto. Io posso solo ribadire, ora, che non ho mai avuto un confidente, né ho mai conosciuto alcuno di nome Nirta…” Va tuttavia evidenziato come nel corso dell’interrogatorio svoltosi per circa cinque ore nell’ufficio del Pm di Milano Alberto Nobili, il generale Delfino finì per fare una mezza ammissione in quanto, pur escludendo di avere utilizzato il Nirta come suo confidente, disse di non essere in grado di escludere che il Nirta potesse essere stato utilizzato da altri come confidente e pur non dicendo nulla su chi potessero essere “gli altri”, affermò che qualche risposta ai dubbi di Morabito avrebbe potuto darla il Generale Dalla Chiesa. Nel maggio del 2008 Delfino venne rinviato a giudizio con l’accusa di concorso nella strage di piazza della Loggia. Sia in primo grado che in appello venne assolto ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p., formula con cui l’imputato viene assolto allorquando le prove raccolte a suo carico non sono sufficienti per addivenire ad una condanna. Ma che le Brigate Rosse non abbiamo avuto niente a che fare con la criminalità organizzata lo sostenne anche l’ex brigatista rosso Franco Bonisoli che partecipò all’agguato di via Fani: “Basta, non ne posso più. Ormai si va dietro a chiunque dica qualsiasi cosa sul sequestro di Aldo Moro. Non si finisce mai. Ma la nostra storia è diversa. E tutto questo con la nostra storia non c’entra niente”. Bonisoli, condannato all’ergastolo, si è dissociato dalla lotta armata beneficiando degli sconti di pena previsti dalla legge. Non si vede quindi quale vantaggio avrebbe potuto avere nel rivelare i rapporti eventualmente intercorsi tra le BR e la ‘ndrangheta o tra Nirta e il Generale Delfino. Ma anche tra i politici fu controversa la fondatezza del coinvolgimento di organizzazioni criminali nel sequestro Moro. Francesco Cossiga, che ai tempi del sequestro Moro era ministro degli interni, venuto a conoscenza delle dichiarazioni di Morabito, dichiarò al Tg1: “Se la notizia fosse vera si potrebbe pensare ad un coinvolgimento dello Stato nell’agguato. Sarebbe spregevole scoprire che ci furono istituzioni al servizio della mafia. Andrebbe riscritta la Storia d’Italia”. Cossiga non credette comunque ad infiltrazioni della criminalità nella vicenda Moro. Per lui la notizia non era neppure verosimile e se si fosse rivelata falsa disse, significherebbe che “abbiamo organismi investigativi ed inquirenti che hanno agito con estrema leggerezza”. Di segno opposto la convinzione dell’allora segretario del Pds Achille Occhetto il quale, alla notizia del coinvolgimento della criminalità mafiosa nel sequestro dell’on. Aldo Moro dichiarò: “...affiora la validità delle tesi che noi sosteniamo da tempo e cioè che su quella vicenda c’è stata la confluenza di corpi separati e deviati dello Stato, di depistaggi”. Più cauta la presa di posizione di Mino Martinazzoli il quale dichiarò: “Suggerirei una attesa paziente. C’è bisogno di certezze quindi occorre che alcune cose siano verificate”. Ed aggiungeva: “C’è un eccesso di dietrologia. Se qualcosa non va bene subito si pensa ad un complotto. In Italia ci sono più congiurati che congiure”. Alberto Di Pisa
Caso Moro, l'ex br Franceschini: "Moretti una spia? Riduttivo, si sentiva Lenin". Il fondatore br alla Commissione Moro: "Hyperion 'parlamento' degli 007 internazionali". "Dalla Chiesa fu fermato a un passo dalla sconfitta dei brigatisti". "All'Asinara temevamo di essere uccisi". Fioroni: "Strano il salto di capacità militare e culturale dopo il suo arresto", scrive Alberto Custodero il 27 ottobre 2016 su “La Repubblica”. "Spia? Una definizione troppo riduttiva per Mario Moretti. Io sono convinto che abbia giocato le sue carte in un certo modo, c'è un livello psicologico da tenere presente, lui crede di essere Lenin, lui era per alcuni compromessi su cui io non ero d'accordo". In tre ore di audizione, Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse che fece poi autocritica, autore, tra l'altro, del libro 'Mara, Renato e io' di Franco Giustolisi e Pier Vittorio Buffa (in carcere all'Asinara durante il caso Moro), parla così dell'ex tecnico della Sit-Siemens a capo delle Br che hanno gestito il sequestro dello statista democristiano. La sua audizione lascia agli atti della Commissione parlamentare d'inchiesta Moro presieduta da Giuseppe Fioroni nuovi dubbi su Hyperion, la scuola di lingue francese fondata da Simioni, Berio e Mulinaris, dopo la rottura con le Br, nella prima metà degli anni '70. Franceschini avverte: "I dietrologismi non mi interessano, io faccio una critica politica a Moretti, deve ancora giustificare il fatto che ha distrutto un'ipotesi politica, in base a una linea politica sballata". "Senza copertura dei servizi esteri si regge la storia dei 55 giorni?", gli chiedono i parlamentari della Commissione. "Sono pensieri che ho, ma è importante la riflessione politica della nostra esperienza", risponde. L'ipotesi che ci fossero altri personaggi, rispetto a quelli conosciuti e processati, a gestire l'operazione militare di via Fani e, soprattutto, l'interrogatorio di Aldo Moro, durante i 55 giorni resta forte. Franceschini, in particolare, ricorda come seppe dal generale Inzerilli, uomo di Gladio, del "ruolo chiave che svolgeva Hyperion, (scuola fondata da brigatisti fuoriusciti a Parigi, nel '77, ndr) una specie di parlamento degli 007, che poneva ai palestinesi le regole dei servizi internazionali, dai francesi ai tedeschi". Poi un riferimento al Mossad: "Gli israeliani ci cercarono chiedendoci cosa ci servisse, 'a noi interessa che voi ci siate, non vogliamo indicare obiettivi, ci dissero. Ma noi rifiutammo". "I servizi potrebbero aver condizionato il superclan - sottolinea il fondatore delle Br - . Noi nel '76 siamo finiti, a seguito delle operazioni del generale Dalla Chiesa. Ma va rilevato come proprio a Dalla Chiesa" a un passo dalla sconfitta definitiva del brigatismo "gli tolgono il gruppo speciale. Nel giugno del '76 viene sciolto quel gruppo che teneva insieme magistratura, intelligence e carabinieri e dava fastidio a tanta gente". "Dal '76 al '78-79 non avviene un arresto. Poi Dalla Chiesa viene richiamato in servizio da Rognoni, da ottobre del '78 e in due mesi riarresta un sacco di gente. Il generale non 'chiuse gli infiltrati nel periodo in cui era stato estromesso, evidentemente", dice ancora Franceschini. Parlando del fondatore di Hyperion, Corrado Simioni, Franceschini dice che "era personaggio interessante intellettualmente, uno degli esponenti di punta del Psi a Milano, espulso per indegnità morale, amico di Craxi. Per anni a Monaco di Baviera a lavorare a radio libertà, con noi parlava in latino". "Nel '68 aveva fondato comitati di base del giornalismo, girava il movimento proponendo di fare un quotidiano del movimento - ricorda Franceschini - facendo capire che i soldi li aveva. Loro erano borghesi, rampolli della borghesia di destra e sinistra, noi venivamo dalle fabbriche, invece". Franceschini ricorda ancora come "alcuni di loro giravano con tesserini delle questure locali e se venivano fermati non avevano problemi". Il fondatore delle Br dice poi che loro sapevano "degli strani rapporti di Corrado, lui diceva per esempio che aveva soldi in banca nella Grecia dei colonnelli, per fare la rivoluzione dovete fare compromessi, ci diceva". "Nel novembre del '70 ci fu la rottura con noi - aggiunge Franceschini - lui e altri scomparvero" creando una rete, la Dip, diffusione italiana periodici, che si occupava di giornali della polizia. "Dopo la rottura con lui andarono Ivan Maletti, Prospero Gallinari e tanti altri". Franceschini ricorda che dopo la morte di Feltrinelli "rimaniamo come gattini ciechi, perché lui gestiva i rapporti con l'esterno. Ci saltarono le relazioni, mentre i rapporti ora li coltivavano Simioni e gli altri di Hyperion". E si torna a Moretti, che inizialmente andò con Simioni: "Lui e Corrado avevano rapporto anche conflittuale, ma Simioni lo stimava capace, penso fosse un suo uomo". Altro episodio oscuro l'arresto di Curcio e Franceschini l'8 settembre del '74. "Il giovedì arrivò una telefonata che avvertiva dell'imminente arresto di Curcio, organizzato per domenica. Levati avverte Moretti, che da giovedì a domenica, non avverte della soffiata, bastava piazzarsi lì vicino e fermare la nostra macchina - sottolinea Franceschini - E lui non l'ha fatto". Franceschini poi parla di Valerio Morucci e di Giovanni Senzani. Per il primo, che disse che sapeva come Franceschini lo volesse morto dice: "A Nuoro abbiamo fatto insieme la rivolta in carcere, se volevamo ucciderlo era l'occasione e non l'abbiamo fatto. Sa che le ha fatto sporche e teme sempre vendette, rispetto alla verità le sue affermazioni sono sempre molto 'complesse'". Loro cattura, con Faranda nel '79, una autoconsegna? "Morucci fuggì con 80 milioni delle br romane, lui temeva per la sua vita, nessuno di noi ha mai rubato". "Altro personaggio interessante è Senzani - dice parlando del criminologo forlivese - che per me era un perfetto sconosciuto, viene 'immesso nelle Br, sono personaggi che fanno riferimento a certe reti". Sulla vicenda della trattativa per la liberazione di Moro, Franceschini spiega come "noi eravamo per la trattativa, Renato (Curcio, ndr) per tenersi fuori, ma sapevamo che se ammazzavano Moro avrebbero ucciso anche noi in carcere, per questo ruotavamo in cella con Curcio, poiché per noi era il primo che avrebbe fatto quella fine". Franceschini ricorda come fu lo stesso Ugo la Malfa a dichiarare che se Moro moriva, sarebbe giusto fare come i tedeschi Stammheim (con alcuni dei capi della Raf, trovati suicidati in carcere, il giorno dopo l'assassinio del presidente degli industriali tedeschi Hanns-Martin Schleyer, ndr). "Noi volevamo la chiusura dell'Asinara, come punto di partenza per trattare la liberazione. Volevamo lo stesso schema del sequestro Sossi, che per noi era stata una vittoria politica", spiega Franceschini a San Macuto. Sulla dinamica di Via Fani restano i dubbi: "Per fare operazione Sossi, che era senza scorta e viaggiava da solo, impiegammo 18 compagni. A via Fani erano in nove, come dice Morucci, di cui 4 sparatori, affrontarono una scorta che non credo fosse incapace di difendere Moro. Allora ci si domanda come hanno fatto? I compagni mi dissero 'l'abbiamo fatta noi, addestrandoci nel cortile di casa, diceva Gallinari". Il commento di Fioroni. "Sottolineo il richiamo di Franceschini a non semplificare la complessità del fenomeno eversivo di cui fu fondatore - ha commentato il presidente della Commissione, Fioroni - ma ad osservarlo all’interno del contesto geo-politico che ne ha influenzato le scelte. Inoltre, trovo utili le riflessioni sull’utilizzo degli infiltrati e sul ruolo del gruppo Hyperion, come l’analisi sulla rapida trasformazione del gruppo brigatista che, nel volgere di pochi anni, dal '74, anno dell’arresto di Franceschini, al ’78, acquisisce una sorprendente capacità militare ed anche culturale, se si pensa agli interrogatori cui fu sottoposto Aldo Moro. Franceschini ci fa capire esplicitamente che le persone che aveva conosciuto durante la sua militanza, in sostanza, non avevano quei livelli di operatività”. I dubbi di Grassi. "Di estremo interesse - sottolinea Gero Grassi, componente della Commissione - il racconto della nascita del gruppo brigatista e il passaggio oscuro alla gestione morettiana. Resta una domanda che certamente non può essere rivolta a lui: perchè gli toccò scontare 18 anni di galera, 21 a Renato Curcio? Erano accusati di banda armata, non avevano reati di sangue. I brigatisti condannati come responsabili dell'uccisione di Aldo Moro e della strage di via Fani se la sono cavata con molto meno". Il parere dello storico. "Non mi sembra che Franceschini faccia rivelazioni inedite - è il parere dello storico Federico Imperato, autore di due libri su Aldo Moro, ricercatore in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali - Di Hyperion, Franceschini aveva già parlato in una audizione in Commissione stragi, nel 1999. Hyperion era ufficialmente una scuola di lingue a Parigi, in realtà un centro di collegamento tra gruppi del terrorismo internazionale, ritenuta in contatto anche con i servizi segreti. Hyperion fu fondata nel 1970 da tre esponenti della sinistra extraparlamentare italiana: Corrado Simioni, Vanni Mulinaris e Duccio Berio. I tre ebbero un ruolo agli albori della storia delle Br. Parteciparono, infatti, nel 1969, ad un convegno del Collettivo Politico Metropolitano, che decise il passaggio alla lotta armata e la nascita ufficiale delle Brigate Rosse. Secondo Franceschini, Simioni, Mulinaris e Berio, staccatisi dalle Br, fondarono prima il Superclan, di cui avrebbero fatto parte Mario Moretti e Prospero Gallinari, e poi, nel 1970, in Francia, l'Hyperion. Secondo Franceschini, ancora, il padre di Berio era un famoso medico milanese, legato ai servizi israeliani. "Il nome di Simioni fatto da Craxi". "Corrado Simioni - spiega Imperato - è un personaggio interessante. Il suo nome viene fatto per la prima volta da Craxi a Montecitorio, forse nel 1980: "Non cercate i terroristi sulla luna, guardatevi intorno, magari tra i vostri compagni di scuola". E ancora: "Quando si parla del "Grande Vecchio" bisognerebbe riandare indietro con la memoria, pensare a quei personaggi che avevano cominciato a far politica con noi e che poi improvvisamente sono scomparsi". Simioni, infatti, aveva militato, negli anni Cinquanta e Sessanta, nel Psi, faceva parte della corrente autonomista, ed era in stretti rapporti di collaborazione con Craxi e Silvano Larini. Poi viene espulso dal Psi, nel 1965; si trasferisce a Monaco di Baviera, dove collabora con Radio Free Europe. Quindi il ritorno in Italia e l'impegno nella sinistra extraparlamentare di cui ho già detto. In quegli ambienti, tuttavia, inizia presto a farsi la fama di doppiogiochista. Secondo Lotta Continua è un confidente della polizia, mentre in una scheda ritrovata nell'archivio segreto di Avanguardia operaia si legge: 'Entra tra i primi in clandestinità anche se all'epoca non ha alcun mandato di cattura a suo carico (...) era un pezzo grosso a livello di Curcio. Espulso come poliziotto, probabilmente è del Sid. Secondo Dalla Chiesa 'È un'intelligenza a monte delle Brigate Rosse'". "Senzani gestì la regia del sequestro". "Anche Giovanni Senzani è un personaggio interessante - continua Imperato - . Criminologo, docente dell'Università di Firenze. Secondo Giovanni Pellegrino sarebbe stato lui, da Firenze, a gestire la regia politica dei 55 giorni del rapimento Moro. Pellegrino cita anche documenti che confermerebbero i legami tra Senzani e apparati di sicurezza italiani e stranieri. In particolare, un documento, anonimo, quindi inutilizzabile nel corso delle indagini, consegnato dal generale Lee Winter al giornalista Ennio Remondino, secondo cui la stazione di Roma (della Cia, ndr) ha dato assicurazione al Sops (Special Operation Planning Staff) che il nuovo collegamento con Parigi, Giovanni Senzani, è sotto contratto. Probabilmente a lui si riferisce Morucci, in Commissione Stragi, quando accenna agli irregolari: 'Bisogna chiedersi se c'era un anfitrione o no, chi era il padrone di casa, chi era l'irregolare, chi batteva a macchina i comunicati del comitato esecutivo, che poi erano distribuiti in tutta Italia, sul caso Moro. Certo, ritengo che siano cose che non cambino radicalmente la questione, ma penso che andrebbero dette".
SEQUESTRO MORO: LA PISTA DELLA ‘NDRANGHETA.
Che ruolo ha avuto davvero Giustino De Vuono in via Fani nel caso Aldo Moro? Scrive Simona Zecchi il 12 luglio 2017 su "Formiche.net". Il sequestro dell’uomo che poteva cambiare il corso della politica italiana, così come la strage compiuta della sua scorta e la “consegna” del corpo senza vita in via Caetani il 9 maggio 1978, sono tutte parti complesse di un quadro a oggi, dopo 39 anni di distanza dai fatti, incompleto. Esistono fatti ed elementi interconessi tra loro (come a esempio il ruolo internazionale giocato il 16 marzo ’78 e i 55 giorni seguenti) i quali nel loro insieme sono certo più rilevanti della figura di Giustino De Vuono sulla quale sin dal maggio scorso Formiche.net ha puntato indagini e ricerche svelando fatti concreti, incluso il suo volto presente in via Fani. Non necessariamente De Vuono avrebbe partecipato all’azione del sequestro, bastava essere lì per supervisionare: un ruolo appunto. L’ex legionario prestato alla criminalità e all’estremismo politico (che nel 1975 partecipò insieme a elementi di Autonomia Operaia al sequestro dell’ingegner Carlo Saronio) è un grosso nodo sul quale si stringono più dinamiche: a partire da via Fani – dove un testimone, Rodolfo Valentino, lo riconosce – passando per via Gradoli e finendo in via Caetani dove il cerchio si chiude. Sciogliendolo, l’intero bandolo andrebbe a unire più filamenti.
– Esiste un rapporto di polizia giudiziaria inviato alla Procura generale che indicava Giustino De Vuono come l’assassino di Moro. Lo citavano i giornali del tempo in modo dettagliato: quelle notizie che soltanto inquirenti o forze dell’ordine possono rivelare ai cronisti. Perché questo rapporto non è agli atti tutti della inchiesta Moro?
– Durante i 55 giorni, un altro testimone riconobbe De Vuono a bordo di una R4 insieme a una donna (la stessa R4 di via Caetani?). Da quella testimonianza, come racconta tra le altre cose l’inchiesta “Morte di un presidente”, emerge un fotofit con il ritratto di Giustino De Vuono. Perché non ci fu alcun raffronto fra quel fotofit, l’altro dell’uomo e della donna scesi dalla R4 alle 8,10 della mattina del 9 maggio, sparito anch’esso dagli atti, con suoi ritratti e foto diffusi e già allora disponibili? Per compiere un raffronto non servivano particolari tecniche allora non disponibili.
– Un addetto alle pulizie riconosce nel palazzo di via Gradoli 96 un uomo “in divisa da spazzino” fortemente rassomigliante allo “scotennato”. Ne dà conto un libro edito nel 1984 “Operazione Moro” dell’avvocato Giovanni Zupo e di V. Marini Recchia. Di quel ritratto cosa ne è stato, quali le conclusioni investigative?
– Tra gli elementi che confermavano in De Vuono l’assassino di Moro (quindi via Caetani), gli investigatori dell’epoca indicarono una particolare tecnica di sparo a raggera attorno al cuore, tecnica da lui appresa nella legione straniera. Don Fabio Fabbri, il braccio destro del cappellano delle carceri Cesare Curioni, nel corso del 2016 in Commissione Moro, ha ricordato questa stessa tecnica come elemento che aveva dato la certezza a don Curioni dell’identità dell’omicida calabrese. Della tecnica ne mostra le evidenze sull’autopsia sempre l’inchiesta “Morte di un Presidente”. Così don Fabbri alla Commissione: “Io ero lì con lui, come sempre, le guardammo insieme (le foto della perizia nda.), in tutto erano 5, 6, forse 8. Si vedeva in modo chiaro che sei colpi erano stati sparati attorno al cuore di Moro, fotografato separatamente. Curioni ebbe un sussulto, ‘io conosco il killer, è un professionista, quella è la sua firma”.
– Nel libro “La Borsa di Moro” (Iuppiter edizioni, 2016) Marcello Altamura riferisce in modo certosino della testimonianza di Lina Cinzia De Andreis che fa un identitkit di un uomo fermo davanti al bar Olivetti mentre guarda un orologio e la cui fisionomia richiama proprio De Vuono: “Alto e con corporatura massiccia, occhi a mandorla molto grandi e neri, labbra carnose, basettoni, un naso grosso e pronunciato e orecchie sporgenti. In testa, la coppola di pelle nera con la visiera alzata.” Identikit presente negli atti Moro ma ignorato.
– Perché le foto di via Fani dei Gualerzi pubblicate da Formiche.net per la prima volta dopo 39 anni, foto che ritraevano De Vuono a pochi metri di distanza dal luogo dove era con ogni probabilità appostato anche Antonio Nirta, il boss di San Luca, sono sparite per 39 anni dagli atti?
– Perché i Carabinieri consegnano una informativa secretata sulla morte di De Vuono alla Commissione Moro quando un certificato di decesso ufficiale si sarebbe potuto ottenere così come da noi ottenuto dopo 39 anni? E dov’è – se esiste – la tomba dell’ex criminale la cui registrazione stando alle nostre indagini non compare nei luoghi dove sarebbe deputato?
– Perché Mino Pecorelli fa riferimento a De Vuono in un suo articolo dal titolo “Vergogna Buffoni” pubblicato nel gennaio ’79 sulla rivista da lui diretta OP: “Non diremo che il legionario si chiama “De” e il macellaio Maurizio”?
– Perché il 14 maggio 1978 persino il quotidiano spagnolo El País parlò dell’ex legionario come del presunto esecutore materiale dell’uccisione di Aldo Moro secondo fonti ufficiali?
Sono le domande che a forza emergono e che puntellano il caso Moro tutto. Le domande, come scrisse 40 anni fa Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera riguardanti altri tragici fatti di questa nostra Repubblica, le cui risposte “gli italiani vogliono consapevolmente sapere”.
Caso Aldo Moro, la commissione Fioroni acquisirà i documenti su De Vuono svelati da Formiche.net, scrive Andrea Picardi il 7 luglio 2017 su "Formiche.net". La commissione bicamerale d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro acquisirà il materiale inedito svelato da Formiche.net nelle ultime settimane. Secondo le indiscrezioni raccolte in ambienti parlamentari, la commissione presieduta da Beppe Fioroni (Pd) ha deciso di aggiungere agli atti le foto e gli articoli pubblicati da Formiche.net che – a 39 anni di distanza dall’omicidio dell’ex leader della Democrazia cristiana – ha ricostruito con dovizia di particolari la presenza in via Fani a Roma di un uomo vicinissimo alla ‘ndrangheta. Eccola la foto inedita che ha avvolto ancora più di giallo la vicenda – ancora da decifrare nei suoi aspetti più segreti – del rapimento e l’assassinio di Moro. Nel primo articolo a firma di Simona Zecchi – cui, poi, sono seguiti altri approfondimenti – viene infatti certificata la presenza sul luogo della strage di Giustino De Vuono, detto lo “scotennato”: criminale e aspirante ‘ndranghetista che però non si affiliò mai ufficialmente all’organizzazione. A scattare la foto fu un ottico di zona – Gennaro Gualerzi – il cui negozio si trovava nella vicinissima via Stresa. In base a quanto emerso, Gualerzi si presentò sul luogo del rapimento pochissimi minuti dopo le ultime raffiche sparate dai brigatisti sull’auto di Moro alle 9,02. Qualche istante dopo – alle 9,15 – arrivò in via Fani dove scattò alcune foto, i cui negativi furono consegnati ai carabinieri di via Trionfale. Com’è però spesso accaduto nella misteriosa storia dell’Italia repubblicana, di quelle foto si è con il tempo perso traccia tanto da essere tralasciate nell’inchiesta sul rapimento e il successivo omicidio del presidente della Dc. Non solo De Vuono, peraltro, si trovava quella mattina del 16 marzo ’78 in via Fani. Accertata anche la presenza di un altro ‘ndranghetista, Antonio Nirta. Come ha ricostruito Stefano Vespa in questo articolo, la conferma su Nirta è arrivata lo scorso anno dai carabinieri del Ris che lo hanno individuato ufficialmente analizzando una fotografia pubblicata dal Messaggero. E lo stesso adesso potrebbe accadere per De Vuono, sul cui ruolo nella vicenda Moro si era già esposto Fioroni nel comunicato del luglio 2016 con il quale confermò l’esito della perizia su Nirta. In quell’occasione il parlamentare del Pd sottolineò, infatti, come fosse in corso “un’analoga perizia sul volto di un altro personaggio legato alla malavita e che comparve tra le foto segnaletiche dei possibili terroristi il giorno dopo il 16 marzo: si tratta di Giustino De Vuono, killer spietato, morto nel 1993 in un carcere italiano”. Come Formiche.net è riuscita ad accertare, però, De Vuono non risulta deceduto nel ’93, bensì nel ’94. In questo articolo, sempre Simona Zecchi è riuscita a ricostruire l’ultima fase di vita dell’aspirante ‘ndranghetista. Il quale morì il 13 novembre del 1994 all’ospedale civile di Caserta nel quale venne trasferito dal carcere di Carinola. Almeno questo è ciò che recita il certificato di morte di De Vuono rilasciato dall’ufficio anagrafe del capoluogo di provincia campano. Nessuna notizia, però, sul luogo in cui il suo corpo venne seppellito. Che, al momento, risulta completamente sconosciuto. Un dettaglio che, ovviamente, sta generando voci e congetture e alimentando sospetti e dubbi. Sui quali a breve si concentrerà la commissione bicamerale d’inchiesta sul caso Moro, che si accinge ad allegare agli atti quanto svelato da Formiche.net.
Aldo Moro, via Fani, De Vuono e la ‘ndrangheta. Ecco le ultime novità dopo lo scoop di Formiche.net, scrive Stefano Vespa il 2 giugno 2017 su "Formiche.net". I lavori della commissione d’inchiesta sul caso Moro vanno avanti raggranellando altre tessere di un quadro molto complesso: le foto inedite pubblicate da Formiche.net contribuiranno probabilmente ai lavori e non è escluso che vengano acquisite. La presenza degli ‘ndranghetisti Antonio Nirta e Giustino De Vuono a via Mario Fani subito dopo l’agguato, infatti, era considerata certa dalla commissione da molto tempo: nel caso di Nirta la conferma è arrivata l’anno scorso dal Ris dei Carabinieri che lo hanno individuato ufficialmente analizzando una fotografia pubblicata dal Messaggero. Ora le foto scattate il 16 marzo 1978 dall’ottico Gennaro Gualerzi, consegnate ai Carabinieri e scomparse come tanti altri rullini, confermerebbero anche la presenza di De Vuono, un killer che potrebbe aver avuto un ruolo determinante nella vicenda. Il presidente della commissione Moro, Giuseppe Fioroni (Pd), nel comunicato del luglio 2016 con il quale confermò l’esito della perizia su Nirta, aggiunse che “è in corso un’analoga perizia sul volto di un altro personaggio legato alla malavita e che comparve tra le foto segnaletiche dei possibili terroristi il giorno dopo il 16 marzo: si tratta di Giustino De Vuono, killer spietato, morto nel 1993 in un carcere italiano”. Nel corso dei lavori è emersa la certezza che le Brigate rosse fossero in contatto con la criminalità organizzata per procurarsi le armi, ma l’anno scorso l’audizione di monsignor Fabio Fabbri regalò un retroscena di importanza fondamentale, che confermava quanto si pensò già 39 anni fa. Fabbri all’epoca era uno stretto collaboratore di monsignor Cesare Curioni, ispettore generale dei cappellani carcerari e impegnato nella trattativa per liberare il leader dc, e nell’audizione del 4 febbraio 2016 raccontò di essere stato la prima persona a ricevere le foto dell’autopsia del corpo di Aldo Moro perché evidentemente si voleva che fossero consegnate subito a Curioni. Questi, appena le vide, disse: “So chi l’ha ucciso” e al suo sorpreso collaboratore aggiunse che la rosa di sei fori di proiettile che non toccava il muscolo cardiaco era la tecnica di un giovane conosciuto nel carcere minorile Beccaria di Milano e che era un killer della ‘ndrangheta. Secondo il giornalista Paolo Cucchiarelli, autore di “Morte di un presidente”, si trattava proprio di De Vuono e anche un rapporto degli investigatori del 1978 lo indicava come l’esecutore materiale dell’omicidio. C’è poi un dettaglio nella ricostruzione dell’ottico Gualerzi che alimenta i dubbi sul bar Olivetti: nel suo articolo su Formiche.net, Simona Zecchi riferisce la versione dell’ottico secondo il quale all’epoca del sequestro l’esercizio commerciale svolgeva una normale attività mentre su questo la commissione d’inchiesta ha raccolto testimonianze opposte. Dettaglio tutt’altro che secondario, visto che con un bar aperto un’azione militare di quel genere sarebbe stata quasi impossibile. Nella relazione annuale presentata nello scorso dicembre dal presidente Fioroni si ricordò che quel bar era stato chiuso per uno “strano” fallimento qualche mese prima del sequestro e che sul titolare, Tullio Olivetti, sono emerse prove di favoritismi da parte degli investigatori dell’epoca. Secondo la commissione “non è stato ancora chiarito in maniera definitiva il significato di tali omissioni investigative. Tuttavia, occorre rilevare che la vicenda fa emergere un possibile intreccio tra il caso Moro e una corrente di traffico d’armi che coinvolgeva sia la criminalità organizzata che l’area mediorientale e sul quale occorre compiere ulteriori e – si auspica – definitivi approfondimenti”. Da un’attenta lettura degli atti fatta dalla commissione emergono anche superficialità senza le quali la storia del sequestro sarebbe stata molto diversa. Il 2 maggio scorso è stato audito Elio Cioppa, funzionario di polizia che tra gli anni Settanta e i Novanta è stato tra l’altro alla Squadra mobile di Roma, al Sisde e questore di Nuoro. Nella pubblicistica sul caso Moro, Cioppa è stato indicato spesso come responsabile della mancata perquisizione del covo di via Gradoli 96 dove si nascondevano Mario Moretti e Barbara Balzerani. Invece all’epoca lavorava alla Mobile e non alla Digos e non fu lui a presentarsi in quel condominio. Fioroni, nell’audizione, spiega che “leggendo semplicemente gli atti, che quelli che hanno scritto libri potevano almeno leggersi, la storia che è andata in onda stasera, non raccontata da Cioppa ma dagli atti, è diversa. Poi uno fa le dietrologie che vuole, però credo che, per verità, ci sia un limite alle sciocchezze che possono essere scritte. Cioppa non ha mai bussato. Stava alla Squadra mobile. Non ha mai bussato, non c’entrava niente con la Digos”. Chi bussò il 18 marzo all’appartamento intestato “all’ingegner Borghi” fu il brigadiere Domenico Merola al quale una condomina, Lucia Mokbel, aspirante “informatrice” di Cioppa, rivelò di aver sentito rumori simili a segnali Morse provenire da quell’appartamento. Si trattava del rumore della testina rotante Ibm di una macchina per scrivere elettrica in uso alle Br. Merola bussò tre volte, ma non sfondò la porta come pure le direttive dell’epoca gli avrebbero consentito, non fece subito una relazione di servizio su quanto appreso e anni dopo smentì di aver avuto la segnalazione. Dietro la porta di quell’appartamento c’erano Moretti e Balzerani i quali, avrebbero spiegato anni dopo in un processo, avrebbero sparato se qualcuno fosse entrato. Se Merola l’avesse fatto, probabilmente le forze dell’ordine avrebbero avuto altre vittime da commemorare e altrettanto probabilmente la storia del sequestro Moro avrebbe imboccato subito una strada diversa.
Aldo Moro e via Fani, le foto inedite e l’altro volto della ‘ndrangheta, scrive Simona Zecchi il 28 maggio 2017 su "Formiche.net". A 39 anni dall'agguato, Formiche.net svela alcune foto scattate sul luogo della strage e poi scomparse. Un rapporto dei Carabinieri ne riporta la testimonianza con il solo riferimento agli allegati. Ecco le immagini inedite. Tra la folla il volto del calabrese Giustino De Vuono...16 marzo 1978, Roma: sequestro di Aldo Moro e strage della scorta. L’esistenza di un’altra serie di rullini scomparsi spunta dopo 39 anni e si va ad aggiungere alla lista già lunga dei segreti che riguardano via Fani. Si tratta di 11 fotografie inedite lì scattate da un ottico di via Stresa, Gennaro Gualerzi, il cui esercizio, attivo sin dal 1974, si affaccia a metà della stradina che si snoda a gomito sull’incrocio-scena della sparatoria. La loro esistenza è indicata in un rapporto del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Via Trionfale presente negli atti della Prima Commissione Moro (voll.30-39). È un breve sommario del verbale rilasciato la mattina del 16 marzo dall’ottico (il nome indicato è sbagliato: “Gualersi”). Circa il numero di queste foto appare una correzione a mano che lo porta a 16 ma quelle effettive sono solo 11. L’attuale Commissione Moro aveva ricevuto nel 2016 una segnalazione sull’ottico. Tra le foto sino a oggi inedite – qui pubblicate per la prima volta – una rivelerebbe la presenza di un volto: quello di Giustino De Vuono lo “scotennato”. Il volto su questa immagine inedita sembra perdersi tra la folla ma di seguito si può vedere il suo ingrandimento a confronto con le poche immagini ufficiali che lo riguardano, inclusa quella che lo raffigura su alcuni documenti del Paraguay nei quali compare il riferimento all’accusa per i reati di sequestro e omicidio della scorta di Moro. Il signor Gennaro Gualerzi insieme con la figlia allora sedicenne confermano i contenuti del verbale e aggiungono alcuni elementi. Pochi minuti prima di apprendere la notizia della strage da un conoscente titolare di un esercizio loro vicino, Gualerzi aveva imprecato contro un’auto scura, una Fiat 128, che a forte velocità sfrecciava davanti al negozio con alcune persone a bordo che si cambiavano velocemente d’abito. Saputo degli spari, Gualerzi accorre poi in via Fani scattando così le foto: sono le 9.15, le ultime raffiche in via Fani contro la scorta di Moro segnano le 9.02 circa. Le Fiat 128 presenti quella mattina sono due: una blu, l’altra bianca con targa diplomatica. I negativi furono dai Gualerzi prontamente consegnati dall’ottico ai carabinieri di Via Trionfale, e una copia delle immagini il signor Gualerzi le inviò anche all’allora direttore de L’Ora di Palermo, da lui conosciuto personalmente, che non le pubblicò mai visto che per quanto concerneva Roma L’Ora si appoggiava a Paese Sera. Nello stesso rapporto i carabinieri infatti scrivono: “I negativi sono stati sviluppati e si accludono le pose relative – all. nr. 16”. Allegati che non compaiono nemmeno negli atti di che riguardano i processi Moro e in special modo il Moro Uno e il Bis (né tanto meno in quelli delle commissioni 1 e 2) in cui si registrarono le entrate dei verbali e dei rapporti, con nomi e cognomi. Compaiono invece tra il 16 e il 17 marzo altri testi presenti nello stesso rapporto dei CC di via Trionfale, sentiti anche dalla Digos. Tutti nomi che però non avevano nulla da dire sull’eccidio di quel giorno. Le foto rinvenute ritraggono i momenti più significativi successivi alla mattanza: alcuni noti, ma l’elemento più importante che emerge è quel volto che sembra confondersi tra la folla. Secondo i Gualerzi, inoltre, il bar Olivetti – ulteriore oggetto di indagine della Commissione – che appare con la saracinesca abbassata alle spalle del presunto Antonio Nirta svolgeva attività normale in quel periodo sebbene secondo loro non vi fosse traffico sospetto di personaggi oscuri. La posizione del boss Nirta detto ‘due nasi’, intervistato dopo 24 anni da “Le Iene” nei giorni scorsi è stata archiviata nel ‘93. La lista dei rullini di via Fani scomparsi dalle evidenze dei fatti è inarrestabile: si va da una parte di materiale relativa alla foto pubblicata dal Messaggero il 21 gennaio 2016 (scovata questa tra le carte del processo Pecorelli) rullini consegnati all’allora magistrato Luciano Infelisi da un carrozziere e sua moglie giornalista; per passare poi ad alcune foto a loro volta sparite dagli uffici della procura che ritraevano parte del commando mentre sparava alla scorta; altri rullini furono rinvenuti poi da un’abitante della zona nel proprio giardino e da questa consegnate a un agente in borghese mai ritrovate in seguito; ulteriori rullini ancora di cui ha riferito il giornalista Diego Cimara alla Commissione e infine un’altra serie, mai più ritrovata, di cui ha riferito sempre alla Commissione Antonio Ianni, il primo fotografo Ansa di Roma arrivato sul posto. Il materiale (tre rullini) da lui scattato quella mattina sarebbe stato in gran parte trafugato dall’archivio fotografico dell’agenzia. Giunto in Via Fani quando ancora i corpi non erano stati coperti, troverà la sera stessa la propria abitazione sottosopra. Di questa lunga serie, qui si mostrano le uniche foto rinvenute, con particolare focus sul volto che è possibile indicare almeno giornalisticamente come il volto di Giustino De Vuono: il volto dell’altra ‘ndrangheta.
Giustino De Vuono (il volto individuato tra le foto inedite): Criminale e aspirante ‘ndranghetista mai affiliato ufficialmente perché fra il 1958 e il ’63 aveva vestito la divisa di legionario (un militare dunque per loro), De Vuono si “politicizza” in carcere. Il teste Rodolfo Valentino azzarda un suo riconoscimento dalle foto diffuse sui giornali (verbale del 19 aprile 1978). Quello di De Vuono è un ruolo che via via sparisce dalle indagini e dai processi. Di lui attualmente non si conosce l’esistenza in vita né la sua morte. Arrestato e condannato insieme ad altri nel 1981 per l’omicidio di Carlo Saronio (’75), la sua pena verrà ridotta a sei mesi per un condono (cfr. libro di Antonella Beccaria Pentiti di Niente 2008). Apparirà e scomparirà fra il 1977 e il 1981 dal Paraguay durante la dittatura di Alfredo Stroessner e il suo nome emerge già nel volantino diramato insieme a quello di altri BR il 18 marzo ’78. A dicembre dello stesso anno viene spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti che cessa di essere attivo ai confini della Svizzera. I suoi movimenti sempre tracciati si perdono solo nel 78 fino ad agosto, dunque per tutto il periodo del sequestro e l’omicidio Moro.
Aldo Moro e via Fani, misteri e segreti di De Vuono. Cosa ha scoperto Formiche.net, scrive Simona Zecchi il 18 giugno 2017 su "Formiche.net". Resta introvabile il corpo dell’altro volto della ‘ndrangheta che Formiche.net ha mostrato in queste foto inedite. Da tempo, nonostante la notizia della sua morte sia stata affermata da più parti, si nutrono dubbi sul fatto che il criminale della ‘ndrangheta eventualmente prestato alle Br sia davvero morto. Il legionario Giustino De Vuono (nella foto), lo “scotennato” del caso Moro, scagionato per sempre sin dal primo procedimento grazie alla testimonianza del collaboratore Patrizio Peci e, successivamente, da una informativa del Sismi che ne negava la presenza in Italia durante la strage, è morto il 13 novembre del 1994, come recita il certificato di morte originale che Formiche.net ha visto, rilasciato dall’ufficio anagrafe del Comune di Caserta. Il ruolo dell’uomo nel sequestro di Aldo Moro, nella uccisione della scorta e persino nel tentato omicidio del testimone Alessandro Marini lo stesso 16 marzo 1978 prima del ‘Moro Uno’ (come indica il documento dell’Interpol nr. 193F0462) è uno dei protagonisti da sempre di questo caso ed è sempre andato oltre l’incrocio tra Via Fani e Via Stresa a Roma, dove si compirono strage e sequestro. Una presenza, quella di de Vuono, che passa anche per Via Gradoli e arriva fino a Via Caetani, dove fu rinvenuto il corpo del Presidente DC il 9 maggio di 39 anni fa. Nonostante quella prima sentenza che lo scagiona, “per non aver commesso il fatto”, sia le attuali indagini della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sia le più recenti inchieste giornalistiche – una su tutte ‘Morte di un Presidente’ di Paolo Cucchiarelli- ne hanno fatto riemergere ruolo e presenza. Ma in tutto questo manca una cosa fondamentale: il corpo, il luogo di sepoltura effettivo. L’inchiesta di Formiche.net attesta proprio questo: una mancanza, forse la più importante del caso Moro. Perché se confermata, difficilmente poi si potrà negare che le Br si servirono di altri per poter gestire e poi uccidere anche contro il loro intento Aldo Moro. Inoltre, nel caso di conferma, porrebbe la questione più grave: dove sarebbe finito e da chi sarebbe protetto De Vuono, il killer di professione? In questa inchiesta, in cui ci siamo imbattuti in vari personaggi e anche funzionari comunali gentili e disponibili, abbiamo scoperto tra le altre cose che cercare in Italia una salma da poter salutare o sulla quale poter andare magari a pregare non è cosa semplice, non sempre. A Carinola, in provincia di Caserta, il carcere in cui De Vuono ha passato gli ultimi anni, sanno soltanto che il detenuto prima trasportato all’ospedale civile di Caserta è morto poi lì di morte naturale. L’ufficio matricole della struttura carceraria non conosce il luogo di sepoltura. A Scigliano, il comune in provincia di Cosenza in cui è nato De Vuono l’8 maggio del 1940, confermano via e-mail che l’uomo è deceduto a Caserta e che il corpo non ha mai fatto ritorno al paese. Nei comuni lì vicini, così come nello stesso paese, non sembrerebbero rimasti suoi parenti, secondo le verifiche che abbiamo potuto svolgere. Dal cimitero principale di Caserta, città in cui De Vuono sarebbe morto a leggere l’atto inviato dal Comune, ci confermano che lì l’uomo non è sepolto. Nel registro del deposito del cimitero, infatti, non è presente né il nome in generale, né il nome in riferimento alla data di morte indicata. Infatti, era anche possibile che, deceduto alla fine del 1994, il corpo potesse essere rimasto in attesa dell’arrivo dei parenti e sepolto magari mesi dopo: dunque nel ’95. Così non è. Il certificato di morte, come è noto, riporta solo il luogo in cui è avvenuto l’evento. Giustino De Vuono avrebbe dovuto essere sepolto – così come è ancora norma oggi, ci dicono, per i detenuti che passano a miglior vita a prescindere dalla città in cui questi si spengono – presso il cimitero centrale di Carinola. Ma la salma non si trova né lì, né presso secondo cimitero, come ci confermano dagli uffici di questo comune. Alla nostra richiesta presso l’ufficio demografico del comune di Caserta dell’atto di permesso di seppellimento sul quale, come può essere verificato anche sul web, vi deve essere normalmente indicato il reale luogo di sepoltura, ci è stato inviato un documento che afferma la non obbligatorietà del loro ufficio a conservare questo tipo di atti, e soprattutto, aggiungono al telefono, è possibile non trovarvi l’indicazione del luogo della tumulazione. A Carinola invece ci dicono il contrario: quegli atti devono essere archiviati e conservati e il luogo è sempre indicato. Qual è la verità? È possibile, riferiscono poi dal Comune di Caserta, che nel caso di detenuti – per ragioni di sicurezza – si sia deciso di occultare il luogo di sepoltura (la parola precisa usata è stata “depistare”) per ovviare a eventuali atti di devastazione e danneggiamento o per altri motivi. Quali possono essere questi “altri motivi”? Forse la Commissione, che non sembrerebbe passata a Caserta per svolgere indagini (né lo è alcuna altra autorità di polizia giudiziaria) in tal senso potrebbe approfondire al riguardo. Perché l’altro problema che si porrebbe a questo punto sarebbe la eventuale falsificazione di atti pubblici. Alla Commissione parlamentare d’inchiesta è pervenuta una informativa dei Carabinieri nella quale si affermava l’avvenuta morte di De Vuono. Una informativa coperta da segreto non accompagnata da alcun certificato, come è a tutti gli effetti l’atto di morte da noi reperito. La Commissione sta svolgendo diverse indagini sulla persona di De Vuono e il suo eventuale ruolo nel caso Moro, e alcuni atti che le riguardano sono giustamente secretate come emerge dall’elenco pubblico degli atti segreti. Non si comprendeva dunque la necessità di tenere oscurata una informazione che si poteva reperire come un qualsiasi atto pubblico via posta certificata. La Commissione alla fine l’ha giustamente desecretata. Gli ambienti investigativi, così è la voce che serpeggia in merito, non crederebbero all’effettiva morte del De Vuono né al fatto che il corpo possa essere il suo. Le voci possono restare tali, ma la ricerca da noi effettuata racconta dei fatti che andrebbero in questa direzione. Una ricerca che ci ha portati lungo un percorso infinito, a slalom, dove di sicuro direbbe forse oggi il giornalista Tommaso Besozzi, che si occupò della morte di Salvatore Giuliano, ‘c’è solo che è sparito’. E’ la Commissione Moro a questo punto che dovrebbe individuare il luogo reale di sepoltura di Giustino De Vuono e la sua tomba, se esiste.
Caso Moro, Fioroni: "In via Fani anche il boss della 'ndrangheta Nirta". La rivelazione del presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta si basa sull'esito degli accertamenti su una foto del giorno del sequestro, ritrovata nell'archivio del quotidiano romano il Messaggero, scrive il 13 luglio 2016 “La Repubblica”. Una panoramica dall'alto scattata il 16 marzo 1978 durante i rilievi tecnici sulla scena dell'agguato in via Fani, dove venne rapito Aldo Moro e tratta dal fascicolo del primo processo Moro (ansa)ROMA - "Grazie alla collaborazione del Ris, possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c'era anche l'esponente della 'ndrangheta Antonio Nirta, nato a San Luca, in provincia di Reggio Calabria, l'8 luglio del '46". E' quanto rende noto il presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro, Giuseppe Fioroni. Nipote del capo clan suo omonimo, morto a 96 anni nel 2015, di Antonio Nirta - che nel 1978 aveva 32 anni - parlò per la prima volta il pentito della 'ndrangheta Saverio Morabito, collaboratore altamente attendibile e secondo il quale Nirta, detto 'l'esaurito' o 'due nasi' per la sua confidenza con la doppietta, sarebbe stato confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino e uno degli esecutori materiali del sequestro di Aldo Moro. Le prime dichiarazioni del Morabito sono datate 1992 e la procura di Roma non le riceve che dopo un anno. Fioroni aggiunge che "il comandante Luigi Ripani, che ringrazio per la collaborazione, ha inviato in questi giorni l'esito degli accertamenti svolti su una foto di quel giorno, ritrovata nell'archivio del quotidiano romano il Messaggero lo scorso gennaio - spuntata da un altro procedimento penale: quello sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli avvenuto il 20 marzo 1979 -, nella quale compariva, sul muretto di via Fani, una persona molto somigliante al boss Nirta. Comparando quella foto con una del boss - aggiunge - gli esperti sostengono che la statura, la comparazione dei piani dei volti e le caratteristiche singole del volto mostrano una analogia sufficiente per far dire, in termini tecnici, che c'è 'assenza di elementi di netta dissomiglianza'". Fioroni afferma che "è in corso una analoga perizia sul volto di un altro personaggio legato alla malavita e che comparve tra le foto segnaletiche dei possibili terroristi il giorno dopo il 16 marzo: si tratta di Antonio De Vuono, killer spietato, morto nel 1993 in un carcere italiano". "Le informazioni che abbiamo fin qui acquisito - conclude - ci consentono di dire che la relazione di fine anno sulla nostra attività sarà di grande interesse per tutti coloro che chiedono di conoscere la verità sul delitto di via Fani".
Sequestro Moro, spunta la pista della 'ndrangheta: una foto del Messaggero svela l'uomo con la sigaretta, scrive Italo Carmignani il 21 gennaio 2016 su “Il Messaggero”. L'uomo con la sigaretta, nella foto in bianconero destinata a incorniciare la tragedia di via Fani, rilegge la storia e riaccende un dubbio: quale ruolo hanno avuto la 'ndrangheta e i servizi segreti deviati nel sequestro e omicidio di Aldo Moro? L'immagine risale al 16 marzo 1978, ritrae la Fiat 130 del presidente della Dc, l'Alfa Romeo della scorta, i corpi dei carabinieri uccisi dai brigatisti rossi, i curiosi e, in alto a destra, l'uomo con la sigaretta e la sua aria di falsa indifferenza. A 38 anni da quello scatto firmato dal reporter Gherardo Nucci, la commissione parlamentare, presieduta da Giuseppe Fioroni, cerca di dare un profilo all'uomo misterioso comparandolo con la faccia di Antonio Nirta, calabrese, esponente della 'ndrangheta, confidente del generale Francesco Delfino, già implicato nelle stragi di terrorismo, già raccontato vicino ai servizi segreti deviati. E senza alzare i toni, la commissione si chiede: perché l'uomo con la sigaretta era sul luogo della strage e chi l'aveva mandato? La foto arriva dall'archivio della Procura di Perugia, dopo essere transitata in quello del Messaggero. Nella città dei baci, l'immagine arriva quando il pool dei magistrati, coordinati dall'allora sostituto procuratore Fausto Cardella, cerca di dare un autore (venne indagato e assolto Carminati) e un mandante (venne indagato e assolto Andreotti) all'omicidio di Mino Pecorelli, giornalista a conoscenza, come Moro, di tanti segreti italiani. Anche per Pecorelli si segue per un po' la pista dei calabresi. E così si arriva all'interrogatorio di Ubaldo Lauro, collaboratore di giustizia. Lauro non porta acqua al giallo Pecorelli, ma parla tanto di Nirta. Dice: «...a dire del Palamara, Antonio Nirta era un infame e confidente del Generale Delfino». E aggiunge: «Nirta e i De Stefano erano infami, tragediatori e legati ai Servizi Segreti dice Pasquale Condello...E Pasquale Condello dice realtà». L'ipotesi di Nirta coinvolto nel rapimento di Aldo Moro e addirittura infiltrato nelle Brigate rosse era circolata negli anni '90, quando nell'ambito del processo “Moro quater”, il pm Antonio Marini interrogò il pentito di 'ndrangheta Saverio Morabito circa quello che l'organizzazione criminale calabrese aveva saputo sul delitto. E Morabito confermò a modo suo, annuendo e spiegando: «Nirta fu fisicamente presente al rapimento Moro». Ora parla la foto. Immagine travagliata, con dentro altri misteri. Al tempo fu lo stesso Nucci a presentarsi in procura a Roma per consegnare tutto al pm che coordinava le indagini del sequestro Moro, Luciano Infelisi. Ma la contraddizione è in agguato: alla commissione di Fioroni, Infelisi ora racconta che gli scatti non avevano particolare importanza. Ma un cronista dell'Unità dell'epoca spiega il contrario con un dettaglio: aver notato nelle stanze della questura delle gigantografie di quelle stesse foto appese, con i volti dei personaggi sullo sfondo cerchiati in rosso, anche se negli archivi non ce n'è traccia. Un cerchio rosso avrebbe indicato proprio Antonio Nirta. Già allora, quindi, correva il sospetto. E ancora. Il primo maggio del 1978, Benito Cazora, deputato Dc vicino alla famiglia Moro disse al telefono: «Dalla Calabria mi hanno chiamato per informarmi che in una foto presa sul posto quella mattina, si individua un personaggio a loro noto». A chi si riferisce Cazora? Sicuramente alla 'ndrangheta e probabilmente a un loro affiliato. Il doppiogiochista Antonio Nirta, detto Toni “Due Nasi”. Chissà perché.
La 'ndrangheta dietro al sequestro Moro: alla Dc sapevano tutto, scrive Italo Carmignani il 22 gennaio 2016 su “Il Messaggero”. La foto dell'uomo con la sigaretta scattata nello scenario della strage di via Fani nel giorno del rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo del 1978, doveva sparire per sempre. Nessuno avrebbe dovuto riconoscere l'uomo dai capelli scuri e mossi, l'aria di finta indifferenza che gli sfilava il ruolo di spettatore semplice. Perché se l'uomo con la sigaretta è Antonio Nirta, esponente della 'ndrangheta, doppiogiochista dei servizi segreti, uno dei favoriti di Francesco Delfino (il generale dei carabinieri finito più volte nei peggiori misteri italiani), allora non erano solo le Br a muovere le fila del sequestro-omicidio, ma anche il crimine organizzato calabrese spinto da una parte deviata dello Stato. Ma chi aveva paura di quella foto che ora avvalora le parole del pentito Saverio Morabito («Nirta partecipa al rapimento Moro»)? A 37 anni dalla più politica delle esecuzioni brigatiste, tocca alla commissione d'inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni chiarire il dubbio. E oltre alla comparazione tra l'uomo nella foto e la faccia di Nirta, ora grazie all'immagine s'incastrano una serie di tasselli di un nuovo quadro della vicenda Moro. A cominciare da un'intercettazione a pochi giorni dal rapimento. L'apparecchio è quello di Sereno Freato, uomo della Dc vicinissimo a Moro, dall'altra parte del filo c'è Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per avere notizie sulla prigione di Moro. Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo. Freato: Quelle del posto, lì? Cazora: Si, perchè loro...perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù. Freato: E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove. Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto preso sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro. Freato: Capito. E' un po' un problema adesso. Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare? Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire. Cazora: Dire al ministro. Freato: Saran tante! Perché “loro”, probabilmente la 'ndrangheta, non volevano circolasse quella foto? Perché Nirta aveva avuto il ruolo di supervisore dell'operazione, o sarebbe dovuto intervenire se qualcosa fosse andato storto? Una certezza: da più parti si è sempre detto che il rapimento Moro, l'uccisione bestiale e precisa della scorta, non potevano essere stati eseguiti solo da brigatisti male addestrati alle armi. Altro tassello che porta alla 'ndrangheta e a Nirta sono i pentiti. A riconoscere per primo Nirta nella foto è la magistratura perugina che nel 1996 acquisirà la foto dall'archivio del Messaggero inserendola nel fascicolo dedicato all'omicidio di Mino Pecorelli, giornalista che sapeva, come Moro, tanti segreti italiani. L'uccisione di Pecorelli porta gli inquirenti a interrogare il pentito Ubaldo Lauro che spiega: «Nirta era uomo dei servizi». Per poi riconoscerlo (come già gli investigatori), nella fotografia. Qualche mese fa, a ricordare alla commissione Fioroni di quella foto a Perugia è l'avvocato Walter Biscotti che assiste le famiglie degli agenti uccisi. Biscotti rammenta anche la sparizione di tutto un rullino impresso il giorno della strage dalla macchina fotografica di Gherardo Nucci, dal quale si salva solo l'immagine del Messaggero. Un rullino consegnato dalla moglie di Nucci prima all'Asca, agenzia vicina alla Dc, e tre giorni dopo a chi investigava sul rapimento Moro. E che, misteriosamente, smarrì tutto. Ascoltando inconsapevolmente un'invocazione telefonica.
IL SEQUESTRO MORO E LA CAMORRA.
Camorra, si pente Scotti e parla di Cutolo. Si riapre il fascicolo sul delitto Ammaturo, scrive Conchita Sannino il 13 luglio 2016 su “La Repubblica”. «Non cerco alibi e non cerco scuse. Ma ora sono un altro uomo». Pasquale Scotti, l’ex superlatitante, il criminale e braccio destro di Raffaele Cutolo negli anni della sanguinaria guerra tra la Nco di ‘o Professore e la Nuova Famiglia di Carmine Alfieri, da oltre un mese è ufficialmente un collaboratore di giustizia. Sta parlando. E molto. Con la Procura antimafia di Napoli. Non solo della camorra - ormai preistorica - di Cutolo, e dei tantissimi cadaveri seminati a quel tempo, nei territori di Napoli e provincia. Il boss Scotti sta parlando soprattutto della trattativa tra lo Stato e i terroristi delle Brigate Rosse, sul ruolo di mediazione della camorra nella liberazione dell’ex assessore regionale rapito dalle Br, Ciro Cirillo. Sta parlando dei suoi rapporti, dei legami fitti che ebbe con Vincenzo Casillo, l’uomo che da latitante portò i Servizi segreti italiani a parlare in carcere con Cutolo, proprio in occasione della trattativa. E soprattutto, le sue dichiarazioni e le domande dei pubblici ministeri toccano anche un caso doloroso che potrebbe essere riaperto: l’assassinio dell’allora (instancabile) commissario di polizia Antonio Ammaturo, ucciso dalle Br il 15 luglio 1982 in piazza Nicola Amore. Con lui cadde anche l’agente Pasquale Paola. Scotti era inseguito dalle forze dell’ordine italiane da oltre sei lustri. Per molti segugi della polizia e dei carabinieri era diventato, ormai, un’ossessione o un fantasma. Sembrava scomparso per sempre. Poi la svolta, oltre un anno fa. Grazie a un’intuizione della squadra Mobile di Napoli, e alla collaborazione dello Sco con l’Interpol. Scotti viene catturato dopo ben 31 anni di latitanza, dalla polizia, in Brasile. Ma lui si chiama Francisco de Castro Visconti e ha documenti in regola. Ma ovviamente non ha più quel volto, non mette piede più in Italia, ha lasciato che sua madre morisse - nell’hinterland napoletano - davanti alla sua immagine in fotografia, non ha più rivisto i familiari «ma non è che avevo proprio reciso tutti i legami. In realtà li sentivo solo per telefono - è il riassunto delle sue parole - ogni tanto, a distanza di mesi, entrando in qualche cabina telefonica, mai la stessa, dal Brasile». Viene poi estradato e atterra in Italia nel marzo scorso. Scotti era apparso subito come un ex padrino tormentato. In lacrime, la barbetta e gli occhiali che potevano simulare l’identikit di un calmo uomo d’affari, aveva subito detto ai poliziotti: «La mia vita è distrutta, io non sono più quello che cercate voi». Da subito era apparso deciso a valutare l’idea di offrire i suoi ricordi, la sua memoria di killer, faccendiere, oggi mega imprenditore sud americano, alla giustizia italiana. Ma dopo molti boatos, ora la conferma: i suoi familiari a Casoria, e nell’hinterland napoletano, sono stati raggiunti dalla comunicazione di dover cambiare luogo e vita. Non tutti hanno accettato. Un altro problema da gestire. Mentre ciò che di prezioso può offrire Scotti, stando alla visione della Procura antimafia, è soprattutto «il legame tra il mondo criminale e quello del terrorismo», oltre che della politica inquinata. Ha raccontato subito anche della sua evasione dall’ospedale Civile di Caserta nel 1984. Dichiarazioni secretate. Il boss Scotti ha parlato molto, in carcere, stando alle indiscrezioni, dinanzi alla pm Ida Teresi e al procuratore aggiunto antimafia Giuseppe Borrelli. «Io non ho giustificazioni per quello che ho fatto negli anni Ottanta», questo è in estrema sintesi il suo incipit. E questo il senso delle sue prime parole: «Io non cerco alibi e non cerco scuse. Sono stato un uomo, in quel tempo con Cutolo. Ma ora sono un’altra persona. Ho fatto un’altra vita, mi sono dedicata a un lavoro, ho una moglie, una famiglia e mille altri interessi. Ma non voglio sfuggire a nessuna delle mie responsabilità». Fino a che punto? Questo sarà lo Stato italiano a valutarlo. La partita, con una delle menti più astute e abili - non a caso sopravvissuta a tante Repubbliche - è appena cominciata.
Moro, l’ultima verità di Cutolo: «Potevo salvarlo, Gava ci fermò». Il boss camorrista ai pm: «Era pronta un’irruzione con uomini armati poi da Roma arrivò un contrordine. La verità su Moro non si saprà mai», scrive Giovanni Bianconi il 26 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Non per fare il buffone, ma Aldo Moro lo potevo veramente salvare. Allora, con la mia organizzazione, eravamo fortissimi, anche su Roma». Poi però, proprio da Roma, arrivò il contrordine, recapitatogli da Enzo Casillo, il «braccio destro» latitante che circolava con una tessera dei servizi segreti in tasca: «Mi disse che i suoi amici avevano detto di farci i fatti nostri, di non interessarci di Moro... Erano politici di alto grado... La Democrazia cristiana, comunque...». Ma chi, in particolare? «Mi sembra di parlare male, adesso che è morto. Gava, comunque». Il salto all’indietro di Raffaele Cutolo, settantacinquenne boss della Nuova camorra organizzata detenuto dal 1979, si arricchisce di nuovi particolari. E nell’ultimo interrogatorio, reso tre mesi fa ai pubblici ministeri di Roma, sostiene che a bloccare l’intervento per liberare il presidente della Dc sequestrato dalle Brigate rosse, nella primavera del 1978, fu nientemeno che Antonio Gava, leader democristiano di sangue partenopeo e futuro ministro dell’Interno. Glielo rivelò Casillo in persona, «che a me mi doveva dire tutto, ogni virgola». A seguito di quell’avvertimento, il progetto messo a punto dal capo camorrista si bloccò: «Era un piano semplice, uomini dell’organizzazione si sarebbero portati, armati, presso l’appartamento, visto che solo 4-5 persone vigilavano sul covo di Moro». Un’irruzione «di forza... stavano al pianterreno», afferma Cutolo. La strategia l’aveva studiata insieme a Nicolino Selis, un malavitoso della banda della Magliana conosciuto in carcere e in seguito promosso a suo capozona su Roma. Era stato proprio lui a fornirgli le prime informazioni sulla prigione del presidente democristiano: «È venuto a trovarmi ad Albanella (paese in provincia di Salerno dove Cutolo s’era rifugiato e fu arrestato nel 1979 ndr), e mi disse se mi interessavo a Moro perché lui, non volendo, stava proprio latitante, con la sua fidanzata, dove stava Moro. Nello stesso palazzo». È una storia già raccontata oltre vent’anni fa, sulla quale non sono mai stati trovati riscontri attendibili, che il boss ribadisce dopo che nel settembre scorso un paio di collaboratori della nuova commissione d’inchiesta sul caso Moro sono andati a trovarlo in carcere. In quell’occasione Cutolo avrebbe aggiunto di poter chiarire altri misteri sul sequestro e l’omicidio del presidente dc, e così il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino e il sostituito Eugenio Albamonte sono andati a sentirlo nel carcere di Parma, il 25 marzo scorso. Ne è venuto fuori un verbale, ora a disposizione dei commissari, nel quale il boss ripete la stessa versione, comprensiva del fatto che poco dopo la notizia avuta da Selis, il suo avvocato Francesco Gangemi (democristiano) gli chiese di acquisire notizie sulla prigione di Moro. Cutolo replicò di voler incontrare l’allora ministro dell’Interno Cossiga, che declinò l’invito: «Fu l’unico a comportarsi bene, nel senso che disse “io non lo posso incontrare perché sennò lo devo fare arrestare, però se si interessa vediamo quello che si può fare”» . Poi arrivò Casillo a fermare tutto, e Cutolo dovette spiegarlo a Gangemi: «Piangeva, diceva se potevo fare qualcosa, ma io non ho fatto più niente. Questa è tutta la situazione». Un copione che più o meno coincide con ciò che hanno raccontato i pentiti di mafia, da Tommaso Buscetta in giù, sull’intervento di Cosa nostra: richiesta di liberare Moro fermata da un successivo ripensamento in casa democristiana. Tre anni più tardi, durante il sequestro dell’assessore campano della Dc Ciro Cirillo, con Cutolo già in carcere, le cose andarono diversamente: trattativa e rilascio dell’ostaggio, senza blitz ma grazie a un sostanzioso riscatto. «L’ho salvato, e per premio mi mandarono all’Asinara», si rammarica ora Cutolo. Secondo il quale per liberare Cirillo andò a trovarlo in galera anche Adalberto Titta, un misterioso ufficiale dell’Aeronautica, ex repubblichino, considerato il capo di un servizio segreto parallelo e clandestino: «Mi disse anche il fatto dell’aereo di Ustica... “Lì, dice, è successa una guerra stellare”... Ma più che altro veniva per Cirillo, a implorarmi, perché dice che Cirillo, se stava ancora prigioniero, parlasse di tante cose della Dc». Gli emissari della commissione Moro l’avevano sollecitato su altri particolari, ma il boss risponde solo con qualche «sentito dire», ad esempio sui contatti tra brigatisti e ’ndranghetisti «per avere armi». Di ulteriori segreti non c’è traccia, Cutolo non ne ricorda: sebbene «allora io ero all’apice, mi dicevano tutto, ogni cosa che succedeva... Se sapessi altre cose le direi, perché non ho niente da perdere né da guadagnare. Anzi, da guadagnare per aiutare la famiglia Moro a scoprire la verità, ma penso che non si scoprirà mai... Perché, come si dice, quando ci sono implicate persone molto in alto... la puzza più in alto è e più si sente. Non l’hanno voluto salvare, questo ve lo posso dire».
La verità di Cutolo: "Pronto a collaborare, vi svelerò i segreti del sequestro Moro". L'ex capo della Nuova camorra organizzata, 13 ergastoli, da 23 anni in regime di 41 bis, ha iniziato a parlare da due mesi. E le sue rivelazioni si annunciano esplosive, scrive Paolo Berizzi il 17 novembre 2015 “La Repubblica”. Nessun pentimento ("solo davanti a Dio"). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre - 34 anni in isolamento, 23 in regime di 41 bis -, Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in gran segreto, nel carcere di Parma, dove l'ex capo della Nuova camorra organizzata ha appena compiuto 74 anni. Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto - a sorpresa - di essere interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni - il verbale è stato secretato - le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Ma vediamo, con ordine, quello che è successo nel carcere di Parma. Siamo all'inizio di settembre: l'Italia e l'Europa sono alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata Iacone nell'unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo. L'ex boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: "Mi hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato", dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. "Cutolo dica quello che sa e sarà valutato, siamo pronti a indagare", lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che eloquente, rivolto a "don Raffaele" affinché potesse prendere in considerazione l'idea - sempre parole di Roberti - di fare "seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle dichiarazioni concrete". Perché, è il ragionamento, "la possibilità di uscire dalla condizione del 41bis dipende soltanto da lui...". Lui, Cutolo. Torniamo dunque a settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel '94 - morta sul nascere - l'ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro. Chiede di essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive - di persona o attraverso il proprio legale - al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri, luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali di Cutolo, l'avellinese Gaetano Aufiero. Il carabiniere chiede se all'interrogatorio richiesto dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14 settembre 2015. Nel carcere di via Burla - dove sono reclusi tra gli altri anche i super boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest'ultimo appena trasferito in Sardegna), il "Nero" Massimo Carminati e Marcello Dell'Utri - Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che finiscono in un verbale. È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e annunciati all'ufficio di presidenza. Si legge nell'elenco: "Verbale di riversamento di files audio su supporto informatico relativi all'escussione del detenuto Cutolo Raffaele, avvenuta il 14 settembre 2015". Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 21-09-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti c'è un particolare che balza all'occhio: il verbale relativo all'interrogatorio di Cutolo è segreto. Di più. Dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri che collaborano con la commissione, il 316/1 è l'unico secretato. Gli altri sono tutti liberi o, al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l'ex capo della Nco? Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di totale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito "usato e abbandonato"? Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell'ex assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi liberato - secondo una sentenza passata in giudicato - "alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo". Tredici ergastoli, record italiano di lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un'intervista a Repubblica nel 2006: "Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio... ".
Moro, Cutolo e le BR, quanti dubbi. Le nuove rivelazioni di Raffaele Cutolo sul caso Moro si aggiungono a cataste di fascicoli contenenti particolari e testimonianze raccolte in quasi 40 anni di storia italiana, scrive Marzio Di Mezza il 21 novembre 2015 su blastingnews.com. Gero Grassi, parlamentare Pd e componente della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, sgombra subito il campo da dubbi: “Siamo stati noi a volerlo interrogare”, cosa che è avvenuta il 14 settembre scorso, nel carcere di Parma. Grassi e la commissione parlamentare, tassello dopo tassello, stanno cercando di ricomporre il mosaico che dovrebbe restituire una immagine un po’ più chiara di ciò che avvenne prima, durante e dopo il rapimento dello statista italiano. “Nell'interrogatorio di Parma – riferisce -, Cutolo ha detto delle cose ma il contenuto di qualche articolo che è stato pubblicato in questi giorni è parzialmente falso”. Cosa ha detto l’ex boss? “Sostanzialmente che il rapporto tra Br e Ndrangheta era precedente al caso Moro e ci fu un passaggio di armi, dalla organizzazione mafiosa a quella terroristica. E questa cosa è veritiera perché nel corso delle nostre indagini sulla vicenda Moro, la presenza della Ndrangheta si riproduce più volte”. Cutolo parla, poi, del ruolo di Giuliano Granata, scomparso qualche anno fa, all'epoca dei fatti avvocato e sindaco di Giugliano, il quale “gli avrebbe detto per nome e per conto di qualcuno, forse Gava, di cercare Moro. Cutolo, sempre secondo la sua versione, tramite Enzo Casillo e Nicolino Selis, lo avrebbe trovato Moro nella prigione di via Montalcini e si sarebbe preparato all’attacco per liberarlo ma sarebbe stato fermato dai due che gli avrebbero detto ‘lascia stare perché non lo vogliono vivo’. Al di là di queste cose che dice, la cosa seria, reale, è che uno dei suoi uomini fidati, Casillo, era un uomo dei Servizi, infatti qualche anno dopo, quando fu ritrovato morto, aveva addosso la tessera dei Servizi”. Sui presunti rapporti tra criminalità organizzata e Servizi deviati c'è anche una pagina su Wikipedia. Intanto nella seduta del 17 novembre, 3 giorni dopo l'interrogatorio di Cutolo, la commissione presieduta da Giuseppe Fioroni, verbalizza l'invio di documentazione segreta alla DNA e alla Procura di Roma. Ma quale può essere la qualità delle rivelazioni di un uomo dal profilo criminologico tendente all'egocentrismo, al fanatismo? Per la criminologa Caterina De Falco, il profilo di personalità di Cutolo si presta a varie riflessioni. “Megalomane, narcisista, va a vivere in un castello, impone una rottura nelle dinamiche della gestione degli affari criminali. Anche la guerra con Alfieri rappresenta il suo voler sfidare e voler affermare il proprio potere, su territori sempre più vasti e su affari sempre più importanti. La criminalità organizzata è molto cambiata a partire da lui, un personaggio che ha voluto molto apparire e che ha avuto un continuo bisogno di specchi umani in cui riflettersi”. Caterina De Falco è Responsabile dell'area di Scienze criminologiche della Scuola bruniana di formazione e di aggiornamento forense dell'Ordine degli Avvocati di Nola. Premette che le sue considerazioni si basano su ciò che si conosce di Cutolo, che è pubblico. “Chiaramente la mia conoscenza del soggetto è limitata – precisa -penso che una anamnesi familiare potrebbe definire l’origine della sua personalità narcisistica. Anche questa dichiarazione potrebbe rappresentare la sua necessità di farsi notare, ogni tanto dice qualcosa, pur essendo consapevole che da quel regime detentivo non potrà uscire, rompe il silenzio per attirare l’attenzione mediatica. E’ pur vero che nel periodo a cui si riferisce, c’è stata una commistione tra poteri criminali e Servizi deviati, lo abbiamo visto per la Banda della Magliana ed è probabile che questo possa essere accaduto anche con la Camorra e, dunque, ci fa apparire un po’ più credibile l’ipotesi che Cutolo possa effettivamente sapere qualcosa del rapimento Moro". Ma altri elementi alimentano dubbi sulle sue affermazioni.
Raffaele Cutolo, i segreti del boss. Cutolo è una bomba pronta a esplodere. Dal caso Cirillo fino al sequestro Moro. Sullo sfondo i contatti con la Dc. I ricordi occulti che fanno tremare la politica, scrive Enzo Ciaccio su "Lettera 43" il 03 Marzo 2015. Ha ribadito che se lui raccontasse i segreti che sa «ballerebbero le scrivanie di mezzo parlamento». Perché, ha aggiunto, «molti di quelli che in parlamento ci stanno adesso ce li hanno messi quelli che allora venivano a pregarmi». E ancora, quasi in un grido: «Mi hanno tumulato vivo: sanno che, se parlo, cade lo Stato». Parole di cemento. Anatemi al veleno. Ma quanto c’è di vero, allarmante, pericoloso nelle sue minacce? E quanto di quel che dice, invece, è frutto di una frustrazione profonda, sedimentata e imbarbarita nei decenni di reclusione e spietato isolamento? Per alcuni, Raffaele Cutolo, 73 anni, licenza elementare, ex vinaio, falegname, autonoleggiatore ed ex boss indiscusso della cosiddetta Nuova camorra organizzata (la banda di malavita che tra gli Anni 70 e 80 spadroneggiava in Campania), è solo «un uomo ormai anziano e psichicamente svanito», con 13 ergastoli da scontare, in carcere a regime di 41 bis dal 27 aprile 1963 (tranne una breve evasione dal manicomio giudiziario di sant’Eframo a Napoli), fiaccato nel fisico, nel morale e nella mente «e non più in grado di ragionare con giudizio e serenità»: per i suoi denigratori, insomma, Cutolo è ridotto a una sorta di larva umana, «uno che spesso non sa neanche più quel che dice». Per altri, invece, ‘O professore (come era chiamato dai suoi affiliati, che raggiunsero negli Anni 80 la dimensione di un vero e proprio esercito da 7 mila unità, armato, compatto, pronto alle stragi ma anche a una sorta di welfare ante-litteram che garantiva stipendi e servizi sociali) non è affatto un relitto umano che va delirando, ma «un capo criminale in piena efficienza, che conserva nella mente lucidissima la memoria di molte tra le malefatte che la classe politica di quegli anni avrebbe consumato in tema di business da dopo-terremoto, rapporti inconfessabili con la malavita organizzata, patti irriferibili con le organizzazioni terroristiche dell’epoca, le Brigate rosse più di tutte». Cutolo, secondo chi lo ha ben conosciuto, non possiede da qualche parte a Ottaviano (il suo paese natale, nel cuore dell’area vesuviana) o altrove archivi segreti né esplosivi elenchi “dei cattivi e dei buoni”. «Ma», fanno notare gli inquirenti, «il fatto di non aver conservato mai carte che scottano non vuol dire che il boss non ricordi eventi, malefatte, nomi e cognomi specie di coloro che gli hanno procurato del male o gli hanno in passato elargito promesse che poi non sono state mantenute». «Il film della sua vita», ricorda chi lo ha conosciuto, «è come se ce lo avesse stampato nella testa, anzi nella memoria che - nonostante la prigionia - si mantiene viva e in salute». Al contrario di altri boss, grafomani fino al parossismo, don Raffaele non ha mai esagerato con lettere, pizzini, diari, memoriali o altro. Le parole scritte le ha riservate - con pudore - ai dialoghi con la moglie Immacolata, sposata quando era già in carcere, o con la figlia Denise, avuta grazie all’inseminazione artificiale. Il boss, da uomo di campagna diffidente e introverso, ha sempre nutrito inimicizia istintiva per la parola scritta, tranne quando l’ha utilizzata per scrivere le sue poesie d’amore di cui è orgoglioso (e - dicono - assai geloso). Per il resto, ha sempre evitato il più possibile di mettere nero su bianco, ritenendo la parola scritta «arma che tradisce» e dalla quale - una volta vergata - non è possibile recedere. Una sola eccezione l’ha fatta per le lettere spedite a una giornalista di Ottaviano, Gemma Tisci, nel corso della prigionia, da cui è scaturito un libro. «Per il resto», raccontano in Paese, «Cutolo tiene tutto a mente e ha sempre consigliato ai suoi, e perfino alla sua amatissima sorella Rosetta, che gli ha tenuto per decenni il controllo degli affiliati e degli affari, di scrivere il meno possibile, compresi gli elenchi (cifrati) dei detenuti amici cui spedire i soldi per l’assistenza alle famiglie». Secondo gli inquirenti, è proprio tale connotazione «tutta orale» ma capace di rimandare a prove e inconfutabili riscontri a rendere un «fantasma» come Cutolo particolarmente «pericoloso» per chi ha tramato con lui e ora ha da temere dalle sue eventuali accuse: il boss è in carcere da decenni, ma fuori del carcere (o dentro) non esistono archivi da sequestrare, elenchi in cui spulciare, documenti riservati da far scomparire, carte in cui rubare verità mai rese note. Nulla. Contrariamente a Francesco Schiavone, il boss pentito dei Casalesi morto il 22 febbraio di cui i magistrati stanno ora sequestrando le carte segrete, non c’è nulla di scritto su quello che il boss Cutolo ha combinato nella sua vita o su quello che gli altri hanno combinato con lui né su ciò che lui sa e può decidere di dire ad alta voce su coloro che lo hanno incrociato nel tempo, malviventi, manager e uomini politici di basso, medio e altissimo livello compresi. La vicenda “politica” più rilevante in cui Cutolo ha di sicuro svolto un ruolo illegale ma di primaria importanza (come ha dimostrato il giudice Carlo Alemi) è la cosiddetta trattativa avvenuta nel carcere di Ascoli Piceno nei giorni del sequestro dell’assessore regionale campano all’urbanistica Ciro Cirillo, consumato nel 1981, cioè nel periodo più incandescente del business da dopo-terremoto. In quel carcere, in visita al detenuto Cutolo - ritenuto in grado di far da mediatore tra lo Stato e le Brigate rosse per l’eventuale liberazione dell’assessore rapito - si recarono numerosi esponenti di spicco della Democrazia cristiana dell’epoca, nonché parecchi personaggi minori che parlavano (e trattavano) con il capo camorra a nome di leader del calibro di ministri come Antonio Gava, Giulio Andreotti, Enzo Scotti e tutto il gotha del Potere politico e partitico dell’epoca. Con loro, a suggellare i dettagli e le modalità del “patto”, erano presenti esponenti dei Servizi segreti nonché alti gradi delle Forze dell’ordine, rigorosamente non in divisa. Il nome di Cutolo, però, è comparso anche in relazione a presunte trattative tra lo Stato e le Br che sarebbero avvenute ai tempi del sequestro di Aldo Moro, nel tentativo di giungere alla sua liberazione. Si sta raccontando di vicende, come è noto, che risalgono a più di 30 anni fa: molti, ma non tutti, fra i personaggi dell’epoca non ci sono più. Altri sono ormai scomparsi dalla scena politica nazionale e locale. Ma è vero - come Cutolo ha ribadito più volte - che rigagnoli di bugie e di sangue, omissioni, ombre e misteri collegano quei giorni di trame, scambi e promesse mancate all’attualità politica che invece preferirebbe ignorarne i contorni: «In parlamento», fa notare più di un osservatore, «oggi siedono molti figliocci, nipoti e nipotini ideologici di quei leader che nel segreto del carcere di Ascoli (e nei giorni del sequestro Moro) patteggiarono con il ras di Ottaviano pur di salvare la vita all’assessore Cirillo e al leader Dc». Che cosa patteggiarono? Quante delle promesse fatte a Cutolo e ad altri malavitosi sono state poi mantenute? Di quante la comunità ne paga, senza saperlo, ancora oggi il prezzo? A proposito di Cirillo, l’ex assessore è un altro dei protagonisti dell’epoca che finora si è ben guardato - nel corso delle centinaia di interviste concesse - dal raccontare qualcosa dei suoi segreti e della torbida vicenda del sequestro. Cirillo, però, ha di recente fatto sapere di aver consegnato a un notaio un dossier che racconterebbe la sua verità. Per il resto, silenzio, connivenze, distrazioni, misteri. E bocche cucite. Cutolo, che di scritto non lascia nulla (tantomeno nelle mani di un notaio) ma ricorda e fa capire di avere le prove di tutto, fa paura proprio per la sua estrema, spaventosa volatilità. ’O professore è come una bomba, che può esplodere quando vuole, ed è senza disinnesco. Oppure, può restare lì: immota, inerte, silente, in apparenza innocua. Ma fino a quando, chi può saperlo?
La versione Cutolo sul caso Moro: "Rapito con le armi della 'ndrangheta". Le rivelazioni dal 41 bis dell'ex capo della Nuova camorra organizzata: "Patto in carcere tra le Br e le cosche calabresi", scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica” il 18 novembre 2015. Nessun pentimento ("solo davanti a Dio"). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre - 34 anni in isolamento, 23 in regime di 41 bis -, Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in gran segreto, nel carcere di Parma, dove l'ex capo della Nuova camorra organizzata ha appena compiuto 74 anni. Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto - a sorpresa - di essere interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni - il verbale è stato secretato - le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Ma vediamo, con ordine, quello che è successo nel carcere di Parma. Siamo all'inizio di settembre: l'Italia e l'Europa sono alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata Iacone nell'unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo. L'ex boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: "Mi hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato", dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. "Cutolo dica quello che sa e sarà valutato, siamo pronti a indagare", lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che eloquente, rivolto a "don Raffaele" affinché potesse prendere in considerazione l'idea - sempre parole di Roberti - di fare "seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle dichiarazioni concrete". Perché, è il ragionamento, "la possibilità di uscire dalla condizione del 41bis dipende soltanto da lui...". Lui, Cutolo. Torniamo dunque a settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel '94 - morta sul nascere - l'ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro. Chiede di essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive - di persona o attraverso il proprio legale - al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri, luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali di Cutolo, l'avellinese Gaetano Aufiero. Il carabiniere chiede se all'interrogatorio richiesto dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14 settembre 2015. Nel carcere di via Burla - dove sono reclusi tra gli altri anche i super boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest'ultimo appena trasferito in Sardegna), il "Nero" Massimo Carminati e Marcello Dell'Utri - Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che finiscono in un verbale. È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e annunciati all'ufficio di presidenza. Si legge nell'elenco: "Verbale di riversamento di files audio su supporto informatico relativi all'escussione del detenuto Cutolo Raffaele, avvenuta il 14 settembre 2015". Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 21-09-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti c'è un particolare che balza all'occhio: il verbale relativo all'interrogatorio di Cutolo è segreto. Di più. Dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri che collaborano con la commissione, il 316/1 è l'unico secretato. Gli altri sono tutti liberi o, al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l'ex capo della Nco? Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di tolale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito "usato e abbandonato"? Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell'ex assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi liberato - secondo una sentenza passata in giudicato - "alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo". Tredici ergastoli, record italiano di lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un'intervista a Repubblica nel 2006: "Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio... ".
Il lato oscuro del Paese nei segreti del professore. Cutolo riapre il caso Moro, scrive il 18/11/2015 Bruno De Stefano su “Metropolisweb”. Perché non ha mai collaborato con lo Stato? Perché non ha voluto contribuire a sciogliere quel grumo di misteri che ha accompagnato prima la sua irresistibile ascesa e poi il suo rapido declino? Perché si è negato la possibilità di trascorrere la vecchiaia lontano dal 41 bis per godersi la moglie e la figlia? Perché, restando in silenzio, ha consapevolmente allungato il collo sotto quella ghigliottina rappresentata da 13 ergastoli? Da sempre Raffaele Cutolo si porta appresso un grappolo di interrogativi quasi tutti senza risposta. Almeno fino a ieri, quando il quotidiano “la Repubblica” ha raccontato che l’ex boss di Ottaviano, feroce capo della Nuova camorra organizzata attualmente al carcere duro nel penitenziario di Parma, ha aperto il suo scrigno di segreti per svelare ciò che sa sul sequestro di Aldo Moro, lo statista democristiano rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978 e poi assassinato 55 giorni dopo, all’alba del 9 maggio. Il “professore”, così come lo chiamavano in tanti, non sarebbe però diventato un collaboratore di giustizia, categoria che ha sempre disprezzato perché, parole sue, «è immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dello Stato», aggiungendo di essersi «pentito davanti a Dio e non davanti agli uomini». Non è la prima volta che il nome di Cutolo cammina parallelamente a quello di Moro, anzi. Negli anni scorsi proprio l’ex boss aveva sostenuto di essersi interessato, su sollecitazione del suo avvocato Francesco Cangemi, alla trattativa per la liberazione dello statista democristiano. Attraverso esponenti della Banda della Magliana sarebbe venuto a conoscenza del covo in cui le Br tenevano Moro prigioniero; dopo aver ottenuto rassicurazioni da alcuni esponenti politici - avrebbero alleggerito la sua detenzione in cambio dell’indirizzo del covo - Cutolo aveva dichiarato di aver ricevuto un avvertimento dal suo braccio destro, Vincenzo Casillo: «C’è chi non vuole la liberazione di Moro, i nostri referenti politici hanno detto che devi farti gli affari tuoi». Dettaglio non trascurabile: Casillo è morto dilaniato da un’autobomba nel 1983, l’avvocato Cangemi ha sempre negato di aver palato di Moro con il suo cliente. Quindi non ci sono conferme a questa versione. Ora si scopre che il fondatore della Nco ha fornito nuovi elementi che sarebbero stati secretati. Dunque, almeno stavolta le sue parole vengono ritenute attendibili. Detto questo, è il caso di porsi delle domande. Quesiti suggeriti dall’imperscrutabile comportamento che Cutolo ha tenuto da quando è finito in galera. Come mai, ad esempio, ha deciso di parlare proprio ora che ha 74 anni e un fisico sfibrato da una serie di malanni? Per quale oscura ragione ha deciso di sbriciolare quel muro del silenzio dietro il quale si è nascosto per decenni, irrobustendolo ogni tanto con ambigue allusioni, tipo “se esco e parlo, crolla il Parlamento»? Addentrarsi in suggestive dietrologie è tempo perso, meglio affidarsi a fatti concreti, ad uno in particolare. Non è la prima volta che Cutolo compie un passo in avanti verso lo Stato. Più di vent’anni fa, infatti, il camorrista di Ottaviano aveva deciso di collaborare con i magistrati ed aveva anche verbalizzato alcune dichiarazioni. A raccontarlo è stato Franco Roberti, attuale capo della Direzione nazionale antimafia e per lungo tempo pubblico ministero a Napoli. Cinque anni fa, il magistrato svelò che l’ex boss aveva deciso di vuotare il sacco, ma che poi innestò la marcia indietro proprio mentre era pronto il trasferimento in una località protetta. Sostenne di non voler più pentirsi perché le sue donne, cioè la moglie Immacolata Iacone e la sorella Rosetta, gli avevano detto di non farlo. Una spiegazione che non hai mai convinto Roberti, secondo il quale «Cutolo indietreggiò sulla strada del pentimento perché fu minacciato dai servizi segreti». Un’affermazione piuttosto impegnativa pronunciata da un magistrato di primissimo piano. E allora, dunque, come mai proprio adesso l’ex boss è tornato, seppur parzialmente, suoi passi? E perché, infine, non parlare invece della trattativa per l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Br nell’aprile del 1981 e poi liberato al termine di un oscuro e ripugnante mercanteggiamento tra Dc, pezzi dello Stato e camorristi?
Raffaele Cutolo voleva pentirsi, ma fu minacciato dai servizi segreti, scrive il 06/03/2010 “Metropolisweb”. Si era aperta una crepa nella coscienza di Raffaele Cutolo, era stato ad un passo dal raccontare i retroscena degli orrori della faida degli anni Ottanta, poi, la decisione di tirarsi indietro quando era già stato avviato un imponente servizio di protezione. “Le mie donne mi hanno detto di non pentirmi”, disse allora il professore della Nco, “in realtà Cutolo ebbe pressione da parte dei servizi segreti”. A raccontarlo è il procuratore capo della Repubblica di Salerno, Franco Roberti. Allora, il pm Efra magistrato in servizio alla Dda di Napoli. Era quasi riuscito nell’impresa più ardua degli ultimi trent’anni, far parlare il boss che fondò una delle organizzazioni criminali più potenti della storia del Mezzogiorno. Cutolo, secondo il racconto che Roberti affida alla stampa questa mattina, era pronto a vuotare il sacco, partendo dalle trattative per la liberazione di Aldo Moro. L’impresa stava riuscendo grazie anche al lavoro del pubblico ministero Alfredo Greco, al quale il superboss aveva sussurrato: “Dottore, da dove dobbiamo cominciare?”. In quei giorni, Cutolo è formalmente indagato per la morte di Salvatore Alfieri, fratello del boss Carmine. E’ recluso nel carcere di Belluno, ma per i primi colloqui è stato trasferito nel penitenziario di Carinola. Non basta, per ascoltare i segreti e gli orrori della cruenta faida degli anni Ottanta si decide che è meglio trasferire il professore di Ottaviano in una struttura militare nel salernitano. Il viaggio è già programmato, ma poche ore prima Cutolo torna sui suoi passi. “Non voglio più collaborare”. Il Pm Greco parte alla volta del carcere di Carinola, viene seguito da un’auto e una moto di grossa cilindrata e capisce che qualcosa non va. Arriva nel penitenziario, ma prima di lui sono arrivati decine di uomini funzionari del ministero. A quel punto, è impossibile convincere il superboss. E quella crepa nella coscienza di Cutolo torna magicamente a richiudersi.
Denyse, 7 anni, scrive al papà Raffaele Cutolo: «Chiedi scusa, così ti fanno uscire», scrive il 18/11/2015 Giovanna Salvati su “Metropolisweb”. «Qualsiasi testo gli venga portato in carcere viene cestinato». Tutto. Tranne quella lettera che ha scritto Denyse, sette anni e due occhi che brillano come stelle. Lei si chiede ingenuamente: «Se papà ha sbagliato basta che chieda scusa, e tutto si risolve». Non è così. E Immacolata Iacone lo sa. L’innocenza della figlia del boss Raffaele Cutolo sta tutta in una considerazione. La speranza della madre, invece, sta nel desiderio di poter invecchiare accanto al suo uomo. Uno che negli anni Ottanta guidava l’esercito di morte della Nuova Camorra Organizzata. Lei sceglie di parlare solo per raccontare un uomo «stanco». Dice Immacolata Iacone: «Ho la possibilità di incontrarlo solo ogni due mesi, ma solo per dieci minuti». Una boccata di ossigeno per il boss che dura seicento brevissimi secondi, nei quali l’ex capo della camorra appare spesso in vestaglia e capelli grigio ben pettinati. «Dieci minuti nella sala dei colloqui per ritrovare la voglia di vivere, o meglio, di sopravvivere». Quando la porta si spalanca, Cutolo incontra sua figlia ed è - racconta Immacolata - una delle poche ragioni di vita». «Il sorriso della piccola gli ridona colore e calore, allora si alza dal letto dove ormai passa le sue intere giornate e il sorriso torna sul suo volto. Raffaele non va nemmeno più a passeggio nell’area riservata ai detenuti al carcere duro, e Denise resta l’unica cosa che gli toglie il respiro. La sua principessa, come dice lui». Denyse ovviamente non sa nulla del passato. Della camorra, del sangue, dei processi, dell’ergastolo, del carcere duro. Non sa del Cutolo da tredici ergastoli, che da 34 anni vive in isolamento e che da 23 vive è al 41 bis. «Le ho raccontato che suo padre è in quell’istituto perchè ha commesso degli errori e lì le persone lo aiutano a non sbagliare più», racconta Immacolata Iacone. «Per Denyse allora tutto diventa un gioco: dai cancelli alle guardie penitenziarie che sorvegliano ogni colloquio». Mentre racconta i suoi brevi incontri con il marito Immacolata china spesso il capo quasi sotto un peso insopportabile. Ottaviano-Parma, e ritorno. Tutto per quei dieci minuti. Ogni due mesi. «Per Raffaele, Denyse è l’unica cosa che conta, però è stanco. Il suo cuore è stanco e malato. Quando andiamo a trovarlo non vuole nemmeno più parlare, vuole solo trascorrere del tempo con la figlia. Io per questo mi sacrifico: non importa che io ci sia, preferisco che stia più tempo con sua figlia, che se la goda, perché è la sua unica medicina che funziona». Immacolata racconta di un uomo stanco e ammalato, che rinuncia anche all’ora d’aria, che «non scrive più una lettera», che non vede da mesi sua sorella Rosetta, che chiede di respirare, che dice di essersi pentito solo davanti a Dio, e che avrebbe raccontato nuovi particolari del rapimento di Aldo Moro. Verbali che, secondo alcuni, potrebbero far tremare i polsi a molti potenti. Ancora oggi. Raffaele Cutolo ha spento le sue 74 candeline in cella il 4 novembre scorso, in isolamento in quella cella dove ormai ha consumato la sua vita da «sepolto vivo» come lui stesso ha dichiarato lo scorso 2 marzo. «Ci sono altri detenuti che sono nel suo stesso regime di detenzione ma a loro almeno è concesso di stare in compagnia, perchè a Raffaele ancora no?», si chiede Immacolata, la moglie del boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo. Un marchio che ancora pesa. In città e fuori. A Ottaviano, a Napoli, in Campania, in Italia. Lei non si meraviglia. Lei questa vita l’ha scelta. E non si è mai lamentata. Tranne per una cosa: «Raffaele Cutolo è stanco, malato, non ha più la forza di combattere contro la sofferenza dell’isolamento. Non ha mai chiesto sconti, semplicemente umanità».
IL SEQUESTRO MORO E COSA NOSTRA.
Sequestro Moro e trattative Stato-mafia: «Quando i servizi segreti ringraziarono il “papa” Michele Greco», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24ore”. E’ di ieri la notizia che il procuratore generale di Roma, Luigi Ciampoli, ha chiesto alla Procura di procedere formalmente a carico di Steve Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato Usa ai tempi del sequestro di Aldo Moro, il politico assassinato dalle Br il 9 maggio 1978. Un lancio Ansa delle 14.26 spiega che nei confronti dell’americano Steve Pieczenik, vi sono «gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio dello statista democristiano». Le presunte responsabilità di Pieczenik vengono messe in luce dal procuratore generale Ciampoli nella richiesta di archiviazione, inoltrata ieri al gip del tribunale di Roma, dell’inchiesta sulle rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei servizi segreti, a bordo di una moto, in via Fani, a Roma, quando Moro fu rapito dalle Brigate Rosse. Il pg ha quindi disposto la trasmissione della richiesta di archiviazione – un documento di 100 pagine – al procuratore della Repubblica di Roma «perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978». La figura dell’esperto Usa – consulente dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga nel comitato di crisi istituto il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Moro e dell’uccisione degli uomini della scorta – è da molto tempo, e da molti, considerata centrale nella vicenda del sequestro e dell’omicidio del presidente della Dc. La procura generale di Roma sottolinea che «sono emersi indizi gravi circa un suo concorso nell’omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le Br, dell’operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, ovvero, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse Br». Secondo Luigi Ciampoli, anche un ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare dell’epoca, il colonnello Camillo Guglielmi, avrebbe dovuto essere indagato con l’accusa più grave di concorso nel rapimento di Moro e nell’uccisione della sua scorta. Nei suo confronti, rileva il Pg, non si può promuovere l’azione penale perché è morto. Guglielmi era finito nelle inchieste sulla strage perché non aveva dato spiegazioni ritenute plausibili dai magistrati sulla presenza in via Fani al momento in cui scattò l’agguato delle Brigate rosse. Del rapimento di Aldo Moro, nel passato, parlarono (e a profusione) anche due pentiti di ‘ndrangheta: Francesco Fonti e Saverio Morabito. Francesco Fonti, nato a Bovalino il 22 febbraio 1948 e morto il 5 dicembre 2012, era un uomo legatissimo alle cosche Romeo e Nirta. Nel 1994 divenne collaboratore di giustizia (seppur tra mille avventure). Nel 2003 consegnò all’allora sostituto procuratore nazionale antimafia Enzo Macrì un memoriale di 49 pagine. Nel 2009 pubblicò il libro “Io Francesco Fonti pentito di ‘Ndrangheta e la mia nave dei veleni, Falco editore”, all’interno del quale un lungo capitolo era proprio dedicato a quel rapimento e al ruolo della ‘ndrangheta. Ma è importante anche ricondursi a quanto ruota intorno all’ex parlamentare Dc Benito Cazora. Tra coloro che ne parlano c’è anche Francesco Di Carlo, pentito di mafia di Altofonte del quale, da giorni, vi sto parlando attraverso le sue dichiarazioni nelle audizioni del processo sulla trattativa Stato-mafia che sta conducendo il pool palermitano (Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia). Nella sua deposizione del 27 febbraio 2014, Di Carlo parla del sequestro Moro sollecitato dal legale del Centro studi e iniziative Pio La Torre, l’avvocato Ettore Barcellona, che ricorda come Di Carlo accennò, in altro procedimento penale, a una riunione della Commissione provinciale sul caso Moro. Di Carlo risponde senza problemi: «Mi ricordo che c’è stato subito un movimento per vedere se potevano fare qualcosa, se ai politici ci interessava. Tutto questo nell’interesse che poi uno li cerca… Che poi se uno fa… Cosa Nostra non fa niente per niente. Una volta che si interessavano, gli avrebbero risolto il problema, poi li avrebbero cercato per tantissime cose. Che già si cercavano, quando era possibile, se noi vediamo nel passato cosa era i processi, se arrivano in Cassazione, se ci arrivavano o meno. E per Moro mi ricordo che sono stati chiamati…A quei tempi c’era Gioia, Lima e qualche altro. Avevamo pure noi il senatore …omissis… che faceva parte della famiglia di Bontate, democristiani tutti, per fare sapere a Roma se avevano bisogno di intervenire per fare liberare Moro. Michele Greco a me personale, perché non lo poteva dire, mi aveva fatto parlare con Peppino, Peppino Santovito, che già dirigeva i servizi a Roma, per vedere se aveva bisogno. I politici avevano fatto sapere che a Roma non ci interessava, perché si voleva fare tramite le Brigate Rosse una pressione dentro il carcere. Ma quando io parlo con il generale Santovito, mi dice: la cosa è più complicata, è un’altra situazione, mi ringrazi a Michele Greco e a tutti. È un’altra cosa, poi un giorno ti spiegherò. Questi i risultati, l’interessamento». Insomma, per come racconta Di Carlo, lo Stato fece a meno anche dell’aiuto di Cosa nostra (come del resto fece con la ‘ndrangheta per come la raccontano i due pentiti calabresi) per salvare Aldo Moro. Solleva l’anima e il cor sapere che non lo fece bruscamente ma con educazione. Ringraziando Michele Greco, detto il “papa” di Cosa nostra.
Roma “Capitale corrotta = Italia nazione infetta”. A 60 anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca, che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi, che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio Olimpico tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline, continuando a mungere affari e stringere alleanze. Quel generone comprendeva un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del “Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare, il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.
1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”. In realtà i “Signori delle tenebre” cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.
La mafia non doveva intercedere per la liberazione di Moro, scrive Rainews24 Martedì 12 Gennaio 2010. Esponenti dei Servizi Segreti fecero pressioni sull'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino perchè, qualora alla mafia fosse stato chiesto di intercedere per la liberazione dell'onorevole Aldo Moro, lui convincesse il boss Bernardo Provenzano a non intervenire. E' una delle rivelazioni contenute nei verbali di interrogatorio di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, depositate agli atti del processo al generale dei carabinieri Mario Mori, ex vicecomandante del Ros accusato di favoreggiamento alla mafia. Interrogato dai pm della dda di Palermo il 21 giugno del 2008, Ciancimino racconta dei rapporti tra il padre ed esponenti dei Servizi. "I rapporti con i Servizi - spiega il teste - mio padre li ha sempre avuti". E prosegue: "I Servizi hanno avuto un ruolo sempre chiave, specialmente dopo il sequestro Moro. La prima volta che si è parlato di Servizi, realmente, all'interno di Cosa Nostra, avvenne nel sequestro di Aldo Moro. Perchè, una volta sempre in occasione di appunti che prendevo per la stesura di questo mio ipotetico libro, mio padre mi disse che era stato pregato per ben due volte, di non dar seguito a delle richieste pervenute per fare pressione su Bernardo Provenzano perchè si attivassero per potere interferire, per quantomeno aiutare lo Stato nella ricerca del rifugio di Moro". Poi spiega meglio: "Mio padre diceva che tali richieste potevano pervenire al suo paesano Riina da altri gruppi o esponenti politici, se ciò fosse avvenuto, mio padre doveva convincere il Provenzano a non immischiarsi in questo affare". Ad ulteriore chiarimento il pm domanda: "Dunque per ben due volte sarebbe stato chiesto a suo padre di intervenire su Provenzano a impedire o ad evitare che vi fossero interventi di Cosa Nostra per liberare Aldo Moro, giusto?". "Perfetto", risponde Massimo Ciancimino. "Un momento in cui ci fu un grande movimento dei Servizi Segreti con mio padre - racconta Massimo Ciancimino - fu nel 1980. Non mi posso scordare: 19 giugno 1980. Mi ricordo che proprio quella sera ci fu la strage di Ustica". "Mio padre - spiega - fu chiamato subito e si incontrò uno o due giorni dopo col ministro Ruffini. Mi disse che era successo un casino e che doveva vedere, fece andare a chiamare l'onorevole Lima, fece andare a chiamare altre situazioni, altri personaggi, e quando ho chiesto a mio padre realmente cosa fosse successo, mi raccontò che già allora, il primo momento, si seppe della storia dell'aereo francese che per sbaglio aveva abbattuto il DC9 e che bisognava attivare un'operazione di copertura nel territorio affinchè questa notizia non venisse per niente". "E qualora ci fosse stato bisogno di interventi di qualsiasi tipo - conclude - loro dovevano poter contare su mio padre". "Loro chi?", chiede il pm al teste. "I Servizi", risponde Ciancimino.
Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia. Nel 1990 vengono ritrovate nel covo milanese delle Brigate rosse 400 pagine risalenti al sequestro che confermano le accuse di Pecorelli. All'interno, la conferma dell'esistenza di una struttura anti-guerriglia segreta e duri attacchi contro l'ex senatore a vita. Una fitta trama di intrighi e omissioni che proseguono lungo tutta la vita del sette volte presidente del Consiglio, dallo scontro con Cossiga alla morte, avvenuta il 6 maggio scorso, scrive Peter Gomez l'11 maggio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Dai primi passi dentro le mura vaticane (con accesso diretto all’appartamento di Pio XII) ai rapporti con Sindona. Dal caso di Wilma Montesi ai presunti contatti con Licio Gelli. E poi Salvo Lima e i boss, Ciarrapico e gli appalti. Una storia politica lunghissima, tutta vissuta nei più importanti palazzi del potere, vedendo scorrere i più clamorosi e misteriosi eventi della storia del Paese. Dal dopoguerra agli anni ’90. Ecco il primo degli appuntamenti con “Andreotti, potere e misteri”: la storia e i segreti del Divo raccontati in quattro puntate dal direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez. Nell’ottobre del 1990, durante i lavori di ristrutturazione di un covo milanese delle Brigate rosse, perquisito 12 anni prima dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vengono ritrovate 400 pagine di documenti risalenti all’epoca del sequestro di Aldo Moro. Si tratta di una ventina di lettere inedite scritte dallo statista assassinato e, soprattutto, di una copia di un suo memoriale già consegnato alla magistratura dai carabinieri nel ’78. A quell’epoca la rivista Op aveva quasi subito ipotizzato che quel documento fosse incompleto. Aveva denunciato la scomparsa delle bobine su cui i terroristi avevano inciso gli interrogatori del democristiano, e aveva intensificato, partendo dal caso Caltagirone, gli attacchi contro Andreotti. Le carte, misteriosamente ritrovate nel ’90, confermano parte delle denunce di Pecorelli. Nella nuova copia del memoriale sono, infatti, presenti brani nei quali viene affrontata la questione dell’esistenza in Italia di una struttura anti-guerriglia segreta(Gladio) e, soprattutto, ci sono alcuni durissimi passaggi riguardanti Andreotti. Moro per esempio parla dello scandalo Italcasse-Caltagirone e sostiene, tra l’altro, che la nomina del nuovo presidente dell’istituto di credito era “stata fatta da un privato, proprio l’interessato Caltagirone che ha tutto sistemato…”. Come era già avvenuto nel caso delle bobine sul golpe Borghese registrate dal capitano La Bruna, insomma, ai magistrati nel ’78 era stato consegnato solo il materiale ritenuto più innocuo. Non è chiaro chi abbia materialmente omissato i memoriali e nemmeno si sa che fine abbiano fatto le bobine con gli interrogatori di Moro. E’ certo, invece, l’assassinio di Dalla Chiesa da parte di Cosa nostra. Una volta andato in pensione il valoroso generale viene, infatti, inviato a Palermo come prefetto antimafia. E lì, abbandonato da tutti e attaccato pubblicamente dagli andreottiani (definiti proprio da Dalla Chiesa in lettera indirizzata a Giovanni Spadolini, “la famiglia politica più inquinata del luogo”), crolla, con la moglie, sotto i colpi dei killer mafiosi. E’ il 3 settembre del 1982. La sua cassaforte sarà trovata vuota. Prima di accettare quell’incarico Dalla Chiesa aveva incontrato, tra gli altri, anche Andreotti. Subito dopo, nel proprio diario aveva annotato: “Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia si è manifesta per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato cui attingono i suoi grandi elettori […] sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione […] il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso…”. Il 12 novembre del 1986, Giulio Andreotti sarà interrogato come testimone al primo maxi-processo alla mafia. Al centro della sua deposizione ci sarà ovviamente il contenuto del diario dell’eroico generale. Che, incredibilmente, Andreotti tenterà di smentire. Per lui Dalla Chiesa si è, infatti, confuso. Andreotti negherà, così, di aver fatto con lui nomi di Inzerillo e di Sindona. E soprattutto sosterrà che il generale non gli disse mai che non avrebbe avuto riguardi per il suo elettorato compromesso con la mafia. Quel giorno, continuando a difendere Lima e tutti i suoi accoliti, Andreotti dimostra però che almeno su un punto Dalla Chiesa davvero sbagliava. Il suo non era stato un errore di valutazione. Era qualcos’altro. Il 27 luglio del ’90, il magistrato veneziano Felice Casson, è autorizzato dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti ad acquisire nella sede del Sismi, documenti relativi a un’organizzazione segreta antiguerriglia destinata ad entrare in azione in caso d’invasione dai paesi del blocco sovietico. Il 3 agosto davanti alla Commissione stragi Andreotti spiega che la struttura è rimasta attiva fino al 1972. Il 12 ottobre viene ritrovato a Milano la copia del memoriale Moro in cui si fanno cenni all’organizzazione. Mentre montano le polemiche sulla strana scoperta, il 19 ottobre Andreotti fa arrivare in commissione un documento, sul frontespizio del quale compare per la prima volta la parola “Gladio”. Leggendo le dodici cartelle i parlamentari scoprono, però, che nel ’72 l’organizzazione non era stata sciolta, solo smilitarizzata e fatta rientrare nei servizi. Bettino Craxi intanto mette apertamente in dubbio le versioni ufficiali sul ritrovamento del secondo memoriale Moro. Parla di “manine e manone” e fa chiaramente intendere che i documenti dello statista (senza omissis) potrebbero essere stati fatti ritrovare apposta. L’indagine della Commissione stragi prosegue. I capi dei servizi rivelano che Gladio è nata almeno nel ’51, quando era presidente del consiglio De Gasperi. Nel ’56 venne firmato un accordo segreto tra Cia e il Sifar in seguito al quale, tre anni dopo, Gladio entrò nelle strutture Nato. Tutti questi passaggi, ovviamente, avvennero all’insaputa del parlamento. Come campo di addestramento dei gladiatori veniva utilizzata la base militare di capo Marrangiu. E’ la stessa struttura dove, nel ’64, il capo del Sifar De Lorenzo aveva progettato di trasferire, in caso di colpo di Stato, tutti gli oppositori politici di sinistra. Andreotti in più interventi difende la legalità della struttura. E lo stesso fa il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, molto coinvolto nell’organizzazione di questi “patrioti”. Cossiga però ipotizza che Andreotti abbia reso nota l’esistenza di Gladio per screditarlo e costringerlo alle dimissioni. Ad avviso del presidente-picconatore, Andreotti ha in mente un solo obiettivo: mandarlo a casa in anticipo e farsi eleggere al suo posto con l’appoggio del partito comunista. Tra Andreotti e Cossiga è scontro aperto. A seguito delle polemiche, nella primavera del ’91, il sesto governo Andreotti cade. Una settimana dopo si arriva al suo settimo e ultimo governo, dal quale escono però i repubblicani. In giugno Andreotti, va in Sicilia per due giorni. Qui sostiene, al fianco di Salvo Lima, i propri candidati alle elezioni regionali. Cosa Nostra è inquieta. La prima sezione della Corte di Cassazione deve decidere le sorti del primo maxi-processo. La presenza di un giudice come Corrado Carnevale, secondo i collaboratori di giustizia, aveva fatto fino allora dormire sonni tranquilli agli uomini d’onore. Ma il nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, adesso aveva accanto a sé al ministero un giudice come Giovanni Falcone. Per le sorti del processo, nella mafia, si cominciava a temere. E non era un errore. Nell’ottobre del ’91, infatti, il presidente della corte di cassazione cambia d’autorità il collegio che giudicherà il maxi. Di lì a tre mesi gli imputati di rispetto saranno tutti condannati. Andreotti invece, a sorpresa, si riappacifica con Cossiga. Il presidente in novembre lo nomina senatore a vita. Il suo governo, cosa mai accaduta prima, adesso combatte seriamente la mafia. Il 12 marzo del ’92, Salvo Lima, il cugino di Sicilia, cade sotto i colpi di Cosa Nostra. Dopo mezzo secolo troppa gente in Italia aveva cominciato a non rispettare i patti. Esplodono di nuovo le bombe. Muore Giovanni Falcone. Muore Paolo Borsellino. La mafia scopre il 41 bis. Piegati dal carcere duro, gli uomini d’onore cominciano a raccontare. Alcuni di loro diranno di aver visto Andreotti da vicino. Altri parleranno per sentito dire. In aula al processo, contro l’ex presidente del Consiglio vengono prodotti e ripetuti decine e decine di verbali. Un fiume di ricordi, un mare di testimonianze che ora è inutile star qui ad analizzare. Perché alla fine, confermato dalla Cassazione, arriveranno un attestato di colpevolezza “fino alla primavera del 1980” e un’assoluzione per i fatti successivi. Abbastanza per salvare l’imputato Andreotti Giulio dalle pene comminate tribunale degli uomini. Troppo poco per evitargli di comparire, da lunedì 6 maggio 2013, davanti a quello della storia.
Un uomo biondo “con gli occhi di ghiaccio”… Novità sul caso Moro? Scrive Nicola Tranfaglia A mano a mano che la nuova commissione parlamentare di inchiesta sul caso riguardante il misterioso rapimento di 55 giorni (seguito dal barbaro assassinio) di Aldo Moro, va avanti nel suo lavoro, emergono particolari e contraddizioni nella complessa storia di quei giorni e di quei mesi che creano nuovi problemi all’insoluta storia dei terrorismi italiani (con forti interventi di altri Stati e di entità più o meno statuali, o di associazioni come la P2 di Licio Gelli e simili) o a quella sempre aperta del rapporto tra le associazioni mafiose e la politica attuale e non c’è quindi da stupirsi più di tanto che, persino in queste calde giornate di metà agosto, si trovino ogni tanto nei lavori parlamentari, e successivamente su alcuni settimanali o in trasmissioni televisive, accenni a storie che riguardano, da una parte, la difficile (o impossibile?) cattura dell’ultimo boss di prima grandezza ancora libero di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, signore e padrone del circondario di Trapani, in Sicilia. Per quanto riguarda, il caso Moro due testimonianze di inquiline di via Fani 96, la via del tragico agguato, la signora Armida Chamoun e la signora Franci hanno spiegato al magistrato Antonio Giammaria che ha presentato pochi giorni una relazione alla commissione parlamentare di inchiesta che nei giorni precedenti il rapimento c’era un continuo controllo da parte di diverse persone e che un uomo e una donna entrarono più volte nel palazzo e nel covo delle Brigate Rosse indossando caschi da motociclisti . E le due testimoni videro un uomo biondo “con gli occhi di ghiaccio” vestito da aviere. Ma dagli atti giudiziari precedenti non risulta che nessuno dei BR arrestati per il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri come affermano le due testimoni. In via Gradoli peraltro fu ritrovato l’elenco con gli acquisti per vestire un aviatore con l’intestazione “Fritz” e il RIS dei carabinieri sta indagando su alcuni reperti della base BR e sul DNA del presidente della DC ucciso. Della signora Franci si sta cercando il verbale della sua prima testimonianza del 1978 che si ha difficoltà a ritrovare e si pensa a un confronto tra le due testimoni e gli altri abitanti di allora perché molto forti restano le contraddizioni che le BR non hanno mai risolto su quei giorni. Il 5 novembre 1995, ad esempio, una delle persone che avevano in precedenza abitato nell’appartamento usato dai brigatisti, Barbara Balzerani, sostiene che la base fu sgomberata il giorno stesso del rapimento ma che non avvenne totalmente: “Ci siamo rientrati soltanto dopo la fine del sequestro, cioè il 9 maggio”. Circostanza peraltro impossibile se si parla dello stesso appartamento scoperto il 18 aprile precedente. Peraltro, sembra riemergere da altre testimonianze che, per un certo periodo, Moro sia stato tenuto prigioniero in via Gradoli, come negli anni medesimi si era ipotizzato, e le ipotesi si collegano a una serie di riscontri che riguardano il camorrista Raffaele Cutolo, Alessandro Ortenzi (vicino alla banda della Magliana) e il medico-nefrologo Giovanni Pedroni, il medico dell’Anello, servizio segreto clandestino. Le altre rivelazioni che riguardano la latitanza del boss di Castelvetrano riguardano i viaggi e gli affari di Messina Denaro e che sono emersi da recenti indagini giudiziarie. “Certamente Messina Denaro può recarsi più facilmente in Sudamerica e in Paesi in cui sono ancora rapporti criminali interni. Penso ai paesi produttori di coca, in particolare Perù e Colombia e non si può affatto escludere che il boss possa contare su alleati e nei servizi e nelle forze dell’ordine, avendo di fronte a noi la storia di un depistaggio su stragi di via d’Amelio e di Capaci che in Italia dura da più di vent’anni. Sembrerebbe azzardato escludere che in Italia ci possano essere forme di tutela attraverso depistaggio o attraverso altre complicità.” Il vicepresidente della commissione, guidata da Rosy Bindi, non esclude anche le complicità in altri paesi europei come la Germania, la Francia e la Spagna. “Denaro ha una proiezione di sé stesso poco tradizionale, molto internazionale e imprenditoriale. Sicuramente i suoi interessi e spostamenti riguardano almeno tre continenti.”
IL SEQUESTRO MORO E LA MASSONERIA.
Dalle carte Moro spunta un dossier sul gran maestro di Piazza del Gesù. Nell'archivio delle carte di Aldo Moro presso l'Archivio centrale dello Stato di Roma, è conservato un appunto riservato del Viminale che dimostra due cose, scrive Alberto Custodero su “La Repubblica il 14 agosto 2014. La prima, l'attenzione che lo statista ucciso dalle Br aveva nel tenere sotto osservazione la massoneria. La seconda, che il ministero dell'Interno vigilava con estrema attenzione le obbedienze. Al punto da redigere un documentato dossier nei confronti del più noto dei gran maestri della massoneria italiana, Giovanni Ghinazzi. Il questore di Bologna ne fa un ritratto inedito, che noi pubblichiamo integrale, dal quale emerge una personalità forse poco conosciuta di quello che è stato per anni il riferimento della massoneria francese al punto che ancora oggi i fratelli di piazza del Gesù vengono soprannominati "ghinazziani". Da allora altre inchieste hanno coinvolto in qualche modo la massoneria, o i fratelli, al punto da indurre i magistrati a battezzare le loro inchieste evocando la loggia di Licio Gelli. Dopo il 2010, ci sono state in particolare le indagini P3 e P4 che hanno in qualche modo chiamato in causa ancora il ruolo delle "obbedienze". Nella vicenda P3 erano stati coinvolti anche il parlamentare del Pdl, Denis Verdini e l'ex senatore Marcello Dell'Utri. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Rodolfo Sabelli ipotizzarono che avevano costituito una "super loggia segreta" divenuta punto di riferimento di imprenditori e politici per "influenzare decisioni politiche, a pilotare processi e a decidere le nomine dei componenti di organi dello Stato di rilievo costituzionale".
Ufficialmente è stato ucciso dalla mafia, come almeno altri due personaggi noti che si occuparono del caso: Boris Giuliano e Carlo Alberto Dalla Chiesa, scrive Gea Ceccarelli su “Articolo 3” dell’aprile 2013. Quest’ultimo, nel particolare, prima di essere ucciso da Cosa Nostra, si era occupato, tra gli altri casi, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, il quale aveva sollevato seri dubbi su ciò che Gladio compieva in Italia, tanto da citare l’organizzazione nei suoi memoriali. E non stupirà sapere che le carte relative al sequestro del politico, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, sparirono inspiegabilmente dopo l’attentato che gli strappò la vita. Dopo Moro e Dalla Chiesa, un altro personaggio si interessò all’unità “stay behind” italiana: Giovanni Falcone. Il magistrato voleva approfondire l’incidenza di Gladio nei delitti politici di Palermo degli ultimi anni, tra cui quello di La Torre, di Reina e di Mattarella. Aveva inoltre supposto che dietro la morte del giornalista Mauro Rostagno potessero celarsi gli agenti segreti, visto e considerato che, durante le sue indagini, il cronista si era imbattuto in verità scottanti riguardo il contrabbando di droga e di armi con l’Africa. Verità talmente sconvolgenti da aver persino richiesto, prima di morire, un colloquio con Falcone, presumibilmente riguardante la base operativa Centro Scorpione, una propaggine di Gladio, a Trapani, creata nell’87. Per l’omicidio di Rostagno, avvenuto nell’88, fu sospettato come mandante il boss trapanese Vincenzo Virga, colui che, pochi anni dopo, fu incaricato dal boss Riina di procurare gli esplosivi per le stragi e da Marcello Dell’Utri di trattare il recupero di un credito di Publitalia con la Pallacanestro Trapani. Lo stesso mafioso è anche mandante della strage di Pizzolungo. E’ interessante notare come Rostagno avesse scoperto casualmente i traffici verso il Continente Nero, laddove, pochi anni dopo, nel marzo 1994, sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose Ilaria Alpi. Inviata in Somalia a seguire in prima persona la guerra civile e per indagare sul traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali, probabilmente scoprì che nella questione erano coinvolti anche i servizi segreti, come confermato successivamente da alcuni pentiti. Altresì, riveste i contorni di oscuro presagio il fatto che, nel novembre precedente, era stato ucciso, sempre in Somalia, l’informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, capo del Centro Scorpione. Scrisse Alfio Caruso: “Che bel mistero quel Centro Scorpione, ufficialmente incaricato di contrastare dal basso Mediterraneo l’arrivo dell’Armata Rossa, viceversa invischiato in combinazioni poco chiare, talmente cieco – ma è possibile? – da non accorgersi che da Trapani per otto anni sono transitati tutti i carichi di missili, di esplosivo, di mine, di granate diretti verso l’Iran e l’Iraq, impegnatissimi a scannarsi vicendevolmente.” Falcone iniziò a sospettare qualcosa. Ritenne che esistessero strutture segretissime all’interno di Cosa nostra “con finalità ancora ignote ma certamente di enorme portata”. Trovò prove inoppugnabili di come la mafia fosse stata interpellata per salvare Aldo Moro, nonché collegamenti tra omicidi celebri e massoneria: su tutti Pierluigi Concutelli, assassino di Occorsio, tessera 4070 della Loggia Camea di Palermo. Ma, quando il giudice provò ad indagare sul Centro Scorpione di Trapani, gli venne impedito. Il procuratore Pietro Giammanco gli comunicò che avrebbe preferito condurre lui quell’inchiesta e il magistrato si trasferì a Roma, divenendo direttore degli affari penali, accettando il posto offerto da Martelli. Non per questo smise di interessarsi a Gladio e al Centro Scorpione. Fu la sua ultima indagine, sebbene non ufficiale. Conservò tutti gli appunti sul suo computer, forse arrivò veramente vicino alla verità. Così tanto che divenne impellente la necessità di eliminarlo. Il 23 maggio 1992, a Capaci, Falcone venne ammazzato e, con lui, la moglie e alcuni uomini della scorta. Nei cieli volava anche un piper sconosciuto, probabilmente dei Servizi. Poche ore dopo, qualcuno s’introdusse nell’ufficio del magistrato e manomise i dati su Gladio.
P2 E DINTORNI. CHI ERA LICIO GELLI?
Chi era Licio Gelli, l'ex "venerabile" della P2. Il gran maestro della loggia massonica, morto ieri, è stato protagonista di una lunga stagione di trame e misteri della storia italiana, scrive "Panorama" il 16 dicembre 2015. Il "burattinaio", "Belfagor", "il venerabile". Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della loggia massonica P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, è morto a 96 anni nella sua dimora storica Villa Wanda, alle porte di Arezzo.
La vita. Nato a Pistoia il 21 aprile 1919, a 18 anni si arruolò come volontario nelle camicie nere di Franco in Spagna. Fu fascista, "repubblichino" e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio. Le di Castiglion Fibocchi.
La massoneria. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia "Propaganda 2", nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi.
I guai con la giustizia. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia.
La condanna. L'11 aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. (ANSA)
A 96 muore Licio Gelli. In Italia non ha mai fatto un giorno di carcere. Scompare l'ex venerabile della loggia P2. E' deceduto a Villa Wanda, ad Arezzo. Condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, dopo essere stato detenuto in Francia e Svizzera era tornato a vivere in Toscana, scrive R.I. su "L'Espresso" il 16 dicembre 2015. E' morto Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2, coinvolto nei misteri più oscuri dell'Italia del dopoguerra. Si è spento alle 23 del 15 dicembre a Villa Wanda, la casa sulle colline di Arezzo. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli fu condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, era tornato a vivere a Villa Wanda. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e i tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali sono previsti giovedì a Pistoia, mentre la camera ardente potrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda. Il «burattinaio», «Belfagor», «il venerabile». Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, a 18 anni si arruolò come volontario nelle «camicie nere» di Franco in Spagna. Fu fascista, repubblichino e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia «Propaganda 2», nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L'11aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex venerabile porta con se nella tomba alcuni dei segreti, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo il 17 marzo 1981, quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di ’grand commis’ aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervaso e Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.
Cia, golpe, esercito e crac: tutti i torbidi segreti che Licio Gelli si porta nella tomba, scrive “Libero Quotidiano” il 16 dicembre 2015. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex "venerabile "porta con se nella tomba alcuni dei segreti più torbidi d’Italia, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo allignato dentro e dietro quello ufficiale il 17 marzo 1981 quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di "grand commis" aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervaso e Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia. Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni. Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.
È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo, scrive Luca Romano Mercoledì 16/12/2015 su "Il Giornale". È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo. Gelli era stato ricoverato recentemente in ospedale. L'ex imprenditore divenuto famoso per la vicenda legata alla loggia massonica P2 si è spento poco prima delle 23 di martedì a Villa Wanda dove risiedeva da anni. Da due giorni le condizioni di salute di Licio Gelli, già precarie, erano fortemente peggiorate tanto da indurre la moglie Gabriela Vasile a ricoverarlo nella clinica pisana di San Rossore da dove era stato dimesso alla fine della scorsa settimana perché giudicato ormai in fin di vita. Dopo un rapido check up all'ospedale di Arezzo che aveva dato lo stesso esito, la famiglia aveva deciso di riportarlo a Villa Wanda dove è spirato. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli è stato condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, si era ritirato nella sua abitazione sulle colline di Arezzo dove è morto. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali si svolgeranno probabilmente giovedì a Pistia, mentre la camera ardente dovrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda.
Licio Gelli e la P2. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981, continua Luca Romano. Condannato per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1982, è stato l'uomo dietro ai grandi misteri d'Italia, il nome dell'ex venerabile - gran maestro della loggia deviata - è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia dello scorso secolo: tentato golpe Borghese, strategia della tensione (strage alla stazione di Bologna in testa), crac Sindona, caso Calvi e Moro, mafia, tangentopoli. Classe 1919, si è spento nella sua villa Wanda (ribattezzata in onore della prima moglie Wanda Vannacci) sulle colline di Arezzo, dove era rientrato dopo un breve ricovero in ospedale. Definito "il burattinaio d'Italia", faccendiere e imprenditore, fu fascista durante il regime e la Repubblica di Salò e, poi, partigiano, quando la vittoria della guerra cominciò a rivelarsi impossibile per i nazi-fascisti. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981. I giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell'ambito di un'inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona (banchiere coinvolto nell'affare Calvi e mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli), fecero perquisire la villa di Gelli e la fabbrica di sua proprietà (la Giole di Castiglion Fibocchi, Arezzo), che portò alla scoperta di una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di funzionari pubblici aderenti alla P2. La scoperta di un potere parallelo, di un altro Stato che controllasse ogni intrigo di potere, fu un terremoto politico, che travolse un pezzo della classe dirigente italiana. Tra le 962 persone inserite nell'elenco vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell'allora governo (Enrico Manca, Psi e Franco Foschi, Dc), un segretario di partito, 12 generali dei carabinieri, 5 generali della guardia di finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti ed imprenditori. Tra i nomi più noti, oltre a Vittorio Emanuele di Savoia, anche il futuro premier Silvio Berlusconi. Nel 2008, in un'intervista a Klaus Davi per Klauscondicio, l'ex venerabile dichiarò: "Con la P2 avevamo l'Italia in mano. Con noi c'era l'esercito, la guardia di finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia". Il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani attese il 21 maggio 1981, prima di rendere pubblica la lista degli appartenenti alla P2. Fu istituita, per volontà della presidente della Camera Nilde Iotti, una commissione parlamentare d'inchiesta, guidata dalla deputata democristiana Tina Anselmi, ex partigiana e prima donna a diventare ministro. La commissione affrontò un lungo lavoro di analisi venendo a scoprire come la P2 fu anche un punto di riferimento in Italia per ambienti dei servizi segreti americani, intenzionati a tenere sotto controllo la vita politica italiana fino al punto, se necessario, di promuovere riforme costituzionali apposite o di organizzare un colpo di Stato. La commissione denunciò la loggia come una vera e propria organizzazione criminale ed eversiva. Fu sciolta con un'apposita legge, la numero 17 del 25 gennaio 1982.
Gelli e i misteri d'Italia. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia, conclude Luca Romano. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 scomparso nella serata di martedì 15 a 96 anni nella sua casa di Arezzo, è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia: dal tentato golpe Borghese a tangentopoli, dalla scalata a gruppi editoriali al caso Moro.
Questo un elenco dei principali fatti che lo hanno visto coinvolto e indagato negli ultimi anni.
- STRAGE DI BOLOGNA (2 agosto 1980 - 85 morti e 200 feriti): assolto definitivamente dall' accusa di associazione eversiva Gelli nel 1994 è stato condannato per calunnia (10 anni) al processo d'appello-bis. Nell'ambito del processo l'ex "venerabile" fu protagonista anche della misteriosa rinuncia all'incarico da parte di uno dei legali di parte civile Roberto Montorzi che abbandonò il collegio dopo due incontri con Gelli a villa Wanda.
- BANCO AMBROSIANO: al processo di primo grado a Milano, Gelli è stato condannato a 18 anni di reclusione per il ruolo avuto nella bancarotta dall'istituto di Calvi (che aveva la tessera n.519 della P2). Il suo nome è da sempre anche al centro delle indagini sulla morte del "banchiere di Dio". Nel processo di secondo grado la pena venne ridotta a 12 anni. Il 6 maggio 1998 Gelli, che doveva scontare la condanna divenuta definitiva, fugge da villa Wanda e si rende irreperibile. Il 10 settembre viene fermato e arrestato a Cannes. Gelli entrò anche nell'inchiesta sull'omicidio del banchiere, ma il procedimento venne archiviato il 30 maggio 2009.
- CONTO "PROTEZIONE": il 29 luglio 1994 Gelli è stato condannato a Milano a sei anni e mezzo, in primo grado, per la vicenda del conto 633369 di Silvano Larini all'Ubs di Lugano, del quale fu trovata traccia nel 1981 a Castiglion Fibocchi con riferimenti a soldi destinati al Psi di Craxi e Martelli. La pena fu ridotta a 5 anni e 9 mesi in appello. La Cassazione decise l'annullamento della condanna per Gelli per improcedibilità dell'azione penale, essendo stata la sua posizione definita nel processo per il crac del Banco Ambrosiano.
- ATTENTATI AI TRENI IN TOSCANA: accusato di aver finanziato le organizzazioni eversive "nere" per gli attentati degli anni Settanta, Gelli è stato prima condannato a 8 anni e poi dichiarato non processabile.
- MAFIA-POLITICA-AFFARI: Gelli era uno dei 126 imputati al processo a Palmi sui presunti collegamenti tra mondo politico ed imprenditoriale e organizzazioni mafiose. Secondo l'accusa, si sarebbe adoperato per "aggiustare" un processo in Cassazione a due presunti mafiosi di Taranto. Venne assolto il 3 marzo 1995 dall' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 1998 è chiamato in causa dal procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli nell'inchiesta Sistemi criminali poi archiviata nel 2000.
- INCHIESTA OPERAZIONI FINANZIARIE: tra il 1993 ed il 1994, Gelli è stato al centro dell'attenzione dei magistrati di Arezzo e Roma per una serie di operazioni finanziarie miliardarie che avrebbe disposto in varie banche. Le indagini sono legate in particolare al fallimento della holding Cgf del gruppo Cerruti. Un ruolo di primo piano nelle vicende è rivestito dall'ex vicepresidente del Csm Ugo Zilletti.
- LEGAMI CON LA CAMORRA: la Dda di Napoli ha indagato sui rapporti tra Gelli ed alcuni esponenti della camorra.
- INCHIESTA CHEQUE TO CHEQUE: Gelli venne iscritto nel registro degli indagati, insieme al figlio Maurizio, nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura di Torre Annunziata (Napoli) in relazione ad un presunto traffico internazionale di armi e valuta. Una trentina le persone arrestate. L'inchiesta venne poi trasferita a Milano.
- CASO BRENNEKE: le presunte rivelazioni fatte al Tg1 dal sedicente ex agente della Cia Richard Brenneke sui rapporti tra servizi segreti Usa e P2, duramente smentite da Gelli, estate del 1990 provocarono tensioni e polemiche, anche per il coinvolgimento dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
- FALLIMENTO DI NEPI: Il 10 giugno 1997 la procura di Roma emette 9 ordini di arresto per il fallimento della holding Di Nepi e di numerose società legate al gruppo. Per Gelli scatta l'obbligo di dimora a Arezzo. Il 18 aprile 2005 venne condannato a 2 anni e 3 mesi di reclusione per associazione a delinquere e bancarotta insieme ad altre 9 persone.
Licio Gelli, quel megalomane di provincia diventato potente per caso. Un uomo bugiardo. Che solo le circostanze, la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti, avevano potuto trasformare in un uomo capace di infilarsi ovunque, dai partiti ai servizi segreti. E all'ombra delle grandi stragi di questo Paese, scrive Marco Damilano il 16 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Gli ho parlato una sola volta, al telefono, più di dieci anni fa. Chiamai il numero della casa ad Arezzo per un'intervista, l'apparecchio suonò un paio di volte, poi qualcuno rispose. «Pronto, vorrei parlare con Licio Gelli», dissi. Dall'altra parte un lungo silenzio, poi quella voce: «Non è in casa». Io, stupito: «Ma scusi, Gelli è lei, la riconosco!». E lui: «No, guardi, non sono io». E mise giù. A me venne in mente che l'attore Alighiero Noschese, il primo imitatore della tv italiana, era stato affratellato alla loggia P2, si diceva che falsificasse le voci nelle telefonate del Venerabile, fingeva di essere un ministro o il presidente del Consiglio. E anche lui all'epoca si era inventato un'altra identità, al telefono si faceva chiamare dottor Luciani, per paura delle intercettazioni. E pensai che questo era, prima di tutto, Licio Gelli. Un bugiardo. Un megalomane di provincia che solo le circostanze - la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti - avevano potuto trasformare in un uomo potente. In vecchiaia si era messo a scrivere versi di dubbio valore letterario ma di sicuro impatto per le cronache: ««Passano gli anni e il tempo affresca le rughe, / scalfisce i segreti remoti che durano nel cuore…». Untuoso, anzi viscido, ogni parola un soffio di ricatto. «Sono il confessore di questa Repubblica», amava vantarsi ai tempi della sua ascesa. Quando arrivava all'hotel Excelsior in via Veneto, si rinchiudeva nelle sue tre stanze, dalla 127 alla 129, e riceveva. I suoi seguaci. I candidati alla loggia. «Il braccio sinistro appoggiato su una scrivania con molti cassetti. Ogni tanto ne apriva uno e tirava fuori qualche fascicolo ben conservato in copertine di cartoncino rosa. Era il suo archivio. Lo faceva intravedere, ora ammiccante ora minaccioso, ai suoi ospiti costretti a sedersi su una poltrona più bassa, tanto per far notare la differenza. Quasi sempre, dopo ogni visita, le cartelline rosa si arricchivano di altri fogli, nuovi segreti», scrivevano Maurizio De Luca e Pino Buongiorno, due giornalisti che non ci sono più, nell'instant-book a più mani "L'Italia della P2" uscito subito dopo la pubblicazione degli elenchi della loggia nel maggio 1981, a tutt'oggi il libro più bello su Gelli e i suoi cari. Generali, ammiragli, direttori di giornale, ministri, segretari di partito. Piccoli uomini, ridicoli e sinistri. Questa era la loggia massonica P2. Nella lista ritrovata a Castiglion Fibocchi erano 962, sfilarono uno a uno a palazzo San Macuto, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi. Nei diari della parlamentare democristiana ci sono gli appunti di quelle audizioni, dove tutti negavano e insieme confermavano. «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». La carriera di Gelli era cominciata nel biennio 1943-45, nel passaggio di regime, al trapasso del fascismo, con la penisola occupata da eserciti stranieri, l'ideale per cominciare una lunga trafila di doppiogiochista. Il giovane repubblichino resta in forza alle SS ma traffica con i partigiani, è un fascista che trama con gli antifascisti, per lui a guerra finita garantisce il presidente comunista del Cln di Pistoia Italo Carobbi: «Il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti». Due righe che valgono un'intera biografia, ricordate dallo storico Luciano Mecacci nel volume-inchiesta sull'assassinio di Giovanni Gentile, intitolato "La ghirlanda fiorentina". Quella pianta intrecciata di fiori secchi, appassiti, putridi che soffoca ogni raggio di luce. La Ghirlanda massonica e piduista cresce negli anni della democrazia, come una radice marcia di un albero rigoglioso, una cellula malata in un corpo sano, nell'oscurità. Gelli entra nella segreteria di un deputato democristiano, diventa dirigente di una nota ditta di materassi, la Permaflex, e in questa veste accoglierà Giulio Andreotti all'inaugurazione dello stabilimento di Frosinone (il Divo lo ricorderà sempre così: «Era uno che vendeva materassi», e via sminuzzando), giura fedeltà alla massoneria, il Grande Oriente. Prospera negli anni Settanta dei misteri e delle stragi, si infila dappertutto: nei partiti, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a Montecitorio, tra gli alti gradi delle forze armate, al comando dei servizi segreti. Controlla le scalate bancarie più prodigiose, da quella di Michele Sindona a quella di Roberto Calvi, destinati a morti tragiche e mai chiarite. È un'ombra nelle più grandi tragedie italiane: la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Si allarga al Sud America, nell'Argentina di Peron e dei generali golpisti. Sogna di riscrivere la Costituzione: il piano di rinascita democratica, i partiti da chiudere, la tv privata da diffondere, lo statuto dei lavoratori da stracciare, la separazione delle carriere dei magistrati, «l'obbligo di attuare i turni di festività per sorteggio, per evitare la sindrome estiva che blocca le attività produttive». Cede alla vanità e si fa intervistare dal "Corriere della Sera" di cui alla fine degli anni Settanta ha il pieno controllo. Il verbo gelliano va nella prestigiosa terza pagina del quotidiano di via Solferino domenica 5 ottobre 1980. Titolo in ginocchio: «Parla, per la prima volta, il signor P2 Licio Gelli». Incipit genuflesso: «Capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un'intervista esponendo anche il suo punto di vista...», scrive felice l'intervistatore Maurizio Costanzo, iniziato alla loggia due anni prima. «Una brodaglia disgustosa, con il burattinaio che (tronfio, allusivo, arrogante, ricattatorio) pontifica su tutto e tutti, dispensando ridicole ricette economiche dietro le quali s'intravedono speranze di nuovi affari», scrive Giampaolo Pansa. Silvio Berlusconi giurò da fratello il 26 gennaio 1978 nella sede romana della P2 in via Condotti, con il grado di apprendista, tessera numero 1816. E in quel sodalizio tra il Gran Maestro e il Cavaliere c'era un'intuizione potente: che per attuare il piano di rinascita e conquistare l'Italia non servivano le bombe sui treni ma il Mundialito, il mini-mondiale di calcio in Uruguay strappato alla Rai dalla tv del Biscione grazie alla mediazione di Gelli. Non ci voleva il colpo di Stato, bastava "Colpo grosso". Tra i due personaggi distanti in tutto, uno dedito ai segreti, l'altro all'immagine, c'è in realtà la stessa concezione del mondo. In cui le relazioni valgono più delle regole, le lobby occulte e trasversali contano di più delle appartenenze visibili, la fedeltà alle istituzioni va scavalcata da doppie, triple fedeltà non dichiarate. Gelli se ne va e a leggere le cronache di questi giorni si direbbe che abbia vinto lui. Le vicende bancarie di questi giorni, con la ghirlanda di relazioni intrecciata attorno alla Banca Etruria, fiore all'occhiello di Arezzo, la città del Venerabile. Lo scandalo vaticano di ricatti incrociati e millanterie. Il ritrovato attivismo di Luigi Bisignani, il più giovane tra i nomi comparsi nella lista dei piduisti (lui ha sempre negato, naturalmente: «Non avevo neppure l'età per iscrivermi»). La P3, la P4, numerate con scarsa fantasia, per certificare il marchio di origine, il logo di successo. Quante volte, in questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, ci siamo sorpresi ad avvertire in alcune carriere improvvise l'inconfondibile odore della P2, gli stessi metodi, a volte le stesse persone. I burattinai o presunti tali si sono moltiplicati nei palazzi, solo che la posta in gioco è più meschina, non c'è il grande gioco della guerra fredda che serviva a nascondere i piccoli affari. E ancora più avvilenti sono i protagonisti: banchieri di provincia, monsignori allupati, ragazze esibizioniste, faccendieri invecchiati... «Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta». Con queste parole, il 9 gennaio 1986, Tina Anselmi presentava nell'aula della Camera le conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 da lei presieduta. Trent'anni dopo Gelli se ne va. Ma ancora c'è tanto da fare per custodire la Repubblica e le sue istituzioni, la trasparenza della democrazia, dai suoi eredi, i suoi imitatori, i suoi fratelli. I tanti Gelli d'Italia che si aggirano tra di noi.
Quando Licio bocciò Silvio, scrive Gianfrancesco Turano il 16 dicembre 2015 su "L'Espresso". È morto Licio Gelli, 96 anni, fascista vertical che passerà alla storia per avere legittimato in quasi un secolo di vita il sistema del potere oligarchico attraverso l'associazionismo segreto. Che si chiamasse loggia P2 o altrimenti, per l'Aretino non faceva grande differenza purché depotenziasse la democrazia nell'unico modo ammesso dai sistemi politici dell'Occidente: l'oligarchia, appunto. L'unica cosa che Gelli non poteva tollerare, da ex fautore del sistema autocratico, erano le imitazioni. Per questo, cinque anni fa, sconfessò il suo ex iscritto e Nostro Caro Leader Silvio Berlusconi in un'intervista all'Espresso. La malattia e una sua certa vicinanza, puramente territoriale, con elementi del governo in carica hanno forse impedito al Venerabile Maestro di esprimersi compiutamente sulla squadra di Matteo Renzi. In modo alquanto compassato, Gelli ha criticato come goffe le riforme, poco più di un anno fa, e ha usato il termine "bambinone" per il primo ministro senza chiarire chi siano i genitori dell'infante. Il paleocraxiano Rino Formica, felice inventore dell'espressione "sinistra ferroviaria", ha attribuito la paternità del renzismo proprio a Gelli e al suo Piano Rinascita in un'interemerata risalente al marzo 2014. Esagerato? Di certo l'Istituzione, cioè la massoneria, ha continuato fino a oggi ad avere un rapporto contrastato amore-odio verso il "fratello che sbaglia" Licio. La sua influenza reale è però stata continua, costante, a dispetto dei proclamati rinnovamenti di grembiuli e cappucci. La morte di Gelli arriva quasi contemporanea alla dipartita verso l'Oriente Eterno di Armando Cossutta e della Popolare dell'Etruria e del Lazio. Il primo ha rappresentato per anni l'Urss all'interno del Pci. La seconda è la banca aretina appena fallita dopo decenni di gestione del massonissimo Elio Faralli, scomparso a 91 anni nell'aprile 2013. La morte è trasversale. Una specie di massoneria. Il Raguno invernale è intitolato, ovviamente, al Venerabile. Si invitano i partecipanti a vestirsi in modo adeguato. In attesa di comunicare gli indirizzi delle migliori boutique di fashion massonica, vorrei pregare GLU di interrompere i servizi di Discovery Channel che ama accompagnare all'iniziativa. La scelta del luogo è di pertinenza del Venerabile BM, clonato e seviziato dalle suore nel Raguno Gaetano di semifausta memoria. Propenderei per Roma dove si trovano i migliori grembiuli in pelle d'agnello. Se no Abruzzo, dove abbondano i suscuoiati agnelli. PS Mi sono appena accorto che questo è il post numero 333 di RdC. Ça ne s'invente pas.
Gelli: "Sono le mie brutte copie". "Il governo Berlusconi si è abbeverato al mio Piano di Rinascita nazionale. Ma il premier non è in grado di realizzarlo". Parla l'ex capo della Loggia P2, scrive Gianfrancesco Turano il 20 giugno 2010 su “L’Espresso”.
"La democrazia è una brutta malattia, una ruggine che corrode. Guardi quello che accade in Grecia, in Spagna, in Portogallo: anarchia completa". In partenza, Licio Gelli è coerente con il credo di una vita giunta al traguardo dei 91 anni: ordine e disciplina. Eppure no. Il Venerabile della poco disciolta loggia P2 non può godere appieno del successo della sua creatura, quel Piano di Rinascita che per Antonio Di Pietro e molti altri oppositori è la stella polare dell'esecutivo. "È vero", sostiene Gelli: "Gli uomini al governo si sono abbeverati al mio Piano di Rinascita, ma l'hanno preso a pezzetti. Io l'ho concepito perché ci fosse un solo responsabile, dalle forze armate fino a quell'inutile Csm. Invece oggi vedo un'applicazione deformata".
Non è contento dell'esecutivo?
"Ho grandi riserve. Ci sono gli stessi uomini di vent'anni fa e non valgono nulla. Sanno solo insultarsi e non capiscono di economia. Tremonti è un tramonto. Il Parlamento è pieno di massaggiatrici, di attacchini di manifesti e di indagati. Chi è sotto inchiesta deve essere cacciato all'istante, al minimo sospetto".
Almeno il suo ex iscritto Silvio Berlusconi ha la sua benedizione?
"Io sono un laico. Non do benedizioni ma certamente non condivido ciò che accade per sua volontà. Anche certe questioni private si risolvono in famiglia. Deve essere meno goliardico".
Vede in lui il realizzatore del Piano Rinascita?
"Non è adatto. Inoltre, non ha molti collaboratori di valore".
Pensa che sia vittima della pressione leghista?
"La Lega per me è un pericolo. Sta espropriando la sostanza economica dell'Italia. Le bizzarrie di Umberto Bossi hanno già diviso il Paese. Bisogna dire basta".
Altri segnali di crisi?
"I partiti non esistono più e i leader attuali passano il Rubicone con tre tessere in tasca. Non bisogna riformare solo la giustizia, ma prima di tutto l'economia e la sanità".
Ci tranquillizzi, dottor Gelli. Lei non sta diventando di sinistra?
"Io sono per il buon senso. Sono per il benessere al popolo che oggi patisce, non arriva al 20 del mese. Qui siamo oltre i margini della rivolta. Siamo alla Bastiglia".
Filippo Facci il 17 luglio 2014 su “Libero Quotidiano”: "Aveva ragione Gelli". Se Hitler era vegetariano (che poi non lo era) non è che allora ci strafoghiamo di carne. Del resto Hitler fece la prima campagna antifumo: non è che allora ci ammazziamo di canne. A Stalin piaceva Mozart: non è che allora ascoltiamo tutti Peppino di Capri. Eccetera. Il discorso è demenziale ma serve a dire che persino Licio Gelli poteva aver ragione in alcune cose: non perché fosse un genio visionario, ma perché il suo Piano di Rinascita democratica sosteneva anche dei progetti in parte banali e in parte condivisi da democrazie di tutto il mondo. Ecco perché esorcizzare i tentativi di riforma paragonandoli a quanto scriveva Gelli nel 1976 - vedi Il Fatto di martedì - resta di un livello intellettuale annichilente, minestra riscaldata persino per un pubblico para-grillino. Un Parlamento semplificato, un Senato regionale, un premier eletto dalla Camera, i decreti legge non emendabili, dei limiti all'ostruzionismo, l'abolizione delle province, riduzione dei parlamentari: la verità è che certi propositi piduisti erano di assoluta usualità; oppure, come nel caso dell'Italicum, erano delle oasi di democrazia se paragonati alle liste bloccate che ci vanno cucinando. Altre proposte di Gelli, poi, non sono né banali né moderate: sono dei sogni. Tipo "dissolvere la Rai in nome della libertà di antenna" o ancora la chimera della "responsabilità civile dei magistrati": quella vera, non l'inapplicabile legge Vassalli o il consommè che il ministro Andrea Orlando va preparando.
Licio Gelli al Fatto: “Il bambinone Renzi e gli ex lacchè di Berlusconi”. Il Venerabile della Loggia P2 dice la sua sulle ultime mosse del governo: "Le riforme sono goffe". E sull'Italia di oggi: "Sono felice che vengano a galla le responsabilità della cattiva politica", scrive di Marco Dolcetta il 23 maggio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Di questi tempi sia la schiena che il cuore stanno dando qualche problema a Licio Gelli. Il 96enne Venerabile della Loggia P2, nonostante la voce affaticata, mantiene una certa energia verbale: “Lei deve sapere che sono entrato nei Servizi di intelligence dello Stato italiano dopo un incontro con Mussolini che voleva conoscermi. Io, il volontario ‘Licio Gommina’ della guerra civile di Spagna, nella quale aveva perso la vita mio fratello. Il Duce mi chiese quale poteva essere la ricompensa che lo Stato italiano poteva dare alla mia famiglia. In quella occasione, gli dissi che senz’altro mi sarebbe interessato conoscere il mondo dei Servizi segreti… Da allora non ne sono più uscito”.
Ma che ne pensa dell’attualità italiana e di Renzi?
Renzi è un bambinone, visto il suo comportamento che è pieno di parole e molto ridotto nei fatti: non è destinato a durare a lungo… Comunque, non è mai stato (né lui né i suoi familiari) nella massoneria. Vedo che nel suo governo ci sono molte giovani donne che io personalmente vedrei molto meglio a occuparsi d’altro…”.
E le riforme del premier?
Quelle di Renzi, per la legge elettorale e il Senato, sono goffe. Per quanto riguarda Palazzo Madama, mi fa piacere pensare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi; una quarantina di anni fa, con Rodolfo Pacciardi, scrivemmo, su invito dell’allora presidente Giovanni Leone, il cosiddetto Piano R., di Rinascita nazionale. Prevedeva una serie di norme e riforme che avrebbero potuto creare i fondamenti per uno Stato più efficace. Leone fu eletto presidente della Repubblica grazie ai voti della massoneria: lui mi ringraziò e poi mi chiese questo contributo. Così gli facemmo avere il testo del Piano R., cui lui non diede mai alcun riscontro e, anzi, da allora evitò di incontrarmi… Riguardo al Piano di Rinascita democratica, sfogliando le pagine di quel testo, si ritrova – nella parte riguardante le riforme istituzionali – una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica. L’intento era ed è ancora oggi chiaro. Dare un taglio effettivo a un ramo del Parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme. Ricordo di averne parlato in seguito, quando veniva a trovarmi ad Arezzo, anche con la mia amica Camilla Cederna”.
In tema di amici, che ne pensa della carriera letteraria di Luigi Bisignani?
Più che mio amico, Luigi è mio figlioccio. Quando era ancora giovane, dopo la scomparsa di suo padre, sia io che Gaetano Stammati ci prendemmo cura di lui. Avevo e ho sempre avuto una grande stima di Luigi. Tanto che, quando nacque il progetto dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica, a Roma, il 1 gennaio 1975, decidemmo di affidargli l’incarico di addetto stampa, perché eravamo certi di poter fare pieno assegnamento sulla sua preziosa collaborazione…”.
Lei con la Svizzera ha un rapporto particolare, conosce bene le galere ma anche le banche di quel Paese…
Sì, soprattutto quando mi sono stati sottratti dai giudici milanesi diversi milioni di franchi che risultavano il frutto lecito di mia mediazione internazionale e che furono destinati a risarcire piccoli azionisti del Banco Ambrosiano dopo le note vicende che mi videro ingiustamente coinvolto. Ma nonostante tutto, ho accettato questo risarcimento forzato. La cosa più sorprendente, però, è che quei soldi non sono stati mai destinati a piccoli azionisti, tanto che da tempo io, assieme al loro legale, l’avvocato Gianfranco Lenzini di Milano, ho presentato richiesta di chiarimenti in tutte le sedi, ma senza alcun risultato”.
Come spiega il caso Renzi, la sua veloce ascesa, e cosa prevede per il futuro?
Beh, Renzi è un fenomeno parzialmente italiano, e mi risulta che fra i suoi mentori politici ci siano persone che vivono a Washington. È circondato, però, da mezze tacche: gli ex lacchè di Berlusconi. Fini, che ho conosciuto bene, quando faceva l’attendente ossequioso di Giorgio Almirante cui prestavo denari per il Msi. Soldi sempre resi… quello sì che era uomo di parola. E poi Schifani, Alfano: personaggi non certo di livello. Berlusconi ha sbagliato con le giovani donne, ma soprattutto circondandosi di personaggi di bassa levatura… Penso a Verdini, un mediocre uomo di finanza; è un massone… credo, ma non della nostra squadra. Il più alto livello di maturità politica in Italia c’è stato con Cossiga e Andreotti che avevano entrambi dei sistemi di controllo politico, uno con ‘Gladio’ e l’altro con Anello, cosa che Berlusconi non è mai riuscito a ripetere. E si sono visti i risultati di questa sua incapacità…”.
Per concludere, che ne pensa dell’Italia, e del suo futuro?
Non le nascondo che vedo, con una certa soddisfazione, il popolo soffrire. Non mi fraintenda: non sono felice di questa situazione. Sono felice, invece, che vengano sempre più a galla le responsabilità della cattiva politica. Perché, probabilmente, solo un tributo di sangue potrà dare una svolta, diciamo pure rivoluzionaria, a questa povera Italia”. Da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2014
Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti. Non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente, si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.
IL SEQUESTRO MORO ED I SERVIZI SEGRETI ITALIANI.
Fabio Martini per “la Stampa” il 31 ottobre 2019. Tanti segreti italiani, a cominciare dall' inesauribile caso Moro, si sono puntualmente incagliati sul segreto di Stato che per decenni ha coperto il patto di non belligeranza tra i Servizi italiani e quelli palestinesi. Basato su uno scambio indicibile: la promessa palestinese a non realizzare attentati in Italia, in cambio della libertà di trasporto di armi sul territorio nazionale. Ma a forza di scavare, si sta scoprendo che all' ombra di quel patto si sono consumati alcuni misteri italiani: la scomparsa in Libano di due giornalisti italiani, la strage alla Stazione di Bologna, ma anche il ruolo delle fazioni palestinesi nella trattativa per liberare Moro, prima disponibili ad attivare la propria "rete", poi dileguate in un batter di ciglia. I documenti desecretati Un contributo decisivo nel focalizzare gli effetti di quel patto, passato alla storia come "lodo Moro", lo ha dato la Commissione Moro 2, che in quattro anni di lavoro (conclusi con irrituale voto unanime della Camera) ha scelto di avvalersi di migliaia di documenti desecretati dagli archivi dei Servizi italiani, di nuove prove di Polizia scientifica e Ris dei Carabinieri, di testimonianze mai attivate. Una gran quantità di "fili scoperti" sono ora riconnessi nella seconda edizione del libro "Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta", scritto da Giuseppe Fioroni, già Presidente della Commissione e da Maria Antonietta Calabrò, per molti anni giornalista di giudiziaria al Corriere della sera. Durante un' audizione davanti alla Commissione Moro sul tema dei traffici di armi tra palestinesi e Br, l' ex pm Giancarlo Armati ha lasciato "esterrefatti" i commissari, raccontando gli intrecci occulti tra lo Stato italiano e i palestinesi. Armati ritiene esista la "prova" che sia stato il Fronte di Liberazione della Palestina di George Habbash ad uccidere a Beirut i due giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, che in un articolo aveva scritto: «La strage di via Fani è stata compiuta con armi italiane destinate all' Egitto e rientrate per vie tortuose in patria». Nel 1980 i due giornalisti arrivano a Beirut per indagare sui traffici di armi e scompaiono immediatamente. In un rapporto scritto per Armati, l' allora ambasciatore in Libano Stefano D' Andrea indicò fatti e ricostruì come nella sua ambasciata telex cifrati venissero passati al colonnello Giovannone, che da garante del patto con i palestinesi, li avvisava su ogni grana che li riguardasse. Ma non basta. Armati ha rivelato che dopo aver raccolto indizi per emettere un mandato di cattura contro Habbash, si presentò dal giudice istruttore Squillante, «che cominciò a saltare sulla sedia» e disse: «No, gli elementi non sono sufficienti!».
Dopo il rapimento dello statista. Dopo il rapimento di Moro, marzo '78, i palestinesi offrono collaborazione alle autorità italiane. Il canale individuato è Wadi Haddad, un capo palestinese a Berlino est, organico a Stasi e Kgb. Ma Haddad è ucciso senza che i Servizi dell' Est lo proteggano. Il ministro dell' Interno Cossiga - conoscendo il "lodo Moro" - capisce che una collaborazione troppo stretta con i palestinesi può diventare pericolosa e lascia cadere una richiesta di incontro avanzata da Nemer Hammad, uomo di Arafat in Italia. Ma il 21 giugno, con Moro appena ucciso, comunicazione «segretissima» di Giovannone: le Br hanno consegnato «personalmente ad Habbash» copia delle dichiarazioni rese dal leader Dc in prigionia su questioni di interesse palestinese. Si trattava del famoso Lodo, che i palestinesi volevano a tutti i costi secretare? E' molto probabile. Anni dopo Arafat ha scritto nelle sue memorie: il "Lodo", nel 1973, lo sottoscrisse Andreotti, non Moro. In merito alla strage alla Stazione di Bologna del 1980 (attribuita a terroristi neri e servizi deviati), di recente, tra macerie dimenticate per anni, è stato scoperto un «interruttore artigianale» possibile innesco per l' esplosione, «simile a quello dei tergicristalli di un' auto», incompatibile con attentatori professionali come i Servizi, pur deviati. Una scoperta che fa tornare d' attualità la tesi di Francesco Cossiga di un «trasporto finito male della "resistenza" palestinese». Nel libro di Calabrò e Fioroni - edito da Lindau e che punta a superare quella "verità accettabile" frutto di un compromesso tra gli apparati dello Stato e i brigatisti - un capitolo riguarda Alessio Casimirri, «figlio del numero due della Sala stampa vaticana per 30 anni, l' unico brigatista, che pur condannato a sei ergastoli, non ha scontato un giorno di carcere. Da anni vive indisturbato in Nicaragua, il Paese nel quale approdò un miliardo di dollari sottratti al Banco Ambrosiano» e dove Maurizio Gelli, figlio di Licio, è stato nominato chargé d' affaires dell' ambasciata nicaraguense in Uruguay. Casimirri ha confidato alcune delle sue reti di protezione a un agente dei Servizi italiani che lo aveva agganciato. Raccontò che la sua fuga dall' Italia fu aiutata dal Kgb. Questo e altro stava raccontando Casimirri, quando tutto precipitò. Il 16 ottobre 1993, l' Unità sparò la notizia dell' intenzione di Casimirri di vuotare il sacco. Come ha raccontato alla Commissione Carlo Parolisi, allora agente Sisde: «Eravamo a un passo dal farlo rientrare in Italia, quel maledetto scoop fece saltare tutto».
Antonino Arconte. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Antonino Arconte (Oristano, 10 febbraio 1954) è uno scrittore, ex militare e agente segreto italiano. Nato a Oristano da una famiglia di militari di carriera, all'età di sedici anni si arruola come allievo sottufficiale nell'Esercito Italiano nel 1970 e frequenta il 14º Corso AS della Scuola Allievi sottufficiali di Viterbo. Nel settembre dello stesso anno, durante la frequenza del corso, viene selezionato insieme ad altri allievi per far parte dei nuovi quadri del Servizio Informazioni Difesa, il SID, il servizio segreto italiano con struttura militare nato nel 1965 e comandato da quell'anno dal generale Vito Miceli. Questi aveva ricevuto l'incarico da Aldo Moro di organizzare la struttura paramilitare segreta italiana di tipo stay-behind nota con il nome in codice di Organizzazione Gladio e integrata con le altre organizzazioni simili sorte negli altri paesi della NATO. Arconte venne inserito nel Nucleo G (identificato dal Presidente della Commissione Difesa, Amm. Falco Accame e alcuni giornalisti come "Gladio delle Centurie", perché suddivisa in tre centurie), la parte militare dell'Organizzazione Gladio e una delle 12 branche in cui era stato suddiviso il SID e fatto transitare nella Marina Militare. Nel 1997 pubblica sul web una pagina dal titolo "The Real History of Gladio" e inizia una campagna di divulgazione dei documenti sull'Organizzazione Gladio rimasti in suo possesso in risposta a un attentato alla sua vita subito nel febbraio del 1993. Il 26 luglio 1998, rilascia un'intervista a New York al giornalista Stefano Vaccara che la pubblica su "America Oggi", quotidiano in lingua italiana diffuso negli Stati Uniti d'America. L'intervista, pubblicata in due parti su nove pagine, contiene rivelazioni sulla struttura dell'Organizzazione Gladio e riporta alla luce delle esperienze operative dell'agente di Gladio Antonino Arconte, noto con il nome in codice G-71, una panoramica su molti episodi oscuri della recente storia italiana e internazionale. Le rivelazioni creano l'interessamento di alcuni parlamentari e del Senatore Giulio Andreotti che sollecita un'inchiesta Ministeriale al Ministro della Difesa per appurare l'autenticità o meno dei documenti d'epoca pubblicati da numerosi quotidiani italiani e americani. L'inchiesta del SISMI accerta che le accuse di falsità sono solo indizi/informazioni e pone il divieto di divulgazione. Le inchieste conseguenti della procura militare e civile di Roma si concludono il 7 maggio 2004 con l'archiviazione perché i fatti non sussistono e il GIP di Roma lo riconosce Parte Offesa da ignoti. Nello stesso tempo subisce delle ritorsioni da alcuni giornali che lo diffamano gravemente e che querela il 12 luglio 2005. In seguito a questa L'Unione Sarda, in persona del suo Direttore e del cronista, vengono condannati con Sentenza passata in giudicato in Cassazione il 21 dicembre 2012, per diffamazione aggravata perché hanno pubblicato false notizie tendenti a far credere che Antonino Arconte e l'altro sopravvissuto dell'Organizzazione Gladio, Pier Francesco Cancedda, fossero due falsari. I media italiani non hanno pubblicato, pur informati, la notizia di queste tre condanne e la stessa Unione Sarda non ha pubblicato il dispositivo di condanna, come ordinato dal Tribunale il 1º dicembre 2010. L'ordine dei giornalisti della Sardegna non ha proceduto con le sanzioni disciplinari come stabilito dal codice deontologico della stampa e A. Arconte ha rivolto un esposto all'autorità competente anche contro questi comportamenti lesivi delle norme previste dalla legge istitutiva degli ordini professionali del 1963. Prosegue l'impegno dell'ex Gladiatore in sede civile per ottenere le sanzioni e il risarcimento dei danni, intanto pubblica sul suo blog, l'unico luogo dove si possono leggere verità su questi argomenti, g-71.blogspot.com le sentenze di condanna in giudicato che i media nazionali hanno ignorato. Sullo stesso blog ha pubblicato anche i verbali di testimonianza al processo nell'aula bunker Giovanni Falcone di Trapani, nel quale depone sulle basi di Gladio a Trapani e rende noti i comportamenti di alcuni Ministri che in un paese normale sarebbero stati sanzionati. Sulla sua azione di verità sono stati pubblicati centinaia di articoli, in Italia ed America, decine di Speciali TV, decine di interpellanze parlamentari a risposta scritta, sono stati ripresi da altre pubblicazioni, anche ad opera di magistrati quali il Ferdinando Imposimato nel suo libro "I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia" e la RAI TV è stata condannata, ad aprile 2013, alla restituzione di materiale video e documentale che gli aveva sottratto con l'inganno e che costituiscono prova fondamentale all'identificazione di alcuni mandanti e complici delle stragi di Via Fani e dell'assassinio dell'On. Aldo Moro. Il 16 gennaio 2015 l'Ufficiale Giudiziario ha preso atto dell'ammissione di responsabilità dei vertici RAI che, in Viale Mazzini 14 a Roma, sede della RAI-TV, hanno ammesso che la documentazione autentica sulla strage di Via Fani e sequestro e omicidio dell'on. Aldo Moro, è stata sottratta dolosamente dagli archivi RAI dov'era custodita dal settembre 2002, dopo averla ricevuta da Antonino Arconte per la perizia scientifica e la trasmissione "VERO o FALSO" di RAI 3 Primo Piano, andata in onda il 12 marzo 2003. Un'inchiesta della Procura di Roma sulla sottrazione di quella documentazione in seguito a regolare denuncia, è attualmente in corso alla data del 2 giugno 2015. Nel dicembre 2001 pubblica la sua autobiografia in "L'Ultima Missione. G-71 e la verità negata" ISBN 88-900678-2-9 che riepiloga le rivelazioni e i casi giudiziari connessi e illustra le operazioni da agente segreto alle quali l'Arconte ha partecipato. In allegato all'opera un CD Rom contenente l'intero archivio superstite dell'Organizzazione Gladio, che non è stato distrutto nel 1990, come ordinato dal Governo in carica del Sen. Giulio Andreotti. Lo stesso si può scaricare gratuitamente da amazon.it per i possessori del lettore kindle. Nel giugno 2010 pubblica il sequel dell'Ultima Missione, intitolato "Bengasi e dintorni", con il quale aggiorna la sua vicenda che continua con nuovi risvolti, nuove rivelazioni e le conclusioni delle ultime vicende giudiziarie di cui è stato vittima dal 1991 al 1993, concluse a suo favore con le quattro condanne comminate dalla Commissione Europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo nel maggio 1998, dello Stato Italiano per il ritardo con cui le Corti d'Appello hanno riconosciuto la sua innocenza. Di queste, altre due sono ancora all'esame delle autorità europee. Attualmente collabora con la Mursia Editore alla diffusione dell'opera: "L'Ultima Missione di G-71", una nuova edizione aggiornata della vera storia di Gladio e d'Italia, sempre dedicata alle sue passate esperienze nel Nucleo G dell'Organizzazione Gladio, pubblicato da Mursia editore, il 13 novembre 2013, nella collana "le Nuove Guerre" ISBN 978-88-425-4823-2 pagg. 632.
Moro, G71 e l'attesa per la verità, scrive Stefano Vaccari il 10-05-2008 su "America Oggi". Cari lettori, questa settimana, a trent'anni dall'omicidio di Aldo Moro, riprendiamo il contatto con Nino Arconte, il "gladiatore" che operava negli anni settanta e ottanta in missioni internazionali con il nome in codice G71 e la cui storia voi conoscete fin dall'estate del 1998 (per chi segue America Oggi/Oggi7 da tempi più recenti, consigliamo di andare in internet: scrivendo nel motore di ricerca Arconte Vaccara troverete diversi articoli). Quindi da dieci anni più volte su questo giornale abbiamo seguito la vicenda di G71, l'agente segreto della marina militare italiana appartenente ad una delle cosiddette "Centurie" della Gladio denominata anche "Stay Behind" (dietro le linee nemiche), che dopo aver servito la sua Patria durante la Guerra Fredda, improvvisamente si ritrovò non riconosciuto dallo Stato italiano mentre alcuni dei suoi commilitoni cadevano come birilli in sempre più misteriosi "suicidi" o morti giudicate accidentali. Arconte, o meglio G71, cinque anni dopo quella prima intervista, ci mostrò un altro documento, il più esplosivo di tutti che questo giornale, questa volta insieme ad altri due (Famiglia Cristiana e Liberazione) pubblicò immediatamente. In quel documento, che apparentemente sembrava essere del Ministero della Difesa italiano e che G71 nel marzo del 1978 era stato incaricato di portare a Beirut al capo dei servizi italiani nella capitale libanese che allora, come del resto ora, era sconvolta dalla guerra civile. Nel documento si faceva riferimento al rapimento di Aldo Moro e si chiedeva ai servizi italiani nella regione di attivarsi per la sua liberazione ma con un particolare sconcertante: la data in cui era stato scritto, 2 marzo 1978, precedeva quella del rapimento avvenuto il 16 marzo in via Fani a Roma. G71 doveva consegnare il documento a Beirut all'agente G-219 (identificabile nel colonnello Ferraro, rimasto poi vittima nel 1995 di uno strano suicidio), dislocato e dipendente dal capocentro G-216 (il colonnello Stefano Giovannone e che poi Moro menzionerà proprio in una delle sue lettere dal carcere delle BR), affinché prendesse contatti con i movimenti di liberazione del Medio Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione dello statista democristiano. È grazie al "gladiatore" G71 che questo documento a "distruzione immediata" è invece ancora qui. E prima di lui grazie al colonnello Ferraro che, secondo Arconte, prima di morire misteriosamente impiccato nel suo bagno di casa, gli ha consegnato il documento che lui non aveva distrutto. Cinque anni fa, all'uscita di quel documento, ci furono delle interrogazioni parlamentari. Anche l'ex capo del governo ai tempi del rapimento Moro e ora senatore a vita Giulio Andreotti, chiese espressamente al governo Berlusconi allora in carica di far subito luce sulla vicenda, perché se quel documento fosse stato provato autentico ovviamente avrebbe riscritto (e in che modo!) la storia d'Italia, se invece fosse stato un falso allora chi lo spacciava per vero avrebbe dovuto essere ovviamente perseguito. Invece Arconte non venne affatto perseguito anzi fu lui a denunciare chi lo discreditava. Il ministero della Difesa di allora, senza portare alcuna prova definitiva, si limitò a delle comunicazioni in cui sosteneva che Nino Arconte non era attendibile e poi aggiunse qualcosa che ci insospettì. Nel cercare di screditare il racconto di G71, le autorità italiane scrissero che era priva di ogni fondamento la tesi di Arconte che sosteneva il coinvolgimento degli Usa e della Cia nella vicenda del rapimento... Ma Arconte aveva sempre sostenuto il contrario! E cioè che secondo lui dietro al rapimento Moro si nascondeva la lunga mano dei servizi segreti di oltre cortina sovietica, e quindi quell'accusa ci apparve a dir poco stramba per non dire depistante. Il 7 giugno del 2006 il presidente del Senato Franco Marini, rispondendo ad una lettera di Arconte in cui chiedeva almeno delle scuse ufficiali, ha scritto che "ho valutato la complessità della vicenda e posso rendere conto del suo punto di vista" ma che come presidente del Senato, non ha il potere di imporle a nessuno quelle scuse. Marini concludeva dicendo di aver fatto acquisire agli atti del Senato la lettera di Arconte. Cinque anni sono passati dall'emersione di quel documento, ma sembra che a Roma nessuno abbia fretta di chiarirne definitivamente l'autenticità o che si debba quindi perseguire Arconte. Noi aspettiamo e intanto ecco le nostre domande per G71. Cinque anni fa uscì la nostra seconda intervista, questa volta sullo straordinario documento del Ministero della Difesa che ti fu ordinato di portare nel marzo del 1978 a Beirut e che annunciava il rapimento di Moro prima che avvenisse...
Cosa è successo da quelle rivelazioni e dopo le interrogazioni parlamentari di Andreotti e di altri legislatori? Che fine ha fatto quel documento? Il governo Berlusconi prima e quello Prodi dopo, hanno comunicato qualcosa, lo hanno spiegato? Sono state fatte indagini? E' stato smentito? Ti hanno denunciato o ti hanno ridato gli onori militari?
«Quel documento è stato fatto oggetto di dibattiti parlamentari; in Senato sono state presentate 23 interpellanze a risposta scritta ed è stato risposto di tutto e il contrario di tutto. Molte di queste risposte sono state pubblicate da America Oggi ed Oggi7 nel 2003. Ricorderai l'articolo su Martino, Ministro della Difesa dell'epoca, che dichiarava cose non vere, come il tuo giornale poté benissimo testimoniare in proposito dell'inchiesta per falso avviata contro di me e che due anni dopo, il 7 maggio 2004, fu archiviata per infondatezza della notizia di reato, mentre il GIP di Roma mi riconosceva "parte offesa da ignoti" perché nessuno di coloro che mi avevano accusato pubblicamente, di fronte all'infondatezza di esse, confermava le sue accuse. Ricorderai che quel documento fu anche sottoposto a perizia scientifica per l'interessamento del settimanale Famiglia Cristiana, la RAI e il quotidiano Liberazione, organo del Partito di Rifondazione Comunista e che tale perizia diede esito di autenticità. Nel senso che risultò che carta, inchiostri e caratteri di stampa, come bolli e sigilli usati, erano quelli normalmente in uso al Ministero della Difesa, Marina Militare, Ufficio X°, negli anni '70. Conformi ad altri documenti di raffronto che indubitabilmente provenivano da quelle sedi e in quelle date. Gli stessi giornalisti che parteciparono a quelle operazioni di verifica e controllo hanno anche testimoniato queste cose sotto giuramento nel Tribunale di Oristano, dove ho dovuto citare la RAI 1 e RAI 3, per avere offeso la verità a cui avevo accettato di collaborare effettuando tagli alle trasmissioni che non avevo autorizzato. Scelte non dei giornalisti, ma delle redazioni politiche che li controllano».
Hai altri documenti che non hai ancora mostrato? E se sì, quando li renderai pubblici e che cosa rivelerebbero?
«Si, ho altri documenti che però non riguardano il caso Moro, ma la mia vita in servizio dietro le linee della Guerra Fredda Italiana e non solo Italiana. Vorrei evitare di renderli pubblici, ma questo non dipenderà da me, ma dal comportamento del Governo Italiano. Sto per spedire al nuovo Governo la solita richiesta di Congedo che invio ad ogni nuova legislatura ricevendo risposte dei più svariati generi: Alcune le hai smentite anche tu nel tuo giornale. A volte persino divertenti, altre vergognose, da parte di Ministri della Difesa che mostravano di non conoscere nemmeno la storia Patria, alcune altre nessuna risposta! Ora vedremo cosa risponderà il nuovo Governo Berlusconi. Io sono sempre sereno e fiducioso come chi sa di essere dalla parte del giusto e nel suo pieno diritto. Mi auguro sempre che finalmente si faccia giustizia anche di questa storia, sarebbe buon segno, non solo per me, ma per tutta l'Italia e, addirittura, senza voler esagerare, credo che sarebbe buon segno per tutto l'Occidente Democratico che sembra aver smarrito la via!»
Sono stati fatti tanti film sul caso Moro, ora uno anche con Michele Placido nella parte dello statista si vede in questi giorni in tv. Qualche regista - o sceneggiatore o produttore - ti ha mai contattato per avere da te una collaborazione? C'è un film la cui ricostruzione ti ha soddisfatto?
«Si, tantissimi sono venuti qui a trovarmi per convincermi, ma sono bastate poche parole per capire che c'era incompatibilità di vedute. Sono tutti troppo politicizzati e vedono la storia, soprattutto la storia d'Italia, attraverso i filtri colorati ed i paraocchi della politica. Dovrebbero occuparsi solo di fiction senza pretendere patenti di autenticità storiche che non hanno. Così ho sempre rinunciato. A parte per il film di Carlo Infanti "La verità negata" per il quale ho scritto una sceneggiatura per la parte da girare in Sardegna che ho interpretato con la protagonista qui nel Sinis di Cabras, perché mi è sembrato che cercasse di dare una visione dei fatti storici di cui si occupa e relativi al caso Moro che più si avvicinava alla mia testimonianza. Inoltre ho collaborato perché non mi ha parlato di tagli e devianze su ciò che dovevo fare nel suo film.
Ho anche scritto io un'altra sceneggiatura. Sono impegnato proprio in questi giorni a trovare, con produzioni europee, un possibile accordo per finanziare il primo dei tre film di cui si compone l'opera cinematografica tratta dal libro L'Ultima Missione!»
Con la tua rivelazione del documento di Beirut, si confermavano i contatti tra terrorismo rosso e ambienti del terrorismo mediorientale. Oggi l'Italia è sempre più invischiata nella regione, in Libano, in Afghanistan... I gruppi terroristi mediorientali legati ad Al Qaeda, Hamas, Hezbollah, potrebbero cercare ancora di avere legami in Italia con terroristi locali? Cosa facevate voi allora per scongiurare queste "alleanze" e cosa si dovrebbe fare adesso?
«Nell'ultimo speciale su Moro a cui ho collaborato e che si intitola "Moro: se ci fosse luce sarebbe bellissimo", il magistrato del caso Moro Dr. Imposimato fa alcune dichiarazioni che si avvicinano alla verità. Dice che secondo alcuni suoi riscontri in Via Fani c'erano stati anche terroristi della RAF tedesca che era collegata alla Stasi, servizi segreti della Germania comunista che a sua volta era collegata al KGB sovietico. Ebbene Imposimato si avvicina molto alla verità, ma non abbastanza, perché gli mancano le basi della conoscenza della rete terroristica filo sovietica che comprendeva tutte queste organizzazioni, IRA, ETA, RAF, BR, OLP tutte orchestrate da Mosca attraverso la Separat comandata dallo Sciacallo, che aveva basi a Tripoli, in Libia e a Damasco, in Siria, ma anche in Germania Est ed in Cecoslovacchia. Tutti paesi controllati direttamente dal KGB sovietico. Ma la vera storia anche di quella parte la descrivo meglio e la documento nella sceneggiatura del primo film dal titolo provvisorio "L'Isola dei combattenti". Il mondo è cambiato, ma certe strategie sono le stesse. Cosa facevamo noi? Eravamo in mezzo a loro! L'Italia era presente anche a quel tempo in Nord Africa, in Afghanistan, in Libano ... Ieri come oggi, solo che all'epoca non si poteva dire, né mostrare... Lo racconto e documento nelle mie opere autobiografiche e adesso anche al cinema. Ma per poter raccontare davvero questa storia, anzi queste storie, devo riuscire a realizzare il progetto di film seriale tratto dall'Ultima Missione e di cui ho già pronta la sceneggiatura per il primo. In questo ci sarà, per onore al vero, anche il nostro primo incontro a New York, nel giugno 1998, che fu descritto poi dal tuo articolo su America Oggi/Oggi 7 di quell'estate. Da allora sono stati centinaia, ma il tuo fu il primo e penso che contribuì a salvarmi la vita. Per vedere realizzata quest'opera vera sulla Guerra Fredda servono solo i finanziatori e li sto cercando anche in Europa, soprattutto in Europa, perché in Italia è impossibile che qualcuno accetti di finanziare un film di questo genere senza voler mettere sotto controllo la storia dal punto di vista politico e io questo non lo posso fare e non lo farò.»
Ti senti ancora in pericolo di vita? Se attraverso questa intervista volessi mandare un messaggio al premier Berlusconi e ai nuovi ministri degli Esteri Frattini, degli interni Maroni e della Difesa La Russa, cosa diresti?
«Sono prudente in maniera del tutto naturale e sentirmi in pericolo è la mia condizione abituale, non mi pesa. Gli chiederei di fare qualcosa di serio per cambiare il destino della nostra Patria. E la prima cosa da fare è quella di dare giustizia agli italiani. Oggi abbiamo uno Stato dei privilegi e di privilegiati che è riuscito a distruggere tutto, anche l'amor di Patria. Il compito che si trovano davanti non è certo facile. Non sono il solo a parlare di sfascio generale: della Giustizia, della scuola, della sanità delle Istituzioni e non è certo a suon di chiacchiere che si può risanare tutto questo. Io faccio la mia piccola parte, basterebbe che ognuno facesse la sua. Ho visto l'elenco dei Ministri del Governo Berlusconi... staremo a vedere».
L’agente segreto G-71, l’On. Gero Grassi e la verità su Moro: appuntamento all’ONU. L'ex agente segreto Antonino Arconte, il G-71 della Gladio, autore di L'ultima missione, alla VOCE rivela a quali condizioni sarebbe disponibile a testimoniare davanti alla Commissione parlamentare sulla strage di Via Fani e l'assassinio di Aldo Moro: "Risponderò all'On. Gero Grassi, ma dentro al Palazzo dell'ONU...", scrive Stefano Vaccara il 16 marzo 2015 su "La Voce di New York". Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana ed ex capo del governo e più volte ministro, venne sequestrato 37 anni fa in via Fani a Roma. Per rapirlo, le Brigate Rosse massacrarono tutti gli uomini della scorta. Un lavoro da professionisti, come in un film con James Bond. In meno di tre minuti, si spararono quasi cento colpi che uccisero i due carabinieri, Oreste Leonardi e Domenico Ricci, a bordo della Fiat 132 in cui viaggiava anche Moro, e i tre poliziotti, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, che viaggiavano sull'Alfetta di scorta. Il tutto senza mai colpire Moro. Professionisti appunto. Ma c'erano solo le BR in via Fani, alle dieci del mattino, ad aspettare Moro e la sua scorta quel 16 marzo 1978? Gero Grassi, deputato del Partito democratico e componente di spicco della nuova Commissione parlamentare sul caso Moro, è convinto che ci fossero altri uomini oltre le BR quel giorno in via Fani ad aspettare Moro: "Certamente queste persone non erano lì a prendersi un caffè". Ma se gli uomini "segreti" non fecero nulla per impedire il sequestro di Moro e il massacro della scorta, allora erano lì per aiutare i terroristi, magari anche sparando? "Lo sospettiamo fortemente, ma non siamo ancora in grado di dimostrarlo. Quello che però possiamo dire con assoluta certezza – ha detto Grassi alla rivista Oggi– è che le Brigate rosse non agirono da sole, ma furono quantomeno “accompagnate”". Dallo scorso maggio il Parlamento italiano ha stabilito una nuova commissione d'indagine per far luce sul caso Moro. Non sono bastate quindi le precedenti commissioni e i precedenti processi per la verità sulla "matrigna" di tutti i misteri della Repubblica, dove ricatti e depistaggi continuano a incrociarsi mantenendo così all'oscuro i cittadini italiani sulla vera storia degli anni di piombo in Italia. Ma questa nuova commissione, di cui l'On. Grassi appare una personalità determinata ad andare fino in fondo, è veramente pronta a scoperchiare la storia d'Italia? Oppure si tratterebbe ancora una volta di una "mossa" propagandistica, sulla scia della dichiarazione di Renzi di togliere il segreto di stato, ma pronta a fermarsi in tempo? Frasi ad effetto buone per dei titoli sui giornali, ma poi al momento di illuminare il buco più nero della Repubblica, la cosiddetta "ragione di stato" farà ragionare che è meglio continuare a non ragionare…Quando da New York leggiamo dell'On. Grassi che in giro per l'Italia racconta dei servizi segreti che sanno, prima che accadesse, del rapimento di Moro, sorridiamo di rabbia. La prova di ciò fummo proprio noi da qui, da New York, a pubblicarla, ma tanti, troppi anni fa. I lettori più affezionati, ricorderanno forse una prima pagina di Oggi7, il settimanale di America Oggi, intitolata: "Italia, spiega questo documento!" Si trattava di un ordine della Marina italiana, in cui si istruiva l'agente di Gladio G71, sigla che apparteneva ad Antonino Arconte, a recarsi in Libano con una nave commerciale per consegnare un documento top secret per il colonnello Stefano Giavannone. In quel documento, si chiedeva a Giovannone di adoperarsi con i suoi contatti in Libano con i gruppi di terroristi mediorientali per attivare canali utili alla liberazione del Presidente della DC Aldo Moro. La bomba in quel documento? La data: 2 marzo 1978. 14 giorni prima della strage di via Fani. Quando noi pubblicammo quel documento che ci aveva fornito Nino Arconte, seguito da tanti altri servizi in cui G71 raccontava storie e coincidenze e non solo su Moro, il tutto rimbalzava sul muro di gomma dell'informazione italiana. Ogni tanto qualche lancio d'Ansa, due righe, ma la grande stampa italiana come se nulla fosse. Quando poi in Parlamento, grazie all'ammiraglio Falco Accame, non si potè evitare di rispondere alle interrogazioni sulla storia e la validità di questo documento, cercando invano risposte dai ministri della Difesa di allora (tra i tanti, pure un certo Sergio Mattarella), qualche scossa comunque si verificò: il Senatore Giulio Andreotti, che con Francesco Cossiga nel '78 condivise le maggiori responsabilità della cosiddetta "linea della fermezza" che condannò a morte Moro, disse ad un certo punto questo: bisogna fare subito luce su quel documento di Arconte, perché se è vero, processate chi era allora al governo. Se risultasse falso, processate Arconte! Bene, il documento fu analizzato, portato pure ad una trasmissione Rai, e quindi dichiarato dai periti compatibile con i documenti della marina militare italiana in uso nel '78. Che accadde? Arrestarono forse Andreotti e Cossiga? Macché. Niente. Non accadde proprio nulla. Nessuno ne parlò più, anche perché la grande stampa italiana di quel documento in realtà non ne scrisse neanche quando se ne lamentava Andreotti…Così Arconte ora si ritrova ancora a combattere una battaglia legale con la Rai che non gli ha mai restituito i documenti consegnati, che ora sarebbero scomparsi… Lo stesso onorevole Grassi, che è anche vicepresidente dei deputati PD in Parlamento, ha recentemente riconosciuto le ragioni di Arconte dichiarando all'Ansa: "L'ex gladiatore Antonino Arconte denuncia da tempo le responsabilità della Rai nella scomparsa di materiali molto importanti sulla strage di via Fani. Il Capitano di Vascello Antonino Arconte, che si è rivolto anche alla magistratura, merita una risposta da parte dei vertici di viale Mazzini ai quali chiediamo noi oggi di intervenire sul caso". E torniamo quindi allo scoperchiamento della vera storia della Repubblica d'Italia durante la Guerra fredda. Nino Arconte, ha pure scritto un libro sulle sue avventure da gladiatore a servizio dell'Italia e della Nato durante la Guerra Fredda. In L'ultima missione (Mursia 2014), in un capitolo G71 racconta per esempio di quando per la prima volta parlò a New York con il cronista che vi scrive queste righe, era l'estate del 1998. Per Arconte pubblicando la sua storia a New York, allora gli salvammo la vita: i suoi commilitoni delle centurie di Gladio, che avevano convissuto con lui quegli anni tra missioni segrete e il caso Moro, in un modo o nell'altro venivano in quei giorni, ad uno a uno, "suicidati". Ora Nino Arconte torna spesso a New York, ha un figlio che vive qui, è un manager di successo. Così nell'ultimo suo viaggio, G71 è venuto a trovarci nel nostro ufficio al Palazzo di Vetro dell'ONU, ma questa volta non aveva voglia di parlare di quello che aveva già raccontato. Aveva semmai voglia di poter dire quello che finora non ha mai detto, e avrebbe voglia di raccontarlo alla nuova Commissione Moro. Arconte ci ha infatti raccontato di aver ricevuto una telefonata dell'On. Grassi che ha cercato di convincerlo ad andare a testimoniare di fronte alla commissione Moro. Ma Nino si rifiuta. Perché è sicuro che per quello che direbbe, per le accuse che farebbe, sarebbe querelato. Arconte dice di poter provare quello che vorrebbe dire, ma si è stufato di dover difendersi in un sistema giudiziario che ritiene lento e inaffidabile. Alla fine anche quando lo portano in tribunale, devono dargli per forza ragione, ma G71 non vuol perdere più anni della sua vita nelle corti di giustizia. Allora Nino Arconte, il gladiatore sopravvissuto, ha una proposta per l'On. Grassi e la commissione Moro e ci ha pregato di diffonderla in questo giornale: G71 non solo risponderebbe a tutte le domande della Commissione sul quel documento, ma avrebbe tante altre cose da raccontare, cose inedite a quanto pare. Però a Roma o in qualunque altra parte d'Italia questa testimonianza non la rilascerebbe mai, data la mancanza di una totale immunità. Quindi vorrebbe essere interrogato dalla Commissione Moro qui a New York, dentro l'ONU, nell'ufficio della VOCE. Perché, dice Arconte, sarebbe protetto dall'immunità delle Nazioni Unite, e saprebbe che poi la sua testimonianza potrebbe essere letta da tutti i cittadini italiani. Sentite che ci dice Arconte: "Io, purtroppo penso che solo internazionalizzando l’inchiesta sul colpo di Stato del marzo 1978 in Italia si potrà arrivare alla verità e salvare l’Italia dai golpisti ed eredi dei golpisti che l’hanno distrutta. Per questo sono disponibile a testimoniare il vero a New York". Qui potete ascoltare Arconte che nel nostro ufficio parla della sua volontà di testimoniare e del suo attaccamento alla patria. Ecco un particolare del pensiero di G-71: “La Patria non è mai lo Stato. Lo Stato è una struttura amministrativa che i popoli si danno per gestire la cosa pubblica. La sanità, la giustizia, le forze armate, i servizi segreti, la pubblica istruzione. Questi sono gli Stati. Se funzionano allora i popoli che sono le patrie, li mantengono. Se non funzionano più, i popoli hanno il dovere di scioglierli e farsene un altro. Ma quando è caduto lo stato fascista l’Italia non è morta… E quando si è sciolta l’Unione Sovietica, la Russia non è morta. E quando è caduto lo stato delle colonie inglesi, ecco è nata la patria americana…” Allora onorevole Grassi, che si fa? Lo vogliamo accontentare G71 e andare a verificare se con la sua testimonianza si potrà ricostruire un tassello fondamentale di storia d'Italia? On. Grassi, la sua trasferta e quella di alcuni suoi colleghi della commissione Moro a New York potrebbe rivelarsi opportuna: potrebbe far spiegare ad Arconte chi diede a G71 quel documento che avvertiva del sequestro Moro prima che avvenisse e come poi sia riuscito a conservarlo… Forza On. Grassi, chissà quante domande avrebbe lei per Arconte, che non vede l'ora di parlare qui a New York, dentro il Palazzo di Vetro. Chissà che non tocchi a G71 riuscire a svelare chi ci fosse in via Fani, chi fosse a sparare così bene da dietro una Austin Morris parcheggiata al posto giusto e al momento giusto. E magari anche chi ci fosse sopra una motocicletta Honda… E ancora, chissà, magari G71 potrebbe aver saputo qualcosa anche su quella bomba scoppiata sul treno Italicus partito da Roma il 3 agosto del 1974, un treno in cui avrebbe dovuto viaggiare, ma guarda che coincidenza, anche l'On. Aldo Moro…
Stefano Vaccara: «Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro racconto l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty"».
Aldo Moro compie 100 anni: le polemiche. La figlia dello statista Dc scrive una lettera aperta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive Domenico Camodeca il 23 settembre 2016 su "It.blastingnews.com". Non c’è pace nemmeno da morto per Aldo Moro, il politico di fede democristiana rapito e poi ucciso da un commando delle Brigate Rosse nel 1978. La strage di via Fani, la geometrica potenza delle #Br (con la complicità, forse, della mano dei servizi segreti), l’attacco al cuore dello Stato, sono ferite profonde per il tessuto democratico dell’Italia repubblicana che ancora fanno fatica a rimarginarsi. In questo clima di sospetti e veleni si inserisce la lettera aperta, pubblicata dal Fatto Quotidiano, inviata dalla figlia primogenita, Maria Fida Moro, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In essa, la Moro si lamenta di essere stata fatta fuori, di fatto, dal "gioco della memoria" che ha toccato gli affetti, i sentimenti, ma anche il portafoglio dei familiari dell’uomo politico scudocrociato. Forte anche l’accusa lanciata contro i cosiddetti ‘morotei’ (Mattarella compreso) che non avrebbero fatto nulla per salvare il padre. Nel giorno del centenario della nascita di #Aldo Moro, il 23 settembre del 1916, fanno scalpore il tono ed il contenuto della pubblica missiva che Maria Fida (la prima dei quattro figli di Moro) ha indirizzato al presidente Mattarella. Non c’è gioia e nemmeno serenità in quelle righe, ma una profonda amarezza per il silenzioso ostracismo ordinato nei suoi confronti dalle autorità istituzionali. La signora Moro, in pratica, si lamenta del fatto di essere stata esclusa dall’organizzazione delle cerimonie per il giorno del centenario della nascita del padre. Opportunità che, accusa la Moro, sarebbe stata concessa solo ai due fratelli minori proprio da Mattarella che li ha ricevuti al Quirinale consegnando loro, di fatto, la chiave della cassaforte dei “fondi stanziati dallo Stato per le suddette celebrazioni”. Una guerra fratricida favorita dal più alto rappresentante della Repubblica quella che emerge dalle parole di Maria Fida. A detta della Moro, sono tre le cause principali che hanno contribuito ad innalzare un muro di gomma per arginare lei e il figlio autore del libro Mio nonno Aldo Moro. La prima è che solo lei, unica tra i quattro fratelli, ha “firmato per ben due volte la riapertura delle indagini” per chiarire i tanti punti oscuri dell’agguato di via Fani (ad esempio, la presenza in quel luogo della motocicletta Honda e del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi il 16 marzo del ’78). La seconda ragione, collegata alla prima, è la posizione favorevole da lei dimostrata “ad ogni commissione di inchiesta”. Mentre l’ultima, all’apparenza di minor conto delle precedenti, riguarda la proposta di beatificazione del padre (profondamente credente, come noto), anche in questo caso firmata solo da lei in famiglia. Il j’accuse della Moro prosegue con un attacco diretto a Mattarella, paragonato prima al suo illustre predecessore Sandro Pertini e poi additato di non poter essere un “moroteo” perché, ecco l’accusa, “Io non credo che siano mai esistiti dei morotei, altrimenti mio padre non sarebbe morto in solitaria in quella maniera terribile”. La conclusione a cui giunge l’autrice della missiva è, se vogliamo, ancora più amara perché Maria Fida si ritiene, forse a ragione, “quella che ha difeso da sola suo padre lungo gli ultimi 39 anni”.
Caso Moro, audizione ex ministro Signorile. Grassi (Pd): "Ci aspettiamo uno sforzo eccezionale di memoria", scrive Antonio Maiellaro il 12 luglio 2016 su “Norba On Line”. La strage di via Fani e l'assassinio di Aldo Moro. Questa sera è in programma un'importante audizione davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta. Sarà sentito, infatti, l'ex vice segretario del partito socialista, il pugliese Claudio Signorile, che ebbe un ruolo importante all'epoca dei fatti. Fu crocevia di contatti ed incontri per cercare di liberare lo statista democristiano, prigioniero della Brigate Rosse. Per l'onorevole Gero Grassi, componente della commissione, Signorile darà sicuramente un contributo di alto profilo. Proprio la mattina in cui fu annunciato l'assassinio di Moro, Signorile incontrò il ministro dell'interno Cossiga. Vorremmo capire, precisa Grassi, se andò al Viminale all'ora del caffè, come disse in un primo momento, o più tardi, come invece sostenne successivamente. Da signorile, conclude Gero Grassi, ci aspettiamo uno sforzo eccezionale di memoria.
Moro: Signorile rivela, morte decisa l'ultima notte. "Vorremmo sapere cosa è successo quella mattina". "vorrete dire quella notte"! "tutto si giocò nelle ultime 48 ore e poi nell'ultima notte". E’ questa la rivelazione che fa Claudio Signorile, all'epoca vice segretario socialista, che si attivò per salvare il leader della DC in una lunga intervista ad Alessandro Forlani il 23/01/2010 che può essere ascoltata sul sito rai di grparlamento. "Quando mi occupavo della trattativa con le BR, per il tramite di Pace e Piperno, avevo il telefono sotto controllo ed ero pedinato; se avessero voluto utilizzare le informazioni raccolte, avrebbero potuto fare qualcosa; servizi e forze dell'ordine sapevano tutto, ma l'immobilismo di cui furono protagonisti nei 55 giorni del sequestro Moro, fu una scelta". Signorile, che avvertì la Commissione Stragi di quanto fosse importante considerare il ruolo dei servizi segreti internazionali nei 55 giorni, traccia un'interpretazione generale del sequestro con diverse novità. "Le BR rapirono Moro in autonomia, secondo una loro logica, ma senza l'intenzione di ucciderlo: ne é prova il fatto che lo interrogassero a volto coperto". "dopo pochi giorni però il sequestro cambiò di significato, natura e quindi anche conclusione".
Moro: Signorile, si giocò tutto la notte tra 8-9 maggio
Su rapimento immobilismo servizi e forze ordine fu una scelta, scrive Paolo Cucchiarelli. Per il rapimento di Aldo Moro "tutto si giocò nelle ultime 48 ore", anzi "nell'ultima notte", quella tra l'8 e il 9 maggio del 1978. É questa la rivelazione che fa Claudio Signorile, all'epoca vice segretario socialista, che si attivò per salvare il leader della DC, rapito dalle Brigate Rosse, in una lunga intervista ad Alessandro Forlani che può essere ascoltata sul sito rai di grparlamento. Quindi, per Signorile tutto precipitò nella notte tra l'8 e il 9 di maggio. "quando mi occupavo della trattativa con le BR, per il tramite di Pace e Piperno, avevo il telefono sotto controllo ed ero pedinato; se avessero voluto utilizzare le informazioni raccolte, avrebbero potuto fare qualcosa; servizi e forze dell'ordine sapevano tutto, ma l'immobilismo di cui furono protagonisti nei 55 giorni del sequestro moro, fu una scelta". Signorile, che avvertì la Commissione Stragi di quanto fosse importante considerare il ruolo dei servizi segreti internazionali nei 55 giorni, traccia un'interpretazione generale del sequestro con diverse novità. "Le BR rapirono moro in autonomia, secondo una loro logica, ma senza l'intenzione di ucciderlo: ne é prova il fatto che lo interrogassero a volto coperto". "Dopo pochi giorni però il sequestro cambiò di significato, natura e quindi anche conclusione". Molti i particolari che Signorile racconta sulla trattativa da lui condotta, per fermare l'esecuzione. "Il 9 maggio il presidente della Repubblica Leone doveva firmare un provvedimento di clemenza a favore di Alberto Buonoconto, che sarebbe stato trasferito in un carcere più vicino ai familiari". "Quella stessa mattina il presidente del Senato Fanfani avrebbe pronunciato un discorso alla direzione DC, che di fatto avrebbe aperto una crisi politica e forse anche di governo, perchè dalla linea della fermezza, condivisa col PCI, la DC passava a quella della trattativa, proposta dal PSI". "So per certo che l'8 maggio due importanti uomini politici salirono al Quirinale, per convincere Leone a non firmare". Come é noto, non ci fu bisogno di nessuna di queste mosse, perché la mattina del 9 Moro fu ucciso. "Non credo che ci fosse bisogno di dare a Moretti l'ordine di agire, perché i brigatisti sapevano già cosa fare; certo c'erano delle persone sopra Moretti, che non sono mai state scoperte". "Il mio più grande rimorso é quello di non aver insistito di più con Fanfani nel nostro incontro del 6 maggio, perché facesse subito una dichiarazione netta, che ponesse fine alla linea della fermezza". Signorile rivela anche, per la prima volta, un importante particolare, cioè il fatto che la notizia della morte di Moro si diffuse prima della telefonata di Morucci al professor Tritto, a mezzogiorno e dieci. "Cossiga mi chiamò al Viminale, per prendere un caffé insieme, e io mi stupii, perché non avevamo un rapporto di grande consuetudine". "Dopo pochi minuti che ero nella sua stanza, erano le 10 e mezzo- 11, sentiamo l'altoparlante della centrale operativa, annunciare che la nota personalità era stata ritrovata al centro di Roma". Signorile però ritiene capziosa la ricostruzione fatta da alcuni giornalisti, che attribuiscono in quell'occasione a Cossiga la frase: "mi hanno fregato". Fonte ANSA
Aldo Moro, Claudio Signorile: "Ero con Francesco Cossiga per un caffè e non per una aperitivo", scrive "L'Ansa" il 29/06/2013. "Andai da Cossiga nella seconda parte della mattinata. Alle 12 si va a prendere un aperitivo non certo un caffè". Claudio Signorile ricorda la mattina del 9 di maggio e si rammarica che queste novità emergano ora che l'ex capo dello Stato non c'è più. E conferma la versione degli artificieri, che dicono che sono arrivati prima della telefonata delle Br. Quella mattina mentre era a colloquio con Cossiga al Viminale Signorile senti "l'altoparlante in presa diretta che annunciava che c'era un'auto in via Caetani con dentro un corpo e che andavano a verificare. Poi una seconda comunicazione che diceva, la 'nota personalità'..." L'orario? A microfoni spenti tempo fa Signorile disse "tra le 10 e le 11". "Ero lì per un caffè non un aperitivo", chiosa oggi come a ribadire quell'orario detto in totale controtendenza con la versione ufficiale della telefonata delle Br alle 12,13 a casa del Professor Tritto. Il problema è che proprio in quei minuti è in corso la seduta della direzione Dc che sta accettando la proposta di scambio uno contro uno avanzata dai socialisti e sostenuta da Amintore Fanfani. "Andai dunque da Cossiga - ha detto Signorile nel '93 - aspettando qualche novità e quali conseguenze potessero eventualmente scaturirne. Mentre ne stavamo parlando arrivò la telefonata del capo della Polizia che annunciò a Cossiga l'avvenuta uccisione di Moro. Lo vidi sbiancare. Ricordo che Cossiga esclamò: "Debbo dimettermi". Io gli dissi: "Fai bene, è un dovere morale". Sarebbe utile che le carte che parlano di questa telefonata a Parlato, ancora segrete, e conservate all'Archivio di Stato e presso il Senato (carte della Commissioni stragi) potessero essere rese pubbliche per capire i tempi e i modi della comunicazione della avvenuta esecuzione di Moro. Tra i documenti segreti a 35 anni dai fatti c'è tra l'altro un foglio manoscritto con note informative e mappe della zona di via Caetani (dell'11 maggio), una lettera del primo distretto di polizia, sempre dell'11 maggio, e un "appunto informale su una telefonata ricevuta dal capo della polizia" (del 12 maggio). Incrociando gli elementi s'intuisce che quei documenti possono dirci qualcosa su tempi e modi dell'annuncio allo Stato della morte di Aldo Moro.
Aldo Moro, Vitantonio Raso: "In via Caetani noi artificieri siamo arrivati due ore prima della telefonata delle Br", scrive "L'Ansa" il 29/06/2013. Non sono mai stati interrogati e se ne lamentano perché hanno molto da raccontare gli antisabotatori che per primi arrivarono all'R4 rossa, con il corpo di Moro nel bagagliaio, in via Caetani, il 9 di maggio di 35 anni fa. Uno di loro, Vitantonio Raso, ha scritto un libro, "La bomba Umana", nel quale dà dettagli che modificano la storia per come finora nota. Lui ed il suo collega Giovanni Circhetta - sentiti dall'Ansa e dal sito vuotoaperdere.org - spostano l'ora del ritrovamento dell'auto e del cadavere dello statista a prima delle 11, mentre era delle 12.30 la famosa telefonata delle Br che annunciava l'uccisione di Moro ed il luogo dove trovarne il corpo. Alle 11, infatti, gli artificieri arrivarono in via Caetani per controllare che l'R4 non fosse una trappola esplosiva. Fu Raso il primo ad entrare nella macchina ed a trovare sotto la coperta il corpo di Moro. Poco dopo arrivò anche Francesco Cossiga, che finora si sapeva essere giunto in via Caetani solo poco prima delle 14 e quando Raso, sceso dalla macchina, comunicò che dentro il bagagliaio c'era Moro, non vi fu alcuna reazione da parte Cossiga e da chi lo circondava. "Sembrava che sapessero già tutto", dice Raso. Dal Maresciallo Giovanni Circhetta l'altra novità: sul sedile anteriore della R4 c'era una lettera. Circhetta è sicuro e si chiede che fine abbia fatto. In un suo recente libro ("La bomba umana") Raso aveva lasciato indeterminata la questione degli orari che ora chiarisce dopo 35 anni. La questione è rilevante perchè la telefonata delle Br (Morucci e Faranda) che avvertiva dell'uomo chiuso nel bagagliaio della macchina è delle 12.13. Non solo: Francesco Cossiga e un certo numero di alti funzionari assistettero, ben prima delle famose riprese di Gbr che sono state girate a cavallo delle 14, alla prima identificazione del corpo fatta proprio da Raso. Cossiga si recò quindi due volte in via Caetani. La R4 fu ripetutamente aperta dai due sportelli laterali come testimoniano le foto a corredo di questa inchiesta. "Quando dissi a Cossiga, tremando, che in quella macchina c'era il cadavere di Aldo Moro, Cossiga e i suoi non mi apparvero nè depressi, nè sorpresi come se sapessero o fossero già a conoscenza di tutto", dice Raso. "Ricordo bene che il sangue sulle ferite di Moro era fresco. Più fresco di quello che vidi sui corpi in Via Fani, dove giunsi mezz'ora dopo la sparatoria". Raso fornisce la prova che le cose il 9 di maggio non andarono come finora si è raccontato: "Sono ben consapevole. La telefonata delle Br delle 12.13 fu assolutamente inutile. Moro era in via Caetani da almeno due ore quando questa arrivò. Chi doveva sapere, sapeva. Ne parlo oggi per la prima volta, dopo averne accennato nel libro, perchè spero sempre che le mie parole possano servire a fare un pò di luce su una vicenda che per me rappresenta ancora un forte shock. Con la quale ancora non so convivere". Raso non è mai stato interrogato.
Aldo Moro, Antonio Cornacchia: "Sono giunto in Via Caetani alle 13,20. Gli artificieri sono arrivati dopo", scrive Andrea Purgatori su "L'Huffington Post" il 30/06/2013. “Me lo ricordo perfettamente quel 9 maggio del 1978. Quando mi dissero di andare in via Caetani erano le 13,20. La voce via radio era del colonnello Gerardo Di Donno, che comandava la sala operativa. Io ero in piazza Ippolito Nievo. Non sapevo dove fosse via Caetani. Ci pensò il mio autista, Di Francesco. Quando arrivammo, non c’era nessuno. Vidi la Renault rossa parcheggiata e bloccai la strada chiedendo a Di Donno due auto di rinforzo che piazzai all’angolo con via delle Botteghe Oscure e in fondo, verso via dei Funari. La Renault era chiusa. Da fuori non si vedeva niente. Per me poteva anche esserci una bomba, quindi dissi agli artificieri di aprire prima di tutto il cofano. Poi tirai fuori dalla mia auto un piede di porco. Lo so che non avrei dovuto avere quell’arnese ma a via Gradoli, quando scoppiò quel casino del covo delle Brigate Rosse su cui ci attaccarono da tutte le parti, ci avevo aperto tutte le porte chiuse. E ci aprii anche il portabagagli della Renault…”. Il generale Antonio Cornacchia ha un’età, 81 anni. E un passato di successi e di guai, dall’arresto di Renato Vallanzasca alla tessera numero 871 della P2 di Licio Gelli. Nel 1978 comandava il Nucleo investigativo dei carabinieri. Secondo i due artificieri che oggi sostengono di essere giunti in via Caetani un’ora prima della telefonata con cui il brigatista Valerio Morucci comunicava al professor Francesco Tritto l’avvenuta esecuzione di Aldo Moro e il luogo in cui la famiglia avrebbe trovato il suo corpo, Cornacchia arrivò con Francesco Cossiga e col capo dell’ufficio politico Domenico Spinella. “Ma lasciamo stare queste storie…”, sbuffa Cornacchia. Che però aggiunge: “Se quelli erano già stati lì prima di me, non lo so. Ma quando sono arrivato io, la Renault era chiusa e non c’era ancora nessuno. Su questo non ci piove”.
- Siamo al piede di porco…
“Eh, già. A un certo punto presi il coraggio a due mani e decisi di aprire quel portabagagli col piede di porco. Altro che artificieri, il cadavere di Moro lo vidi per primo io. Era raggomitolato. Sul pianale vidi anche cinque teste di proiettile che gli avevano trapassato il corpo fermandosi sulla lamiera”.
- C’erano tracce di sangue?
“Per quello che vidi, no. Poi seppi che era morto per una emorragia interna. E contrariamente a quello che hanno raccontato i brigatisti, non fu Gallinari ad ucciderlo con la mitraglietta Skorpion. Fu Moretti. Sparò il primo colpo con una Walter PPK, poi la pistola si inceppò e la mano gli cominciò a tremare. Allora Maccari prese la Skorpion e sparò una raffica di dieci colpi. Ma Moro era già nel portabagagli, perché sul pianale sono rimaste le impronte delle ogive”.
- E gli artificieri?
“Si occuparono del cofano anteriore. Intanto era arrivata un sacco di gente. Giornalisti, ma non solo. Vennero anche Giancarlo Pajetta e Miriam Mafai, me li ricordo. Ma a quel punto io andai ad interrogare quelli che stavano in via Caetani”.
- Cosa venne fuori dalle testimonianze?
“C’era una signora bionda, di mezza età, che lavorava alla biblioteca di Stato. Mi disse che era uscita alle otto e dieci di mattina per andare a prendere un caffè e aveva notato la Renault rossa, perché di solito in quel posto parcheggiava un suo collega”.
- Quindi la Renault alle otto di mattina era già in via Caetani.
“Esatto”.
- Ma non potrebbe giurare che gli artificieri fossero già stati lì due ora prima del suo arrivo.
“Io dico quello che so e che ricordo. Ho avuto la segnalazione via radio alle 13,20, sono arrivato verso l’una e mezza e il portabagagli della Renault l’ho aperto io, col mio piede di porco. Io e il mio autista sono stati i primi, gli artificieri sono arrivati dopo”.
Vitantonio Raso: "Ero in via Caetani, da Aldo Moro, un'ora prima della telefonata delle Br. C'era Francesco Cossiga", scrive "L'Ansa" il 29/06/2013. Vito Antonio Raso proprio in via Caetani, a 35 anni di distanza. Ha da poco pubblicato un libro di memorie (“La bomba umana” ed. Seneca) nel quale ripercorre tutta la sua vita, a partire dall'infanzia trascorsa in un tranquillo paesino del salernitano per giungere alle sue missioni di artificiere durante le quali ha convissuto con il pericolo rischiando, più di una volta, la vita.
Dopo l’uscita del tuo libro hai rilasciato molte interviste. Ma quello che stai per aggiungere oggi è una novità importante ai fini della comprensione di cosa sia successo quella mattina in via Caetani…
«E’ vero. Ma voglio precisare che con il mio racconto non intendo accusare nessuno e non mi spinge nessun desiderio di rivalsa o di protagonismo. Sono stato un servitore dello Stato per tanti anni e rifarei tutto ciò che ho fatto, con la stessa abnegazione e con lo stesso spirito di sacrificio. Intendo solo aggiungere alcuni particolari che, dopo aver studiato meglio la vicenda, ritengo possano essere utili».
Non ti sei mai documentato sul caso Moro?
«No. Ed è stata una mia precisa scelta. Non sono mai più ripassato nemmeno da via Caetani nonostante sia stato a Roma sino al 2008. Oggi ho accettato il vostro invito per l’importanza di ciò che voglio aggiungere. Ma posso assicurarvi che per me è una enorme sofferenza».
Vito, cominciamo da quei 55 giorni…
«Ero già intervenuto la mattina del 16 marzo in via Fani. Mi chiamarono perché qualche testimone aveva raccontato che gli assalitori prima di fuggire avevano gettato nelle macchine coinvolte nell’agguato degli oggetti. Si temeva che potessero essere ordigni. Da allora, il Ministro Cossiga, pretese che fosse richiesta la presenza di un artificiere in ogni occasione ci si fosse trovati di fronte a materiale proveniente dalle BR. Ed in effetti intervenni anche in più occasioni in via Licinio Calvo (dove furono rinvenute in tre momenti diverse le auto utilizzate dai brigatisti per la fuga, nda), in via Gradoli ed, infine, in via Caetani. Me ne occupai sempre io per il semplice motivo che in via Fani avevo lasciato le mie impronte…»
Che ricordo ne porti dentro?
«Come accennavo prima, anche se sono passati tanti anni, quando torna questo periodo per me è sempre un trauma. E’ un rivivere lo choc ed il dispiacere di aver visto morire dei colleghi e di un’ulteriore morte che non credevo mai si fosse si sarebbe consumata».
Il 9 maggio mattina eri in ufficio quando…
«Da premettere che io lavoravo in borghese mentre quella mattina mi ero recato in ufficio in divisa perché alle 11 mi sarei dovuto recare a colloquio dal mio superiore nel COMMILITER, il Gen. Santovito, che aveva chiesto di parlarmi».
Il Gen. Santovito era, all’epoca, anche a capo del neocostituito SISMI. E di cosa avrebbe dovuto parlarti?
«Dato gli eventi che si susseguirono l’appuntamento fu annullato ed io non ho più saputo quale fosse l’argomento oggetto della sua richiesta di colloquio. Sta di fatto che io a quell’appuntamento non potetti andare».
Come si evolsero gli eventi?
«Ero in attesa di essere accompagnato in Piazza Ungheria (sede del COMMILITER) quando in ufficio si presentarono i “ragazzi” della volante 23 della Polizia, che conoscevo benissimo e che di solito mi passavano a prendere per portarmi sui luoghi ove era necessario il mio intervento di artificiere».
Quindi prima delle 11?
«Sicuramente.
Quanto prima?
«A distanza di anni è difficile ricordare un orario preciso, ma credo tra le 10.30 e le 10.45».
E ti portarono in via Caetani…
«Questo lo seppi solo al mio arrivo. Quando salii in macchina mi resi subito conto che la situazione era strana. In genere il capo equipaggio dell’auto che mi veniva a prelevare, mi dava le prime indicazioni sull’intervento che mi era richiesto. Insomma le classiche informazioni che a me servivano per iniziare a prepararmi. Quella mattina, però, non fu così. Nessuno apriva bocca e allora iniziai a fare domande: “Dove andiamo? Di che tipo di segnalazione si tratta?”. Ma le risposte erano vaghe tanto da farmi irritare e quasi prendermela con quei ragazzi che poi non c’entravano nulla. “Andiamo in centro… Ci hanno detto di portarti li…”»
Quanto tempo impiegaste per arrivare a destinazione?
«Non molto. Da Piazza San Giovanni in Laterano saranno 5-6 Km, non di più. Considerando che in genere procedevamo ad andatura elevata (e questo mi ha comportato anche 4 incidenti durante il servizio) potremmo averci impiegato un quarto d’ora venti minuti. Arrivammo su via delle Botteghe Oscure e ci fermammo all’imbocco di via Caetani. La situazione era tranquilla: non c’erano transennamenti o un blocco del traffico che facessero pensare ad un pericolo bomba. Il capo equipaggio mi fece scendere e mi indicò di avviarmi nella stradina dove mi stava aspettando un funzionario di Polizia che mi avrebbe dato le indicazioni del caso».
Chi era?
«Mi si fece incontro un uomo che si presentò con un “Salve, sono il Commissario Federico Vito. Vito è il cognome…”. Al che a me venne spontaneo ricambiare la battuta con “Piacere. Vito Raso. Vito è il nome”».
Quindi il commissario Federico Vito era già in via Caetani nei pressi della R4. Da quanto tempo era li?
«Questo non lo so, non gliel’ho chiesto. Di sicuro prima di me, da un bel po’ visto che il capo pattuglia della volante 23 ne era al corrente».
C’era qualcun altro assieme a lui?
«Lui era solo, di questo sono sicuro. E la strada era deserta, non c’era gente attorno alla Renault».
Attorno alle 11.15, quindi, incontrasti il Commissario Vito? Cosa ti disse?
«Anche lui fu molto vago. Mi disse che c’era da controllare la R4 perché era stata ricevuta una telefonata anonima e si riteneva che dentro potesse esserci una bomba. Al che io mi misi subito ad analizzare dall’esterno la vettura, facendo un giro di ispezione attorno all’auto e scrutando anche attraverso i finestrini. Nella parte anteriore notai subito qualcosa che rendeva pericolosa l’auto: oltre a della sabbia nera, dei bossoli esplosi erano posti sul tappetino anteriore sia dal lato guidatore che passeggero. Questa cosa mi allarmò e quindi usai molta accortezza nell’avvicinarmi. Dato che era un’auto che conoscevo molto bene iniziai a studiare una strategia per riuscire ad entrarvi con il minimo rischio. Mentre ero li che, sempre sotto il controllo del funzionario di Polizia, giravo attorno alla macchina si avvicinò una ragazza vestita in un modo che definirei “alternativo” che mi chiese a bruciapelo: “E’ vero che in quella macchina c’è il cadavere di Aldo Moro?”. Cercai di mantenere la calma per evitare di mandarla a quel paese anche perché, conoscendo bene il bagagliaio e sapendo che Moro era di statura non certo piccola, non avrei mai pensato che sarebbe potuto entrare in quel piccolo spazio. Ma tant’è».
Una ragazza…Saresti in grado di riconoscerla?
«Ritengo di sì. Era alta, magra, capelli scuri. Ricordo che comparve all’improvviso in strada e pochi secondi prima avevo udito il rumore di un portone che sbatteva. Come se fosse uscita da un palazzo all’inizio di via Caetani (lato Botteghe Oscure nda)».
L’Unità, un paio di giorni dopo il 9 maggio, parlò di un testimone che aveva visto, verso le 8 del mattino, parcheggiare la R4 da un uomo ed una donna. L’uomo basso e tarchiato, la donna magra e slanciata. Potrebbe trattarsi della stessa ragazza?
«E chi può dirlo questo…»
Quindi la ragazza si allontanò e tu iniziasti ad entrare nella macchina.
«Non subito. Mentre ero lì che guardavo l’auto dubbioso, vidi avvicinarsi un gruppetto di persone che da via delle Botteghe Oscure si dirigevano verso l’auto. Li riconobbi subito ed era evidente fossero interessati anche loro alla Renault».
Di chi si trattava?
«Riconobbi il capo della Digos romana Domenico Spinella, il comandante del nucleo investigativo dei Carabinieri Colonnello Cornacchia, ed il Ministro Cossiga».
Mi rendo conto che è passato molto tempo, ma sarebbe importante collocare questo incontro temporalmente…
«Non era passato molto tempo da quando ero arrivato sul luogo, una decina di minuti».
Quindi erano passate da poco le 11.30...
«Si, più o meno. E ricordo due particolari che ho ancora impressi nella mente. Il Colonnello Cornacchia mi rimproverò con un “Lei che è un militare, non si vergogna ad andare in giro così?” alludendo ai miei capelli che non erano proprio cortissimi. Avrei voluto rispondergli che venivo da due mesi in cui avevo dormito poco, fatto gli straordinari e rischiato la vita ogni giorno, ma lasciai stare. Il Ministro Cossiga, invece, mi chiese a bruciapelo: “Raso, che ne pensa di questa macchina?” Io lo guardai e con aria preoccupata risposi: “Ministro, si tratta di un’auto molto pericolosa. Ho notato al suo interno dei bossoli. E’ necessario lavorarci con molta attenzione ma alla svelta.” “Bene – mi rispose – Mi tenga informato.”. E nel dire questo si riallontanò assieme alle persone con le quali era arrivato dando ordine di far transennare la via da entrambe le direzioni per non far avvicinare nessuno, come da procedura».
Un momento Vito. Stai dicendo che quella mattina tu hai visto il Ministro Cossiga in via Caetani molto prima delle immagini ufficiali che sono collocate ben oltre le 13.30 e che mostrano i vari politici accorsi dopo la notizia data dalle agenzie quando, tra l’altro, la strada era già affollata e transennata?
«Assolutamente sì. Io vidi il Ministro Cossiga due volte. Poco dopo il mio arrivo in via Caetani e poi dopo un’ora e mezza due, quando terminai il mio lavoro di ispezione dentro la macchina».
Cossiga va via assieme agli altri personaggi che lo accompagnavano e tu inizi il tuo lavoro…
«Per prima cosa mi pongo il problema di come entrare in auto. Con molta attenzione forzo il finestrino anteriore sinistro e sblocco la serratura. Inizio l’ispezione dell’auto che, per fortuna, conoscevo molto bene in quanto mio padre possedeva proprio una R4 e con essa feci le prime esperienze di guida. Sempre muovendomi con molta cautela, controllai i tappetini anteriori, il cruscotto, frugai sotto i sedili alla ricerca di qualche elemento che mi desse conferma della presenza di un ordigno a bordo. L’operazione durò molto tempo in quanto ogni movimento era studiato ed effettuato con la massima delicatezza. Dopo aver terminato di controllare la parte anteriore della macchina, sempre dall’interno, mi spostai sul sedile posteriore e, dopo una breve ispezione, la mia attenzione fu catturata dal vano bagagli che, nella R4, è un tutt’uno con l’abitacolo».
Cosa notasti?
«Mi resi conto che c’era una coperta che copriva qualcosa, e lì la mia preoccupazione salì. Essendo sconsigliato spostare la coperta perché poteva essere collegata ad un ordigno a strappo, provai a metterci una mano sotto. Toccai qualcosa, una “peluria” che in un primo momento attribuii al pelo di un cane. Non capivo, ero disorientato. Poi notai che, appoggiato sulla coperta, c’era un borsello e lo presi. Non fidandomi troppo, con un taglierino troncai la cinghia che lo teneva chiuso e, oltre ad un orologio ed una catenina, trovai un assegno di 27.000 lire dell’allora Banco di S. Spirito intestato ad Aldo Moro. Fu in quel momento che capii che sotto quella coperta c’era il Presidente della DC».
Pensasti allora che la ragazza aveva ragione?
«No, non subito. Sia perché ero convinto che le Brigate Rosse avrebbero rilasciato il loro prigioniero vivo sia perché non lo riconobbi subito. Aveva un volto più magro di quello che ero abituato a vedere in TV, quella barba piuttosto folta, la posizione rannicchiata, quasi fetale. Dopo qualche secondo notai l’inconfondibile segno che identificava Moro e cioè la ciocca di capelli bianca, la sua caratteristica “frezza”. Era immobile ed il mio primo pensiero fu che lo avevano narcotizzato. Poi notai tre cose: molta sabbia nera, delle ampie macchie di sangue fresco sul petto in corrispondenza di fori di arma da fuoco e un fazzoletto di carta sotto al bavero della giacca posto come a voler tamponare le ferite. Fu la vista di quel sangue a darmi la certezza che in quell’auto le Brigate Rosse ci avevano riconsegnato il cadavere di Aldo Moro».
Che ora si era fatta?
«Non so collocare i singoli momenti nel tempo. In auto ero stato un’ora, un’ora e mezza. Dopo aver fatto la scoperta, mi appoggiai al sedile posteriore e rimasi qualche minuto ad osservare il volto di Moro, da solo con i miei pensieri. Fu anche un modo per scaricare la tensione che si era accumulata. E fu allora che notai un particolare».
Quale?
«Come dicevo prima, il 16 marzo ero intervenuto in via Fani. Ero arrivato non troppo tempo dopo la conclusione dell’agguato (mezz’ora massimo tre quarti d’ora) e i cadaveri dei poveri agenti erano ancora scoperti. Mentre mi occupavo del presunto ordigno che fu trovato ai piedi dell’autista di Moro, Appuntato Ricci, mi sporcai del suo sangue che era ancora fresco e che colava dalle sue ferite. Ebbene, il sangue che ebbi modo di vedere sul petto di Moro, era dello stesso colore e fluidità di quello visto in via Fani».
Come se fosse stato ammazzato da non più di un’ora, insomma…
«Si, ebbi proprio quell’impressione».
A chi comunicasti la notizia?
«Aprii lo sportello posteriore destro ed uscii dalla macchina. Il gruppetto di personaggi assieme a Cossiga era in fondo alla strada e io gli feci cenno di avvicinarsi. Quando furono abbastanza vicini, parlando a voce bassa per non farmi ascoltare da orecchie indiscrete dissi: “Ministro, dentro quell’auto c’è il cadavere di Aldo Moro”».
Cossiga e gli altri che reazione ebbero?
«Assolutamente nessuna. Restarono impassibili. Nessun segno di sgomento o stupore, nè lui e neppure gli altri funzionari che gli erano accanto. Come se già sapessero».
Come se già sapessero o come se fossero stupiti, increduli, della notizia?
«Non avevano l’aria di essere stupiti. Ho avuto la netta sensazione che per loro non fosse una novità».
Dopo avergli dato la notizia, Cossiga ti chiese altro?
«Mi fu chiesto di controllare tutte le auto parcheggiate lì vicino prima di aprire il portellone posteriore. Ma la mia risposta fu secca: “Non se ne parla nemmeno, Ministro…” Ero stremato, sia per lo stress di quella mattina sia per la fatica delle settimane precedenti. Chiesi rinforzi. E fu così che furono richiamati altri due colleghi che stavano disinnescando un ordigno a Cassino per darmi una mano. Finchè non giunsero anche loro, la gente fu tenuta a distanza dalla macchina e io tirai un po’ il fiato».
Casertano e Circhetta, come si legge nei verbali…
«Si. Casertano si occupò delle altre auto in sosta mentre Circhetta mi aiutò ad aprire il portellone. Infilando una lastra nella fessura del portellone, mi ero infatti accorto che era chiuso a chiave. Utilizzando una grossa tronchese (una specie di maxi-apriscatole) iniziai a tagliare la lamiera della R4 attorno alla serratura».
Questo è anche documentato dalle immagini.
«Infatti. Dopo alcuni minuti, assieme al collega riuscimmo a procurarci un varco nella lamiera e, dopo aver controllato che nei pressi della serratura non vi fossero fili elettrici che facessero pensare ad un congegno di innesco, aprimmo il portellone. E’ il momento in cui la storia si svela in tutta la sua drammaticità. Molti erano li perché si era sparsa voce di un’auto-bomba, altre voci parlavano di Moro, ma ciascuno, in cuor suo, nutriva ancora un lume di speranza. Poco dopo l’apertura si avvicinò un prete che poi seppi essere Don Damiani, prete personale di Moro. Mi chiese se poteva benedire la salma e, naturalmente, acconsentii. Essendo un credente, anche io mi raccolsi in preghiera».
C’è un verbale del Commissario Vito che indica il tuo intervento alle 12.30, un altro verbale dei periti nel quale siete citati anche voi artificieri. Ma non ho trovato nessuna relazione di servizio a tuo nome.
«Ciascuno di noi al rientro da un intervento scriveva un resoconto dei fatti e lo consegnava al capoufficio. Quel pomeriggio, al termine dell’intervento in via Caetani, rientrai in ufficio e scrissi il mio resoconto. Nel consegnarlo il mio capoufficio ebbe una reazione insolita. “Ma che cavolo hai scritto?” alludendo al mio italiano o forse alla forma complessiva del mio scritto. Forse a causa della stanchezza non ero stato molto chiaro, ma non mi era mai successo che un “rapporto di servizio” mi venisse strappato in faccia».
Quindi del tuo intervento di quella mattina non esiste traccia?
«Il Maresciallo Circhetta era accanto a me e si propose per farne uno cumulativo dell’intervento di tutti e tre. E così fu fatto».
E cosa c’era scritto nel rapporto? Si parlava dei due momenti distinti di arrivo sul luogo?
«Questo non lo so. Non l’ho mai letto. A distanza di 35 anni hai deciso di scrivere un libro che hai intitolato “La bomba umana”. Anche se nel testo parli solo marginalmente della mattina del 9 maggio, immagino che fossi consapevole che qualcuno avrebbe potuto chiederti degli orari… Ho deciso di scrivere un libro di memorie anche perché negli anni ho ascoltato di tutto. Persone che non ne sapevano nulla (non avendo vissuto in prima persona la vicenda) ma che sentivano il bisogno di parlare, dicendo un sacco di inesattezze. Ho voluto raccontare la mia storia consapevole del fatto che, in questo mio racconto, ci sia un ordigno a tempo che prima o poi esploderà. E’ un titolo, in qualche misura, autobiografico…»
Questa tua storia rappresenta la prova fattuale che alcune ipotesi sono fondate. Che quella mattina lo Stato seppe molto presto (con grande anticipo sugli orari ufficiali) che Moro era stato ucciso e che il suo cadavere era in via Caetani, che qualcuno si occupò di controllare che la notizia non venisse divulgata e che solo nella tarda mattinata si espose al mondo la scena del delitto. Come mai? Che idea ti sei fatto?
«A questa domanda non so rispondere. E’ chiaro che c’è una enorme discordanza con quanto affermano le ricostruzioni. La telefonata delle 12.13 fu assolutamente inutile in quanto Moro era lì da oltre due ore ed evidentemente chi doveva saperlo ne era al corrente. Mi sono sempre detto che qualcosa non quadrava, ma non ho mai voluto approfondire, non me ne sono mai interessato. La decisione di scrivere il libro, forse, nasce anche dalla speranza che qualcuno riesca a dare una risposta a questi interrogativi. Io ho raccontato quella che è la mia testimonianza, che nessun magistrato e nessuna commissione d’inchiesta mi hanno mai chiesto. So che a 35 anni di distanza sarà difficile ma spero lo stesso che le mie parole possano servire a fare un po’ più di luce su una vicenda che, ancora oggi, rappresenta per me un forte shock. Con il quale non ho ancora imparato a convivere».
Aldo Moro, Giovanni Circhetta: "Qualcuno aprì l'R4 prima del nostro intervento", scrive "L'Ansa" il 29/06/2013. A Poggiardo (Le), incontriamo Giovanni Circhetta, il Maresciallo Capo che era il superiore diretto di Vito Raso, che conferma la versione del “suo” Sergente Maggiore ed aggiunge due particolari molto importanti: qualcuno aprì quell’auto prima del loro intervento e in macchina c’erano due lettere delle quali non ha mai trovato alcun riferimento nei verbali di sequestro…
Maresciallo Circhetta, cosa ricorda di quella mattina?
«Avevo lasciato l’ufficio molto presto per un intervento a Nettuno. Rientrato in ufficio seppi che il Sergente Maggiore Raso era stato portato in centro per un intervento. Dopo pochi minuti ricevemmo una telefonata in cui ci venne chiesto di raggiungere Raso che aveva trovato su una R4 il cadavere di Moro. Io ero il Capo Nucleo e pensai che Raso chiese il mio aiuto perché non se la sentiva di procedere da solo».
Quindi lei si precipitò sul posto?
«Come prima cosa chiamai il Col. Masciarelli per informarlo dell’importante novità chiedendogli di rientrare in ufficio per seguire le operazioni a distanza.
Ricorda che ora poteva essere?
«Erano le 11.00 del mattino, l’orario lo ricordo con certezza. Minuto più minuto meno. Portai con me l’altro Sergente, Andrea Casertano, in modo da avere qualche braccia in più che, in simili situazioni, si sarebbe rivelata sicuramente utile».
Quando arrivaste in via Caetani c’era già molta gente?
«Per niente. Oltre a raso c’erano alcuni poliziotti in borghese, un commissario che aveva uno spiccato accento sardo ed un alto ufficiale dei Carabinieri che mi pare fosse il Col. Antonio Cornacchia. C’era anche qualche curioso, ma non saprei dire se fossero semplici passanti o agenti dell’antiterrorismo che osservavano la scena da lontano. La zona era stata parzialmente delimitata».
Le operazioni, a quel punto, erano in mano sua, immagino.
«Certo. Feci una prima analisi della situazioni e decisi che il rischio minore era quello di agire dal portellone posteriore. L’operazione, però, non fu molto rapida perché prima di far intervenire i due colleghi, fui costretto a parlare con i membri delle Forze dell’Ordine per convincerli ad allontanarsi. Nel loro interesse. Finalmente Raso e Casertano si misero all’opera e riuscirono a tagliare il portellone con la cesoia».
E poco dopo fu aperto.
«Non subito. Prima di agire sulla serratura, attraverso il varco, introdussi il mio capo per osservare l’interno della macchina per capire se sul retro ci fossero dei fili che facessero sospettare un congegno di innesco. Ma non notai nulla, se non una coperta con qualcosa sotto che però non rimossi per evitare che fosse collegata ad ordigni a strappo. Sapevo che sotto c’era il cadavere dell’On. Moro, ma in quel momento avevo il dovere di interessarmi della sicurezza…»
Aperto il portellone, cosa fa?
«Ero piccoletto di statura e piuttosto agile e quindi mi puntellai sul bordo del bagagliaio per sporgermi verso l’interno della macchina ed avere la certezza che non ci fossero altri scherzetti. In quei casi si deve fare attenzione alle guarnizioni lungo gli sportelli. Ma non c’era nulla. Sui sedili posteriori c’erano degli oggetti (catene, triangolo) che credo siano stati spostati dal bagagliaio per far posto. Il sedile posteriore era sganciato e leggermente reclinato verso l’interno della vettura. Questo non era casuale in quanto quando Moro fu fatto salire, per evitare che chiudendo il portellone questo sbattesse contro il suo corpo, la testa sfruttava quell’ulteriore spazio facendo allontanare dal portellone il resto del corpo».
Ha notato bossoli, o altri particolari di interesse?
«A dir la verità si. Ho scorto delle carte sul sedile anteriore. Sembravano proprio delle lettere. E mi sono incuriosito in quanto in quei giorni si era parlato delle famose lettere di Moro».
Lettere?
«Non mi sembra una novità da poco. Può descrivercele meglio? Si vedeva, distintamente, una busta da lettera chiusa il cui contenuto era poco spesso, lasciava intendere fossero pochi fogli piegati similmente a come si fa per spedire una lettera. Non vi erano segni distintivi, né scritte. Non saprei dire se le buste fossero una o due. Ma di sicuro sopra c’era poggiato un foglietto che ad un’osservazione più accurata si rivelò essere un assegno bancario. Ovviamente non le toccai (come previsto dalle procedure) ma mi sono sempre chiesto cosa contenessero. Ma è una domanda a cui non ho mai potuto dare risposta in quanto di quelle buste, che io sappia, non si è mai saputo nulla».
Quindi lei non ha avuto modo di vedere da vicino il cadavere dell’On. Moro?
«Si, certo. Dopo aver ispezionato l’interno della macchina scesi dal pianale e mi occupai della coperta. La sollevai con molta cautela e scoprii il cadavere che riconobbi subito dalla frezza bianca (e anche perché appena arrivato, Raso mi aveva raccontato del suo intervento). Vidi il sangue e i fori dei proiettili. Infilai le mani sotto il corpo di Moro per verificare che non ci fossero ordigni a pressione e mi accorsi di alcuni bossoli che erano proprio sul piano del bagagliaio. Alle mie spalle sentivo le voci di due uomini delle Forze dell’Ordine, uno della Polizia e uno dei Carabinieri che discutevano animatamente su chi dovesse incaricarsi di portar via il corpo. Appena mi allontanai dal bagagliaio per dare la possibilità ai presenti di verificare il contenuto dell’auto ormai messa in sicurezza fui allontanato dal retro dell’auto con un forte risucchio causato dagli uomini dei due funzionari che si stavano spingendo a ridosso del bagagliaio (si vede nelle immagini). Proprio in quel momento, poiché dovetti alzare la testa, mi accorsi che sull’impalcatura accanto alla R4 c’era un fotografo che stava scattando molte foto. E pensai a come fosse potuto arrivare fin lassù. Credo si trattasse di qualcuno della scientifica… Si. Questo lo seppi dopo. Fatto sta che il portellone fu richiuso e fu chiamata un’ambulanza. E mi stupì vedere che alla fine, tra i due litiganti, il terzo gode. Perché furono i Vigili del Fuoco a trasportare Moro all’obitorio».
Terminato il vostro intervento rientraste in ufficio. Fu fatto un verbale?
«Dopo lo spostamento del cadavere tornammo in sede dove c’era il Col. Masciarelli al quale, ovviamente, raccontammo della mattinata. Poiché il capo nucleo ero io, scrissi la relazione di servizio nella quale non specificai nessun orario in quanto si trattava di un dato di pubblico dominio. Ricordo bene le parole che utilizzai: “Sono intervenuto in via Caetani per un’operazione antisabotaggio su una macchina Renault 4. I due ragazzi Raso e Casertano hanno lavorato a tagliare il portellone posteriore. Una volta ispezionata la macchina nei minimi particolari ho trovato dentro il bagagliaio l’Onorevole Moro, morto. Firmato: maresciallo Circhetta”».
Il primo del vostro nucleo a giungere sul posto fu Vito Raso, che trovò sul posto un commissario di Polizia. Possiamo sospettare che qualcuno prima di voi artificieri aprì la macchina?
«È un sospetto fondato. Le BR dopo aver abbandonato l’auto, hanno sicuramente avvisato qualcuno che a sua volta ha informato la polizia. Di conseguenza un commissario di zona si sarà recato sul posto per verificare la fondatezza della notizia. Solo dopo averne la certezza, come era nelle procedure, hanno chiamato noi artificieri».
Quindi non ci fu nessuna telefonata anonima che parlava di un’auto-bomba?
«No, di questo ne sono sicuro. Perché se così fosse stato in ufficio ne avremmo avuto notizia».
Un funzionario ci ha parlato di “uomo dello spadino”.
«Si, possibilissimo. Ma lo spadino, trattandosi pur sempre di operazione di scasso, lascia traccia nella serratura. Se la R4 è ancora disponibile basterebbe un pennellino per fare una verifica…»
In alcune foto si vede la R4 senza gente intorno e con gli sportelli aperti. Sono scatti effettuati in sua presenza, cioè dopo le 11.30?
«No. Di questo ne sono sicuro al 100% perché quando arrivai sul posto non ci fu alcun via vai di persone che entravano ed uscivano dall’auto utilizzando lo sportello posteriore aperto. Se così fosse stato, non ci avrei avuto alcun motivo di perdere un’altra ora e mezza di tempo per creare un varco nella lamiera del portellone con l’obiettivo di verificare se sotto il cadavere potesse esserci una carica esplosiva. Avrei comodamente effettuato la verifica dal sedile posteriore, abbassando lo schienale ed infilando le mani sotto il corpo».
Nessun magistrato l’ha mai convocata?
«No, anche se me lo aspettavo. E per tanti anni ho creduto che qualcuno mi chiamasse. Poi col passare del tempo mi sono rassegnato. La cosa che mi sembra strana è che i magistrati mi chiamavano spesso, addirittura per sentirmi dopo un sequestro di fuochi artificiali».
È un ricordo che si porta dentro?
«Si, anche perché ebbi modo di avere una gratifica professionale. Il funzionario che parlava sardo, che poi seppi essere il commissario Corrias, aveva apprezzato il nostro intervento e aveva telefonato nei giorni successivi al Col. Seccia, nostro superiore, di congratulazioni per il lavoro svolto con precisione e professionalità, in una situazione così difficile».
E la sua storia non l’ha mai raccontata?
«Ho accennato qualcosa al mio amico Giovanni D’Aco, fotografo de “Il Messaggero”. Lui mi seguiva sempre. Quando sapeva che ero partito per un intervento, mi raggiungeva. Lei si chiederà come mai non l’abbia raccontata anche ad altri. Semplicemente perché nessuno me l’ha mai chiesto».
Le rivelazioni di un poliziotto. Sequestro Moro. "Le Br coperte dai servizi segreti italiani". Parla Enrico Rossi, il poliziotto al quale fu tolta l’indagine Br-servizi segreti, scrive “Il Secolo XIX il 23 marzo 2014. Due uomini dei servizi segreti sulla moto Honda, presente in via Fani il 16 marzo 1978 mentre le Brigate Rosse (da sole?) rapivano Aldo Moro e massacravano la sua scorta. Da quella moto partirono colpi di mitraglietta contro un testimone e fu quella moto che bloccò il traffico. La confessione post mortem di qualcuno che sapeva e le rivelazioni di un poliziotto riaprono i dubbi su uno dei passaggi più oscuri della storia italiana. E infatti nel racconto diEnrico Rossi, ispettore di pubblica sicurezza in pensione, si parla anche di prove distrutte dopo una breve indagine della magistratura romana. Rossi ha parlato con Paolo Cucchiarelli, un giornalista dell’agenzia Ansa. «Tutto è partito - ha spiegato - da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore della Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, quello che guidava la moto». Rossi, che vive a Torino spiega con puntiglio e gentilezza sabauda che, secondo colui che inviò la lettera anonima - che si qualificava come uno dei due sulla moto - gli agenti avevano il compito di «proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978».
LA LETTERA ANONIMA. Tutta l’inchiesta è nata da una lettera anonima inviata al quotidiano torinese La Stampa nell’ottobre 2009. Eccola: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...».
LE INDAGINI. L’anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio di Torino. «Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più». Il quotidiano all’epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell’antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 in modocasuale. Non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani che secondo un testimone ritenuto molto credibile era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo. «Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta». «Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo». Il titolo era: «Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse».
I DEPISTAGGI. «Nel frattempo - continua Rossi - erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche `incomprensione´ nel mio ufficio. La situazione si `congela´ e non si fa nessun altro passo, che io sappia». «Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una `voce amica´ di cui mi fido - dice l’ex poliziotto - m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta `incompiuta». Rossi ricorda, sequestrò una foto, che quell’uomo aveva un viso allungato, simile a quello di De Filippo: «Sì, gli assomigliava». Fin qui l’ex ispettore, che rimarca di parlare senza alcun risentimento personale ma solo perché «quella è stata un’occasione persa. E bisogna parlare per rispetto dei morti».
I RISCONTRI. Il signore su cui indagava Rossi è effettivamente morto - ha accertato l’ANSA - nel settembre del 2012 in Toscana. Le pistole sembrerebbero essere state effettivamente distrutte, ma il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un’inchiesta della magistratura sul caso Moro. Per una volta sono tutti d’accordo: magistrati e Br. La Honda blu presente in via Fani il 16 marzo del 1978 è un mistero. I capi brigatisti hanno sempre negato che a bordo ci fossero due loro uomini, ma da quella moto si spararono - sicuramente - gli unici colpi verso un `civile´ presente sulla scena del rapimento, l’ingegner Alessandro Marini, uno dei testimoni più citati dalla sentenza del primo processo Moro. Mario Moretti e Valerio Morucci sono stati sempre chiarissimi su quella moto blu di grossa cilindrata: «Non è certamente roba nostra». L’ingegner Marini si salvò solo perché cadde di lato quando una raffica partita da un piccolo mitra fu scaricata contro di lui `ad altezza d’uomo´ proprio da uno dei due che viaggiavano sulla moto. I proiettili frantumarono il parabrezza del suo motorino con il quale l’ingegnere cercava di `passare´ all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Marini fu interrogato alle 10.15 del 16 marzo. Il conducente della moto - disse - era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Dietro, sulla moto blu, un uomo con il passamontagna scuro che esplose colpi di mitra nella direzione dell’ingegnere perdendo poi il caricatore che cadde dal piccolo mitra durante la fuga. La sera a casa Marini arrivò la prima telefonata di minacce: “Devi stare zitto”. Per giorni le intimidazioni continuarono. Si rafforzarono quando tornò a testimoniare ad aprile e giugno. Poi l’ingegnere capì l’aria, si trasferì in Svizzera per tre anni e cambiò lavoro. Il caricatore cadde certamente dalla moto e Marini, dicono le carte, lo fece ritrovare ma questo non sembra essere stato messo a raffronto con i tre mitra (ritrovati in covi Br) che spararono in via Fani (ce ne è anche un quarto, mai ritrovato).
LE IPOTESI. Di certo da quella moto si sparò per uccidere Marini, tanto che i brigatisti sono stati condannati in via definitiva anche per il tentato omicidio dell’ingegnere. Marini d’altra parte confermò più volte durante i processi il suo racconto e consegnò il parabrezza trapassato dai proiettili. A terra in via Fani rimasero quindi anche i proiettili sparati dal piccolo mitra ma le perizie sembrano tacere su questo particolare. Sarebbe questa l’ottava arma usata in via Fani: 4 mitra, 2 pistole, oltre alla pistola dell’agente Zizzi, che scortava Moro, e quella in mano all’uomo della Honda: il piccolo mitra. Su chi fossero i due sulla Honda tante ipotesi finora: due autonomi romani in `cerca di gloria´ (ma perché allora sparare per uccidere?); due uomini della `ndrangheta (ma non si è andati oltre l’ipotesi); o, come ha ventilato anche il pm romano Antonio Marini che ha indagato a lungo sulla vicenda, uomini dei servizi segreti o della malavita. I Br negano ma, ha detto il magistrato, «una spiegazione deve pur esserci. Io vedo un solo motivo: che si tratti di un argomento inconfessabile». Uomini della malavita o dei servizi? «Allora tutto si spiegherebbe». Certo che quella mattina a pochi passi da via Fani c’era, per sua stessa ammissione, Camillo Guglielmi, indicato alternativamente come addestratore di Gladio o uomo dei servizi segreti, invitato a pranzo alle 9.15 di mattina da un suo collega. E Guglielmi è proprio l’uomo dei servizi chiamato in causa nella lettera anonima che ha dato il via a Torino agli accertamenti sui due uomini a bordo Honda, poi trasferiti a Roma. A Guglielmi si è addebitata anche la guida di un gruppo clandestino del Sismi incaricato di gestire il rapimento Moro secondo un’inchiesta che è anche nell’archivio della Commissione stragi, in Parlamento.
Gli attacchi agli aeroporti di Roma e Vienna, 30 anni fa. Breve storia di uno degli ultimi grandi attacchi terroristici compiuti da organizzazioni palestinesi in Europa, il 27 dicembre 1985, scrive “Il Post”. Alle 8 e 15 del 27 dicembre 1985, due commando palestinesi formati da sette terroristi attaccarono gli aeroporti di Roma e Vienna con armi automatiche e granate, in quello che diventò uno degli ultimi attacchi compiuti dal terrorismo internazionale in Italia e un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese. I due commando riuscirono a uccidere 19 persone e a ferirne più di 130 prima di essere uccisi o catturati a loro volta. I terroristi cominciarono ad agire a Roma, alle otto e un quarto in punto, quando quattro uomini armati entrarono nella grande sala dell’aeroporto dove centinaia di persone erano in fila per il check-in della compagnia aerea israeliana El Al e dell’americana TWA. I quattro uomini spararono sulla folla con armi automatiche e lanciarono alcune granate. Le guardie di sicurezza israeliane, alcune in borghese e mischiate tra i passeggeri, risposero al fuoco. La compagnia aerea israeliana era oggetto di attacchi da anni e oramai in tutti gli aeroporti del mondo si era dotata di guardie di sicurezza, spesso ex-militari o poliziotti. La sparatoria durò un minuto. Tre palestinesi furono uccisi dalle guardie armate, mentre il quarto fu ferito e catturato dalla polizia italiana. Mentre la sparatoria terminava a Fiumicino, altri tre uomini iniziarono a sparare contro le persone in coda davanti agli uffici di El Al nell’aeroporto di Vienna. Tre persone furono uccise da una granata e altre 39 rimasero ferite. I tre assalitori fuggirono in macchina, ma furono inseguiti e fermata dalla polizia austriaca. Uno di loro rimase ucciso nello scontro a fuoco, mentre altri due furono catturati. Durante il processo, i terroristi catturati dissero di appartenere ad Abu Nidal, un’organizzazione palestinese che nel 1974 si era separato da Fatah, il gruppo guidato da Yasser Arafat e la principale delle molte fazioni che lottavano per la liberazione della Palestina. Abu Nidal era uno dei gruppi più cruenti e, nel corso degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, uccise più di 900 persone in una serie di attentanti ed assassinii mirati, spesso nei confronti di altri palestinesi. Il doppio attacco di Fiumicino e Vienna fu il più ambizioso degli attentati che l’organizzazione provò a compiere in Europa e rappresentò un punto di svolta nella lotta per la liberazione della Palestina. L’opinione pubblica europea, che fino ad allora aveva adottato un atteggiamento cauto nei confronti del terrorismo palestinese, reagì con durezza agli attacchi. Pochi mesi prima, nel novembre del 1985, Arafat aveva dichiarato in un famoso discorso al Cairo che gli attacchi terroristici contro obiettivi israeliani all’estero servivano solo a danneggiare la causa palestinese. La reazione dell’opinione pubblica dopo gli attacchi sembrò in parte confermare le sue parole e negli anni successivi il terrorismo palestinese in Europa praticamente sparì. Le indagini successive e le confessioni dei terroristi catturati indicarono che il regime siriano, guidato da Hafez al Assad, padre dell’attuale dittatore Bashar, aveva fornito aiuto logistico e ospitalità agli organizzatori dell’attentato. Gli Stati Uniti all’epoca accusarono anche il regime libico di Muammar Gheddafi. I servizi segreti tunisini dimostrarono che la Libia aveva fornito passaporti falsi ad alcuni dei terroristi, ma giudici e investigatori europei rimasero convinti che l’appoggio maggiore all’attacco fu fornito dai siriani. L’organizzazione Abu Nidal esiste ancora oggi, ma la sua forza politica e militare è andata scomparendo.
Assalto a Fiumicino. Il terrore 30 anni prima di Parigi, scrive Luca Laviola su “L’Ansa”, “America Oggi”, ecc. il 21-12-2015. Doveva finire come l'11 Settembre a New York - ma 16 anni prima -, con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell'aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 16 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l'apocalisse in aeroporto. "Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo", ha detto anni fa Ibrahim Khaled, l'unico dei quattro a essere catturato. Condannato a 30 anni, ha collaborato, chiesto perdono e di recente è tornato libero. Il massacro dell' '85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l'intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. Il mandante dell'attentato dell' '85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all'ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto Lodo Moro (lo statista Dc era stato ucciso nel '78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all'Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull'ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un'altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l'uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer. E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l'aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. L'ammiraglio Fulvio Martini, nell' '85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell'ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. Il 17 dicembre '73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell'Isis oggi.
Strage di Fiumicino, parla il fotografo che visse quei momenti in diretta. Vergati: "Ero lì, la gente stava al bar e un attimo dopo era morta", scrive Luca Laviola su “L’Ansa” il 20 dicembre 2015.Il 13 novembre ha ripensato a quella strage avvenuta, trent'anni fa, a poche decine di metri da lui. "E' una cosa incredibile, a Parigi quelle persone stavano sedute al bar e un attimo dopo una sventagliata di mitra le ha uccise. Come il 27 dicembre dell'85 a Fiumicino". Elio Vergati aveva 46 anni e faceva il fotografo. Lo fa ancora oggi che ne ha 76 e vanta un secondo posto al premio Pulitzer e al World Press Photo. Sempre nella mitica agenzia Telenews che da decenni racconta quello che accade negli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino. "Ero nel nostro ufficio e sentimmo dei botti - racconta -. Si capì subito che erano bombe a mano e la gente scappava da tutte le parti. Ho preso la macchina fotografica e ho fatto di corsa i 100, 150 metri di distanza dai check-in dell'El Al e della Twa. Una sparatoria tremenda, ma sarà durata un minuto, non di più". E' la strage di Fiumicino: 4 terroristi palestinesi tirano bombe e sparano sulla gente in fila all'imbarco o al bancone del bar, prima che tre di loro vengano uccisi dalla sicurezza della compagnia israeliana. "Sono intervenuti subito - ricorda Vergati -, il quarto terrorista è stato catturato da un poliziotto italiano e ha rischiato il linciaggio". Una foto del reporter mostra il diciottenne Khaled Ibrahim portato via da un agente. Una delle tante esclusive scattate quel giorno da Vergati. "C'erano tanti feriti in terra, sangue, gente che chiedeva aiuto e si lamentava, una scena pazzesca - racconta -. Mentre scattavo le foto cercavo di rassicurarli, che i soccorsi sarebbero arrivati. Ma ti senti impotente. I primi feriti li hanno portati via con i carrelli dei bagagli. Ricordo una donna con il ginocchio aperto, poi ho saputo che è morta. Tra le vittime una ragazzina di 12 anni figlia di un giornalista americano". "Gli israeliani erano preparati, come sempre, loro difendevano i loro voli - dice il fotografo - due agenti italiani sono arrivati poco dopo. Dell'allarme lanciato dai servizi italiani si è saputo in seguito". Secondo alcune fonti gli addetti alla sicurezza dell'El Al - in realtà corpi speciali - avrebbero finito i tre palestinesi con un colpo alla nuca e poi sarebbero subito partiti per Israele. "Non lo so. Può darsi. Non li abbiamo più visti", dice Vergati che ricorda però che un palestinese aveva un foro sulla nuca e un rivolo di sangue. "La cosa più incredibile è che dopo la strage hanno chiuso l'aeroporto una mezz'ora massimo, poi è stata messa una paratia per non far vedere quel settore e hanno ripreso a fare biglietti - dice Vergati -. E la gente si lamentava che perdeva l'aereo". "Eravamo così vicini alla sparatoria, abbiamo trovato dei proiettili nel vetro dell'ufficio - ricorda -. La paura non la senti quando fai le foto, ti viene dopo, ti tremano le gambe e pensi 'ma che so' matto?'". Quella del resto era la seconda strage a cui Vergati assisteva in diretta al Leonardo Da Vinci. Il 17 dicembre 1973, 12 anni prima, un commando arabo gettò bombe incendiarie dentro un aereo della Pan Am fermo sulla pista: 30 morti bruciati. "Anche allora ero in ufficio e sentimmo le esplosioni - racconta -. Corsi dietro un agente con il mitra e mi piazzai dietro una colonna a fotografare. I terroristi erano a 40 metri e le pallottole fischiavano vicine". Vergati scattò la foto di un finanziere morto sulla pista "che arrivò seconda al Premio Pulitzer". Oggi Elio Vergati è ancora lì, lavora all'aeroporto di Fiumicino che nei decenni è molto cambiato, ma non è cambiato il modo in cui lui lavora. Con il suo compagno di lavoro di sempre Nevio Mazzocco, insieme allo storico direttore Lamberto Magnoni e a un collaudato gruppo di giornalisti sono conosciuti da tutti e conoscono tutti. Rimangono un punto di riferimento fondamentale per Fiumicino. Oggi come allora.
27 dicembre 1985, Abu Nidal attacca in aeroporto: 30 anni fa le stragi di Fiumicino e Vienna. Alle 9.15 due assalti simultanei di due gruppi armati palestinesi seminarono il terrore negli scali di Roma e della capitale austriaca: 17 vittime in Italia, 3 allo Schwechat, scrive di Antonio Ferrari su “Il Corriere della Sera” del 27 dicembre 2015. Fu una mattina di terrore in due aeroporti internazionali, Fiumicino e Vienna, quella del 27 dicembre 1985. Esattamente trent’anni fa, il gruppo che allora era il più estremista della galassia palestinese, guidato da Sabri el Banna detto Abu Nidal, decise di compiere con perfetta sincronia due simultanei e sanguinosi attentati, anche se all’epoca non esistevano il web e i cellulari. Bisognava fidarsi degli orologi da polso. Abu Nidal, che lo stesso presidente dell’Olp Yasser Arafat aveva condannato a morte per i suoi crimini, si opponeva a qualsiasi alito di trattativa, a qualunque cenno di disgelo con gli odiati israeliani, con gli americani e i loro alleati europei. Alle 9 e 15 minuti, secondo più o meno, di quel mattino due commando entrarono in azione negli scali delle due capitali con un unico obiettivo: uccidere il maggior numero possibile di persone. Quelle assiepate davanti ai banchi per l’imbarco in vista del Capodanno, o magari al bar per un caffè: famiglie serene, bambini sorridenti con i giocattoli ricevuti in dono a Natale, immigrati che tornavano a casa. Quattro terroristi, con i mitra nascosti sotto i giubbotti, presero posizione a Fiumicino, controllando da una ventina di metri di distanza i banchi della compagnia di bandiera israeliana El Al, e quelli dell’adiacente compagnia americana TWA (ndr. Uno degli attentatori, l’unico sopravvissuto, condannato e incarcerato in Italia, poi si pentì: leggi l’intervista sul Corriere del 2008 sfiorando l’icona blu). Altri tre fecero altrettanto in Austria, nello scalo Schwechat di Vienna. In pochi attimi, l’inferno, e due stragi: 17 morti a Fiumicino, compresi gli attentatori, e 3 morti a Vienna. Doveva finire come l’11 Settembre a New York - ma 16 anni prima - con un aereo a schiantarsi su Tel Aviv. Invece fu la seconda strage dell’aeroporto di Fiumicino, con modalità che ricordano quella di Parigi a novembre. Era il 27 dicembre 1985 - 30 anni fa -: un gruppo di terroristi palestinesi assaltò con bombe a mano e kalashnikov i banchi della compagnia israeliana El Al e della statunitense Twa, sparando sulla gente in fila o al bar. Nello scontro a fuoco con i poliziotti e la sicurezza israeliana morirono 17 persone: 12 passeggeri, 3 terroristi e un addetto israeliano; 80 i feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che indagò, il commando doveva prendere un aereo e farlo precipitare su Israele. Come avrebbero poi fatto nel 2001 i kamikaze di Osama Bin Laden in America. Ma i terroristi furono scoperti e scatenarono l’apocalisse. Mentre is spara a Fiumicino, altri complici compiono lo stesso massacro all’aeroporto di Vienna. ll massacro dell’’85 arrivò 12 anni dopo quello del 17 dicembre 1973, sempre a Fiumicino e da parte di arabi armati, con 34 vittime e modalità ancora più cruente: due bombe incendiarie gettate dentro un aereo pieno fermo sulla pista. A seguito di quella strage Aldo Moro avrebbe stretto un accordo con i gruppi palestinesi, che si impegnavano a non compiere azioni in Italia a patto di poter transitare per il Paese con armi ed esplosivi. Ma l’intesa segreta voluta dal ministro degli Esteri democristiano sarebbe emersa solo molti anni dopo. Il mandante dell’attentato dell’’85 era Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata a cui si era deciso il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) Yasser Arafat. Condannato all’ergastolo in contumacia, Abu Nidal è stato ucciso nel 2002 a Bagdad. Il commando arrivò a Roma un mese prima, in un periodo in cui stava saltando il cosiddetto Lodo Moro (lo statista Dc era stato ucciso nel ‘78), che aveva risparmiato per 12 anni attentati palestinesi all’Italia. In poche settimane, un colpo di bazooka sull’ambasciata Usa, una bomba al Cafè de Paris in via Veneto, un’altra alla compagnia British Airways. Ad ottobre il dirottamento della nave Achille Lauro e l’uccisione di un passeggero americano sulla sedia a rotelle, Leon Klinghoffer (Ansa) E si arriva al 27 dicembre 1985. Sono le 9.05 quando i quattro, che si trovano vicini ai check-in El Al e Twa, vengono individuati dalla security israeliana - probabilmente corpi speciali - e scoppia la sparatoria. Un minuto di terrore, i palestinesi mirano ai passeggeri in fila. Tra le vittime italiani, statunitensi, messicani, greci e un algerino. Tre terroristi vengono uccisi. Khaled, 18/enne, viene catturato. In simultanea a Vienna un altro gruppo attacca l’aeroporto, uccide 3 persone, decine i feriti. Due fedayn vengono presi, uno muore. L’ammiraglio Fulvio Martini, nell’’85 capo del Sismi (intelligence militare), ha scritto che dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato in Italia. Il 19 i servizi informarono che sarebbe avvenuto tra il 25 e il 31 dicembre a Fiumicino. Gli israeliani, scrive Martini, misero tiratori scelti a difesa della postazione El Al. Furono loro i primi a reagire. Le forze dell’ordine italiane erano impreparate. Nel 1992 i capi della sicurezza di Fiumicino sono stati assolti. Il 17 dicembre ‘73 era andata perfino peggio: un gruppo di terroristi arabi arrivato dalla Spagna in aereo con le armi nei bagagli a mano gettò bombe al fosforo dentro un Boeing Pan Am sulla pista, uccidendo 30 persone. Quindi dirottò un aereo su Atene, altri morti prima di arrendersi in Kuwait. Un massacro quasi dimenticato. Stragi di civili, come quelle dell’Isis oggi. Fu una fine d’anno di orrore e di angoscia. L’attrice Sandra Milo, che stava per imbarcarsi, si gettò a terra e riuscì a salvarsi. I giornali raccontarono le storie delle vittime e dei familiari sopravvissuti. Come si sarebbe scoperto in seguito, la strage di Fiumicino poteva forse essere scongiurata. Infatti i servizi segreti italiani avevano ricevuto, da un Paese arabo amico, l’informazione (risultata attendibilissima) che vi sarebbe stato un attentato nello scalo aereo romano tra il Natale e il San Silvestro di quell’anno. Fu avvisata anche la sicurezza israeliana, che da sempre controlla e vigila sulle partenze dei propri aerei, e i tiratori scelti si piazzarono in posizione strategica. Riuscirono a colpire e a uccidere tre degli attentatori, limitando il numero delle vittime (ndr. Oltre 50 i feriti, nella foto Ansa, qui sotto, uno dei passeggeri colpiti davanti al banco delle linee aeree israeliane). Ma, come affermarono i vertici del Sismi, la nostra intelligence militare, qualcosa non funzionò. Eppure vi erano tante ragioni per ritenere che vi fosse un’allerta da codice rosso. Il primo ottobre di quell’anno, gli israeliani avevano bombardato il quartier generale dell’Olp a Tunisi, dove vivevano in esilio, dopo la partenza coatta dal Libano, Yasser Arafat e i suoi fedelissimi. Fu una strage, ma il leader palestinese si salvò grazie a un provvidenziale avvertimento. Allora, infatti, gli americani avevano imposto un limite al loro alleato israeliano: che non si uccidessero i leader. Sei giorni dopo — il 7 ottobre 1985 — era cominciata l’odissea, finita in dramma, della nave italiana «Achille Lauro», in balia di due estremisti palestinesi del gruppo di Abu Abbas. Ci fu l’assassinio dell’ebreo americano disabile Leon Klinghofer, e la vicenda di Sigonella, con il muro contro muro tra i nostri soldati e i marines, e la decisione del presidente del consiglio Bettino Craxi di sfidare apertamente il presidente-Usa Ronald Reagan. Alla fine, tutto si ricompose tra i due alleati. Non certo nel mondo palestinese, dove Arafat stava cercando di trovare la strada per intavolare una trattativa con il suo storico nemico: Israele. E’ chiaro che la strage di Fiumicino fu un attacco diretto anche ad Arafat da parte degli estremisti palestinesi, che avevano trovato rifugio nell’accogliente Siria di Hafez el Assad, padre di Bashar. A Damasco vi era persino un pubblico ufficio del gruppo di Abu Nidal, guidato dal suo vice e portavoce Walid Khaled. Appena arrivato a Damasco, all’inizio di quel gelido 1986, andai subito a cercare Khaled, per chiedergli ragione di quei massacri. Il giovane guerrigliero, che si vantava delle imprese terroristiche della sua organizzazione, fu gentile e insieme sprezzante. In realtà, noi italiani in Siria avevamo nel Paese canali privilegiati. Assad padre aveva stima incondizionata per il presidente Giulio Andreotti, e il suo ministro degli esteri Farouk al Shara non mancava mai di ricordare i bei tempi in cui aveva servito come ambasciatore a Roma. I giornalisti americani che riuscivano ad ottenere il visto per la Siria faticavano non poco a ottenere interviste e notizie interessanti dalle fonti locali. Un giorno incontrai la collega Elaine Sciolino, una delle firme più prestigiose del New York Times. Bravissima, colta, notevole grinta e grande coraggio. Dopo avermi ricordato l’origine italiana del suo cognome, mi chiese la cortesia di aiutarla ad incontrare, in mia compagnia, Walid Khaled. Organizzammo l’intervista, che si concluse in maniera quasi drammatica. Elaine, sensibilissima, domandò, cercando invano di trattenere le lacrime: «Ma come potete ammazzare donne, bambini, persone che non vi hanno fatto nulla. Non ascoltate mai la voce della vostra coscienza?». L’uomo di Abu Nidal, per nulla turbato, rispose gelidamente: «Per colpire il cuore bisogna tagliare le vene».
30 anni dalla strage di Fiumicino: quando il terrorismo palestinese colpì l’Italia, scrive Simone Cosimelli il 27 dicembre 2015. La storia dell’Italia del dopoguerra è costituita da un vortice di avvenimenti strazianti e convulsi, frutto delle spinte politiche e sociali che dagli anni successivi all’Assemblea Costituente – con le sue speranze e le sue illusioni – culminarono nello scandalo dell’inchiesta Mani Pulite del 1992, che di fatto segnò il limite di un epoca (la così detta Prima Repubblica) per aprirne una nuova, non meno discutibile. Il ricordo di quel periodo, carico di circostanze oscure e casi irrisolti, è eredità e condanna di tutti. Ma non solo vicende interne hanno plasmato il Paese, e spesso è il tempo ad offrire l’occasione per volgere lo sguardo indietro: esattamente 30 anni fa in due attacchi terroristici di matrice palestinese, uno all’aeroporto di Fiumicino e l’altro a Vienna, morirono 16 persone e oltre 100 rimasero ferite. Il 1985 era stato un anno difficile. Il dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro (con oltre 500 persone a bordo) da parte di un commando di palestinesi pronti ad un azione offensiva sulle coste Israeliane, e la conseguente crisi di Sigonella, in cui l’allora capo del Governo Bettino Craxi si oppose al Presidente statunitense Ronald Reagan, avevano intorpidito la situazione internazionale. Craxi andò fino in fondo e non trattenne l’emissario di Arafat (Presidente dell’OLP) Abu Abbas, a sua volta leader del gruppo paramilitare FLP (Fronte per la Liberazione della Palestina) e presunto promotore del tentato attacco, in cui un cittadino americano invalido, Leon Klinghoffer, perse la vita dopo essere stato gettato in mare. Abu Abbas lasciò indenne l’Italia, ma fu subito giudicato colpevole grazie alle prove schiaccianti addotte dalla Cia e condannato all’ergastolo in contumacia. L’Italia non fece in tempo ad attenuare le tensioni sorte con gli USA, che, nonostante l’atteggiamento comprensivo mostrato nella vicenda verso i palestinesi, fu duramente colpita due mesi più tardi: e questa volta, al Leonardo da Vinci di Roma, si dovettero contare i morti. Alle nove del mattino del 27 dicembre quattro uomini entrano nell’atrio dell’aeroporto e si posizionano di fronte ai banchi accettazione delle compagnie aeree El Al e Twa (l’una israeliana e l’altra americana). Armati di kalashnikov cominciano a lanciare bombe a mano e a sparare sulla folla davanti ai banchi del check-in e nel bar vicino. Gli agenti della sicurezza israeliani e le forze dell’ordine italiane rispondono al fuoco: in pochi minuti tre attentatori sono uccisi e il quarto è catturato. L’attentato nella capitale conta tredici morti e settantasette feriti (tra italiani, americani, messicani, greci, e un algerino). Contemporaneamente, in Austria, un commando terroristi mette in atto lo stesso tipo di azione all’aeroporto Schwechat di Vienna, provocando tre morti e quaranta feriti. Secondo alcune fonti, avallate dal giudice Rosario Priore che all’epoca indagava, il piano doveva concludersi con la requisizione di un aereo da far precipitare, in stile 11 settembre, in una città di Israele. Per l’ammiraglio Fulvio Martini, al tempo capo del Sismi, dal 10 dicembre si sapeva di un possibile attentato. I servizi informarono che sarebbe potuto avvenire tra il 25 e il 31 a Fiumicino. Gli israeliani misero infatti tiratori scelti a difesa della postazione El Al: furono loro i primi ad intervenire, mentre le forze dell’ordine italiane si trovarono sostanzialmente impreparate. “Sapevamo che nessuno di noi sarebbe uscito vivo”. Confermò in seguito l’unico degli attentatori rimasto illeso nello scontro a fuoco, Ibrahim Khaled, condannato poi a 30 di reclusione e recentemente liberato. Non era la prima volta che si spargeva sangue sul suolo del Bel Paese: c’era stata nel 1973 la “prima” strage di Fiumicino (una delle più cruente d’Europa), dove su un Boeing 707 della Pan Am, diretto a Beirut, furono fatte esplodere due bombe, con un bilancio finale di 32 vittime, tra cui 4 italiani. Nel 1982, invece, l’attentato alla sinagoga di Roma sconvolse la comunità ebraica causando 37 feriti e la morte di un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché. Il mandante dell’85 fu Abu Nidal, capo di una fazione palestinese contraria alla linea più moderata perseguita da Arafat in quegli anni. Anche lui – come successo ad Abu Abbas – fu giudicato colpevole in contumacia, e, riconosciuto coinvolto in circa 90 attentati a livello internazionale, perse la vita nel 2002 a Bagdad su ordine del dittatore Saddam Hussein, liberatosi di una presenza “ingombrante”. Eventi del genere seguono logiche difficile da percorrere ma doverose da ricostruire: fu l’eccessiva compiacenza, o negligenza, del Governo a permettere che i palestinesi considerassero l’Italia un porto sicuro da dove far partire, o verso cui finalizzare, gli attacchi terroristici? Si sarebbero dovuti condannare con più veemenza certi fatti internazionali di quegli anni (Guerra del Kippur, Invasione del Libano, massacro di Monaco alle Olimpiadi), deplorando tanto le azioni palestinesi quanto le continue vessazioni israeliane? Perché non si combatté concretamente, mettendo da parte la retorica e i protocolli, l’indigenza e la precarietà politica del Medio Oriente? Se il mondo si trova ancora nel mezzo di una guerra asimmetrica, qual è quella che imperversa in Siria e porta avanti lo Stato Islamico, o che ogni giorno rischia di deflagrare sulla striscia di Gaza e in Cisgiordania, significa che un tipo di politica ha fallito: la politica dell’interesse. E con essa, come si è visto, non sono mai mancati coinvolgimenti diretti, e drammatici, di nazioni distanti sulla carta geografica dai conflitti mediorientali ma poi duramente colpiti: ieri è toccato all’Italia, oggi al Mali, alla Tunisia e alla Francia. E domani? Tante sono le proposte, troppi gli incontri conclusi con sterili promesse, poco, invece, è l’impegno profuso senza che il proprio tornaconto prevarichi quello collettivo. Da quando la mano dell’Occidente ha cercato di cogliere i frutti (avvelenati) del Medio Oriente, il terrorismo è stata una costante e si è fatto finta di non capire che dalle guerre nasce e delle guerre si alimenta. Questi conflitti, sobillati e finanziati dalle stesse forze che poi si impegnano nel debellarli, arriveranno, presto o tardi, ad un punto di non ritorno. Quel punto troppe volte sembra essere un obbiettivo da raggiungere piuttosto che evitare. Se la storia non insegna, quanto meno invita a riflettere. Soprattutto oggi.
Fiumicino, strage inevitabile. Raid del 1985, assolti tutti i responsabili della sicurezza. Assolti dall' accusa di strage colposa Casagrande Raffaele, ex dirigente dell'aeroporto; D' Agostino Francesco, responsabile del centro di Polizia; Jovinella Carlo, capo del commissariato; Carlino Antonio, ispettore generale della polizia di frontiera. Secondo l'accusa avevano ignorato gli allarmi sul pericolo di attacchi. La strage all'aeroporto di Fiumicino del 27 dicembre di sette anni fa non poteva essere evitata. A questa conclusione sono giunti i giudici del Tribunale che, al termine di una breve camera di consiglio, hanno assolto "perchè il fatto non costituisce reato" le quattro persone che dovevano garantire la sicurezza nello scalo. Una sentenza destinata a far discutere, che costituisce una sorta di caposaldo sul fronte dell'accertamento delle responsabilità per il funzionamento delle misure anti-attentati. Il processo e' andato avanti per parecchie udienze. Sul banco degli imputati l'ex dirigente del "Leonardo da Vinci", Raffaele Casagrande, gli allora responsabili del centro di polizia e di prevenzione del Dipartimento di sicurezza del ministero dell'Interno, Francesco D' Agostino, e del commissariato "Polaria", Carlo Jovinella, e l'ispettore generale con funzioni di coordinamento dei servizi di polizia della frontiera, Antonio Carlino. Al termine della requisitoria, il Pubblico ministero Giuseppe Geremia aveva chiesto la condanna di Casagrande a due anni di carcere e degli altri imputati a un anno e mezzo. La sparatoria tra terroristi e forze dell'ordine provocò tredici morti e ottanta feriti. La tesi sostenuta dalle famiglie delle vittime fu che non erano stati tenuti nella dovuta considerazione i suggerimenti dei servizi segreti: l'avvocato Lepore era riuscito ad avere un fonogramma della Twa (la compagnia statunitense che venne presa di mira insieme alla israeliana El Al dal commando palestinese del gruppo di Abu Nidal) col quale si lanciava un preciso avvertimento ai dipendenti. I servizi segreti americani avevano saputo che erano stati messi a punto piani per eseguire attentati terroristici negli aeroporti europei. Non basta. L'avvocato Lepore aveva appreso che il fonogramma era in possesso del Sismi, il quale lo aveva ricevuto prima della strage. E l'allora responsabile dei nostri servizi segreti, Fulvio Martini, sentito come testimone nel corso dell'inchiesta, confermò anche che nel documento riservato veniva indicato il periodo entro il quale doveva essere compiuto l'attentato, dal 25 al 31 dicembre del 1985. Da qui, l'incriminazione e il successivo rinvio a giudizio dei responsabili dei servizi di sicurezza. Agli imputati venne contestato il reato di strage colposa. Secondo l'accusa, avevano avuto un comportamento negligente: Casagrande non attuò accorgimenti per evitare che i terroristi arrivassero ai banchi dell'accettazione, dove poi avvenne il conflitto a fuoco. Jovinella e Carlino non diedero un giro di vite ai servizi di sorveglianza, D' Agostino non trasmise agli organi di polizia circolari con le quali venivano imposte precise disposizioni di prevenzione. Insomma, il peggio sul fronte della prevenzione. Ma i giudici hanno sconfessato questa impostazione. Flavio Haver Pagina 14 (31 marzo 1992) - Corriere della Sera
Uccise 13 persone a Fiumicino. Esce di cella e fa il giardiniere. Mahmoud nell'85 guidò il commando palestinese all'aeroporto. Portò la guerra a Roma, ha tredici morti sulla coscienza e raccoglie foglie secche in un prato. Khaled Ibrahim Mahmoud oggi ha 41 anni. Ne aveva 18, il 27 dicembre 1985, quando guidò il commando della strage di Fiumicino. «Ci penso sì, a quei morti. Ci penso ancora e ci penserò sempre. E penso anche che l'aver seminato il terrore, come abbiamo fatto noi, non è servito a niente. Non è servito al mio popolo, non è servito alla pace. Anzi, il contrario...». Il 27 dicembre 1985, all'aeroporto di Fiumicino, il commando di terroristi palestinesi uccise tredici persone e ne ferì più di 80, sparando contro il banco delle linee aeree israeliane. Il fuoco della sicurezza in pochi secondi annientò gli assalitori, tre morirono all'istante, Khaled rimase ferito, unico superstite. Poi è stato in carcere 23 anni, fino a tre giorni fa. Oggi è un detenuto semilibero (la sera torna a Rebibbia) e da giovedì ha cominciato a lavorare all'esterno per una cooperativa sociale: giardinaggio, facchinaggio, pulizie nei mercati e nei parchi di Roma (come Pino Pelosi, l'assassino di Pier Paolo Pasolini). La prima cosa che ha chiesto è stato il permesso di acquistare un telefonino cellulare («Per chiamare mio fratello e i miei genitori ormai anziani», dice in buon italiano, appreso in questi anni leggendo e guardando in cella la televisione). Gli altri detenuti che lavorano con lui non conoscono la sua storia. Khaled, in fondo, preferisce così: «Il dolore che provo — dice — non potrebbe essere condiviso, sono venuto al mondo durante la guerra, una lunga scia di sangue e di orrori mi accompagna da sempre, da Sabra e Chatila a Fiumicino. Ma allora avevo 18 anni, ero completamente indottrinato, non ragionavo. Il carcere, almeno, mi è servito a questo: a farmi pensare con la mia testa, a farmi capire tante cose». Lui faceva parte del gruppo di Abu Nidal, il feroce leader della lotta armata palestinese, mandante del massacro di Fiumicino, trovato morto in un appartamento di Bagdad nell'agosto 2002 («È stato ammazzato, ne sono certo», dice oggi Khaled, condannato a 30 anni per la strage dell'85). Il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, è la persona che in questi anni l'ha seguito più da vicino: «Di sicuro — dice il Garante — Khaled ha maturato una critica profonda rispetto al suo passato. In carcere ha studiato, ha fatto il bibliotecario, è stato un detenuto modello, perciò ha ottenuto la liberazione anticipata. Il nostro è un sistema premiale, dunque non c'era motivo perché lui non ottenesse i benefìci previsti dalla legge. Il primo permesso gli fu accordato un anno fa, lo accompagnai io stesso ad Ostia, a vedere il mare...». Il giorno che andarono al mare, però, pioveva e faceva freddo: del resto, dopo 23 anni di carcere, diventa difficile far tornare i conti. Se n'è andato un pezzo di vita perché tu hai distrutto quella degli altri e anche andare avanti fa paura. «Il mondo da allora è completamente cambiato — sospira l'ex terrorista, con i capelli ingrigiti —. È caduto il muro di Berlino, non c'è più l'Unione Sovietica, non c'è più il comunismo. Noi stavamo coi russi, all'epoca, io stesso ero comunista-stalinista, oggi però sono in via di guarigione...». L'anno prossimo Khaled finirà di scontare la sua pena, nel frattempo si è laureato in Scienze politiche con una tesi sui Diritti umani e, malgrado tutto, sembra avere fiducia nel futuro del Medio Oriente: «Prima o poi tutti i muri cadono. Ma la pace non s'impone, la pace bisogna volerla». Fabrizio Caccia 22 novembre 2008 "Il Corriere della Sera".
7 ottobre 1985: dal sequestro dell’Achille Lauro alla lunga notte di Sigonella, scrive “Il Corriere della Sera”. Sono da poco passate le 13 del 7 ottobre del 1985, la nave da crociera Achille Lauro della Mediterranean Shipping Company sta percorrendo la tratta al largo delle coste egiziane, a bordo ci sono 101 passeggeri e 344 membri dell’equipaggio, quando un commando composto da quattro militanti del Fronte per la Liberazione della Palestina, saliti a bordo a Genova con dei passaporti falsi, dà inizio a un dirottamento che diventerà un caso diplomatico internazionale, con conseguenze fatali per il passeggero americano di origine ebraica Leon Klinghoffer. L’Italia reagisce inviando la sera stessa 60 incursori del reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin alla base militare di Cipro, pronti all’intervento in quella che verrà chiamata l’Operazione Margherita. Nella foto di repertorio l’Achille Lauro lascia il porto di Napoli. I terroristi vengono sorpresi da un componente dell’equipaggio mentre maneggiano delle armi, ne nasce un conflitto a fuoco, dopo il quale viene immediatamente inviato un SOS dalla nave che verrà captato in Svezia. Nella foto i quattro terroristi autori del sequestro, da sinistra: Ibrahim Fatayer Abdelatif, Youssef Al Molqi, Al Ashker Bassam, Marrouf Al Assadi. I dirottatori chiedono la liberazione di cinquanta palestinesi detenuti in Israele a Nahariya, si dichiarano esponenti dell’OLP, e minacciano di far saltare in aria la nave in caso di mancata risposta alle loro richieste. Il Governo italiano si attiva non appena ricevuta la notizia del dirottamento: agli Esteri c’è Giulio Andreotti, forte di buoni contatti con il mondo arabo, alla Difesa c’é Giovanni Spadolini che convoca immediatamente l’intelligence, mentre alla Presidenza del Consiglio c’é Bettino Craxi, che spinge per una risoluzione diplomatica della crisi. I nostri ministri sono in contatto telefonico con il governo egiziano di Hosni Mubarak, con il leader palestinese Yasser Arafat, che in un comunicato stampa fa sapere di essere estraneo alla vicenda, e con la Tunisia, allora sede dell’OLP. Nella foto d’archivio, Andreotti con Arafat. Dopo una frenetica serie di colloqui internazionali, l’Egitto e Arafat comunicano all’Italia l’invio di alcuni emissari per gestire la situazione: tra loro Hani El Hassan, braccio destro del leader dell’OLP, e Abu Abbas, che solo in seguito si rivelerà coinvolto nell’attentato in qualità di ispiratore e di capo del fronte terroristico palestinese filosiriano. Nella foto, Abu Abbas. Il Presidente americano Ronald Reagan si oppone a qualsiasi trattativa con i terroristi, mentre l’Achille Lauro si dirige verso il porto di Tartus in Siria e chiede un negoziato mediato dalla Croce Rossa Internazionale. Nella foto, Maxwell Rabb, all'epoca ambasciatore USA a Roma. Sulla nave intanto la tensione sale vertiginosamente con i terroristi che minacciano ripetutamente di iniziare a uccidere i passeggeri, in primis i cittadini americani. Nella foto i familiari dei marinai dell’Achille Lauro in attesa di notizie. Gli Stati Uniti decidono di intervenire rompendo le trattative diplomatiche in corso, mentre Bettino Craxi insiste nel voler evitare un’azione di forza, e nel caso, vuole che sia guidata da forze armate italiane. Nella foto Giulio Andreotti e Bettino Craxi. La Achille Lauro abbandona la costa siriana e raggiunge Port Said, mentre le trattative, non appoggiate dagli americani, riescono a convincere alla resa di terroristi, grazie alla mediazione di Abu Abbas e alla promessa di fuga diplomatica verso la Tunisia. Una soluzione che trova l’appoggio del Governo italiano e che apparentemente sembra portare a un epilogo non drammatico della vicenda, fino a quando non arriva la notizia dell’uccisione a bordo del cittadino americano Leon Klinghoffer, nella foto. La situazione si aggrava tragicamente e la tensione con gli Stati Uniti assume dei contorni molto preoccupanti anche per lo Stato italiano, che sta vivendo da protagonista l’intricata vicenda. Dopo la liberazione della nave si decide per l’immediato trasferimento dei quattro attentatori e dei diplomatici egiziani e palestinesi in Tunisia, a bordo del boeing 737 delle linee aeree egiziane. Nella foto il comandate della nave Gerardo De Rosa. Oltreoceano Reagan dispone di intercettare l’aereo egiziano facendo partire dalla portaerei Saratoga quattro caccia F-14 e spingendo diplomaticamente affinché gli aeroporti di Tunisia, Grecia e Libano rifiutassero l’atterraggio. Nella foto Caspar Weinberger, segretario alla difesa americano, durante la riunione al Pentagono illustra dove i jet US F14 hanno intercettato l’aereo egiziano che trasporta i dirottatori dell’Achille Lauro. Senza possibile luogo d’atterraggio l’aereo egiziano viene così intercettato dai velivoli americani e costretto ad atterrare alla base statunitense di Sigonella, in territorio italiano. «Perché in Italia?» chiederà Craxi durante una telefonata con il consulente CIA Michael Leeden, come racconterà poi Michael K. Bohn nel suo libro sulla vicenda di Sigonella e dell’Achille Lauro. Nella foto la nave liberata, i passeggeri e i marinai guardano le strisce di sangue lasciate dal corpo dell’americano Leon Klinghoffer, ucciso e gettato in mare. Contrariato dall’improvvisazione degli americani, l’allora presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi rivendica la competenza territoriale, appellandosi al diritto internazionale e schiera a difesa del velivolo egiziano uomini dei Carabinieri di stanza all’aeroporto e del comando di Catania. Nella foto la gioia dei passeggeri dell’Achille Lauro sulla nave liberata. Il controllore di torre dell’aeroporto militare di Sigonella e il suo assistente, inizialmente all'oscuro dell'identità dei passeggeri a bordo del boeing egiziano, saranno decisivi e indispensabili alla gestione dei momenti concitati sulla pista e alla cattura dei terroristi da parte delle autorità italiane. Nella foto Edward Casey, dell'ambasciata degli Stati Uniti, sull'’Achille Lauro con i passeggeri americani. Sulla pista di Sigonella, poco dopo la mezzanotte, atterrano a luci spente e senza autorizzazione due Lockheed dei Navy Seal, da cui scendono militari americani armati con l’intento di ottenere il controllo dell’aereo e soprattutto di prendere in consegna i terroristi e Abu Abbas. Nella foto la moglie del cittadino americano ucciso, Marilyn Klinghoffer. L’Italia e gli Stati Uniti vivono ore di tensione fortissima, il cui apice sarà la telefonata di Reagan a Craxi per chiedere la consegna dei terroristi, ma Craxi non si muoverà dalle sue posizioni, attestandosi sulla linea che in assenza di richiesta di estradizione non era consentito a nessuno sottrarre alla giustizia italiana persone sospettate di reati punibili ai sensi della legge italiana. Dopo ore interminabili, con l’invio di altri Carabinieri e di mezzi blindati, le forze armate americane ricevono l’ordine di ritirarsi. Nella foto il presidente americano Ronald Reagan. Si dirà poi che a vincere questo pericoloso braccio di ferro fu soprattutto il socialista Bettino Craxi, anche se poi vedrà cadere proprio su questa vicenda il proprio gabinetto di governo, ma le conseguenze di questo intricato affaire internazionale non termineranno con l’arresto dei quattro terroristi. Nella foto il carcere di Siracusa dove sono stati rinchiusi i terroristi palestinesi. I due dirigenti palestinesi e il diplomatico egiziano restano a bordo del boeing, che parte alla volta di Ciampino, protetto da un velivolo del SISMI e quattro caccia italiani F-104S, mentre un caccia americano, senza autorizzazione e senza aver comunicato il piano di volo, decolla subito dopo con l’intento di prendere in consegna il boeing con a bordo Abbas, considerato responsabile del dirottamento. L’aereo riuscirà ad atterrare a Ciampino, ma in un continuo crescendo di tensione, un secondo jet militare statunitense fingendo un guasto otterrà di poter atterrare proprio sulla stessa pista, davanti al boeing egiziano per impedirne la ripartenza. L’ammiraglio Fulvio Martini, protagonista diretto di tutta la vicenda, intimerà di liberare la pista, e per altri minuti l’Italia e gli Usa saranno a un passo dallo scontro armato. Nella foto il boeing 737, atterrato all’aeroporto di Ciampino, con a bordo i palestinesi. La crisi si sposta dalla pista dell’aeroporto alle stanze di Governo, dove è in corso un braccio di ferro sulla gestione e l’eventuale fermo in Italia dei due dirigenti dell’OLP a bordo del boeing egiziano: da un lato Craxi, Andreotti e Martinazzoli, nella foto, contrari all’arresto dei due funzionari palestinesi, dall’altro Giovanni Spadolini che chiede una consultazione collegiale della decisione. Il 12 ottobre Abu Abbas e l’altro funzionario palestinese ripartono a bordo di uno volo delle linee aeree jugoslave verso Belgrado, senza che Spadolini sia stato informato. L’intera vicenda porterà alla caduta del governo Craxi poche settimane dopo e a una rottura personale tra Craxi e Spadolini, esponenti rispettivamente delle due correnti filopalestinese e filoamericana. Nella foto la prima pagina del Corriere della Sera del 17 ottobre 1985 che annuncia le dimissioni del Governo Craxi. Solo nei giorni successivi verranno raccolte informazioni e intercettazioni dei servizi segreti israeliani e americani che proveranno con certezza il coinvolgimento diretto nel dirottamento di Abu Abbas, nella foto, che sarà condannato all’ergastolo in contumacia. I quattro dirottatori saranno poi rinchiusi nel carcere di Siracusa, trasferiti a Genova, processati e condannati dalla magistratura italiana, mentre l’Achille Lauro farà ritorno a Napoli dopo un breve scalo in Grecia e dopo che un’informativa della CIA sulla possibile presenza di esplosivo sulla nave su alcune casse, gettate poi in mare dal comandante. Nella foto Al Ashker Bassam durante il processo. Quanto ai rapporti Usa-Italia, gli attriti rientreranno qualche tempo dopo con l’invito dal famoso incipit “Dear Bettino” rivolto da Reagan a Craxi a recarsi negli Usa, un viaggio già programmato, ma annullato a causa della vicenda Achille Lauro. Nella foto la vedova di Leon Klinghoffer, ricevuta dal presidente Ronald Reagan.
A proposito di prevenzione. Un magistrato la arresta l'altro la rimette in libertà. Qual è il pericolo a piede libero? Scrive Salvatore Tramontano Giovedì 24/12/2015 su "Il Giornale". Qual è il pericolo a piede libero? Una terrorista con l'obbligo di dimora, ma con la possibilità di contattare via Internet i suoi compagni di fede e di terrore, pianificando eventuali azioni di guerriglia e attentati oppure il pm che voleva marchiare e sbattere in galera un'innocente? Oppure è il gip che ha scarcerato la donna, che dopo la scossa di terremoto di magnitudo 4 al largo di Palermo, avrebbe affermato: «Questa è la vendetta divina»? Nulla è come prima. La guerra invisibile dello Stato islamico sgretola le nostre certezze, i capisaldi del diritto, fa sponda sulle paure e gioca a scacchi con la fede nella libertà e il desiderio di sicurezza. La storia della ricercatrice libica di 45 anni, accusata di istigazione a commettere atti di terrorismo, che per il pm è così pericolosa da essere rinchiusa in carcere mentre per il gip al massimo merita l'obbligo di dimora, mostra quale sia la nostra realtà: noi non siamo in grado di capire se questa donna sia davvero una terrorista. Questo caso incarna tutte le nostre paure e segna le fragilità di questa stagione. Come mai il pm, convinto che la donna sia pericolosa, non è riuscito a trovare le prove per tenerla in carcere? Non è stato abbastanza bravo? O la legge non fornisce a chi indaga gli strumenti adeguati? E il gip è stato troppo fiscale o davvero non poteva fare altrimenti? Certo che se per aiutare i magistrati a «formarsi» meglio sul fenomeno jihadista, come ha raccontato alcuni giorni fa Fausto Biloslavo su questo Giornale, la Scuola superiore della magistratura organizza un solo corso, allora tutto diventa più difficile. Il motivo spiegato nella presentazione è chiaro: «Scandita dagli attentati, la disciplina antiterrorismo costituisce un vero e proprio sottosistema della giustizia penale». Purtroppo la prestigiosa Scuola offre poco altro sull'argomento. Di terrorismo, infatti, si parlerà brevemente soltanto nel corso su «Religione-Diritto-Satira». Questo nonostante al sistema di formazione dei magistrati concorra anche il ministero della Giustizia. In compenso, però, ha raccontato sempre Biloslavo, viene ripetuto, dopo il grande successo dello scorso anno, il corso sull'«immagine della giustizia nell'arte, nel cinema, nella letteratura». La questione è seria e forse il guaio maggiore è che non siamo pronti ad affrontare una situazione come questa. Se c'è un punto dove siamo più vulnerabili, questo è il versante della giustizia: l'Italia, le sue leggi, si confrontano con un nemico nuovo, diverso perfino dal terrorismo rosso e nero degli anni '70, con integralisti fanatici che non temono la morte e sono pronti a farsi saltare in aria o sparare sulla folla come martiri. Come ci si difende da nemici così assoluti e imprevedibili? Quante garanzie si possono concedere? È il paradosso della società aperta: fino a che punto si può essere tolleranti con gli intolleranti? La risposta è che una società aperta non è suicida, non è spalancata. Non può essere tollerante fino alla morte. È arrivato il momento di difendersi dal terrore islamico con tutti i mezzi. E servono nuove leggi. Per non morire o sopravvivere nella paura.
Moro, spuntano di nuovo Servizi e criminalità dietro al sequestro, scrive Paolo giovedì 10 dicembre 2015 su “Il Secolo d’Italia”. C’è la possibilità che si scelse proprio via Mario Fani a Roma per portare a compimento il sequestro di Aldo Moro perché il Bar Olivetti, davanti al quale si dislocò il commando Br, era sede di un inedito intreccio di interessi che la Commissione Moro sta cercando ora di ricostruire. Il dubbio è fondato e supportato da molti elementi nuovi riportati nella relazione approvata oggi. La Commissione sta scandagliando l’ipotesi che il titolare del bar possa essere stato in relazione con i Servizi Segreti o con le forze dell’ordine. Un’ipotesi, questa, che costringerebbe a riscrivere del tutto la vicenda di via Fani per come è conosciuta fino ad oggi. Una vicenda densa di misteri mai compiutamente chiariti e sulla quale aleggiano aspetti a dir poco inquietanti che lasciano immaginare un’eterodirezione del sequestro e della sua gestione fino al tragico epilogo finale. Alcuni testimoni hanno riferito che il bar Olivetti non era affatto chiuso in quelle settimane, come, invece, si era sempre ritenuto e come hanno riferito tutte le indagini nel corso di questi 37 anni e di conseguenza la sterminata pubblicistica esistente. Alcuni testi, come il giornalista Paolo Frajese, dichiarano di aver preso il caffè o di aver usato il telefono proprio nella mattina del 16 – quindi il giorno del sequestro Moro – o di essere clienti abituali. La possibilità che il bar Olivetti fosse, invece, effettivamente aperto al pubblico dopo la strage, nonostante la situazione giuridica formale fosse di attività in liquidazione, pone seri interrogativi sulla dinamica dell’agguato, per come è stata sempre ricostruita sulla scorta delle dichiarazioni degli stessi brigatisti, i quali hanno asserito di aver atteso nascosti dietro le fioriere prospicienti il bar Olivetti l’arrivo delle auto al servizio di Aldo Moro. Questa ricostruzione – non del tutto convincente, tenuto conto che le fioriere potevano offrire un riparo ben poco efficace a più persone destinate a stazionare in attesa per un lasso di tempo non trascurabile – deve essere quanto meno riconsiderata alla luce dei nuovi elementi acquisiti dalla Commissione Moro. Tuttavia alcune ricostruzioni confermano, invece, la chiusura del Bar Olivetti tanto che fu il portiere del civico 109, che ne aveva le chiavi, ad aprire ai carabinieri che vollero fare un frettoloso quanto inutile sopralluogo all’interno. Ma c’è un altro aspetto che ha catturato l’attenzione dei commissari dell’organismo parlamentare di inchiesta. Il titolare del Bar Olivetti, Tullio Olivetti, socio e proprietario di ben 24 società diverse, era un personaggio molto noto agli ambienti investigativi per essere stato coinvolto in una complessa e stranissima vicenda relativa ad un traffico internazionale di armi, ma più volte è stato “sfilato” da tutte le indagini, contrariamente ai suoi presunti complici, tanto da far ipotizzare che la sua posizione sembrerebbe essere stata quasi “preservata” dagli inquirenti e che egli possa avere agito per conto di apparati istituzionali ovvero avere prestato una erta forma di collaborazione che ora la Commissione Moro intende meglio definire. Formalmente l’indagine che coinvolge Tullio Olivetti, il cui nominativo figura, peraltro, anche negli elenchi – predisposti dalla Questura di Bologna – delle persone presenti in quella città nei giorni antecedenti la strage alla stazione del 2 agosto 1980, iniziò il 29 gennaio 1977, con un rapporto a firma del tenente colonnello Antonio Cornacchia, ed aveva al centro le attività di un certo Luigi Guardigli, amministratore della società RA.CO.IN che si occupava, tra l’altro, di compravendita di armi per Paesi stranieri. Tullio Olivetti venne subito indicato da Guardigli come trafficante d’armi e di valuta falsa (aveva riciclato 8 milioni di marchi tedeschi, provento di un sequestro avvenuto in Germania) che vantava alte aderenze politiche, era in contatto con ambienti della criminalità organizzata. In una circostanza, nella villa di una persona presentatagli proprio da Tullio Olivetti, Guardigli aveva trovato ad attenderlo il mafioso Frank Coppola (indicato come persona che intervenne per dissuadere alcuni elementi della criminalità organizzata – in precedenza sollecitati da uomini politici ad attivarsi – dal fornire notizie utili a localizzare il luogo dove era tenuto prigioniero Aldo Moro) che gli aveva chiesto di dare seguito ad una richiesta di armi fattagli da tale Vinicio Avegnano, in rapporti con ambienti di destra e con quelli, non meglio precisati, dei Servizi, anch’egli indicato come amico di Olivetti. Ma le indagini su Olivetti non vanno avanti: sottoposto a perizia psichiatrica eseguita dal professor Aldo Semerari, che verrà poi ucciso e fatto ritrovare, attraverso una singolare messinscena, la testa mozzata e lasciata in un catino all’interno di un’auto, Guardigli fu definito «una personalità mitomane, con una condizione psicopatica di vecchia data, e, allo stato, permanente. I suoi atti e le sue dichiarazioni sono espressioni sintomatologiche di tale anomalia». Il complesso di queste circostanze. Secondo la Commissione Moro, anche in considerazione dei rapporti tra Olivetti e Avegnano impone ulteriori accertamenti sull’ipotesi che il primo fosse un appartenente o un collaboratore di ancora non meglio definiti ambienti istituzionali o dei Servizi Segreti o delle forze dell’ordine. E a rafforzare questo sospetto c’è un altro elemento emerso. Dopo aver gestito il Bar Olivetti per proprio conto, ad un certo punto Tullio Olivetti si mise in società nella Olivetti SpA con Maria Cecilia Gronchi, figlia dell’ex-presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e con il di lei marito, Gianni Cigna.
IL SEQUESTRO MORO E GLI STATI UNITI.
Il caldo lunedì della commissione Moro. Su Aldo Moro (e sull'Isis) il palestinese Bassam Abu Sharif ha le idee chiare: "E' tutta colpa degli americani", scrive Massimo Bordin il 27 Giugno 2017 su “Il foglio”. Emozioni internazionali ieri per gli onorevoli indagatori della ennesima commissione parlamentare sul caso Moro: a intrattenerli è stato il palestinese Bassam Abu Sharif, che prima di entrare nell’inner circle di Arafat nell’Olp, era stato un dirigente del più estremista Fronte Popolare di liberazione. I rapporti del Fplp con le Br e le informazioni raccolte dai palestinesi sul rapimento Moro sono stati l’oggetto delle domande. Sul primo tema la risposta è stata articolata, forse anche troppo. Da un iniziale: “Noi e le Br? Nulla a che vedere”, a un: “Certo molti di loro si sono addestrati nei nostri campi, ma io sono certo – ha proseguito Abu Sharif, venendo alla seconda domanda – che con il rapimento di Moro non c’entrano. Sono state forze speciali Usa a sparare in via Fani. Per colpire un bersaglio in movimento e lasciare indenne l’ostaggio ci voleva una preparazione militare che le Br non avevano”, ha sentenziato il vecchio guerrigliero. Gli onorevoli indagatori lo hanno ascoltato incantati, tranne chi per scrupolo una occhiata a via Fani deve pure averla data. Una strada stretta, in discesa con parcheggi ai lati, dove anche una scorta non può tanto correre e in ogni caso a un certo punto, quando, finita la discesa, c’è una curva a gomito, deve quasi fermarsi. Se poi c’è una macchina che la blocca, deve proprio fermarsi. Lì hanno sparato, a un bersaglio fermo distante meno di un metro. Non ci volevano i Delta Force. Ma Abu Sharif è molto convinto della pista Usa e a riprova ha aggiunto: “Del resto noi sappiamo che anche l’Isis è una creatura americana”. Mentre queste righe vengono spedite i lavori della Commissione continuano e il caldo non accenna a diminuire.
Caso Moro, la verità va riscritta: Abu Sharif conferma le incongruenze, scrive Michele Bollino il 26 giugno 2017 su "Dire". Una colpo perfetto, forse troppo. Dietro alla strage di via Fani che portò al rapimento di Aldo Moro e all’uccisione dei 5 agenti della sua scorta “non c’erano le Brigate Rosse, ma gli Stati Uniti”. A rilanciare la tesi di un coinvolgimento di forze diverse da quelle delle BR è Bassam Abu Sharif, ex leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FLPL), in audizione in Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Le dichiarazioni di Abu Sharif, storico collaboratore di Arafat negli anni ’70 e ’80, potrebbero non essere solo frutto di fantasia ma, anzi, sembrano confermare le novità scoperte dalla Commissione parlamentare di inchiesta. Sharif, infatti, non crede che “le Brigate Rosse avessero la possibilità di uccidere cinque guardie del corpo senza nemmeno ferire Moro”. L’ex esponente della resistenza palestinese ha combattuto sul campo e conosce le difficoltà che comporta un’azione come quella compiuta in via Fani. “So di cosa parlo - ribadisce - so quanto sia difficile colpire un bersaglio mobile e quanta precisione serva per colpire cinque guardie del corpo. Questa è professionalità di alto livello, serve un addestramento molto elevato e chi ha rapito Moro si è addestrato a colpire almeno 10mila bersagli mobili: le BR non erano così professionali”. Secondo Sharif, quindi, il commando che è riuscito a fermare le due auto della polizia ed eliminare 5 agenti senza neanche ferire Aldo Moro era composto da corpi specializzati, quindi “Cia o Gladio, magari uomini dell’intelligence o da un team di forze speciali”. A 39 anni di distanza, sulla strage di via Fani restano più ombre che luci. La commissione parlamentare di inchiesta è stata riaperta nel 2014, dopo le rivelazioni di un agente del Sismi che testimoniava la presenza dei servizi segreti italiani durante l’attacco. Da quel momento, i nuovi fatti emersi hanno portato la commissione d’inchiesta a riscrivere la verità storica. Le incongruenze sono tante, a partire dal numero dei terroristi del commando: nove, secondo le contraddittorie testimonianze dei brigatisti, almeno venti secondo la relazione della Commissione approvata sia dalla Camera che dal Senato. Una scena del crimine piuttosto affollata, che trova però conferma nella relazione del Procuratore della Repubblica Luigi Ciampoli che, nella sua ricostruzione dei fatti del 16 marzo 1978, parla della presenza di “elementi dei servizi segreti deviati dello Stato, uomini della mafia romana e di servizi segreti stranieri”. Secondo il procuratore Ciampoli, inoltre, in via Fani vi erano almeno due persone che parlavano in tedesco. A finire sotto la lente di ingrandimento della Commissione è, in particolare, la dinamica dell’agguato. Secondo i brigatisti, infatti, i colpi diretti alle macchine sarebbero stati esplosi solo dal lato sinistro, mentre le ricostruzioni balistiche hanno ormai accertato che gli assalitori hanno sparato anche da destra. Proprio da quel lato di via Fani era presente il bar Olivetti, punto di ritrovo della malavita romana, frequentato dai maggiori esponenti della Banda della Magliana e dei Nar, Renatino de Pedis e Massimo Carminati, ma anche dal boss italoamericano Tano Badalamenti e da Camillo Guglielmi, vice comandante generale di Gladio. Stando alle ricostruzioni ufficiali, il giorno dell’attacco il bar risulta chiuso per fallimento. Ma secondo l’onorevole Gero Grassi (PD), membro della Commissione d’Inchiesta sul Caso Moro, non è così: c’erano dei testimoni, infatti, “che affermavano che il locale fosse aperto, che non avrebbe mai tolto le fioriere, l’arredamento e che dopo 15-20 giorni dal rapimento Moro il bar avrebbe riaperto tranquillamente”. Un’ultima novità inquietante è quella che riguarda il ruolo del consulente inviato dal Dipartimento di Stato Usa per affiancare le autorità italiane nella gestione del sequestro, Steve Pieczenik. Contro di lui, il procuratore Ciampoli ha infatti chiesto di procedere per “concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978” per aver contribuito a far apparire la morte dell’ostaggio come “lo sbocco necessario e ineludibile, per le Br, dell’operazione militare attuata in via Fani”. Se la verità sulla strage di via Fani va riscritta, allora calano pesanti ombre anche sulle motivazioni che portarono all’uccisione di Aldo Moro. Davanti alla Commissione, Abu Sharif dice la sua: “Moro aveva una visione strategica per l’Italia, l’Europa e il mondo. Dopo De Gaulle, Moro è stato il punto di svolta per tutta l’Europa. Chi lo ha ucciso ha dunque voluto uccidere la visione e l’idea di Moro”. Dalla seconda guerra mondiale in poi, continua Abu Sharif, “gli Stati Uniti hanno sempre sventolato la bandiera della libertà dei popoli, ma ben presto s’è capito che dietro era in corso una lotta essenzialmente economica. Da una parte gli Stati Uniti proclamavano l’indipendenza di tutti gli Stati e dall’altra, attraverso il piano Marshall, si creava un nemico, ovvero l’Unione Sovietica, per poter così sottomettere l’Europa al dominio americano. Ora Trump va nei Paesi arabi e firma contratti per 500 miliardi dollari mentre i bambini arabi sono sotto la soglia di povertà. Moro invece voleva contratti equi e questo non piaceva ad una superpotenza che ha voluto fermare la corrente del cambiamento”, termina l’ex leader FLPL.
Caso Aldo Moro, cosa (non) ha detto Abu Sharif, scrive Stefano Vespa il 27 giugno 2017 su "Formiche.net. Forse i membri della commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, si aspettavano di più dall’audizione di quattro ore di Bassam Abu Sharif, già consigliere di Yasser Arafat e portavoce del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp). Si cercava di avere conferme dirette su quegli anni, sui rapporti tra gruppi palestinesi e terroristi europei e su quanto avvenne prima, durante e dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Abu Sharif, 71 anni, ha insistito su due punti essenziali: le Brigate rosse erano infiltrate dagli Stati Uniti che volevano Moro morto e se fosse stato chiesto aiuto ai palestinesi per salvare il presidente della Dc l’avrebbero certamente dato per gli eccellenti rapporti con lo stesso. Ma si profila una seconda puntata perché l’esponente palestinese si è impegnato a fornire alla commissione due elementi di enorme importanza: il testo del cosiddetto Lodo Moro, cioè il documento firmato da George Habash con il quale si garantiva che l’Italia sarebbe stata al riparo da attentati, e i nomi dei brigatisti che sarebbero stati in realtà infiltrati americani, fatto che per i palestinesi è assolutamente certo. La lunghezza delle risposte, spesso argomentate con riferimenti non attinenti al caso (si sa che i mediorientali non amano la sintesi…), alla terza ora di audizione ha costretto un esausto Fioroni a “imporre” risposte secche (sì o no) a due quesiti. Così Abu Sharif ha detto che non è stato mai chiesto l’intervento palestinese per salvare il leader Dc e che avrebbero certamente avvertito l’intelligence italiana se avessero avuto notizia di attentati in preparazione in Italia. Ciò in base a quanto era previsto dal Lodo Moro. Abu Sharif ha insistito anche sulle modalità del sequestro e dell’uccisione della scorta quel 16 marzo 1978: veri professionisti, ha detto, “della Cia, di Gladio, di intelligence o un team di forze speciali”. “Quelli che hanno sparato – ha poi aggiunto – non sono stati gli stessi che l’hanno tenuto prigioniero”. Alcuni passaggi lasciano dei dubbi. Fioroni ha ricordato l’ormai famoso messaggio del colonnello Stefano Giovannone, capo centro del Sismi a Beirut e amico di Moro, che il 17 febbraio 1978 (un mese prima del sequestro) inviò a Roma notizie su un’operazione terroristica in preparazione. Giovannone non aveva contatti diretti con Abu Sharif, che pure conosceva perfettamente, bensì con un altro palestinese oggi morto. È chiaro però che le fonti del colonnello facevano parte di quell’ambiente e quindi non si capisce come Abu Sharif possa negare che i palestinesi abbiano mai avuto notizie di possibili attentati. Su altri passaggi l’ex consigliere di Arafat è parso sfuggente. Fioroni ha ricordato un documento redatto da Giovannone il 21 giugno 1978 secondo il quale le Br avrebbero inviato a Habash copia delle dichiarazioni fatte da Moro durante la prigionia su temi palestinesi: lo scopo era di riallacciare rapporti con quel mondo. La risposta vaga è stata che i rapporti con le Br erano stati interrotti da qualche anno una volta accertata l’infiltrazione statunitense. Altrettanto curioso che Abu Sharif non abbia mai sentito nominare l’organizzazione terroristica “Giugno nero” di Abu Nidal, della quale si parla da decenni, e dei legami che avrebbe avuto con le Br come risulta da un documento dell’allora vicedirettore del Sisde risalente all’11 agosto 1978. Fioroni ha insistito sul fatto che, in base a documenti di intelligence appena desecretati, Abu Nidal fosse a conoscenza dei piani delle Br. Per Abu Sharif, invece, “era fuori dalla rivoluzione palestinese” essendo ormai con Al Fatah, accampando l’ipotesi che fosse un bugiardo riguardo alla vendita di armi ai brigatisti. È troppo generico parlare di “palestinesi”, si è poi lamentato: il presidente della commissione aveva citato il fatto che, dopo la morte di Moro, Avanguardia Operaia ottenne da gruppi palestinesi armi che sarebbero state distribuite anche ad altri gruppi terroristici e che nel 1979 le stesse Br ottennero armi da palestinesi. Ovvia la domanda di Fioroni: “Come mai prima del sequestro Moro le Br erano inaffidabili e dopo non lo sono state più?”. La risposta è stata un classico depistaggio: “Anche oggi nei Territori occupati ci sono palestinesi che sono in realtà agenti israeliani…”. La promessa di informarsi presso la propria intelligence su chi fossero i brigatisti infiltrati dagli Usa è stata fatta in risposta all’insistenza di Gero Grassi (Pd) mentre dopo un’analoga domanda di Marco Carra (Pd) se l’era cavata col fatto che è un comandante e non un agente dei servizi segreti. Invece Abu Sharif ha negato più volte l’esistenza di campi di addestramento nei quali si sarebbero esercitati brigatisti. In ogni occasione ha ribadito il ruolo a suo avviso determinante degli Stati Uniti, invitando la commissione a procurarsi il documento che l’allora segretario di Stato americano, Zbigniew Brzezinski, consegnò al presidente Jimmy Carter insistendo sul “no” alla trattativa, “che avrebbe significato la morte di Moro”. Se manterrà gli impegni, le notizie che fornirà alla commissione saranno piccanti, sperando che non vengano secretate.
“Italiani nei campi profughi palestinesi addestrati a combattere contro Israele”. La deposizione di Abu Sharif alla Commissione sulla morte di Moro: “Negli Anni 70 c’era un patto scritto con Roma per non fare attentati”, scrive Francesca Paci il 27/06/2017 su “La Stampa”. «Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) aveva rapporti particolari con alcuni dei gruppi rivoluzionari emersi in Europa dopo il ’68. Queste forze non sapevano come opporsi al capitalismo e noi glielo insegnammo, era parte della lotta contro l’imperialismo che sosteneva Israele. Migliaia di giovani donne e uomini italiani vennero nei campi profughi palestinesi ad aiutare in tanti modi diversi, nelle scuole, negli ambulatori o nel combattimento, ma sempre e solo contro l’occupante israeliano». A raccontare questo ulteriore tassello del controverso puzzle “Italia Anni 70” è Bassam Abu Sharif, storico membro della formazione marxista-leninista Fplp e poi influente consulente di Arafat ascoltato ieri dalla Commissione bicamerale d’inchiesta sulla morte di Aldo Moro, l’ennesimo organo d’indagine sul rapimento del presidente della Dc la cui durata teoricamente biennale è stata prolungata dalla fine del 2016 al termine della legislatura. È la prima volta che si parla in modo così esplicito della presenza di nostri connazionali nei campi profughi palestinesi di 40 anni fa, giovani, uomini, donne, un po’ volontari e un po’ foreign fighters ante litteram. Una nuova angolazione che amplierebbe il quadro delle “relazioni pericolose” dell’epoca in cui s’inserisce anche il cosiddetto Lodo Moro, il patto segreto di non belligeranza tra gli 007 italiani e i fedayn palestinesi sempre menzionato ma mai ammesso. E non è escluso che ora la Commissione presieduta da Fioroni possa avviare altre indagini oltre a quelle di sua stretta competenza per le quali ha già inviato alla procura generale di Roma il lavoro di oltre un anno di accertamenti. E non è escluso neppure che possano riaprirsi altri dossier sulle presunte connivenze passate, a partire dalla vicenda degli autonomi Pifano, Nieri e Baumgartner, arrestati nel 1979 a Ortona perché trovati in possesso di missili portatili di proprietà della resistenza palestinese. Sebbene interpellato nello specifico sui rapporti tra il Fplp e le Br alla data del 16 marzo 1978, Bassam Abu Sharif, anche autore del volume «The Best of Enemies» scritto con il giornalista israeliano Uzi Mahnaimi, riapre il capitolo Lodo Moro parlandone come di qualcosa di storicamente acquisito, un fatto. Secondo Abu Sharif, definito a un tratto da Time «face of terror», sarebbe stato proprio quel rapporto privilegiato con il Medioriente in generale e con i palestinesi in particolare a mettere l’Italia sotto sorveglianza da parte di chi, come gli Stati Uniti, non apprezzava, e a condannare Moro, la mente del compromesso storico. Siamo nei mesi precedenti al sequestro del leader democristiano, il cupo ’77, il ’78, gli anni in cui, sostiene Abu Sharif, il Fplp ha già interrotto i rapporti con le Br perché sospetta che, con i capi in prigione, le seconde linee siano state infiltrate: «All’epoca le fazioni palestinesi sotto l’ombrello dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) avevano rapporti con tutti i paesi arabi e, in modo non ufficiale, con molti di quelli europei, dove gli uffici locali della Lega Araba ospitavano i nostri rappresentanti. E parlo di rapporti anche a livello di 007. In questo quadro di aiuto e collaborazione, alcuni paesi - segnatamente il vostro - volevano un documento firmato da George Habash in cui il Fplp si impegnasse a non partecipare ad azioni in Italia. E infatti da allora non è mai successo niente qui». Abu Sharif insiste sui buoni rapporti tra i suoi e il governo di Roma per provare l’estraneità del Fplp al rapimento Moro ma finisce per ipotizzare di più: «Il Fplp e l’Italia avevano un dialogo particolare sulla politica e la sicurezza sin dal ’72, attraverso noi l’Italia mandava ambulanze e medici ai campi profughi e noi in cambio vi aiutavamo molto. Fu così che l’Italia ci chiese di risparmiarla, di non usarla per fare operazioni o per compiere attentati contro Israele. Me ne parlò il colonnello Giovannone, disse che doveva rassicurare i suoi. Habash firmò questo documento, portai il nostro impegno a mettere l’Italia al sicuro, il colonnello Giovannone lo ricevette per scritto. E quando passai dal Fplp ad Arafat continuammo sulla stessa linea».
Il giorno dopo l'audizione di Bassam Abu Sharif davanti alla Commissione bicamerale d'inchiesta sulla morte di Aldo Moro, il presidente Giuseppe Fioroni mette in ordine quelle che definisce «importanti novità» per la ricostruzione dell'Italia di quegli anni, scrive Francesca Paci il 28 giugno 2017 su “la Stampa”. Secondo l'ex del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) che Fioroni ha ascoltato per ore, nel 1978 i palestinesi diffidavano delle Brigate Rosse, riferivano all'intelligence di Roma qualsiasi informazione ricevessero circa potenziali attentati in Italia nel quadro dell'impegno unilaterale firmato da George Habash, accoglievano nei loro campi numerosi nostri giovani connazionali disposti a curare i malati ma anche a combattere per la loro causa.
Abu Sharif cita un accordo scritto in cui Habash s'impegnava a risparmiare l'Italia. È la conferma del cosiddetto Lodo Moro?
«Abu Sharif ha ammesso che dopo l'attentato di Fiumicino del 1973 le intelligence italiana e palestinese avviarono una serie di contatti sfociati in un documento unilaterale firmato da George Habash a nome del Fplp e consegnato al colonnello Giovannone affinché lo portasse a Roma. In quella lettera, che Abu Sharif inquadra nella politica estera di Moro centrata allora sui Paesi arabi e sul Mediterraneo, c'è l'impegno a impedire attentati in Italia e a considerarci solo un Paese di transito. Se Abu Sharif ne troverà copia negli archivi del Fplp lo avremo presto in mano».
A chi rispondeva Giovannone?
«Da un punto di vista tecnico al capo dei servizi italiani, il Sismi. Ma sul piano politico era il referente di Moro per la politica estera in Medioriente».
L'Italia sapeva che nel '78 il Fplp non si fidava più delle Br?
«È la prima volta che viene fatta questa distinzione. Abu Sharif sostiene che nel 1976 il Fplp, allertato dal capo operativo Wadie Haddad, ritiene già da tempo le Br inaffidabili. Haddad intanto ha rotto con il Fplp perché è in dissenso con l'input di Mosca che chiede la fine dei sequestri aerei, ma i contatti sono stretti. E qui c' è un riscontro importante sul caso Moro, perché già nei primi giorni dopo il rapimento il Sismi cerca tra i fuoriusciti palestinesi. In più, a giugno, Giovannone segnala a Roma rapporti tra ex Fplp e BR aggiungendo che i brigatisti hanno fatto avere ad Habash copia delle dichiarazioni di Moro prigioniero per ripristinare collaborazione e assistenza. Significa che Moretti prova a riallacciare con i palestinesi usando le carte che ha».
Riusciranno le Br nell'impresa?
«Anche qui abbiamo riscontri alle affermazioni di Abu Sharif. A noi risultano transiti di armi tra palestinesi, Br e autonomi nel 1979, ma Abu Sharif sostiene che il Fplp non c'entri (di altre sigle non risponde ndr.) e dice che se avesse ricevuto dai propri 007 informazioni di possibili attacchi in Italia lo avrebbe riferito a Roma. In effetti il 17 febbraio 1978 Giovannone avverte i suoi di un attentato in preparazione e Moro ne parla il 15 marzo, la sera prima del sequestro. Inoltre, il 30 marzo 1978 l'allora uomo dell'Olp in Italia Nemer Hammad assicura a Cossiga che sta facendo il possibile e cita Abu Anzeh Saleh, legato al fronte del rifiuto e in contatto con Wadie Haddad. Un mese dopo, il 24 e 25 aprile, Giovannone annuncia un contatto valido con le Br e dice che verrà a Roma. Sapremo poi che Moro in una lettera del 23 aprile menziona la liberazione di un palestinese a Ostia avvenuta via Giovannone e chiede di averlo a Roma, come se sapesse che si è attivato un canale palestinese».
Come si inquadrano in questo scenario gli italiani addestrati nei campi profughi palestinesi?
«È una conferma. A parlarne la prima volta fu l'ex responsabile esteri del Fplp Taysir Qubaa che in un'intervista del 1980 spiegò come non volesse esportare la rivoluzione in Italia ma potesse contare su "compagni" italiani addestrati nei campi per combattere contro i nemici dei palestinesi. Sapevamo di campi in Yemen, Iraq, Siria, Libano ma ora Abu Sharif torna su questi italiani pronti ad aiutare la resistenza palestinese».
Vede un collegamento con i due giornalisti di Paese Sera De Palo e Toni, spariti a Beirut nel 1980?
«La loro storia ruota intorno al traffico di armi che tra il '78 e il '79 esisteva intorno ai campi palestinesi. Abu Sharif smentisce che fosse gestito dal Fplp ma a noi risulta che c'era. E sapevamo da alcuni pentiti che i palestinesi affidavano armi alle Br. Ora sappiamo che degli italiani si addestravano lì».
Lodo Moro. Quei patti inconfessabili tra Sismi e terrorismo palestinese, scrive Gea Ceccarelli su “Articolo 3”. Con l'imperversare della crisi di Gaza, tutti hanno imparato a conoscere Hamas. Chiunque, adesso, sa che si tratta di un'organizzazione paramilitare e terrorista, contro cui si è scatenata la furia di Israele con quello che ne è conseguito: un vero e proprio genocidio di innocenti, arabi colpevoli semplicemente di essere non ebrei. Quello che in pochi sanno è come, Hamas, abbia una storia lunga e travagliata: come la stessa sia stata probabilmente vista di buon occhio per lungo tempo, dagli israeliani, a causa della sua rivalità con un'altra organizzazione palestinese, l'Olp, fondato, tra gli altri, da Yasser Arafat. Nell'aprile scorso, Hamas e l'Olp hanno firmato un accordo, un'alleanza. Un patto che ha istantaneamente fatto allertare Israele, la quale, da parte sua, ha tuonato chiaramente come esso avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile per la pace tra i due paesi. Pochi mesi dopo, il rapimento di tre ragazzi ebrei s'è configurato come la scintilla in grado di scatenare l'inferno, con Netanyahu che giurava vendetta, pur sapendo, come è stato confermato da alcuni funzionari di polizia, che la responsabilità non era stata di Hamas. Ogni scusa, però, era valida per intervenire. Così, riconoscendo in Hamas il nemico supremo, si dimentica l'Olp. La cui storia sta per tornare a galla, fra pochi giorni, in Italia. Il motivo è semplice: fu proprio questa organizzazione a scendere a patti con il Sismi italiano, nell'ambito del cosiddetto "lodo Moro", i cui dossier relativi stanno per diventare pubblici. Erano gli anni '70-'80. Anni di stragi, nel nostro Paese. Anni di ombre incombenti e alleanze inconfessabili. Una di queste sarebbe proprio quella intercorsa tra la nostra intelligence e i terroristi palestinesi: un patto, firmato dall'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, che garantiva agli islamici la possibilità di far passare fiumi d'armi nel nostro paese, destinati a cellule terroriste sparse in tutto il continente, e la liberazione dei prigionieri palestinesi. In cambio, i militanti non avrebbero colpito gli italiani, avrebbero lasciato il nostro Paese tranquillo, pur non inserendo negli accordi l'incolumità per gli ebrei residenti nel Belpaese. Tanto più che, nell'82, venne attaccata la Sinagoga di Roma. Fu quella, forse, a squarciare il velo di misteri che avvolgeva gli accordi. Il 3 ottobre del 2008, in occasione del 30esimo anniversario dell'attentato, l'ambiguo ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, rivelò chiaramente l'esistenza del lodo in un'intervista rilasciata al quotidiano israeliano Yediot Aharonot. “Vi abbiamo venduti”, dichiarava in essa Cossiga. “Lo chiamavano ‘Accordo Moro’ e la formula era semplice: l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani”. “Per evitare problemi, l’Italia assumeva una linea di condotta tale da non essere disturbata o infastidita”, continuava l'uomo nell’intervista “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi." Ma non solo: Cossiga rivelava anche l'esistenza di simili accordi con l'Hezbollah libanese, "per cui le forze UNIFIL chiudono un occhio sul processo di riarmo, purché non siano compiuti attentati contro gli uomini del suo contingente”. Nonostante secondo Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione Stragi il patto risalga all'autunno del 1973, Cossiga dichiarava di esserne a conoscenza soltanto dal 1976, da quando, cioè, divenne ministro dell'Interno. "Mi fecero sapere che gli uomini dell’OLP tenevano armi nei propri appartamenti ed erano protetti da immunità diplomatica", raccontava nell'intervista. "Mi dissero di non preoccuparmi, ma io riuscii a convincerli a rinunciare all’artiglieria pesante ed accontentarsi di armi leggere”. Anni dopo, quando divenne Presidente del Consiglio, ebbe la certezza dell'esistenza di tali accordi: “Durante il mio mandato, una pattuglia della polizia aveva fermato un camion nei pressi di Orte per un consueto controllo”, raccontava. “I poliziotti rimasero sbigottiti nel trovare un missile terra-aria, che aveva raggiunto il territorio italiano via mare”. In pochi giorni, una sua fonte del Sismi gli fece sapere dell'esistenza di un telegramma, arrivato da Beirut, nel quale era "scritto che secondo l’accordo, il missile non era destinato ad un attentato in Italia, e a me fu chiesto di restituirlo e liberare gli arrestati”. “Col tempo", aggiungeva ancora Cossiga nell'intervista, "cominciai a chiedermi che cosa potesse essere questo accordo di cui si parlava nel telegramma. Tutti i miei tentativi di indagare presso i Servizi e presso diplomatici si sono sempre imbattuti in un silenzio tuonante. Fatto sta che Aldo Moro era un mito nell’ambito dei Servizi Segreti”. Secondo Pellegrino, il patto fu stilato dal Sismi, e solo firmato da Moro, che pure ne faceva riferimento in alcune missive inviate durante la seconda metà degli anni Settanta. Numerose le testimonianze che confermano tale versione. Come quella, rilasciata al Corriere della Sera, di Bassam Abu Sharif, portavoce del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, "costola" dell'Olp, da cui successivamente si separò. "Ho seguito personalmente le trattative per l'accordo", ricorda Abu Sharif. "Aldo Moro era un grande uomo, un vero patriota. Voleva risparmiare all'Italia qualche mal di testa", ma "non l'ho mai incontrato. Abbiamo discusso i dettagli con un ammiraglio, gente dei servizi segreti, e con Stefano Giovannone (capocentro del Sid e poi del Sismi a Beirut, ndr). Incontri a Roma e in Libano. L'intesa venne definita e da allora l'abbiamo sempre rispettata". Grazie a questa, prosegue, "ci veniva concesso di organizzare piccoli transiti, passaggi, operazioni puramente palestinesi, senza coinvolgere italiani. Dovevamo informare le persone opportune: stiamo trasportando A, B, C… Dopo il patto, ogni volta che venivo a Roma, due auto di scorta mi aspettavano per proteggermi. Da parte nostra, garantivamo anche di evitare imbarazzi al vostro Paese, attacchi che partissero direttamente dal suolo italiano". C'è però altro: quando, il 2 agosto del 1982, Bologna fu sconvolta dalla strage alla stazione, Cossiga puntò dapprima il dito contro i neofascisti e, successivamente, contro i palestinesi. Secondo lui, a compiere l'incredibile attentato erano stati proprio i terroristi arabi, dopo che il "patto" era stato tradito. Un'ipotesi venuta a crollare nelle settimane scorse, quando i pm di Bologna hanno depositato la richiesta di archiviazione per le posizioni di Thomas Kram e Margot Christa Frohlich, due terroristi tedeschi indagati e legati ai palestinesi. Secondo i magistrati, la presenza dell'esperto di esplosivi Kram a Bologna la notte prima dell'attentato è accertata, ma “quel solo e sorprendente fatto non è tuttavia sufficiente per ipotizzare in assenza di altri elementi” sul suo conto “una partecipazione alla strage della stazione”. Per i pm, poi, è tutta la teoria a non reggere, in quanto, secondo tale ipotesi, il legame tra terrorismo palestinese e Kram avrebbe dovuto essere il terrorista venezuelano "Carlos". Rapporto non solo indimostrabile, ma pure confutato dal diretto interessato. Fu lui, Carlos, a sottolineare infatti come, non solo ai tempi della strage avesse già rotto da anni i ponti con il Fplp, ma che inoltre non vi sarebbero stati motivi, per gli arabi, di colpire degli innocenti italiani: avrebbero solo rischiato di danneggiare i rapporti tradizionalmente buoni tra la Palestina e il nostro paese. Secondo lui, dunque, a Bologna a colpire furono piuttosto la Cia e il Mossad, così da punire l'Italia e distoglierla dai propri interessi “antiatlantici” e “filoarabi”. Ipotesi, questa, supportata da Abu Sharif: "Non c'entriamo niente", ha infatti spiegato. "Nessuno ordine è venuto da me. Il massacro non ha niente a che vedere con organizzazioni palestinesi. Neppure un incidente. Non c'era nessuna ragione per farlo, soprattutto a Bologna". L'unica possibilità è che "la Cia o il Mossad abbiano usato un palestinese, un loro agente. E' stato fatto esplodere, senza che lo sapesse, per accusare noi." D'altronde, sottolinea, "Gli americani non erano affatto felici della nostra cooperazione con l'Italia. Soprattutto perché passavamo agli italiani informazioni top secret su quello che gli americani stavano facendo nel vostro Paese". Ma l'Olp e il Flpl avevano contatti anche con le Br: "Solo cooperazione", chiarisce l'ex portavoce. "Qualcuno di loro faceva parte dell'" Alleanza" che venne stabilita nel 1972, assieme a organizzazioni di tutto il mondo." "Erano", spiega, "le "operazioni speciali" guidate da Wadie Haddad. Questi gruppi stranieri non sono mai stati ai nostri ordini, c'era solo coordinamento". Per questo, quando, nel '78 venne rapito il segretario della Dc, i palestinesi avrebbero potuto intervenire. Ma, prosegue Abu Sharif, "ho chiamato un numero, ho lasciato un messaggio dopo l'altro. Nessuna risposta. Davvero strano: una linea speciale e nessuno risponde". Certo è che, del lodo Moro, l'opinione pubblica seppe in seguito, e sempre a spezzoni. Dopo la sparizione dei due giornalisti De Palo e Toni, che indagavano sul traffico d'armi, si alzò subito un impenetrabile muro di silenzi e depistaggi atto a oscurare l'esistenza stessa degli accordi che, nell'ambito delle indagini sulla loro scomparsa, sarebbero inevitabilmente emersi. Nell'84, poi, l'ufficiale del Sismi Giovannone invocò il segreto di Stato su tali patti, ottenendolo grazie a Bettino Craxi. Un sigillo poi ribadito da Silvio Berlusconi per due volte tra il 2009 e il 2010. Il 28 agosto prossimo, però, scadono i trent’anni previsti dalla recente riforma sui servizi come limite massimo per il segreto di Stato. Non c'è più niente che possa esser nascosto ancora. Circa un'ottantina di faldoni verranno alla luce e riconsegnati agli inquirenti. In essi, si potrà trovare la verità su numerosi misteri italiani e non solo: stragi e rapimenti, accordi inconfessabili. Potrebbe, altresì, esser compresa una volta per tutte l'attuale situazione di equilibri tra le potenze in gioco a Gaza, dove "buoni" e "cattivi" non esistono, e dove l'Italia ha una sua, enorme, colpa.
Si apre una breccia nel muro di gomma. I rapporti inconfessabili tra palestinesi e Sismi. Occhi chiusi sul fiume di armi destinate alle cellule dell'Olp. In cambio niente attentati. E' il patto tra servizi segreti, Dc e Yasser Arafat. Un quadro già emerso in un processo menomato dai veti politici. Fino a ora: i documenti decisivi stanno per essere desecretati, scrive Andrea Palladino su “L’Espresso”. Una doppia politica. Un lodo - firmato da Aldo Moro - che garantiva tutti. Niente attentati, ma occhi chiusi sul fiume di armi da far passare nel nostro paese, destinate alle cellule internazionali palestinesi sparse in tutta Europa. Accordi per tre decenni coperti dal segreto di Stato, l’omissis tutto politico. Un sigillo che neanche la magistratura può violare. Ancora per poco. Perché i dossier sui rapporti tra la nostra intelligence e l’Olp di Yasser Arafat che hanno marcato la politica estera italiana tra gli anni ’70 e ’80 stanno per diventare pubblici. Ed è la prima volta nella storia repubblicana. Scade il 28 agosto il termine ultimo del segreto invocato nel 1984 dall’ufficiale del Sismi Stefano Giovannone - confermato da Bettino Craxi il 5 settembre dello stesso anno e ribadito da Silvio Berlusconi per due volte tra il 2009 e il 2010 - di fronte alla domanda del pm romano Giancarlo Armati, che indagava sulla scomparsa in Libano dei giornalisti Graziella De Palo e Italo Toni. Che rapporti avevate con i palestinesi? Era questa la questione chiave per capire non solo che fine avessero fatto i due reporter arrivati a Beirut nell’agosto del 1980, ma soprattutto i motivi del sistematico depistaggio attuato dall’intelligence italiana per coprire gli autori del rapimento e della successiva esecuzione. Ovvero la fazione più dura dei palestinesi, quella di George Habbash, detto al-akīm, il dottore. Per le famiglie dei due giornalisti, che hanno lanciato una petizione per togliere il segreto di Stato e pubblicare on line tutti i documenti disponibili, i prossimi giorni saranno cruciali. Potrebbero essere il punto finale di una battaglia che dura da 34 anni. La verità sostanziale è nota e certificata dalla carte processuali, che hanno portato alla condanna di un brigadiere dei carabinieri addetto all’ufficio cifra dell’ambasciata italiana a Beirut (gli altri indagati, Giovannone e Santovito, alti ufficiali dei servizi, nel frattempo sono deceduti). Graziella De Palo, giovane freelance - collaboratrice di Paese Sera e dell’Astrolabio - e Italo De Toni, giornalista di esperienza di Diari con la passione sfrenata per il jazz, erano partiti per Beirut con idee precise. La capitale libanese godeva in quegli anni della fama di città più pericolosa del Medio Oriente, forse del mondo. Crocevia di spie, terroristi di ogni matrice, trafficanti di armi e di droga, faccendieri arrivati da ogni dove, gente pronta a sfruttare le opportunità di una guerra civile infinita, in una città divisa in due, tra i cristiani maroniti del partito falangista di Bashir Gemayel e le fazioni filo palestinesi. Toni e De Palo avevano contatti buoni, presi in Italia prima della partenza, direttamente con l’Olp di Arafat. Cosa cercavano? Tante le ipotesi. Di certo non si accontentavano del semplice racconto di una città in guerra. Graziella De Palo seguiva ormai da mesi il filo del traffico di armi. La sua agenda e i suoi quaderni erano pieni di annotazioni precise, nomi di società legate alla nostra difesa. Partono tre settimane esatte dopo l’attentato alla stazione di Bologna, quando in Italia si viveva la stagione delle bombe e dei misteri di Stato. Un anno prima a Ortona i carabinieri avevano fermato un gruppo di terroristi, una cellula composta dall’esponente dell’Autonomia Daniele Pifano, dal militante del Fplp di George Habbash (Fronte popolare per la liberazione della Palestina) Saleh Abu Anzeh, da Giuseppe Nieri e Giorgio Baumgartner, con un lanciamissili. Solo più tardi si scoprirà che quell’arma micidiale apparteneva all’Olp, e che l’Italia era solo un punto di transito, come spiegarono gli stessi palestinesi del Fplp in una lettera inviata al Tribunale di Chieti, competente per il caso. La prova dei rapporti inconfessabili tra l’intelligence militare italiana e l’organizzazione palestinese è arrivata - per il pm Armati che indagò sul caso - dal muro di silenzi e depistaggi alzato immediatamente dopo la scomparsa di De Palo e Toni. Scrive il magistrato nella sua richiesta di rinvio a giudizio per George Habbash, Stefano Giovannone (ufficiale del Sismi a capo degli uffici di Beirut) e Damiano Balestra (brigadiere dei carabinieri addetto all’ufficio cifra dell’ambasciata italiana in Libano): “L’istruttoria finora compiuta avrebbe certamente consentito di fare piena luce sulla complessa vicenda della scomparsa all’estero dei due giornalisti”. Ma troppi sono stati gli ostacoli che hanno bloccato la procura di Roma: “In primo luogo l’atteggiamento completamente negativo delle autorità libanesi; in secondo luogo le difficoltà frapposte dalle autorità elvetiche (coinvolte per il caso del depistaggio sulla strage di Bologna attuata da Elio Ciolini, ndr); in terzo luogo la conferma da parte dell’autorità di governo del segreto di Stato opposto dal Giovannone, (…) che ha avuto l’effetto non voluto di coprire anche le ragioni della condotta dell’ufficiale del Sismi nei confronti dell’Olp”. Per il pm Armati la condotta dei nostri servizi nella vicenda “presenta aspetti oscuri certamente estranei ai suoi fini istituzionali”. Con un coinvolgimento - ipotizzato dalla procura - dello stesso direttore del servizio, il generale Giuseppe Santovito. Il primo novembre del 1980 - due mesi dopo la scomparsa dei giornalisti - il capo del Sismi incontrò Arafat. Il leader dell'Olp chiese alla nostra intelligence di “stendere un velo pietoso sulla vicenda”. Circostanza che lo stesso Santovito ammise davanti al pm Armati. Da quel momento - si legge nelle carte del processo - l’ambasciatore italiano D’Andrea, intenzionato a chiarire quello che era accaduto, si trovò davanti il classico muro di gomma, metafora che il nostro paese stava imparando a conoscere molto bene. Gli ufficiali del Sismi iniziarono a monitorare le indagini condotte dall’ambasciata, convincendo il brigadiere Balestra - poi condannato in via definitiva - a passare all’intelligence i messaggi scambiati con la Farnesina. Stefano Giovannone, a quel punto, intervenne direttamente con la famiglia, chiedendo il silenzio stampa, accusando i Falangisti di Beirut, giocando sulla speranza dei parenti dei giornalisti di poter risolvere il rapimento. Nonostante i depistaggi, la Procura di Roma riuscì a ricostruire almeno il contesto della scomparsa, attribuendone la responsabilità ai palestinesi: “I due erano stati uccisi dal gruppo di Habbash, subito o quasi”, spiega il magistrato romano citando una nota dell’ambasciata italiana a Beirut. Il mistero nasce sui motivi del rapimento e dell’omicidio, con un’ipotesi inquietante: “Forse i palestinesi avevano ricevuto qualche indicazione errata”, era l’indicazione arrivata dalle forze di sicurezza libanesi. Una trappola, un mandante esterno. Italiano? Chissà. Il 28 agosto scadono i trent’anni previsti dalla recente riforma sui servizi come limite massimo per il segreto di Stato. Già il 10 marzo del 2010 - attraverso l’intervento del Copasir presieduto da Francesco Rutelli - le famiglie dei due giornalisti avevano ottenuto un primo accesso a 1.161 documenti classificati. Mancavano all’appello un’ottantina di fascicoli, per i quali fu confermato il segreto di Stato da Silvio Berlusconi. Fabio De Palo, fratello minore di Graziella, oggi giudice civile a Roma, ha catalogato con cura le migliaia di pagine consultate (che ha potuto copiare solo dopo un ricorso al Tar). All’Espresso spiega che dal 29 agosto è pronto a chiedere l’accesso alle carte mancati al premier Matteo Renzi, che - secondo le norme attuali - non potrà più autorizzare gli omissis. “Gli interessi economici prevedevano lucrosi affari nella vendita delle armi - spiegano in un appello i familiari di Graziella De Palo e Italo Toni - a quei paesi nei confronti dei quali vigevano embarghi economico militari”. Una politica che Paolo Emilio Taviani sintetizzò nella formula “della moglie americana e dell’amante libica”. Sintesi di quel lodo “Moro” che l’ufficiale del Sismi Stefano Giovannone (uomo di stretta fiducia del leader Dc) attuò con meticolosità, e che Vincenzo Parisi citò in parlamento “per spiegare il movente di tante stragi ancora oggi inspiegabili e coperte da inquietanti aloni di mistero”, come ricordano i familiari dei due giornalisti uccisi nel 1980. “Ci aspettiamo di riavere i resti degli scomparsi e la riapertura di un processo” che era stato interrotto, bloccato dal segreto di Stato confermato da Bettino Craxi, trent’anni fa. Verità e giustizia, al posto dell’eterno muro di gomma italiano.
L'accordo con l'Olp degli anni 70'. In questi giorni di fervore patriottico per il caso Battisti proviamo a riesaminare alcuni degli episodi altrettanto irrisolti della storia del nostro Paese. Vi propongo un articolo che fà riflettere, fatti irrisolti di cui si preferisce ancora tacere. Decidete voi se significa qualcosa o significa nulla.
Tratto da “L’accordo Moro e la strage di Bologna del 2 agosto 1980” di Matteo Masetti su “Vietato Parlare”. Negli anni Settanta il governo italiano siglò un accordo segreto con l’Olp per evitare atti di terrorismo nel nostro Paese. In cambio l’organizzazione di Arafat ottenne la libera circolazione dei fedayn palestinesi nella penisola. L’intesa sarebbe stata pensata da Aldo Moro. Ma tra la fine del 1979 e i l’agosto del 1980 qualcosa andò storto. L’attentato alla stazione di Bologna potrebbe essere maturato in quel clima. Una delle pagine più oscure e tragiche nella storia della nostra Repubblica è quella dell’attentato alla stazione ferroviaria di Bologna il 2 agosto 1980. Questa strage fu un fatto di una violenza terroristica mai apparsa fino ad allora nel nostro paese e avvenne poco tempo dopo il misterioso incidente al DC-9 Itavia in volo da Bologna a Palermo il 27 giugno di quell’anno, inabissatosi con 81 passeggeri nel mar Tirreno nei pressi dell’isola di Ustica. Ecco dunque la breve cronaca di quel tragico 2 agosto: alle ore 10,25 nella sala d’aspetto della stazione di Bologna Centrale circa 23 kg di esplosivo di fabbricazione militare vennero fatti saltare con un comando a tempo. Assieme alle vittime – 85 morti e 200 feriti – andarono distrutti gran parte della stazione, il parcheggio antistante e il treno Ancona-Chiasso in sosta. Tre giorni dopo l’attentato, a seguito di una riunione del comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, il presidente del Consiglio Francesco Cossiga dichiarò: “La strage è di chiara marca fascista”. Le indagini porteranno all’arresto tra il 1981 e il 1982 di due estremisti di destra dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), Giuseppe Valerio Fioravanti e la sua fidanzata Francesca Mambro, i quali dopo un processo che era stato annullato, verranno condannati in modo definitivo all’ergastolo con sentenza del 23 novembre 1995. A questo riguardo l’ex presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, ha sostenuto che il movente attribuito ai condannati per quell’eccidio, “non ha alcun senso”. Mambro e Fioravanti hanno ammesso altri delitti assai gravi per i quali hanno ricevuto condanne pesantissime; ma si sono sempre professati innocenti per quella bomba alla stazione di Bologna. Da notare che Cossiga, in una lettera inviata all’on. Enzo Fragalà – membro della Commissione d’inchiesta sul dossier Mitrokhin – e letta nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio il 20 luglio 2005 aveva scritto: “Premetto che non ho mai ritenuto la Francesca Mambro e Giusva Fioravanti responsabili dell’eccidio di Bologna. L’ultima, assai debole sentenza di condanna è da ascriversi alle condizioni ambientali, politiche ed emotive della città in cui è stata pronunziata, nonché alle teorie allora largamente imperanti nella sinistra e nella cosiddetta magistratura militante “. Il 30 maggio 2005, cioè due mesi prima di questa importantissima dichiarazione – che quindi smentiva quanto il presidente emerito della Repubblica aveva affermato quando la strage era stata appena compiuta – l’ANSA dava una notizia riferita al 1980, secondo la quale il giorno 11 luglio di quell’anno, il prefetto Gaspare De Francisci, direttore dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), scriveva al direttore del SISDE generale Grassini che il FPLP (Fronte Popolare Liberazione Palestina) minacciava ritorsioni contro il nostro paese a causa della vicenda di un giordano arrestato e condannato il 25 gennaio 1980 dal Tribunale di Chieti. De Francisci avrebbe poi coordinato le indagini sul sequestro Dozier, l’alto ufficiale statunitense rapito da un commando delle Brigate Rosse il 17 dicembre 1981 e liberato da una brillante operazione dei Nocs il 28 gennaio 1982. Il direttore dell’UCIGOS di quegli anni era quindi un grande professionista. Ma perché De Francisci aveva parlato del terrorismo palestinese che minacciava da vicino l’Italia? L’intricata vicenda è stata ben ricostruita da un dossier apparso sul numero di luglio/agosto 2005 del mensile “Area” e firmato da un brillante giornalista investigativo, Gian Paolo Pellizzaro. Consulente della commissione di inchiesta parlamentare sulle stragi e sul terrorismo, oltre ad avere svolto lo stesso incarico per la commissione Mitrokhin, presieduta tra il 2001 e il 2006 dal senatore Paolo Guzzanti, Pellizzaro si è occupato delle ricerche inerenti la strage di Bologna, citata infatti nel capitolo conclusivo del documento della commissione Mitrokhin. Secondo questa ricostruzione ampiamente documentata le origini dell’attentato sono da far risalire all’episodio dei “missili di Ortona”, ovvero all’arresto avvenuto il 7 novembre 1979 nei pressi di Ortona (Chieti) di tre rappresentanti dell’Autonomia Operaia di Roma. Baumgartner, Pifano e Nieri – questi i nomi degli arrestati – stavano infatti trasportando due lanciamissili di fabbricazione sovietica del modello SAM-7 Strela con relativo munizionamento avuti da un contrabbandiere di armi, il quale le aveva sbarcate quel giorno da una motonave presso il porto di Ortona al Mare. Ecco come vengono descritti i missili Sam-7 Strela nel capitolo conclusivo della relazione di maggioranza sul dossier Mitrokhin (pag. 285): “I missili [.] possono essere impiegati per un solo colpo e il missile è dotato di una testa auto cercante che consente di manovrare in modo automatico per colpire l’obiettivo, con una gittata massima di 6-7 chilometri. Il sistema è destinato contro aerei a bassa quota ed è idoneo a lanci contro aerei in allontanamento, in fase di decollo e di atterraggio”. Nello svolgimento della vicenda è fondamentale il successivo arresto operato a Bologna il 13 novembre 1979 del giordano Abu Anzeh Saleh, ovvero del responsabile del FPLP in Italia. E’ quindi importante ricordare che il capoluogo romagnolo era il luogo di residenza del giordano e che in questa ricostruzione la scelta del luogo dell’attentato – al di là delle motivazioni che vedremo – sia da ricondurre a questo fatto. Saleh avrebbe infatti dovuto essere presente alla consegna delle armi ma quel giorno aveva avuto un impedimento e quindi aveva delegato i tre autonomi romani per assolvere questo compito. Oltre ad essere una figura di spicco in Italia del FPLP, comandato dal noto terrorista palestinese George Habbash, A. A. Saleh era anche un uomo legato all’organizzazione del venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, noto anche come “Carlos”, ora condannato all’ergastolo e detenuto in Francia. Comunque la vicenda dei missili, lungi dal risolversi con l’arresto delle persone coinvolte, cominciò invece a diventare una questione molto spinosa per la magistratura e la politica italiana. Infatti il 2 gennaio 1980 il Comitato Centrale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina inviava una nota ufficiale al presidente del Tribunale di Chieti, presso il quale si stava svolgendo il processo. Ecco alcuni passaggi di quella nota: “I missili trovati ad Ortona sono dell’FPLP [.] Non c’è mai stata intenzione da parte del Fronte di usarli in Italia [.] E quindi il passaggio-chiave: “Noi richiedemmo che queste informazioni fossero trasmesse al governo italiano. Alcuni giorni dopo, l’ambasciata italiana ci confermò che il governo italiano era stato informato in modo esatto e completo”. Tutto il documento venne letto in aula durante il dibattimento ma a questo punto è opportuna una precisazione importante, perché la missiva era stata affidata a Damasco al colonnello Stefano Giovannone, il quale era subito partito per l’Italia senza informare l’ambasciatore a Beirut del motivo del viaggio. Questo alto ufficiale era stato designato nel 1972 come capo centro del SISMI a Beirut e lì rimase fino al 1981. Ecco cosa scrisse di lui l’ammiraglio Fulvio Martini – ex direttore del SISMI – nel suo libro “Nome in codice: Ulisse”: “Penso che l’Italia debba qualcosa a questo ufficiale dei carabinieri; in centrale [.] avevano scelto per lui il nome in codice Maestro e questo è già di per sé indicativo. Pochi riuscivano a capire con quali difficoltà il colonnello Giovannone avesse a che fare nello svolgimento della sua missione di capo centro a Beirut. Il compito principale di Giovannone era quello di mantenere il SID informato con continuità sull’evoluzione degli avvenimenti. Il Servizio, come era suo dovere istituzionale, aveva necessità di conoscere esattamente la situazione, non solo per poterla analizzare e fare delle previsioni utili alla politica estera del nostro governo, ma anche al fine di provvedere alla difesa dell’Italia da eventuali operazioni di terrorismo che avrebbero potuto coinvolgerla. [.] Era un maestro della cosiddetta diplomazia parallela – quella che ti scarica se non riesci e che ha come solo scopo l’interesse superiore del tuo Paese. Il suo successo fu completo. L’Italia fu molto ingrata con lui. Rientrò da Beirut nel 1980 e morì nel 1985, di tumore, dopo un calvario giudiziario che durò a lungo e durante il quale non fu difeso da quei politici che l’avevano utilizzato”. Poco prima di morire rilasciò un’intervista nella quale dichiarò: “Il mio dialogo con i palestinesi ha dato sette anni di pace all’Italia”. Possiamo a questo punto evidenziare nella lunga citazione tratta dal libro dell’ammiraglio Martini il termine di “diplomazia parallela”, quindi credo sia lecito domandarsi che tipo di agreement esistesse tra il nostro paese e i palestinesi per lasciare in pace l’Italia in quegli anni. Esistono infatti tutti gli indizi per ricostruire l’esistenza di un patto per assicurare al nostro paese un livello di tranquillità in cambio di una specie di salvacondotto per gli estremisti arabi. Nel saggio “Fratelli d’Italia” uscito nel 2007, l’autore Ferruccio Pinotti scrive: “Come è emerso successivamente, il governo italiano aveva siglato negli anni Settanta un accordo segreto con l’Olp mirato a evitare atti di terrorismo: in cambio della possibilità degli attivisti palestinesi di circolare sul territorio italiano, l’organizzazione di Arafat si sarebbe impegnata affinché non avvenissero attentati sul suolo nazionale. L’intesa sarebbe stata pensata già da Aldo Moro”. A questo proposito Rosario Priore, il magistrato che ha indagato nel corso della sua carriera su casi come la strage di Piazza Fontana, “l’incidente” di Ustica e l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, ha affermato nel corso della trasmissione “Omnibus” su LA7 del 14 maggio 2007: “Io vorrei solo fare un piccolo riferimento a questo patto, questo è un patto di cui parla Moro in quattro importantissime lettere [.] Questo è un patto, diciamo la verità, che ha determinato la nostra storia per oltre trent’anni.” Le lettere di cui parla Priore sono evidentemente quelle che lo statista democristiano scrisse durante la sua prigionia nelle mani delle Brigate Rosse e i riferimenti a questo patto dovevano servire a giustificare uno scambio per la sua liberazione. Ecco il passaggio della lettera inviata alla Democrazia Cristiana: “in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la DC lo ignorasse, anche la libertà (con l’espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità”. In un’altra lettera indirizzata a Flaminio Piccoli Moro farà preciso riferimento al colonnello Giovannone affinchè venga in Italia ed influisca per la sua liberazione. Ma allora a quando risale la data di questo patto? Probabilmente una data precisa di stipula non esiste, ma le condizioni perché esso si realizzasse avvennero attraverso una serie di incontri e successivamente ad azioni terroristiche di “stimolo”. Ad esempio a seguito della strage all’aeroporto di Fiumicino operato da un commando palestinese di Settembre Nero, che il 17 dicembre 1973 provocò 32 morti e decine di feriti: fu così che il governo italiano nella persona dell’allora ministro degli Esteri Aldo Moro si decise a condurre le trattative per una “tregua” mantenendo il colonnello Giovannone dislocato a Beirut in qualità di garante affinchè potesse controllare e monitorare costantemente la situazione. Di fatto un accordo tutto sulla parola ma senza nulla di scritto. In pratica, a fronte della “distrazione” delle autorità italiane per il transito di materiale esplosivo e armi attraverso il nostro paese, l’Italia sarebbe stata risparmiata dalle cruente azioni del terrorismo palestinese e dai pericoli di ritorsione israeliana: e ciò in effetti accadde. Il nostro paese infatti, per la sua posizione geografica in mezzo al Mediterraneo era considerato un punto strategico ed inoltre proprio in quel periodo si verificò lo scontro arabo-israeliano del Kippur (6-22 ottobre 1973), con le dovute ripercussioni nell’area. Trattandosi comunque di un patto non scritto e a causa della cronica instabilità della situazione politica italiana, le condizioni andavano di volta in volta riviste a seconda dei vari accadimenti del nostro scenario politico. E sicuramente la morte di Moro (9 maggio 1978) dovette creare non poche complicazioni. Questa lunga digressione per spiegare cosa aveva innescato il sequestro dei missili – che durante il processo si scoprì essere solo in transito nel nostro paese – e l’arresto del responsabile del FPLP in Italia alla fine del 1979. Sempre Cossiga nella lettera inviata alla commissione Mitrokhin nel 2005 scriveva: “La richiesta avanzata dall’FPLP di restituzione dei missili faceva forse parte dell’accordo mai dimostrato ‘per tabulas’, ma notorio, stipulato sulla parola tra la resistenza ed il terrorismo palestinese da una parte, e dal governo italiano dall’altra, quando era per la prima volta Presidente del Consiglio dei Ministri l’on. Aldo Moro. La totale fedeltà e conseguente riservatezza che i collaboratori sia del Ministero degli esteri sia del Sifar e poi Sismi nutrivano per lui, impedì sempre a me, benché autoritariamente curioso, di sapere alcunché di più preciso sia da ministro dell’Interno, che da Presidente del Consiglio dei Ministri e da Presidente della Repubblica”. Inoltre nel corso della trasmissione “La storia siamo noi” su Rai Due del 24 maggio 2007 l’ex presidente della Repubblica ha affermato: “Arrivò attraverso Giovannone, un messaggio del capo di un’organizzazione terroristica, a me diretto, molto cortese che diceva: Ma qui stiamo violando i patti, il missile è mio, voi me lo dovete restituire “. Vi fu in quell’occasione un vero e proprio braccio di ferro tra la posizione dell’allora premier Cossiga e il nostro servizio segreto militare – i cui vertici risulteranno iscritti alla loggia massonica P2 – che riteneva ancora in vigore quell’accordo nonostante Moro non fosse più in vita. Tra l’altro, proprio in quel periodo il nostro paese era impegnato in una fase di importante riavvicinamento agli interessi degli Stati Uniti, di Israele e della NATO. Ma la posizione palestinese verso il governo italiano andò peggiorando nei mesi successivi, anche perché, come abbiamo accennato, il giordano Saleh, del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, era anche un uomo che faceva parte dell’organizzazione terroristica di Carlos, con il quale si era incontrato in più di un’occasione a Bologna e di certo non per dei briefing di tipo culinario. Il gruppo Carlos denominato Separat dalla Stasi dell’ex DDR ed attivo tra il 1976 e il 1989 ha avuto al suo attivo una serie di azioni terroristiche soprattutto sul territorio francese. Quindi la vicenda del sequestro dei missili Strela si stava intrecciando pericolosamente anche a questo gruppo che tra l’altro non era solo una variabile rischiosa ma altamente imprevedibile per gli sviluppi che poteva provocare. L’organizzazione terroristica di Carlos, detto anche lo Sciacallo, godeva inoltre della protezione dei governi dell’Est Europa e del Medio Oriente ed era in contatto con altri gruppi eversivi in Italia, Francia, Germania, Spagna, ecc. Da una ricerca della Digos di Bologna del marzo 2001 su segnalazione dell’allora capo della Polizia Gianni De Gennaro è emerso che Thomas Kram, membro di spicco delle Cellule Rivoluzionarie (RZ) e facente parte a tutti gli effetti del gruppo Carlos, alloggiò a Bologna la notte del 1° agosto 1980, cioè proprio il giorno prima dell’attentato. Kram, cittadino tedesco qualificato negli atti giudiziari come un grande esperto di esplosivi, si rese poi irreperibile la mattina del 2 agosto rimanendo latitante fino al 2006 quando si costituì in Germania. Va quindi annotato che, come indicato nell’ultimo capitolo dalla Commissione Mitrokhin, la Procura di Bologna ha aperto un procedimento a carico di ignoti per l’ipotesi di strage e successivamente ha chiesto, con rogatoria internazionale, di interrogare Kram come persona informata dei fatti. Tra l’altro lo stesso Carlos, nel corso di un’intervista in carcere rilasciata al “Corriere della Sera” il 23 novembre 2005 ha affermato che “un compagno tedesco era uscito dalla stazione pochi istanti prima dell’esplosione. Ho ricordato il suo nome leggendo il Corriere: Thomas Kram”. Se ciò non fosse ancora sufficiente a seguire questa pista, vorremmo anche ricordare che lo stesso tipo di esplosivo utilizzato nell’attentato di Bologna è stato rintracciato al momento dell’arresto nella valigia della terrorista tedesca Christa Margot Froehlich, anch’essa legata al gruppo Carlos, avvenuto il 18 giugno 1982 all’aeroporto di Fiumicino: purtroppo però gli esperti non lo hanno mai accertato con sicurezza assoluta e questo rimane un interrogativo ancora aperto di quella vicenda. L’attentato di Bologna venne poi a legarsi anche alla improvvisa sparizione, avvenuta a Beirut il 2 settembre 1980, di due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo. Ecco cosa scrive ancora Ferruccio Pinotti nel suo libro “Fratelli d’Italia”: “Lo stato, il governo, i servizi segreti avrebbero coperto i veri responsabili della strage di Bologna per rispettare l’accordo coi palestinesi. Si tratterebbe di una verità sconvolgente. E se Italo Toni e Graziella De Palo, attraverso le loro fonti palestinesi in Libano, avessero messo le mani su una simile “lettura” della strage di Bologna, si giustificherebbe la loro sparizione e si spiegherebbero le coltri di fumo e i depistagli posti in essere da Giovannone e dal generale Santovito sulla loro morte, tanto da essere rinviati a giudizio. Soprattutto si capirebbe il motivo dell’imposizione, sull’intera vicenda, del ‘segreto di Stato’, che permane tutt’oggi.” Se quindi l’ipotesi dell’attentato di matrice medio-orientale, finora senza esiti processuali, può comunque essere considerata una traccia molto credibile, considerando l’intreccio di motivazioni, connivenze e interessi – oltre alla sentenza molto dubbia nei confronti degli imputati Mambro e Fioravanti -, aggiungiamo un altro elemento che ha contribuito in questi anni all’offuscamento della verità processuale. Infatti il 13 gennaio 1981 sul treno Taranto-Milano in sosta alla stazione di Bologna veniva rinvenuta una valigia contenente esplosivo simile a quello utilizzato per la strage oltre ad armi ed altro materiale compromettente. Le indagini fecero scoprire che questo ritrovamento costituiva una vera e propria sceneggiata operata dal SISMI che, sempre fedele al “patto”, tentò il depistaggio verso elementi neo-nazisti e ciò spiega perché ufficiali del SISMI vennero condannati per questo episodio. Tornando invece alla condanna degli imputati al processo di Chieti per l’episodio dei missili, il giordano Saleh venne rimesso in libertà il 17 giugno 1981 per decorrenza dei termini di custodia, mentre gli altri complici italiani continuarono a rimanere in carcere. E’ quindi evidente la disparità del trattamento degli imputati. E ciò non può non essere stata una coincidenza casuale in seguito all’attentato avvenuto meno di un anno prima. Un’ultima nota crediamo sia doverosa per le vittime di quel tragico 2 agosto: persone ignare del proprio destino che vide 85 vittime o che avrebbero visto la propria vita completamente cambiata per un grave ferimento così come per la perdita di un familiare o di un caro amico. La perdita di fiducia nella giustizia e nelle istituzioni di cui oggi dobbiamo constatare la drammatica attualità è dovuta anche – ovviamente non solo – a situazioni irrisolte come quella di Bologna che, a distanza di quasi 30 anni, chiede una chiave di lettura diversa rispetto a quella finora rivelata. Mi sembra infatti che gli elementi oggi a nostra disposizione richiedano quindi un nuovo impegno da parte degli organi inquirenti e giudiziari per arrivare ad una memoria processuale condivisa che possa cominciare a ridare credibilità al nostro panorama istituzionale. Allo stesso tempo è certo che continuerà l’azione di sbarramento dei “guardiani della verità”, cioè di coloro che non vogliono che queste rivelazioni diventino di ampia diffusione, poiché si ha quasi l’impressione che la nostra opinione pubblica non sia ancora preparata alla lettura di fatti che accaduti da troppo poco tempo per essere completamente metabolizzati. Oltre alle inevitabili ripercussioni che simili verità possano divenire fonte di attrito con i vicini medio-orientali e i nostri interessi nell’area.
Rapporti Italia-OLP, segreti svelati!, scrive “Liberali per Israele”.
FRANCESCO COSSIGA: « Vi sono sempre delle cose, delle verità che è meglio che in certi momenti non si sappiano. Le faccio un esempio: quando io da Ministro dell'Interno o presidente del Consiglio mi vedevo con gli esponenti dell' Olp, non era bene che si sapesse, o quando abbiamo trattato con l'Urss per coprire un caso di spionaggio che aveva portato all'arresto di alcuni italiani e un brillante ufficiale del sevizio militare sovietico; all'arrivo di Gorbaciov facemmo in modo che questo funzionario fosse scarcerato.
Cari giudici girotondini, vi svelo una cosa. Io e Moro i terroristi li abbiamo sequestrati, cacciati, incastrati con la droga. E abbiamo vinto. Voi invece...
Caro dottor Spataro, io ho per Lei una grande simpatia, anche se l'ho denunziata e spero che di quella denunzia Lei debba rispondere, a onore degli uomini dei servizi segreti italiani e delle potenze alleate e amiche che ci difendono dal terrorismo (pardon, dalla "resistenza"). Stia certo che io andrei a trovare in carcere chiunque, anche se fosse un giudice, e porterei le arance siciliane e le ciliegie di Vignola prodotte da un mio amico, che non è né della Cia né del Sismi. Dicevo: io ho per Lei una grande simpatia perché siamo entrambi dei politici. Io lo sono in panni normali e combatto con la parola e lo scritto; Lei lo è nei panni del magistrato che lotta con l'esercizio dell'azione penale e con gli ordini di custodia cautelare. Da ragazzino io per la Repubblica e la Democrazia Cristiana facevo a botte; Lei non ho ben capito per che cosa, ma forse già allora faceva i girotondi. ::: Voglio raccontarLe alcune istruttive cose. Aldo Moro molto si preoccupava di tenere al riparo i cittadini italiani dagli attacchi del terrorismo arabo-medio orientale e palestinese: l'Olp di Arafat non aveva ancora rinunciato a compiere "azioni di convinzione" all'estero contro obiettivi ebraici e occidentali. Si operava nell'ambito del più generale accordo segreto chiamato il "patto Giovannone", dal nome del residente del Sismi a Beirut. Quando terroristi palestinesi tentarono - con missili terra-aria piazzati nei dintorni all'Aeroporto di Fiumicino - di abbattere un aeromobile civile israeliano dell'El-Al e furono arrestati, Moro intervenne personalmente sul presidente del tribunale, con la cortesia e la fermezza che gli erano proprie, e fece concedere ai terroristi la libertà provvisoria. All'uscita dal carcere vi erano agenti dell'allora Sid che prelevarono i terroristi appena scarcerati, li portarono in un aeroporto militare, li imbarcarono su un aeromobile DC 3 dello stormo dello Stato Maggiore, sigla "Argo", quello di cui normalmente si serve la V Divisione e cioè "Gladio" (mamma mia, "Gladio!") e li spedì a Malta, da dove raggiunsero la Palestina. Arafat ringraziò. Fortunatamente Lei, dottor Spataro, era impegnato in un girotondo! Gli israeliani anni dopo ci risposero e fecero saltare in aria l'Argo: pari e patta. Nella "guerra sporca" dei servizi si fa così! Altra storia. Un magistrato arrestò un giorno il capo del Sid, uomo fedele ad Aldo Moro che era allora presidente del Consiglio dei ministri, e arrivò vicino a scoprire la struttura di Gladio. Moro convocò un giovane ministro che ero io, e gli diede istruzioni di prendere contatto con la famiglia, e di esprimere ad essa e tramite essa la solidarietà del governo al generale. Moro mi diede le indicazioni per impartire all'arrestato le istruzioni su ciò che doveva e su ciò che non doveva dire al magistrato. Il generale fu messo in libertà e delicati segreti di Stato non furono rivelati al magistrato, con e senza password! E Lei, il dottor Spataro non c'era, perché si allietava a fare già i girotondi contro i futuri Ds, quando il Pci si fosse trasformato in essi! Quando diventai ministro dell'Interno, il capo dell'Ispettorato Antiterrorismo mi disse che potevamo fare un "colpo" catturando un terrorista (pardon, un "resistente rosso"!), rapendolo con la forza da un Paese confinante. Diedi l'autorizzazione, i nostri ragazzi penetrarono in "territorio amico", localizzarono il "rapendo", ebbero con lui un conflitto a fuoco e lo trasportarono di forza in territorio nazionale. Al processo il terrorista tacque perché su nostra richiesta il magistrato gli aveva promesso un trattamento di favore. Lei, dottor Spataro fortunatamente non c'era, perché si riposava dai girotondi. Sempre io giovane e spregiudicato ministro dell'Interno, mi feci consegnare da un mio più giovane collega straniero in un aeroporto militare di quel Paese un gruppetto di terroristi di destra (questi "delinquenti", e non "resistenti"), e li feci riportare in Italia senza le complicazioni di domande di estradizione e simili. Sempre ministro dell'Interno, escogitai un sistema per far fermare e interrogare sospetti terroristi o loro fiancheggiatori, per i quali i magistrati proprio non ci potevano concedere mandati di arresto e cattura o confermare fermi di polizia giudiziaria (solo dopo un paio d'anni riuscii infatti a far reintrodurre il fermo di polizia, con l'aiuto dei comunisti). E Le racconto un'altra cosa ancora, dottor Spataro. Nella calca delle grandi città, nostri ragazzi dell'Arma o della Polizia facevano scivolare buste di cocaina o di altra droga (in modica quantità!) nelle tasche del ben-capitato di turno. Qualche metro dopo una squadra della Guardia di finanza in divisa, che si trovava per caso di passaggio per servizio antidroga, fermava il sopraddetto, lo perquisiva, gli trovava la droga e lo portava in caserma dove, dopo un sommario interrogatorio sul possesso di droga, insieme a carabinieri o agenti di polizia dell'antiterrorismo in borghese il bencapitato veniva interrogato su fatti di terrorismo... con minor dolcezza! Gli Spataro non c'erano: erano i tempi degli Occorsio, dei Sica e dei Di Matteo..., quelli che con seri politici, soprattutto democratico-cristiani e comunisti, sconfissero il terrorismo (perdono! La "resistenza"!). Chissà quanti ostacoli alla lotta contro il terrorismo rosso ci avrebbe messo il girotondino Spataro, allora con baffi meno bianchi! Andiamo avanti con i ricordi. Dopo un devastante attacco terrorista contro obiettivi israeliani a Fiumicino (il "patto Giovannone" non venne violato!), dopo che gli "steward" e le "hostess" della El-Al fecero fuori tre o quattro terroristi la polizia italiana riuscì a catturarne uno, ferito. Il sostituto procuratore e il capo di una sezione antiterrorismo che mi incontrarono nell'obitorio dove ero andato a rendere omaggio alle salme dei cittadini israeliani (mi scusi, qualche girotondino direbbe "sporchi sionisti"!) uccisi, mi chiesero se ritenessi opportuno che, con l'aiuto degli anestesisti, gli agenti dessero una "strizzatina" al ferito per farlo parlare, in presenza del magistrato della procura di Roma, che naturalmente non era girotondino ma della sinistra vera. Il consiglio di dare strizzatine ai terroristi detenuti mi era stato dato anche da un grande capo partigiano, "icona" del Pci e leninista di ferro. Risposi che mi sembrava un'ottima idea. Così fu fatto: e la magistratura "mise dentro" un bel po' di complici dei terroristi (pardon, di resistenti contro il sionismo). Il "resistente" fu condannato all'ergastolo e fu poi oggetto di uno scambio. Lei, dottor Spataro non c'era, perché aveva ripreso gli allenamenti di girotondo! Avendo avuto forti insegnanti di diritto costituzionale e di diritto penale (sì, mi sono laureato in diritto penale ottenendo il voto di 110 su 110 e lode, con dignità di stampa!) conosco che cosa sia la legalità ordinaria e la legittimità istituzionale dei tempi di guerra. Non si affanni a fare indagini, dottor Spataro, perché è tutto prescritto... In conclusione: io, democratico, antifascista e antiterrorista, ringrazio gli agenti del Sismi, quelli della Cia (sì, anche quelli della Cia con le "extraordinary rendition") del Security Service, quelli della BND, quelli dell'SFB che hanno fatto (complimenti!) il bel colpo contro il capo terrorista ceceno. Li ringrazio per il contributo che danno, anche con metodi spicci, alla lotta contro il terrorismo islamico (pardon, la resistenza islamica!) Spero che Clemente Mastella riesca a salvarsi dalla stretta della lobby politicosindacale dell'Associazione Nazionale Magistrati e a rifiutarsi di inoltrare la domanda di estradizione degli agenti Cia che Lei - insieme al non girotondino conoscitore delle "carte di Montenevoso" - inoltrerete agli Stati Uniti. Spero che Mastella riesca ad evitare che dall'altra parte dell'Atlantico ci arrivi una pernacchia imperiale! Sa che cosa mi duole di tutta questa vicenda, dottor Spataro? Che né il governo né il Sismi abbiano dato una mano alla Cia, come quasi tutti gli altri Stati e servizi di intelligence europei hanno fatto! Con sincera cordialità.»
FRANCESCO COSSIGA: «Adesso le dico un segreto, quando venne in Italia Arafat per i funerali di Berlinguer, nei suoi confronti c'era un ordine di cattura emesso dal giudice Mastelloni. Avevamo paura che ci arrestassero Arafat, e io allora ero presidente del Senato lo nascosi insieme ai suoi all'interno dell'allora mio appartamento al Senato, e depistammo i carabinieri che avevano avuto l'ordine dal giudice Mastelloni di eseguire il mandato di cattura. Adesso lo si può dire».
Lo sa che Cossiga per far partecipare Arafat ai funerali di Berlinguer lo nascose al Senato?
CARLO MASTELLONI - Procura di Venezia: «Non mi meraviglio perché si mosse tutta una macchina, in maniera abbastanza violenta, virulenta. Io ricevetti perquisizioni per scoprire quali fossero le mie idee politiche, fu un episodio molto doloroso. Da una parte si può anche capire le motivazioni politiche che spingono un parte politica ad intervenire, dall'altra bisogna andare sempre dritti per fare il proprio dovere.»
BERNARDO IOVENE: «Tra l'organizzazione per la liberazione della Palestina e l'Italia c'era un accordo segreto che aveva fatto Aldo Moro. Un accordo ancora oggi sconosciuto».
FRANCESCO COSSIGA: «Non si è mai saputo, io non ho mai conosciuto i termini reali dell'accordo che fece Moro con l'OLP, ma tale accordo prevedeva che quando furono arrestati dei guerriglieri arabi con dei lanciamissili terra-aria destinati ad abbattere un aereo di linea israeliano a Fiumicino, questi su richiesta dell'OLP furono portati a Malta e liberati».
BERNARDO IOVENE: «In pratica furono beccati dei terroristi palestinesi con dei missili terra aria per abbattere un aereo israeliano e in barba alle leggi italiane furono riaccompagnati a casa».
E ritorniamo al segreto di Stato, quanto dura?
GIUSEPPE DE LUTIIS - Consulente Commissione Stragi: «Attualmente i segreti dei servizi sono eterni a meno che un presidente del Consiglio non decida di farne decadere qualcuno in specifico».
Da spararsi un colpo in testa, ragazzi!
Il super-consulente Usa di Cossiga che voleva la morte di Aldo Moro, scrive il 13 novembre 2014 “Bergamo Post". Un coinvolgimento del governo americano nell’uccisione di Aldo Moro, precisamente nella persona di Steve Pieczenik. Sembra la trama di un libro giallo di fantapolitica, in realtà è quanto emerso dalla richiesta di archiviazione di un nuovo filone su via Fani, redatta dal procuratore generale della Corte d’appello di Roma Luigi Ciampoli. Nelle cento pagine del documento, il magistrato ha chiamato in causa Pieczenik – ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e superconsulente del governo italiano e in particolare del ministro dell’Interno Cossiga, ai tempi del sequestro di Moro – chiedendo alla procura l’apertura di un procedimento formale a suo carico per “concorso nell’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana, commesso a Roma il 9 maggio 1978″. A carico di Pieczenik, secondo Ciampoli, ci sarebbero “gravi indizi” di colpevolezza. Il funzionario americano, nei 55 giorni del sequestro Moro sedeva al tavolo del Comitato di crisi come inviato informale degli Usa. Pieczenik in un libro aveva già “confessato” il suo ruolo nello spingere le Brigate Rosse ad assassinare il leader Dc. Il coinvolgimento di Pieczenik. Durante quei quasi due mesi di febbrili trattative, arrivarono da tutto il mondo esperti di antiterrorismo per coadiuvare il governo italiano nel tentativo di liberare Aldo Moro. Fra questi professionisti figurava anche Pieczenik, esperto di terrorismo che ottenne in breve tempo un ruolo di assoluta rilevanza nelle trattative, vista sicuramente la sua esperienza nonché per il fatto di non conoscere personalmente Moro e di non essere parte del sistema politico italiano, cosa che lo sollevava da qualsiasi tipo di possibile faziosità o pregiudizio. Come ben noto, nulla si riuscì a fare, e Aldo Moro venne ucciso dalle Brigate Rosse. Ma è proprio nel periodo delle trattative che la figura di Pieczenik assume un ruolo primario: secondo quanto asserito dal procuratore generale Ciampoli. Gli Stati Uniti avrebbero invitato Pieczenik in Italia non tanto per collaborare nel tentativo di ottenere la liberazione di Moro, quanto per capire cosa fosse meglio che accadesse in seguito al rapimento: le Br, e in generale il terrorismo rosso, stava prendendo sempre più piede in Italia, la DC appariva debole e divisa al suo interno, cosa che avrebbe potuto portare ad una ascesa al governo del Pci. Gli Usa intendevano scongiurare in ogni modo questa eventualità, e colsero l’occasione per portare direttamente sul territorio un uomo di fiducia. In breve tempo, Pieczenik capì che l’unico modo per mettere le Br definitivamente con le spalle al muro e far capire agli italiani la pericolosità del comunismo, fosse che Moro venisse ucciso. Sempre secondo il fascicolo di Ciampoli, Pieczenik, oltre a non prodigarsi con particolare impegno nelle ricerche e nelle indagini, pare che fosse anche in contatto diretto con le Br, nel tentativo di persuadere i terroristi a non liberare Moro. Pieczenik, ma non solo. Quella del funzionario americano, benché estremamente rilevante, non è l’unica figura oscura coinvolta nell’omicidio di Aldo Moro: pare che, con l’intento di destabilizzare la situazione già tesa in Italia, fossero coinvolti anche agenti segreti di vari Paesi, addirittura dello stesso governo italiano. Uno di questi è il colonnello Camillo Guglielmi, all’epoca in forza al Sismi (il servizio segreto militare italiano), che il giorno della strage di via Fani, il 16 marzo 1978, pare fosse presente sulla scena del sequestro, a cavallo di una moto Honda. Più volte negli anni gli era stato chiesto di dar ragione della sua presenza, e sempre aveva risposto di essere passato di lì per caso, diretto a pranzo da un collega; versione smentita proprio dal collega, che confermò la visita ma negò il pranzo. La strage avvenne alle 9 del mattino. Guglielmi è morto, e non è quindi nemmeno più possibile, oltre che carpire nuove e decisive informazioni, aprire nei suoi confronti un procedimento penale. Secondo Ciampoli, per Guglielmi avrebbe potuto ipotizzarsi il concorso nel rapimento e nell’omicidio degli uomini della scorta. Tantissimi i dubbi quindi, esistenti ancora oggi, circa la vicenda che ha portato all’assassinio del presidente della Dc e degli uomini della sua scorta. Ora riprende quota la pista internazionale e più si aggiungono tasselli, più la questione si fa inquietante, con tante persone e governi impegnati nel raggiungere qualsiasi obiettivo tranne che, a quanto pare, quello di salvare la vita di Aldo Moro.
Il sequestro e la morte di Aldo Moro. Presidente della Democrazia Cristiana, protagonista della vita politica italiana nel Dopoguerra, fautore del dialogo con il Partito comunista italiano, Moro venne sequestrato a Roma il 16 marzo 1978, mentre si trovava a bordo di una Fiat 1500 insieme alla sua scorta, diretto alla Camera dei Deputati. In prossimità dell’incrocio fra via Fani e via Stresa, un commando delle Brigate Rosse intercettò l’automobile, uccise tutte le guardie del corpo, e sequestrò lo statista. Da quel momento in poi, per 55 giorni, si tentò in ogni modo di trovare una via di mediazione con le BR, che fin da subito rivendicarono l’accaduto, ma l’esito della vicenda fu tragico: il 9 maggio 1978, il corpo senza vita di Aldo Moro venne trovato nel portabagagli di una Renault 4 rossa presso via Caetani, a pochi passi dalla sede romana della DC.
Sequestro Moro, l'ombra di Mossad e Cia. Trovati gli appunti inediti di Spadolini: nelle carte spuntano i servizi israeliani e statunitensi, scrive Fabrizio Colarieti il 13 Ottobre 2015 su “Lettera 43”. Riguarderebbero anche il coinvolgimento del Mossad e dell’intelligence americana nel sequestro Moro i documenti acquisiti a Firenze, nella sede della Fondazione Giovanni Spadolini, dalla Commissione parlamentare d’inchiesta che indaga sul rapimento e l’omicidio dello statista democristiano. Si tratta di appunti inediti, annotati su diversi block notes dallo stesso Spadolini nel corso di alcuni colloqui privati con l’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Gli appunti, che risalirebbero all’ottobre del ‘90, a quanto riferiscono fonti parlamentari, sono stati scoperti prima dell’estate dal magistrato Antonia Giammaria, consulente della stessa Commissione Fioroni, e conterrebbero importanti elementi sul contesto in cui si consumò la tragedia di Aldo Moro e sul possibile coinvolgimento dei servizi segreti israeliani e statunitensi. Tutti gli appunti sono stati perciò acquisiti dalla Commissione e saranno digitalizzati e restituiti alla Fondazione Spadolini. La circostanza che i documenti in questione fossero custoditi all’interno di un armadio blindato, anziché tra i fondi dell’archivio personale di Spadolini, lascia intendere che il contenuto di quelle carte fosse stato in quale modo classificato o comunque soggetto a restrizioni, pare per un periodo di 50 anni. A quanto riferisce l’agenzia Ansa, che ha dato la notizia del ritrovamento, tra le carte acquisite c’è anche una lettera di Cossiga, già nota, che ricostruisce l'atteggiamento del Pci subito dopo la diffusione della prima lettera di Moro, con il passaggio di Ugo Pecchioli: «L'onorevole Moro sia che muoia sia che torni dalla prigionia per noi è morto». Ma anche riferimenti ai rapporti tra alcuni politici italiani e le intelligence straniere. Gli appunti, da una prima lettura di cui dà conto l’Ansa, sintetizzano il disappunto di Spadolini rispetto alla nomina di Moro a capo del governo. L’esponente repubblicano, che durante il sequestro era il segretario del Pri, aveva sostenuto che oltre alle lettere scritte da Moro durante la prigionia e successivamente rese note ve ne fossero sicuramente delle altre. Spadolini riporta anche la posizione socialista che ipotizzava nella scoperta delle carte di Moro un’iniziativa dei servizi americani o israeliani. «Ci sono molte carte segrete perché riguardanti aspetti delicati della politica. Non memorie o altro ma corrispondenza oppure, come in questo caso, resoconti sbobinati di colloqui registrati», ha spiegato all’Ansa Cosimo Ceccuti, responsabile della Fondazione Spadolini. «Spadolini è morto da 21 anni ma stiamo ancora ordinando alcune carte e stiamo messo in ordine i 100 mila volumi della sua biblioteca. Il magistrato ha esaminato il settore delle carte segretate e a sua discrezione ne ha estratte alcune. La selezione è stata fatta tra le carte che erano in cassaforte».
''Aldo Moro, patto con i palestinesi per evitare attentati in Italia'', scrive il 16 Ottobre 2015 Stefania Limiti. ''La Cia impedì le trattive e ordinò la sua morte''. Intervista esclusiva a Bassam Abu Sharif, ex leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Negli anni Settanta, sostiene, lo statista voleva liberare il Paese dalla "subdola dominazione statunitense". E almeno una volta "incontrò i vertici dei nostri servizi" per avere rassicurazioni che non saremmmo stati colpiti da attentati. Dopo il sequestro da parte delle Brigate rosse, "fummo contattati da Roma e facemmo ogni tentativo per salvarlo. Ma una terza parte lo impedì". Ancora oggi va su e giù per il Medio Oriente il vecchio capo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Bassam Abu Sharif. Tu sai che è a Beirut, arrivi lì ma lui parte. Poi vai a Gerico, dove abita, ma lui scappa in un’altra delle città infuocate di questo pezzo di terra devastato: però alla fine accetta, grazie agli auspici di un comune amico, alto dirigente del Comitato nazionale per il Diritto al ritorno, e risponde alle domande di ilfattoquotidiano.it in una lunga conversazione telefonica che si snoda in varie tappe per un mesetto circa. Gli spiego che voglio riportarlo indietro nel tempo, quando lui era uomo chiave dei rapporti internazionali dei palestinesi, e che qui da noi il dibattito sull’amicizia dell’Italia per il suo Paese è sempre aperto e ruota attorno a una figura chiave, quella di Aldo Moro. “Eh sì … ovvio …”, mi dice interrompendomi, “Moro è stato un vero patriota”. Dunque, per favore, ci aiuta a capire meglio cosa accadde tra l’uomo del compromesso storico e i dirigenti palestinesi? “Lo faccio volentieri” dice, ma subito premette: “Non insista troppo sulle date… ah le date! Sapesse quante carte sono andate perdute a Beirut durante la guerra civile, e poi i nostri spostamenti. Tutto è successo troppo tempo fa e i segni della guerra sul mio corpo sono ben chiari”. Mr Sharif è incappato in un pacco bomba che gli fu recapitato nel 1972 a Beirut e gli sfigurò il volto, portandogli via la mano destra. “Moro – mi spiega – voleva rendere l’Italia più forte economicamente, politicamente e anche, in un certo senso, tecnologicamente. Voleva rendere l’Italia libera dalla subdola dominazione statunitense. Era consapevole che nel vostro paese venivano fatte azioni illegali alle spalle degli stessi ufficiali italiani. Era perfettamente informato di cosa accedeva nelle basi aeree e navali della Nato e degli Usa che voi ospitavate. Gli americani arrivarono al punto di avere le loro prigioni segrete in Italia. Mi pare che recentemente la cosa è diventata pubblica, non è così?”. Solo in parte, gli dico, pregandolo di ritornare indietro nel tempo: “Sì, sì ha ragione, Aldo Moro. Era un italiano orgoglioso, provò a rafforzare i servizi segreti che considerava una istituzione fondamentale per sostenere l’azione dei governi: credeva che le scelte dell’Italia, nel rispetto degli interessi nazionali degli italiani, spettassero solo ai suoi governi. E noi lo rispettavamo moltissimo per questo suo temperamento”.
I vostri rapporti con Moro passavano solo attraverso il colonnello Giovannone (dal 1972 referente dei Servizi, o almeno di una parte di essi, in Libano)?
“E’ noto che il ruolo di Stefano Giovannone fu centrale ma l’approccio di Moro alla questione palestinese fu il risultato di una serie d’iniziative coraggiose prese da alcuni ufficiali della vostra intelligence che conoscevano molto bene Beirut negli anni ’70. All’inizio erano contatti tesi a realizzare iniziative di carattere umanitario: l’invio di aiuti sanitari, di medici volontari o di farmaci. Poi si stabilirono relazioni politiche più complesse. Ci furono moltissimi incontri tra esponenti palestinesi e rappresentati dell’Italia, a Beirut e nella vostra capitale Roma. L’Olp, per rafforzare la collaborazione, inviò in modo permanente un nostro uomo a Roma, Abu Iyad (il suo nome era Salah Khalaf), il capo dei servizi segreti dell’Olp e una delle figure preminenti della dirigenza palestinese, anche se Moro …” – Bassam Sharif non tradisce l’orgoglio della sua vecchia appartenenza – “si rese conto rapidamente che era necessario intrecciare rapporti con il Fronte popolare di George Habash per rafforzare la sicurezza italiana. Abu Iyad incontrò diversi ufficiali e gli diede la sua parola d’onore. Una sola volta anche Aldo Moro incontrò i vertici dei nostri servizi, insieme a Abu Iyad, per mettere a punto l’accordo (Lodo Moro) che firmò George Habash. Moro sapeva che la strada migliore e più breve per evitare il coinvolgimento dell’Italia in fatti che non la riguardavano passava attraverso il Fronte popolare. Così nacque quell’accordo senza precedenti con il quale noi ci impegnavamo a evitare operazioni militari in Italia. Infatti, da allora nessuna azione da parte nostra fu condotta sul suolo italiano. L’accordo guardava anche al futuro”.
In che senso?
“Prevedeva una fase 2, un’evoluzione dei nostri rapporti; in pratica erano state programmate iniziative per il rafforzamento della cooperazione sulla base del sostegno italiano al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese. Si pensava a un futuro nuovo per il Mediterraneo. Fu una vittoria di Moro che gli americani e gli israeliani non gradirono affatto. Anzi, erano davvero molto arrabbiati, per loro l’accordo con i palestinesi era un sostegno ai ‘terroristi’. Gli israeliani volevano usare l’Europa per la loro caccia ai palestinesi: figuratevi se potevano accettare la politica di Aldo Moro. Di fatto avviarono una guerra contro di lui e contro l’Italia”.
Lei cosa sa delle trattative condotte per salvare la vita di Aldo Moro? Qualcuno vi chiese di mediare?
“Di certo so che le Brigate rosse volevano trattare e liberarlo. Quando Moro fu rapito noi fummo davvero sorpresi. E lo fummo ancora di più quando apprendemmo della rivendicazione delle Brigate rosse. Eravamo increduli, davvero le Brigate rosse? Non potevamo crederci. Nessuno ufficialmente ci chiese qualcosa. Noi ci sentimmo obbligati a fare ogni tentativo per salvare la vita di Moro, cercammo di fare quanto era in nostro potere, lo abbiamo sempre detto pubblicamente. La prima telefonata arrivò nel mio ufficio di Beirut. Qualcuno ci chiese di intervenire e trattare. Non so chi fosse la persona dall’altra parte, ci diede un numero per tenere i contatti che fino ad allora non avevamo mai usato. Non so francamente a chi appartenesse quell’utenza, non so se dall’altra parte ci fosse un agente dei servizi o un funzionario del ministero, non posso davvero dirlo perché non lo so. Certamente l’argomento delle nostre conversazioni era la salvezza di Aldo Moro. Per noi liberare Moro era fondamentale, avevamo di lui un’altissima opinione come uomo e come politico ed era a favore della nostra autodeterminazione, disapprovava la politica di Israele ed era molto simile a uno dei leader europei che sentì il dovere di condannare l’occupazione della Palestina, penso a De Gaulle”.
Quante telefonate ci furono?
“Diverse, l’uomo che chiamò l’ultima volta ci disse espressamente che i rapitori di Moro lo volevano liberare, aveva una gran fretta, si sentiva che era sotto pressione, che era in uno stato di grande ansia, “hurry up, we don’t know what to do”, disse, sbrigatevi, non sappiamo più che fare”.
E’ vero che all’aeroporto di Beirut era pronto un aereo? Anche Carlos lo ‘Sciacallo’, il famoso terrorista di nome Ilich Ramirez Sanchez, reclutato e poi ripudiato da Sharif, parlò di un estremo tentativo di salvare Aldo Moro che ebbe come scenario la pista dell’aeroporto di Beirut dove un executive dei servizi segreti italiani attese invano, l’8 e il 9 maggio del 1978, che a Roma si sbloccasse qualcosa: brigatisti liberi contro la vita di Moro.
“Certamente, l’aereo a Beirut era pronto. Le Brigate rosse chiesero un accordo che comprendesse l’uso dell’aereo. Ma tutto fu improvvisamente interrotto nonostante la loro volontà di rilasciare Moro. Una terza parte, fortemente contraria, anzi intenzionata a liberarsi di Aldo Moro e della sua politica d’indipendenza, riuscì ad impedire le trattative. Per questo quel telefono non squillò più”.
Lei sostiene che qualcuno si mise in mezzo, dunque che c’erano interferenze dirette, infiltrati o contatti in grado di avere notizie su quanto si stava muovendo?
“La situazione era perfetta per la penetrazione di un gruppo come le Brigate rosse. In giro per l’Europa c’erano militanti brigatisti legati a Carlos che stavano cercando di organizzare un suo gruppo autonomo, dopo la famosa azione di Vienna (l’incredibile assalto al quartiere generale dell’Opec organizzato da Carlos nel 1975) e la spaccatura con Wadi Haddad (un attivista espulso dall’Olp nel 1973). La situazione di quei gruppi era porosa e offriva l’opportunità di forti, fortissime infiltrazioni. La Cia giocò un ruolo eccezionale nella penetrazione di questi gruppi in Europa, era una partita che giocava in proprio, senza avvisare i governi europei, ovviamente. Insisto: ordinarono la morte di Moro. Intervennero per interrompere le trattative che erano ancora in corso, erano quasi fatte. Certamente chi ha ammazzato Moro non era amico della nostra lotta di liberazione. Ed ora mi scusi, devo salutarla, ho troppo da fare, qui siamo dentro una nuova Intifada. Gli israeliani stanno diventando selvaggi: sparano direttamente sui bambini, qui da noi c’è l’orrore”.
IL SEQUESTRO MORO E L’UNIONE SOVIETICA.
Il KGB che spiava Aldo Moro, il Sismi che lo sapeva ma non avvertì la magistratura, i due «fronti di ...scrive "Il Tempo" il 10/03/2003. Un quarto di secolo dopo il rapimento e l'assassinio dello statista democristiano e il massacro della scorta, sul «caso Moro» continuano ad aleggiare molti, troppi misteri. L'ufficiale del Kgb. Sergej Fedorovic Sokolov, ufficiale del servizio segreto sovietico, spiava Moro alla Sapienza già un mese prima del sequestro, spacciandosi per studente. A sua volta era controllato dagli 007 del Sismi. Il suo nome emerse dal dossier Mitrokhin nel '98 anche se l'assistente del presidente Dc Franco Tritto denunciò la sua presenza sospetta intorno allo statista già il 16 marzo 1978. Sokolov chiese informazioni sulla scorta di Moro nel febbraio di quell'anno. Poi scomparve nel nulla e, il 23 marzo rientrò precipitosamente in Unione Sovietica per tornare in Italia nell'81. Per lui la procura di Roma ha chiesto l'archiviazione non essendo «possibile dimostrare il coinvolgimento» dell'uomo nella vicenda. «Perché il Sismi - si chiede oggi Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle inchieste sulla strage e il rapimento - ha taciuto alla magistratura l'esistenza di un fascicolo su Sokolov mentre era in corso il sequestro?». La dinamica della sparatoria. Il consulente balistico della procura sostenne fin dall'inizio la tesi del fuoco incrociato di cui restarono vittima gli uomini di scorta in via Fani. Gli ex Br sostennero il contrario. «Sia nella prima consulenza per la procura nell'immediatezza del fatto, sia nelle perizie balistiche eseguite successivamente in sede dibattimentale e istruttoria scrissi che nell'agguato di via Fani per rapire Moro, vi fu un fuoco incrociato da parte delle Brigate Rosse. Lo dimostravano i fori dei proiettili e il numero delle armi», spiega il professor Antonio Ugolini. Almeno sull'auto del presidente, il fuoco fu aperto da destra e da sinistra della strada. Per Ugolini, inoltre, i famosi 49 colpi «con verosimiglianza furono sparati da una sola pistola mitragliatrice utilizzando due caricatori, mettendo a segno buona parte dell'operazione. Tanto che sul posto venne trovato un caricatore con alcune cartucce, dimostrando che l'arma si era inceppata». Aggiunge Ugolini: «i caricatori della pistola mitragliatrice Fna 43 erano da 32 o 36 colpi ed uno, come noto, fu estratto perchè l'arma si era inceppata». Invece, ancora nel 1997, in commissione Stragi, Valerio Morucci, affermò che gli «Fna a sparare erano due», aggiungendo quindi che «la perizia balistica ha accomunato i colpi sparati da entrambe le armi». I covi. Per Alfredo Carlo Moro, fratello della vittima e magistrato, si è tuttora in presenza di «elementi dubbi» e la versione dei brigatisti è «fantasiosa e illogica». La Renault 4 nella quale venne rinvenuto il cadavere di Moro era in via Montalcini, dove fu vista da un'inquilina, e «raggiunse la sede della vera prigione, che era fuori Roma ma vicina alla Capitale. In questa sede - sostiene Carlo Moro - avvenne l'uccisione e la Renault tornò in via Caetani verso mezzogiorno». Per quanto riguarda via Gradoli, invece, la scoperta del covo viene definita da Carlo Moro un fatto «enigmatico».
Delitto Moro: spunta la pista russa, scrive Natalia Poggi il 3/04/2013 su "Il Tempo". Dopo 35 anni la morte dello statista dc è ancora un mistero Perché le Br poche ore prima del rilascio lo uccisero? Sono passati trentacinque anni dal tragico 9 maggio 1978 quando il corpo senza vita dello statista democristiano Aldo Moro, rapito 55 giorni prima da un commando delle Brigate Rosse, fu trovato senza vita nel portabagaglio di una Renault 5 parcheggiata in via Caetani. In tutti questi lunghi anni sono venute a galla tante verità, oltre a quella ufficiale che vede nel drammatico epilogo il triste e ineluttabile esito della linea della fermezza propugnata dal governo d’allora, ma ancora nessuna certezza. Un libro appena uscito «La zona franca» (ed. Castelvecchi) del giornalista Rai Alessandro Forlani le ha raccolte, analizzate, confrontate nel tentativo di dipanare la matassa del giallo e dei misteri che ancora lo ammantano. Il libro di Forlani è il frutto di dieci anni di certosino e appassionato lavoro durante il quale ha raccolto documenti, libri, articoli di giornali, i preziosi racconti dei testimoni di allora. Alcuni di loro nel frattempo sono scomparsi. Come Corrado Guerzoni, portavoce storico di Moro e Sereno Freato, uno dei segretari. «L’ho saputo per caso proprio ieri - dice Alessandro Forlani - Freato è morto il 18 marzo scorso ma la famiglia non ha divulgato la cosa».
Un preambolo: il 16 marzo scorso (nello stesso giorno di 35 anni fa Aldo Moro fu rapito in via Fani dalle Brigate Rosse che trucidarono i 5 uomini di scorta) lei è stato visto all’udienza di Papa Francesco, unico tra i giornalisti presenti a stringere la mano del neopapa direttamente sul palco, per esplicita richiesta di Bergoglio che ha anche accarezzato il suo cane guida Asia. Che vi siete detti?
«Solo un saluto affettuoso. Mi ero messo in prima fila perché sono non vedente e per Asia non c’era spazio dietro. Però la coincidenza del giorno mi ha fatto pensare che Moro mi stesse guardando da lassù e che approvasse il mio lavoro».
Nel quale le Br appaiono più come comparse che non protagoniste. E si ribadisce l’incongruenza degli eventi. Infatti nonostante le tre, quattro trattative imbastite per salvare Moro, la situazione precipitò all’improvviso la mattina del 9 a poche ore dal previsto rilascio.
«È uno dei tanti misteri della vicenda. Cosa fece cambiare idea ai brigatisti? Il Vaticano aveva raccolto un riscatto miliardario (si parla di 25 miliardi). Moro doveva essere rilasciato in Vaticano nelle prime ore del pomeriggio. Si è detto che i terroristi non volevano soldi ma non è vero perché il precedente rapimento, quello di Costa, era basato proprio sui soldi. I servizi segreti italiani avevano imbastito accordi internazionali di tutto rispetto. Il maresciallo Tito s’apprestava a riconoscere le Br come un soggetto politico, degli 007 erano volati in Yugoslavia per prelevare tre esponenti della Raf e trasportarli a Beirut dove un altro 007 li attendeva su un aereo con altri guerriglieri palestinesi. C’era pure la volontà del presidente Leone, avallata dalla Dc per scopi umanitari, di firmare la grazia dei rapitori...»
Invece?
«Quella mattina tra le 9 e le 10 Moro viene assassinato. Io penso non a via Montalcini ma a via Caetani dove lo statista Dc era stato trasportato qualche giorno prima. Era nascosto dentro palazzo Caetani. Lo testimoniano anche dei fili di stoffa colorati trovati nelle suole delle scarpe. C’era un negozio di stoffe là davanti. È probabile che fu nascosto nel deposito del negozio».
Nel suo libro si sottolinea anche il ruolo della famiglia Caetani?
«In particolare del pianista Igor Markevitch, finto rivoluzionario in realtà garante di Jalta per conto del Kgb, sposato con la principessa Topazia Caetani e abitante nel palazzo. Markevitch è il classico profilo dell’agente doppio. Inoltre si sa che durante la prigionia Moro sia stato nascosto per un certo periodo in una casa vicino al mare molto aristocratica e piena di statue antiche. Penso che si tratti di un palazzo a Palo Laziale disabitato all’interno di un parco di pertinenza del Wwf e legato a Markevitch. I Caetani sono sempre stati dei mecenati e di sinistra. I servizi segreti avevano a suo tempo rilevato anche contatti tra gli aristocratici e i brigatisti».
Si delinea una spy-story con servizi deviati, Cia e Kgb. Ma a chi faceva comodo la morte di Moro?
«Secondo il sottosegretario dell’epoca Franco Mazzola ci fu una convergenza di interessi. La Russia non poteva accettare che un partito comunista salisse al potere con elezioni democratiche rinunciando al sogno della rivoluzione. Per gli americani era inaccettabile che i comunisti avessero accesso alla stanza dei bottoni in un paese occidentale. Tuttavia se Moro fosse uscito vivo dalla sua prigione avrebbe abbandonato il compromesso storico visto che il Pci si era opposto alla sua liberazione. È un mistero chi e cosa Moro abbia visto durante la prigionia. Di sicuro sarebbe diventano una mina vagante per gli equilibri interni e internazionali». Natalia Poggi
A Mosca la verità sulla morte dello statista. Stretti legami tra le Br e gli agenti del KGB, scrive su "Il Tempo" il 17/03/2015 Antonio Selvatici. "Nel luglio del 1977 c’è stato un incontro tra le Br e il KGB a Mosca": sono gli archivi dell’Est che parlano. "Nel luglio del 1977 c’è stato un incontro tra le Br e il KGB a Mosca": sono gli archivi dell’Est che parlano. La nuova inchiesta voluta dai familiari delle vittime di via Fani ed ora sulla scrivania del Procuratore generale presso la corte di Appello del Tribunale di Roma Antonio Marini riguardante il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della scorta non può e non deve concentrarsi solamente su quanto in quegli anni è accaduto in Italia. Il recinto del terrorismo era più ampio. Allora, quando la fumante P38 era un simbolo ed uno strumento di morte gli investigatori per cercare di arginare il fenomeno non si sono molto concentrati sulle ricerche oltre confine. Ora, dopo la caduta del Muro e la conseguente apertura degli archivi, sappiamo che uomini delle Brigate Rosse hanno avuto frequenti rapporti sia con altri gruppi terroristici, sia con agenti dell’Est comunista, sia con uomini del Pci conviti che la Resistenza del dopoguerra li «aveva traditi» non compiendo l’atto finale. Negli anni passati «sprovincializzare» le inchieste del terrorismo degli Anni di Piombo poteva significare affrontare o scontrarsi con noti ostacoli ideologici. Oggi i tempi sono cambiati. Sarebbe quindi un buon gesto se gli investigatori italiani che indagano per conto del procuratore Antonio Marini ritrovassero il testo di una richiesta di rogatoria internazionale partita da un reparto speciale della polizia di Praga che chiedeva a Roma delucidazioni riguardanti la mitraglietta Skorpion: la micidiale arma utilizzata per ammazzare Aldo Moro. Sembra proprio che gli investigatori d’Oltralpe fossero riusciti a mappare il percorso della Skorpion. Cinque giorni prima che Aldo Moro venisse ucciso il noto dirigente del Pci Giorgio Amendola consigliò a Vladmir Koucky, l’allora ambasciatore cecoslovacco in Italia, di essere prudenti nel trafficare con i terroristi italiani. Era una questione di possibile imbarazzo politico: se si fosse venuto a sapere che un Paese amico trafficava con i terroristi rossi italiani, la cosa avrebbe creato difficoltà in casa Pci. Già nella primavera del 1976 il dirigente del Pci Salvatore Cacciapuoti si recò a Praga per comunicare ai cecoslovacchi che due brigatisti avevano raccontato al loro legale che erano stati addestrati in Cecoslovacchia. La figlia Alba di Salvatore Cacciapuoti ha successivamente confermato l’accaduto: «mio padre era stato incaricato da Enrico Berlinguer di denunciare al governo cecoslovacco l’appoggio del suo servizio segreto alle Brigate rosse». I documenti custoditi negli sterminati archivi suggeriscono scenari poco considerati. Ad esempio, un documento della Stasi ci dice che nel settembre del 1978 si tenne a Dubrovnik in Jugoslavia il «Congresso segreto internazionale» dove erano presenti i rappresentanti di alcune organizzazioni terroristiche tra cui Settembre nero, FPLP di Wadi Haddad, le RAF e, naturalmente, le Brigate Rosse. Un altro documento: «nel luglio del 1977 c’è stato un incontro fra le Br e il Kgb a Mosca». Gli uomini della Stasi raccoglievano informazioni sui brigatisti italiani. Alcuni di loro (Renato Curcio, Lauro Azzolini, e Barbara Balzerani) sono intestatari di schede che ho potuto visionare. Su alcune di queste (allora non si usava il computer) vi è una nota, talvolta vergata a penna altre scritta a macchina, il cui testo è chiaro: «Album di amici sul terrorismo internazionale». Tale album è un elenco di terroristi compilato dal Kgb in forma di libro. Ma allora, chi era amico di chi? Poi un mistero, vi è un documento scomparso. È quello dell’«Archivio Moro» che troviamo citato nel retro della scheda di Valerio Morucci. Lo stesso archivio di Berlino suggerisce anche che Giorgio Bellini «in base alle nostre conoscenze manterrebbe un collegamento continuativo con Carlos per conto delle Brigate Rosse». Carlos, vale a dire Ilich Ramìrez Sànchez, noto terrorista internazionale una volta a capo del gruppo «Separat», oggi è detenuto in Francia dove sta scontando l’ergastolo. Ed a Bettola, piccolo paese dell’Appennino piacentino noto per essere il luogo in cui è nato Pier Luigi Bersani, ha vissuto per molti anni sotto falso nome Antonio Expedito Carvalho Perera, poi riconosciuto come un fiancheggiatore di Carlos. Sappiamo che le Brigate Rosse venivano rifor nite di armi dai palestinesi. Non dimentichiamo i rapporti tra Mario Moretti e Abu Iyyad, la collaborazione è stata così descritta in un testo di terrorismo internazionale: «l’Olp consegna armi alle Br; membri delle Br hanno il permesso di addestrarsi nei campi palestinesi in Medio Oriente; l’Olp offre assistenza ai membri Br fuggitivi; le Br immagazzinano armi in Italia perché possono essere usati dall’Olp; le Br parteciperanno ad attacchi contro individui israeliani in Italia». Il 9 marzo 1982, durante un’udienza del processo al rapimento del generale americano James Lee Dozier, il brigatista Antonio Savasta ammise: «il rappresentante dell’Olp chiarì che il contatto con noi era stato richiesto per costruire un fronte di lotta contro Israele da noi, e con la Raf, in Germania. In seguito a ciò l’Olp ci inviò armi e esplosivo plastico». Antonio Selvatici
PARLA ELEONORA CHIAVARELLI IN MORO.
16 marzo 2010 – Le lettere di Aldo Moro a sua moglie. È morta Eleonora Moro, che cercò di salvare la vita a suo marito. Lui le scrisse lettere dolorose e bellissime, scrive “Il Post" del 19 luglio 2010. L’altro ieri è morta Eleonora Chiavarelli Moro: si è saputo ieri sera. Aveva 94 anni, era stata la moglie di Aldo Moro, protagonista privata di tutta la vita del politico democristiano fino al suo assassinio da parte delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978, e protagonista pubblica dei quasi due mesi del suo sequestro con i suoi disperati tentativi di ottenere aiuto per salvare la vita di suo marito. E con le emozionanti lettere che Aldo Moro le scrisse in quei giorni. La Stampa oggi ripubblica un’intervista a Eleonora Moro di due anni fa, il Post ripubblica alcune lettere scritte da Aldo Moro sotto sequestro.
"Mia carissima Noretta, Desidero farti giungere nel giorno di Pasqua, a te ed a tutti, gli auguri più fervidi ed affettuosi con tanta tenerezza per la famiglia ed il piccolo in particolare. Ricordami ad Anna che avrei dovuto vedere oggi. Prego Agnese di farti compagnia la notte. Io discretamente, bene alimentato ed assistito con premura. Vi benedico, invio tante cose care a tutti e un forte abbraccio. Aldo".
"Mia Carissima Noretta, vorrei dirti tante cose, ma mi fermerò alle essenziali. Io sono qui in discreta salute, beneficiando di un’assistenza umana ed anche molto premurosa. Il cibo è abbondante e sano (mangio ora un po’ più di farinacei); non mancano mucchietti di appropriate medicine. Puoi comprendere come mi manchiate tutti e come passi ore ed ore ad immaginarvi, a ritrovarvi, ad accarezzarvi. Spero che anche voi mi ricordiate, ma senza farne un dramma. E’ la prima volta dopo trentatré anni che passiamo Pasqua disuniti e giorni dopo il trentatreesimo di matrimonio sarà senza incontro tra noi. Ricordo la chiesetta di Montemarciano ed il semplice ricevimento con gli amici contadini. Ma quando si rompe così il ritmo delle cose, esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo. Per quanto mi riguarda, non ho previsioni né progetti, ma fido in Dio che, in vicende sempre tanto difficili, non mi ha mai abbandonato. Intuisco che altri siano nel dolore. Intuisco, ma non voglio spingermi oltre sulla via della disperazione. Riconoscenza e affetto sono per tutti coloro che mi hanno amato e mi amano, al di là di ogni mio merito, che al più consiste nella mia capacità di riamare. Non so in che forma possa avvenire ma ricordami alla Nonna. Cosa capirà della mia assenza? Cose tenerissime a tutti i figli, a Fida col marito, ad Anna col marito ed il piccolino in seno, ad Agnese, a Giovanni, ad Emma. Ad Agnese vorrei chiedere di farti compagnia la sera, stando al mio posto nel letto e controllando sempre che il gas sia spento. A Giovanni, che carezzo tanto, vorrei chiedessi dolcemente che provi a fare un esame per amor mio. Ogni tenerezza al piccolo di cui vorrei raccogliessi le voci e qualche foto. Per l’Università prega Saverio Fortuna di portare il mio saluto affettuoso agli studenti ed il mio rammarico di non poter andare oltre nel corso. Ricordami tanto a fratelli e cognati ed a tutti gli amati collaboratori. A Rana in particolare vorrei chiedere di mantenere qualche contatto col Collegio e di ricordarmi a tutti. Mi dispiace di non poter dire di tutti, ma li ho tutti nel cuore. Se puoi, nella mia rubrichetta verde, c’è il numero di M.L. Familiari, mia allieva. Ti prego di telefonarle di sera per un saluto a lei e agli amici Mimmo, Matteo, Manfredi e Giovanna, che mi accompagnano a Messa. Ed ora alcune cose pratiche. Ho lasciato lo stipendio al solito posto. C’è da ritirare una camicia in lavanderia. Data la gravidanza ed il misero stipendio del marito, aiuta un po’ Anna. Puoi prelevare per questa necessità da qualche assegno firmato e non riscosso che Rana potrà aiutarti a realizzare. Spero che, mancando io, Anna ti porti i fiori di giunchiglie per il giorno delle nozze. Sempre tramite Rana, bisognerebbe cercare di raccogliere 5 borse che erano in macchina. Niente di politico, ma tutte le attività correnti, rimaste a giacere nel corso della crisi. C’erano anche vari indumenti da viaggio. Ora credo di averti stancato e ti chiedo scusa. Non so se e come riuscirò a sapere di voi. Il meglio è che per risponderne brevemente usi giornali. Spero che l’ottimo Giacovazzo si sia inteso con Giunchi. Ricordatemi nella vostra preghiera così come io faccio. Vi abbraccio tutti con tanto tanto affetto ed i migliori auguri. Vostro Aldo. P.S. Accelera la vendita dell’appartamentino di nonna, per provvedere alle necessità della sua malattia".
La prima intervista di Eleonora Moro Dall'archivio de La Stampa. A trent'anni dalla morte dello statista ucciso dalle Br la vedova ne parlò con il giudice Imposimato, scrive "La Stampa" il 19 luglio 2010. Questa, a trent’anni dall’uccisione di Aldo Moro, è la prima intervista rilasciata dalla moglie Eleonora su quei tragici momenti. Lo sfogo della vedova dello statista democristiano è stato raccolto da Ferdinando Imposimato, magistrato, docente, parlamentare, che lo pubblica nel volume “Doveva morire - Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell’inchiesta racconta”.
Aldo Moro ha scritto: «Le cose saranno chiare, saranno chiare presto». Lo ha scritto in una delle sue lettere più belle. È una lettera che rileggo spesso...
«Non lo faccia perché è troppo triste...»
Quando ho riletto le dichiarazioni che lei ha fatto alla Commissione Moro, sono rimasto sconvolto. Lei afferma fatti e circostanze con precisione e verità assolute. Lei denuncia le inerzie del potere.
«Quella gente desiderava eliminarlo perché era scomodo. La gente scomoda sta dalla parte della giustizia e della verità. E poi c’è da dire che tutti avevano una paura terribile perché lui sapeva tutto di tutti, e quindi si sentivano sotto un riflettore che li inquadrava. Purtroppo non avevano capito che Aldo non avrebbe mai fatto del male a qualcuno se non fosse stato necessario per il bene comune...».
Nelle sue testimonianze, davanti alla Commissione Moro e alla Corte di Assise di Roma, lei fa un’affermazione che mi ha colpito. Dice che la tipografia delle Brigate rosse di via Pio Foà era stata scoperta molti giorni prima...
«Certo».
Lei domanda: perché, se questa tipografia era stata individuata, non è stata fatta alcuna perquisizione? E aggiunge: perché i documenti trovati nell’appartamento brigatista di via Gradoli non sono stati esaminati? Perché nessuno li ha letti? Perché sono rimasti imballati per tanto tempo? A lei chi aveva detto tutto questo?
«Erano cose che sapevano tutti. Le conoscevo io perché ero in contatto con la segreteria di Aldo. E le conoscevano quelli che avevano potere nel governo. Vede, Aldo Moro era un uomo che non aveva paura. Camminava verso la sua morte tranquillo, come se andasse a fare una passeggiata. Quando una persona non la si può corrompere, né spaventare, l’unica possibilità è quella di eliminarla perché troppo pericolosa. Aldo conosceva fatti che risalivano a dieci, vent’anni prima. Loro si rendevano conto di essere i veri prigionieri. E che c’era un’unica cosa da fare: ucciderlo. Anche perché, conoscendo la profonda onestà di Aldo Moro, erano certi che egli non aveva lasciato scritto la storia di ognuno di loro su dei pezzi di carta, consegnandoli a un notaio».
Moro, dopo gli episodi avvenuti in via Savoia, davanti al suo studio, disse: «Questa è la prova generale».
«Anche gli uomini della sua scorta, che erano ragazzi buoni, dicevano: “Noi siamo i bersagli di un tiro a segno”. Lo dicevano continuamente. Quindi Moro e i suoi custodi avevano la sensazione di essere sotto tiro. Era una sensazione che aveva anche il portiere di casa nostra. Erano tutti sorvegliati».
Ma perché non ci fu alcun controllo da parte dello Stato?
«Perché lo Stato voleva la morte di Aldo Moro. Quelli che erano nei vari posti di comando lo volevano eliminare». Può indicare qualche persona? «Io non posso indicare nessuno. Non li ho visti operare. Io sono una cristiana e se non ho la prova sicura che quello è un mascalzone, io non lo accuso. Prego Dio per lui. Prego affinché gli tenga la Sua santa mano sul capo».
Comunque in quei giorni prima del sequestro c’era una percezione di pericolo imminente.
«Gli uomini della sua scorta, e soprattutto l’autista, vivevano con l’idea chiara che un giorno o l’altro li avrebbero ammazzati. Perché Moro doveva essere ammazzato. Gli uomini della scorta erano sicuri di essere nel mirino di qualche gruppo, ma non erano intimoriti. Mi dicevano: “Signora, noi siamo certi del pericolo, ma non morirà da solo, noi siamo pronti a sacrificarci con lui”».
A un certo punto della sua audizione davanti alla Commissione Moro, usa questa espressione: «Quei poverini mi hanno detto che era stata trovata la tipografia delle Br molti giorni prima dell’uccisione di Aldo Moro e che non era stato fatto nulla». Chi erano quei poverini?
«Credo gli autisti e anche la sua segreteria. Ad Aldo la gente voleva bene. E tutti quelli che gli volevano bene non hanno mai smesso di interessarsi alla sua sorte in quei terribili giorni. Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano. Se li incontro, li saluto da lontano e filo via rapidamente».
Non riesce a dar loro la mano?
«Io non sono una cristiana così santa. Sono una cristiana molto semplice...».
E questo accade quando ci sono le cerimonie commemorative?
«Sì. Ma succede anche quando li incontro per strada».
Quindi quando ci sono le cerimonie lei è costretta a incontrarli?
«Non vado mai alle cerimonie. Non ci volevo andare quando Aldo era vivo, ma lo dovevo fare come moglie di mio marito. Figuriamoci adesso. Ma il mondo è piccolo. Incontri la gente quando meno te l’aspetti. Per esempio: vado al funerale di una mia amica dell’Azione cattolica, ed ecco che me li trovo lì. Vede, dopo la morte di mio marito mi sono messa a studiare, dal punto di vista cattolico, la difficoltà del perdono. Perché uno può dire: li voglio perdonare. E io, nel profondo, li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e vado dall’altra parte. Più che la morte di mio marito, mi ferisce il fatto che sia morto un innocente a causa delle perverse mire di quattro stupidi mascalzoni. Se solo fossero stati modestamente intelligenti avrebbero capito che al potere non si arriva mai attraverso il delitto».
Aldo Moro si è sacrificato per tutti.
«Io glielo dicevo: guarda come cammini verso la tua morte. E lui lo sapeva benissimo. Era il suo abito mentale, il suo modo di vivere. Era un uomo che amava il merito, la pulizia morale, l’onestà delle persone, la bontà. È un dato di fatto che Aldo, arrivato al potere, non lo abbia usato per fare del male a qualcuno. Continuamente il male gli cadeva sotto gli occhi: il tale aveva rubato, quell’altro aveva imbrogliato, l’altro ancora aveva messo nei guai tutta la famiglia. Lui cercava sempre di riparare, ma poi cercava di mettere chi aveva sbagliato in un angolino, in modo che non potesse nuocere più di tanto. In un paese come l’Italia, con la voglia di fare carriera che hanno tutti, non era poco».
L'Ultima lettera della vedova Moro, scrive Flavia Amabile l'8 settembre 2011 su "La Stampa". Scrive ai figli, rimprovera duramente Anna, Agnese e Giovanni: non avete rispettato la volontà di vostro padre. Sono cinque fogli protocollo, di quelli usati per i contratti di acquisto e vendita di una casa. Proprio come in un contratto, o in un atto legale, le pagine sono numerate a mano e firmate sui lati da lei, Eleonora Chiavarelli vedova Moro come annota con la sua precisione. Le pagine sono scritte fitte, con calligrafia spigolosa e sicura, come è stata lei fino all'ultimo. Le parole sono durissime. La lettera è del 9 gennaio 2006. Se ne fece fare alcune fotocopie, consegnò l'originale ad un avvocato, e distribuì le copie a figli ed alcune persone accuratamente scelte. Qualche tempo dopo me la fece arrivare con la promessa di pubblicarla solo almeno un anno dopo la sua morte. La considerava una sorta di compensazione per quella che le era parsa un'ingiustizia subita da me a proposito di un articolo. E anche una naturale conclusione di un discorso iniziato con il nipote Luca quando avevo raccolto la sua prima intervista. Eleonora Moro è morta il 19 luglio dello scorso anno e io della lettera racconterò solo una parte, la meno privata. Il resto appartiene ai rapporti interni di una famiglia che la vita ha messo a dura prova. I punti che la vedova Moro ritiene "giusto puntualizzare" sono quattro. Non vale la pena riportarli per intero ma ruotano tutti intorno ad un'accusa molto pesante: i figli non hanno rispettato la volontà del padre, Aldo Moro. Nemmeno quella espressa durante la prigionia attraverso le lettere inviate dal carcere. Un'accusa è rivolta in modo diretto all'unico figlio maschio, Giovanni, responsabile di "un gravissimo danno morale", spiega Eleonora Moro. "Si è ritenuto possessore di un bene di grande valore", ovvero l'ex studio del padre in via Savoia a Roma. Ma "in quelle stanze doveva trovare sede, come poi è accaduto, l'"Accademia di Studi Aldo Moro", e ciò ha provocato, con l'esclusione di gran parte dei componenti della famiglia Moro, un gravissimo danno morale, con la impossibilità di prendere visione dei documenti contenuti nell'archivio". Un'altra parte rilevante di accuse riguarda il comportamento di Anna, Agnese e Giovanni nei confronti del nipote Luca, figlio di Maria Fida, il nipote amatissimo a cui Aldo Moro scriveva dalla prigionia. Il ricavato dell'archivio privato ceduto all'Archivio di Stato, "stando al testamento, anzi ai testamenti redatti da mio marito, doveva andare al nipote Luca per garantirgli la possibilità di studiare. Invece i miei figli si sono divisi l'importo e se le sono tenuto a dispetto dell'espressa volontà paterna, volontà di un condannato a morte con una valenza, quindi, etica di gran lunga superiore". "Inopinatamente i miei figli - continua la vedova Moro - si sono anche opposti all'aggiunta del cognome Moro legittimamente richiesta da Luca e che poi lo Stato gli ha concesso ugualmente". E aggiunge: "Era desiderio di mio marito, come emerge dalle lettere scritte nel carcere del popolo, concedere il cognome Moro a Luca, il quale veniva da lui considerato "suo figlio", poiché aveva deciso di adottarlo. Purtroppo non ha fatto in tempo. Questa circostanza è stata sempre conosciuta da tutti i miei figli e da tante altre persone vicine alla famiglia". Arrivata alla fine della quinta pagina, Eleonora Moro conclude con amarezza: "Mi sono sentita in dovere di precisare questi fatti, sicuramente gravi e spiacevoli, per puro amore di verità e di giustizia, anche perché ritengo che solo nella verità vi sia pace. Nella mia vita ho sofferto molti dolori, ma sicuramente nessuno così grande come quello di vedere la mia famiglia non unita come avrei voluto e vorrei".
PARLA AGNESE MORO.
Quando la vittima dice al carnefice: tu stai peggio di me. Franco Insardà il 15 Dicembre 2019 su Il Dubbio. “Un’azalea in via Fani”, di Angelo Picariello, è un viaggio nella riconciliazione tra gli ex terroristi e i parenti di chi, come Moro, è morto negli anni della lotta armata. «Il merito di questo libro è di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia. Un’operazione che finora hanno fatto solo l’autore e la vedova Calabresi. In tanti anni dalla morte di mio padre molti si sono interessati alla vicenda, alla sua vita, un po’ troppo alla sua morte, spesso in modo sguaiato, però nessuno si è interessato del dolore che rimane da una parte e dall’altra, quando si chiude un conflitto. Si tratta di una ferita che nessuno ha mai curato. Mi chiedo: perché non curiamo il nostro passato?». Lo dice Agnese Moro presentando, insieme con Marco Follini, “Un’azalea in Via Fani. Da Piazza Fontana a oggi: terrorismo, vittime, riscatto e riconciliazione” ( San Paolo edizioni, 344 pagg. 25 euro), il libro di Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire. La figlia di Aldo Moro sottolinea: «Questo libro è costato anni di lavoro, riflessione, ripensamenti, scrupoli, prudenze e delicatezze. Facendo, soprattutto attenzione che l’esigenza di raccontare non creasse altro dolore. Restituisce i sentimenti e il clima di tutte le persone che partecipano a questo gruppo di dialogo ( da cui è nato “Il libro dell’incontro” ndr) tra ex appartenenti alla lotta armata, familiari delle vittime, giovani e altri che ci hanno aiutato. Il merito, però, è di chi ci è venuto a cercare, perché le nostre sono state vite molto solitarie, molto isolate. È stato sorprendente che qualcuno venisse a interessarsi al mio dolore. I conflitti della nostra storia diventano favolette che poi passano alla storia: nella Resistenza ci sono stati i buoni e i cattivi, anche durante il terrorismo c’era una società buona e dei gruppetti di cattivi, usciti dal nulla, che a un certo punto hanno deciso di prendere le armi, con lo Stato incapace di fronteggiarli. Però in un guizzo di democrazia alla fine abbiamo sconfitto il terrorismo. Questa è la favoletta che passerà alla storia. Si tratta, sottolineo, di una favoletta, perché le persone che hanno scelto la lotta armata, come documenta molto bene questo saggio, facevano parte integrante della società e c’erano fior fior di intellettuali che hanno predicato la bontà della scelta di prendere le armi». E Agnese Moro continua: «Nei miei incontri in giro per l’Italia ci sono tante persone che vengono non solo per capire come mai io, Giovanni Ricci e altri familiari delle vittime siamo insieme agli ex terroristi, ma tanti anche per curare la loro memoria, feriti per aver tifato per la morte di mio padre e lo raccontano vergognandosi di se stessi, altri che erano bambini e hanno vissuto quel periodo avendo paura. È stato sorprendente che dopo tanti anni qualcuno venisse a interessarsi del mio dolore». E Giovanni Ricci, figlio di uno dei poliziotti assassinati a via Fani, che insieme ad Agnese Moro ha stabilito un rapporto con gli ex terroristi confida: «Si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto” e “nulla attenuerà mai questo». Quello di Angelo Picariello è un viaggio nelle pagine più nere del terrorismo italiano: dalla strage di Piazza Fontana alla morte del commissario Calabresi, dalla storia di Prima Linea e delle Brigate Rosse fino al rapimento di Aldo Moro. Un percorso difficile, fatto di testimonianze, racconti ed esperienze personali che traccia il quadro di un periodo complicato della nostra democrazia, nel quale una generazione percorsa e dilaniata da un forte malessere in alcuni casi ha trovato uno sbocco nella lotta armata. Il lavoro del giornalista di Avvenire, pur mantenendo una rigorosa ricostruzione storica, si focalizza sui protagonisti senza distinzioni preconcette tra vittime e terroristi e, grazie alla formazione professionale, politica e religiosa dell’autore, ne restituisce la loro umanità e i loro sentimenti. La figura di Aldo Moro è il filo conduttore di “Un’azalea in via Fani”. Una delle lezioni del presidente della Dc è testimoniata da Nicodemo Oliverio, suo allievo alla cattedra di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento: «Aveva incredibile attenzione umana per la persona che traspariva dalla passione con cui spiegava il ruolo emendativo della pena». Oliverio, alla presentazione del libro, ha ricordato che «l’ultima lezione, il 15 marzo 1978, fu proprio sulla rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare i suoi dubbi sull’ergastolo, una posizione che restituisce appieno la contemporaneità del pensiero di Moro. E non sfugge a nessuno come l’articolo 27 della Costituzione sia stato ispirato proprio da lui». Picariello ricorda anche la figura di padre Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio ucciso il 12 febbraio 1980 alla Sapienza, che ha avuto un ruolo fondamentale nelle scelte e nei pentimenti di tanti ex terroristi sia di destra che di sinistra, come Maurice Bignami, ex capo di Prima Linea. Storica, a proposito di questa formazione armata, la conversione “laica” al congresso Radicale del 1987 di Sergio D’Elia, diventato poi animato dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Storie che hanno un comune denominatore: quella umanità emersa in molti di coloro che hanno scontato la loro pena, maturando anche un sincero pentimento, come l’ex brigatista Franco Bonisoli che ha ispirato il titolo del libro. Sì perché è proprio Bonisoli, con il quale Picariello ha da anni un rapporto di amicizia, che nel 2013 arriva a Roma, e chiama il giornalista. Si danno appuntamento in via Fani, dove lui 35 anni prima nel 1978 aveva partecipato al commando che rapì Moro. “Quando arrivai in zona- scrive Picariello – scoprii che c’era appena stato, aveva preferito, alla fine, andarci da solo. Era da poco passato mezzogiorno. Gli chiesi però di tornarci un attimo insieme. Imboccammo così a piedi la strada e subito scorsi a terra, sul marciapiede un vasetto con una piantina, davanti alla lapide in ricordo delle vittime dell’agguato, all’incrocio con via Stresa. «Franco» gli dissi, «è bello che qualcuno ancora si ricordi, dopo tanto tempo…». «Veramente» fu la risposta bruciante, «l’ho appena messa io». Un gesto che testimonia in modo netto la sua lontananza da quella violenza che aveva caratterizzata la prima parte della sua vita. Una violenza che ha accompagnato l’Italia per oltre un decennio, quella che Sergio Zavoli ha battezzato come “La notte della Repubblica”, e che Angelo Picariello fa iniziare il 19 novembre 1969, quando a Milano fu ucciso l’agente di Polizia Antonio Annarumma, originario di Monteforte Irpino ( in provincia di Avellino). Il giornalista di Avvenire ricorda anche i funerali di Annarumma in cui era stato proprio il commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, «a intervenire, ingaggiando un corpo a corpo drammatico, in questura, per sottrarre Mario Capanna al linciaggio degli agenti, furiosi per la sua presenza alle esequie». Per tanti, in quel pomeriggio l’Italia perse la sua «innocenza», si legge nel saggio storico, frutto di una lunga ricerca curata dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” di Roma, con la prefazione di Agostino Giovagnoli, storico della “Cattolica’”, e i contributi dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante e dell’ex capo dell’antiterrorismo, ed ex sottosegretario all’Interno, Carlo De Stefano che ha collaborato alla ricerca. Un lavoro che parte da Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Brigate Rosse, che «si avvicinò alla lotta arma- ta frequentando proprio sia il Movimento di Cl che il Pontificio istituto missioni estere a Milano, prendendo anche parte con padre Pedro Melesi a un’esperienza missionaria in Brasile». Semeria, uscito di prigione, «si è sposato in chiesa e ha devoluto i doni di nozze alla missione che da ragazzo visitò con quel religioso che suo malgrado lo avvicinò alle ingiustizie, facendo in qualche modo pace con se stesso e potendosi impegnare ora per quegli stessi ideali giovanili in una maniera che non prevede la violenza». E poi ancora Renato Curcio, Alberto Franceschini e tanti altri fino alla colonna avellinese delle Br. Sì, perché Angelo Picariello va a fondo su quello che è un pezzo di storia del terrorismo che ha vissuto da vicino. Lui, militante di Comunione e Liberazione, studente prima e poi giovane consigliere comunale, vive nell’Avellino della metà degli anni Settanta, inebriata dai successi sportivi della squadra di calcio e dall’ascesa politica di Ciriaco De Mita e della Dc di Base. Una città, come si intitola il capitolo dedicato alla sua Avellino, “fra evasione pallonara ed eversione politica”. Dove Maurizio Montesi, un calciatore sui generis arrivato da Roma e tra i protagonisti della promozione in serie A, che Picariello descrive come “legato alla sinistra estrema, tanto regolare in campo quanto sregolato nella vita privata”, alla vigilia di Natale 1978 in un’intervista a Lotta Continua dichiara: “Il tifoso è uno stronzo. Fa il gioco del sistema. Fa il tifo per undici persone con le quali non ha nulla a che spartire». Un mese prima, l’ 8 novembre 1978, la borghesia avellinese era stata scossa dall’assassinio a Patrica, in provincia di Frosinone, del procuratore della Repubblica di Frosinone, Fedele Calvosa. La rivendicazione è delle “Formazioni comuniste combattenti” e gli autori sono tre giovani studenti avellinesi: Nicola Valentino, Maria Rosaria Biondi e il suo fidanzato Roberto Capone. Quest’ultimo rimarrà sul campo, ucciso dal “fuoco amico”. Un’altra ragazza irpina, Maria Teresa Romeo compagna all’epoca di Nicola Valentino, sarà tra gli autori, il 19 maggio 1980, dell’assassinio dell’assessore regionale Pino Amato. Ma oltre a loro tre altri irpini hanno conosciuto la lotta armata. Alfredo Buonavita, operaio emigrato a Torino vicino a Renato Curcio sin dall’inizio e fondatore delle Br nel capoluogo piemontese. Gianni Mallardo, coetaneo e compagno di scuola di Picariello, tra i primi a dissociarsi, reclutato dall’altro avellinese Antonio Chiocchi, figura di spicco delle Br campane e braccio destro di Giovanni Senzani, tra i protagonisti del rapimento di Ciro Cirillo e dell’omicidio del commissario Antonio Ammaturo, che ha avviato un percorso di dissociazione nel carcere di Nuoro nel 1983. Ma a mezzo secolo dall’esplosione di Piazza Fontana, che voleva far precipitare il Paese nello scontro e portare, attraverso la strategia della tensione, a una svolta autoritaria, ecco affermarsi, alla fine di un percorso lungo e drammatico, un vasto movimento di riconciliazione fra vittime, ex protagonisti della lotta armata e uomini delle istituzioni. Ed è ancora Franco Bonisoli il protagonista del viaggio di Angelo Picariello. L’occasione è quella della presentazione all’Istituto Sturzo de “Il libro dell’incontro”, nel luglio del 2016, sull’esperienza del gesuita padre Guido Bertagna. Franco Bonisoli è vicino a Giovanni Ricci, figlio di Domenico morto in via Fani. Con loro ci sono anche Agnese Moro e Alexandra Rosati, figlia di Adriana Faranda, la “postina” delle Br. E quel valore emendativo della pena che Aldo Moro aveva voluto nella Costituzione conforta oggi Agnese nel vedere i carcerieri di suo padre cambiati: «Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati». Ma poi ha scoperto in loro «un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso se stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuti atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne: perché quella è la realtà. Guardi in faccia dei vecchietti come me, cadenti o meno, ognuno ha sul viso la storia di quello che gli è successo e sono storie terribili. Perché quando hai pensato di salvare il mondo, ma alla fine scopri che hai ucciso solo delle brave persone che non possono tornare indietro, e quella giustizia che volevi l’hai solo tradita è davvero terribile. Ecco perché è importante fare un percorso insieme». E Agnese Moro ribadisce che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che «queste due realtà “ex giovani” feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite io sono certa che per lui sia motivo di contentezza».
INTERVISTA "UN UOMO COSÌ", IL DIARIO INTIMO DELLO STATISTA SCRITTO DALLA FIGLIA AGNESE. ALDO MORO ERA MIO PADRE. Un uomo concreto, mite, ricco di senso dell’umorismo, che ascoltava tutti. A 25 anni dalla morte, un ritratto inedito ce lo restituisce in tutta la sua dimensione umana, scrive Francesco Anfossi su “Famiglia Cristiana”. Nell’album della storia d’Italia e nella memoria visiva di gran parte degli italiani l’immagine di Aldo Moro è nelle foto del suo calvario. Una di queste è certamente la polaroid scattata dai suoi rapitori: il fondale con la stella a cinque punte, la camicia bianca, quello sguardo docile e opaco attraverso il quale Leonardo Sciascia, alludendo alle sue radici meridionali, diceva di leggervi «secoli di scirocco». Come se quella persona avesse finito per dissolversi nell’affaire Moro, ossia nel tragico epilogo della sua vita, perdendosi nei labirinti dei processi, scindendosi nei mille teoremi e misteri, congiungendosi idealmente alla sua immagine di simbolo democristiano, alle celebri "convergenze parallele" e alle altre astrattezze del suo freddo linguaggio politico. Venticinque anni dopo la sua morte, un libricino scritto dalla figlia Agnese (Un uomo così, Rizzoli editore) ce lo restituisce nella sua più profonda dimensione umana. Immagini, episodi e pensieri persi nel bianco della pagina, improvviso schiudersi di palpebre nel buio della memoria: il pacchettino fragrante dei formaggi, «quasi una traccia del suo legame con la Puglia», la saponata davanti allo specchio, l’acqua per la figlioletta nel cuore della notte, la passione per i film di cow-boy, l’orso di peluche comprato a Parigi, l’amore di padre, la tenerezza di un nonno. In quelle parole vive e semplici, in quei piccoli gesti quotidiani, Aldo Moro ritorna persona, ritrova la sua essenza e la sua intimità, viene deposto dalla croce di quelle foto terribili. C’è anche la lettera al nipotino Luca scritta dalla "prigione del popolo": «Caro Luca, sono il nonno del casco, il nonno degli scacchi, il nonno della Spagna, del vestito di torero, dei tamburelli. Il nonno, forse ricordi, che ti portava in braccio come il SS. Sacramento, che ti faceva fare la pipì all’ora giusta, che tentava di metterti a posto le coperte e poi ti addormentava con un lungo sorriso...». Tutta quella felicità sacrificata dai brigatisti a un’ideologia e a un progetto paranoici. Questo libricino testimonia lo spreco di quella vita, di qualunque vita umana interrotta, fa capire «quello che è stato portato via». Perché venticinque anni dopo? «Perché ci voleva del tempo, bisognava avere il coraggio di fermarli e di riguardarli, quei ricordi», risponde Agnese Moro, la terza dei quattro figli di Aldo e Nora (gli altri sono Maria Fida, Anna Maria e Giovanni, che Agnese ritrae da piccolo, addormentato beatamente sopra i giornali di papà). «Se fosse vissuto, mio padre la gente l’avrebbe incontrato così», spiega Agnese, che oggi ha 51 anni, tre figli e lavora come sociopsicologa, davanti a un mazzetto di foto dell’album di famiglia. «Ho scritto quei pensieri di getto, a penna, in foglietti sparsi. Spero che chi l’ha conosciuto lo possa ritrovare e chi non l’ha conosciuto se lo ritrovi come persona, non come simbolo. I simboli sono irraggiungibili. Invece mio padre era un uomo normale, concreto, che può essere imitato nel suo modo di concepire la vita. I simboli non hanno bisogno che sia resa loro giustizia. Sono gli uomini che hanno bisogno di giustizia». «Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno»: c’è questa frase del Vangelo come epigrafe del libro. «Io credo proprio che sia così, che i suoi carnefici non sapessero quello che facevano». Si è mai fatto vivo qualcuno con lei? «Nessuno», è la risposta. «Che Luca non faccia i miei errori generosi e ingenui», aveva scritto alla moglie Nora in un’altra lettera citata. «Generosi, perché tutta la sua vita era stata un’offerta: lui non voleva far politica, glielo aveva chiesto il vescovo di Bari. Accettò quella chiamata solo per senso di responsabilità. Concepiva il potere come servizio. Ingenui, perché sapeva che era in pericolo. E così la sua famiglia. L’unica volta in tutta la sua vita in cui si impose fu nel dotarci della scorta». Aldo Moro, si evince dalle sue lettere e da questa specie di diario intimo, era tutto nell’amore della sua famiglia. Un amore incondizionato e totale. Le accuse di codardia che molti maître à penser gli hanno scagliato da dietro le loro comode scrivanie citando le lettere dalla "prigione del popolo" non tengono conto di questo. Aldo Moro non aveva paura di morire: aveva paura di mancare alla sua famiglia. «Si sentiva responsabile della felicità di ognuno di noi. Ricordatevi di chiudere il gas, ci ripeteva ogni sera. Lo dice persino in una lettera dalla prigione». Agnese ha con sé una delle cartoline spedite dal padre in uno dei suoi viaggi. Dietro c’è l’inconfondibile augurio scritto con calligrafia minuta: «Tante cose care». La stessa frase compariva nelle lettere scritte dalla "prigione brigatista": «Vi benedico, invio tante cose care a tutti e un forte abbraccio». In quelle lettere, dice Agnese, «c’era tutto lui, noi non abbiamo mai avuto dubbi». Quanto alla trattativa, «avemmo da subito l’impressione non solo che non avrebbero trattato, ma che avevano rinunciato a cercarlo». Il giorno della strage di piazza Fontana, Agnese era a Parigi con lui: «Lo vidi invecchiare in un istante. Anni dopo mi dirà che a suo parere nelle stragi si verifica una coincidenza di interessi tra servizi segreti diversi, in un tacito accordo tra chi fa e chi lascia fare». Di aneddoto in aneddoto: «È un giorno importante, torna a casa contento. Per la prima volta, mi dice, ci sarà un presidente del Senato comunista. Ma scusa, gli dico, sei sicuro che gli americani saranno contenti? Se il presidente della Repubblica si ammala, subentra un presidente comunista. Non dice una parola e va al telefono. Parla, discute». E così finì che il designato al Senato, il comunista Ingrao, andò a presiedere la Camera. A Palazzo Madama andò Fanfani. «Ero una ragazzetta, ma mi ascoltò. Lo faceva con tutti. Se gli chiedevi una cosa non ti rimandava a un altro momento: ti ascoltava subito. Era un uomo gentile, mite, credo di averlo sentito alzare la voce una sola volta». La mattina del 16 marzo 1978 Agnese aveva 26 anni. «Papà si stava facendo la barba in bagno. Gli dissi ciao dalla porta chiusa, lui ricambiò e corsi via». Le chiedo se qualche volta lo ha mai immaginato camminare libero per le strade di Roma, come nel film Buongiorno, notte di Bellocchio. «Io lo aspettavo al balcone», risponde. Metaforicamente? «No, non metaforicamente. Sono stata al balcone per tutti i 55 giorni del sequestro. Stavo lì, aspettavo che lui comparisse, solo, in fondo alla strada, suonasse al portone e salisse per riabbracciare noi e mamma». Francesco Anfossi.
PARLA GIOVANNI MORO.
Intervista di Silvana Mazzocchi del 14 marzo 1998 su “La Repubblica” al figlio dello statista, Giovanni Moro. Che accusa il "partito della fermezza" di aver ucciso suo padre. "Ma la verità vera ancora non c'è". "Da allora, ci ho pensato tante volte, e con rammarico: Quel mattino avrei potuto salutarlo meglio, parlare un po' con lui... invece - saranno state le otto, le otto meno un quarto - passai dinanzi al bagno distrattamente, lo vidi che si stava facendo la barba, con sapone e pennello, come sempre. Dissi appena un ciao e uscii". Un'ora dopo, Aldo Moro sarebbe stato rapito e gli uomini della scorta massacrati. Era il 16 marzo 1978. Giovanni Moro, suo figlio, aveva vent'anni. Adesso ne ha quaranta e s'immerge nei ricordi con qualche riluttanza: "Era un giovedì, mia madre era andata a tenere la sua lezione di catechismo nella parrocchia lì vicino... in famiglia solo mio padre si alzava tardi, del resto a casa non tornava mai prima di mezzanotte e dunque...". Dalla strage sono ormai trascorsi due decenni e sono arrivati i giorni delle memorie e dei bilanci. Giovanni Moro accusa: "Non c'è ancora verità, nè quella storica, neè quella giudiziaria, e tantomeno quella politica. Moro non fu colpito perché era un simbolo, come si disse, ma per fare un'operazione chirurgica sulla politica italiana, per fermare il suo progetto. Anche i brigatisti non hanno detto la verità: perché non hanno reso pubblico tutto ciò che ha raccontato mio padre? E perché lo uccisero proprio quando nella Dc si era aperto uno spiraglio? E, infine, perché lo Stato non fece nulla per salvarlo?... Andreotti era il capo del governo, il responsabile politico ... E Cossiga? In qualsiasi paese, un ministro dell'Interno a cui fosse capitata una disgrazia del genere, sarebbe finito a coltivare rose... lui invece divenne due volte presidente del Consiglio e una volta capo dello Stato".
Come venne a sapere, quel 16 marzo, che suo padre era stato rapito?
"Ero arrivato da poco nella sede del Movimento Febbraio '74, in via Gregorio VII, avevamo appena traslocato e non c'era ancora il telefono. Verso le 9 e 30 qualcuno me lo venne a dire di persona. Ma le notizie erano incerte, confuse. Non si sapeva che cosa gli fosse successo, nè dove fosse, nè si sapeva dei morti. No, non ricordo chi fu ad avvertirmi, forse un uomo della mia scorta. Tutti noi della famiglia eravamo scortati".
Perché? "Noi... ce l'aspettavamo prima o poi".
Riprenda il filo del suo ricordo.
"Mi avviai verso casa, con la mia macchina. Quando arrivai all'angolo di via Fani, vidi tutto bloccato, la polizia, le volanti... compresi che era successo qualcosa di veramente grave. A casa trovai mia madre. L'aveva saputo subito, in parrocchia. E di lì a piedi si era precipitata in via Fani. Aveva visto la scena, il sedile di dietro che non era sporco di sangue... capì che lo avevano rapito. Ma solo ad un certo punto della mattinata se ne ebbe la certezza... venimmo a sapere che gli uomini della scorta erano stati uccisi. Fu un grande dolore, eravamo tutti molto legati. Loro, le loro famiglie, stavano spesso con noi, la domenica, in vacanza...".
La prima rivendicazione delle Br delle 10.10...
"Non ricordo cosa disse mia madre... in casa c'erano anche le mie sorelle. La nostra impressione fu comune: tutti insieme sentimmo che non si era voluto colpire un simbolo, come poi si disse. Ma che si stava facendo un'operazione chirurgica sulla politica italiana. Moro era l'artefice dell'incontro con i comunisti, era un soggetto a rischio. E del resto basta guardare agli anni delle bombe... e fare una considerazione. Che quando Moro si marginalizza, anche le bombe si marginalizzano. La sua politica è strettamente collegata a questo pezzo di storia italiana".
Quella mattina, il progetto di suo padre doveva andare in porto con il governo di solidarietà nazionale, temevate qualcosa?
"Non si era mai parlato esplicitamente dei rischi. Ma lui, già qualche mese prima, aveva insistito moltissimo perché tutti noi fossimo scortati. Aveva cominciato a preoccuparsi soprattutto dopo il rapimento del figlio di De Martino, l'anno precedente... lui non diceva mai niente di concreto, ma in quel periodo in famiglia c'era una grande tensione, un clima che si tagliava con il coltello. Infine, accadde".
Che cosa ricorda di quelle prime ore?
"Eravamo tutti un po' sbandati, soprattutto non riuscivamo a capire fino in fondo che cosa fosse davvero successo. Ci sentivamo nell'occhio del ciclone, ma separati. Intorno a noi succedevano le cose più incredibili. E noi lì, insieme, in calma apparente a leggere i giornali, a vedere i telegiornali".
Dalle lettere di Moro traspare un forte legame con la moglie....
"Sì, ma era un rapporto molto... insomma, nella vita famigliare, Moro non era granché presente. Lui usciva la mattina, e magari tornava alle due di notte. Non c'era la domenica, nè le feste... Non ricordo che fossimo andati, neanche una volta a mangiare fuori. Se si voleva chiacchierare con lui, lo si faceva da mezzanotte in poi, e per cena lo si doveva aspettare. Non esisteva la dimensione quotidiana".
In una lettera a Zaccagnini, suo padre accennò a gravi problemi famigliari...
"In famiglia c'erano i normali conflitti. Ma, al di lè di questo, lui era molto preoccupato per tutti noi e probabilmente aveva le sue ragioni... mia sorella Anna stava aspettando un bambino, insomma un insieme di preoccupazioni, anche per la nostra sicurezza".
A lei, suo padre scrisse mai dalla prigione?
"Due lettere per me vennero ritrovate a Milano, solo nel '90, in via Montenevoso. In una mi avvertiva sul che cosa fosse la politica... forse voleva dire che dentro la politica c'era anche quello che gli stava capitando".
Che cosa ricorda dei giorni precedenti all'agguato?
"In quel periodo sembrava molto stanco, provato. Aveva 62 anni, pensava di aver avuto già tutto dalla politica. Io non so se lui pensasse alla presidenza della Repubblica. Credo che lui non lo desiderasse. Ma ritengo anche che sarebbe stato pronto a farlo... ed era nell'ordine delle cose. E forse anche questa stata una delle cause scatenanti di questa vicenda. Insomma in quei giorni era scocciato, irritato dalle difficoltà... dalle risse tra quelli che volevano entrare nel governo. E poi convincere la Dc a quell'operazione, convincere il Pci, era stato davvero duro. Durante la conduzione di quella crisi c'era stato uno scambio di battute molto pesanti con Andreotti".
Moro prendeva molte medicine? E' vero che le teneva in una borsa, tra quelle che si portava dietro? A proposito, quante erano veramente le borse? I brigatisti dissero di averne prese due.
"Un po' lui aveva la tendenza a preoccuparsi per le malattie, un po' aveva anche dei reali problemi di ansia e di stress. Sì, aveva una borsa piena di medicine, ma quante borse si portasse dietro, non lo so. Ce ne era una con i materiali dell'Università, e poi aveva altre carte. Che riguardavano, per esempio, lo status dei servizi segreti. Faccio notare che quelli erano i giorni caldi dello scandalo Lochkeed. Proprio quella mattina Repubblica era uscita con un titolone: Moro Antelope Cobbler. Si cercava di buttare addosso a Moro lo scandalo... Lui non c'entrava niente, ma il punto era che la vicenda veniva usata per ostacolare il processo politico che aveva avviato".
Moro era un democristiano, ma anche un uomo nuovo, di frontiera...
"Per questo, forse, al di là della sua appartenenza, era considerato pericoloso. Mi sono spesso chiesto perché non sono mai stati ritrovati gli elenchi completi del piano Solo, dello scandalo Sifar del '64. E mi rispondo che, probabilmente, la ragione è che non c'erano solo i comunisti, i sindacalisti e i socialisti, ma perché era pieno di democristiani amici di Moro che dovevano essere presi. Lui aveva intuito che la guerra fredda era destinata a diventare marginale, era stato per anni ministro degli esteri... Dall'interpretazione di quello che accade nel '68 da noi e nel mondo, lui capisce che le società civili tendenzialmente diventano autonome dai poteri politici... E forse capisce troppo".
Suo padre aveva un buon rapporto con Berlinguer?
"Sì, stima e rispetto, anche se Moro aveva un disegno politico diverso. Berlinguer guardava al confronto tra due grandi potenze che si dovevano in qualche modo impegnare per salvare la democrazia. Moro credeva che si dovessero creare le condizioni sociali, culturali e politiche della democrazia dell'alternanza. Lo voglio ripetere: mio padre era l'uomo del superamento della guerra fredda. E c'era un sacco di gente, in Italia e fuori di Italia, che lo considerava un pericolo. Questa è una spiegazione che rende conto di tanti possibili coinvolgimenti".
Nel '78, il terrorismo già era molto diffuso, Moro ne parlava?
"Era preoccupato. Anzi, credo sia stato il primo a coniare l'espressione 'partito armato' per definirne la complessità. Per lui significava una forza politica, con una intenzionalità e con delle strategie. Non solo un agire politico. Ricordo che rimase molto colpito dall'omicidio di Casalegno. Disse di avere la percezione che costituiva il salto di qualità del terrorismo".
Torniamo ai 55 giorni, Cossiga era il ministro dell'Interno, guidava le ricerche di suo padre. Venne mai in casa vostra?
"Due volte, mi pare. Sicuramente il 17 marzo e poi il giorno in cui fu scoperta la base brigatista di via Gradoli, il 18 aprile. Ne ricavammo la sensazione che non sapessero dove sbattere la testa. Anzi, sin dall'inizio, si ebbe l'impressione che fosse in atto una strategia della rappresentazione, un conflitto simbolico. Che usava le forze dell'ordine per mettere in scena una lotta simbolica alle Br. E cinque processi non sono riusciti a chiarire questo aspetto della vicenda".
Il 18 aprile, poco dopo la scoperta della base di via Gradoli, arrivò il falso comunicato di Lago della Duchessa che annunciava la morte di Moro. Vi sembrò attendibile?
"Ci venne detto che si era tardato ad andare in via Gradoli, dopo la segnalazione, perché la strada non era sulle pagine gialle. Si era andati al paese Gradoli... soltanto in seguito si apprese che in quella via c'erano stati, ma che, avendo bussato alla porta e non avendo trovato nessuno, se ne erano andati. Quanto al falso comunicato, no... non ci credemmo, si ebbe l'immediata impressione che non fosse autentico. Non lo interpretammo come una prova generale, come poi si disse, ma genericamente come un'interferenza, come un tentativo di qualcuno di forzare la situazione".
La Dc (ma non solo la Dc), sostenne che le lettere che venivano dalla prigione non potevano essere state scritte da Moro, lei riconosceva suo padre?
"Sì, completamente. E senza alcuna ombra di dubbio. Addirittura dal punto di vista linguistico ... e poi la continuità del pensiero, dell'espressione. Era lui, non c'è discussione".
In quei giorni, lei, voi credeste davvero che Moro poteva tornare libero?
"Pensammo fino alla fine che potesse essere salvato, lo abbiamo sempre creduto, e ci siamo battuti con tutti i mezzi e fino all'ultimo. Certo non era una speranza fondata su chissà cosa. Ma abbiamo sempre agito in questa direzione, fino alla fine. Ed eravamo uniti. Capivamo che la situazione era grave. La lettera del Papa era stata terribile, quel 'liberatelo senza condizioni..."
Il 30 aprile le Br al telefono sollecitano l'intervento di Zaccagnini. E' vero che lei lo chiamò e fu lei a darsi da fare?
"Sì, lo chiamai dalla casa del portiere, perché il nostro telefono si era bloccato. Gli riferii l'ultimatum dei brigatisti, fu una conversazione piuttosto tumultuosa... noi avevamo una sensazione di impotenza. Altro che canali privilegiati... Di recente Cossiga ha dichiarato alla commissione stragi che la famiglia Moro, all'epoca, ebbe informazioni che non ha messo a disposizione... ma quando mai... la storia che noi avevamo un canale di ritorno privilegiato, è una sciocchezza. E in ogni caso di noi si sa tutto, perché eravamo microfonati".
Qualche giorno dopo il rapimento fu diffusa la foto di suo padre nella prigione, in camicia, con la stella a cinque punte alle spalle. Che impressione le fece?
"La guardai a lungo. Mio padre lo rivedevo lì, vestito come Aldo Moro non si sarebbe mai mostrato in pubblco, la camicia aperta, la canottiera. Sul suo volto lessi una sottile smorfia di ironia, ma soprattutto rabbia. Forse per la natura della vicenda, un po' da commedia tragica, tragicissima. Gli è stato rimproverato di non essersi comportato come un eroe della Resistenza. Ma lo si capiva anche dalle lettere: lui era consapevole che quella non era la resistenza, che si trattava di una faccenda molto meno seria. E le Br non erano l'esercito di Hitler".
In quei giorni in casa vostra venne spesso Tina Anselmi, in seguito andò a presiedere la commissione P2. Che cosa vi diceva, che cosa vi disse in seguito?
"Lei si convinse molto della correlazione tra i due eventi: il caso Moro e la Loggia di Gelli. Del resto, a parte le dietrologie, leggendo certi storici, come Franco De Felice, viene fuori che la realtà del doppio Stato ha attraversato decenni di storia repubblicana del nostro paese".
Suo padre aveva delle verità democristiane che avrebbe potuto rivelare ai brigatisti?
"Certamente nella prigione br, Moro non dice tutto quello che sa. Dice quello che gli interessa dire. E porta avanti anche una riflessione politica. Ma di Gladio parla per la prima volta e racconta molte altre cose. Perché non sono state rese pubbliche? I brigatisti hanno diffuso episodi ben meno pregnanti: quelli che pure avrebbero potuto creare imbarazzo alla Dc, li tennero segreti. Guardando le carte ritrovate nel '90 in via Montenevoso, viene spontaneo chiedersi il perché. Con la rivelazione di Gladio, le Br avrebbero distrutto l'immagine dello Stato che si voleva saldo e integro. Sono sicuro che su questo punto i brigatisti mentono ancora oggi".
Lei ha mai avuto interesse a incontrarli?
"Per carità... Non ci tengo. Mi sono arrivate varie richieste, negli anni. L'ultimo è stato Maccari, ma non mi interessa".
Lei continua a chiedere verità. Vent'anni dopo, qual è il pezzo di verità che ancora lei cerca?
"La verità è un fenomeno complesso. E' a strati. C'è una verità storica e riguarda il perché Moro. Abbiamo detto che si volle sventare un progetto politico, ma non basta essere d'accordo in tre o quattro, deve diventare la verità di tutti. Molti dicono che Moro era un simbolo. No, era il catalizzatore, per non dire il demiurgo di un'operazione politica. E l'hanno fermato per questo, altro che simbolo... Poi c'è una verità politica. Che riguarda il comportamento dei partiti. In particolare della Dc e del Pci, d'accordo nella decisione di darlo morto fin dal primo giorno. Ed è la questione principale, ancora tutta aperta. Se non si riconosce questo, se non si riflette su questo, non arriveremo mai veramente alla seconda Repubblica. Non c'è stata alcuna autocritica all'interno della Dc sui comportamenti di allora, nè c'è stata riflessione all'interno del mondo che all'epoca era il Pci. Ormai i comunisti chiedono scusa di tutto, perfino di aver sternutito nel 1921, ma di questo... non se ne parla. Non hanno ceduto neanche di un millimetro".
Lei parla di verità politiche. C'è chi sostiene che le Br non fornirono il bandolo che avrebbe potuto salvare Moro, è così?
"Non vero. Alla fine sarebbe bastata una semplice presa di posizione, un comunicato chiaro. Invece, si è voluto dare per morto Moro dal primo momento".
Si rende conto che è un'accusa gravissima?
"Per interesse, per cinismo, qualcuno per calcolo. O perché si pensò che non ci fosse più nulla da fare. E anche per paura, per viltà. Credo che, finalmente, sarebbe giusto distinguere fra quelli che credettero veramente nella linea della fermezza con disperazione e tormento e fecero appunto una scelta disperata. E quelli che invece cominciarono da subito a calcolare quanto avrebbero potuto guadagnare alle prossime elezioni sul cadavere di Moro. In fondo poteva essere un buon affare, togliere di mezzo un personaggio tanto fantasioso.... Insomma la verità è ancora lontana. Se non fosse così, il caso Moro sarebbe chiuso. Invece Moro è un fantasma che continua a inseguirci. E non ci lascia in pace".
Lei ha fatto queste distinzioni? I capi dell'interpartito della fermezza erano Berlinguer, Zaccagnini, uomini interessati alla politica di Moro. Dunque?
"Chi contava a quei tempi erano Zaccagnini, Donat Cattin, Piccoli, Andreotti. Quanto al Pci, penso che dal primo minuto, i comunisti abbiano dato per persa la partita. E abbiano valutato che, se si fossero spostati di un solo centimetro, si sarebbe detto che c'era connessione tra loro e l'area dei combattenti. Vede, io mi sono detto tante volte che la storia del Novecento è piena di omicidi politici che hanno reso la vittima ancor più ingombrante che da viva. Basti pensare a Martin Luther King o a Kennedy, due casi in cui l'immagine rimase ancor più importante... Allora, ecco, forse c'era bisogno anche di distruggere l'immagine di Moro, evitare che potesse essere utilizzata come un simbolo positivo: per questo la sua demolizione attraverso le lettere".
Dal suo elenco di misteri e di verità lacunose, manca quella giudiziaria...
"Cinque processi, due commissioni parlamentari non sono serviti a dare risposta ad alcune domande fondamentali: perché le br non pubblicizzarono tutto il memoriale di Moro? E perché lo uccisero proprio mentre si apriva uno spiraglio all'interno della Dc? Infine, perché agirono proprio quel giorno che mio padre passò in via Fani? Come facevano a saperlo? Lui cambiava spesso itinerario... invece loro erano sicuri che quel giorno Moro sarebbe passato proprio di lì. E poi: la metà dei colpi esplosi in via Fani vengono da un'unica arma che non è mai stata trovata. E restano i misteri della Honda e del camioncino presenti sul luogo dell'agguato. Fin qui ciò che manca dal versante dei terroristi. E per quel che riguarda le forze di polizia: perchè tante omissioni, tante superficialità?".
Lei ha detto che non vuole incontrare i terroristi, ma i leader Dc di allora li incontrerebbe?
"In questi giorni ho rifiutato di partecipare ad una trasmissione televisiva su mio padre, insieme con Cossiga, Andreotti e altri. Io non accetto un piano di parità con i responsabili politici del caso Moro. O con i responsabili delle forze di polizia. Piuttosto sarebbe necessario sottolineare la disparità. Si deve ricordare che qualcuno morto e qualcun altro no. Che qualcuno ci ha rimesso, mentre qualcun altro ha costruito carriere. Per amore della memoria".
E il partito della trattativa? Suo padre ringraziò Craxi...
"Craxi si era dato da fare, e dunque... Anche se bisogna dire che per Craxi quello era un passo positivo, comunque fosse andata a finire. Si metteva in questione l'egemonia Pci-Dc. Era in ogni caso, una questione che valeva la pena affrontare".
Cerchi di spersonalizzare. Lei non ritiene che, se all'epoca si fosse trattato con le br, le istituzioni ne sarebbero state danneggiate?
"Faccio un ragionamento generale e brutale. Quando c'è un rapimento, lo Stato - che ha il dovere di tutelare la sicurezza e la vita dei cittadini - ha due possibilità: o libera il prigioniero o tratta. Se non fa né l'una né l'altra cosa, è corresponsabile di quel che accade dopo. E' una valutazione eccessiva? Può darsi. Resta il fatto che dal sequestro Sossi a Soffiantini, passando per Dozier e Cirillo, lo Stato o ha liberato il prigioniero o ha trattato. L'unico caso in cui non ha né trovato il prigioniero, né ha trattato, è stato Moro. Non farei nessun'altra considerazione. E poi, durante i 55 giorni, nel nostro Paese dove si litiga continuamente, si ebbe la sensazione che ci fosse una straordinaria, inedita, inspiegabile unità tra le forze politiche. Le voci di dissenso erano pochissime e ci si sentiva veramente impotenti".
In una delle sue lettere, Moro si era rivolto a Zaccagnini, lo aveva indicato come il responsabile morale...
"Quando Zaccagnini venne eletto segretario della Dc, costrinsero mio padre ad assumere la carica di presidente del partito. Mia madre si oppose, aveva con Moro un enorme contrasto sul fatto che lui continuasse a fare politica. Del resto l'ostilità nei confronti di papà era evidente... come le minacce".
Dalle lettere, specie dalle ultime, sparisce il Moro paludato. Va giù duro con Cossiga Piccoli, Zaccagnini...
"Mio padre non era un muro di gomma. Era un uomo forte, deciso, quando doveva esserlo. Ma le lettere devono essere lette anche sotto il genere letterario della profezia".
Che vuol dire? Che lui sa di scrivere profezie, di scrivere per il domani? In una parola sa che l'uccideranno?
"Lui lotta fino alla fine. Certo, man mano, in successione, diminuisce la capacità di resistenza. Arrivano botte. Basti pensare alla lettera del Papa. A quel 'liberatelo senza condizioni'. Il Papa fece la sua parte. Ma quello che produsse... diciamo che sarebbe stato meglio che non l'avesse prodotto. Anche se quell'espressione 'senza condizioni', dicono che gliel'abbiano imposta".
Andreotti?
"Era il capo del governo, il responsabile politico della gestione di questa vicenda. Credo che ci si possa limitare a questo".
Siamo alla fine, il comunicato numero 9 del 5 maggio, annuncia: "Concludiamo la battaglia, eseguendo..."
"No, non pensai che lo stessero uccidendo. Interpretammo quel gerundio come l'inizio dell'ultima fase. Capimmo che c'era un messaggio, uno spiraglio per agire. La mattina del 9 maggio ci sarebbe stata la direzione della Dc e il dissenso di Fanfani e dei suoi sarebbe stato rappresentato, manifestato. In quel momento non abbiamo cognizione diretta che le cose stiano proprio così, ma lo intuiamo. La telefonata delle Br, in cui si chiedeva l'intervento di Zaccagnini, l'avevamo letta in questo senso. Avevamo sentito i compagni di corrente, i colleghi della dc, avevamo fatto pressioni. Senza grandi risultati. Ma neanche i suoi pochi compagni di corrente furono in grado di fare di più. Certo, alcuni si attivarono per chiedere tramite Misasi la convocazione del Consiglio nazionale. Ma insomma non è che si siano dati fuoco nelle piazze... E tuttavia qualcosa nella Dc si stava muovendo".
Il 9 maggio, invece lo uccisero.
"Io rimasi... non me l'aspettavo. Per due mesi, certo sapevo che sarebbe potuto succedere in qualsiasi momento. Invece accadde proprio quando le Br stavano ottenendo qualcosa..."
Dove si trovava quel giorno?
"A casa. Non ci chiamò nessuno di quelli che avrebbero dovuto farlo, né dal ministero dell'Interno, né da qualsiasi altra parte. Ci telefonarono amici, forse Gianfranco Quaranta, il capo del nostro Movimento. Ma è pazzesco che nessuno si volle prendere la responsabilità ufficiale di comunicarcelo. Appena saputo, andammo all'obitorio, mia madre, le mie sorelle ed io, per l'autopsia. No, non voglio parlare di quello che provai".
Moro era l'espressione della grande tragedia italiana, lei quel giorno vide anche questo o solo suo padre?
"Non è facile rispondere. Tutto insieme. Mi colpì qualche tempo fa un signore anziano che mi disse: 'Quel 9 maggio per me fu come l'8 settembre'. Mi ha fatto pensare: interpretava bene l'idea del tutto che crolla, lo sbandamento".
Alla fine, la famiglia ha chiesto il silenzio, non è andata ai funerali di Stato.
"Si, e non solo perché erano le ultime volontà di mio padre. Eravamo in perfetta consonanza con lui".
Vent'anni dopo ha ancora la speranza che si possa arrivare alla verità?
"Mi conforta che, pur tra tentativi di trovare scorciatoie o versioni di comodo, ritorni sempre fuori la voglia di raggiungere la verità. E' nell'interesse del Paese liberarsi di questo fantasma. Vede, io ho due figli, di dieci e otto anni. Mi hanno chiesto tante volte del nonno. Ho tentato di rispondere e ho spiegato che non è un problema nostro privato, è un problema della democrazia, un problema insoluto che riguarda il nostro paese".
PARLA MARIA FIDA MORO.
La figlia di Aldo Moro: "Il Papa fermi la beatificazione di mio padre". L'appello di Maria Fida: "Ci sono delle infiltrazioni anomale e ributtanti da parte di persone alle quali non interessa altro che il proprio tornaconto". La Repubblica 6 maggio 2019. "Santità, La prego dal profondo del cuore di interrompere il processo di beatificazione di mio padre Aldo Moro, sempre che non sia invece possibile riportarlo nei binari giuridici delle norme ecclesiastiche. Perché è contro la verità e la dignità della persona che tale processo sia stato trasformato, da estranei alla vicenda, in una specie di guerra tra bande per appropriarsi della beatificazione stessa strumentalizzandola a proprio favore". E' l'appello che Maria Fida Moro ha fatto a Papa Francesco, in una lettera da lei stessa letta in un video postato sul web. Aldo Moro è stato proclamato "servo di Dio" (il primo passo verso la beatificazione) il 16 luglio 2012. Già nell'aprile del 2015 si erano avute delle proteste di "ingerenze" da parte dell'allora postulatore, l'avvocato Nicola Giampaolo. Nel 2018 al postulatore generale dei Domenicani, padre Gianni Festa, era stato affidato l'incarico di occuparsi del processo di beatificazione di Moro (che era un laico domenicano). Il religioso aveva precisato che per si trattava ancora di una fase iniziale del "processo". "A me risulta - spiega la figlia dello statista ucciso 41 anni fa dalle Brigate Rosse - che il postulatore legittimo sia Nicola Giampaolo al quale ho consegnato due denunce, che sono state protocollate ed inserite nella documentazione della causa nonché inoltrate per via gerarchica a chi di dovere. Ma non ho avuto alcuna risposta e sono passati anni. Nell'ambito dello stesso processo ci sono delle infiltrazioni anomale e ributtanti da parte di persone alle quali non interessa altro che il proprio tornaconto e per questo motivo intendono fare propria e gestire la beatificazione per ambizione di potere. Poi è spuntato un ulteriore postulatore non si sa a quale titolo.
"Vorrei proprio che la Chiesa facesse chiarezza nella forma e nel merito". "Mio padre - prosegue la lettera-appello è stato tradito, rapito, tenuto prigioniero ed ucciso sotto tortura. Dal 9 maggio di 41 anni fa è cominciato il 'business' della morte e lo sciacallaggio continuativo per sfruttare il suo nome a fini indebiti. Mi viene in mente la scena, narrata nei Vangeli, dei soldati romani che si giocavano a dadi, ai piedi della Croce, il possesso della tunica di Gesù tessuta in un solo pezzo. I soldati erano, in qualche misura, inconsapevoli di quanto stavano facendo invece costoro sanno di compiere un'azione abbietta e lo fanno ugualmente in piena coscienza". "Il mio nome significa fede e sono assolutamente certa della Comunione dei Santi e della vita eterna. E so che mio padre è in salvo per sempre nella perfetta letizia dell'eternità e nessuna bruttura può ferirlo. Ma preferire mille volte che non fosse proclamato Santo - tanto lo è - se questo deve essere il prezzo: una viscida guerra fatta falsamente in nome della verità. Paolo VI descriveva mio padre così: uomo "buono, mite, giusto, innocente ed amico". Regali, se può, a mio figlio Luca ed a me una giornata di pace in mezzo alla straordinaria amarezza di una non vita. Che il Signore la benedica. Mio padre, dal luogo luminoso in cui si trova ora, saprà come ringraziarla. Sono mortificata di aver dovuto disturbare Lei. Con rispettoso ossequio, stima e gratitudine", conclude Maria Fida Moro. L'appello alla vigilia del 9 maggio, quando la memoria dello statista dc ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, sarà onorata in via Fani, dove avvenne il rapimento di Moro e della scorta, e alla Camera dei deputati, per la Giornata delle vittime del terrorismo, a cui presenzierà anche il presidente Mattarella.
Beatificazione Moro, prof. Coppola replica a Maria Fida: «Processo mai avviato». Il giurista che vanta incarichi Oltretevere interviene sulla lettera inviata dalla figlia dello statista al papa con cui chiedeva di interrompere la beatificazione. Leonardo Petrocelli l'08 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Il processo di beatificazione di Aldo Moro in questo momento non esiste. E non esiste da parecchio tempo». Abbassa i toni della polemica Raffaele Coppola - avvocato, accademico e direttore del Centro di ricerca «Renato Baccari» dell’Università di Bari - dopo la durissima lettera-appello inviata al Papa da Maria Fida Moro, figlia dello statista di Maglie, per chiedere l’interruzione del processo di beatificazione del padre, evocando «strumentalizzazioni e infiltrazioni anomale e ributtanti». Coppola - che ricopre un incarico di grande rilievo in Vaticano -ricuce i fili di una storia complessa, su cui molto si è detto e scritto, non sempre in omaggio alla verità. Lo intercettiamo subito dopo la chiusura del seminario di studio su «Aldo Moro politico e cristiano», svoltosi ieri a Venosa. «Un appuntamento - precisa Coppola, fresco cittadino onorario della città lucana - che non deve spaventare nessuno ma qualificarsi solo come momento di approfondimento».
Professor Coppola, da dove facciamo partire il racconto?
«Tutto ha inizio anni fa con l’introduzione della causa attraverso la presentazione del libello. Dal giorno dopo, però, ecco scatenarsi una intensa pubblicità che ha messo sul chi vive l’autorità ecclesiastica».
Quale l’effetto del battage mediatico?
«Il cardinale Augusto Vallini, al tempo vicario del Santo Padre, dà la possibilità di andare avanti. Ma non nel senso del processo, bensì nella direzione dell’approfondimento della figura del Moro religioso».
In altre parole?
«L’approfondimento non porta alla beatificazione ma spinge a comprendere se ci sono le condizioni per avviare il percorso. Per di più, sul caso non è intervenuta l’approvazione di tutti i vescovi della regione Lazio, lì dove il processo si svolgeva. Dunque, Moro non è figlio di Dio».
Da quel momento in poi cosa accade?
«Il postulatore (cioè colui che si occupa delle pratiche fino alla beatificazione, ndr) ha cercato di ottenere appoggi e consensi che ci sono stati, ma non al punto da poter avviare il processo».
La figlia di Moro ha evocato, con durezza, la questione dei due postulatori, parlando del secondo come di una figura «spuntata non si sa a quale titolo».
«L’attore principale, cioè la Federazione dei centri studi “Aldo Moro” ha revocato il mandato al primo postulatore per affidarlo a un’altra figura che però non ha ricevuto l’approvazione della Santa Sede. Quindi, ne abbiamo uno revocato e uno nominato ma non approvato».
Professore, come andrà a finire questa vicenda?
«Siamo solo agli inizi, la Chiesa ha tempi lunghi che, nel caso di un politico, si moltiplicano ulteriormente. Tommaso Moro fu canonizzato a 400 anni dalla morte. Ripeto, il processo non è iniziato (come confermato ieri anche dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ndr)».
E quanto alle polemiche?
«Vorrei precisare una cosa. Moro, figura gigantesca di grande cattolico, appartiene a tutti. Coloro che hanno promosso il congresso di Venosa tendono la mano anche a chi non la pensa come loro. Vogliamo dare un messaggio di pace e ricordare che, per arrivare a un obiettivo condiviso, bisogna essere uniti».
In tutto questo, infine, qual è la posizione del Pontefice?
«Il Santo Padre credo sia informato di tutto ma lascia ai competenti organismi ecclesiastici ogni decisione in proposito. È in particolare il cardinale Angelo De Donatis, vicario del Papa nella diocesi di Roma, a dover decidere se avviare o meno il processo».
Maria Fida
Moro.
Primogenita del leader democristiano Aldo (1916-1978, assassinato dalle
Brigate Rosse).
Ex senatore (1987-1992, prima gruppo democristiano, poi Rifondazione comunista,
infine gruppo Misto). Nel 1993 si candidò a sindaco di Fermo con il Movimento
sociale italiano, ma non venne eletta. «Nessun partito mi ha mai voluto
veramente e di conseguenza la mia vicenda politica è
stata giudicata negativamente in molti modi da coloro che scrivono, ma la gente
comune ne ha colto, nella grandissima maggioranza dei casi, la linearità
nascosta». Nel 2006, infastidita dagli esibizionismi degli ex terroristi (chi in
Parlamento come Sergio D’Elia, chi a scriver
libri e a presentarli con l’aria dei maestri), scrisse una lettera aperta ad
Adriana Faranda, che aveva appena pubblicato un’altra
sua opera ispirata all’esperienza della clandestinità: «Tu hai finito e sei
fuori, noi resisteremo nel carcere della disperazione a contemplare le nostre ex
vite per sempre». Nel 2007 ha attaccato l’ex presidente della Repubblica
Francesco Cossiga additandolo tra i responsabili della
morte del padre. Nel 2008 annunciò l’intenzione di lasciare l’Italia,
«Paese che ho amato tanto, ma è un Paese diverso da quello in cui sono
cresciuta, è diventato privo di memoria e compassione». In maggio si scontrò
con Gianni Alemanno a proposito della Renault 4
nella quale venne ritrovato il corpo del padre: «Andrebbe in un museo», aveva
detto il sindaco di Roma. «Per noi andrebbe
bruciata», rispose lei. Nel maggio 2014 in una lettera aperta pubblicata sul
blog di Beppe Grillo indirizzata a politici e
intellettuali si dichiarò contraria all’ipotesi dell’abolizione del Senato. Le
sarebbe piaciuto interpretare la madre Noretta (Eleonora) nella fiction di
Canale 5 Aldo Moro (in tv nel maggio 2008): il produttore le chiese se
fosse disponibile, lei accettò ma poi non se ne fece niente. Nel 1998, con il
figlio Luca, era stata protagonista dello spettacolo teatrale L’ira del sole,
un nove di maggio, dedicato a Moro a vent’anni dalla scomparsa. Ai funerali
della madre (morta il 19 luglio 2010) non
presenziò. Nel maggio 2012 mise all’asta l’ultima lettera scritta ai figli dalla
madre. «Se hanno messo all’asta i volantini delle Br,
non posso fare la stessa cosa con l’ultima lettera di mia madre? Voglio farlo
per provocare le coscienze, visto che non abbiamo ancora la verità». «Segnata
dalla tragedia familiare con 26 tumori in 34 anni e con tre preinfarti negli
ultimi due mesi. “La mia indennità parlamentare fu completamente bruciata per
pagare i debiti della famiglia, che era rimasta senza reddito finché la mamma
non ricevette la sua pensione. Ho dovuto vendere i miei regali di nozze e la mia
stessa casa, per aiutare mamma e i miei fratelli. Una vita terrificante. Per le
conseguenze subite sul piano emotivo, economico e persino fisico. Ma soprattutto
a causa di un terribile, lacerante senso di colpa per non essere riuscita a fare
quello che papà ci chiedeva”». È laureata in Scienze politiche.
Vive in Trentino con il figlio: il cantante Luca Bonini (il
carissimo nipote citato nelle lettere dalla prigionia dello statista, avuto da
Demetrio Bonini). Insieme gestiscono il sito internet “Moro nella verità”, con
l’obiettivo di ricordare la figura di Aldo Moro.
Giorgio Dell’Arti
Catalogo dei viventi 2015 scheda aggiornata al 9 giugno 2014 da Lorenzo
Stellini
Lettera aperta di Maria Fida Moro, figlia di Aldo Moro del 9 maggio 2011.
Scrivo questa mia dolorosa lettera su un vecchio quaderno dove qualcuno ha copiato, anni fa, L'Infinito di Leopardi. Poesia che bene si addice al mio stato d'animo sconfitta come sono dalla vita. Una volta ancora, ahimè, sono condannata a chiedere aiuto ed ospitalità a gentili persone per inviare nei popolosi cieli di internet il mio ennesimo Sos. Almeno sul limitare della esistenza terrena mi piacerebbe davvero tanto essere lasciata in pace e poter finalmente smettere di battermi invece – come al solito – sono relegata in trincea e devo combattere in favore della verità e del giusto significato. Il nocciolo del mio appello è il seguente. C'è chi, fin dalla scorsa primavera, ha posto in rete una specie di specchietto per le allodole, tramite il quale chiede e riceve soldi promettendo la mia presenza in eventi vari. Il paradosso è che l'unica condizione che io pongo per presenziare ad eventi che riguardino mio padre e la sua memoria è di farlo a titolo gratuito e senza nemmeno il rimborso spese. È immorale dunque gravemente scorretto e lesivo della mia immagine che qualcuno in malafede ed in modo falso e mendace guadagni indebitamente millantando il credito e offuscando la mia onorabilità. Io non ho uno staff, né una segreteria e faccio tutto da sola quindi se devo prendere un impegno lo faccio personalmente. Nessuno dunque è autorizzato o ha titolo per parlare a mio nome e tantomeno impegnarsi al posto mio. Invito chi fosse interessato a diffidare dai falsi profeti, dai sepolcri imbiancati, dai truffatori. Sono amareggiata e stufa di dovermi difendere mentre non sto facendo niente di male e cerco soltanto di esistere in pace vivendo ai margini e traversando la vita in punta di piedi. Nel nostro mondo marcio, che tutto inghiotte, sembra non esserci più posto per la gentilezza, la bontà, la comprensione e la ragionevolezza. Ciò non di meno, facendo appello ai buoni sentimenti, esprimo profonda gratitudine per chi ha ospitato questa disadorna segnalazione. È etico cercare di distinguersi dal male e fare il bene. Non voglio neppure immaginare di guadagnare un centesimo dalla tragica morte di mio padre Aldo Moro ed a maggior ragione non intendo che altri guadagnino, ma il termine esatto sarebbe rubino, a mio nome. Se intendono truffare ed operare furti lo facciano in proprio e lascino in pace mio padre e me. Abbiamo già pagato mio padre con la morte io con una vita orribile il diritto di esistere. Mi piacerebbe di più rinunciare a vivere ma mi perderei l'avvento dell'Apocalisse e la fine di questi tempi. Invece devo restare perché voglio vedere i nuovi cieli e la luce che illuminerà il mondo nuovo. Intendo essere presente per applaudire la sconfitta delle tenebre e di coloro che perseguono, a vario titolo, il male. “Il male fiorisce dove chi può non fa il bene” ha lasciato scritto un anonimo del '600. E' ora, straora, di rinnegare il buio ed avanzare verso le stelle. Maria Fida Moro
Maria Fida Moro "Se papà per miracolo tornasse vivo, lo ucciderebbero ancora e ancora e ancora". Bellissimo ed appassionato racconto della figlia dello statista democristiano a Giovanni Fasanella e Antonella Grippo. Sono Maria Fida, la primogenita di Aldo Moro. La mattina del 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, le Brigate rosse sequestrarono papà, dopo aver massacrato gli uomini della sua scorta. Vorrei ricordare i nomi: Domenico Ricci – Oreste Leonardi – Giulio Rivera – Raffaele Jozzino – Francesco Zizzi. Lo tennero in una << prigione del popolo>> per cinquantacinque giorni. Il 9 maggio, poco dopo le 10, il suo corpo senza vita fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in via Caetani. L’assassinio di mio padre fu un colpo di Stato. L’ho sempre pensato e l’ho sempre detto. E ne ho pagato il prezzo. Avevo compiuto trentuno anni da qualche mese, quando sequestrarono papà. Luca, mio figlio, aveva solo due anni. La settimana prima di quel maledetto 16 marzo, passai tutte le notti a piangere. Senza sapere un perché. Avevo il presentimento che stesse accadendo qualcosa di catastrofico, di irreparabile. Se dovessi descrivere con un ‘immagine il mio stato d’animo…ecco, direi che ero sovrastata da una nube rosso sangue. Si una nube rosso sangue, questa è l’associazione che mi viene spontanea. In realtà, in famiglia pensavamo che un evento terribile fosse nell’ordine delle cose. Era come se ce lo aspettassimo, soprattutto dopo il rapimento del figlio di Francesco De Martino, Guido... Erano tre i personaggi politici che, negli anni precedenti, avevano contribuito a rimettere in gioco il Partito Comunista: il socialista De Martino, il comunista Enrico Berlinguer e il democristiano Aldo Moro. Berlinguer non era molto tranquillo, e di recente si è scoperto che nel 1973 avevano tentato di ammazzarlo in Bulgaria, simulando un incidente stradale. A De Martino, nell’aprile 1977, avevano sequestrato il figlio per impedire al padre di essere eletto Presidente della Repubblica. E papà, anche se non lo lasciava trasparire, era molto preoccupato. Noi, in famiglia, lo eravamo più di lui. Forse fu per esorcizzare quella sensazione di inquietudine, di catastrofe incombente, che un giorno mi decisi chiedergli se lui ipotizzava di poter essere rapito. Ricordo che mi rispose: << Nella vita non si può mai sapere>> Tradotto dal suo linguaggio ermetico, voleva dire di sì. Non ero preoccupata solo per mio padre, ma più in generale, per il clima politico che si respirava in quegli anni. Vivevo nell’incubo di una terza guerra mondiale, che sembrava potesse scoppiare da un momento all’altro. Ma, ripeto, un po’ tutti, in famiglia, erano allarmati. Nel 1974, mia madre era riuscita a strappare a papà la promessa che avrebbe lasciato la politica. Glielo aveva chiesto più volte in modo pressante, erano arrivati perfino a litigare, cosa che tra loro non succedeva mai. Alla fine mia madre era riuscita a spuntarla. L’anno seguente, però, nel settembre del 1975, era nato luca. E papà, di fronte alla nursery, disse alla mamma che gli dispiaceva, ma non poteva mantenere la promessa: << Per ricordare la catastrofe che pende sulla testa dei bambini>>, disse proprio così. Continuò a far politica, perché credeva davvero che un mondo migliore fosse possibile. Ricevevamo minacce continue. Non solo mio padre, ma tutta la famiglia era esposta a intimidazioni e pressioni. Ricordo il 3 agosto del 1974, altra data infausta della storia italiana. Papà allora era ministro degli Esteri e avrebbe dovuto raggiungervi in treno a Bellamente, sulle montagne del Trentino, dove di solito trascorrevamo insieme le vacanze estive. Era già salito sulla sua carrozza, alla stazione Termini, e il treno stava per partire, quando all’ultimo momento arrivarono dei funzionari e lo fecero scendere perché doveva tornare per firmare delle carte- A causa di quell’imprevisto, perse il treno e fu costretto a raggiungerci in macchina. Un ritardo provvidenziale, perché quel treno era l’Italicus. Non ho alcuna prova per dirlo con certezza, però ho avuto il sospetto che la bomba esplosa poche ore dopo nella galleria di San Benedetto Val di Sambro avesse come obiettivo proprio lui. Anche perché già altre volte, un’infinità di altre volte, si era salvato per il rotto della cuffia. Un giorno esplosero le gomme della sua auto, che andò fuori strada. A bordo c’ero anche io, ma le conseguenze furono lievi Qualche tempo dopo accadde di nuovo, e papà non si fece male a un ginocchio. Dissero che erano ruote da neve usate per camminare u strada, per questo erano scoppiate. Ma è proprio difficile crederlo. Qualche tempo dopo, papà soffriva di un malanno da diverse settimane, e stava peggiorando sempre più. Poi un giorno la mamma, che era infermiera della Croce rossa, scoprì che alcune medicine con le quali papà veniva curato erano non solo inefficaci, ma addirittura pericolose, tanto che forse lo stavano avvelenando. Fece sospendere la cura e papà si riprese. Potrei citarvi davvero tanti altri episodi strani, ma ci vorrebbe forse un libro intero….Vi basti pensare, per capire quale era il clima negli anni che precedettero il sequestro, a un episodio del 12 dicembre 1969, altra data della nostra tragica storia italiana. Dopo l’esplosione della bomba di piazza Fontana, a Milano, quella sera stessa, Luciano Beca, uno dei più stretti collaboratori di Berlinguer, telefonò a mio padre, che era in visita ufficiale a Parigi, per invitarlo a rientrare in Italia in treno, invece che in aereo. Era stato proprio Berlinguer , preoccupato per la sua sorte, a dirgli di telefonare a papà, come lo stesso Barca ha rivelato in tempi più recenti, nella audizione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo. Il segretario del Pci era convinto che il treno fosse più sicuro dell’aereo. Piazza Fontana, piazza della Loggia, l’Italicus. E dopo le stragi, il terrorismo brigatista. Ricordo mio padre dire alla mamma:<< Noretta, siamo in guerra>>. Dal 1974, dopo la strage dell’Italicus, papà volle che avessimo una scorta anche noi figli. La sensazione era che si fosse con tutti e due i piedi nel baratro, solo i talloni rimanevano sulla terra ferma: sarebbe bastato un nulla per caderci dentro. Quella sensazione la conoscevamo benissimo. Perché l’avevamo vissuta tante altre volte, anche prima di quel 1974. Ad esempio, nel luglio 1960 durante i moti di piazza contro il governo Tambroni appoggiato dal Msi. E ancora nell’estate del 1964, all’epoca del <>, il tentativo di colpo di Stato attribuito al generale Giovanni De Lorenzo. Ma quelle date erano soltanto dei picchi di tensione. In realtà, la normalità della nostra famiglia era vivere costantemente nell’attesa di precipitare nel burrone. Vivevano così i miei genitori, innanzitutto. E poi noi figli, io in particolare che ero primogenita. Mi sentivo responsabile e volevamo proteggerlo. Facevamo di tutto per non farlo uscire di casa. Ricordo mia sorella Agnese, piccolissima, nascondeva la sua tessera parlamentare sotto la cenere fredda del caminetto: aveva capito che, senza quella, papà non sarebbe potuto partire in treno. E mio fratello Giovanni, anche lui piccolissimo spesso si addormentava, sdraiato alla porta d’ingresso, per impedirgli di uscire. Proprio Giovanni! Un giorno carpii spezzoni di una conversazione concitata dei miei genitori, che si parlavano in francese. Quella era la lingua che usavano, insieme al tedesco, quando volevano esser sicuri che noi non capissimo. Io invece qualcosa afferrai, e ne rimasi sconvolta. Qualcuno aveva minacciato papà di portare via Giovanni, il mio fratellino adorato, e di rimandarlo indietro, tagliato a pezzi, in una valigia. Quell’episodio ha sconvolto la mia infanzia, la mia giovinezza e la mia età adulta. Avevamo piena coscienza che papà fosse in pericolo. Tutti quanti, da sempre. Ma c’era una specie di tacito accordo con la mamma, per cui noi non parlavamo mai di cose pericolose con papà. E a loro volta, papà e mamma non parlavano mai davanti a noi dei pericoli incombenti. Ricordo che mamma mandava noi bambine, me Anna, la secondogenita, ai convegni annuali della Dc, a San Pellegrino. Voleva che vigilassimo su papà, perché si fidava di noi più di chiunque altro. Una delle due rimaneva in sala, seduta in prima fila, a controllare che non accadesse nulla a papà mentre parlava; l’altra, nel frattempo, perquisiva la sua stanza in cerca di eventuali esplosivi o altro. Saremmo state in grado di riconoscerle, le bombe, perché mamma, reduce dalla guerra, ce le aveva descritte. E l’ordine che avevamo era che, se avessimo trovato qualcosa, avremmo dovuto subito avvertirla. Papà non ha mai saputo che noi abbiamo fatto questo per anni, Una volta, non avevamo ancora finito di perquisire la sua stanza, quando lui arrivò: ci inventammo un la essere, per costringerlo ad andare in farmacia a comprare le medicine. Eravamo la sua scorta, eravamo della sua vigilanza. Mamma mi insegnò anche a sparare. Si, proprio nel luglio del 1960, durante la crisi del governo Tambroni: ero talmente terrorizzata che mamma mi regalò un flobert, un fucile ad aria compressa e mi insegnò ad usarlo. Mi ero spaventata perché, una notte, Sereno Freato e altri collaboratori di papà, mandati da lui a Torrita Tiberina, dove trascorrevamo l’estate, per portarci via di lì. Ma la mamma in quel momento non c’era. Ci dicevano di fare in fretta, la mamma non tornava, e io non sapevo cosa fare. Intuivo un pericolo enorme e imminente. E quando finalmente tornò mamma ci portarono a Roma, nella nostra casa di Salita di Poggio San Lorenzo e dormimmo ognuno con un carabiniere davanti alla porta della nostra camera. Il rischio doveva essere proprio serio. Perché mamma mi diceva:<< Se senti dire che è successo qualcosa di pericoloso o di strano, non ti spaventare, vieni diritta a casa>>. Lei è persona molto serena e gioiosa, ma quando da degli ordini, sono secchi e perentori. E quello non era un consiglio, ma proprio un ordine. Dal suo tono capivo che era una situazione grave. Tanto che, come ho già ricordato, dal 1974, papà impose a tutti noi una scorta. E fu forse l’unica volta che ci ha imposto qualcosa. Certo non è facile vivere con una scorta, ma diventa sopportabile se si diventa amici di chi si occupa della tua sicurezza. Per sdrammatizzare, tra fratelli ci si salutava dicendo: << Se ti rapiscono, citofona>> E infatti, la mattina del 16 marzo andò proprio così: seppi del sequestro dal citofono. Che papà fosse un personaggio scomodo era indubbio. In molti gli rimproveravano la sua politica di apertura ai comunisti di Berlinguer, la sua lungimiranza. Lui non si arroccava mai su posizioni conservatrici, guardava oltre. Nella vita in casa invece, era timidissimo, riservato, discreto, ma anche molto divertente. Il rapporto con me era fatto di sguardi, di sintonia d’intenti, di parole non dette. Cercava solo di dissuadermi dalla carriera giornalistica, perché conosceva bene la mia sensibilità e il cinismo di quel mondo, come ho sperimentato poi sulla mia pelle, qualche anno più tardi. Non aveva nessun senso pratico, risolvere dei banali problemi quotidiani, persino aprire un pacchetto, con lui diventava un’esperienza surreale. Ci metteva a volte delle ore, e capitava persino che si facesse male. Un vero tenerissimo disastro. Una settimana prima del rapimento, papà era a letto con un raffreddore fortissimo, e io passavo notti insonni, turbata da quella sensazione di minaccia incombente. Speravo tanto che il raffreddore lo costringesse a letto e che quindi non potesse uscire. Abitavamo nella palazzina di fronte ai miei genitori. Io stavo talmente male, tra l’altro ero provata anche fisicamente a causa di una dolorosissima ernia al disco, che Luca, mio figlio, quella notte era rimasto a dormire dai nonni. La mattina del 16 marzo, volevo alzarmi dal letto a tutti i costi, ma non ci riuscivo per il dolore alla gamba, e mi feci aiutare da mio marito, che mi alzò di peso. Ero terrorizzata dall’idea che papà portare Luca con sé, come faceva spesso. Non so perché proprio quel giorno avevo l’imperativo categorico che non lo dovesse fare. Arrivai appena in tempo a fermarlo. Vidi mia madre uscire rapidamente per andare, come ogni giovedì, a insegnare catechismo in parrocchia. Mio padre era già sulla porta d’ascensore, con Luca in braccio. Purtroppo, quasi sgarbata:<< Luca oggi deve stare con me!>>. Lui provò timidamente a resistere, visto che io non potevo nemmeno camminare. Ma fui irremovibile. Lui si rassegnò, e lessi nei suoi occhi che aveva capito i miei timori. Entrò nell’ascensore, lo guardai con la consapevolezza che non l’avrei più rivisto. L’ultimo ricordo che ho di lui vivo, è il suo sorriso mesto, e il cigolio dell’ascensore che se lo portava via. Rimasi sola in casa con Luca. Il tempo era incerto, piovigginava e tirava molto vento. Avrei voluto portare mio figlio a Capannelle, alla scuola centrale antincendio dei vigili del fuoco, per assistere alla prova generale del saggio ginnico-sportivo, e aspettavo una telefonata di conferma. Il telefono squillò. Risposi. Ma non erano i vigili del fuoco. Sentivo, dall’altro capo del filo, una perdona piangere, farfugliare parole incomprensibili, non capivo nulla. Era la signora Ricci, la moglie di Domenico, il carabiniere autista di mio padre che era in servizio quel giorno. Non accesi la televisione, né la radio per non spaventare Luca. Telefonai al ministero dell’Interno per sapere cosa fosse successo. Mi dissero che era accaduto qualcosa, ma non sapevano cosa. Quella risposta mi fece immediatamente pensare che lo sapessero e che non me lo volevano dire. Una conferma, insomma, dei miei peggiori timori. Erano circa le 9.15 del mattino. Suonò il citofono, il poliziotto di servizio alla vigilanza che c’era un passante che desiderava parlare con me. Era assolutamente anomalo che dalla vigilanza ci chiedessero se volevamo parlare al citofono con degli sconosciuti. Ma se il poliziotto lo aveva fatto, significava che aveva un motivo serio. Perciò risposi subito di sì. Un signore, non so chi fosse, mi disse: << hanno trucidato tutta la scorta e hanno portato via suo padre>>. Tutto quello che avevo paventato da sempre, era successo. Percepivo chiaramente che la situazione era perfino peggiore di quanto avessi mai temuto: un padre rapito è molto più spaventoso di un padre ucciso, è un’agonia rimandata. Mia madre fu tra le prime persone ad arrivare in via Fani. Era in parrocchia quando qualcuno chiamò un sacerdote per portare l’estrema unzione ai caduti della scorta. Ed era andata anche lei. Resasi conto che non c’era più modo di aiutarli, si era inginocchiata per terra, tra il sangue e i bossoli, a pregare. In quel momento, io ero a casa, sola con Luca. Quando mamma rientrò, riuscì a mostrarsi straordinariamente serena, straordinariamente coraggiosa, com’era il suo solito, e perfino rassegnata. Mi disse, e mi colpi che, rivolgendosi solo a me, usasse il plurale, come se parlasse a tutta la famiglia: << Mi dispiace, ragazzi, è colpa mia. Non dovevo permettergli di fare politica>>. Io le risposi: << Non è colpa tua, si vede che doveva comunque accadere>> C’era del fatalismo in quella mia risposta. D’altra parte, avendo fino a quel momento sempre vissuto nell’attesa della caduta nel baratro, non poteva esserci reazione diversa. Cercai di rintracciare il resto della famiglia. E intanto, la casa cominciava a riempirsi di amici e parenti, in evidente stato di choc. Chi piangeva, chi si sentiva male, chi sveniva. Toccò a noi soccorrerli e consolarli, farli sedere, dargli i fazzoletti per asciugarsi le lacrime, il caffè, gli ansiolitici e le gocce per la pressione…Capivo benissimo il loro stato d’animo, anche perché noi eravamo in qualche misura preparati, loro no. Tuttavia, mi sembrava troppo e me ne andai con Luca. Non sapevo, in quel momento, quanto il comportamento delle persone che erano venute a farci visita fosse emblematico dell’atteggiamento dello Stato nei nostri confronti da quel giorno in avanti: la pretesa assurda e arrogante di escluderci persino dal dolore, non solo dal diritto di parola sulle vicende legate al caso Moro. Le vittime devono entrare nella tomba insieme al loro congiunto e non apparire mai più, come le vedove indiane sulla pira funebre. Non devono piangere, né tantomeno parlare E’ l’ingiustizia esponenziale, il massimo dell’orrore. Sin dal primo dei cinquantacinque giorni, avevo come la sensazione che la mamma fosse consigliata da personaggi non sempre e non tutti in buona fede. Era solo la mia sensazione, naturalmente. Alcune persone davano l’impressione di essere state…come dire?...non saprei…ecco …si <>. Proprio questa forse è la parola giusta:<< infiltrate>> in casa Moro con lo scopo preciso di dividere la famiglia, e di conseguenza impedire tutta una serie di iniziative volte alla salvezza di papà. La famiglia Moro unita era invincibile, per questo, la prima cosa da fare era dividerla. Ne sono sempre stata convinta. Però per favore, su questo specifico punto non fatemi altre domande, non voglio dire di più. Aggiungo solo questo. Il giorno dei funerali della scorta, per esempio, mi fu impedito di partecipare. Alcuni miei familiari decisero per me che io non dovessi esserci e mi lasciarono a casa. Io ci andai ugualmente, ma non essendo con altri, quelli del servizio d’ordine non mi riconobbero e non mi fecero entrare nella chiesa. Rimasi dunque fuori con la folla. Poi vidi passare un anziano poliziotto che a suo tempo era stato scorta di papà, e lui mi fece entrare. Mi chiedo ancora oggi perché diavolo non avessi il diritto di partecipare ai funerali di persone che erano care a me quanto agli altri membri della famiglia. Questa è la mia verità. Dicano quello che vogliono, ma questa resta la verità: il compimento dell’orrore del caso Moro non è stato il 16 marzo ma il giorno dei funerali della scorta, perché quel giorno sono rimasta davvero orfana e senza famiglia. Se lo Stato o chi per esso voleva avere carta bianca nella mia famiglia, doveva togliere me di mezzo. Perché io sono battagliera, coraggiosa, determinante, incurante dei giudizi altrui e del pericolo. E soprattutto fedele, come il mio nome, quindi avrei fatto tutto il possibile per impedire che papà venisse ucciso. Sarei andata tutti i giorni in televisione, mi sarei incatenata al cavallo di viale Mazzini per avere udienza in Rai e dire la nostra opinione pubblica. Avrei fatto entrare in casa un giornalista perché assistesse dalla prima linea agli sviluppi della vicenda Moro, e poi lo raccontasse. Avrei organizzato dei sit-in di giovani davanti al Parlamento e alla sede del governo. Avrei promosso fiaccolate, corte manifestazioni….Qualsiasi cosa. Ma non il silenzio. Perfino mio padre, che non amava la televisione, in una lettera a mia madre le aveva chiesto espressamente di non dare retta a nessuno e di andare in tv per fare un appello. Dalla <>, aveva capito – e io con lui – che l’unica speranza di salvezza era coinvolgere l’opinione pubblica. Dopo i funerali della scorta, me ne tornai a casa. E dal quel momento rimasi in disparte, per aderire a un espresso e pressante desiderio di mia madre di non aprire fronti esterni alla famiglia. Oggi, a distanza di tanti anni sono sempre più convinta che la gestione << silenziosa >> dei cinquantacinque giorni fosse sbagliatissima. In quel periodo, oltre alla tragedia di mio padre nella mani dei sequestratori, dovevo fare i conti anche con altre emergenze. L’ernia del disco. La difficoltà oggettiva di tenere un bambino piccolo abituato a uscire imprigionato in casa, con le serrande abbassate, tipo coprifuoco, per paura che ci sparassero. E soprattutto un senso di impotenza portata allo spasimo. Stare a guardare le cose sbagliate fatte dagli altri e non poterne fare neppure una giusta, può darti, infatti, una devastante sensazione di impotenza. Comunque, ogni volta che ci penso, pur rimanendo della mia opinione, mi sforzo di capire anche le ragioni di mia madre. E giungo alla conclusione che probabilmente lei avesse scelto il male minore, che non potesse fare altrimenti. Arrivo persino a convincermi che, al suo posto, nei suoi panni di madre, forse anch’io avrei agito così. In ogni caso, la morte di papà non ha purtroppo segnato la fine di un incubo, ma l’inizio dell’incubo per eccellenza. Tutte le certezze erano andate perdute, la mia famiglia non c’era più. E io a trentun anni, quanti ne avevo il 9 maggio 1978, mi sono ritrovata da sola su un campo di battaglia, sotto un bombardamento, vittima e protagonista, mio malgrado, di una guerra che non avevo voluto, né provocato. Quella della mia famiglia, e delle persone che le giravano intorno, contro la Dc, accusata di non aver fatto nulla per salvare mio padre. L’accusa, per certi aspetti, era anche giustificata e ragionevole. Ma credo che mio padre non avrebbe voluto che la guerra venisse combattuta dalla sua famiglia, e oltretutto in modo frontale. Perciò, pur non assolvendola, ho cercato di mediare perché i Moro non rompessero totalmente con la Dc. Ma alcuni miei familiari non erano d’accordo. Quando Ciriaco De Mita, allora segretario del partito, mi chiese di candidarmi, rifiutai perché mia madre mi disse che << sarei stata il chiodo della sua bara>>. Qualche tempo dopo, nel 1986, fu la base democristiana a propormi la candidatura al Senato in un collegio difficile in Puglia, e io accettai. Anche perché alcuni avvocati mi avevano vivamente consigliato di farlo per motivi di sicurezza: una carica istituzionale vale come deterrente. La mia scelta non piacque alla famiglia e fu vissuta come uno sgarbo anche dai vertici democristiani. L’unico a inviarmi un biglietto di felicitazioni per la mia elezione, fu Giulio Andreotti. La guerra alla Dc, anche se aveva un suo fondamento, durante il sequestro non era servita a papà; e dopo, quando c’erano ben altre tragedie da combattere, ha isolato noi. Dalla morte di mio padre in poi, io ho vissuto in una trincea virtuale. Perché non volevo lasciarlo solo. Era iniziata immediatamente una campagna di stampa per denigrare,anche dopo morto, la figura di Aldo Moro. Io non volevo permettere che venisse abbandonato e la sua memoria negata, che lui continuasse a essere ucciso di giorno in giorno. Ma così facendo, ho preso tutte le bombe, tutto il livore, tutto lo schifo che era la risposta di quanti si sentivano attaccati dal disprezzo della mia famiglia e dalla verità. Durante il sequestro, tutti avevano fatto di tutto, io avrei voluto fare solo poche cose utili e non potei farle, e dopo mi ritrovai da sola a subire le conseguenze di azioni non mie e che non condividevo. La conseguenza più immediata? Sono stati ventisei tumori….mi mancano sei organi.. Già, è così. E’ stupefacente che io sia ancora viva. L’altra è che mi hanno messa nella condizione di non vita. Io sono esule nel mio paese, per non dire apolide. Hanno creato di me un immagine che non corrisponde assolutamente al vero: quella di una persona volubile, vulnerabile e anche un po’ tocca, nella migliore delle ipotesi non razionale, nella peggiore inaffidabile. Ed è paradossale, perché proprio la mia affidabilità mi ha permesso di restare a fronteggiare da sola, per quasi trent’anni, il tentativo del potere di uccidere perfino l’idea che sia esistito un Aldo Moro. Da sola e con un fardello di inesprimibile sofferenza. La subdola versione ufficiale della mia presunta non sanità mentale. La mancanza di lavoro – si, perché ho perso anche il lavoro – e quindi la mancanza di denaro. E poi, il dolore insopportabile dell’ingiustizia conclamata e quotidiana nei confronti di papà e della verità. E ancora, la perdita migliore delle famiglie possibili. Ma su tutto, l’insopportabile dolore, per me, di mio figlio Luca. Un giornalista, una volta, ha scritto parole straordinariamente giuste: mio padre, di fronte alla morte, ha messo per la prima ed unica volta davanti allo Stato la famiglia; e davanti alla famiglia, Luca. Il dolore di Luca è inenarrabile. Ed è atroce per me non poterlo sanare in alcun modo. La stessa impotenza vissuta nei giorni del sequestro. Questa è stata la mia esistenza dopo la morte di mio padre. E come se non bastasse, non voglio dimenticare – anche se non gli do nessun peso e nessuna valenza – le intimidazioni e le minacce che costellano in varia misura la vita di alcuni, più che di altri membri della famiglia Moro. Minacce e intimidazioni iniziate da quando io ho memoria e proseguite anche dopo il 9 maggio del ’78, e a tutt’oggi, come se Aldo Moro dovesse essere ucciso una seconda volta. Sono convinta che se papà per miracolo dovesse tornare vivo, sarebbe ucciso ancora e ancora. Il suo progetto politico dava talmente tanto fastidio da risultare pericoloso perfino in assenza di colui che lo aveva pensato. Secondo me, i sentimenti di colpa inconfessabili e la relativa rimozione di responsabilità da parte del potere si riverberano sulla nostra vita, la mia in particolare, chiudendo ancora una volta porte e finestre e impedendoci di vivere allo stesso livello di un clandestino. A mio avviso la verità non può essere e non è solo quella conclamata dalle trombe prezzolate del solito potere. I delitti politici avvenuti nel nostro Paese dal dopoguerra in poi andrebbero riesaminati come vere e proprie esecuzioni di persone da far tacere per sempre. Io avrei fatto di tutto per salvare papà. Ma oggi sono sempre più convinta che anche l’impossibile non sarebbe bastato. Ripensando a quei 55 giorni, ripercorrendo ogni fotogramma di quella vicenda, mi rendo sempre più conto di quanto fossero potenti quelli che volevano Moro morto. La mia opinione è che dietro il sequestro ci fosse un potere, una volontà troppo più forte di ogni tentativo che si potesse mettere in atto per salvarlo. L’Onu, la Caritas, la Croce rossa internazionale, lo stesso papa Paolo VI, chiunque tentasse di salvare la vita a Moro veniva bloccato a un certo punto. Era come se, a un certo livello, a un livello talmente alto da risultare più potente di qualunque altro, esistessero delle <> a cui dava fastidio Moro vivo. << Entità>>forse non riconducibili a una sola persona, ma a poteri e lobby. E credo che mio padre, dalla prigione in cui era detenuto, lo avesse ben compreso. Le lettere che mandava all’esterno erano più che vere, e non estorte con la minaccia delle armi o scritte sotto l’effetto di qualche droga, come qualcuno a suo tempo insinuò. Nei suoi messaggi, papà non solo parlava in coscienza, sapendo quello che diceva, ma parlava su più livelli. Almeno quattro: la famiglia, il potere politico, i brigatisti e un misterioso quarto livello che si intuisce dalle indagini, ma sul quale, forse per la ragion di Stato, non si è arrivati a ricerche più approfondite. Appena sequestrato, papà deve aver capito immediatamente chi erano i suoi veri interlocutori e con loro ha cercato di parlare. E’ doloroso pensare che Aldo Moro non abbia avuto dei veri amici. Di questo titolo, infatti, si potrebbero fregiare meno di cinque persone. Altrimenti non sarebbe stato abbandonato e tradito da tutti. Persino da molti suoi ex allievi, ai quali papà aveva dedicato tantissimo tempo togliendolo a noi: lo hanno tradito anche dopo non difendendone la memoria. Mi dà inaudito dolore. Come mi perseguita l’eterno confronto tra il prima e il dopo. Ogni cosa mi ricorda papà e mi da dolore. Una sofferenza a cui si aggiunge infine quella esponenziale e profondamente gratuita che scaturisce da un’ingiustizia: perché non solo noi non abbiamo voce, ma altri, personaggi che non sanno nulla sulla vicenda Moro o denigratori della figura di mio padre o ex brigatisti, invece si, parlano come oracoli in televisione e sui giornali. E forniscono delle versioni che, guarda caso, arrivano tutte sulla stessa conclusione: non c’è più niente da sapere, dietro il sequestro Moro non c’era nessuna entità. E’ un’ingiustizia troppo grande, per essere sopportata. Il 9 maggio del 2006 ho scritto al Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano e ai presidenti delle due Camere, Fausto Bertinotti e Franco Marini. Chiedevo, anche a nome degli altri firmatari della lettera, che i familiari delle vittime venissero almeno equiparati agli assassini nella possibilità di dar voce ai propri sentimenti e nel ricordo dei propri cari. Risultato? Napoletano ha immediatamente risposto e mi ha assicurato di aver trasmesso la mia richiesta alla Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai. Bertinotti mi ha ricevuto con cortesia e celerità. Marini invece, non ha risposto. Almeno fino a questo momento. Sarà perché è un ex democristiano? In effetti, quell’area sembra non aver ancora metabolizzato la vicenda Moro. D’altro canto, finchè il Paese non si sarà fatto carico di questo fardello, non potrà riprendere il suo cammino. Tutti rimarranno inchiodati sul posto fino a quando ognuno non si sarà assunto sulle proprie spalle il peso della sua parte di responsabilità. Ma non sarà così per sempre. Anche se il potere continua a creare terra bruciata interno a noi e a fabbricare versioni di comodo, non c’è niente da fare: prima o poi, tutti, anche i mandanti, si dovranno confrontare con la verità. Questa è una legge cosmica. Maria Fida Moro.
La figlia di Aldo Moro: i brigatisti che sanno non parlano per paura, scrive martedì 5 maggio 2015 “Il Secolo d’Italia”. «Non tutti i brigasti conoscono la verità. E chi sa preferisce tacere. Per paura. Ma non per loro, per i loro cari». Sono parole pesanti pronunciate dalla figlia di Aldo Moro, Maria Fida, in un’intervista esclusiva al settimanale Oggi in edicola mercoledì 6 maggio. La figlia dello statista democristiano trovato ucciso il 9 maggio 1978 spiega: «Se non si farà chiarezza a livello collettivo sulle reali responsabilità della morte di Aldo Moro questo Paese resterà nel fango». Maria Fida Moro racconta anche che il padre tradì una promessa fatta alla moglie Eleonora: «Nel ’74, durante le massime minacce, mia madre si era fatta promettere che avrebbe lasciato la politica attiva. Ricordo che avevano litigato a morte per questo… Mamma non gli aveva parlato per giorni. E lui non sopportava il suo silenzio: per questo decise che avrebbe continuato a fare il professore universitario. E che al massimo avrebbe fatto il presidente della commissione giustizia della Camera». La figlia di Moro quindi rigetta l’ipotesi più volte avanzata dai brigasti secondo la quale fu scelto Moro come obiettivo perché Andreotti godeva di una protezione più alta: «È falso. È una menzogna reiterata! Mio padre non è stato ucciso per sbaglio. Non è stata un caso la sua morte. Ma è stata voluta, ordinata. Aldo Moro aveva, in Italia e in Europa, una funzione di mediazione, di scomoda pacificazione. È stato eliminato perché si voleva arrivare a dove siamo arrivati adesso. A una non politica. A un mondo di soli affari».
La figlia di Aldo Moro: “Reintegriamo i brigatisti, hanno già pagato i loro sbagli”, scrive Ilaria Giupponi il 24 gennaio 2012 su “Il Fatto Quotidiano”. “Li guardo con affetto. Portano dentro un peso perché sanno che non possono rimediare a ciò che hanno fatto. Dopo 34 anni, io sto meglio di loro perché ho un dolore del quale non sono colpevole”. Descrive così, Agnese Moro, le Brigate rosse, parlando degli esecutori dell’omicidio di suo padre, lo statista Aldo Moro ucciso il 9 maggio del 1978. Ospite del Comune di Monghidoro (Bologna) in occasione della rassegna “La verità rende liberi”, la più piccola dei figli del presidente della Dc dialoga con Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione vittime dei familiari della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, sugli interrogativi della storia italiana. “Aldo Moro fu lasciato morire”. Su questo non c’è ombra di dubbio per la figlia del “cavallo di razza” della Dc, secondo la quale ci fu “un’inerzia attiva per far sì che lui non tornasse”. Eppure non c’è rancore quando parla di quelle responsabilità che per lei sono di chiarissima attribuzione. “Penso che i terroristi non vadano guardati come pazzi, ma come persone. Hanno capito che ciò che hanno fatto era assolutamente sbagliato, e alcuni di loro hanno pagato per questo. Ma in questo paese, se qualcuno ha fatto qualcosa di male, noi non lo riprendiamo. Anche se la Costituzione vorrebbe e recita il contrario. Dobbiamo continuare a negargli dei diritti?” Certo, chi ha premuto il grilletto e organizzato il sequestro di Moro non è in discussione: “Io non credo a una volontà al di fuori delle Br”, dice Agnese Moro. “Sicuramente ognuno ha giocato la sua partita sfruttando l’occasione”. “Un formicaietto”, così chiama l’intreccio di poteri che univa servizi segreti italiani a quelli americani, la P2 e i vertici del potere della prima Repubblica fino alle bande armate, “che si agitava intorno a un uomo che combatteva la sua battaglia umana e politica da solo”. E che dal ‘76 stava lavorando all’idea di un governo di solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer, per “rendere la democrazia effettiva. E questo non piaceva a tutti. Mio padre è stato ucciso da quelli che non credono che la democrazia equivalga alla giustizia”. Per quel “formicaietto”, Moro doveva morire, come ricostruisce l’ex giudice istruttore e ora avvocato di Maria Fida Moro Ferdinando Imposimato nel suo omonimo libro, scritto con il giornalista Sandro Provvisionato ed edito Chiarelettere. L’ex magistrato è oggi pronto ad andare a Strasburgo pur di fare luce sulle parole inserite nel 2008 in un fascicolo archiviato della procura di Roma da un militare che avrebbe sorvegliato il covo-prigione di via Montalcini nei 15 giorni precedenti all’uccisione. Non dimentica Agnese Moro, oggi sociopsicologa e ricercatrice: “Noi sappiamo tutto: sappiamo che c’era l’attività esplicita della loggia massonica P2 di cui allora non si conosceva ancora l’esistenza, e sappiamo che il comitato di crisi, il gruppo che governava le indagini sul rapimento, era tutto di appartenenti alla loggia. Quello che non facciamo è trarne le conseguenze”. Ma non prosegue quando Bolognesi ribadisce: “Non dobbiamo dimenticare che pochi mesi prima del sequestro furono cambiati tutti i vertici dei servizi segreti da Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, i Dc allora rispettivamente ministro degli Interni e presidente del Consiglio democristiani”. Per la figlia dello statista assassinato, la ricerca delle responsabilità non avviene solo seguendo la pista giudiziaria. E ricorda: “Ci sono altre verità che non sono state neanche toccate. Come quella politica, certo, ma anche quella sociale. Davvero possiamo considerare le Br gruppetti isolati?”. “La contestualizzazione aiuta a capire più della criminalizzazione. E soprattutto, permette una presa di responsabilità individuale”, spiega Agnese Moro. “Noi italiani ci siamo disabituati a pensare che ciascuno può fare la differenza. Ci hanno convinti che arriverà sempre qualcuno che ci salverà. Ma la ricostruzione di una democrazia non è una cosa che va avanti da sola: è una gigantesca lotta contro poteri che non la vogliono. Siamo disponibili a sacrificare qualcosa, perché questo cammino riprenda?” Durante la serata con Paolo Bolognesi, vengono letti stralci delle lettere che il politico scrisse dalla “prigione del popolo” brigatista di via Montalcini alla sua “Noretta”, la moglie, e la domanda arriva proprio dalle parole dell’uomo assassinato: “Io mi chiedo in coscienza: Zaccagnini (Benigno, allora segretario della Dc, ndr) come fa a rimanere al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa?” Come uomo, oltre che come un pilastro della storia italiana, lo ritrae la figlia. Parla di un Moro tenero, “buffo”. “Un maledetto secchione”, lo definisce la figlia nel libro Un uomo così (Rizzoli), “che andava in spiaggia con giacca e cravatta perché gli italiani dovevano essere rappresentati con dignità”. E conclude: “A casa avevamo due avversari: la politica e i suoi allievi. Tanto che dal carcere scrisse un biglietto al suo assistente pregandolo di scusarsi con gli studenti perché quell’anno non avrebbe potuto portare a termine il corso”. Infine pronuncia un frase che sulla figura di Moro dice tutto: “Gli italiani erano come un membro della nostra famiglia”.
Maria Fida Moro: «Le divisioni in casa non aiutarono mio padre». A 34 anni dal sequestro delle Br, la figlia del leader Dc accusa: il movimento Febbraio 74 seminò zizzania in famiglia, scrive Giovanni Fasanella su “Panorama”. «Mia madre scrisse quella lettera prima di morire per rimediare ad alcune sue decisioni sbagliate. Non è un documento privato, è un testamento storico-politico, perché tocca un aspetto del caso Moro rimasto in ombra: i conflitti in famiglia durante i 55 giorni del sequestro. È giusto che ora venga messo agli atti ed entri a fare parte della storia pubblica». A 34 anni esatti dalla strage di via Fani, molte di quelle ferite non si sono ancora rimarginate. Una sanguina più di tutte: quella che lacerò sin dall’inizio la famiglia del leader dc, rapito dalle Brigate rosse il 16 marzo 1978 e assassinato dopo 55 giorni di prigionia, il 9 maggio. Che in casa Moro qualcosa non fosse andato per il verso giusto lo si era appena intuito. Ma adesso è Maria Fida, primogenita di Aldo ed Eleonora, a sollevare il velo, commentando una lettera scritta nel 2006 dalla madre e mai resa pubblica per l’opposizione degli altri due fratelli, Agnese e Giovanni. Qualche brano della lettera è apparso tempo fa, sul sito online della Stampa. Ma poi sul documento è calato di nuovo il silenzio. Segnata dalla tragedia familiare con 26 tumori in 34 anni e con tre preinfarti negli ultimi due mesi, Maria Fida oggi è in convalescenza. E in questa intervista con Panorama parla del movimento politico Febbraio 74, della presenza di suoi esponenti in casa Moro nei 55 giorni e del «condizionamento» esercitato sulle decisioni della famiglia.
Nella lettera, sua madre Eleonora accenna al movimento Febbraio 74. Perché?
«La storia va raccontata dall’inizio. Durante i primi giorni del sequestro, una giornalista di un settimanale importante, mi pare fosse Dina Luce dell’Europeo, ci chiese di venire a casa per seguire la vicenda Moro accanto alla famiglia. Io dissi di sì, ma gli altri membri si opposero. Ecco, i problemi cominciarono proprio quel giorno».
Perché si opposero?
«Devo supporre che non volessero testimoni, che non volessero far sapere all’esterno quello che accadeva nella famiglia».
Ma che cosa avrebbe potuto mai raccontare, d’imbarazzante per la famiglia Moro, la giornalista Dina Luce?
«È un tasto molto delicato, ma provo a spiegarmi. Qualche giorno dopo il sequestro, i miei fratelli non volevano che io partecipassi ai funerali degli uomini della scorta. Il motivo? Poteva essere pericoloso per mio figlio Luca... Io ci andai lo stesso, ma fui bloccata all’ingresso della chiesa. Per fortuna un agente mi riconobbe e mi fece entrare. Quell’episodio fu l’inizio della guerra in famiglia contro di me e costituì uno dei punti di svolta dell’intera vicenda Moro. La tensione era tale che un giorno mia madre si gettò in ginocchio e, in lacrime, mi supplicò di andarmene via di casa».
Perché lei non poteva rimanere in casa?
«Il nodo è tutto qui. Io mi sarei battuta per fare esattamente quello che papà ci chiedeva dalla «prigione del popolo». Voleva che ci mobilitassimo, che facessimo qualcosa per tirarlo fuori da lì. E probabilmente io sarei riuscita a convincere anche la mamma. Ma forse era quello che qualcuno temeva».
Ma, scusi, la liberazione di Moro non era proprio l’obiettivo della famiglia?
«È ovvio che fosse così. Ma a giudicare dai fatti, chi dava suggerimenti al resto della famiglia doveva essere proprio un pessimo consigliere. Un gruppo esterno aveva «occupato» casa nostra sin dal giorno del sequestro: quelli del movimento Febbraio 74 diretto dall’avvocato Giancarlo Quaranta, cui aveva aderito mio fratello Giovanni».
Quindi, lei in casa avrebbe infastidito?
«Molto.
Ma perché?
«Bisognerebbe capire come ragionavano i leader di quel movimento, dove volevano andare a parare e se a loro volta erano consigliati da altri. Certo è che avevano la pretesa di «gestire» l’atteggiamento della famiglia: loro, non Aldo dalla prigione, non Eleonora dall’esterno, e tanto meno la figlia primogenita Maria Fida che era stata cacciata di casa. Papà, nonostante la sua condizione, se n’era accorto».
Come fa a esserne sicura?
«In due lettere inviate a mamma le diceva di non ascoltare i consigli di nessuno, tanto meno di estranei, e di andare in televisione per invocare una trattativa. Non si fidava di nessuno. E voleva che fosse lui dalla prigione, e noi da casa, a gestire la situazione».
Suo padre conosceva il movimento Febbraio 74?
«Certo che lo conosceva. E lo detestava. I suoi collaboratori mi avevano raccontato che, nelle elezioni del 1976, Febbraio 74 aveva fatto campagna contro la Dc con un manifesto in cui si accusavano i democristiani di essere tutti ladri, e che tra i primi firmatari c’era anche mio fratello Giovanni. Mamma poi riferì che papà si era talmente offeso che, da quel momento, non aveva più voluto rivolgere la parola a mio fratello: comunicava con lui soltanto tramite lei».
Quali consigli dava Febbraio 74?
«Indirizzava la mamma e i miei fratelli verso un atteggiamento che, a mio avviso, non avrebbe potuto mai portare a risultati positivi. Un atteggiamento di chiusura, di astio nei confronti di tutto e tutti. Riuscirono a mettere la famiglia persino contro la Dc. Rimanemmo completamente isolati».
Era a questo che si riferiva Francesco Cossiga, quando diceva che all’interno della famiglia c’era chi si comportava come se non volesse la liberazione di Moro?
«Sembrerebbe un paradosso, ma ho ragione di ritenere che Cossiga si riferisse proprio a questo. Tra le persone che giravano in casa in quei giorni, oltre a tanti cari amici, c’era anche chi sembrava essersi introdotto esclusivamente per dividerci. Di questo io sono sempre stata convinta. Se fossimo rimasti uniti e avessimo seguito i consigli di papà, avremmo fatto tutto il possibile per salvarlo rivolgendoci direttamente all’opinione pubblica. Papà ci diceva che sarebbero bastate le firme di 100 parlamentari per costringere lo Stato a trattare. Ma invece eravamo divisi, isolati, troppo deboli. Inevitabile che finisse com’è finita».
Ma perché sua madre lasciava fare? Possibile che non si rendesse conto?
«Si illudeva che in quel modo potesse limitare i danni mantenendo almeno un’unità formale della famiglia. Sapeva che io avrei comunque rispettato le sue decisioni. Pur non condividendole e sapendo che cosa diceva papà di quel movimento. Pensi che, sin dal 16 marzo, i suoi capi si comportavano come se la nostra casa fosse la loro, sentendosi in diritto persino di spostare cose».
Neppure i suoi fratelli si rendevano conto?
«Erano in simbiosi con quel gruppo. Io cercavo di farlo capire a mia madre. Ma non c’era niente da fare: se fossi rimasta in casa, sarebbe stata guerra continua. Per questo mi chiese di andarmene».
In seguito ha avuto modo di parlarne con sua madre?
«Sì. E lei ha ammesso in lacrime di avere fatto «un macello». L’isolamento esterno della famiglia e le divisioni interne provocate da elementi estranei concorsero a determinare il tragico epilogo del sequestro».
Dopo la morte di suo padre, lei è potuta tornare a casa?
«Sì, ma dopo tanto tempo. Intanto avevo perso il lavoro di giornalista alla Gazzetta del Mezzogiorno, conseguenza dei pessimi rapporti tra la famiglia Moro e la Dc. La mia elezione in Parlamento mi aiutò poi a risalire la china. Tornai a casa perché avevano bisogno di me. La mia indennità parlamentare fu completamente bruciata per pagare i debiti della famiglia, che era rimasta senza reddito finché la mamma non ricevette la sua pensione. Ho dovuto vendere i miei regali di nozze e la mia stessa casa, per aiutare mamma e i miei fratelli. Una vita terrificante. Per le conseguenze subite sul piano emotivo, economico e persino fisico. Ma soprattutto a causa di un terribile, lacerante senso di colpa per non essere riuscita a fare quello che papà ci chiedeva. E che tutti insieme avremmo dovuto e potuto fare, se esterni ritenuti pericolosi dallo stesso papà non avessero controllato ogni mossa della famiglia. Ancora oggi non riesco a capire come sia potuto succedere».
ALDO MORO: FU VERA GLORIA?
Da Sciascia alle Br: la verità (vera) su Moro. A 100 anni dalla nascita dell’ex presidente Dc, Veneziani va ancora controcorrente, scrive "Il Tempo" il 23 Settembre 2016. L’articolo su Aldo Moro a cent’anni dalla nascita ha suscitato un vespaio di polemiche ma vorrei tornarci per ricordare stavolta l’epilogo tragico del Caso Moro, il ruolo delle Br, della Dc e del Pci e cosa scrissero Sciascia e Pasolini di lui. Leonardo Sciascia dedicò all’Affaire Moro un celebre e controverso saggio che fu stroncato su la Repubblica dal suo Direttore, Eugenio Scalfari, già prima che vedesse la luce. Di quella polemica resta uno slogan attribuito a Sciascia: né con lo Stato né con le Brigate rosse. Ma è un’eco sommaria e non veritiera. Il dibattito su Moro fu pirandelliano: cominciò infatti un anno prima dell’assassinio Moro. E nacque dal defilarsi di sedici giudici popolari di Torino di far parte d’un processo alle Brigate rosse. Sciascia, come Montale e in parte Bobbio, comprese la loro paura e la loro sfiducia nello Stato. Ma il Pci, impegnato a presentarsi come il partito dell’ordine e della difesa della Repubblica, considerò queste obiezioni come defezioni. Quando Amendola lo accusò di disfattismo e di nikodemismo (ricevendo il plauso di molti intellettuali, tra cui Lucio Colletti), Sciascia replicò che Amendola rischiava di essere come Liborio Romano, il ministro dell’Interno che passò dai Borboni a Garibaldi senza smuoversi dalla sua poltrona. Poi notò l’uso capovolto delle parole coraggio e viltà da parte dei comunisti: «Se ti conformi a quello che noi facciamo sei un coraggioso, se osi dissentire sei un vile». In un altro scritto Sciascia arrivò a sottolineare l’utilità funzionale delle Br nel quadro del compromesso storico: dopo aver ridotto il dissenso dal Pci al rango criminale e dopo aver destabilizzato il Paese, le Br finiranno quando la loro azione «si rovescerà in una solida stabilizzazione». Non so se la dietrologia arabesca di Sciascia fosse fondata, ma vero fu l’esito da lui previsto dell’azione brigatista: la loro destabilizzazione rafforzò l’establishment, spezzò le aspirazioni al cambiamento e bruciò ogni ipotesi di alternanza. L’intreccio dialettico tra corruzione e violenza è la chiave di lettura dell’Affaire Moro e degli anni di piombo: per il Partito Armato le azioni terroristiche servivano a colpire il Partito dei Corrotti; ma il Partito dei Corrotti a sua volta trovava nel Partito Armato l’alibi per restare sempre al potere: meglio i ladri che i terroristi. Nessun vero cambiamento era possibile: o il compromesso storico o la guerra civile. È il pendolo italiano che Sciascia rifiutava e che ritrovò in Moro e nei suoi carnefici. Perché Moro viene colpito dalle Br? Perché appare ai loro occhi come il Grande Corruttore. Non il Gran Corrotto, si badi bene; anche Pasolini che aveva scritto il primo grande processo alla Dc e al Palazzo, precedendo le Br e i giudici di Mani Pulite, giudicava Moro lo stratega principe e perfino il filologo del Palazzo e delle sue trame, ma non personalmente coinvolto nel malaffare. Allora in che senso Moro era ritenuto il grande Corruttore? In un triplice senso. Grande corruttore perché Moro era stato il più autorevole difensore del Palazzo, della partitocrazia e della Dc nel memorabile discorso (allusivo anche al processo di Pasolini) su Gui, Tanassi e l’affare Lockheed. Non si processa la Dc, disse Moro, gettando le basi per il processo che poi subì da parte delle Br. Moro divenne così agli occhi dei rivoluzionari come il Teologo del Palazzo e dei suoi misteri. Ma Moro era ai loro occhi Grande Corruttore in un altro senso: perché con la sua strategia avvolgente e aperturista corrompeva il Pci nell’abbraccio mortale del Compromesso storico. Dunque andava eliminato, anche per salvare l’anima al Pci, oltre che il destino della sinistra e della classe operaia. L’eliminazione di Moro era anche un modo per decapitare la Dc e consegnarla all’egemonia del Pci che assumeva il ruolo di garante dell’ordine e della stabilità. Congetture, che ebbero uno strascico pesante per Sciascia perché fu querelato per diffamazione da Berlinguer quando riferì una sua opinione, poi smentita, circa le responsabilità dei servizi segreti cechi nel caso Moro. C’era infine una terza ragione per cui Moro appariva come il Grande Corruttore. Una ragione intellettuale, filologica, colta da Pasolini e da Sciascia. Moro inventò un linguaggio incomprensibile di cui fu depositario in vita ma anche vittima (perché nessuno colse i messaggi cifrati delle sue lettere dal carcere delle Br), che secondo Sciascia serviva a tenere oscura e impenetrabile la chiave del potere, Arcana Imperii. La lingua di Moro era per lo scrittore siciliano come il latino usato dalla Chiesa per rendersi incomprensibile al volgo e indurlo in devozione. Una lingua che corrompeva la democrazia perché rendeva i percorsi della politica inaccessibili al popolo sovrano. Sciascia non teorizzò l’equidistanza dallo Stato e dal terrorismo ma criticò questo tardivo e poco credibile conato di fermezza sul caso Moro dopo anni di cedimenti: «dopo trent’anni di corruzione e incompetenza», di violenza e mafia tollerate, di «scuole occupate e devastate» e di trattative con la criminalità. Sciascia si rifiutò di considerare Moro uno statista, ritenendolo privo di senso dello Stato e definendolo «un grande politicante». A Moro rimproverò pure di non aver speso una parola nelle sue numerose lettere dal carcere per la sua scorta che aveva perso la vita in via Fani. Sciascia denunciò la rete larga di connivenze intorno al terrorismo rilevando già nel 1977 che «è in atto un’espansione del partito armato che sta trovando insediamenti sociali». Egli fu il primo a denunciare da sinistra l’ipocrisia sulle Br che per intellettuali, politici e media erano cripto-fasciste: «Le Brigate rosse - lo ribadì in Nero su Nero - erano rosse e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero». Sciascia poi rivelò la contraddizione del 25 aprile: «la marea della retorica sale», dal Pci e dai partiti dell’arco antifascista nei giorni del sequestro Moro ma «il guaio è che quella Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate rosse: credono di esserne i figli». La repubblica italiana e i suoi nemici delle Br si appellavano l’uno contro l’altro alla stessa origine e legittimazione, la Resistenza, ritenendosi entrambi prosecutori. Sciascia poi notava a proposito degli attacchi che riceveva dai paraggi del Pci: «Questa specie di terrorismo verbale è stato battezzato nella stessa parrocchia in cui è stato battezzato quello che spara: la parrocchia dello stalinismo» (Corriere della sera, 21 marzo 1978). Si fronteggiano due stalinismi, aggiungerà nell’Affaire Moro. Sulla vicenda Moro avvenne un tragico gioco delle parti: i partiti che usufruirono della strategia morotea, che spingevano per il compromesso storico, furono gli stessi che decretarono la sua morte, rifiutando la trattativa con le Br; invece il partito che intendeva scardinare la strategia morotea incentrata sull’asse Dc-Pci, vale a dire il Psi di Craxi, si adoperò per salvarlo. Moro fu sacrificato sull’altare del moroteismo. Ma oggi non ci sarà spazio per la storia e la riflessione sul caso Moro, prevarrà come sempre il conformismo celebrativo, e chi si sottrae a quest’orgia disgustosa è bollato di «livore». Figuratevi se un mite teorico, ucciso dalle Br, possa suscitare tanti anni dopo, «livore». Nel paese dei codini e degli accodati, viene scomunicato come livoroso chi esprime dissenso e giudizio critico per amor di verità.
Ripensando a Moro attraverso Sciascia, scrive Valter Vecellio su "L’Opinione” il 24 settembre 2016. Piaceva, a Leonardo Sciascia, “frugare” nelle cataste di libri degli antiquari, alla “caccia” di quella preziosa edizione francese, o di quell’acquaforte ritratto di uno scrittore ammirato e amato. Capitava di accompagnarlo in quel suo girovagare, come quella volta che, felice, aveva recuperato una ventina di volumi de “La Scala d’Oro”, libri che aveva letto e gustato da ragazzo, e che voleva leggessero e gustassero gli amati nipoti. E a dispetto dell’immagine-cartolina che lo vuole taciturno, immusonito, guardingo, era un parlare di tutto e su tutto, e con grande spirito di divertita e paziente ironia. Ma, anche, naturalmente, discorsi e conversare molto serio; come quella volta che, già nella Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, eletto deputato del Partito Radicale, racconta perché aveva voluto scrivere “L’Affaire Moro” che tante polemiche aveva sollevato; e poi perché aveva accettato di entrare nella Commissione d’inchiesta: “Volevo e voglio smascherare quello che mi pareva e mi pare un delitto. Perché Moro è stato ucciso due volte: dalle Brigate Rosse e da coloro che lo hanno negato, che lo hanno disconosciuto, che hanno detto cioè di non riconoscere nel prigioniero delle BR il Moro di prima”. E ancora: “Quelli che lo hanno negato, non possono restare nascosti dietro la ragione di Stato. La ragione di Stato potevano anche difenderla, ma non dicendo che Moro era diventato un altro. Moro era rimasto indefettibilmente fedele a se stesso, a se stesso cristiano, soprattutto democristiano. Presentarlo come impazzito di paura è stato, cristianamente, umanamente, un delitto”. Nel ripensare a quelle parole, come non riconoscere che dobbiamo farli, eccome, i conti con Aldo Moro; e più propriamente, forse, si deve anche dire che Moro aspetta dal 16 marzo del 1978, che tutti noi si faccia i conti con lui. E sono tanti, a partire proprio dai suoi ultimi cinquantacinque giorni di vita, da quel 16 marzo quando viene rapito dalle Brigate Rosse, al 9 maggio, quando viene ritrovato morto a Roma, dentro la famosa Renault rossa, in via Caetani. In che senso fare i conti: nel senso che ne dà Leonardo Sciascia in una lunga intervista al settimanale francese “Le Nouvel Observateur” nel giugno del 1978: “Moro morendo, nonostante tutte le sue responsabilità storiche, ha acquistato un’innocenza che rende tutti noi colpevoli, dunque anche me. Sono rimasto molto scosso dalle sue ultime volontà, che mi rammentano quelle di Pirandello. Il fatto è noto... Pirandello era fascista, ma ha voluto essere sepolto completamente nudo per paura che lo vestissero con la divisa fascista, come avevano allora l’abitudine di fare per i dignitari del regime. Morendo, Aldo Moro si è, per così dire, spogliato della tunica democristiana. Il suo cadavere non appartiene ad alcuno, ma la sua morte ci mette tutti sotto accusa”. Per “L’Affaire Moro”, che ancora oggi è di preziosa lettura, Sciascia patisce una delle innumerevoli “lapidazioni” che di volta in volta gli sono riservate da destra e da sinistra. Il punto centrale della questione è questo: si accredita, si è accreditato, un Moro di prima, “grande statista”; poi un Moro prigioniero che non ha il senso dello Stato. Moro uno e due, insomma. Una grande mistificazione. Aver accreditato, aver letteralmente inventato un Moro “grande statista” (mentre è stato un grande politico, ma senza il senso dello Stato, che ne aveva, per esempio, un Alcide De Gasperi), è quello che, per Sciascia, è il secondo delitto consumato; da chi, appunto, lo ha disconosciuto. Il punto centrale, il nodo del dramma: Moro anche in quei 55 giorni di prigionia è lucido e continua a pensare come ha sempre pensato; e lo si riduce a un “pazzo”, un “plagiato”. Ci è stata offerta in quei giorni quella terribile mistificazione. Moro è solo, negato, tradito. È in quei 55 giorni, e attraverso le lettere che Moro può scrivere e far recapitare, che abbiamo il ritratto più autentico del personaggio: politico con due soli princìpi: la sua radicata fede cattolica e lo spirito di libertà. Per il resto, come osserva Sciascia, “c’erano la trattativa, la mediazione, la duttilità continua. Non era un uomo da cozzare contro la realtà. Era un uomo che qualsiasi realtà si proponeva di far ingoiare nelle sabbie mobili del cattolicesimo italiano”. Per quel che riguarda il dover fare i conti con noi stessi: si tratta appunto di quel pantano, quella micidiale sabbia mobile fatta di mistificazione e conformismo che si muove contro il Moro senza più potere, e avvolge l’intero Paese, tutti noi. Innegabile, per esempio, che i principali mezzi di informazione si siano comportati ignobilmente, in quei giorni; per non parlare della classe politica, con pochissime eccezioni; e per tutti quei pochissimi faccio tre nomi: Bettino Craxi, Marco Pannella, Umberto Terracini, il Partito Socialista, il Partito Radicale, un comunista “eretico”, per il quale la verità contava sempre più e prima del partito. Sciascia comincia sempre i suoi lavori con una frase emblematica che è un po’ il simbolo-guida di quello che vuole scrivere. “L’Affaire Moro” si apre con un paio di righe tratte da “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”. Agghiacciante e terribile. Più oggi, forse, di allora.
«Vi racconto la storia dimenticata del giovane Aldo Moro di destra». Gli anni de La Rassegna raccontati da Marcello Veneziani alla vigilia del centenario, scrive Michele De Feudis il 22 settembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La storia dimenticata del giovane Aldo Moro, intellettuale «di destra», ostile al Cln e agli eccessi dei partigiani, con sensibilità riconducibili al reazionarismo dell’Uomo Qualunque. Questo è il ritratto tracciato da Marcello Veneziani, scrittore e filosofo barese, nel dialogo con il Corriere del Mezzogiorno alla vigilia del centenario della nascita dello statista pugliese. Veneziani, dal 1998 a Maglie c’è una statua di Moro con l’Unità sotto il braccio.
Si può ridurre il suo itinerario politico-culturale alla prospettiva del compromesso storico Dc-Pci?
«Quel ritratto scultoreo si presta ad una volgare mitologia: Moro come una sorta di comunista di complemento. C’è invece da riprendere un tassello sconosciuto della sua biografia che ribalta tanti stereotipi».
Da dove partiamo?
«Da un articolo scritto da Giuseppe Tatarella, negli anni Sessanta, intitolato “Quando Moro non era Moro”. Allora Pinuccio era un giovane avvocato, giornalista del combattivo periodico “Puglia d’Oggi””.
Su cosa si fondava la polemica del politico missino?
«Risaliva alle idee di Moro nel periodo 1943-46, a Bari. Allora era destrorso, scriveva sul settimanale “La Rassegna”».
Il capoluogo pugliese al tempo era un vero laboratorio nazionale, fucina di idee e futuri leader.
«C’era “Radio Bari”, un fiorire di pubblicazioni come “l’Avanti” di Eugenio Laricchiuta, l’azionista “Italia del popolo” e il primo giornale non clandestino del Pci, “Civiltà proletaria” diretto da Michele Pellicani. Si stampava anche “il Manifesto”, primo giornale neofascista, diretto da Pietro Marengo, e “L’Italia liberale” di Giuseppe Perrone-Capano».
Che orientamento aveva La Rassegna a cui collaborò Moro?
«Vi scrivevano accademici che oggi si direbbero di centro-destra: Pasquale Del Prete, Francesco Maria De Robertis…».
Dei trascorsi giovanili nei Guf dello statista pugliese ne scrisse già nel dopoguerra Nino Tripodi nei saggi “Italia fascista in piedi” e “Intellettuali sotto due bandiere”.
«Su La Rassegna, invece, emerge un Moro sottilmente antipartitocratico, che sferza anche la Dc e fa trasparire sintonie con l’Uomo Qualunque».
Un Moro di “destra”?
«L’8 maggio del 1945 Moro scrive: “Le destre come consapevolezza storica, come visione realistica della vita umana, come misura vigile contro le tentazioni dell’entusiasmo, non possono e non debbono essere sconfitte”».
A che categoria si riferisce?
«A una destra come mentalità o fattore prepolitico che si caratterizza per realismo».
Come declina questa sensibilità?
«Distingue così tra destre e sinistre: “le prime pronte a riconoscere valore all’ideologia avversaria, finché non diventi esclusiva, le seconde portate invece a negarle del tutto, se pure si adattano per ragioni tattiche, al compromesso della convivenza”. Evidenzia la tentazione illiberale di certe sinistre».
Cosa temeva il giovane intellettuale della sinistra nel 1943?
«Moro condivise la battaglia de “La Rassegna” contro gli eccessi del Cln. Scriveva nel 12 marzo del ’45 che “la milizia irregolare” dei partigiani richiamava “spiacevoli ricordi della rivoluzione permanente e del suo presidio armato… noi guardiamo con tanto timore l’esercito dei partigiani… e certe spavalderie da bravi”. Intuì i rischi di una guerra civile nella quale i gruppi partigiani più estremisti “si facciano persino giustizia da sé. E di che giustizia si tratti si può bene immaginare”. Per un uomo mite e prudente come Moro, questi scritti furono una rilevante presa di posizione in un periodo nel quale si andavano definendo gli spazi d’azione tra le varie forze politiche democratiche».
Come fu accolta questa posizione nell’Italia del tempo?
«Per La Rassegna, notava Tatarella, fu coniata da “Civiltà Proletaria” e da “Italia del popolo” la nuova parola “neofascismo”: Moro e l’intera redazione furono tacciati di avere origini fasciste mal celate e di carrierismo e opportunismo».
Poco dopo entrò nella Fuci.
«Un percorso in polemica con la Dc ciellenista guidata a Bari da Troisi e Calcaterra. Poi le vicende della storia, il realismo politico e forse il cinismo, portarono Moro verso sinistra».
La fatalità del destino ha dato forma alla preveggenza dei suoi timori giovanili.
«Conservò sempre l’indole moderata, un orientamento di destra sociale, figlio della dottrina sociale della Chiesa come formula efficace per superare gli scontri di classe. Purtroppo non aveva fatto i conti con la “giustizia armata” delle “milizie irregolari”, le Br…».
L’improbabile santificazione dell’ex "fascista" Aldo Moro, scrive il 20/09/2016 Marcello Veneziani su "Il Tempo". Giovedì sarà il centenario della nascita di Aldo Moro e al Quirinale sarà celebrato solennemente come grande statista. È in corso pure un processo per canonizzarlo. Con tutto il rispetto che si deve a una vittima delle Brigate rosse e a una fine intelligenza politica, Moro non fu né un santo né un grande statista. E non lo dico perché Moro fu il teorico dell’apertura a sinistra e poi del compromesso storico, ma perché in lui il senso dello Stato e ancor più della Nazione fu sempre subordinato al senso del Partito e del Potere democristiano. Le sue esperienze di governo non furono molto significative per l’Italia, non si ricordano grandi riforme e grandi opere legate al suo nome. Non paragonabili, non dico a De Gasperi ma neanche a Fanfani. Di lui si ricordano le ambiguità e i teoremi, i funambolismi e le fumosità lessicali, sferzate anche da Sciascia e Pasolini. Da Ministro degli Esteri si ricordano pagine amare per il nostro Paese, la sua dignità e la sua integrità, con Tito e con Gheddafi, con l’est comunista e gli Stati Uniti. Mai l’amor patrio fu così flebile e avvilito in Italia come al tempo di Moro (non solo a causa sua). La sua tragica fine nelle mani sanguinarie delle Br suscita ancora dolore e pietà. Ma alcune sue lettere dalla prigionia non spiccarono affatto per senso dello Stato. Per non dire dell’affare Loockeed, la sua difesa della partitocrazia e lo scandalo dei petroli che coinvolse suoi stretti collaboratori. La sua biografia rivela una brillante carriera politica e accademica ma non è quella di un santo o di un grande statista. Per cominciare, imbarazza quel che il professor Moro scrisse nel corso universitario del ’43 sullo Stato circa la razza, considerato «elemento costitutivo della nazione». «La razza - scrisse Moro - è l’elemento biologico che creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare dell’esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo delle particolarità dello Stato». Nel periodo che va dal 1943 e il 1946, Moro fu tra i fondatori del settimanale barese La Rassegna, che fu accusato di neofascismo e qualunquismo dalla sinistra. Nei suoi scritti di allora, Moro diffida dei partiti, Dc inclusa, si appella agli apolitici e agli indipendenti, guarda con simpatia all’Uomo qualunque di Giannini e al governo Badoglio e non disdegna di dichiararsi a certe condizioni «uomo di destra». L’8 maggio del ’45 Moro scrive: «Le destre come consapevolezza storica, come visione realistica della vita umana, come misura vigile contro le tentazioni dell’entusiasmo, non possono e non debbono essere sconfitte». Moro si riferisce a una destra come temperamento, come mentalità; rispetto ad esse «noi siamo di destra limitatamente a questa serena realistica considerazione». In precedenza, Moro aveva notato la differenza di stile tra destra e sinistra: «le prime pronte a riconoscere valore all’ideologia avversaria, finché non diventi esclusiva, le seconde portate invece a negarle del tutto, se pure si adattano per ragioni tattiche, al compromesso della convivenza». Quasi proiettando i tratti del proprio carattere nella destra, Moro notava che «la ragione della debolezza delle destre» fosse in quella «timidezza cauta» che non incendiava le masse «galvanizzate dalla irruenza veemente della intransigenza di sinistra». Di destra sociale, si potrebbe dire, perché Moro impiantava i suoi valori di libertà e di realismo sulla dottrina sociale cristiana. Del resto, la sua stessa iscrizione alla Dc nel ’46 avvenne su spinta dell'arcivescovo Mimmi di Bari, un conservatore che lo aveva nominato segretario nazionale dei laureati cattolici e poi lo aveva sostenuto alla guida della Domus Mariae per frenare le aperture a sinistra nella Dc di un altro ex-fascista e dossettiano, Amintore Fanfani. Moro condivise la battaglia de La Rassegna contro il Cln, contro le epurazioni e l’egemonia dei partigiani. Scriveva il 12 marzo del ’45 che «la milizia irregolare» dei partigiani richiamava «spiacevoli ricordi della rivoluzione permanente e del suo presidio armato... noi guardiamo con tanto timore l’esercito dei partigiani... e certe spavalderie da bravi». E temeva soprattutto che le armate partigiane, godendo di perfetta autonomia, «si facciano persino giustizia da sé. E di che giustizia si tratti si può bene immaginare». Per un intellettuale dal linguaggio paludato come Moro era già un significativo esporsi. E infatti fu accusato dai giornali baresi di sinistra, Civiltà Proletaria e Italia del popolo, di «neofascismo» e «attendismo carrierista». L’accusa era questa: questi redattori già fascisti, fanno ora gli indipendenti, perché non hanno ancora capito a quale partito convenga oggi affiliarsi. Moro si staccò dal giornale qualunquista alla fine del '45 per dedicarsi alla Fuci, in polemica con la Dc troppo legata al Cln. Ma conservò l’indole moderata di chi voleva narcotizzare l’avversario e sedare i conflitti. Tentò la stessa così decenni dopo col Pci, ma non fece di fatto i conti con la «giustizia armata» delle «milizie irregolari», di cui aveva scritto nel ’45... È grottesco pensare che nella sua città natale, Maglie, fu eretta la statua di Moro con l’Unità sotto il braccio. Intanto prosegue il processo di santificazione di Aldo Moro, servo di Dio, promosso da due suoi fedelissimi, Luigi Ferlicchia, presidente del centro studi Moro e Nicola Giampaolo, postulatore della canonizzazione. Ferlicchia è pure convinto che Moro sia stato vittima del Kgb sovietico: ricorda un borsista che seguiva le lezioni di Moro, Sergeij Sokulov, agente del Kgb, che avrebbe condotto Moro per braccio nel rapimento di via Fani. Una tesi condivisa da due stretti collaboratori di Moro, Franco Tritto e Renato Dell'Andro. Misteri, come la sua prigionia e la linea dura della Dc e delle istituzioni nelle trattative. L'uccisione di Moro brucia ancora, ma come diceva Sant’Agostino, non è la pena ma la causa a fare i martiri. I veri santi si sacrificano nel nome della fede cristiana (non democristiana), dedicano la loro vita a opere di carità, compiono miracoli, avvicinano a Dio. Moro rientra in questi canoni? Un San Moro politico c’è già: è San Tommaso Moro, primo martire della Brexit, perché cinque secoli fa si oppose allo scisma anglicano dall’Europa cattolica e pagò con la vita. Aldo Moro fu ucciso perché cercò il compromesso storico, che non piaceva a tanti, tra cui gli Usa, l’Urss e i brigatisti rossi. Il suo era un disegno politico, non della Divina Provvidenza. Marcello Veneziani
Su Aldo Moro dette troppe cose sbagliate, scrive il 22/09/2016 Giuseppe Fioroni su “Il Tempo”. Giuseppe Fioroni Presidente della Commissione d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Devo dire con rispetto, ma in spirito di verità, che Marcello Veneziani mi ha deluso. Non discuto il diritto di sfidare l’opinione di quanti - e sono la stragrande maggioranza - considerano Aldo Moro una figura eminente della nostra Repubblica; viceversa discuto la semplificazione che porta addirittura a denigrare le qualità politiche e morali dell’uomo, tanto da negare che gli si possa attribuire la qualifica di statista (sulla santità, chiaramente, non mi pronuncio). Perché tanto livore su Moro? Nell’articolo apparso martedì scorso su queste colonne Veneziani, appunto, adombra la mancanza di visione e l’insufficienza di leadership. Eppure Moro, artefice nel 1962-1963 del primo centrosinistra organico, seppe offrire alla Nazione una prospettiva di crescita democratica, allargando la base della partecipazione popolare alla vita dello Stato. Cattolici e socialisti, rimasti fuori dal processo risorgimentale, finalmente ritrovavano la loro funzione attiva nella cornice di un comune impegno patriottico. Questa è stata, in politica interna, la grande trasformazione degli anni ’60. Ed essa esprime esattamente il contrario di quello che Veneziani afferma a proposito del rapporto di Moro con il potere. In Moro il senso della collettività nazionale (e della persona) prevale di gran lunga sull’appartenenza di partito e non viceversa. Moro lo aveva del resto già dimostrato nei lavori della Commissione preparatoria per la Costituzione, quando, dialogando e confrontandosi con socialisti, comunisti e azionisti, contribuì...
Quella destra che non ha mai capito le aperture di Moro, scrive Luciano Lanna il 21 settembre 2016 su "Il Dubbio". Una risposta all'articolo di Marcello Veneziani sul "Tempo". In realtà il processo di canonizzazione non c'entra proprio niente. Perché la polemica contro la presunta "santificazione" di Aldo Moro, contro cui si scagliava l'intervento di Marcello Veneziani di ieri sul quotidiano romano Il Tempo, non è altro che la riproposizione del giudizio che una certa area (in realtà trasversale) della politica di questo Paese ha da sempre riservato all'ex statista e leader politico pugliese. Ripetere, infatti, che Moro non espresse significative esperienze di governo, che «non si ricordano grandi riforme e grandi opere legate al suo nome», che anzi emergerebbero di lui «ambiguità» nei confronti di Tito o di Gheddafi, che la sua figura sarebbe simbolo della deriva democristiana nei confronti di una politica di respiro nazionale, significa non solo confondere le acque ma soprattutto non affrontare tutti i nodi irrisolti che - a nostro avviso - appaiono in tutta evidenza attraverso la lettura del ruolo svolto nella politica italiana del secondo dopoguerra da Aldo Moro. Il quale, invece, resta come uno dei principali "avatar" dell'interpretazione complessiva della storia politica del nostro Novecento. Il tragico destino, sia umano sia politico, di Moro insieme a quello di altri due statisti significativi dello stesso secolo come Mussolini e Craxi - ferma restando la differenza di epoca e di scenario - è a nostro avviso un capitolo ancora tutto da chiarire nelle sue implicazioni generali, soprattutto di ordine internazionale e geopolitico. Non c'è infatti bisogno di scomodare i lavori di Giovanni Fasanella, che restano comunque estremamente utili, per avvicinarsi alla complessità di azione di politica estera nazionale che i tre statisti succitati esercitarono più o meno direttamente e di cui, in buona parte, finirono anche vittime. Non si può, in altre parole, parlare di Aldo Moro - e del suo centrosinistra - senza far riferimento, soprattutto, alla sua politica estera. Che si poneva in continuità con quella vocazione nazionale italiana che, partendo da Crispi e Giolitti, e passando per Balbo e Mussolini, arriva in linea diretta sino all'episodio di Sigonella con il governo Craxi. È una politica terzaforzista e d'indipendenza nazionale che, all'epoca di Moro, di concerto con le strategie dell'Eni di Enrico Mattei, approfondisce una nostra linea autonoma nel Mediterraneo tra Nord e Sud e tenta un'intesa con i Paesi arabi anche oltre la logica di Yalta Est/Ovest. Una politica che, tra l'altro, puntava ad affrancare l'Italia dall'egemonia francese e britannica e sosteneva una nostra indipendenza energetica. Dentro questo c'è, ovviamente, quello che sarà chiamato il "lodo Moro" nei confronti dei palestinesi, ma anche una certa distensione nei confronti dell'Est comunista. Una scelta geopolitica che cozzava contro le forze - traversali - che erano schierate per altre opzioni: la preferenza per le Sette Sorelle petrolifere, l'occidentalismo spinto in politica militare, la Confindustria come alleanza economia collaterale interna. Stava insomma in queste scelte il cuore di quel centrosinistra Moro-Nenni che, sin dall'inizio, scatenerà contro di esso tutti i suoi avversari interni allo schieramento politico e parlamentare nazionale. Tanto che, per guardare agli ambienti da cui proviene l'articolo di ieri sul Tempo, anche lì, d'altronde nei primi anni Sessanta, ci fu chi si pose il problema di dove collocarsi. Tra questi Luciano Lucci Chiarissi, un ex repubblichino che "rompe" con il Msi e crea un soggetto in cui si aggregano postfascisti che, a sorpresa, guardavano con simpatia alle politiche di Aldo Moro, Pietro Nenni ed Enrico Mattei. «Si stava costruendo - racconterà Lucci Chiarissi in un libro degli anni Settanta - un vero miracolo economico, c'era un'Italia viva, malgrado ogni apparenza ufficiale, per la prepotente energia costruttiva degli italiani. I quali, proprio attraverso tanti avvenimenti, guai e vicissitudini, avevano aperto gli occhi sul mondo, e più non si accontentavano della meschina realtà che per secoli li aveva tenuti prigionieri, nei borghi e nelle loro case, di una società fossile. Erano sorti dovunque cantieri, fabbriche, centri di lavoro. Forse a modo loro gli italiani tentavano così di riscattare le ore della disfatta bellica... ». Ma nonostante ciò buona parte degli ambienti della destra italiana, rilevava amaro Lucci Chiarissi, non solo non seppero comprenderlo ma, in realtà, si posero dall'altra parte. L'Italia di Aldo Moro venne infatti snobbata con la banale battuta di "Repubblica fondata sulle cambiali". Proprio contro questo, Lucci Chiarissi, insieme a chi la pensava come lui, aveva fondato, nel 1963, la rivista L'Orologio: «Annibale non è alle porte. E comunque - vi si leggeva - non lo è a causa del centrosinistra». Tanto più che, solo per fare esempio, la riforma della scuola media attuata allora ricalcava il modello di quella mai attuata da Bottai nell'ultimo periodo dell'esperienza fascista. Al contrario, negli anni del moroteismo, la destra missina (e non) sceglie altre intese, come racconterà un eretico quale Giano Accame: «Nella venerazione per l'ectoplasma dello Stato, nelle alleanze di questo Stato e del suo establishment, con delle professioni di occidentalismo che parevano a tratti la ripetizione maniacale di scenari del passato, con gli americani messi al posto dei tedeschi; nel coinvolgimento in tante battaglie di ritardo, per le quali ha poi incontrato di volta in volta compagni di strada in interessi economici o posizioni mentali che non trovavano più altrove copertura, e così sarà per le Sette Sorelle contro l'Eni di Enrico Mattei, con l'establishment contestato contro la protesta giovanile, con l'elezione di Leone alla presidenza della Repubblica». Di contro, le vicende di quegli anni dimostrano un Aldo Moro, fine politico cattolico, teso soprattutto al superamento delle lacerazioni della società italiana, finalizzato a ricomporre un tessuto nazionale unitario in cui tutte le componenti sociali e culturali, finanche politiche, si potessero ritrovare insieme. Non a caso, di lui si ricorda l'accorato discorso alla Camera, da premier, per commemorare con grande rispetto il parlamentare missino Filippo Anfuso. Così come ieri sul Tempo si ricordava l'impegno giovanile di Moro contro le epurazioni e per la pacificazione nell'immediato dopoguerra. Perché, in sostanza, di Aldo Moro il dato centrale sarà sempre la tensione verso l'aggregazione di tutte le componenti politiche del Paese in un progetto ampio e unitario. E se non è questa politica nazionale, che cos'è? D'altra parte, come mai dalle lettere dalla sua prigionia l'ultimo Aldo Moro si rivolse più volte direttamente al generale Vito Miceli, che oltre a essere uomo di sua fiducia e capo dell'intelligence italiana negli anni del suo governo fu anche parlamentare del Msi? Ma c'è un episodio, riportato nel libro di un altro postfascista, Luigi Battioni, uno dei più stretti collaboratori di Pino Romualdi - il vero fondatore del Msi - che mai valorizzato come dovrebbe è forse la migliore replica all'atteggiamento espresso, anche ieri sul Tempo, da buona parte della destra. Racconta infatti Battioni in Memorie senza tempo (Fergen, 2009) che - plausibilmente nel 1977 - una domenica sera Moro si imbatte in Romualdi, personaggio che lui stimava e con cui interloquiva - su un traghetto tornando dalla Sardegna. Riferì testualmente l'esponente missino a Battioni: «Il pensiero di Moro è come una matassa aggrovigliata, ma se hai la pazienza di cercare il bandolo, tutto si snoda perfettamente e il pensiero diventa lucido, preciso come un teorema. Moro è veramente - questo era il giudizio di Romualdi - la testa pensante della Dc, una buona testa…». L'argomento principale del colloquio, comunque, fu sulla necessità di costruire in Parlamento una maggioranza davvero nazionale vasta, per consentire al Paese di affrontare al meglio anni di crisi e di terrorismo. «Inevitabile - spiegò Moro a Romualdi, il quale, pur da uomo dell'opposizione di destra, comunque capiva - che occorre vincere le resistenze popolari e di una certa opinione pubblica per portare nella maggioranza di governo anche il Pci, ovviamente insieme ai socialisti, e così realizzare una coalizione in grado di disporre di oltre il 70 per cento dei consensi e delle forze parlamentari». Stando al resoconto, Romualdi non si scompose affatto, mostrando di comprendere, mentre Moro aggiunse: «Sarà inevitabile ma proficuo per il Paese. Io non mi nascondo le difficoltà per convincere gli elettori moderati e, quelle ancora maggiori, per tenere al passo i comunisti nel governo, affidando loro responsabilità precise, senza possibilità di smagliature, di slabbrature, di sfondamenti a favore di ciò che a loro interessa. Io conosco quello che è accaduto a Praga e conosco il metodo. Ma l'unico all'altezza di tale compito sono io, e io solo…». Una strategia, quella che poi conosceremo come "compromesso storico", la quale tendeva a inglobare, "sdoganare" come si è detto poi, il Pci, disinnescandone le residue pulsioni antisistema e responsabilizzandone la classe dirigente all'interno di un progetto nazionale che - stando a questa ricostruzione - Moro avrebbe voluto, forse, che fosse compreso anche dalla destra. Poi, come è andata la storia lo sappiamo. Con il solo Craxi e i radicali a cercare di salvare Moro, durante il suo sequestro da parte delle Br, attestati sulla cosiddetta "linea della trattativa". E gli altri, inclusa la destra almirantiana, tutti barricati sul fronte della fermezza. Con il risultato, guardando all'area destra dello schieramento politico e culturale, che ancora oggi a fronte della permanenza di una "strategia dell'equivoco" sull'intera parabola morotea non si registra neanche una voce critica nei confronti, per restare al campo democristiano, di figure oggettivamente controverse come Andreotti o Cossiga. E qualcosa deve pur significare.
I posteri pronunciano l’ardua sentenza: fu una vergogna! Morte (e vita pubblica e privata) poco cristiana, parecchio anarchica e per niente eroica di un pover’uomo di Stato, che si credeva lo Stato, ma senza alcun senso dello Stato. Per tacer del “santo”…, scrive Antonio Margheriti “Il Mastino” su “Papale Papale” del 16/05/2012.
Parte 1: La “famiglia pasticciata” del presidente.…mi ha molto colpito scoprire una cosa sulla famiglia Moro. Qualcosa che non la fa proprio corrispondere al santino di sacra famiglia che in contemporanea alla canonizzazione laica di Moro, quale presunto santo dottore e martire (e a momenti pure vergine) di una sorta di res-publica christiana immaginaria, gli è stato dipinto addosso. Viene fuori una famiglia Moro lacerata, con figli contestatori, con la madre che un giorno sì e l’altro pure veniva alle mani con le figlie, di una moglie che aveva pessimi rapporti col marito, di un Moro che ogni sera cercava ogni scusa per non rientrare a casa prima dell’una di notte, di modo da trovare moglie e figli già a letto; che non trovava neppure un piatto coperto, tanto che si faceva un uovo al tegamino da sé nottetempo… Francesco Cossiga, facendomi rimanere di stucco, racconta del periodo che precedette il sequestro Moro: “Io e Andreotti conoscevamo la vera situazione della famiglia, una famiglia pasticciata… con le moglie Eleonora le cose non andavano bene…”
Guardo adesso, l’ho qui davanti, la sezione della mia biblioteca destinata agli studi sui 54 uomini che governarono l’Italia: i nostri capi del governo, da Cavour a Monti. Le ho collezionate non per fancazzismo, ma per una ragione seria. Un tempo, infatti, avevo deciso di dedicarci la tesi di laurea ai nostri (allora) 53 primi ministri, tanto più che mi dovevo laureare alla sezione storico-politica di Scienze Politiche, alla Sapienza. Emblematico luogo accademico quello: da lì, fin dagli albori ad oggi, ma ai miei tempi soprattutto, di capi del governo hai voglia quanti ne erano passati, se ne erano fatti, ci avevano bivaccato, persino governato da quel mio dipartimento. Per tacere della mole di ministri e presidenti di qualcosa che ancora vi pullulavano: nei miei anni di studente ricordo Giuliano Amato e moglie, la Diana Vincenzi (che a un esame di diritto privato quasi mi fece piangere, e come non bastasse mi bocciò tre volte in un mese); ricordo Giovanni Caravale che nessuno sopportava da ministro ma che era peggio da professore, e poi Antonio Marzano ministro di Berlusconi, mezzo governoDini, l’antico Giovanni Galloni, il presidente Capotosti, Fisichella, tanti altri notabili. Spesso avevamo in comune aule e professori con Giurisprudenza, e del resto i locali delle due facoltà si fondevano insieme. Poco tempo prima, sotto le nostre finestre era stata ammazzata Marta Russo, poco dopo era toccato a un altro dell’ambiente: Massimo D’Antona. Anni prima, sulle scale di questa mia tormentata Facoltà avevano assassinatoBachelet, che era accompagnato dalla sua allora giovane (e già brutta) assistente: Rosy Bindi, che lo vide morire; ancora più tardi un altro della nostra Facoltà fece la stessa fine: Ruffilli. Andando ancora indietro con la memoria, c’era stato negli anni ’70 lo scandaloso omicidio-suicidio dei Casati Stampa: il ragazzo che si scopava la marchesa con la benedizione del marchese guardone, era un nostro “collega” di Scienze Politiche. Una Facoltà un po’ maledetta, insomma. Per concludere: mi piaceva l’idea di scrivere la tesi su capi del governo italiani che, a decine, in quei corridoi avevano lavorato: da Salandra a Orlando a Luzzatti, da Amato ad Antonio Segni, da Giuseppe Pella aLeone. E Moro. Sì, Aldo Moro è stato forse il più assiduo e appassionato frequentatore di quelle stanze, non solo come professore ma specie come “maestro”. Ossia: gli piaceva moltissimo il rapporto diretto con gli studenti, circondarsene, fare seminari con loro, persino in case private: si sentiva allora al suo stato naturale, il Maestro per diritto divino e i suoi discepoli per legge di natura. Si rilassava a fare il prof, quasi un hobby. Negli ultimi mesi della sua vita, conscio dell’amore appassionato che una studentessa dell’alta borghesia romana nutriva per lui, che certamente aveva un suo anomalo fascino, aveva cominciato ad accettare di tenere cenacoli accademici con i suoi studenti in casa di questa ragazza. Sequestrato, indirizzò alla ragazza che lo amava ben due lettere, che per motivi immaginabili, e la famiglia Moro e le istituzioni, avevano tenute lontane dai riflettori. Sì, lui che in vita sua, in qualsiasi contesto sempre in cattedra era stato e mai ne era sceso, alla cattedra universitaria ci rimase attaccato ostinatamente anche quando impegni maggiori avrebbero dovuto allontanarlo. E’ di Moro che voglio parlare. No no, mica per fare un’analisi storico-politica del personaggio, Dio me ne scampi: ne sarei capace, sia chiaro, ma la pigrizia me lo impedisce. Oltretutto non servirebbe a una mazza su questo sito. E per giunta mi annoierei da morire: in caso, ci sono tanti libri seri sull’argomento che potreste consultare. Gli stessi che ho qui davanti a me: decine di volumi biografici e analitici, la metà dei quali con la stessa dignità scientifica delle agiografie di santi del primo millennio, pessimi, se escludiamo la prima analisi critica e acida post-mortem, quella di Italo Pietra Moro: fu vera gloria?; libro coraggioso e facondo di un antico cavallo di razza del grande e perduto laicissimo giornalismo d’inchiesta all’italiana, del quale riparleremo. Anche se direi che l’opera più profonda, seria, lunghissima, puramente politologica, e per tutte queste succitate qualità, pedantissima e noiosissima, è quella scritta da don Gianni Baget Bozzo. Teologo mirabile, politologo stimabile, prete malamente, uomo peggiore. Non voglio analizzare né psicoanalizzare Moro, non voglio ricostruire una ceppa di niente. Dice: che scrivi a fa’ allora?, ma statte zitto e nun fa’ perde’ tempo alla ggente! Sì, dovrei chiudere qui il discorso, anche perchè alcuni mi ricordano che Moro ha lasciato al mondo una famiglia assai suscettibile, dalla querela facile, come è anche facile alle recrimininazioni. Per esempio (vi dirò in seguito), l’unico maschio di Moro, il figlio Giovanni, or sono un quattro anni, querelò nientemeno Cossiga, così stimato dal padre, per “diffamazione”. E l’ex presidente, come suo costume, se la legò al dito per poi vendicarsi: da allora, infatti, non perse occasione di sputtanare i Moro, raccontando in pubblico, nelle interviste, nei libri, particolari intimi piuttosto imbarazzanti della famiglia del leader DC. Cossiga era così: se lo provocavi, se lo sfidavi, stante la sua lunga consuetudine questurina con il lerciume degli incartamenti degli italici servizi più o meno segreti più o meno veritieri e più spesso no, dei quali dal Viminale sempre si era occupato, stante questa sua mal-forma mentis, pigliava carte o ricordi con cose riservate su di te, foss’anche una cartella clinica con dentro i cazzi ed emorroidi tua (se eri fortunato), e li gettava sornione in mezzo la strada in pasto al pubblico. Poi, magari pentito o simulando contrizione, porgeva le sue scuse: a buoi scappati, naturalmente… se no che vendetta è? In effetti molte cosette delle quali vorrei dire, dove la gola profonda è proprio manco a dirlo il Picconatore, pure quelle le lascerò cadere: qua non stiamo oltretutto su Dagospia, sito che fra le altre cose pare avesse proprio Cossiga fra i suoi principali cobra soffiatori. E sia chiaro: manco per niente voglio discettare della tipologia di cattolicesimo di Moro, se fosse dossettiano o meno (e non lo è, secondo me, non del tutto). Dice: non vuoi parlare di Moro politico, non di quello cattolico, non vuoi parlare manco di Cossiga cobra, non vuoi parlare de ‘na pippa e nonostante ciò stai blaterando da mezzora… ma de che voi parlà nzomma? Ma di niente. Bazzecole, pinzellacchere, quisquilie. Spunti, ecco, cosette che ho trovato qua e là su Moro, da quel lettore e bibliofilo onnivoro e compulsivo che sono. Cosette che però mi hanno fatto riflettere a lungo. Su questo statista che ho sempre avuto sullo stomaco. E prima di dire perchè non lo reggo, fia cosa laudabile soffermarci un secondo sul termine “statista”. Lo era il Moro? No, direi. Se a questo termine, pomposa Treccani a parte, devo dare la definizione che ne ha dato un uomo attendibile stante il suo curriculum. Tal prof. Francesco Cossiga, sempre lui: “E’ uno statista colui che governa avendo come vero e unico criterio lo Stato. Anche per Mussolini il fascismo era una pseudocostruzione ideologica ma tutta basata sul primato dello Stato. E infatti i grandi statisti italiani sono stati soltanto Cavour, Giolitti, Mussolini e De Gasperi”. Moro no, sostiene questo suo allora giovane prediletto. “Non fu uno statista né un grand’uomo di governo. Fu un grande leader politico-ideologico. Forse il più grande. Laico. Non come Andreotti. Andreotti era il segretario di Stato permanente della Santa Sede. Moro era laico nell’agire”. A proposito di questa sua “laicità” e più ancora del suo essere “leader politico-ideologico”. Ascoltavo qualche mesotto fa Giuseppe De Rita al convegno romano pieno di dinosauri che celebrava il non so più quanti “secoli” della DC – certo è che se li portava malissimo a giudicare dai 2/3 d’ospizio che c’era in sala, e per il restante comunisti scudocrociati, De Mita e Bindi in primis –. Ebbene, il dinosauro di Stato, arcivescovo del dossettismo e dottore serafico del cattocomunismo, De Rita, racconta questo episodio. Anni ’70, Moro e Andreotti aprono una polemica a distanza, sulle illeggibili e anestetizzanti riviste di solfa ideologico-omiletica democristiana, ciascuno su quella della sua corrente o spiffero politico. Moro con dolorante sicumera da abate Faria dice: “La politica ha il compito di orientare e dirigere la società”. Un programma decisamente e radicalmente rivoluzionario, leninista. Risponde Andreotti con gelida cattolica-romana saggezza di alta sacrestia d’altri tempi: “No, la politica non ha il compito di orientare né dirigere un bel niente. Tantomeno la società. Ha semmai il dovere di accompagnarla, sostenerla, assecondarla, seppure in modo vigile, nella strada che ha intrapreso”. Qui si vede l’astrattezza ideologica del primo – pensavo fra me e me – e la concretezza scettica del secondo. Qui, pensavo sempre, si vede quanto la Dc fosse utile, nell’uno e nell’altro caso, al cattolico: almeno quanto a me è utile una cirrosi o un carcinoma. Qui si vede pure, mi dicevo, come Moro abbia potuto teorizzare e realizzare il per nulla casto connubio con i socialisti, la stessa cosa che stava per fare con i comunisti; e, dal canto suo, Andreotti, teorico dell’assecondare la società nel suo cammino, firmare la legge sul divorzio e guidare un governo, il primo, sostenuto dai comunisti. E nonostante ciò, sentirsi la coscienza a posto. Ma non rischiamo di fare della politologia, altra scienza amena gentile omaggio del secolo passato, maledettissimo. Stiamo alle bazzecole-pinzellacchere, come promesso. Da “studioso” della storia dei governi italiani mi sono sempre meravigliato di una cosa. Mentre durante il Regno d’Italia la presidenza del consiglio era il vertice delle aspirazioni e anche del potere dei notabili liberali, poi, con la prima repubblica, le cose son cambiate. Un po’ perchè comunisti e democristiani alla Costituente, diffidenti gli uni degli altri e incerti sull’esito che avrebbero avuto le prime elezioni repubblicane, ancora ossessionati dai fantasmi del governo autoritario fascista, erano interessati, chiunque avesse prevalso, a dar vita a governi di gracile costituzione, anemici di poteri, paralitici nelle articolazioni, rachitici da cadere come foglia secca al primo venticello. Un po’ perchè i democristiani, poi, superata l’era degasperiana, del governo se ne strafottevano. Non erano uomini di stato, erano uomini di potere, talora ideologi, intellettuali, o gente di sacrestia che da perfetti chierici avevano imparato l’arte di non essere ossessionati dalle cariche, smania indecorosa, appariscente, vanitas vanitatis, e anche perché spesso altro non erano che gusci vuoti. Sapevano infatti i giovani marpioni da sacrestia DC, che il potere spesso era altrove, nella sfera magica delle indefinibili alchimie che li raccordavano alle masse dalle quali promanava la potenza che essi avrebbero incarnato come sacerdoti austeri e terribili. Nei partiti, per esempio, nei posti più grigi e apparentemente meno gallonati e appetibili. Ma i DC non erano dei vanitosi, erano uomini di geometrico realismo. Apro qui adesso un libro di storia repubblicana a caso… una Storia dell’Italia Repubblicana di un allora giovane Giorgio Bocca… sfoglio… ecco un esempio: ennesimo governo Moro negli anni ’70, Forlani è chiamato agli interni, il più nobile dei ministeri, ma scocciato e sbadigliante lo rifiuta. Misteri democristiani! Oggi non accadrebbe: magari succede che abbandonano il partito se non hanno ottenuto il ministero. Forlani, da vecchio chierico DC, sapeva però che non stava rinunciando al potere: sapeva di rinunciare soltanto a un potere formale per uno sostanziale; sapeva, da vecchio residuato di sacrestia, che molte volte il vicario generale di una diocesi dal suo posto riesce a contare più del vescovo. È gusto del potere allo stato puro, è roba da intenditori sopraffini. Dunque, cosa mi meraviglia? Voglio ancora insistere sul concetto di prima. Conosco più o meno tutti gli uomini che sono stati ministri della prima repubblica, e conosco tutti i primi ministri di quell’epoca. E mi sono sempre meravigliato (ma fino a un certo punto) di come questi qui talora rifiutassero con assoluta leggerezza se non indifferenza cariche che altri avrebbero ucciso per ottenere. Per una cazzata banalissima rifiutavano di essere ministri degli esteri, per scetticismo e pigrizia rinunciavano al ministero della giustizia, con svogliatezza salivano al Quirinale per essere incaricati di formare il governo, e alla prima scusa se ne lavavano le mani rinunciando e rifilando ad altri l’incarico, che con eguale apatia sì e no l’accettavano. Ma come, mi chiedevo, ma possibile che un figlio di operai, di contadini, di maestri di scuola gli capita l’occasione più unica che rara di essere il successore di Cavour, di Crispi, di sedere sulla poltrona che fu di Giolitti e Mussolini, e se ne sbatte altamente? Probabilmente, mi rispondo, partito di governo senza alternativa la DC, carriere politiche che diventavano al suo interno a vita, per loro non era affatto un’occasione unica e nemmeno rara una poltrona del genere: prima o poi gli sarebbe ricapitata. O più realisticamente, uomini di potere puro, sapevano benissimo che presidenza del consiglio e ministri non contavano davvero quasi una cippa. Il potere era altrove, nel partito, lì era anche il segreto della loro longevità politica. Significa anche che mentre avevano il senso del potere, al contempo mancavano di senso dello Stato. Non è un caso che tutti i democristiani che avevano più senso dello Stato che non del potere, prendi Scelba, videro cessare la loro sfolgorante carriera già negli anni ’50, agli albori della repubblica cioè, mentre evaporavano anche i ricordi del degasperismo, altro uomo tutto senso dello Stato e zero del potere. In questo c’è anche un’altra qualità del chierico democristiano: le virtù da sacrestia della pazienza e della temperanza. O come diceva Machiavelli, “dell’essere golpi per sbigottire i lupi”. Ecco, Moro questo, tutto questo lo aveva capito. Moro era così. Tutti erano concordi nel dire che del governo non gliene fregava nulla. A meno che questo non fosse stato veicolo per realizzare in potenza, come disegno nell’aria, il contesto per un mutamento ideologico, parafulmine terreno di astrattezze speculative, “ragionamenti” che fluttuavano impalpabili lassù nel cielo, nella speranza che presto, non sapendo come e quando, s’abbattessero sulla testa degli uomini, delle cose, della nazione mutandone la forma e la sostanza, polverizzando in un attimo quello che era prima. Sistema di pensiero moroteo, che in soldoni poteva così sintetizzarsi: mutare i massimi sistemi con la forza d’urto dell’inerzia. Con lo scetticismo del “servir non credendo”. E in definitiva accontentarsi del “disegno” soltanto, anche perchè già fare il “disegno” maledetto, per il Moro corrispondeva all’aver assolto al 99% del compito… e questo è quanto! Cose da intellettuali della Magna Grecia appunto, da ideologi, e Moro ideologo era. Un teorico fumoso. Quando nel 1963 gli fu, giovane com’era, consegnata la guida del governo, succedendo al ducetto Fanfani che aveva messo tutti in allarme, non solo per i suoi trascorsi di “mistico fascista”, per la quadrata mascella, le mani sui fianchi, il concionare metallico, isterico e ducesco, ma soprattutto per il suo strafare attivista, nevrotico e alacre, per essersi autoincoronato con la tiara dalla triplice corona di capo del governo, ministro degli esteri e segretario della Dc, ebbene succedendo al Mezzo Toscano sapete quale fu l’atteggiamento di Moro? Di svogliatezza, stanchezza, indifferenza. Era diventato il successore di Cavour e lui non se ne fregava niente, nemmeno ci pensava. Viveva il governo, l’amministrazione concreta del potere, come un impiccio, una faccenda futile. Erano le idee, e più che le idee i disegni fatti col dito ad altezze incommensurabili, fra le nuvole che contavano per lui. Il quotidiano, che è la realtà del governo – gli spazi angusti e delimitati di legalità entro cui si muove, – non lo interessava: le sue astrattezze dai contorni sfumati dovevano fare a meno dello spazio e del tempo, della quotidianità appunto. Lui era già oltre la terra, nel limbo semantico di iniziati angelicati, ancora di forma umana ma già stemperati in essenza acorporale, asessuata, in ogni caso ormai mondati dalle passioni umane e liberati dal destino dei comuni mortali. Creature sospese, a metà fra cielo e terra, semidei. Ecco, così moralmente, politicamente e intellettualmente si percepiva Moro. Era una teologia del potere la sua. La legittimazione a permanere sulla scena a un così svogliato e pessimo governante era data non dai risultati della sua vaporosa azione di governo, ma da una giustificazione per sola fide nella politica come sinfonia di idee astratte, e più che dalle idee dai “disegni” morotei; che poi altro non erano che un “ragionar” allo sfinimento purchessia, disegnar ragionando. Al di là dello spazio e dei tempi, al di là del bene e del male. Per diritto divino, volontà degli arcana imperia, rassegnazione devota della nazione, paralisi provvidenziale del sistema, forza dell’inerzia di Moro stesso. Un simile fancazzista cervellotico in qualsiasi paese normale non sarebbe stato cacciato a pedate dal Palazzo: non ci sarebbe mai entrato a Palazzo: in Inghilterra sarebbe rimasto un direttore delle poste a Liverpool, a Mosca un campione di giochi agli scacchi, in Germani non avrebbe avuto neppure il fegato di essere un burocrate dello sterminio. De Mita era uguale: pur mancando della sottigliezza di Moro, era egualmente incomprensibile: in più aveva la volgarità, fisica, di stile, morale, linguistica anche… mentre Aldo era pur sempre un gran signore; come Moro, De Mita era privo di senso dello Stato, più di Moro però aveva il senso del potere, ma un senso terragno, territoriale, aggressivo, animale, cagnesco, da guappo assessore al bilancio vita natural durante del comune di Nusco. De Mita era un anticlericale e un agnostico, non aveva nessuna reale fede se non come dato culturale, nominale: Moro ci credeva sul serio. Pure le mogli dei leader democristiani erano così… come dire?…donnone de casa, matrioske russe come quelle dei leader sovietici. Se si esclude la signora Leone, la bella e giovane donna Vittoria, della quale però ci si accorse solo dopo l’elezione al Quirinale del marito che pure aveva cariche ininterrottamente dagli albori della repubblica, le altre mogli di notabili DC non solo mostravano totale indifferenza e spesso fastidio per la carica altissima conquistata dal marito; ma questa loro apatia era visibile anche fisicamente, nella sciatteria con la quale si vestivano, si conciavano, si comportavano. Dalla ostinata vocazione all’invisibilità, alla repulsione per i teleobiettivi. E onestamente, massaie rurali e provinciali come erano rimaste, non era manco decenza presentarsi o presentarle in pubblico. Qualcuno dirà che i leaders democristiani sembravano perennemente “vedovi e senza prole”, e forse fu Pansa a dire che in un congresso DC si respirava ferale aria “vedovile” ma al maschile. Tutti indici che ci indicano di quanto poco incidesse, rispetto, che so, alle first ladies americane, il potere, le cariche istituzionali sulla vita privata dei capi democristiani, su mogli e figli. Eleonora Moro gli italiani la conobbero soltato all’uccisione del marito: solo in un’occasione ufficiale in cui era obbligatorio l’accompagnatrice fu vista e fotografata, con un fazzoletto in testa come una contadina marchigiana, accanto al marito. Non mise mai piede in alcun palazzo del potere. Così le altre signore della repubblica. C’è qualcosa di molto curiale, di celibato ecclesiastico figurato in questi atteggiamenti, di monacale e di sacrestanesco. Dopotutto i notabili della DC non abbiamo detto si percepivano come austeri sommi sacerdoti del potere? Dunque, le loro “perpetue” non c’era bisogna salissero sull’altare: la canonica bastava e avanzava. A proposito della famiglia Moro. Difficilmente i grandi leader italiani sono fortunati con i figli. Del resto è difficile competere con padri tanto ingombranti. Se questi padri riescono a mettere al mondo dei figli mediocri è già un successo. Se non ne mettono proprio al mondo, è grasso che cola. Più spesso hanno famiglie penose in tutti i sensi, per mogli e figli. Fin qui parlo in generale. Andando nel caso specifico mi ha molto colpito scoprire una cosa sulla famiglia Moro. Qualcosa che non la fa proprio corrispondere al santino di sacra famiglia che in contemporanea alla canonizzazione laica di Moro, quale presunto santo dottore e martire (e a momenti pure vergine) di una sorta di res-publica christiana immaginaria, gli è stato dipinto addosso. Viene fuori una famiglia Moro lacerata, con figli contestatori, con la madre che un giorno sì e l’altro pure veniva alle mani con le figlie, di una moglie che aveva pessimi rapporti col marito, di un Moro che ogni sera cercava ogni scusa per non rientrare a casa prima dell’una di notte, di modo da trovare moglie e figli già a letto; che non trovava neppure un piatto coperto, tanto che si faceva un uovo al tegamino da sé nottetempo. Chi racconta tutto questo è sì uno che si è legato al dito le insolenze e le eccentricità di alcuni figli di Moro, che “giocano a fare i figli della vittima”; è anche un amico stretto di Moro, col quale il leader si confidava per sfogarsi di tutte le amarezze che subiva in famiglia; è persino un uomo potente, che a sua volta ha anch’egli una tristissima e desolante, nonché fallimentare, storia coniugale alle spalle: è Francesco Cossiga. Il quale, facendomi rimanere di stucco, in un libro con Sabelli Fioretti racconta del periodo che precedette il sequestro Moro: “Io e Andreotti conoscevamo la vera situazione della famiglia, una famiglia pasticciata… con le moglie Eleonora le cose non andavano bene… Se Moro ti incontrava alle dieci di sera eri fottuto perchè ti teneva a discorrere fino a mezzanotte pur di non tornare a casa presto. Lui tornava a casa all’una e si faceva un uovo al tegamino. Quando lessi [nelle lettere dalla prigionia] ‘Dolcissima Norina…’ Andai da Andreotti e gli dissi: ‘Qui c’è qualcosa che non funziona… dolcissima Norina? Ma quale dolcissima Norina?’. Pensi che quando fu pubblicata la prima fotografia da sequestrato lui aveva un cerotto in faccia. Noi dicemmo, mentendo, che tirandolo fuori dalla macchina i brigatisti lo avevano fatto sbattere contro la portiera ferendolo. E non era vero. La verità è che lui era andato a sbattere contro un comodino e si era fatto male cercando di separare la moglie e la figlia”… che se le davano di poco santa ragione. Probabilmente è di Maria Fida Moro che si parla. Vedremo come i figli di Moro prenderanno nella loro vita strade politiche (e non solo) del tutto divergenti dall’indole e dalle idee di Moro. Il guaio più grosso, però, è che cominciarono a imboccarle già a babbo non ancora morto. Sbattendogliele in faccia. E per giunta, nei momenti più difficili e sofferti della carriera del padre. Ora, non c’è cosa più brutta e umiliante nella storia domestica di un padre di famiglia, che ha dato tanto lustro alla famiglia col suo solo lavoro, che ritrovarsela compatta e all’unisono recriminante, tutta contro, nei momenti in cui avrebbe più bisogno del sostegno di ciascuno. È così che Cossiga racconta a Renato Farina questa amara storia familiare dell’amico Aldo: “Non accetto il ruolo di Eleonora Moro come sposa innamorata. Gli rese la vita infernale. Lui resisteva in casa solo perchè tornava tardi la notte. Non voleva mai rientrare, sperava che la moglie dormisse. Altrimenti erano litigi con lei o con i figli da lui amatissimi. Lo ricordo una volta scendere dall’aereo in arrivo da Bari da dove era giunto con la famiglia. Era rabbuiato: gli avevano detto in coro (moglie e figli) che non avrebbero votato Democrazia Cristiana. In quel momento in cui si decideva tutto quanto il loro padre avesse a cuore…”. A proposito di Eleonora, un amico, attivista pro-life, su facebook mi ha raccontato una cosa, che spero (anzi, no) sia vera. Questo amico, dunque, Fabrizio, abitando come la moglie di Moro all’EUR, frequentava anche la sua stessa messa domenicale. Una volta, all’uscita, l’ha voluta salutare. E le ha posto delle domande a tema… cattolico, su divorzio e aborto. Ora non ricordo i termini esatti, però in soldoni la vecchia gli rispose: “Noi dobbiamo molto al femminismo, e a questo è dovuta l’emancipazione. La donna ha il diritto di poter scegliere. Anche se portare avanti una gravidanza”. Se è vero, la Bonino non avrebbe saputo dir di meglio. Il peggio è che si era all’uscita dalla messa. Ma del resto pure il figlio di Vittorio Bachelet, cattocomunista, appena fuori il portone della chiesa, dopo la comunione, si dedicava a esternazioni pro-aborto e pro-ogni-porcheria. E per la verità alla domanda di un giornalista – “dalle lettere di Moro traspare un forte legame con la moglie….” – il figlio Giovanni ha risposto dicendo e non dicendo: “Sì, ma era un rapporto molto… insomma, nella vita famigliare, Moro non era granché presente. Lui usciva la mattina, e magari tornava alle due di notte. Non c’era la domenica, nè le feste… Non ricordo che fossimo andati, neanche una volta a mangiare fuori. Se si voleva chiacchierare con lui, lo si faceva da mezzanotte in poi, e per cena lo si doveva aspettare. Non esisteva la dimensione quotidiana”. Che grossomodo conferma le confidenze di Cossiga. Se non fosse che la stessa Maria Fida Moro a sua volta, a conferma dei cattivi rapporti famigliari, proprio sul fratello Giovanni poco tempo fa ha fatto insinuazioni terribili: Qualche giorno dopo il sequestro, i miei fratelli non volevano che io partecipassi ai funerali degli uomini della scorta (…) Quell’episodio fu l’inizio della guerra in famiglia contro di me e costituì uno dei punti di svolta dell’intera vicenda Moro. La tensione era tale che un giorno mia madre si gettò in ginocchio e, in lacrime, mi supplicò di andarmene via di casa (…) Io mi sarei battuta per fare esattamente quello che papà ci chiedeva dalla «prigione del popolo». Voleva che ci mobilitassimo, che facessimo qualcosa per tirarlo fuori da lì. E probabilmente io sarei riuscita a convincere anche la mamma. Ma forse era quello che qualcuno temeva. La liberazione di Moro non era proprio l’obiettivo della famiglia? È ovvio che fosse così. Ma a giudicare dai fatti, chi dava suggerimenti al resto della famiglia doveva essere proprio un pessimo consigliere. Un gruppo esterno aveva «occupato» casa nostra sin dal giorno del sequestro: quelli del movimento Febbraio 74 diretto dall’avvocato Giancarlo Quaranta, cui aveva aderito mio fratello Giovanni. Quindi io in casa davo molto fastidio. Ma perchè? Bisognerebbe capire come ragionavano i leader di quel movimento, dove volevano andare a parare e se a loro volta erano consigliati da altri. Certo è che avevano la pretesa di «gestire» l’atteggiamento della famiglia: loro, non Aldo dalla prigione, non Eleonora dall’esterno, e tanto meno la figlia primogenita Maria Fida che era stata cacciata di casa (…) Mio padre conosceva il movimento Febbraio 74. E lo detestava. I suoi collaboratori mi avevano raccontato che, nelle elezioni del 1976, Febbraio 74 aveva fatto campagna contro la Dc con un manifesto in cui si accusavano i democristiani di essere tutti ladri, e che tra i primi firmatari c’era anche mio fratello Giovanni. Mamma poi riferì che papà si era talmente offeso che, da quel momento, non aveva più voluto rivolgere la parola a mio fratello: comunicava con lui soltanto tramite lei. Questo movimento indirizzava la mamma e i miei fratelli verso un atteggiamento che, a mio avviso, non avrebbe potuto mai portare a risultati positivi. Un atteggiamento di chiusura, di astio nei confronti di tutto e tutti. Riuscirono a mettere la famiglia persino contro la Dc. Rimanemmo completamente isolati. Era a questo che si riferiva Francesco Cossiga, quando diceva che all’interno della famiglia c’era chi si comportava come se non volesse la liberazione di Moro? Sembrerebbe un paradosso, ma ho ragione di ritenere che Cossiga si riferisse proprio a questo. Tra le persone che giravano in casa in quei giorni, oltre a tanti cari amici, c’era anche chi sembrava essersi introdotto esclusivamente per dividerci. Di questo io sono sempre stata convinta. Se fossimo rimasti uniti e avessimo seguito i consigli di papà, avremmo fatto tutto il possibile per salvarlo rivolgendoci direttamente all’opinione pubblica. Papà ci diceva che sarebbero bastate le firme di 100 parlamentari per costringere lo Stato a trattare. Ma invece eravamo divisi, isolati, troppo deboli. Inevitabile che finisse com’è finita. Ma perché mia madre lasciava fare? Possibile che non si rendesse conto? Si illudeva che in quel modo potesse limitare i danni mantenendo almeno un’unità formale della famiglia. Sapeva che io avrei comunque rispettato le sue decisioni. Pur non condividendole e sapendo che cosa diceva papà di quel movimento. Pensi che, sin dal 16 marzo, i suoi capi si comportavano come se la nostra casa fosse la loro, sentendosi in diritto persino di spostare. Così Maria Fida, la figlia “ribelle”. Non più la “sola”… a quanto pare. InFida? Bah: qui pare molto lucida e sincera. Certe volte mi verrebbe da sospettare – e per la verità, qui pure, è Cossiga che fa filtrare l’insinuazione – che quando i media si scordano del clan dei Moro, questi poi per rinfrescare la loro memoria e finire sui giornali, si inventino un altro nome da aggiungere alla lunga lista di quelli che già hanno accusato di come minimo “omicidio colposo” (e magari pure “premeditato”) nella persona del padre. Tutti, tutti hanno accusato: tranne i comunisti, e Berlinguer, che fu il più granitico e persino leninista spietato assertore della linea della fermezza a qualsiasi costo, a cominciare dalla pelle di Moro. Confessa Cossiga nel suo commovente libro-testamento a Renato Farina proprio a proposito di Giovanni Moro che definisce “matto”: “Devo dirla questa banale verità. Ci si dimentica sempre questo: che gli assassini sono i brigatisti. E che tra coloro che hanno deciso la condanna a morte c’è, e in una posizione decisiva, di intransigenza estrema, Enrico Berlinguer con il suo Partito Comunista (…) Perchè gli assassini di Moro, secondo i suoi familiari, siamo io, Zaccagnini e Andreotti? Avete mai sentito parlare uno della famiglia Moro dire che la linea della fermezza era voluta innanzitutto da Berlinguer e dai suoi? Perchè i comunisti fanno ancora paura (…). Nel suo ultimo libro, quel matto di Giovanni Moro indica queste persone come gli assassini del padre: me, Andreotti, Zaccagnini e… papa Paolo VI! Ancora una volta Berlinguer lo lascia fuori. Nessuno della famiglia l’ha mai lontanamente indicato anche solo come appena appena responsabile. O i comunisti sanno su di loro cose per cui li minacciano oppure la realtà è metafisica e fanno paura in sè”. Paolo VI mò a sentire il clan (Giovanni specialmente) incorreggibile dei Moro, è l’ultimo loro acquisto per completare la collezione già affollatissima di preziosi pezzi da 90, insigniti graziosamente del titolo di “assassini” del padre. Prima o poi tireranno in ballo pure il “destino cinico e baro”. Se non fosse che… a sentire Maria Fida (leggi intervista sopra), pare invece che qualche responsabilità nella gestione confusa della faccenda ce l’avrebbero proprio loro. Il fratello Giovanni in primis. Qualche critico esame di coscienza per ogni membro della vivace famiglia Moro, forse, giunti a questo punto, sarebbe consigliabile. Personaggio curioso assai, questa figlia di cotanto padre. Che si ostina a impicciarsi di politica senza capirne assolutamente nulla – com’è destino dei figli dei grandi politici, specie quelli morti in tragico odor di “santità” laica – facendo solo pasticci. Non capendo che non si fa politica con i sentimenti domestici o con le nevrosi domestiche, che non la si può fare per vendetta, né in memoria del caro estinto, memoria assai spesso travisata da figli stessi non di rado viziati e incapaci di comprendere la reale portata politica dei genitori. Che si tratti di Stefania Craxi o di Maria Fida Moro. Semmai di un vizio dei genitori, quello sì, sono portatori sani (ma non troppo): considerare il potere, le cariche, in una parola la cosa pubblica, come un bene immobile, di famiglia, una proprietà privata, da ereditare pari pari. Per diritto divino e meriti sul campo, assai presunti, dei genitori. Ma dicevo di Maria Fida Moro, già madre di Luca che ha aspirazioni di cantante e, va da sé, qualche testo (e man mano tutti) lo ha “ispirato” al celebre nonno. Ebbene, Maria Fida ha avuto una fulminea e infausta esperienza parlamentare nella X legislatura, dove si è segnalata più che altro per le polemiche inutili e a vuoto ma soprattutto per essersi girata in un solo mandato tutto l’arco costituzionale e oltre: eletta in Puglia, terra del padre, al senato per la DC nel 1987, nel 1990 è già passata al gruppo di Rifondazione, nel 1991 – e qui c’è da ridere! – in quello del MSI candidandosi pure a sindaca fascista di Fermo. Ma mica si è fermata, no! È arrivata a essere fra i fondatori di Alleanza Nazionale, ma l’acqua di Fiuggi deve averle procurato impropri effetti diuretici se è vero che poco più tardi si è candidata alle europee per Rinnovamento Italiano-Dini: un plebiscito: 900 voti, ultima dei non eletti. Nel frattempo aveva trovato pure il tempo di scrivere una commedia teatrale insieme al figlio (io l’ho vista per caso: per carità di patria… fia laudabile tacerci!), naturaliter intitolata “Un 8 maggio”, cioè data della morte di Moro, che a me sembrò una trovata di cattivissimo gusto, come un voler spremere l’ultima goccia di sangue da un cadavere. E probabilmente ha ritenuto di non aver spremuto abbastanza se allo scoccare del Terzo Millennio si è scoperta – dopo essere stata democristiana, fascista, comunista, diniana – fiammeggiante pasionaria del Partito Radicale. Qui pure, alle solite: ha fondato [leggo da wikipedia] l’Associazione Radicale “Sete di verità – che attraversa le nostre vite”, che si propone di affrontare le verità che asserisce negate dal caso Moro ed episodi quotidiani di informazione non veridica, “disattenzioni” delle istituzioni, di impossibilità per le vittime e per gli ultimi di avere voce ed ascolto”. Ovverossia, in termini meno vittimistici, un modo di passare la giornata ad accusare ora questo ora quello, ora Cossiga ora Andreotti, di correità o premeditazione o colposità nel sequestro e uccisione del padre da parte delle BR. Ancora una volta, avrebbe detto Cossiga (lo ha detto al fratello di Maria Fida, Giovanni, l’unico maschio di Moro), il professionismo del “figlio della vittima”. E nonostante tutto questo pandemonio, alla fine non ha neppure partecipato al funerale della madre Eleonora, morta ultranovantenne nel 2010. Funerale, del resto, com’è giusto celebrato dal più vieto clero cattocomunistizzato. Poco prima, il figlio Luca aveva sfornato una canzone blues per il nonno, Se ci fosse luce, avendo il “buongusto” di ricavarne il testo dalle lettere del nonno prigioniero: ospite d’onore in platea, Valerio Morucci, il terrorista delle Br che partecipò al sequestro del nonno e all’uccisione degli agenti di scorta. Tutte le lagne finiscono in blues. E in omaggio alla logica la signora Maria Fida per l’occasione denuncia che non può parlare del padre in televisione perchè “nella tv pubblica di recente hanno rievocato il povero Domenico Ricci, autista di Moro, ed è giusto ricordare le persone non note, però a noi non è stato consentito ricordare Aldo Moro. Inoltre lo Stato in questi anni ha delegato agli ex brigatisti il compito della memoria”. E tutto questo con invitato speciale, allo spettacolino canoro-familista, proprio il sequestratore del padre e l’uccisore della scorta: sempre il Morucci (che plaudente ma spocchioso, per l’occasione s’improvvisa critico musicale, storico, politologo e persino moralista, rievocando proprio l’affaire Moro). Senza contare anche la poltrona d’onore riservata ai terroristi Fioravanti e D’Elia: a momenti dentro quella sala dei Radicali sembrava essere ripiombati negli anni di piombo. Ma come fai a no ride? Leggo ancora: “Maria Fida Moro vorrebbe che l’anniversario della strage fosse l’occasione per ricordare l’umanità dello statista, il padre, il nonno, non c’interessano i misteri. Spesso invece è stato ridotto ad un oggetto nel portabagagli di una Renault”. Ci manca poco che non si precipiti dal “portabagagli” al Bagaglino, seguendo questo andazzo. E ci è andata vicino quando ha detto che vorrebbe fare un film su “com’era mio padre Aldo Moro e vorrei Clint Eastwood come regista”. Anzi, è andata già oltre. Se è vero come è vero che ha aggiunto: ““Questo film surreale comincerà in una buca di quelle usate per la ginnastica artistica piena di palle di gommapiuma e l’attore che impersonerà papà parlerà con un ragazzo a proposito del senso dell’essere. Così comincerà”. ”Per ora – spiega Maria Fida Moro – ho sul tavolo sette ipotesi di sceneggiatura”: quanto i peccati capitali. “Tutte scritte da me”, precisa: una garanzia! ”Luca, mio figlio e nipote adorato da Aldo Moro, scriverà la colonna sonora del film: questa è l’unica condizione che porrò. Nel caso ci servisse un Moro giovane, a interpretarlo sarà proprio Luca, che oggi ha 32 anni”. E siamo già alla seconda, e fatti bene i conti alla decima pretesa: si sa, la mamma è mamma e i figli so piezz e core. Sarà un caso se ancora stiamo aspettando questo capolavoro del kitchs all’amatriciana cinematografica. Mentre non stiamo nelle mutande per l’ansia di assistervi, magari accanto a Moretti: sono passati già 3 anni. Auguriamoci ne passino altri 30. Ma siccome la signora (a cercare su google è una fonte inesauribile la Maria Fida) ama smodatamente la logica, così conclude l’intervista: “Mio padre non era un pacco ma una persona che va ricordata nel giusto modo. Oggi preferisco il silenzio, che è più rispettoso”. Queste furono le ultime parole famose. Ma non le ultime parole. Purtroppo. Ma ora basta, me so’ scocciato de ‘sta lunga premessa de bazzecole-pinzellacchere-quisquiglie. Veniamo al nocciolo della questione. E ancora una volta il casus belli me lo offre la logorroica Maria Fida Moro. “La verità è che se Aldo Moro tornasse, lo ucciderebbero ancora. Lo metterebbero a morte tutti coloro che hanno voluto la sua fine e non parlo solo dei brigatisti. C’è ancora oggi un rancore – nota la signora Maria Fida, autore de ‘La casa dei cento Natali’ – che serpeggia sottile nei confronti di mio padre. Interrogarsi sulla sua morte è come interrogarsi sulla morte di Cristo: come il Nazareno lui dava scandalo perché era buono. Questa era la caratteristica della sua politica: la bontà. Questo era il modo di essere di Aldo Moro: non un debole, ma un grande maestro di coraggio e di pace”. Ci risiamo col santino. Ci risiamo con l’ennesimo gesucristo laico. Oggi per tutti tale è: per la famiglia che certo non addolcì i suoi ultimi anni; per i democristiani che pure fra mille tormenti si erano rassegnati al male minore, salvare lo Stato invece di Moro; per i comunisti per i quali il bene maggiore era non essere assimilati ai brigatisti, costasse anche la vita di Moro; per Paolo VI e il suo “amico buono, giusto, fedele” che proprio così giusto e fedele non doveva essere stato stante la sua freddezza sul referendum divorzista e prima ancora permettendo il compromesso con i socialisti, tramando per l’alternativa con i comunisti, favorendo la progressiva comunistizzazione dei movimenti politici cattolici e della DC stessa alla faccia dell’amico Montini che condannava; per tutti quelli che abbisognano di questo santino come foglia di fico per coprire le proprie vergogne o nascondercisi dietro o per benedire le più immonde alchimie da bassa cucina politica cattocomunista mignon in nome degli “alti volori dei quali sono portatori Moro-Sturzo-De Gasperi”, non capendo manco le enormi differenze fra i tre; per gli appassionati di commemorazioni necrofile ufficialissime, afflitti dalla sindrome comica del “santo subito” e da quella del “santo del giorno dopo” fosse anche un cane ma che è suscettibile di essere sbandierato per ogni verso specie per laddove tira il vento; per tutti i retori della repubblica che magari in quegli anni avversarono Moro e qualcuno, so, brindò persino alla sua morte. Per gli ipocriti. Per quelli che “uccidono i morti”. Per quelli che non li lasciano riposare. Per quelli che addirittura li fanno votare. Moro come il Nazareno, dice la primogenita. E per dimostraci la Maria Fida che è la figlia di Gesucristo, non ha trovato di meglio da fare che partecipare alla marcia della giornata dell’Orgoglio Laico in contrapposizione alla contemporanea marcia della giornata del Family Day, promossa dai laicisti e anticattolici più bavosi e da pederasti assatanati d’ogni risma. Come ci informa, in una aggiornatissima lista dei “promotori”, il forum di lesbiche e bisessuali orgogliosi, che classifica la Maria Fida come “comitato promotore ed esponenti politici”. Quando la Nostra accusa l’universo mondo di ogni sozzura e di fare qualsiasi torto alla memoria e al pensiero, alla vita e alla morte del padre, con un sorriso vorrei mostrarle questa lista, ricapitolarle i suoi più recenti rocamboleschi trascorsi politici e domandarle: “Maria Fida, tesoro, dolce e aspra Maria Fida: tuo padre sarebbe contento di tutto quel che fai per – a tuo e solo TUO dire – onorare la sua memoria? Non ti è venuto il sospetto che così non stai facendo altro che travisarne, svilirne e offenderne quella stessa memoria che credi di magnificare? Non pensi di oltraggiare così facendo, frequentando certe compagnie, anche la fede che fino all’ultimo istante fu quella di tuo padre? Perchè fai tutto questo? Cui prodest?”. Dulcis in fundo, proprio una settimana fa. Maria Fida Moro, annunciano i giornali, mette all’asta l’ultima lettera-testamento che “con le lacrime” la madre Eleonora, morta nel 2010, ha vergato e le ha consegnato nel 2006. E dove, specifica la Fida figlia, non si sa se per dovere di cronaca o per incrementare il valore del povero manoscritto, la madre “ha scritto ai suoi quattro figli per dire cose privatissime”. Restando gli altri 3 figli del tutto contrari a quest’ultima penosa trovata della sorella maggiore. Ma tant’è! Perchè lo fa? Naturalmente – e che te pare! – per “onorare” la memoria del padre, perchè “non abbiamo ancora la verità” (mettendo all’asta le lettere private dei suoi, arguiamo, sarà più facile ottenerla) e soprattutto per “provocare le coscienze”. Di chi? Per cosa? A me m’ha provocato: ma non la coscienza, la nausea. Complimenti! Dopo che ha “onorato” la memoria del padre… adesso è passata a “onorare” per bene la “memoria” della madre. Aveva detto di Aldo la moglie Eleonora: “In politica mio marito era vedovo e senza prole”. E mò abbiamo pure capito perchè.
Moro, dunque, in definitiva era la “bontà”. Un cavallo di razza, un padrone dell’Italia del boom, il regista del centrosinistra, un capo indiscusso e inamovibile di quel partito di equilibri fragili, terribili e cattivissimi, la Dc, nucleo incandescente, principio e fine di ogni potenza, il cinque volte primo ministro Aldo Moro, quindi, altri non era che la “bontà”; ad altro non mirava che alla “bontà”. Alla “pace” anche: tutto fa brodo e oggi è pure chic [i comunisti erano specializzati in premi “Per la Pace Giuseppe Stalin” che poi, quando fu sputtanato, divenne “Premio per la Pace Nicola Kruscev”: davano il nome di “pace” alle loro porcherie più innominabili]. Uno che ha conquistato il potere, l’ha mantenuto sempre e l’ha aumentato volta per volta, con aria imbambolata e pigra, petto flaccido e carni lasse quanto volete ma con pugno di ferro; ebbene, ha fatto tutto questo per “bontà”. Almanco per la “pace”… e “l’amore”…Siete dei bambini, ragazzi! Siamo alle altezze intellettuali di un Fraccazzo da Velletri! Siamo allo zecchino d’oro! Al coro dell’Antoniano! Siete nati bambini e morirete bambini… se avete queste fantasie da fresconi e da gonzi. Gente che pensa così se non è in malafede, è minchiona, non sa nulla del mondo, e non lo saprà mai: non hanno raggiunto neppure quel minimo di malizia prepuberale sufficiente all’autoerotismo come prima scoperta delle proprie pudenda. Ancora una volta si è scambiato un ideologo per un asceta; uno stratega del teorico a lunga gittata per un profeta; uno disinteressato alle cariche istituzionali perchè il potere era altrove, ossia nel partito generalista, la DC, e non al governo, lo si è preso per un missionario; uno tutto concentrato in disegni politici e dunque al nocciolo del potere stesso, per mistico senza secondi fini. Il suo linguaggio fumoso e anestetizzante – soporifero così fatto proprio per non farsi comprendere essendo al fondo convinto il Moro essere la politica roba per grandi iniziati e sommi sacerdoti del potere – si è scambiato quel linguaggio oscuro dunque, per linguaggio “ispirato”, dasapitore delle secrete cose; il suo andare a messa la mattina per un segno di santità personale, e la sua politica stessa di riflesso come esercizio della santità, e allora non si capisce perchè non possa esserlo anche per uno persino più assiduo come Andreotti (del quale ho grande stima) e per tutto il gotha democristiano. E questa olezzo di santità veniva sottolineato quando nei fatti si allargava sempre più, in contemporanea con la sua Azione Cattolica, il fossato che lo divideva dal Magistero sociale e morale della Chiesa; si è scambiata la sua mollezza, il suo scetticismo, per mitezza, carità e pazienza cristiane… mentre invece era il totale disinteresse dell’ideologo e dell’intellettuale per la gestione pratica della quotidianità istituzionale, per il quotidiano politico, dei bisogni umani immediati dello Stato. Dal momento che certi tipi così percepivano la politica come organizzatrice e suscitatrice di “pensiero”, anche contorto e inutile ma sempre “pensiero”, purchè alieno dall’azione, “pensiero” che poi altro non era che rinuncia, astensione dall’agire. Alibi alla pigrizia e stitichezza etica, in fine. Cazzeggio. Il cazzeggio del “ragionamento” politico, con cui ci hanno macerato per decenni l’anima e i coglioni i Dc di sinistra. Pensieri e parole, cazzeggi, che per questi qui erano già “azione”, la forza invincibile dell’inerzia che sfinisce. Estranea all’oggi, tutta proiettata in un futuro che era di là da venire ma che però esisteva nel loro “pensiero”… senza immaginazione. E a questo “pensiero” inerte e nato morto, anzi mai nato, doveva essere soggetta, piegata, sottomessa, si doveva adeguare la realtà. In Moro non era il pensiero che si adattava alla realtà, come poteva essere nel duttile Andreotti, anti-ideologo per eccellenza, ma la realtà che doveva adattarsi al “pensiero”. Possibilmente, secondo Moro, l’unico che potesse dirsi tale, che avesse dignità e sostanza politica: il suo. Infine, si è scambiato il suo sequestro e la sua esecuzione, come un volontario andare incontro alla croce, per un martirio di redenzione. E così non è stato. Prima di tutto perchè i brigatisti non erano gli antichi romani, e nemmanco il sinedrio se non nel fanatismo, ma una manica di imbecilli. Secondo, perchè Moro incontro a quell’inutile destino non aveva alcuna voglia di andarci, e quando ci si è ritrovato dentro ha fatto di tutto per uscirne, costasse quel che costasse anche lo sfondamento dello Stato e lo sputtanamento di tutti i suoi amici. Non esattamente un martire. Né tanto meno uno che per il semplice fatto di essere stato ucciso (come tantissimi in quegli anni) dalle Br è degno di essere, come pure fin troppi pazzi hanno sostenuto, beatificato financo con regolare processo canonico. Tanto più che le Br uccisero proprio lui non in quanto cattolico, ma in quanto ideologo e stratega del patto d’alleanza in prospettiva dell’alternanza fra la Dc e il Pci. Pci che allora, badate bene, stando ancora in piedi l’Urss faceva davvero paura: fu un messaggio trasversale delle Br a un Pci che reputavano in fase di “imborghesimento” invece che guerrigliero e partigiano, stante la sua smania di piazzarsi al governo di un paese “borghese”. E avevano rettamente individuato, in Moro, il mallevadore di questa operazione: fu l’unica volta in vita loro che i brigatisti non peccarono di cretinismo. E in questo Moro fu persino doppiamente cieco, non avendo captato quanto fosse putrescente e oramai in agonia l’Urss come tutto il sistema comunista ovunque disperso. Veniva a patti con un moribondo, invece d’avere santa e politica pazienza ad attenderne il collasso finale… Perchè al pari di Montini, Casaroli, di tutto il gotha democristiano, vaticano e dei tromboni dell’intellighenzia laica, credeva che il comunismo avesse vinto la sua partita, non avesse altro dinanzi a sé che magnifiche sorti e progressive. E tutti quanti insieme reputavano persino ineluttabile – tanto li avevano impressionati gli ultimi successi elettorali del Pci alle amministrative – che comunque da sé il Pci avrebbe più prima che poi vinto le elezioni. Tanto valeva quindi andarci a braccetto, adeguandosi, per attutire il colpo. La più colossale cantonata che uno statista italiano, dopo il Patto d’Acciaio Mussolini-Hitler, avesse preso nell’ultimo secolo: nessuno fu più cieco e meno profeta politico di Moro. Appunto perchè era un intellettuale, un ideologo, uno che viveva di fumisterie. In pratica Moro non solo era un mediocre politico, un pessimo governante, ma era anche un pessimo pensatore politico, un disastroso stratega. Si è scambiata la sua astrattezza per superiore strategia, che infatti la storia di lì a pochi anni avrebbe dimostrato del tutto sballata e avventata, tutto meno che profetica. Anacronistica semmai. Ma quando mai, del resto, sono stati buoni profeti intellettuali e ideologici? La storia dimostra che non ne azzeccano una da almeno due secoli. Moro uguale. E in questo è stato un intellettuale tout-cout: nella cecità. Nell’ostinarsi sul proprio schema superficiale, che aveva la priorità sugli elementi di realtà. Del resto è il sintomo principe dell’ideologite: l’idea è tutto, la realtà è niente. Sebbene, ripeto, l’idea, era proprietà intellettuale dei socialcomunisti: i democristiani la degradavano a “ragionamento”. Che era se non più dannoso certamente più contorto e soprattutto inutile della prima. Atturoncoli di stato mentre interpretano dozzinali copioni di stato, scritti da mano cattocomunista di boiardi di stato (leggi: tutto il giro del fanfaniano Ettore Berbabei, ex padrone della rai per conto terzi… cioè di Fanfani), per finalità di propaganda ulivista di stato. Rai che ha sostituito la chiesa nelle canonizzazioni: basta che sei stato cattocomunista, meglio ancora se “prete ribelle” (e cioè sempre comunista) e che sei morto, e il soviet supremo Rai-M-in-cul-pop, ti prepara un film di stato e ti canonizza per direttissima. In questo filmetto propagandistico Rai, i due attori (uno figlio dell’ex segretario generale del Quirinale) interpretano goffamente Paolo VI e Moro. Ridotti a Stallio & Ollio di sacrestia. Dunque Moro all’improvviso divenne un “martire” per i signori della politica e i bamboccioni dell’antipolitica. Poi fu “sola bontà”. Quindi per i residuati di sacrestia e di sezione (o la risultante della fusione di entrambe: l’Azione Cattolica) si andò oltre: era già un “beato” per i primi; forse un “santo” azzardarono i secondi, e per chiarirlo, conclusero entrambi, era opportuno “un regolare processo canonico”. E siccome nessuno si dava una mossa, osarono l’inosabile: “Se risorgesse, sarebbe come Gesù Cristo”. A parte il fatto che (forse) in quanto anima cristiana è già “risorto” in Cristo (e non “come” Cristo) appena morto, per il resto, poco male: a Gesù capitò di peggio, il processo mondano inverso: lo fecero diventare prima tutta “bontà”, poi un martire a causa solo della sua “bontà”, quindi dedussero che questa “bontà” era in realtà la coscienza di un “liberatore dall’oppressione”, chè dopotutto “pure” Gesù era un “proletario” [credevano loro: e invece no, era benestante, borghese e amico di ricchi borghesi], e in quanto tale era finito in croce: perchè altro non era che un “socialista”, il “primo socialista” precisarono; anzi, no: “comunista”, si corressero più tardi, essendo mutati i rapporti di forza nel mondo operaio. Tutto, tranne quel che era veramente: il figlio di Dio morto in croce e risorto per salvare gli uomini dall’oppressione sì, ma del peccato. Ipocriti, falsi profeti, razza di vipere, teste di pietra! Pietà di loro, Signore, secondo la tua misericordia! Altro che “comunista”!!…Qui oltre che ignoranza e malafede, nella secolarizzazione generale si è dimenticato completamente cosa è e a cosa serve non solo un processo canonico, ma anche la santità stessa. Perchè hanno dimenticato persino chi era e a cosa era servito Cristo. E se per caso lo sanno ancora, il chi è stato e il a cosa è servito, evidentemente, lo ritengono del tutto irrilevante ai fini della religione civile. Avendo perso ogni fede e ogni autentica cristianità, invece di cristianizzare la società che governano, mirano a sacralizzare elementi di società: il passo successivo è secolarizzare il cristianesimo. Io lo so da quand’è che ho cominciato a maltollerare Aldo Moro. Da molto prima che diventassi anticomunista. Già quando ero nel PPI e partecipavo ai congressi nazionali, sempre più cattocomunista. Sì, già da allora non reggevo Moro, il laicissimo, il rivoluzionario a piccola marcia, il teorico fumoso del piano inclinato: sul quale lentamente ma inesorabilmente il democristiano scivolava verso il suo letto naturale, il cattocomunismo, la comunistizzazione, per finire infine più a sinistra dei comunisti mezzi rinnegati per la vergogna, secondo la ben nota teoria gramsciana. Quel Moro per il quale il cattolico in nome dell’alternanza, dei grandi disegni, dei compromessi storici, delle convergenze parallele e altre minchionerie stravaganti accolte come nuova Rivelazione per i gonzi, doveva rinunciare alla sua identità per farsi comunista, credendo veramente che i comunisti in cambio si sarebbero fatti più democristiani. E il paradosso era che tale esigenza di inseguire i comunisti, di farsi come loro, persino andando oltre, quanto a progressismo, a costo di una apostasia silenziosa e che non osava dire il suo nome, si manifestava in modo più insistente quando l’Urss stava putrefacendosi, ovunque il comunismo era alle corde, palesi i suoi inappellabili crudeli fallimenti. La psiscologia di Moro, come di tutti i democristiani, era la stessa, almeno nelle sue nevrosi e fobie, dell’establishment vaticano di quei decenni, della sua razza padrona in talare con a capo ora Montini, ora Benelli, ora Casaroli. La loro ostpolitik fu proprio questo. E a questo travisamento, l’invincibilità del comunismo, segno di scarso senso politico e di scarsa fede, sacrificarono una chiesa, quella dell’Est, che ridussero al silenzio prima e poi ebbero pure la sfrontatezza di battezzarla ufficialmente Chiesa del Silenzio, come fosse una cosa edificante, come si fosse trattato di chissà che geniale trovata diplomatica: le persecuzioni comuniste contro i cattolici continuarono come prima, più di prima, si acuirono, soltanto che adesso nessuno più le poteva denunciare. Neppure le stesse vittime. E al silenzio cruento di quelle chiese s’aggiunse la solitudine. Neppure i giornali vaticani di quegli anni, per ordine dall’alto, osavano più fare il nome del comunismo, né per dirne bene né male: il silenzio assordante era diventato nella chiesa di allora ciò che, al contempo, nel moroteismo era spostare una montagna con la forza dell’inerzia. La logica della ostpolitik con i comunisti dell’Est, era la stessa del moroteismo con i comunisti italiani. Ma vi dicevo delle scaturigini infantili della mia insofferenza per Moro. Sì, già da prima del mio anticattocomunismo ero se non anti-moroteo, almeno antipatizzante di Moro. In pratica da quando ero bambino. Bambino del tutto sui generis: invece di sfogliare le figurine dei calciatori sfogliavo le “immagini del potere”: mi piaceva guardare le foto dei potenti, capi del governo, di partito, di stato (i monarchi no: ero antipatizzante pure di quelli). Mi piacevano soprattutto i potenti democristiani e comunisti: per me erano loro il potere che immaginavo, e pur bambino non mi sbagliavo affatto. Entrambi, capi comunisti e democristiani, erano figure clericali, monacali, casta sacerdotale, volti d’uomini sacralizzati, immagini sacre di grandi liturghi del potere (i democristiani) e di sommi teologi della morale civile (i comunisti), ossia del moralismo ipocrita. In questa mia mania, mi aiutava spesso Famiglia Cristiana, che collezionavo, assai prodiga di foto di potenti democristiani e soprattutto di “santi” laici della DC, purchè “di sinistra”. Una volta, sarà stato sui 13 anni, incappai in una foto di Moro che me lo rese antipatico a vita, io che amo l’informalità e la praticità: era ritratto in bianco e nero, in pieno agosto, seduto su una sdraio in spiaggia. Vestito (è questo che mi fece saltare i nervi… ma un nervoso che non vi dico!!) non solo tutto di nero, ma in giacca e cravatta… sulla spiaggia!.. in agosto! col sole a picco sulla sua testa! Lo detestai. Una faccenda solo “estetica”, apparentemente. E invece no. Di poi, infatti, cominciai a detestare tutto il resto… Come il fatto di capire da simili indizi che questi qui come Moro si consideravano degli iniziati, uomini di una razza diversa rispetto alla restante umanità, viventi in un mondo a parte, sommi sacerdoti di un potere che stava altrove, in alto, laddove stanno anche “i farisei” (A. Merini), ad altezze intellettuali incommensurabili, sopra tutti. Ragion per cui non dovevano rendere conto né chiarire ad alcuno il di coloro giacular sancto et lustro; e proprio quel formulare frasisecrete et ignote tipico del moroteismo, quale lingua liturgica della potestà, stava lì a ribadirlo. Erano “diversi”. Parlavano lingue diverse. Vestivano diversi. Un destino speciale, fatale e ineluttabile, come voluto da un capriccio di divinità oscure che ne faceva stirpe sacra e unta. Un’investitura: eletti, dall’alto più che dal basso. E come sacerdoti vestivano: i quali nel farlo, rispondono a un tempo solo loro, quello liturgico, e non alle esigenze delle stagioni dei comuni mortali; come i sacerdoti, a prescindere dalla meteorologia, vestivano alla stessa maniera o che stessero a dir messa in cattedrale o in piazza, in montagna o sulla spiaggia: casula d’ordinanza in ogni caso. Così Moro: giacca e cravatta neri, anche sulla spiaggia. Anche sotto il sole. D’agosto. Nu me ce posso rassegnà!… E’ una vita che non sopporto Aldo Moro, dunque. Così come non ho mai sopportato i santini laici, e certe volte neanche quelli consacrati. Stante l’andazzo, in presenza di morti travagliate o inattese di qualche personaggio della cronaca, magari all’auge del suo quarto d’ora di celebrità, foss’anche nient’altro che un motociclista, un attimo dopo il trapasso gli si cuce addosso il santino. Iniziano i media, concludono strafacendo, e non di rado col tipico cattivo gusto clericale odierno, i preti – peggio è se capita un vescovo: e se sa esserci una telecamera “capita” lì di certo – nelle esequie. Cattivo gusto che diventa apocalittico se fuso col telegiornalismo d’assalto e straccione. Questi “santini” laici a scoppio ritardato, qualunque cosa abbiano detto o fatto nella loro vita, foss’anche la più immonda, nelle esequie sono dall’ambone catapultati per direttissima in indecorose beatificazioni post-mortem seduta stante: corte d’assise celeste composta da prete, giornalisti, amici, amici degli amici e non di rado nemici dichiarati del “caro estinto che vivrà sempre nei nostri ricordi: un esempio da imitare e seguire, un maestro”. Alla faccia degli ammonimenti di Cristo “non giudicare” né in bene né in male e “uno solo chiamate Maestro”. O come più prosaicamente avrebbe detto Alberto Arbasino: “La carriera di uno scrittore o di qualsiasi altro uomo illustre, conosce solo tre tappe: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro”. Assai spesso questi preti ed episcopi canonizzatori spontanei, stampatori abusivi di santini laici senza approvazione ecclesiastica, parlano in ‘sì ferale sede proprio alla porcavacca: senza cognizione di causa, dei tempi, della storia, della decenza, e del catechismo cattolico persino. E quasi sempre senza sapere davvero una beata mazza della personalità alla quale si infligge la coatta “beatificazione” clerico-giornalistica. Dove giornalisti nevrotici e logorroici dalla professionalità di un “pazzariello” napoletano, concelebrano con questo clero in crisi di identità ormai terminale, questo rito sociale idolatrico e religioso, pagano e vagamente cristiano insieme, questo rito di santificazione del morto celebre. Che talora – succede pure questo – è un notorio agnostico, un anticattolico, o ateo finanche. E anche in questi casi finita la messa, comunque vada sarà un successo: se non ne esci dottore della chiesa, sicuro ne esci almeno “martire”, e, va da sé, “uomo di pace”, anche se sei Goebbels. Così è stato anche per Moro, santo della chiesa democristiana, e “scismatico di quella comunista” (sostiene qualcuno). E per la verità, clericalmente, fu proprio Paolo VI a iniziare la sarabanda, il circolo vizioso, sebbene in ben più alte sfere letterarie, in un linguaggio aulico e drammatico da cultura vera con quell’inquietante “Rimprovero a Dio” (così la videro almeno giornalisti e retori di stato), non da ampollosità appiccicose da necrologio sul Gazzettino di Catanzaro. Tutto questo, questa caligine di retorica, che pesante cala dall’alto inibisce ogni analisi seria del personaggio (ed è proprio a questo che serve la retorica, il trombonismo). E probabilmente confonde e cancella per sempre ogni responsabilità e colpa, prima ancora che del defunto di chi ha contribuito al suo decesso in un qualche modo. E nell’affaire Moro sembra esserci tutto l’interesse a dissolvere la realtà di quelle “colpe” di un’intera casta politica che portarono Moro alla tomba: quasi un rito di autogiustificazione di massa, penitenziale e autoassolutorio insieme. I figli di Moro, quando reclamano ancora oggi la “verità”, dovrebbero convincersi che è lo stesso circo retorico che sull’affaire Moro si è costruito, che la ostacola. E al quale non poco contribuiscono da un trentennio loro stessi. Che cosa poteva venirne mai fuori da quella sceneggiata vuota e imbarazzante, proprio perchè fasulla, di tanto di uomini di stato che ogni anno andavano a inginocchiarsi, a telecamere di stato spiegate (appena si accendevano, è chiaro), davanti al portone in anticorotal di un comune condominio romano come fosse la porta santa, l’altare del sacrificio supremo di Cristo? Che senso aveva prostrarsi in diretta tv nel punto dove fu trovato il corpo di Moro, a piagnucolare, far finta di contrirsi, mettersi le mani sulla faccia quasi a nascondere lo sforzo non sai se di simularsi affranti o dissimulare un conato di risa? Sceneggiate farsesche e indecorose sulle quali si sono costruite e unte scintillanti carriere politiche. Lo stesso Cossiga, abbonato a questi pellegrinaggi laici, a queste esibizioni di lacrime da coccodrillo, quel Kossiga che gestì in maniera pietosa e ciò non di meno spietato nella sua sguaiatezza la vicenda Moro, si inventa da vecchio volpone quale è persino un particolare postumo palesemente falso, quello che gli son “venuti i capelli bianchi nei giorni del sequestro”. Mentre invece gli piove addosso come manna un diluvio di fortuna; costruisce sui falsi sensi di colpa la sua resurrezione politica fulminea. E una carriera inarrestabile. Che lo porterà quasi subito a occupare tutte e tre le massime cariche dello stato in un solo quinquennio: presidenza del consiglio, del senato, della repubblica. E per giunta, alla fine, quando ormai non aveva nulla da perdere, essendosi già puppato tutto, si permette pure il lusso di fare il “picconatore” circense di quello stesso sistema che lo ha partorito, allattato, ingrassato e al quale in tutto era organico. Quello stesso sistema sclerotico che fece dire alla famiglia Moro, nei giorni del sequestro, “sì, il ministro Cossiga venne a casa nostra: e aveva tutta l’aria di uno che non sapeva che pesci pigliare”. “Distrutto dalla vicenda Moro”, dice Cossiga. Quanti vorrebbero essere “distrutti” così! Ritualità civili, da sacralizzazione non più solo della politica ma dei politici stessi. Culti profani a immagine e somiglianza di quelli sacri, che hanno però un vago sapore idolatrico, paganeggiante, e che se a cedervi sono dei vecchi politici cattolici è prima che indecoroso, inopportuno e improbabile. Farsesco. E più ancora peccaminoso. Ma come se dice a Napoli: chiagne e fotti! Se guardate alla vita pubblica di Moro, noterete presto che è il politico in assoluto più laico di tutti, non solo dei democristiani. Quando ha ricevuto ingiunzioni dal Vaticano a non praticare una determinata strada politica, incompatibile con l’essere cattolici in politica e, in prospettiva, deviante per la fede, Moro, se riteneva di ricavarne vantaggi pratici, proseguiva invece per la via intrapresa. Come il centro-sinistra, che varò e guidò contro i fulmini di mezzo mondo cattolico. Prospettando di rendere finalmente possibile l’alternarsi al governo coi comunisti, imperterrito iniziò al stessa operazione, sfidando il Vaticano e la dottrina sociale della Chiesa, che è vincolante per ogni cattolico. In situazioni simili, egli se ha ritenuto di averne i voti e di non perderne, ha in tutta tranquillità disobbedito, sentendosi la coscienza a posto. La questione “laicità” e “autonomia del cattolico” in politica, la vedeva in questi termini: siamo al “cattolico adulto” di prodiana memoria, sebbene qui ha ancora i brufoli. Emblematico l’episodio della riunione in Piazza del Gesù per evitare il referendum sul divorzio e modificare in senso restrittivo la legge che lo liberalizzava, arrivando in tal senso a un compromesso coi comunisti, che a tal proposito, del resto, erano d’accordo, essendo nel fondo, in certe cose, più conservatori dei democristiani. Arrivò Fanfani con un biglietto autografo di Paolo VI che diceva “si vada al referendum!”. Era una pazzia, si sarebbe perso sicuro, mentre invece si potevano limitare i danni trovando un accordo coi comunisti. Rumor, presente, si ribella al papa, grida furibondo “è una follia! Se andiamo al referendum saremo distrutti!”. Interviene Moro a calmarlo: “Mariano, ma a noi chi ce li dà i voti?”. Glieli davano in teoria il Vaticano, i preti, i cattolici. “I voti”, ancora una volta. Strano però che lo stesso patema non gli venne al momento di varare il centrosinistra, nonostante pure allora i “voti” glieli desse il Vaticano. Semplicemente la questione del divorzio, ai suoi fini politici, elettorali e di potenza, era indifferente, anzi, reputava dannoso andarsi a impelagare. Meglio lasciare ogni responsabilità al Vaticano. E al povero Fanfani, lasciato solo dal “partito cattolico” a combattere contro il divorzio: Moro non spese una sola parola che non fosse di circostanza, in quella circostanza. Non gli interessava. Non gli conveniva. Era laico dentro. E fuori. Guardando ancora alla sua carriera politica, noterete che mai parlò, non in pubblico, di cose che riguardassero il cattolicesimo, la fede, nemmeno la sua. E il suo primo biografo (e primo biografo di Scelba), il vecchissimo Corrado Pizzinelli, che andai a trovare qualche anno fa nella sua casa a Fontana di Trevi, mi ripetè una cosa che già aveva scritto nel suo libro edito negli anni ’60 sul giovane Moro, pure questa indicativa della sua profonda laicità: “I suoi più cari amici, affermano tutti concordemente che mai parlava dei suoi problemi religiosi, di Dio”. La verità è che Moro fu democristiano per caso, perchè calcolò sarebbe stato provvido (per usare una parola cara ai dorotei) aderire alla DC e scendere in politica con questa, da Bari dov’era, piuttosto, come pure aveva intenzione di fare, con i socialisti. Avete capito bene: prima delle elezioni per la Costituente era incerto se optare per la Dc o per il Psi, che allora, badate bene, era rigidamente marxista, aveva la falce e martello, ed era completamente schierato con l’Urss e con Stalin, e Nenni (con quella sua infallibile idiozia politica che fu la sua più fedele compagna, sino alla fine) ne era il massimo patetico cantore, completamente orbo e disastroso com’era politicamente: Saragat fu costretto a fare la famosa scissione per poter stare dalla parte dell’Occidente, stante i deliranti entusiasmi orientali del compagno faentino. Allora ti spieghi perchè è proprio questo laicissimo socialista mancato – che certamente sarebbe diventato capo del Psi lo avesse scelto – perchè è Moro ad essere l’ideologo, il mallevadore e il duce del governo insieme ai socialisti… perchè sarà proprio lui il padre-padrone del primo centrosinistra nonostante il parere della Chiesa, a prescindere da questa. Perchè sarà più tardi l’inventore del governo di unità nazionale col Pci. E perchè era sempre colui che aveva meditato l’alternanza con i comunisti al governo (la qual cosa morì con Moro… e c’è da interrogarsi se questo non sia stato un “segno”). Il vizio ce l’aveva già dalle origini. Giorgio Bocca lo leggevo all’inizio della mia carriera di lettore: quando ancora era razzista e trombone, ma non ancora rincoglionito e ugualmente trombone. Lo leggevo con l’ingenuità degli adolescenti, è chiaro, credendolo – essendo il mio primo “scrittore” – un oracolo; che poi, specialmente alla fine della sua vita, nell’estrema vecchiezza, quando si perdono i freni inibitori, si rivelerà per quello che era sempre stato: uno sprezzante nevrotico, più di altri trombone, e più d’altri recalcitrante a ogni verità storica anche quanto era diventata lapalissiana, se al Giorgio quella “verità”, quell’evidenza andava di traverso. Ebbene, per un mio compleanno, su mia insistenza, avrò avuto 13 anni, mi regalarono l’ultimo successo di Bocca, il più grande forse: L’Inferno, un’inchiesta sul Sud alla maniera sua, di un razzismo e un pregiudizio antimeridionali, che prima ancora d’essere tutto piemonte e antropologico, era molto più da crasso pregustatore di ottimi vini. E pensare che io avevo voluto quel libro (santa ingenuità infantile!) che per me costava un patrimonio (32mila lire) perchè pensavo parlasse del diavolo [senza contare che i miei si preoccuparono: un pischello che domanda un libro?... bah… non s’era mai visto in casa… né sentito in tutto il paese… Fosse malato? Magari è gay? Strano è strano ‘sto ragazzino… Bocca poi!]. Quando aprii gioioso l’agognato volume boccaccesco, fui saturo di amarezza: parlava di tutt’altro (o quasi) che del diavolo. Però lessi, sempre per caso, queste cose su Moro in questo libro che, malgrado tutto, mi segnerà per tutta la vita: “Poi c’è la Bari dei notabili, di Moro e di Lattanzio. La differenza fra i due era questa, cheLattanzio nella merda di Bari ci stava felice e contento, inaugurava lapidi, partecipava a raduni, faceva affari (…) e non chiedeva di più alla vita che fare un comizio ad Altamura e poi mangiare con gli amici un piatto di panzarotti. Moro invece era triste e morigerato. Lui la vedeva la merda e sapeva che su essa galleggiava la sua delega parlamentare e ministeriale, ma era come se non la vedesse: arrivava qui da Roma, andava a porgere omaggio ai carmelitani, faceva i suoi comizi anche dopo che era scaduto il termine e se i rossi protestavano la Celere li legnava. Intanto il fedele Lattanzio lo aspettava all’aeroporto e si tardava a partire con l’aereo di linea di mezzora perchè il segretario di Moro era andato a Taranto a salutare la madre. Questa prona disposizione dello stato alla sua persona, Aldo Moro la considerava un dovuto omaggio. Ricordava l’avvocato Pasquale Calvario: “Un giorno nell’università si parlava di uno scandalo romano e gli chiesi come mai anche nella Democrazia cristiana c’era corruzione. Da quel momento mi tolse il saluto”. Quando ci fu il colera e La Gazzetta del Mezzogiorno si decise ad essere un giornale che dava le notizie, Moro arrivò in visita alla redazione, volle vedere le rotative, le spedizioni. L’amministrazione come se fossero una sua proprietà e prima di accomiatarsi mormorava al direttore: “Me l’avete ridotta proprio una fogna questa Bari”. Attenti a questa frase del Bocca: “Questa prona disposizione dello stato alla sua persona. Aldo Moro la considerava un dovuto omaggio”. Fra i tanti libri che ho su Moro, alcuni di questi non sono agiografie. Sono prudentemente critici: si sa, non si sollevano impunemente gli occhi a una dea… specie se è morta ammazzata. Fra questi ce ne sta uno particolarmente prezioso, stimolante. La prima vera biografia critica di Moro. Scritta coraggiosamente nei primi anni ’80 quando, ancora caldo il cadavere, Moro era al vertice dell’empireo di cartapesta degli intoccabili, dei semidei semidivinizzati a furor di opinion-maker e retori del giorno dopo. L’autore è un valoroso giornalista di parte ma di razza: Italo Pietra, il glorioso direttore del Il Giorno degli anni d’oro, un socialista. Il titolo del libro è ‘na figata: Moro: fu vera gloria?. Il sottotitolo è pure meglio: Sa e non fa. Ha il senso della storia, non quello dello Stato né quello delle cifre”. Epigrafe perfetta. Ebbene, piglio ‘sto libro letto negli anni universitari e che mi lasciò un ricordo sgradevolissimo di un Moro insopportabile, e lo apro a caso, e a caso leggo un paragrafo. Dove si parla del discutibilissimo capo della segreteria politica e tuttofare di Moro:Sereno Freato, un avventuriero, un imbroglione, un avanzo di galera. Che più volte rischiò di inguaiare lo stesso Moro, che dal canto suo se ne guardò bene dal cacciarlo: gli serviva. Ebbene, dopo che ne aveva combinate di tutti i colori questo Freato, incappa nelle attenzioni -oltre che di tutte le polizie nazionali e internazionali- della magistratura. Ma è un’altra faccenda che mi colpisce. Leggo dal libro: “Salvatore Giallombardo, che indelicatamente turba un’ora del Natale 1955 di Moro, è un magistrato siciliano dalla testa troppo dura (…) Si faceva scrupolo di non guardare in faccia a nessuno. Prediligeva le pagine di Guicciardini, ma non gli andava giù l’esortazione a tenersi bene coi potenti”. Alla procura di Roma, dove è pm, incappa in un grosso e losco affare di imprese fittizie, capitali in fuga, protezioni eminenti… insomma, il solito mangime dei potenti. Dove questo pm ha l’imprudenza di volerci mettere la lente. L’avesse mai fatto. Viene immediatamente trasferito a Venezia. Casca dalle nuove, implora il csm di bloccare il trasferimento, in lacrime si reca dal guardasigilli De Pietro perchè intervenga per una tregua “almeno fino alla catastrofe imminente”, e cioè a dopo la morte della moglie ormai agonizzante per un cancro, chè a pure dei figli piccoli. Il ministro tace, nessuna pietà, il trasferimento avviene. Morta la moglie, una campagna di stampa fa sì che venga richiamato a Roma, a riprendere il processo dal quale era stato allontanato. La sua requisitoria è durissima, dura 15 giorni, chiede 62 condanne, che coinvolgono anche le partecipazioni statali. I superiori lo richiamano in servizio a Roma. Riprende casa, riporta i figli… ma subito dopo arriva un’ordinanza di Moro nuovo guardasigilli: lo destina a Ravenna, a debita distanza. Il magistrato così sbatutto, scrive una lettera di rimostranze a Moro. “Passano giorni e giorni di silenzio. Il 25 dicembre 1955 “l’Avanti” pubblica la lettera di Giallombardo. Moro è notoriamente uomo dai tempi lunghi e ha un vero e proprio culto per il Natale, per quell’atmosfera di pace e di buona volontà tra gli echi delle zampogne, delle campane, degli inni sacri. Usa dedicare ore e ore alla preparazione del presepio; nella notte del 24 dicembre pone personalmente Gesù nella mangiatoia. Ebbene alcune ore del Natale 1955 sono diverse dal solito; di punto in bianco, Moro non sembra più quello. A dispetto dell’eccezionale clima festivo e dalla caratteristica inclinazione al rinvio, si mette in moto con grande determinazione (…) Il baleno del giorno di santo Stefano tiene dietro al fulmine del giorno di Natale. L’Ansa dà notizia dei provvedimenti disciplinari proposti dal ministro a carico del magistrato, il quale è ben presto raggiunto da censura (…) Uno degli interventi più severi e più risoluti della carriera governativa di Moro è fatto nel giorno di Natale, e nei confronti di Giallombardo (…) Ma pensate un po’, è quella la pecora nera nel bianco gregge del buongoverno DC”. “Come un bene privato trattava lo stato”, così parlò Bocca. E aveva, almeno in questo caso, ragione. Così sarà durante il sequestro: egli si sente l’unico legittimo intestatario dell’autorità, la fonte primaria del diritto stesso, il custode della profezia, il dispensato speciale dalla ragion di stato, il titolare della salvazione della patria nonché della politica; perchè diritto patria potere e politica, va da sé la profezia, la ragion di stato, tutte queste belle cose, le identificava con la sua stessa persona: l’etat c’est moi! E con questa psicologia Moro si comporta durante la sua prigionia. Frigna, protesta, minaccia, quasi ricatta, condanna: tutto pur di essere liberato e… andasse anche a morire ammazzato tutto il resto. Non esattamente l’eroe civile e politico che ci hanno dato a credere le trombe mediatiche democristiane e no. Anche per purificarsi dal senso di colpa feroce dell’unica volta che si erano comportati con senso dello Stato, che poi era purissimo realismo politico: scegliendo fra un politico e lo Stato tutto, scelsero di salvare lo Stato. Ho scolpite in mente le immagini di un summit internazionale fra ministri degli esteri, e Moro lo era. In questi contesti nessuno poteva soffrirlo, temendo come la morte il suo prendere la parola: non solo per la perdita di tempo stante l’irrilevanza politica dell’Italia, ma per le cose bizantine e contorte che il Moro sciorinava per ore, senza che nessuno ne capisse niente, e chi lo capiva che niente aveva in effetti detto… mosaici di fumo… macerando di noia mortale i colleghi. Ebbene, in uno di questi summit, dopo che Moro da mezzora stava anestetizzando i suoi pari con “ragionamenti” leziosi e inutili, uno che contava, il sanguigno Kissinger lì presente, platealmente si strappò dalle orecchie le cuffie della traduzione simultanea e le scaraventò sul tavolo. Come dire: all’estero avevano capito da un pezzo che questo era uomo dalla testa fra le nuvole, vivente nel mondo a parte degli ideologi fumosi all’italiana, teologi dell’astrattismo, che vivono imbambolati in una dimensione atemporale, che hanno il gusto del bizantino, cioè dell’inutile, del secondario, del dettaglio. Avendo in sommo disgusto ogni praticità, la preziosità del tempo che perciò dilapidavano, la realtà nel suo complesso… così umana, così vera… così plebea e satura di passioni e bisogni da comuni mortali invece che da iniziati al nulla cosmico. Moro durante la prigionia è la prima volta in vita sua che parla in modo comprensibile. E in quella prima volta che lo fa, in cui tutti capiscono che dice, è un uomo che fa pena. E penose sono le cose che dice: finalmente nude e crude, decriptate, tali si dimostrano. E fa indignare e accapponare la pelle, per la sua totale mancanza di senso di responsabilità, della collettività e dello stato. Un egotismo e un egoismo senza pari nella storia d’Italia e del mondo stesso, almeno per uomini tanto importanti caduti in simili sventure. Quantomeno il re Vittorio Emanuele III scappando a Brindisi durante l’occupazione tedesca della Capitale, cercava di salvare le insegne dello stato trasferendole altrove. Moro pretese che le insegne dello stato venissero trasferite nel suo tugurio e lì lasciate dare pubblicamente alle fiamme dagli stessi terroristi. Per cosa? Per se stesso, per la sua pelle, e magari per la sua “famiglia”, ché pure lui, da italiano quasi come gli altri, infine, “teneva famiglia”. E fu la sola e unica volta che pubblicamente se ne ricordò e lo ammise, mentre gli italiani sin lì erano stati quasi convinti del contrario; perchè sin poco prima, a piede libero, si era sempre considerato, da sommo sacerdote del potere, dentro la politica, “vedovo e senza prole”, e così lo vedeva pure la stessa moglie. E gli italiani. Se ne ricordò e lo ricordò a tutti che invece aveva moglie e prole, solo giunto al capolinea: ancora una volta quando gli era (ed è umanamente comprensibile) utile. Utile in questo caso ad avere un’ulteriore arma di ricatto morale verso quello stato che come aveva detto Bocca, vedeva in “prona disposizione alla sua persona” come un “dovuto omaggio”. E che perciò, per lesa maestà, ormai disilluso, senza remora alcuna ora trascinava nello scorno, nella vergogna, nell’oltraggio. Si era reso conto che, superato un certo limite, quello stesso Stato, che aveva creduto essere solo e solamente lui, non era disposto ad essergli “prono” sino a tal punto. Non al punto da suicidarsi e consegnare le insegne della nazione nelle mani invitte e insanguinate dei brigatisti. Come Moro, certamente sconvolto, va detto, avrebbe desiderato. “Un collega [Fini] che ci permette di respirare un’aria depurata dall’ipocrisia, dalla banalità, dall’ossequio ai nuovi feticci che rischiano di inquinare anche parte del mondo cattolico. E proprio a questo nostro mondo mondo, Fini rivolge una provocazione particolarmente bruciante. Se davvero, dice, i cristiani non hanno paura della verità, dovrebbero avere il coraggio di affrontare una buona volta la domanda Aldo Moro: statista insigne o pover’uomo? E prosegue poi: peccato poi che Moro abbia scritto le lettere che ha scritto, che sono ciò che di più triste e miserevole un prigioniero politico abbia mai inviato dal fondo della sua prigione. Ma i giornali stettero zitti, tutti, pur di fronte all’evidenza. [Dopo questo articolo] il direttore de Il Giorno di allora gli sospese per quattro mesi la rubrica, con la motivazione che ciò che Fini aveva scritto era vero, ma non si poteva scrivere. Adesso, cocciuto, ritorna alla carica. Rilanciando la rischiosa sfida confida almeno nel superstite amore dei cattolici per la verità, nel rifiuto evangelico del fariseismo, dell’ipocrisia. Oltretutto, ricorda, i credenti sono qui particolarmente coinvolti: la vittima essendo infatti un cattolico da comunione quotidiana e il papa stesso essendo intervenuto a suo favore, con quella sconcertante ‘Lettera agli uomini della Brigate Rosse’, dove, ‘in ginocchio’, chiedeva la liberazione di ‘un uomo buono e giusto’. Riconosciuto che Moro scrive nelle condizioni più terribili, il giornalista prosegue: Ma è proprio in quelle condizioni limite che si vede quanto vale un uomo, quanto profondo sia ciò in cui crede e a cui ha chiesto, e spesso imposto, agli altri di credere. Invece, nelle sue lettere, Moro, a cui per trent’anni è stata attribuita fama di statista insigne, sconfessa tutti i principi dello Stato di diritto, sembra considerare lo Stato e i suoi organismi un proprio patrimonio privato, invita gli amici del suo partito a i principali rappresentanti della Repubblica a fare altrettanto, chiede pietà per sé, ma non ha una parola per gli uomini assassinati della sua scorta. Si dirà che Moro fa questo per avere salva la vita e che a nessuno può essere chiesto di essere un eroe, di conservare anche in pericolo di vita coerenza e dignità. Ma, allora, si fa un mestiere diverso da quello che Moro ha fatto per tanti anni, non si pretende di guidare la vita di sessanta milioni di persone, non si chiede loro di rispettare le leggi che tu stesso hai fatto e, magari, di sacrificare anche la vita per il rispetto di quelle leggi. Come si vede, il problema che Fini ci pone è drammatico. Eppure, insiste, non si può da tanti anni far finta di niente, intitolare a quel nome vie, monumenti, scuole. Ai cattolici, poi, Fini chiede che il coraggio della verità evangelica si manifesti affidando la memoria dell’ucciso -nel suffragio- al Dio che solo può giudicare; ma anche non cooperando a proporre come esempio ciò che tale non gli sembra essere stato. Una triste storia, questa di Moro, che, a suo avviso, umilia il coraggio degli umili che seppero morire con ben altra coerenza e dignità”. Da dentro la prigione “del popolo”, dunque, Moro piagnucola, minaccia, maledice, accusa, ricatta, invia centinaia di lettere in tutte le direzioni, e che per la metà tutti vedevano per quello che effettivamente erano: vergognose. Ma che solo la prudenza politica, la carità cristiana, l’umana comprensione, spinsero lettori e vittime delle missive ad avere la signorilità di far finta di non accorgersi della loro miseria politica se non umana, del degrado etico che ne esalava, del loro essere uno svergognamento più per lui che non per loro. “Massì”, disse uno stremato Fanfani, “sia quel che sia, trattiamo, facciamolo liberare, costi quel che costi, tanto Moro, dopo tutto quello che ha scritto è un cadavere politico, è finito: non barattiamo lo stato, perchè qui non è questione di salvare uno statista, ma un pover’uomo finito politicamente, un già cadavere politico…”. E fu un moto sincero, quello del ruspante nano aretino, che tradiva quel che tutti pensavano senza osar dire: Moro stava comportandosi da irresponsabile, era un cadavere politico che voleva trascinarsi nella tomba lo Stato. Basta leggere le lettere. Moro invita lo stato a una resa a una capitolazione senza condizioni e senza senso, assurda; a trattare con le br, a liberare brigatisti e assassini, a un suicidio di massa di un intero sistema con classe dirigente annessa, a una sconfitta politica senza eguali e quindi a una vittoria senza eguali, seguita da riconoscimento politico, di una banda di pazzi sadici e sanguinari e per giunta terroristi. Non si fa minimo scrupolo a infangare in modo osceno gli amici, che per una volta in vita loro stanno facendo il loro dovere e stanno comportandosi da statisti pur rodendosi il fegato e inghiottendo lacrime amare… e tutto questo, in nome della sua liberazione. Non si ricorda – lo dicevo poco su – nella storia un uomo di stato che in situazioni tanto estreme si sia comportato in modo tanto vergognoso, inadeguato, da coniglio mannaro, e tutto sommato anarchico… semmai ci fu caso di individualismo più esasperato e portato alle estreme conseguenze fu proprio il suo. O lo Stato o la mia vita: non aveva avuto dubbi: la sua vita. Eppure da quello Stato in vita sua aveva avuto tantissimo, tutto, in gloria e potenza, e pochissimo gli aveva sempre reso in cambio, niente quasi… ma tant’è! E non riusciva proprio a capire perchè i suoi colleghi e amici la pensassero diversamente… dovevano pensarla così, non v’era scelta: sulla bilancia il piatto “Stato” pesava 60 milioni di volte più del piatto “Moro”. Anche se ebbero sempre il buon cuore e la signorilità di non farlo notare mai di che cosa veramente pensassero, che poi era una constatazione, dell’atteggiamento inqualificabile di Moro. Si lasciarono sfuggire qualcosa, ma adoperando un linguaggio obliquo: “Fosse la sindrome di Stoccolma?”, “ma possibile che Moro dica davvero quelle cose?!”, “capace lo abbiano obbligato a scriverle”, “forse sono lettere false”. Increduli, stupefatti, disorientati dicevano – per trovare coraggio in quei momenti terrificanti che prigioniero e famiglia non facevano che aggravare – “ma forse non è davvero Moro”. Cercavano di convincersene. E si sbagliavano alla grande, perchè quello era un Moro purissimo, era proprio lui allo stato naturale, senza più indosso i paramenti del gran chierico di Stato. Che diceva stavolta in maniera diretta e persino divulgativa quanto prima sosteneva in modo articolato e fumoso fra le righe. Anarchia e potere; immobilismo ed egocentrismo: lo Stato era lui, e lo Stato era “prono” a lui. Lo Stato era soltanto, per come egli l’aveva sempre vista, il riverbero, pallido e innocuo, della sua ombra giganteggiante nelle nebbie plumbee della notte della repubblica. E dulcis in fundo, a coronamento di questa vicenda orribile, persino il suo omologo religioso, Montini, tratta la Chiesa come un bene privato; così come lo Stato fin lì, pure questa “prona” alla persona di Moro “come un dovuto omaggio”; e, infine, con un unicum nella storia papale, come un’agenzia di pompe funebri per “l’amico Moro”, a sua disposizione sino in fondo, oltre la morte. E non è finita. Paolo addirittura interpella e “rimprovera” Dio, per non aver “esaudito” la sua supplica. Proprio come Moro aveva interpellato e “rimproverato” (e qualcosa di più e peggio: infangato e ricattato) la classe politica, i suoi stessi amici, lo Stato tutto affinchè “esaudisse” la sua “supplica” per salvare un “uomo giusto, buono, onesto, amico”. Ossia se stesso. Non solo non è un santo, ma neppure un eroe. E, Dio mi perdoni, nemmanco un uomo semplicemente coraggioso. Forse era solo e solamente un uomo, che pretendeva di non essere trattato come tutti gli altri uomini le cui comuni leggi per lui soltanto dovevano non valere, sebbene le avesse firmate e insegnate egli stesso. Sì, era davvero un uomo. Comune, come tutti, con le sue miserie, egoismi, debolezze, paure: un uomo senza qualità. Un pover’uomo. Soltanto che nessuno se ne era accorto prima. Neppure lui.
LA GIUSTIZIA RIPARATIVA PER UNA MEMORIA CONDIVISA.
IL LIBRO DELL'INCONTRO. Militanti della lotta armata e famigliari delle vittime a confronto. «Il libro dell’incontro» per il Saggiatore. Un lavoro durato anni e curato con rigore da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato. Nessuno doveva pentirsi o chiedere perdono. Ma spiegare i perché di un conflitto «irriducibile», scrive Niccolò Nisivoccia il 24.12.2015 su “Il Manifesto”. Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato (rispettivamente un teologo gesuita, un criminologo e una docente di diritto penale) sono i tre curatori di un libro destinato a squarciare la memorialistica e la storiografia della lotta armata in Italia (e forse non solo), aprendovi inediti orizzonti di senso, illuminandole di una luce nuova: lo ha appena pubblicato il Saggiatore, il titolo è Il libro dell’incontro, il sottotitolo Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore, pp. 466, euro 22). Dov’era riposto infatti, almeno fino ad oggi, il senso di quegli anni, degli anni Settanta e ottanta del secolo scorso? Era in un pugno di verità contenute nelle sentenze dei tribunali, ma la verità processuale è cosa diversa dalla verità storica, come si sa, e perdipiù su molti di quei fatti è perfino un accertamento processuale a mancare (basti pensare alle tante stragi ancora prive di colpevoli); era nelle appropriazioni fattene dai partiti politici, ma ciascuno in funzione esclusiva dei propri obiettivi; ed era infine nelle testimonianze ora degli uni ora degli altri dei protagonisti. Le vittime o i loro famigliari, da una parte (si pensi, negli ultimi anni, ai libri di Mario Calabresi o a Benedetta Tobagi); i responsabili dall’altra (e qui si pensi ad esempio all’intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda a Mario Moretti, Brigate rosse. Una storia italiana, risalente ormai al 1994). Ne è sempre derivata una memoria frammentaria, divaricata, strumentalizzata (lo ha spiegato forse meglio di tutti Giovanni De Luna, nel suo Le ragioni di un decennio); una memoria non a caso ancora dolorante e che ancora brucia, come se – per usare le parole di una poesia di Mario Luzi, Presso il Bisenzio – fosse ancora vivo il «fuoco della lotta/quando divampava e ardevano nel rogo bene e male». Dentro questo «fuoco» sono entrati ora Bertagna, Ceretti e Mazzucato, per cercare di costruire una memoria che sia invece condivisa, per quanto corale e policentrica. È il frutto di un lavoro di anni, Il libro dell’incontro, durante i quali i suoi curatori, a partire dal 2009, hanno fatto appunto incontrare, nella veste di mediatori, alcune vittime o loro famigliari e alcuni responsabili della lotta armata fra gli anni Settanta e Ottanta. Le persone coinvolte sono state circa sessanta, gli incontri continuativi e talvolta anche residenziali. Bertagna, Ceretti e Mazzucato hanno lavorato per propria iniziativa; e pochi erano al corrente di quanto stavano facendo. Fra queste il Cardinale Carlo Maria Martini, un gruppo di esponenti della società civile definiti «Primi Terzi» e uno di autorevoli «garanti», quali ad esempio Gherardo Colombo e Valerio Onida. Ciascun incontro trovava in se stesso il proprio significato e il proprio fine: vittime e responsabili si ritrovavano faccia a faccia, e potevano guardarsi, parlarsi, ascoltarsi, o anche solo rimanere in silenzio. Le loro «voci» costituiscono adesso il cuore pulsante del Libro dell’incontro: attorno a loro, prima e dopo, il libro è fatto anche di molti necessari contributi scientifici ed è arricchito da una Postfazione di Luigi Manconi con Stefano Anastasìa, ma rimangono le «voci» il suo più ardente «fuoco». Nella maggior parte dei casi non sappiamo neppure a chi attribuirle, perché anonime; in altri, appaiono le firme in calce (ad esempio di Agnese Moro, o Adriana Faranda, o Manlio Milani). Lette, come devono essere, in un continuum narrativo, queste «voci» sembrano quasi una Spoon River dei vivi, dove nessuno però potrebbe aver fiato da solo, perché la «voce» di ciascuno ha bisogno di quella che la precede come di quella che la segue. Ed è questa la potenza anche storiografica del libro: a parlare di quegli anni non sono le vittime o i responsabili della lotta armata, in racconti solipsistici, ma sono le une e gli altri insieme, e le loro parole sono parole nuove e mai sentite proprio perché scaturiscono dal loro intrecciarsi. Sono parole che aspettavano di salire alla superficie, ma occorreva che qualcuno gliene offrisse un tempo e uno spazio. L’aver immaginato questo tempo e questo spazio è il più grande merito da attribuire a Bertagna, Ceretti e Mazzucato, i quali dichiarano apertamente di riconoscere il proprio modello nella giustizia riparativa, che a sua volta trova la propria espressione più nobile nell’esperienza della Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione. La giustizia riparativa, infatti, non si accontenta delle sentenze bensì ha l’ambizione di offrire qualcosa di più, in primo luogo alle vittime dei reati ma anche ai loro autori: un’occasione per superare insieme, aldilà dei ruoli processuali e nella relazione dialogica, le conseguenze generate dal reato. Nel caso del confronto fra i protagonisti della lotta armata l’ambizione era ancora più alta, perché a contrapporre le parti in gioco non era e non è semplicemente un conflitto, ma un «dissidio» vero e proprio, vale a dire un conflitto «irriducibile». Nessuno era in cerca di perdono, non interessava ai curatori del libro procurarlo né i responsabili lo chiedevano; e neppure la riconciliazione, a ben vedere, doveva essere per forza l’esito degli incontri, il cui fine ultimo risiedeva piuttosto in una «ricomposizione» delle memorie e dei punti di vista in virtù della quale a ciascuno fosse dato quantomeno di essere ritenuto legittimato a parlare e di essere ascoltato. Sembra forse poco, ed è invece moltissimo: un «compromesso» virtuoso, un equilibrio fondato sull’apertura di nuove possibilità, «fragile» e «insicuro» come tutto ciò che richieda cura e come ogni proiezione sul futuro lo è per definizione (nelle parole di Claudia Mazzucato e di Federica Brunelli, quest’ultima in un testo contenuto in Giustizia riparativa, a cura di Grazia Mannozzi e Giovanni Angelo Lodigiani, di recente pubblicazione dal Mulino). Solo il futuro, dunque, potrà dire se questo equilibrio, che il lavoro testimoniato dal Libro dell’incontro è riuscito a creare, saprà anche perdurare. Il libro dell’incontro dimostra che un’esperienza di giustizia, diversa quella ordinaria, è sempre possibile; e costituirà un precedente di enorme valore anche politico.
"Il libro dell'incontro", l'abbraccio possibile tra vittime e carnefici, scrive Stefano Jesurum su "Il Corriere della Sera" il 27 novembre 2015. "Il libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto", a cura di Adolfo Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato. Editore "Il Saggiatore". Gli incontri tra i terroristi degli anni di piombo e le famiglie degli uccisi, raccontati n in un libro, dimostrano che riconciliarsi è possibile. Ecco. Noi testimoniamo che un'altra strada è possibile, ma adesso non tocca più a noi. Tocca a voi che incontrate e ascoltate". Già, ma... "Quanta verità siamo disposti ad ascoltare?". Poche righe pescate nell'oceano di emozioni e ragionamenti contenuto nelle quasi 500 pagine de "Il libro dell'incontro" (il Saggiatore). Sette anni di colloqui/confronti nel senso più profondo - accompagnati finché è stato in vita dal cardinale Carlo Maria Martini - tra chi ha subìto un male terribile e chi quel male lo aveva causato. Vittime e responsabili della lotta armata nell'Italia del piombo e dell'odio, uniti da "qualcosa di tanto misterioso, e per molti versi inspiegabile, quanto forte, ineludibile, decisivo": ovvero la domanda, o la ricerca, di giustizia. Giustizia riparativa. Un flash. Domenica 17 giugno 2012, cimitero alle porte di Roma, davanti alla tomba di Aldo Moro un gruppo di persone, c'è Agnese la figlia dello statista ucciso dalle BR, familiari di ammazzati dal terrorismo rosso e nero, tre ex brigatisti tra cui due killer della strage di via Fani. Una preghiera, poi Agnese li abbraccia. Per chi ha fede un miracolo. Di sicuro qualcosa (come il tragitto che questo libro racconta) di difficile, impensabile, per alcuni indigesto, per altri scandaloso. Comunità della memoria. All'inizio - lo narrano i tre "mediatori" - tutti sapevano unicamente con chi e da che cosa volevano fuggire, "detto senza paura: dall'idea, di cui abbiamo constatato il fallimento, che una esperienza di giustizia significhi per i responsabili soltanto "pagare" le proprie colpe con anni di carcere; e per le vittime e i loro parenti trovare invece conforto e soddisfazione, in primo luogo, nell'espiazione di quella pena". Anni tenuti gelosamente lontani dai riflettori, secondo il metodo e le regole, appunto, della giustizia riparativa: volontarietà di partecipazione, riservatezza, confidenzialità, gratuità. A volte faccia a faccia, a volte in più d'uno, altre in molti, fino a ciò che non sono riusciti a chiamare in altro modo che "il Gruppo", una sorta di comunità di memoria. Ricordo, perdita, irreparabilità, verità, responsabilità, colpa, giustizia, pena, risocializzazione, riconciliazione.
"Dobbiamo confrontare le due verità-la vostra, di ex, e la nostra, di vittime. È l'unico modo per arrivare a comprenderci tutti come vittime. Noi della violenza, voi della storia". Una esperienza davvero importante. Che non vuole spiegarci alcunché. A noi lettori immaginare (provare a vivere) le voci, i silenzi, le lacrime e la speranza, i climi interiori, la potenza dei volti, degli sguardi. Con la speranza che possa segnare una svolta nelle coscienze individuali e in quella collettiva e, perché no?, magari nell'ordinamento giuridico.
“Il libro dell’incontro”, dialogo tra ex terroristi e vittime. “Così le nostre vite sono cambiate”. Nel volume del Saggiatore il racconto di un gruppo "autofinanziato" nato sette anni fa seguendo il metodo della giustizia riparativa, che prende a modello la Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica post apartheid. Partecipano ex membri di gruppi di lotta armata e famigliari delle vittime degli anni di piombo. Un percorso che il 17 giugno 2012 li ha portati insieme sulla tomba di Aldo Moro, scrive Eleonora Bianchini il 25 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Giorgio Bazzega – figlio di Sergio, poliziotto ammazzato insieme al vicequestore di Sesto San Giovanni Vittorio Padovani - e Mario Ferrandi - ex di Prima Linea condannato per concorso in omicidio del vicebrigadiere Antonio Custra a Milano il 14 maggio 1977 - escono sul balcone del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, quasi al buio, e riescono a recuperare un microfono per una “presentazione alternativa” de “Il libro dell’incontro” (Saggiatore), davanti a decine di persone rimaste fuori dall’auditorium. Perché dentro la sala è piena, non si può più entrare. Adriana Faranda – ex Br – Manlio Milani – presidente del comitato delle vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia, 1974 – e Agnese Moro sono già sul palco. Fuori, l’incontro “parallelo” e inaspettato. Bazzega e Ferrandi, insieme a Giovanni Ricci – figlio dell’autista di Moro, crivellato da nove colpi in via Fani il 16 marzo 1978 – raccontano la storia di un gruppo nato sette anni fa, fatto dai responsabili della lotta armata e dalle vittime di quegli anni Settanta di sangue. Proprio come Faranda, Milani e Moro stanno facendo in sala. Il filone è quello della giustizia riparativa, che prende a modello la Commissione per la verità e la riconciliazione nata nel Sudafrica post apartheid. Una strada percorribile solo con la consapevolezza che la pena non basta senza riconciliazione, dove è centrale il danno “umano”, “l’ascolto attento che mette da parte l’impulso a voler avere tutto chiaro e la tentazione del giudizio”. Tutto autofinanziato, dove lo Stato e le istituzioni sono i convitati di pietra, e in cui chi partecipa – volontariamente – è convinto che “fare giustizia non possa, e non debba, risolversi solamente nell’applicazione di una pena”. Bazzega ricorda l’incontro con Ferrandi, prima su internet “dove scazzavamo, e gli facevo un sacco di domande”. Poi di persona. Mi è venuta voglia di conoscerlo, in lui ho trovato molta disponibilità. Una sera l’ho tenuto sveglio fino alle quattro per parlare. E’ un amico, gli voglio bene”. Prima, però, la sua è una storia di rabbia, di periodi “che mi facevo di cocaina senza ritegno”, dove “mi ero fatto anche una lista con nomi e cognomi per andarli a prendere a casa e ammazzarli. Tutti quelli che facevan parte dell’organizzazione. Tutti quelli che mi avevan privato di mio papà”. Che aveva identificato Curcio come il male assoluto “perché era quello che aveva indottrinato Alasia, che ha ucciso mio papà”. E che poi decide di vederlo di persona, in un centro sociale alla Barona, a Milano, dove era stato chiamato da alcuni ragazzi. “Gli ho dato una pacca sulle spalle e ho detto: ‘Stai tranquillo: io abito a cinquanta metri, sai chi sono io, sai chi era mio padre. Venivi a parlare qua a casa mia, volevo solo che mi guardavi in faccia, fine'”. L’incontro decisivo per Bazzega è con Milani, “un signore che si è visto esplodere la moglie di fronte, durante la strage di Brescia. Io sembravo un animale uscito dalla gabbia, arrabbiato nero, e mi sono trovato davanti questo signore che aveva vissuto una tragedia forse anche più scioccante, traumatica della mia, e invece affrontava le cose con una serena determinazione. Per me è stata la chiave di volta. E poi altri, fra cui alcuni ex. E be’, la mia vita è cambiata, è cambiata veramente”. Con la consapevolezza “anche che mio padre era morto per difendere la vita”, cioè quella dei famigliari di Alasia, presenti durante la sparatoria del ’76. “Quindi non potevo buttare via la mia”. “Rispetto a Milani, che si è visto esplodere la moglie di fronte a piazza della Loggia, sembravo un animale uscito dalla gabbia”. Vivere, e non sopravvivere, anche per Ferrandi, che pensa “ai figli”, alle generazioni di oggi e di domani, a uomini e donne cristallizzati in un passato pesante per il quale hanno già saldato il debito con la giustizia. Alla sua immagine – come quella di altri ex – che rispunta, strumentalmente, sui giornali e dove “siamo ancora identificati come quelli con la P38. Ma sono passati quarant’anni”. Tanti, troppi anche per Giovanni Ricci, figlio dell’autista di fiducia di Aldo Moro. “La mia vita è stata rovinata dall’immagine del volto di mio padre crivellato di colpi. L’ho vista in tv. Ma chi ha ucciso in quegli anni ha una ferita ancor più grande della mia. Lo vedo. E lo sanno anche loro”. Inizia a pensare che forse quel “gruppo” – dopo tutti i tentativi falliti – possa essere una via per darsi una possibilità e andare oltre il tormento del passato. E gli anni, fatti anche di confronti aspri, hanno portato quel gruppo fatto di ex e vittime il 17 giugno 2012 sulla tomba di Aldo Moro, insieme. “Consideriamo questo percorso soltanto un primo passo”, spiega la giurista Claudia Mazzucato (a sinistra), curatrice del volume e mediatrice insieme al padre gesuita Guido Bertagna e al criminologo Adolfo Ceretti. Ma c’è ancora chi “soffre talmente tanto” da rifiutare ancora l’idea del confronto. “Ricordo una volta di avere incontrato una persona per strada che, saputo del mio ruolo di mediatore, ha indietreggiato fino a rischiare di finire sotto una macchina”. Alcuni, poi, “hanno chiesto di essere dimenticati, altri di non essere citati, altri ancora di non essere riconoscibili”. Gli ex che partecipano sono “terroristi rossi”. Il confronto coi “neri” non è ancora possibile. “La distanza e il conflitto tra le due parti sono ancora irriducibili. Soltanto una volta hanno partecipato alcuni dei gruppi armati di destra. Poi basta”. “Abbiamo condiviso la quotidianità. Poi magari c’era chi insegnava agli altri a pulire bene i corridoi ‘a lisca di pesce che si fa prima’ perché l’aveva imparato a San Vittore”. Un’esperienza di un dialogo a più voci dove, consapevolmente, la “verità storica di quegli anni non è stata toccata”, e dove al centro c’è il singolo in quanto persona. “Siamo arrivati a condividere la quotidianità. A passare prima qualche weekend e poi una settimana, d’estate, in montagna. Si lavavano i piatti insieme, si dormiva in stanze l’una vicina all’altra. Poi magari c’era chi insegnava agli altri a pulire bene i corridoi ‘a lisca di pesce che si fa prima’ perché l’aveva imparato a San Vittore”. Per alcuni ex il desiderio sarebbe quello di avviare una vera Commissione verità e riconciliazione anche in Italia, di coinvolgere Parlamento e istituzioni. Il timore è che l’opinione pubblica non sia ancora pronta, che al Paese sia ancora funzionale la memoria di un conflitto latente, esasperato allora e mai risolto dopo. Se le centinaia di persone dentro e fuori dall’auditorium a Milano possono significare qualcosa, forse i tempi sono cambiati.
Scrive “Nebrodi e Dintorni” il 24/10/2015. “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato. Se ne parla con Adriana Faranda, Manlio Milani, Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse e altri protagonisti. Adriana Faranda è nata a Tortorici il 7 agosto 1950. Militante rivoluzionaria negli Anni di piombo, entrò a far parte delle Brigate Rosse, insieme al suo compagno Valerio Morucci, nell'estate 1976, dirigendo la colonna romana e svolgendo un ruolo importante durante il sequestro Moro. Sabato 24 ottobre 2015 al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, alle ore 19, Gad Lerner presenta "un’esperienza straordinaria condotta lungo sette anni in riservatezza da persone segnate dal dolore, protagonisti degli anni di piombo e loro vittime o parenti di esse". Lo stesso Lerner definisce questo un esperimento di “giustizia riparativa orizzontale”, condotto con la mediazione di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato, con il coinvolgimento di garanti e testimoni, "assieme a sempre più numerosi protagonisti diretti che si sono incontrati decine di volte, fino a sperimentare momenti estivi di vita comune". "Vicende cruciali della nostra storia, la scia di sangue degli anni Settanta, vengono rivissuti in cerca di una “verità curativa”, senza edulcorarle, ma sapendo che “ci sono dolori non cancellabili ma che possono essere trasformati”. Avendo il coraggio di guardarsi in faccia e riconoscersi, nell’elaborazione del lutto e della colpa, rafforzati dal constatare che, alla lunga, “Il volto non mi può ingannare”. “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto” (Il Saggiatore), a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato. Questo libro cambia la storia d'Italia. L'incontro di cui parla - fra vittime e responsabili della lotta armata degli anni settanta - è infatti destinato ad avviare un radicale cambio di paradigma storico: non si potrà più guardare agli "anni di piombo" con gli stessi occhi; né si potrà tornare a un'idea di giustizia che si esaurisca nella pena inflitta ai colpevoli. Le prime pagine ancora oggi dedicate alla lotta armata e alle stragi, le centinaia di libri pubblicati, i film, le inchieste dimostrano non tanto un persistente desiderio di sapere, ma anche e soprattutto un bisogno insopprimibile di capire, di fare i conti con quel periodo, fra i più bui della nostra storia recente. È proprio muovendo dalla constatazione che né i processi né i dibattiti mediatici del conflitto sono riusciti a sanare la ferita, che un gruppo numeroso di vittime, familiari di vittime e responsabili della lotta armata ha iniziato a incontrarsi, a scadenze regolari e con assiduità sempre maggiore, per cercare con l'aiuto di tre mediatori: il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzucato - una via altra alla ricomposizione di quella frattura che non smette di dolere; una via che, ispirandosi all'esempio del Sud Africa post-apartheid, fa propria la lezione della giustizia riparativa, nella certezza che il fare giustizia non possa, e non debba, risolversi solamente nell'applicazione di una pena. Postfazione di Luigi Manconi e Stefano Anastasia. In un articolo del Corriere della Sera del 24 ottobre 1993, i figli dello statista - Agnese e Giovanni Moro - commentano le ultime confessioni di Adriana Faranda sul rapimento e omicidio del padre e aggiungono di avere ancora dubbi e interrogativi fondati su punti essenziali dell'intera vicenda: "Abbiamo dato troppo credito ai pentiti e non lo meritavano, come viene dimostrato in questi giorni". Così affermano Agnese e Giovanni Moro, figli dello statista ucciso dalle Brigate rosse. Esprimono "dubbi e interrogativi seri e fondati su molti punti essenziali della vicenda". E aggiungono: "Non sappiamo dire quali siano le ragioni per cui nelle ultime settimane sono emerse circostanze inedite a proposito della vicenda del rapimento e dell'assassinio di Aldo Moro. Non crediamo nemmeno che l'argomento sia di grande interesse, mentre ciò che è davvero importante è sottoporre ad attenta verifica quanto si sta venendo a sapere, accertandone la consistenza senza alcun pregiudizio". I figli di Moro trovano poi "inaccettabile" il modo in cui alcuni "importanti commentatori e opinionisti" minimizzano la portata dei "fatti emersi in questi giorni". Non hanno gradito la lettura di alcuni commenti secondo cui i nuovi episodi che stanno affiorando sono, "anche una volta provati, dettagli irrilevanti". Non credono, come scrivono alcuni osservatori, che "il quadro di insieme è' chiaro". Dopo le dichiarazioni di Adriana Faranda, intervennero "anche i familiari degli uomini della scorta di Moro, uccisi nell' agguato di via Fani. Sono "indignati", disse l'avvocato Luigi Ligotti, legale di parte civile, per "l'ipocrisia di molti giornali che fingono di essere commossi per le lacrime del killer Prospero Gallinari prima che Moro venisse ucciso, e non hanno mai ricordato la morte dei cinque uomini che proteggevano il presidente della Democrazia cristiana". Ma la storia può davvero cambiare la storia? Nel «Libro dell'incontro» curato da Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato, nell'ambito «Bookcity Milano», nell'auditorium del Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia, quello che di certo si può dire è che si è rivelato uno spazio insufficiente per le tantissime persone che desideravano prendere parte all'incontro. L'evento è stato moderato da Gad Lerner e vi hanno preso parte Manlio Milani, Adriana Faranda e Agnese Moro. Una storia che continua a rivelarsi "stretta", in tutti i sensi.
Adriana Faranda (Tortorici, 7 agosto 1950) è un'ex terrorista italiana, militante delle Brigate Rosse durante gli Anni di piombo. Dopo aver militato in alcune formazioni minori di lotta armata attive a Roma, entrò a far parte delle Brigate Rosse, insieme al suo compagno Valerio Morucci, nell'estate 1976, dirigendo la colonna romana e svolgendo un ruolo importante durante il sequestro Moro. Si distaccò dalle Brigate Rosse per contrasti sulle scelte strategiche dell'associazione terroristica nel gennaio 1979. Arrestata il 30 maggio 1979 insieme a Morucci, durante gli anni ottanta si è dissociata dal terrorismo beneficiando delle riduzioni di pena previste dalla legge e uscendo dal carcere nel 1994. Inizialmente entrata in Potere Operaio, nel 1973 insieme ad altri (fra i quali Bruno Seghetti e il suo compagno Valerio Morucci) fu tra le persone fondatrici del gruppo estremistico LAPP (Lotta Armata Potere Proletario); in seguito entrò nelle Brigate Rosse, nelle quali fece parte dei suoi vertici direttivi. Fu una componente della colonna Romana (insieme a Mario Moretti, Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, Germano Maccari e Barbara Balzerani), che organizzò il sequestro di Aldo Moro. Abbandonò questa organizzazione terroristica dopo l'assassinio di Aldo Moro, durante il cui rapimento agiva come "postina", nel giugno del 1978. Fu infatti tra i pochissimi ("due compagni che dissentono non sono nemmeno un'eccezione, sono un'eccentricità", commentò Mario Moretti), insieme a Morucci e a Maccari, a opporsi all'omicidio del politico e questo l'avrebbe portata a una rapida estromissione dall'organizzazione, che lasciò per seguire formazioni legate a Franco Piperno. Tentò, senza successo, di creare una nuova formazione di lotta armata.
Scrive Luca Doninelli per “il Giornale” il 17 dicembre 2015. Il Saggiatore ha pubblicato, il mese scorso, un testo di grande importanza, Il libro dell'incontro (pagg. 470, euro 22) a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, che rimarrà nel tempo come un punto di riferimento fondamentale per chiunque desideri ripercorrere quel periodo oscuro della storia che va sotto il nome di «Anni di piombo»: anni che furono la matrice di tutti i misteri e i segreti di un Paese che, oggi, non è più capace di guardarsi e di pensarsi, ossia di trovare un luogo - come la ginestra leopardiana - dove poter dire: «qui mira e qui ti specchia». Avendo anche il sottoscritto partecipato, sia pure in modo marginale, all' avventura umana che ha portato all' esistenza di questo libro - una storia di incontri, di faccia-a-faccia talora meravigliosi ma altre volte quasi intollerabili - trovo scorretto proporre una vera e propria recensione. Mi limito a un'osservazione: la raccolta di testi che compone il volume - taluni anonimi altri firmati, sia da ex-terroristi, sia da vittime che da giuristi o intellettuali o semplici cittadini - non riguarda il passato, la guerra che fu, ma continua a riguardare il presente perché le motivazioni umane che generarono quei fatti continuano a esistere e ad agire in ciascuno. Per quanto attiene a me, mi voglio limitare a commentare una pagina sola del libro, a firma di Adriana Faranda, che fu (come tutti sanno) una delle protagoniste della strage di via Fani. Parlando di quegli anni, Faranda rivendica i motivi della propria azione: nessuno agisce senza motivi, il problema è «piuttosto il modo in cui si affermano». Non nega i propri gravi errori, e aggiunge che «per fare questo ho dovuto rimuovere e mutilare parte di me stessa, quella che di me era la migliore». Insomma, nell' agghiacciante grido di Paolo VI - «uomini delle Brigate Rosse!» - non c'era solo un'improbabile speranza. Gli uomini c' erano, erano lì. Faranda nega tuttavia che a muovere lei e gli altri verso il peggio sia stata semplicemente una «deriva irrazionalistica». Certo, dice, c' era molto di irrazionale in quelle azioni e più ancora in quel modo di vivere e di pensare, soprattutto nel rifiuto di ogni «confronto delle idee». Un' attitudine di chiusura, insomma: pensiamo a quanti delitti si consumano oggi allo stesso modo. In una cultura in cui (oggi più che ieri) tutto sembra voler definire la personalità umana come un mondo organizzato intorno a un ego (pensiamo anche a certe pubblicità) ad esclusione di qualsiasi intruso - be', c'è da chiedersi in che senso possiamo dirci fuori da questa dinamica: sono cambiate solo le opinioni, non la struttura. Ma questa è solo la premessa della vera domanda: «perché - si chiede l'ex-brigatista - a quei tempi mi sembrava tutto così maledettamente razionale? (...) E perché anche chi vedeva così irrimediabilmente nemiche le nostre domande, le nostre istanze, il nostro desiderio di cambiamento, ci sembrava così crudelmente razionale?». Questa domanda dovrebbe riguardare tutti, e il fatto che sia un'ex-terrorista a porla non ne limita la sostanza. La mia personale impressione è che non bisogna mai confondere la storia con il passato. La persuasione che le nostre azioni seguano una linea razionale dipende in gran parte dalle strategie che mettiamo in atto per sentire di essere «qualcosa», e per sentire di essere «qualcosa» dobbiamo affermare un certo senso di differenza: noi ci differenziamo da loro, noi siamo fuori dal coro. Chi vorrebbe dire di sé «io sono uno del coro»? Ma tra quel tempo e questo, affinché la storia non scada in un banale labirintico archivio del passato, è necessario segnare un punto di passaggio: l'idea della guerra. I brigatisti si consideravano in guerra con lo Stato, e avevano una strategia (razionale) da contrapporre a un'altra strategia, altrettanto razionale. I brigatisti si sentivano portatori di una storia migliore, perché con la loro razionalità agivano le «istanze». Sicuramente lo Stato era a loro modo di vedere una compagine razionale capace di esercitare un controllo esattamente sulle istanze, sui luoghi e sulle dinamiche in cui il desiderio diventava parola, ragione, azione. La guerra contro lo Stato era la forma del confronto, era il presente della storia, la premessa del futuro. Oggi noi diciamo «io sono fuori dal coro», ma il coro che cos' è? Dove sono quelli che dicono «io sono del coro?». Saliamo sulla nostra Jeep Renegade o sulla nostra Mercedes e andiamo via, ma via da dove? Da chi? Verso la libertà, ma qual è il luogo della libertà? Nelle scelte sanguinarie e disumane compiute da quegli uomini e da quelle donne era presente una domanda che non si è più estinta. Pensiamoci. Siamo circondati da guerre di cui siamo in parte noi stessi i responsabili - noi, intesi come civiltà alla quale apparteniamo per libero consenso - e ci pensiamo in pace. Mi viene allora da chiedermi che guerra fu mai, quella, e se i morti di quella guerra si possono limitare soltanto a quelli lasciati sulle strade dai terroristi; se, al di là delle teorie, dei calcoli e delle strategie, la posta in gioco non fosse ben più alta. I quarant' anni trascorsi dalla morte di Pasolini sospingono il nostro pensiero verso un sospetto: che a morire, in questa guerra, sia stata quell' Italia diciamo così «guareschiana», popolare, alimentata da fedi diverse ma da un senso naturale del bene comune, che mai si sarebbe sottomessa ai calcoli degli intellettuali, alle mode culturali, ai diktat di chiunque volesse trasformare la sua cultura in un mercato. Fu il mercato a vincere quella guerra, la riduzione della cultura a proprietà di qualcuno; a vincere fu la possibilità di riformulare un'idea di società più permeabile agli indirizzi dei maîtres à penser, che da sempre conoscono e spesso servono le vere centrali del potere. Io non so né mai saprò se le BR volessero combattere quelle centrali (in questo mi sembrano molto ingenue) oppure entrare in qualche modo a farne parte, in nome di un «desiderio» magari non irrazionale, ma senza dubbio confuso. Quello che so è che le domande che quell' epoca pose all' Italia sono le stesse alle quali non abbiamo mai risposto, ed è forse anche per questo che, oggi, l'Italia ci appare un Paese fatto di (poco affascinanti) segreti.
Faranda: ho il dubbio di non aver fatto abbastanza per salvare Moro. L’ex brigatista rossa parla degli anni di piombo a Radio Uno: «La violenza va tenuta fuori da qualsiasi forma di conflitto». E aggiunge: «Avrei dovuto forse uscire immediatamente dalle Br», scrive Valeria Palumbo il 28 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera”. Adriana Faranda, 65 anni, la “postina” delle Br, tra i responsabili del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro da parte dei terroristi rossi che, il 16 marzo 1978 uccisero anche i cinque uomini della scorta, ribadisce di aver fatto di tutto per convincere i compagni a non uccidere il politico. Lo dice a Carla Manzocchi di Radio Uno: Moro «era ormai una persona diversa, indifesa e lasciata sola dai compagni di partito». L’ex terrorista, arrestata nel 1979, si è dissociata negli anni Ottanta e ha goduto delle progressive riduzioni di pena: nel 1994 è uscita dal carcere. A Radio Uno ha detto: «Io credo che l’odio irrisolto e la violenza non possano partorire un mondo più giusto, un mondo migliore. Il bilancio è estremamente amaro». La Faranda parla soprattutto dell’incontro con i familiari dello statista ucciso dalle Br: «sono momenti difficili, sai che è impossibile mettere rimedio a ciò che è stato fatto». In particolare l’ex brigatista ha incontrato Agnese Moro, la figlia di Aldo: insieme, nell’ottobre 2015, hanno affrontato il palco di Bookcity per la presentazione de Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto(ilSaggiatore). Faranda ribadisce: «Rispetto il dolore dei familiari di chi è stato ucciso in quegli anni terribili» ha precisato. E ha spiegato che l’incontro con Agnese Moro, figlia dello statista dc, è stato «emozionante e difficile dal punto vista emotivo. Sono momenti intensi in cui c’è timore, perché sei davanti a una persona che sai di aver ferito in maniera irrimediabile». Agnese Moro, a sua volta, aveva detto di «aspirare a essere una ex vittima. Io amerò per sempre mio padre, ma voglio andare avanti». «Ho sempre il dubbio— ha aggiunto Adriana Faranda — di non aver fatto abbastanza per evitare la condanna a morte di Moro. Avrei dovuto forse uscire immediatamente dalle Br. Credo di aver usato tutti gli argomenti possibili per fare una battaglia politica all’interno: per esempio dicendo che Moro era indifeso, che non era più l’uomo politico che avevamo sequestrato perché era ormai una persona lasciata sola dai suoi compagni di partito che si rivelava in tutta la sua umanità». Quando all’aspetto storico e giudiziario, Faranda ha sostenuto a Radio Uno: «Oggi posso affermare di aver detto tutto ciò che sapevo del delitto Moro, non ho altro da aggiungere». E, in particolare, rispetto alle ipotesi che le Br fossero “eterodirette”, che ci fossero degli infiltrati: «di questo non ho avuto alcuna percezione. Le ipotesi lasciano il tempo che trovano».
APUZZO E FALCETTA: STRAGE DI ALCAMO: NON FU GLADIO (NEMMENO GULOTTA).
FU UN ASSASSINIO SU COMMISSIONE? Forse una svolta nel barbaro eccidio di Alcamo. Da indiscrezioni confermata questa ipotesi -1 due CC sarebbero stati uccisi per caso dai malviventi che preparavano un sequestro. Sembra che il personaggio preso di mira fosse l’on. Sinesio, grosso esponente DC - Lo strano comportamento di «Dino u pazzu». Vincenzo Vasile martedì 17 febbraio 1976, pag. 5, L’Unità. C’è una svolta nelle indagini sul barbaro eccidio dell'appuntato Salvatore Falcetta e dell'allievo Carmine Apuzzo, trucidati a pistolettate la notte del 27 gennaio dentro la casermetta di Alcamo Marina: così sembra, stando alle indiscrezioni che circolano alla vigilia della presentazione al magistrato del rapporto elaborato sulla vicenda dal nucleo investigativo dei carabinieri, prevista per domani. Naturalmente, visti i precedenti. bisogna prendere tutto co' beneficio dell'inventario. Però — a quanto sembra — sarebbe innanzitutto ormai i accertato che non era semplicemente «dimostrativo» lo scopo prefissato dal commando composto da Giuseppe Vesco, Giuseppe Ferratelli, Gaetano Sant' Angelo, Giovanni Gulotta e Giovanni Mandala, con l'uccisione dei due militari e l'irruzione. quella tragica notte, nel posto fisso della frazione balneare semideserta di Alcamo. Circola voce. anzi, che il massacro dei due carabinieri sarebbe avvenuto praticamente «per caso» e che cioè uccidere i due militari sarebbe divenuto necessario, una volta che uno dei due carabinieri, svegliatosi di soprassalto, aveva riconosciuto alcuni degli intrusi. La banda — si dice — nella stazione di Alcamo Marina, in realtà, cercava armi, bandoliere, divise e pilette rifrangenti. Quanto occorreva ad un regista accurato — con tutta probabilità esterno al gruppo di « mezze figure » che «sinora sono state individuate — per predisporre un tranello, un sequestro. Dal formicaio di voci che sembra essersi scoperchiato, è uscito anche un nome, quello di un esponente democristiano, il sottosegretario ai trasporti, Giuseppe Sinesio, che sarebbe il « grosso personaggio » da rapire, di cui si è insistentemente parlato in queste ore. In serata, comunque, questa circostanza è stata « fermamente smentita » dagli investigatori. Nel rapporto che sarà consegnato domani all'autorità giudiziaria, figurerebbero. comunque, oltre ai nomi dei cinque, anche altre due o tre persone sulla cui identità, per non intralciare l'inchiesta, vice il riserbo. Ed il fatto è che. indiscutibilmente, delle svariate versioni interpretative che sono circolate in questi giorni sul massacro di Alcamo, nessuna ancora soddisfa e convince pienamente. C'è financo chi ha parlato, a proposito dell'eccidio, di un «delitto gratuito ». Ma come pensare che un «raptus» » inconsulto abbia condotto questi quattro ragazzi e questo botta-sofìsticatore di vini dentro la casermetta di Alcamo Manna ad uccidere, con tecnica da professionisti i due carabinieri? Le «arance meccaniche » non crescono facilmente in una zona di solidi equilibri mafiosi come questa. «La Mafia non c’entra» ha sostenuto qualcuno degli inquirenti all'indomani dell’eccdio. con una fretta ed una sicumera che appare eccessiva, pensando solo a questo scenario che è, come testimonia anche l'inconfondibile « identikit » del p:ù anziano dei banditi, il 34enne sofisticatore di v.ni di Partinico. Giovanni Mandalà, lo scenario ben noto di una zona dove arricchimenti rapidi, violenza criminale, equilibri politici, fortune elettorali recano spesso un'unica matrice mafiosa. I dubbi non sono affatto dissipati: tre delie quattro confessioni, come si ricorderà sono state ritrattate. I giovani arrestati hanno addirittura lanciato accuse contro i carabinieri. Hanno detto di essere stati picchiati, costretti a firmare. Al verbale che è all'esame del magistrato, è stata aggiunta questa dichiarazione di Vincenzo Ferrandoli: « E" tutto falso: mi hanno messo in testa un cappuccio. m'hanno condotto fuori della caserma e hanno detto: ora ti fuciliamo ». I carabinieri hanno replicato sostenendo che gli interrogatori si sarebbero svolti alla presenza dei difensori d'ufficio. Ma rimane ancora da spiegare come e perché, se il fermo di Vesco — quello che ha confessato per primo — e avvenuto mercoledì, la procura e stata lasciata all'oscuro di tutto sino al giorno dopo. « C'è una banda — commenta stupito un investigatore — che si macchia d'un delitto casì infame correndo rischi terribili. E poi. tutto all’improvviso, uno di loro, il Vesco, si fa trovare praticamente con le mani nel sacco; indica i nomi dei complici, infine conduce gli inquirenti quasi per mano nel luogo dove essi troveranno tutti i riscontri obiettivi, tutte le prove; un garage di Partinico, dove c'è mezzo milione in contanti, la refurtiva, rimasto pressoché intatto, e poi le bandoliere e le divise». Un particolare singolare che fa pensare ad un cervello esterno alia banda Vesco Mandalà: Dino u pazzu, custode del garage deposito di Partinico, aveva utilizzato una piccolissima parte del bottino (tremila lire in tutto) per le piccole spese ed aveva annotato il fatto in una specie di «libro mastro». come se, all'occorrenza. esso avesse dovuto essere esibito ad un regista dietro le quinte. Di simili mister è stato contrassegnato anche tutto il complicato e contraddittorio svolgersi delle indagini. Cosi e nata l'inquietante ridda di notizie contraddittorie; di nervose e polemiche smentite e controsmentite a distanza, che le vane polizie che si occupano di questo tragico caso sono andate diramando in questi giorni, malgrado le violente e pubbliche reprimende ad uso interno che sono state fatte dal comandante generale dell'Arma, e dal questore di Trapani, a proposito di presunte, e a tuttora imprecisate « piste terroristiche. Vincenzo Vasile
È doveroso puntualizzare , che le persone, i cui nomi sono citati nell’articolo, che furono accusate all'epoca, sono state tutte assolte.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta). Francesca Scoleri su themisemetis.com il 12 Luglio 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Era la notte del 27 gennaio del 1976 , quando un commando fece irruzione nella casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani e uccise i carabinieri Apuzzo e Falcetta. Le indagini furono condotte dal Colonnello Russo, ucciso un anno dopo a Ficuzza da un commando agli ordini di Totò Riina. Dopo circa quindici giorni dal duplice omicidio, una volante dei carabinieri, fermò un giovane di Alcamo, tal Giuseppe Vesco, monco di una mano, alla guida di una Fiat 127. Era in possesso dell’arma che aveva ucciso i due carabinieri e di una pistola di ordinanza, di uno dei due carabinieri uccisi nell’agguato. Vesco fu interrogato e confessò. Indicò agli inquirenti il covo dove era nascosta la refurtiva, e accusò i suoi complici, tre giovanissimi ragazzi, suoi amici di Alcamo e un suo conoscente di Partinico. Tutti condannati nei processi che seguirono nei successivi anni. Vesco però non arrivò mai al processo, perché un anno dopo, fu trovato impiccato nel bagno dell’infermeria del carcere San Giuliano di Trapani. Nel 2008 il colpo di scena. Un ex carabiniere Renato Olino, che aveva partecipato alle indagini, raccontò che Vesco confessò tutto sotto tortura. Gli avvocati di Giuseppe Gulotta, uno dei quattro condannati, chiedono e ottengono il processo di revisione e alla fine, vengono assolti tutti, inclusi Ferrantelli e Santangelo che, dopo la sentenza in cassazione, erano scappati in Brasile con l’aiuto di Padre Mattarella, cappellano del carcere di Trapani, che a suo dire, illuminato dal Signore, era certo della loro innocenza. Tutto da rifare dunque per gli inquirenti, anche se sono passati 36 anni. Nel frattempo si susseguono le piste sui possibili moventi e mandanti. Un ex poliziotto di Alcamo, Federico Antonio, racconta al sostituto procuratore di Trapani, che nel 1992, un suo confidente, gli raccontò che Apuzzo e Falcetta furono uccisi il pomeriggio del 26 Gennaio, esattamente alle 15.30 perché fermarono un furgone carico di armi, condotto da appartenenti alla Gladio. Dopo un breve controllo, i due carabinieri, invitarono i passeggeri del furgone all’interno della casermetta, e li furono uccisi. Il movente Gladio è stato ripreso da più organi di stampa, inclusa la trasmissione Blu Notte di Lucarelli, ma nessuno ha mai fatto i dovuti riscontri. Stefano Santoro operatore video free lance residente a New York, ha prodotto un lungo video dossier sulla vicenda e ha dimostrato che in realtà, l’ipotesi tanto declamata dagli organi di stampa, dell’omicidio alle 15.30 è irreale. La sorella di Carmine Apuzzo ricorda la telefonata del fratello alle 18.30 , mentre i familiari di Falcetta hanno ricostruito le ultime ore dell’appuntato che nel pomeriggio, dopo aver trascorso alcune ore con i familiari, si recò al comando provinciale di Trapani, poiché doveva ultimare il suo imminente trasferimento a Buseto, per essere più vicino alla madre sofferente. Altro tassello che esclude il posto di blocco all’equipaggio Gladio, con l’immediato duplice omicidio, è la testimonianza a poche ore dalla strage, di due persone che raccontarono agli inquirenti di essere stati insieme ai due militari all’interno della casermetta di Alcamo Marina fino a mezzanotte circa, per giocare a carte. Inoltre i due carabinieri furono trovati in pigiama, Apuzzo ancora a letto sotto le coperte, mentre Falcetta, dopo un tentativo di reazione, rimase incastrato tra il letto e il muro, con le gambe attorcigliate alle lenzuola. Una scena raccapricciante che non lascia spazio a ricostruzioni false e artificiose, di riproduzioni della scena del delitto. Nonostante ciò nessuno ha mai smentito questo inconcepibile teorema, accostato suggestivamente più volte anche al ritrovamento, nel 1992, di un deposito di armi, custodito da due carabinieri . Il professore Romano Davare, noto scrittore, regista teatrale e all’epoca dei fatti corrispondente del Secolo D’Italia, racconta che la sera precedente alla strage, si trovava nei pressi di Trapani, per un convegno del Msi, con ospite il segretario Giorgio Almirante. Il professore Davare scrisse della strage, ma il direttore del Secolo D’Italia gli proibì di parlare del possibile movente, da lui ipotizzato alla luce dei fatti. Sul gruppo Facebook Giustizia per Apuzzo e Falcetta, Stefano Santoro ha approfondito questa ipotesi e scrive “L’assalto alla casermetta a quattro ore dal passaggio di Almirante, in un arco di 365 giorni, e sotto una pioggia torrenziale, fu solo una casualità ? No a mio parere. Gli ingredienti per un sequestro ci sono tutti. Covo pronto a Partinico, divise, (non quelle in grande uniforme lasciate invece a terra nella casermetta) armi, cibo, (preso dalla casermetta) indumenti intimi, soldi, passamontagna, materasso, lenzuola, guanciale, soldi di altri sequestri, stralci di giornali relativi ai sequestri Corleo e Campisi e ancora, cavi di telefono e ruote tagliate dell’auto di Falcetta, per isolarli e avere un vantaggio di tempo, al loro risveglio prima che potessero avvisare i colleghi (Vesco scrisse nelle lettere che non era prevista la loro esecuzione, evidentemente perché dovevano essere sedati), e ancora, la scorta di Almirante non comunicò al segretario del Msi della tragedia, ed infine, la parola fine ai sequestri, in provincia di Trapani ,dopo l’episodio di Alcamo Marina, come se qualcosa si ruppe. Insomma, cosa altro serve, per dimostrare che ci fu un tentativo di sequestro di Almirante.
La domanda è: chi fu il mandante e a quale scopo?” Il professore Davare, sostiene nell’intervista che il direttore del Secolo D’Italia declinò il tentativo di scrivere sul possibile sequestro di Almirante, per evitare uno scontro sociale. Dopo 43 anni è difficile smascherare la verità, ma intanto alla vicenda si è aggiunto un altro enigma. La sorella di Giuseppe Vesco, il giovane trovato impiccato all’interno del carcere, sostiene di avere visto suo fratello nel corso principale di Alcamo, ma aggiunge altri particolari. Racconta, in esclusiva ai microfoni di Stefano Santoro, che al momento del riconoscimento del cadavere, suo fratello non aveva segni di impiccagione al collo , che il corpo del fratello giaceva su una normale barella, che non fu permesso ai familiari di avvicinarsi per un ultimo abbraccio e che, al padre e allo zio del giovane, non gli fu autorizzato di assistere alla saldatura della bara. La sorella ha presentato regolare denuncia al commissariato di Alcamo, ha fatto richiesta per l’apertura della bara, ha appeso per le vie di Alcamo, la foto di suo fratello, per denunciarne l’esistenza in vita, ma non ha ancora ricevuto nessuna risposta. Una persona in cerca di verità e giustizia.
La strage di Alcamo Marina.
Premessa. Vi sto raccontando in queste pagine le storie che hanno riempito di mistero la nostra storia recente. Alcune di queste sono conosciutissime, come quella relativa ad Ilaria Alpi, allo scandalo Lockheed, l’incendio della Moby Prince e così via. Altre invece sono poco conosciute, spesso del tutto sconosciute al grande pubblico, perfino a quello nella cui zona le vicende si sono verificate. Un esempio è l’abbattimento dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e un altro esempio è il fatto di cui vi voglio parlare adesso. É conosciuto come la strage di Alcamo Marina. Ci sono stati due morti, due carabinieri, ma il caso è estremamente intricato e quindi vi consiglio di seguire tutta la puntata con attenzione. In ogni caso potrete riascoltarla con calma visitando il mio sito noncicredo.org, dove trovate tutte le puntate trasmesse negli ultimi anni da questa emittente. E adesso possiamo cominciare. Alcamo è un paese a metà strada tra Trapani e Palermo. Si affaccia sul mar Tirreno. Oggi parleremo di un fatto avvenuto il 27 gennaio 1976 nella frazione Alcamo Marina, località balneare grazie ad una bella spiaggia sabbiosa sul golfo di Castellamare, quella in provincia di Trapani. Nella caserma dell’arma, la Alkamar, quella notte stanno dormendo due militari, l’appuntato Salvatore Falcetta di Castelvetrano (TP) e un ragazzo di 19 anni, il carabiniere Carmine Apuzzo, di Castellamare di Stabia (NA). É una notte di temporale con tuoni e molta pioggia. Del resto siamo in pieno inverno e la località balneare è praticamente deserta di turisti. Verso le 7 della mattina del 27 gennaio, la scorta di Giorgio Almirante, che passava di là, si accorge che qualcosa non va nella caserma. Il portoncino è stato scassinato, usando la fiamma ossidrica. Fanno intervenire i carabinieri di Alcamo, i quali, entrando, si trovano di fronte ad una scena raccapricciante. Carmine è steso nella sua branda crivellato di colpi: non si è neppure accorto di quello che stava accadendo. Salvatore invece i rumori li sente, cerca di prendere la sua pistola, ma non fa in tempo: viene assassinato come il suo collega. Dalla caserma sono sparite pistole, divise e altri oggetti. Perché dedicare un articolo ad un fatto che con ogni probabilità nessuno ricorda, forse nemmeno conosce se non chi è rimasto coinvolto direttamente: i familiari delle vittime, quelle uccise e quelle ritenute colpevoli? In fondo – si potrà dire - si tratta di due morti che non hanno nomi importanti e quindi passano inosservati nell’insieme delle storie che vi sto raccontando. Ma questa vicenda è allucinante per le conseguenze che ha avuto e per il fatto che, ancora oggi a così tanti anni di distanza nessuno sa chi sia stato né il motivo di questo eccidio. Certo, si sono fatte ipotesi e qualche racconto è emerso ed è proprio di questo che voglio parlare questa sera, perché qualche colpevole è stato riconosciuti e sbattuto in galera con sentenze durissime. Peccato che quelle persone fossero innocenti.
I fatti. Cominciamo con il racconto formale dei fatti, quello che scrive Wikipedia, una fonte semplice, ma che può essere controllata dai diretti interessati. Poi entreremo nelle pieghe della storia e cercheremo di capire meglio. Prima di cominciare è bene ricordare in che clima vive il paese in quel periodo a metà anni ’70. Sono anni difficili, anche e soprattutto in Sicilia: il pericolo terrorismo, le brigate rosse, la mafia, i servizi segreti “deviati” presenti in provincia. E poi d’inverno non c’è nessuno su quelle spiagge del Golfo di Castellammare proprio dove si trova la casermetta di Alkamar: un luogo ideale per interi sbarchi di sigarette di contrabbando, di droga e forse anche di armi. Il primo sospetto cade sulle Brigate Rosse, anche se, a dire il vero, c’è una rivendicazione di un gruppo mai sentito prima. Poche ore dopo l’eccidio, infatti, il Nucleo Sicilia Armata, diffonde questo messaggio telefonico con una voce priva di inflessioni al centralinista de La Sicilia. “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro. Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”. Di questo fantomatico gruppo, di evidente matrice rossa, nessuno sentirà mai più parlare, segno che il messaggio aveva una funzione di depistaggio. Ma è altrettanto certo agli inquirenti che chi telefonava era stato sulla scena del crimine o, quanto meno, ne era molto ben informato. Del resto in quegli anni ad Alcamo erano stati ammazzati due altri personaggi pubblici: l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo Francesco Paolo Guarrasi (ex sindaco DC) viene ucciso nel maggio del 1975 con 4 colpi di pistola, mentre scende dalla sua auto proprio sotto casa. La pistola che lo uccide è la stessa calibro 38 che soltanto un mese prima aveva ucciso ad Alcamo il consigliere comunale Antonio Piscitello. E poi di spari contro i carabinieri in piena notte ce n’erano già stati, ma senza provocare feriti. Anche in quell’occasione il responsabile non era stato trovato. Passano solo tre giorni quando, il 30 gennaio, le Brigate Rosse emettono un comunicato, negando con fermezza di aver partecipato ai due assassinii. Nonostante questo la pista che viene seguita è sempre quella del terrorismo rosso. Le indagini sono guidate da Giuseppe Russo, allora capitano del nucleo operativo di Palermo, braccio destro del generale Dalla Chiesa. Mentre si cerca tra i vari gruppi e gruppuscoli dell’estremismo di sinistra, ecco il colpo di scena.
Il colpevole? Qualche settimana più tardi, è il 13 febbraio, ad un posto di blocco viene fermato Giuseppe Vesco, di Alcamo su una fiat 127 verde. É un tipo stravagante, tanto che in paese lo chiamano “Giuseppe il pazzo”. La targa della sua automobile è falsa. Gli manca la mano sinistra, amputata dopo che, un paio di anni prima, aveva fatto brillare un ordigno esplosivo forse trovato in un prato. Lo perquisiscono: ha addosso una pistola calibro 7,65, dello stesso tipo di quella usata per l’eccidio dei due carabinieri. Poi, salta fuori un’altra pistola: una Beretta in dotazione ai carabinieri. La conclusione è quasi immediata: è una delle armi rubate dalla casermetta: Il colpevole è stato trovato. Giuseppe, o Pino, come molti lo chiamano, si chiude in un silenzio ostinato, rotto solo da frasi del tipo: “Mi considero un prigioniero di guerra”, giocando il ruolo del terrorista come quelli veri delle Brigate Rosse. Si dichiara colpevole, ma al processo ritratta. I giornali dell’epoca non danno risalto a questo cambiamento di strategia. Cosa è accaduto tra l’arresto e il processo? Abbiamo la possibilità di usare due fonti. La prima è l’insieme di lettere che Pino scrive dal carcere, anche se a volte non si conosce l’identità dei destinatari. la seconda è la deposizione di un ex carabiniere, che aveva partecipato all’interrogatorio dopo il quale Vesco aveva confessato tutto. Cominceremo ad esaminare la prima fonte. Trovare quelle lettere non è facile. Un paio di esse vengono pubblicate nel 1978 dalle riviste “Controinformazione” e “Anarchismo” e vengono poi raccolte da un’associazione, alla quale si rivolge Roberto Scurto, giornalista che tiene un blog chiamato “Liberi di informare”. Ho già detto all’inizio che seguiamo la vicenda con le informazioni che sono state pubblicate. In ogni caso si tratta di una storia scottante, a volte cruda e pesante, in cui intervengono sevizie e torture e altre questioni poco chiare. Il racconto del carabiniere, avvenuto nel 2007, a 32 anni dai fatti, coincida in larga misura con il contenuto delle lettere non fa che confermarne la veridicità.
Dunque cominciamo. Nella prima lettera Pino assume l’atteggiamento di un guerrigliero che fa della lotta di classe a difesa del proletariato la sua bandiera. Inneggia alla lotta armata ed è chiaro che l’eccidio di Alcamo in questa lotta armata ci starebbe benissimo. Dunque è giustificato che gli inquirenti seguano la pista del terrorismo rosso. Ma il ragazzo ha anche a preoccupazione che vogliano farlo passare per pazzo e rinchiudere in un manicomio, per poi eliminarlo fisicamente. Quello dell’eliminazione è un chiodo fisso come vedremo tra poco. La parte più dura degli scritti di Giuseppe è quella in cui descrive la tortura subita perché si decida a far sapere dove si trova il materiale rubato nella casermetta e a dire i nomi dei suoi complici. La descrizione è di una lucidità estrema, descrivendo non solo il male subito, ma anche gli stati d’animo che mano a mano egli ha attraversato. Immobilizzato su due casse gli viene versato con un imbuto in gola un liquido che lui, perito chimico, stabilisce essere acqua con molto sale, olio di ricino e terra. L’effetto è quello del soffocamento. Resiste un po’ ma poi deve cedere. Tra l’altro non è uno con un fisico bestiale e non ci vuole molto perché quella tortura produca i suoi effetti. Così i carabinieri riescono a trovare quello che cercano: pistole, divise e quant’altro. Poi ritornano e adesso vogliono i nomi dei complici. La tortura riprende e Pino a quel punto fa dei nomi a caso, coinvolgendo quattro amici con i quali è solito passare parte del suo tempo libero. Dalle lettere non si capisce bene se Giuseppe sia coinvolto o meno negli omicidi. Da un lato c’è tuttavia il ritrovamento della refurtiva, dall’altro il fatto che lui continui a dichiarare di non aver avuto niente a che fare con quel fattaccio. Già al processo Giuseppe Vesco dichiarerà che tutte le confessioni gli sono state estorte con la tortura, il che, per la legge, rende inutile qualsiasi deposizione. I nomi coinvolti da Pino sono: Giovanni Mandalà, fabbricante di fuochi di artificio: Vincenzo Ferrantelli, Getano Santangelo, Giuseppe Gullotta. Quattro amici, un paio ancora minorenni che di politica e di lotta armata non sanno proprio nulla. Eppure anche loro confessano. Poi al processo diranno che le loro deposizioni sano il risultato di torture pesanti subite durante gli interrogatori. Si va verso il processo, ma Pino Vesco non fa in tempo a raccontare la sua storia. Lo trovano impiccato nella sua cella. “Suicidio” sentenziano gli inquirenti, ma come abbia fatto a fare il nodo scorsoio con una sola mano resta davvero un grande mistero. Proprio di questo scriveva alla madre: il timore di essere suicidato. La prima sentenza è di assoluzione. Nell’attesa dell’appello, i due minorenni, Ferrantelli e Santangelo fuggono in Brasile, chiedono e ottengono asilo politico. L’appello darà sentenze durissime: ergastolo per i due rimasti in Italia, 20 anni per gli altri. Nel 1995 Santangelo tornerà in patria a disposizione della magistratura, mentre l’altro rimarrà latitante. Mandalà muore in carcere nel 1998 di malattia, mentre Gullotta sconta l’ergastolo, finché …
Io c'ero...Prima di continuare con la storia, passiamo alla seconda fonte, l’ex brigadiere Giuseppe Olindo, che nel 2008 si presenta ai magistrati per fare le dichiarazioni che tra poco ascolteremo. Quelle che ascolteremo di seguito sono le voci tratte da un documento filmato che è facilmente reperibile in rete. Si tratta, tra l’altro anche di alcune deposizioni durante il processo per la revisione della posizione dei condannati, oltre che di interviste e filmati su altri temi che toccheremo. Derivano anche da trasmissioni radiofoniche e televisive, come ad esempio Blu Notte e La storia siamo noi. Ringrazio gli autori di questi documenti che sono fondamentali se non altro per dubitare di quello che viene passato per verità e ci induce ad indagare ancora per cercare di capire, anche se spesso purtroppo non ne siamo oggettivamente capaci. Dunque nel 2008 l’ex brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Olindo si presenta alla magistratura e racconta quanto segue.
Insomma in quella caserma vengono inflitte tremende torture e vengono condannati all’ergastolo degli innocenti; la vita di quattro ragazzi, privati della libertà e condannati ad atroci sofferenze, è rovinata per sempre. Perché i carabinieri usano tanta violenza e tanta ingiustizia? Da chi hanno l’ordine di procedere in quel modo? Perché la squadra antiterrorismo ha così fretta di chiudere il caso?
Lo stesso Olino riferisce che quando arrivano ad Alcamo, non hanno alcuna idea di come muoversi, non hanno una pista da seguire. Ma ad essi viene imposto di indagare nei gruppi dell’estrema sinistra e solo in quelli. Lo stesso Peppino Impastato si interessa della vicenda e raccoglie documentazioni importanti, ma di questo parleremo tra poco. Adesso ascoltiamo di nuovo Olindo.
Peppino Impastato. In effetti Peppino Impastato si occupava in quel periodo delle molte illegalità che avvenivano in Sicilia e quell’omicidio non era certo cosa da poco. Fa uscire un volantino molto duro nel quale sostiene che i carabinieri stavano cercando di depistare l’azione investigativa e che a lui sembrava strano questo accanirsi contro le organizzazioni di sinistra, non prendendo neppure lontanamente in considerazione un’origine mafiosa della strage.
Che i depistaggi di cui Peppino parla ci siano stati è abbastanza evidente. I carabinieri che conducono le indagini vengono dal nucleo anti-crimine di Napoli. Li comanda il capitano Gustavo Pignero, che diventerà generale e dirigerà una sezione dei Servizi segreti militari (il SISMI). Quando il caso viene riaperto, i carabinieri che avevano partecipato alle torture e che facevano capo al colonnello Giuseppe Russo, finiti tutti sotto inchiesta, sono ormai ottantenni e si avvalgono della facoltà di non rispondere. Resta in piedi la domanda senza risposta: chi ha guidato i depistaggi e per quale motivo? Cosa è successo realmente quella notte di gennaio ad Alcamo?
I dubbi e le nuove inchieste. Le ipotesi sono diverse, alcune coinvolgono direttamente lo stato, altre la mafia, altre ancora dei contrabbandieri di armi o di altra merce. Ma quello che emerge è che in tutta la storia ci sono tante, troppe cose che non tornano o che sono, quanto meno, molto, ma davvero molto strane. In effetti c’è il suicidio di Pino Vesco che suona di falso lontano un miglio. C’è il ritrovamento dei corpi che fa storcere in naso. Come è possibile che le guardie del corpo di Almirante passino per caso la mattina seguente l’eccidio e si fermino in una stradina di nessun conto, vedano il portoncino divelto e scoprano i cadaveri? Come mai il tribunale condanna senza mezzi termini quattro balordi che non hanno precedenti di un delitto così atroce e, a ben vedere, effettuato con estrema efferatezza e, passatemi l’espressione, mestiere. Eh già, Gullotta, dopo aver passato 21 anni in carcere, viene riconosciuto innocente, viene liberato e il fatto di aver passato gran parte della vita dietro le sbarre viene compensato con 6 milioni e mezzo di euro. Credo non sia difficile immaginare quanto poco quel denaro abbia alleviato le sofferenze di un uomo che non aveva fatto niente e si è trovato privato del bene più prezioso che abbiamo, la propria libertà. E questa assoluzione si porta dietro altre conseguenze importanti. Prima di entrare nel merito mi sento di fare una considerazione. É curioso che serva un riesame di questa portata per capire che le conclusioni su molti delitti, dei quali la storia del nostro paese è piena, sono state falsate. La gente lo sa, ma servono sempre prove e documentazioni per poter procedere e soprattutto ci volgliono decenni per venirne a capo, le rare volte in cui questo succede. Ecco dunque che la sentenza Gullotta spinge il sostituto procuratore Antonino Ingroia, che lavora nella procura di Trapani, a riaprire due inchieste: quella sulla strage di Alcamo Marina e quella su Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. E, di conseguenza, salta fuori anche una terza inchiesta, quella sul suicidio di Pino Vesco. Secondo la procura tutto quello che è avvenuto è stato fatto con il preciso scopo di evitare che le indagini arrivassero a svelare l’esistenza e soprattutto le opere (certo non benemerite) di un esercito segreto, la struttura segreta Gladio. Certo, Peppino è stato ucciso dalla mafia, dal clan Badalamenti. Per questo il processo ha condannato Tano Badalamenti all’ergastolo e il suo vice, Vito Palazzolo, a 30 anni. É il 2002 e Tano muore due anni più tardi. Il corpo di Peppino viene ritrovato lo stesso giorno in cui le BR (o chi per loro) riconsegnano quello di Aldo Moro. La sentenza è immediata. Per i carabinieri si tratta di suicidio o quanto meno di un incidente mentre il giovane sta mettendo dell’esplosivo sui binari. Un’ipotesi assurda per chiunque conosca Peppino. Lui è un militante di Democrazia Proletaria e soprattutto è responsabile di una radio di denuncia contro la mafia, la radio Aut. Quello che qui interessa è che, in quell’occasione, viene eseguita una nuova perquisizione nella casa di Impastato. Si trova un dossier, con scritto sulla copertina “Giuseppe Vesco”. Questa notizia è certa, perché il ritrovamento dell’incartamento compare nel rapporto redatto dai carabinieri. Ma del dossier o di notizie sul suo contenuto non c’è alcuna traccia, da nessuna parte. Il materiale è semplicemente sparito. E torniamo ancora e sempre alle stesse domande su chi è stato e perché. Sappiamo che sono domande che restano senza risposta. Nel caso appena esaminato è anche evidente come la mafia abbia partecipato direttamente alla strategia. Carabinieri, Servizi segreti, mafia, probabilmente Gladio … ecco la strada indicata da Peppino. I due carabinieri, secondo la sua ipotesi, avevano fermato quella sera un carico di armi che la mafia doveva consegnare a Gladio o viceversa. Per questo vengono fatti fuori e poi viene inscenata tutta la faccenda della casermetta ad Alcamo Marina. E c’è anche la scorta di Almirante che, per caso, passa per una stradina di nessun conto, sperduta nel nulla e scopre il portoncino divelto e tutto il resto … ma dai!
Gladio ... che roba è? Ho accennato a Gladio. Di cosa si tratta? Quando è nato? Come è organizzato e, soprattutto, a cosa serve? Di questo parleremo dopo una breve pausa. A partire dall’esplosione di una bomba nella banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano nel 1969 si susseguono una serie di attentati che spesso non hanno alcuna ragione, come quello in Belgio dove un commando perfettamente addestrato fa una strage di clienti sparando senza alcuna remora anche sui bambini. Non esiste ancora una matrice di terrorismo pseudo-religioso come ai giorni nostri e non si era mai visto prima un bandito uccidere senza pensarci su dei bambini. Gli occhi degli inquirenti, di quelli che riescono a capirci qualcosa, puntano su un’organizzazione militare segreta, che ha sedi in tutta Europa e negli Stati Uniti e ci chiama “Stay behind”, che significa sostanzialmente di rimanere dietro, ma dietro a che cosa? Dopo la seconda guerra mondiale il mondo si spacca in due: da una parte l’Occidente, guidato (il verbo è un eufemismo) dagli Stati Uniti e dall’altro il blocco orientale socialista guidato (anche questo è un eufemismo) dall’Unione Sovietica. Le due superpotenze si fronteggiano in ogni settore della vita pubblica e si armano come se stesse per cominciare una nuova guerra, la terza guerra mondiale, di cui in quel periodo si parla continuamente con grande terrore. Noi italiani viviamo nel blocco occidentale e, anzi, siamo un paese di confine e per questo da tutelare in modo particolare contro il pericolo più grande: l’invasione delle truppe comuniste che arriveranno per mangiare i nostri bambini e fare delle nostre chiese stalle per i cavalli dei cosacchi. Detta così è certamente sarcastica, ma il fatto è che l’esercito sovietico è probabilmente il più potente in quel momento e quindi arrestarne una eventuale avanzata sarà impossibile. Ecco allora l’idea. Creare dei gruppi di specialisti che operino dietro le linee nemiche (di qui il nome Stay behind = stare dietro) e servano da appoggio per azioni da parte delle forze alleate inglesi o americane che arriveranno a salvarci come nei film americani sui cowboy. L'organizzazione di questo esercito è della NATO, l’alleanza atlantica. Ci sono mezzi enormi messi adisposizione sia come addestramento (che avviene a Sud di Londra) che come mezzi in ogni senso: trasporto, armi, e qualsiasi altra cosa. Le formazioni assumono nomi diversi a seconda della nazione. In Italia Stay Behind si chiama Gladio. É chiaro che qualcuno degli ascoltatori a questo punto si chiederà cosa diavolo c’entri Gladio con Alcamo Marina, gli eserciti segreti con i due carabinieri ammazzati nella casermetta siciliana. Arriveremo a rispondere anche a questa domanda: ci vuole solo un po’ di pazienza. Ci sono sicuramente indizi che lasciano pensare che non sia poi così assurdo pensare ad un coinvolgimento di Gladio. I depistaggi e le modalità con cui i carabinieri eseguono le indagini non sono quelle solite dell’arma. E poi, negli anni ’90, viene scoperto ad Alcamo un nascondiglio di armi dentro un seminterrato di una villa. Lo custodiscono due carabinieri. Siano in Sicilia, si può pensare ad un covo della mafia, ma il deposito è davvero molto particolare. La quantità di armi presenti è impressionante e anche la loro tipologia lascia perplessi gli inquirenti. Non solo: c’è anche il materiale e gli strumenti per fabbricare proiettili di vario genere. La procura si affida ad un consulente esterno, il quale certifica che la possibilità della costruzione di munizioni da guerra è la stessa che potrebbe rifornire la polizia di un intero piccolo stato. I due guardiani, Vincenzo La Colla e Fabio Bertotto, si giustificano con la loro passione per le armi e per esercitarsi al tiro, giustificazione del tutto improbabile visto il tipo di arsenale. Tra l’altro il Bertotto faceva parte (anche mentre si occupava dell’arsenale) dei Servizi segreti, come responsabile della sicurezza delle ambasciate estere. Le armi sequestrate sono 422, tra cui un centinaio di armi da guerra, mitra statunitensi, armi degli eserciti dell’Est europeo, duecento pezzi da assemblare, perfino una munizione per contraerea. É piuttosto ingenuo pensare a semplici collezionisti. L’indagine deve adesso scoprire a quale rete tutto questo fa riferimento. In quel periodo è procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Anche lui indaga su questi fatti ed esclude categoricamente che quell’arsenale sia in qualche modo legato alla mafia. Quelli della mafia – dice Ingroia – non solo sono molto diversi come tipologia di armi, ma vengono protetti da profili completamente diversi di guardiani. Insomma c’è dell’altro, ci sono organizzazioni nascoste, come si evidenzierà con l’omicidio Rostagno, di cui parleremo tra poco. Che poi ci siano interazioni tra queste organizzazioni e la mafia è molto probabile ma che sia la mafia ad agire ad Alcamo è, per Ingroia, del tutto fuori discussione.
Mauro Rostagno, Li Causi, la Somalia, le armi e ancora Gladio. E adesso entra in scena un nuovo personaggio, morto ammazzato nel 1993 in Somalia in un agguato per motivi mai accertati. Si chiama Vincenzo Li Causi, trapanese di nascita, militare di carriera e appartenente ai servizi segreti militari. É un nome importante: partecipa alla liberazione del generale Dozier, sequestrato dalla BR a Padova; viene inviato in molte missioni che richiedono abilità e competenza. Insomma è uno che conta. Dal 1987 al 1990 è a capo del Centro Scorpione, una sezione di Gladio a Trapani. Dal 1991 viene mandato più volte in Somalia. In una di queste missioni viene ammazzato nel novembre 1993. La cosa più strana è che il giorno dopo è atteso a Roma per testimoniare su Gladio e sui traffici di armi e rifiuti tossici e radioattivi provenienti da mezzo mondo e di cui abbiamo parlato a lungo nelle puntate di Noncicredo. Tutto questo pochi mesi dopo la scoperta dell’arsenale vicino ad Alcamo. Il nome di Li Causi emerge un anno più tardi quando si indaga sull’uccisione di Ilaria Alpi, di cui egli sarebbe stato un informatore che ben conosceva i traffici sui quali la giornalista romana stava conducendo da anni la sua inchiesta. Un ex appartenente a Gladio, protetto dall’anonimato ci dice quanto segue. La sua voce è contraffatta. I compiti di Gladio in Sicilia non sono tuttora molto chiari. Probabilmente fungeva da collegamento con la Gladio all’estero, che operava nei Balcani, nel Nord Africa e nel Corno d’Africa. C’è anche la questione del traffico di armi che avviene nell’aeroporto militare di Chinisia, località a Sud di Trapani. Qui si trova il giornalista torinese Mauro Rostagno, uno dei fondatori di Lotta Continua, che in Sicilia vive e lotta contro la mafia nell’ultima parte della sua breve vita. Trasmette servizi importanti contro il potere di Cosa Nostra dall’emittente Radio Tele Cine. Uno di questi lo realizza proprio a Chinisia, quando atterra un aereo militare che viene subito circondato da camion militari e molti uomini in mimetica. Torna rapidamente in studio per montare il servizio che quella sera dovrà fare un botto. In effetti quell’aereo trasportava armi da consegnare evidentemente non tanto alla mafia quanto ad una organizzazione militare. Quelle immagini spariranno la sera del 26 settembre 1988, giorno in cui Mauro Rostagno viene ammazzato nella sua auto. Chi è stato? La pista seguita è quella della mafia. Ma i dubbi sono enormi, soprattutto a causa dei modi di procedere con le indagini e degli evidenti depistaggi che avvengono. Questa è un’altra storia che si intreccia con quelle fin qui raccontate. Molte indagini sono state fatte e molte ipotesi sono state avanzate sulla morte di Mauro: la mafia, Gladio, i servizi, la massoneria deviata. Restiamo semplicemente agli atti più recenti, che dicono che, nel maggio 2014, la Corte d'Assise di Trapani condanna in primo grado all'ergastolo i boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara. I legami tra mafia e Gladio vengono rivelati in diverse indagini, di recente è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto far parte della struttura segreta. Lo ha detto il figlio Massimo durante le rivelazioni sulla trattativa tra Mafia e Stato. Giovanni Falcone, mentre sta seguendo piste in merito all’uccisione di Pio La Torre da parte della mafia nel 1982, crede che sia importante confrontarsi con i colleghi romani, che stanno indagando su Gladio, ma si trova davanti un muro posto dal Procuratore Capo. Non si può e non si sa perché.
I pentiti di mafia. Sull’eccidio della casermetta nel tempo ci sono altre voci che intervengono. Quella, ad esempio, di Giuseppe Ferro, un pentito della famiglia di Alcamo, che conferma che la strage non fu certo eseguita dai ragazzotti accusati e incarcerati. Nella sua testimonianza si legge: “Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati. Erano solamente delle vittime, pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto.” C’è poi Vincenzo Calcara, altro pentito di mafia di Castelvetrano, il quale racconta di essere stato compagno di cella di Pino Vesco. Quando arriva l’ordine da parte di Antonio Messina, boss di Campobello di Mazara del Vallo, di lasciare da solo il ragazzo senza una mano. “Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie” dichiara il pentito. É lo stesso Messina a spiegare la situazione a Calcara. Vesco deve morire perché è stato uno strumento e deve sparire. I due carabinieri sono stati ammazzati perché hanno visto cose che non dovevano vedere e è stato impedito loro di fare cose che potevano danneggiare non personaggi di cosa nostra ma anche collegati ad essa. É dunque questa la pista: una connivenza tra mafia e Gladio (o comunque organizzazioni segrete all’interno dello stato) che nel trapanese si sono sempre incrociate e frequentate in un anomalo scambio di favori. Ma l’invasione sovietica, come ben sappiamo, non c’è mai stata e quindi negli anni l’organizzazione Gladio viene utilizzata per scopi diversi. Tra questi un piano elaborato dalla CIA, l’intelligence statunitense, chiamato Demagnetize (Smagnetizzare). Il suo scopo è quello di togliere ossigeno e depotenziare il Partito Comunista Italiano, che negli anni ’70 comincia ad assumere l’importanza di un partito di governo. Questo coinvolge diversi movimenti di estrema destra, che diventano attivi nella strategia della tensione con numerosi attentati in tutta Italia. Abbiamo ricordato quello di Gorizia, per fare un esempio. Ci sono stati anche tentativi di golpe, a dire il vero piuttosto velleitari, in uno dei quali interviene anche una delle famiglie mafiose di Alcamo, la famiglia Rimi. É il 1970 e il fallito attentato alle istituzioni italiane è quello di Junio Valerio Borghese, ex fascista, ex presidente del Movimento Sociale, frequentatore di Pinochet e del suo capo della polizia segreta … insomma un personaggino tutto pepe. Dopo la guerra viene condannato a due ergastoli, ma l’intervento dei servizi segreti americani fa sì che quella condanna si riduca a 12 anni, di cui nove condonati. Sfruttando l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti viene rilasciato immediatamente. Muore nel 1974 in circostanze abbastanza strane in Spagna, dove si è rifugiato. Nella provincia di Trapani le organizzazioni segrete sono ben radicate in quel periodo. In un ambiente in cui conta molto più la mafia dello stato, le attività sommerse sono all’ordine del giorno e può quindi accadere che due carabinieri in servizio si imbattano in un trasporto strano, in qualcosa di più grande di loro. La presenza di Gladio nel trapanese viene certificata ufficialmente solo nel 1990, ma i vertici dell’organizzazione continueranno a ribadire la propria estraneità ai fatti di Alcamo Marina, e a tutte le nefandezze che la popolazione ha dovuto subire in quegli anni. Di questo parla Paolo Inzerilli, responsabile di Gladio dal 1974 al 1986. Un altro personaggio, al quale ha accennato il giudice Casson nel suo primo intervento ha avuto una storia notevole. Si tratta di Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, quella in cui sono rimasti uccisi tre carabinieri e feriti altri due. Vinciguerra non si è mai tirato indietro, considerandosi un “soldato politico”, facendo rivelazioni e non chiedendo mai uno sconto di pena, anzi volendo rimanere in carcere per tutta la sua durata, ritenendolo un mezzo di protesta. Durante il processo, che vedeva come giudica Felice Casson, lo scontro è durissimo. Il giudice cerca in ogni modo di dimostrare che l’esplosivo usato nell’attentato proviene da un deposito di armi di Gladio, trovato vicino a Verona. Si tratta di C-4, il più potente esplosivo disponibile all’epoca, in dotazione alla NATO. Nel 1984, a domanda dei giudici sulla strage alla stazione di Bologna, Vinciguerra dice: « Con la strage di Peteano, e con tutte quelle che sono seguite, la conoscenza dei fatti potrebbe far risultare chiaro che esisteva una reale viva struttura, segreta, con le capacità di dare una direzione agli scandali... menzogne dentro gli stessi stati... esisteva in Italia una struttura parallela alle forze armate, composta da civili e militari, con una funzione anti-comunista che era organizzare una resistenza sul suolo italiano contro l'esercito russo ... una organizzazione segreta, una sovra-organizzazione con una rete di comunicazioni, armi ed esplosivi, ed uomini addestrati all'utilizzo delle stesse ... una sovra-organizzazione, la quale mancando una invasione militare sovietica, assunse il compito, per conto della NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione. Questo hanno fatto, con l'assistenza di ufficiali dei servizi segreti e di forze politiche e militari.» Una posizione personale, ma molto chiara, come quella che esprime a parole. Ma Gladio è stato davvero il demonio responsabile di ogni nefandezza che nel paese si veniva compiendo? Adesso ascoltiamo due testimonianza. La prima, brevissima, è di Francesco Gironda, capo della rete Gladio di Milano, mentre la seconda è ancora di Felice Casson, magistrato chioggiotto e più tardi politico dell’Ulivo e poi del Partito Democratico. Ascoltiamoli, poi chiuderemo il nostro racconto.
Conclusioni. Siamo partiti da un fatto particolare, quello dell’uccisione di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina e siamo finiti a parlare di strategia della tensione, di attentati come quello di Bologna che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’inizio della nostra storia. Questo dimostra quello che in questi mesi ho sempre cercato di sottolineare e cioè che le storie sono tutte legate tra loro, perché è periodo in cui esiste una strategia ben precisa che coinvolge lo stato e le sue istituzioni, per mantenere il potere e fare profitti. Oggi Gullotta è un uomo libero e ricco, libero perché non ha commesso quel reato infamante, così come i suoi amici, quelli sopravvissuti per lo meno. Ma non è libero dagli incubi che nessuno di noi credo possa neppure immaginare di aver passato un terzo della sua vita rinchiuso in un carcere dove non doveva stare. Rinchiuso mentre altre persone e non una sola sapevano perfettamente che era innocente. Prima di chiudere un’ultima osservazione su Gladio. Nell’estate del 2014 viene proposta una legge intitolata: “Riconoscimento del servizio volontario civile prestato nell’organizzazione nordatlantica Stay Behind”. La firma Luca Squeri di Forza Italia. In essa si sostiene che i volontari che hanno prestato servizio all’interno di Gladio devono essere trattati come i partigiani e quindi meritano una legittimazione per aver difeso la patria dal nemico. Nessun riconoscimento in denaro, si intende, un riconoscimento sotto il profilo politico e anche militare. Quindi nessun legame con le trame nere, con brandelli impazziti dell’eversione di stato. Sotto sotto la proposta porterebbe dritto al finanziamento pubblico dell’associazione. Il fatto che, una volta capito che il patto di Varsavia non aveva intenzioni di invadere l’Occidente, questa organizzazione si sia mossa in segreto, sfruttando le risorse dei servizi segreti semplicemente per impedire l’accesso al governo del Partito Comunista Italiano è un fatto riconosciuto anche da due dei politici più dentro le questioni delle segrete stanze, come Andreotti e Cossiga. Del resto quella di Squeri non è la prima volta di una simile richiesta strampalata. La prima in assoluto è del 2004 e porta la firma, guarda caso, di Cossiga. Iniziativa seguita, pochi mesi dopo alla Camera, da un testo identico presentato dal forzista Paolo Ricciotti. Ma Cossiga torna alla carica ancora altre volte: nel 2006, nel 2007, nel 2008 e nel 2009. Sempre nel 2009 un testo identico viene presentato a Montecitorio da Renato Farina, quello famoso per aver partecipato coi servizi segreti alla diffusione di notizie false contro Romano Prodi. Condannato per vari reati e radiato dall’ordine dei giornalisti, oggi collabora con Il Giornale e sarebbe difficile pensare il contrario. Insomma per la destra istituzionale (Forza Italia, PDL e tutte le altre sigle berlusconiane) Gladio è una organizzazione di eroi positivi, che hanno cercato di fare il bene del nostro paese. Non mi sembra il caso di aggiungere alcun commento. Termino qui. É stato un articolo forse più faticoso del solito, che ha cercato di raccontare una storia poco conosciuta in cui, ancora una volta, si mescolano affari loschi, mafia e reparti deviati della repubblica, ma, in questo caso, ben conosciuti e sostenuti dallo stato. Alcamo Marina in fondo non è stata nulla come tributo di sangue rispetto a molte altre tragedie di cui vi ho raccontato: penso alle bombe della strategia della tensione: piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Bologna o alle tragedie di cui sappiamo poco o nulla perché occorre che non si sappia chi andava coperto, come nel caso dell’elicottero Volpe 132, della Moby Prince, di Ustica. Purtroppo si potrebbe continuare l’elenco. Purtroppo ...
Strage alla caserma “Alkamar”, ecco come venne riaperto il caso. Il racconto del cronista trapanese Maurizio Macaluso, la sua inchiesta portò alla revisione del processo. Michele Caltagirone su Blasting News Italia il 27 gennaio 2016. Il giornalista Maurizio Macaluso lavorava nella redazione del settimanale “Il Quarto Potere”, diretto da Vito Manca. Nel 2007, in una rubrica da lui curata su fatti di cronaca ancora avvolti nel mistero, iniziò ad occuparsi della strage alla caserma “Alkamar” del 27 gennaio 1976, sollevando dubbi sulla reale colpevolezza di Giuseppe Gulotta, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà, i quattro giovani condannati per il duplice omicidio dei carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. “Mi recai anche ad Alcamo – ricorda Macaluso, contattato dalla redazione di Blasting News Italia – ad intervistare Marta Ferrantelli, sorella di uno dei presunti colpevoli. Tra i miei obiettivi c’era ovviamente quello di contattare direttamente Vincenzo Ferrantelli, tanto lui quanto Gaetano Santangelo all’epoca si trovavano in Brasile. Entrambi, a qualche settimana di distanza, fecero pervenire una e-mail in redazione raccontando la loro versione dei fattiche venne pubblicata sul nostro settimanale. In risposta ricevetti anche un’altra e-mail con parole di fuoco da parte dei familiari di Salvatore Falcetta che contestarono il contenuto dell’articolo. Per quasi un anno non ci furono altre novità sul caso”.
Contattato dall’ex brigadiere Olino. “A quasi un anno di distanza – prosegue Maurizio Macaluso – ricevetti una mail anonima. Qualcuno sosteneva di essere a conoscenza della verità, affermando che erano stati condannati quattro innocenti. Si faceva riferimento anche alla mail dei familiari di Falcetta, ‘chissà cosa direbbero se sapessero la verità’, tra le parole che mi vennero scritte. Il misterioso mittente rivelò successivamente la sua identità, si trattava dell’ex brigadiere Renato Olino che aveva assistito agli interrogatori dei giovani arrestati nel 1976. Ci incontrammo successivamente a Trapani, venne in redazione e mi espose ifatti ai quali aveva assistito. Si trattò di confessioni forzate; ad esempio, nel caso di Giuseppe Vesco, le confessioni gli vennero estorte nel corso dell’interrogatorio con latorture. Da quel momento la stragedi Alcamo Marina divenne un tormentone del nostro giornale, mi sforzavo settimana dopo settimana per mettere insieme nuovi elementi. La Procura, che conservava anche le copie dei miei articoli, raccolse poi elementi a sufficienza per riaprire il caso”.
C'è un altro segreto. Maurizio Macaluso Linea Rossa 12 anno 3 - numero 45. Un giovane alcamese, Giuseppe Tarantola, fu ucciso nel 1976 nel corso di un conflitto a fuoco con i Carabinieri. Si disse che era in possesso di una pistola ma un ex brigadiere rivela che non era armato. Un altro morto che attende giustizia. Un'altra storia scomoda che riemerge dal passato. Si chiamava Giuseppe Tarantola. Aveva venticinque anni ed era di Alcamo. Morì trentuno anni fa durante una sparatoria con i carabinieri. Si disse che era armato, che voleva uccidere i militari, che era pronto a compiere una strage. Un testimone rivela però ora che in realtà Giuseppe Tarantola non era armato. Che la pistola sequestrata sarebbe stata apposta dai carabinieri per coprire le responsabilità di colui che aveva sparato. A rivelare il nuovo sconvolgete episodio è un ex brigadiere, lo stesso che, due mesi fa, ha parlato dell'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo. Lo stesso che ha sostenuto che Giuseppe Vesco e gli altri giovani coinvolti nelle indagini sull'uccisione dei due carabinieri furono picchiati e seviziati e costretti a confessare. Giuseppe Tarantola fu ucciso nel corso della notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1976 alla periferia di Alcamo nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Erano trascorse due settimane dall'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. L'assassino dei due carabinieri aveva destato grande scalpore. La vicenda era arrivata anche in Parlamento. Qualche giorno prima, nel corso di una seduta parlamentare, l'onorevole Giomo aveva presentato un'interrogazione ai ministri dell'interno e della difesa. "Chiedo di conoscere - aveva detto il parlamentare - se ritengano rendere edotta l'opinione pubblica ed il Parlamento sull'offensiva che si sta attuando da parte di forze extraparlamentari contro i carabinieri, offensiva culminata nel selvaggio agguato contro la caserma di Alcamo Marina dove hanno perso la vita due giovani militari. È ormai noto a chi segue la cronaca quotidiana che nei soli mesi di dicembre e gennaio nelle città di Milano, Roma e Genova sono state attaccate più volte caserme di carabinieri con bombe a mano, bottiglie incendiarie e raffiche di mitra, che hanno portato alla distruzione di automezzi militari e danneggiamento di edifici pubblici. Si è passati ora in questa escalation di guerriglia contro l'Arma, che ha il difficile compito della tutela dell'ordine pubblico, all'assassinio. L'interrogante chiede se di fronte alla brutale e violenta campagna istigatrice di odio contro i carabinieri organizzata dalla stampa extraparlamentare con le conseguenti offensive di guerra che in questi ultimi mesi sono state scatenate, il governo intenda intervenire con tutti i mezzi a sua disposizione rendendo note all'opinione pubblica tutte le informazioni in suo possesso sull'attività dei mandanti e degli esecutori di questi gruppi sovversivi paramilitari che operano nel paese". L'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo aveva generato preoccupazione nella popolazione di Alcamo. La gente era allarmata. Temeva che la morte dei due carabinieri potesse essere soltanto l'inizio di una lunga serie di omicidi. Gli investigatori erano intenzionati a chiarire al più presto il contesto in cui era maturato il delitto. Bisognava fare presto e restituire serenità ai cittadini. Interrogatori e perquisizioni si susseguivano giorno e notte. Tutte le persone sospette venivano fermate. La notte tra il 10 e l'11 febbraio una pattuglia dei carabinieri intercettò un'auto sulla quale viaggiavano quattro giovani. Alla vista dei militari il conducente proseguì la corsa senza fermarsi. Dopo un lungo inseguimento per le vie della città, l'auto sbandò finendo contro un edificio. I quattro giovani, inseguiti dai carabinieri, scesero dalla vettura e tentarono di fuggire a piedi. Scoppiò un conflitto a fuoco. Giuseppe Tarantola fu colpito da una raffica di mitraglia. Il giovane, gravemente ferito alla gola ed al petto, morì mentre veniva trasportato in ospedale. Gli investigatori sostennero che, dopo essere stato bloccato, Giuseppe Tarantola era sceso dall'auto e si era lanciato contro i carabinieri con una pistola in pugno pronto a far fuoco. L'arma, una pistola calibro trentotto, era stata rinvenuta dopo la sparatoria sull'asfalto. L'auto sulla quale viaggiavano i quattro giovani era rubata. Due dei tre sopravvissuti, interrogati dagli investigatori, confessarono di avere rubato, qualche giorno prima, anche un'altra vettura. Le auto erano destinate ad un meccanico di Alcamo che avrebbe dovuto smontarle e rivendere i pezzi. I tre giovani furono arrestati. La morte di Giuseppe Tarantola destò grande scalpore ad Alcamo. Ventiquattro ore dopo però i carabinieri arrestarono Giuseppe Vesco. Nella città si diffuse immediatamente la notizia che il giovane aveva confessato. Che aveva ammesso di avere ucciso i due carabinieri. Che aveva indicato i nomi dei complici. La gente si precipitò dinanzi la caserma. La morte di Giuseppe Tarantola fu presto dimenticata. Trentuno anni dopo, però, c'è però chi sostiene che c'è un'altra verità. Che Giuseppe Tarantola non era armato. Che non voleva compiere alcuna strage. Che la sua morte va inserita nel clima di tensione che in quei giorni si respirava ad Alcamo. "Non si fermò all'alt", racconta l'ex brigadiere, che in quei giorni si trovava ad Alcamo per partecipare alle indagini sull'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. "Dopo un breve inseguimento finì contro un muro. Scese dall'auto e tentò di fuggire. Un brigadiere esplose alcuni colpi di mitra uccidendolo. Dopo la sparatoria fu rinvenuta sotto l'auto una pistola a tamburo. La magistratura archiviò il caso ritenendo che il brigadiere avesse operato legittimamente. Ma in realtà quel giovane non era armato. Fui io a collocare la pistola su ordine di un ufficiale prima dell'arrivo del magistrato". La clamorosa rivelazione getta nuove ombre sull'operato dei carabinieri. L'episodio è stato riferito dall'ex brigadiere nel corso dell'intervista rilasciata al nostro giornale due mesi fa. Avevamo deciso di non pubblicarla in attesa di effettuare le necessarie verifiche. La ricerca si è rivelata più lunga del previsto. Ad Alcamo nessuno ricorda più questa storia. Tutte le persone interpellate non hanno saputo fornirci alcuna informazione in merito alla vicenda. La tragica morte di Giuseppe Tarantola è stata rimossa dalla memoria collettiva. Abbiamo quindi effettuato una ricerca negli archivi della biblioteca di Paceco ed abbiamo accertato che l'episodio riferito dall'ex brigadiere è realmente avvenuto. Il 12 febbraio del 1976 il Giornale di Sicilia pubblicò un articolo in prima pagina nel quale era riportata la cronaca degli avvenimenti che avevano condotto all'uccisione di Giuseppe Tarantola. "Alcamo - Tragica fine di un giovane ladro. Scappa all'alt. Ucciso dal mitra di un carabiniere - Arrestati i tre ragazzi che erano con lui in auto". Nell'articolo si riferiva che Giuseppe Tarantola non si era fermato all'alt dei carabinieri e che dopo essere stato bloccato era sceso dalla vettura con una pistola in pugno pronto a far fuoco contro i militari. Una raffica di mitra lo aveva fermato uccidendolo. La rivelazione dell'ex brigadiere potrebbe ora riaprire il caso. Intanto le dichiarazioni dell'ex sottufficiale sui presunti pestaggi subiti da Giuseppe Vesco e dagli altri giovani alcamesi coinvolti nelle indagini sull'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo hanno aperto un ampio dibattito. Numerosi alcamesi si sono ricordati della tragica fine dei due militari. Tanti sono tornati ad interrogarsi. Anche numerosi giovani stanno seguendo con grande attenzione gli sviluppi della vicenda. Roberto Scurto ha ventuno anni. "Sono passati tantissimi anni, è ora che finalmente si faccia giustizia", scrive in un articolo pubblicato sul portale Alcamo.it. "Chi sa qualcosa parli! È incredibile come questa storia possa ancora dare fastidio a qualcuno dopo tutto questo tempo. E se qualcuno pensasse che non interessa a nessuno si sbaglia". Il suo appello è stato accolto da tanti concittadini che sono intervenuti nel blog. C'è chi pone domande, chi avanza dubbi. C'è chi, come Anna, chiede di sapere perché l'ex brigadiere si è deciso soltanto ora a parlare. Perché per trentuno anni è rimasto zitto. L'ex sottufficiale ha voluto chiarire, intervenendo personalmente sul blog, la sua pozione. "Per motivi di opportunità al momento molte domande restano senza risposta. Grazie al giornalista Maurizio Macaluso oggi, dopo trentuno anni, qualcuno mostra finalmente interesse su questa brutta storia. Quando venni a conoscenza che Giuseppe Vesco si era impiccato portando con sé tutti i segreti di questa tragedia, rimasi profondamente ferito e ritenni di non essere più degno di portare la divisa. Lasciai l'Arma dei Carabinieri senza alcuna spiegazione. Ho sempre pensato che la tortura non porta alla vera verità. Mi rivolgo a tutti quei colleghi che quella notte erano presenti a sostenere la mia testimonianza. Voglio ricordare che il giuramento di fedeltà alla Repubblica, alle Leggi di questo Stato, alla Costituzione vennero quella notte calpestate da chi era posto dalle stesse alla difesa ed al rispetto. Gli stessi militari che quella notte, ritenendo di fare Giustizia usarono metodi cileni, sono gli stessi che nel corso dei successivi trent'anni hanno dato la vita per combattere la mafia. Questo mio appello, questa mia decisione di contribuire alla ricerca della verità può solo dare dignità all'Arma dei Carabinieri ed a coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno per il rispetto della legalità". Tra coloro che scrivono c'è però anche chi va controcorrente. Chi non si scandalizza, chi invita a riflettere, a considerare il contesto in cui maturò la vicenda. "Non mi scandalizzerei più di tanto.... anche perchè chi uccide, chi ruba chi estorce non si fa di certo scrupoli", scrive un ex carabiniere. "Con questo non voglio dire che voglio difendere l'operato delle forze dell'ordine, però vorrei evidenziare come ogni qual volta succede qualcosa di negativo operato dalle forze dell'ordine si strumentalizzi.... Io penso che bisogna considerare i contesti storici, politici del momento che spingono a certi comportamenti. Sicuramente nella strage citata, ci sono molti risvolti oscuri, ma non credo che si sia volutamente operato per non far emergere la verità.... Ps. Sono un ex carabiniere e sono orgoglioso di esserlo stato". "Questa equazione mi sconcerta", risponde Zagor. "Se i delinquenti non si fanno scrupoli... neanche le forze dell'ordine se ne debbono fare!!! Sicuramente non gli sarà mai capitato di essere dall'altra parte della scrivania, quando con metodi da boia - questa è la giusta definizione - si estorcono le verità che perseguono gli inquirenti, non certamente la verità assoluta. Potrebbe essere vero che non si voleva occultare la verità in quel caso, questo però non esclude che si volessero trovare velocemente dei colpevoli a caso e non i reali colpevoli!". "Poveri ragazzi, loro hanno perso la vita, hanno sacrificato l'unica vita che avevano per garantire lo Stato e proteggere noi cittadini, e noi anziché pensare a loro parliamo dei metodi poco ortodossi che usano a volte le forze dell'ordine nei riguardi dei delinquenti", scrive Caterina, invitando tutti a non dimenticare il sacrificio dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo, vittime di questa tragedia. "Non dico che si dovrebbe fare dente per dente, ma certo non riesco a provare tutto questo falso buonismo su chi non rispetta le leggi. A mio avviso noi stiamo confondendo il perdono dalla giustizia, perdonare non significa che non venga fatta giustizia, e chi sbaglia paga o in questa o nell'altra vita". C'è anche chi scrive alla nostra redazione. Chi pone altre domande, chi avanza altri sospetti. "Come mai ancora oggi si sentono casi di barbare torture per estorcere confessioni, come in certi paesi incivili?", chiede Lydia Adamo "Come mai uno Stefano Santoro s'indigna per le foto da lei pubblicate e non batte ciglio per "lo stupro della legalità" commesso dai carabinieri? La tortura è illegale in Italia, giusto? Ultimo ma non meno importante, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo sono morti si, ma siamo certi che fossero davvero innocenti? O forse erano incappati in qualcosa più grande di loro e andavano eliminati? Poi, come la storia ci ha dimostrato, tutto viene messo a tacere torturando quattro sventurati.... ". Un altro dubbio, un altro inquietante sospetto di questa torbida storia. Maurizio Macaluso
Alcamo e la strage della casermetta. Rino Giacalone il 14 luglio 2008 su liberainformazione.org. Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire, o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo, per far diventare la Sicilia stato americano. In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Era la notte del 26 gennaio 1976, la mattina successiva due agenti dell’allora «squadra politica» della questura di Palermo di scorta al segretario Msi Giorgio Almirante passando da Alcamo Marina videro il cancello aperto e la porta della stazione sfondata, diedero l’allarme dentro furono trovati i corpi di Carmine Apuzzo, carabiniere semplice, e Salvatore Falcetta, appuntato, crivellati a colpi di pistola. Al delitto di mafia pensò subito la Polizia, i Carabinieri con le loro indagini presero altre direzioni, inquadrarono il movente nella vendetta di una sorta di anarchico, Giuseppe Vesco, lo arrestarono, lui accusò altre 4 persone, poi ritrattò e disse che altri erano stati i suoi complici, prima di uccidersi in carcere. Vesco aveva fatto i nomi di Giovanni Mandalà, Giuseppe Gulotta e due minorenni, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Secondo il racconto di Vesco Mandalà avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica, a sparare sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, Ferrantelli avrebbe solo messo a soqquadro le stanze. I 4 arrestati confessarono dopo estenuanti interrogatori successivi al loro arresto avvenuto il 13 febbraio successivo all’eccidio dei carabinieri della «casermetta», ma davanti al procuratore ritrattarono, raccontarono delle torture subite e delle confessioni estorte. Vesco nel frattempo cambiava versione e assumeva ogni colpa su di se rilevando che «altri soggetti erano stati suoi correi». Fu trovato morto, suicida, in carcere. Erano trascorsi pochi mesi dalla strage e dall’arresto. Privo di una mano Vesco riuscì ad impiccarsi con una corda sistemata in una finestra della cella a due metri da terra. Erano dei balordi, questa la conclusione di un tormentato iter giudiziario, concluso da condanne, scaturite da una serie di atti contenuti in faldoni dove oggi le indagini riaperte non hanno tardato a riconoscere che ci sono elementi più per assolvere che per condannare. Giovanni Mandalà di Partinico, è uscito da questa storia perchè deceduto,Vesco come si diceva si è suicidato prima ancora di presenziare al processo di primo grado (che si era concluso con le assoluzioni per tutti tranne che per Mandalà), Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo sono fuggiti via dall’Italia e sono in Brasile al sicuro dall’estradizione (condanne definitive rispettivamente a 14 e 22 anni anche per la loro minore età all’epoca del duplice delitto), unico a finire a scontare la pena, l’ergastolo, Giuseppe Gulotta: lui ha presentato istanza di revisione del processo (con l’avvocato Pardo Cellini), indicando la persona che lo (li) scagiona, un ex brigadiere dei carabinieri che ha svelato che in quei giorni a tavolino fu deciso di incolpare quei ragazzi della morte dei due carabinieri, torturati e minacciati, costretti a confessare. È stato il quotidiano «La Stampa» e il giornalista Francesco La Licata a raccogliere il suo racconto dopo che una puntata della serie «Blu Notte» di Carlo Lucarelli, ha rilanciato i misteri di quella strage «Nel 1976 – raccontò l’ex brigadiere a La Licata – facevo parte del Nucleo Anticrimine di Napoli e fui mandato ad Alcamo per indagare sull’uccisione dei due militari. Mi porto dentro un peso che non sopporto più. E’ vero che i giovani fermati furono torturati. Io stavo lì e ho visto. A Vesco, che poi accusò gli altri, gli fecero bere acqua e sale e lo seviziarono. Fece ritrovare anche alcuni oggetti e due pistole. Ma non bastò, volevano i nomi dei complici. Anche le confessioni di questi furono ottenute in quel modo». «Ci sarebbe – svela La Licata in un suo articolo riprendendo ancora la confessione dell’ex brigadiere dell’Arma – anche una registrazione audio dove è impressa la voce dell’ufficiale che quella notte dirigeva le operazioni». Giuseppe Gulotta da tempo ormai vive in Toscana, con moglie e un figlio, ha trascorso 17 anni in carcere, da poco ha ottenuto il regime di semi libertà. la sua storia e complessivamente quella della strage è stata anche ripresa e ricostruita da una settimanale locale a Trapani, «QP» e dal giornalista Maurizio Macaluso. Gulotta pochi giorni addietro hanno riferito i quotidiani «La Stampa» e «La Sicilia» è stato sentito in procura a Trapani: ha detto ai magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di non avere mai ucciso nessuno. «Mi sono commosso – ha raccontato Gulotta a La Licata per “La Stampa” – quando ho riproposto il film del mio arresto. Io che non capivo perchè mi mettevano le manette, io che venivo picchiato per confessare quello che non avevo fatto. Mi sono commosso quando ho ricordato la sentenza definitiva, coi carabinieri di Certaldo che mi sono venuti a prendere a casa. Piangevano pure loro, perchè mi conoscevano e sapevano che non avrei mai potuto commettere quei crimini. Piangevano, quando hanno dovuto strapparmi dal collo il mio bambino, che allora aveva un anno e mezzo». È partita una sorta di caccia – investigativa – su chi può avere ucciso i due carabinieri. Sui depistaggi e le torture, svelati dall’ex carabiniere, niente si può più fare, reati prescritti, ma su chi ha sparato, ancora è possibile indagare. Si stanno rileggendo vecchi atti giudiziari, ma anche verbali non proprio antichi, ce ne sono anche risalenti al 1999. Pentiti che parlando di quegli anni ’70 hanno confermato l’esistenza di piani di attacco allo Stato concordati tra mafia, eversione di destra, settori deviati dello Stato. Circostanze che non sono nuove raccontando di quell’Italia del 1976, travolta dalla cosiddetta «strategia della tensione», anni dopo si scoprirà che c’erano «poteri forti» come la massoneria, servizi segreti che servivano infedelmente lo Stato, a disposizione di politici rimasti nell’ombra, avevano stretto «patti» con uomini del terrorismo, della mafia, delle organizzazioni criminali. Uno «scambio di favori» per il quale tantissima gente è finita vittima innocente di bombe e attentati. La mafia fece parte di quel piano, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. Ciò che avvenne in quei giorni di gennaio ad Alcamo sembra proprio frutto di una strategia. Vennero dapprima uccisi un sindacalista socialista, Antonio Piscitello e poi il democristiano Francesco Guarrasi; la notte dell’omicidio Piscitello, in una strada di Alcamo furono trovati anche 14 candelotti di dinamite che non esplosero per caso. Nella notte del 26 gennaio vennero trucidati i due carabinieri. Per gli omicidi Piscitello e Guarrasi nel 1977 la polizia avrebbe arrestato tre personaggi che diventeranno famosi anche per altro, Armando Bonanno, Giacomo Gambino e Giovanni Leone che nel giro di qualche anno si sarebbe scoperto essere uomini d’onore, legati a quelle cosche invischiate in delitti ancora più gravi. Leone si trovò coinvolto nel sequestro dell’esattore Luigi Corleo, imparentato con i Salvo di Salemi, i potenti esattori, rapito e mai restituito alla sua famiglia. La banda Vannutelli si scoprì essere bene in contatto con ambienti della destra eversiva. Un quadro esatto di quello che accadeva in quegli anni in provincia di Trapani lo scrisse in un rapporto, del 2 dicembre 1976, il capo della squadra Mobile Giuseppe Peri: mafia ed eversione di destra alleate, colpevoli dei crimini del tempo, forse anche dell’incidente aereo del Dc9 caduto a Montagna Longa. Nella vicenda della strage della casermetta spunta anche il nome di Peppino Impastato, il giornalista ucciso nel 1978 dalla mafia a Cinisi. I carabinieri andarono anche nella sua abitazione a fare perquisizioni cercando prove di un coinvolgimento della sinistra extraparlamentare in quella strage e da Impastato fu trovato un volantino sulla strage della casermetta e che raccontava altro, denunciava che le indagini erano apposta pilotate verso ambienti politici della sinistra, un volantino scomparso, nei faldoni del processo per la uccisione dei carabinieri Falcetta e Apuzzo non se ne trova traccia, c’è il verbale di perquisizione in casa Impastato, ma quel volantino non c’è. In fin dei conti in questa vicenda questo sembra essere il passaggio più marginale. Ce ne sono di altre cose strane, anomale, alle quali la procura di Trapani oggi sta provando a fare chiarezza. Muovendosi doppiamente in maniera cauta, per il riserbo investigativo ma anche perchè i protagonisti di questa storia sono ancora «operativi». Ci sono indagini che in questi anni hanno riproposto scenari aggiornati rispetto a quelle commistioni del 1976, il «sistema» è rimasto in piedi, magari ha cambiato funzionamento e addentellati, si può anche essere chiamato «Gladio» o qualcos’altro, può avere avuto trovato utili riferimenti nelle logge massoniche di Palermo e Trapani o anche di Mazara del Vallo, dove c’erano comunque dei «punciuti» o per i riti esoterici o per quelli mafiosi, o per tutte e due le cose. Mentre Giuseppe Gulotta è tornato in Toscana alla sua semilibertà, e Ferrantelli e Santangelo stanno in Brasile. L’ultima volta furono rintracciati dai carabinieri, alcuni anni addietro: i militari partiti apposta da Trapani pedinando un sacerdote che faceva il fattorino per conto delle loro famiglie avevano, annunciato il loro arresto poi però negato, niente estradizione. Anche allora Ferrantelli e Santangelo dissero che loro non hanno mai ucciso nessuno.
Le memorie dal carcere di Giuseppe Gulotta, "mostro" d'innocenza. Accusato ingiustamente dell'omicidio di due carabinieri, ha passato vent'anni in galera. E ora li racconta in un libro. Matteo Sacchi, Venerdì 03/05/2013, su Il Giornale. È una storia da brividi. Uno strano incrocio tra gli eventi narrati ne La colonna infame di Manzoni e il caso Dreyfus. Eppure non è accaduto nel Secolo di Ferro o nella Francia dell'Ottocento. È accaduta in Italia, in Sicilia, in pieno regime di democrazia. Ed è costata più di un ventennio di galera a un innocente, come ha stabilito una sentenza della Corte d'Appello di Reggio Calabria il 13 febbraio 2012. Ora Giuseppe Gulotta che a lungo ha dovuto convivere con l'infamia di essere considerato il mostro di Alcamo, ha deciso di raccontare (con Nicola Biondo) la propria storia in un libro prossimo all'uscita: Alkamar. La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere). Ecco i fatti. Il 27 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, la stazione dei Carabinieri viene attaccata. Agli inquirenti la scena si presenta così: la porta della casermetta è stata abbattuta usando una fiamma ossidrica. Nelle loro brande giacciono, freddati, due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e l'appuntato Salvatore Falcetta. Sembra siano stati colti nel sonno, soltanto uno ha avuto un accenno di reazione. Da subito le indagini si rivelano complesse. L'attacco sembra un lavoro da professionisti, il fatto che i carabinieri siano colti nel sonno è poco spiegabile. Per non parlare del movente. Due le piste battute: quella mafiosa (l'anno prima erano stati uccisi l'assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Francesco Paolo Guarrasi, e il consigliere comunale Antonio Piscitello) e quella dell'attacco terroristico (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br). Viene spedita sul posto in maniera piuttosto informale una squadra investigativa dei carabinieri comandata da Giuseppe Russo (colonnello dei carabinieri poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d'oro al valor civile). Poi finisce nelle mani degli inquirenti un certo Giuseppe Vesco. È un carrozziere della zona, monco di una mano, viene trovato in possesso di armi e oggetti che sembrerebbero provenire dalla Stazione di Alcamo. La pista sembra buona e gli uomini di Russo si fanno prendere la mano. Come rivelerà, troppi anni dopo, uno di loro, Renato Olino, usano le maniere forti, molto forti. Vesco per sfuggire al dolore fa i nomi di una serie di ragazzi di Alcamo tra cui Giuseppe Gulotta. Olino non è convinto, vorrebbe attendere i riscontri della scientifica, gli altri vogliono giustizia subito, portano in caserma quelli nominati da Vesco. Secondo Gulotta, all'epoca manovale diciottenne che aveva appena fatto il concorso per entrare in Finanza, anche a loro tocca la linea dura. Ecco che cosa racconta nel libro: «Schiaffi, tre, quattro, a mano aperta... Mani coperte di guanti neri continuano a colpirmi... Il ferro freddo mi scortica la parte sinistra della faccia: è una pistola. Il clic del cane che si alza e si abbatte a vuoto». L'interrogatorio per cui non è stato fatto nessun verbale e a cui non presenzia l'avvocato dura diverse ore. Alla fine Gulotta cede: «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete». Nella testa di questo ragazzino terrorizzato ciò che conta è farli smettere. Non capisce che firmare una confessione può distruggergli la vita. Quando arriva al carcere di Trapani e finalmente incontra i magistrati prova a dire la sua verità: «Lei conferma quello che ha detto a verbale?. Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tutta la notte». Secondo Gulotta gli rispondono: «È impossibile che per le botte si confessi un omicidio». Gli fanno una visita medica, risultano delle contusioni, ma secondo i Carabinieri purtroppo è caduto...E da questo punto in poi la storia giudiziaria di Gulotta oscilla fra la sua testimonianza iniziale, le prove labili, e la modalità in cui si sono svolti gli interrogatori. Anche perché Vesco, il testimone chiave che ha coinvolto gli altri, in carcere si suicida. Pur essendo monco riesce a impiccarsi a una grata altissima e, per non disturbare, si posiziona anche un fazzoletto in bocca. La prima sentenza della corte di Assise di Trapani assolve Gulotta per insufficienza di prove. Però è vaga sulle violenze. Per ciò che è avvenuto nella caserma di Alcamo si limita a un «critico giudizio» e parla di «maltrattamenti e irregolarità». Nel 1982 si passa alla Corte d'Appello di Palermo che ribalta la sentenza: Gulotta è condannato all'ergastolo. Si accumuleranno i processi, sino a che il 19 settembre 1990 la sentenza diventa esecutiva. Gulotta deve entrare in prigione, per lo Stato è un assassino. Per un attimo ha la tentazione di fuggire, poi rinuncia. Entra in carcere, affronta il calvario cercando di essere un detenuto modello, per uscire il prima possibile. Nel 2010 arriva la libertà vigilata. Intanto qualcuno ha dei terribili rimorsi di coscienza. È l'ex brigadiere Renato Olino. Aveva già provato a raccontare di quegli interrogatori, soprattutto di quello di Vesco. Non trovò sponda istituzionale e nemmeno in certi giornalisti, che non vollero saperne delle sue verità. Poi però sul caso torna la televisione con la trasmissione Rai Blu notte - Misteri italiani, ricostruisce la storia anche se con alcune inesattezze e Olino via web si fa avanti per raccontare. Così la magistratura di Trapani apre un'inchiesta e arriva anche il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d'Appello di Reggio Calabria ha chiesto il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscioglimento raggiunto in via definitiva il 13 febbraio 2012. Sulle cause di un'indagine condotta così male si indaga ancora. Giuseppe Gulotta, che ha chiesto allo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro, racconta di essere tornato sul luogo dove c'era la stazione dei carabinieri di Alcamo Mare. Ora li c'è un cippo per i due carabinieri morti. A loro nessuno ha ancora dato giustizia, a lui l'hanno data con 36 anni di ritardo. Anni che non torneranno più.
Stefano Santoro pagina Facebook 15 novembre 2019 alle ore 22:20 ha condiviso un link. Vesco in contatto con Curcio .Fogli con stemma delle Br trovati nelle perquisizioni ad Alcamo nel 76., lo stato maggiore delle Br a Catania un mese prima della strage di Alcamo Marina, ovvero gli uomini del sequestro Moro. Una autovettura intercettata a Cefalù con dei brigatisti. Un tentativo di attentato con uomini vestiti da carabinieri, nei pressi di Messina, dopo la strage. Puzza di Br a Cinisi. Vesco disse nelle sue lettere, che chi fece quella incursione, non aveva esperienza di guerriglia.....Fossero stati estremisti di destra ,oggi ne parlerebbero tutti i giornali e si aprirebbero fascicoli contro ignoti. Viva la democrazia sinistriota!
MISTERI CATANESI. Aureliano Buendìa Sud Press 9 Luglio 2013. Lentamente, le timide scoperte delle indagini della Magistratura da una parte e il contributo di vari autori storici dall’altra, viene emergendo il ruolo strategico della città di Catania in alcuni Misteri italiani. Una città affidabile la nostra, che tiene per decenni i segreti nel suo ventre molle, un po’ come la lava che sembra inghiottire tutto ma che talvolta invece conserva in una sorta di bolla senza distruggere. Allo stesso modo alcuni ambienti hanno saputo nascondere, coprire e ricattare grazie a verità insopportabili. D’altra parte, Catania è periferia, persino rispetto a Palermo, e qui l’afa soffoca tutto, qui lo Stato, salvo qualche episodico errore, manda funzionari levantini, annoiati, preoccupati di passare indenni sotto l’Etna per poi incassare il premio alla loro omertà.
Quali sono questi ambienti e cosa nascondono e cosa hanno avuto in cambio? Si tratta di fatti delicatissimi, per alcuni dei quali non sarebbe ancora intervenuta alcuna prescrizione, ma noi del resto ce ne occupiamo per quel piacere della verità che coltiviamo non come esteti ma come cittadini che non dimenticano, come debito che manteniamo nei confronti di quanti hanno pagato con la vita. In questo pezzo ci occuperemo del delitto Moro e prima ancora dei contatti delle Brigate Rosse a Catania. Pochissimi sanno che il 12 dicembre del 1975 presso il centrale Hotel Costa – in via Etnea – alloggiavano Giovanna Currò con il suo compagno. In verità si trattava di Mario Moretti, capo storico delle BR, e della sua compagna Barbara Balzerani.
Cosa facevano i due brigatisti a Catania? Sono oramai centinaia i documenti che attestano come gli esponenti delle BR abbiano in diverse occasioni “preso un caffè” con i rappresentanti di Cosa Nostra e Catania aveva la sua influente Famiglia, della quale non a caso si ricorderà il Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa riprendendo la sua attività svolta come Generale e come responsabile delle carceri italiane. Sempre Moretti tornerà a Catania, nelle settimane successive, questa volta alloggiando all’Hotel Jolly di Catania, e cioè a 200 metri dal Palazzo di Giustizia e dal Comando provinciale dei Carabinieri. A Catania operava già un Nucleo di Lotta Continua, che era stato organizzato fino al 1976 da Franca Fossati, appositamente trasferitasi nella nostra città appunto per organizzare il gruppo etneo ed è noto che alcuni militanti di Lotta Continua passeranno alle Brigate Rosse proprio in quegli anni. Allo stesso modo sono più o meno noti gli spostamenti che la Faranda, storica carceriera brigatista, poi dissociatasi e che pare si sia opposta alla sentenza di morte nei confronti di Aldo Moro, effettuava da e verso Catania, godendo di una certa libertà. Nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro a Catania succedeva qualcosa di particolarmente grave, su cui non si è mai fatta piena luce, e cioè, mentre gli uomini di Dalla Chiesa si occupavano di prendere contatto nelle carceri con quei detenuti, anche appartenenti a Cosa Nostra, che potessero collaborare con lo Stato per dare informazioni utili alla liberazione dello statista e la Mafia da parte sua non vedeva l’ora di rendersi utile, agli uni (chi trattava) e agli altri (che volevano morto l’On. Moro), il 3 aprile – 16 giorni dopo la strage di via Fani ed in pieno rapimento – ignoti gambizzavano il Comandante delle guardie carcerarie di piazza Lanza. Qualcuno, ed anche chi scrive, ricorda nitidamente l’arrivo dei Carabinieri in assetto antisommossa entrare in forze dentro la Casa circondariale mentre altri uomini cinturavano letteralmente piazza Lanza e le vie limitrofe.
Cosa era accaduto? Cosa si cercava? Chi era detenuto a Catania in quel momento? Qualcuno voleva interrompere quel tentativo trattativista? Non risulta, di contro, che mai collaboratore di giustizia abbia chiarito la circostanza, probabilmente trattandosi di questione troppo alta e delicata per essere trattata da pentiti comunque di piccolo cabotaggio ed in ogni caso terrorizzati per le conseguenze. A Catania, si vivevano gli anni dello splendore dei Cavalieri mentre la Democrazia Cristiana – sul libro paga dei primi – era targata Andreotti, con il suo luogotenente l’on. Nino Drago, ed era fermamente contraria alla trattativa. Erano gli anni in cui un capomafia in piazza Università, alla fine di un comizio si era permesso, e si poteva permettere, di schiaffeggiare ostentatamente il rappresentante andreottiano e ciò accadeva senza che alcuno tra le forze dell’ordine osasse intervenire. Santapaola completava la sua scalata, eliminando di lì a poco proprio quel capomafia schiaffeggiatore. Pippo Fava osservava e scriveva, e sarebbe interessante indagare anche in questa direzione, su cosa cioè il coraggioso giornalista avesse scoperto della complicità tra mafiosi e settori dello Stato, in quella che sarebbe stata la madre di tutte le trattative ed anche di quella più scellerata che si sarebbe consumata 15 anni dopo. L’omicidio di Fava fu un fatto eclatante che non portò bene ai mafiosi e quindi non si può escludere che in quel 5 di gennaio del 1984 – siamo a meno di 6 anni dall’omicidio Moro, in piena celebrazione di uno dei tanti processi su quel mistero della Repubblica (il processo era cominciato il 14 aprile 1982), ad appena due anni dalla eliminazione “mafiosa” (la pista catanese?) del Prefetto Dalla Chiesa – qualcuno abbia fatto un favore a qualcun altro, secondo la teoria dei cosiddetti cerchi concentrici. I Siciliani di Fava, di Orioles e degli altri "ragazzi", scrivevano di Ciancimino, degli esattori di Salemi, dei rapporti con i Cavalieri del Lavoro; Calogero Mannino diventava segretario regionale della DC, Rocco Chinnici insisteva sul terzo livello. Il cav. Costanzo e Mario Ciancio Sanfilippo nel 1981 acquistavano il 16% del Giornale di Sicilia. Incredibile, quanti uomini della trattativa si incontrino già in quegli anni. Tornando all’anno del sequestro Moro – il 1978 – dobbiamo registrare un altro episodio inquietante, che assume i contorni di un messaggio probabilmente indirizzato alle alte sfere della Politica nazionale: il 14 di settembre di quell’annus orribilis diversi colpi di pistola attingono il segretario della federazione socialista di Catania. I socialisti di Craxi erano stati favorevoli alla trattativa per liberare l’on. Aldo Moro e Craxi aveva ricevuto dal Gen. Dalla Chiesa informazioni riservatissime sul rapporto delle BR a Catania con ambienti malavitosi organizzati e con i potentati cittadini che si apprestavano a conquistare l’Italia. Qualche mese dopo Salvo Andò veniva eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, rompendo il predominio democristiano che in Sicilia aveva visto fino ad allora i socialisti di Capria subalterni agli andreottiani. Interessante, sulle relazioni pericolose mafia-terrorismo, saranno anche le rivelazioni di un funzionario di polizia come Giovanni Palagonia, mentre più di tutti al cerchio magico catanese si avvicinerà, dopo Chinnici, Falcone e Borsellino, il PM Carlo Palermo, scampato all’attentato in cui persero la vita una mamma con i suoi due bambini trovatisi nel momento sbagliato nel luogo sbagliato. Catania, quindi, in quei giorni del rapimento Moro aveva il suo ruolo e le inconfessabili trame di quei giorni testimoniano il livello dei contatti catanesi, la commistione tra apparati dello Stato e crimine organizzato, il ruolo di alcuni imprenditori che avevano mostrato appoggi ed ambizioni smisurate, osservatori che avevano forse intuito tutto e che sarebbero caduti negli anni successivi sotto i colpi di quell’Anti Stato mentre altri avrebbero fatto e, pensiamo, alcuni continuano a fare carriera nelle Istituzioni. D’altra parte sono passati appena 35 anni, un tempo breve per i nostri longevi politici. Certi segreti, fino a tanto che rimangono tali, pesano sulla coscienza di una città e sul suo futuro come macigni, ciclopi di lava che tutto coprono ma non distruggono, perché i segreti come la lava si ingrottano. E tutto scorre. Le Brigate Rosse a Catania, i contatti con la Mafia, i Cavalieri e Dalla Chiesa…Autore Aureliano Buendìa
Stefano Santoro pagina Facebook 14 novembre 2019 alle ore 19:20 ha condiviso un post. Fabio Lombardo è il figlio del maresciallo Lombardo trovato morto nella sua auto, all'interno del cortile, del comando regionale dei carabinieri a Palermo. Alcuni giorni prima era stato attaccato dal sindaco Leo Luca Orlando, nello stesso modo, come era stato fatto con Falcone. Nell'auto del sottufficiale non c'era traccia di polvere da sparo. Si parlò di suicidio.
Fabio Lombardo pagina facebook 14 novembre 2019 alle ore 15:15. Negli ultimi 24 anni ho incontrato tanti giornalisti, la stragrande maggioranza dei lecchini e vigliacchi. Tra questi, 3 palermitani sono stati codardi: Salvo Palazzolo (La Repubblica ), una volta ha scritto un pezzo sulla borsa di mio padre scomparsa dall'auto. Ricordo di averlo incontrato dopo qualche mese e gli dissi: Salvo, perché non hai più scritto? Perché non ti sei fatto più sentire? Risposta: "Da quando ho scritto quell'articolo, i giudici non mi fanno più entrare negli uffici....quindi DEVO LAVORARE. Ah bene!
Salvo Sottile, dopo il 4 marzo 95 chiamava decine di volte al giorno perché voleva notizie, dicendo che era un amico e che il caso lo aveva toccato tanto....Infatti! Qualche anno fa ha inviato un suo giornalista per fare un servizio sulle irregolarità del caso Lombardo. La puntata non andò mai in onda. Perché? Un mistero.
Infine la nostra iena palermitana Ismaele La Vardera, direi più un gattino che gioca a fare il giornalista. Quest'estate mi contatta dicendo che vuole realizzare un servizio sul caso Lombardo, come quello Cucchi o Rossi. Intanto quando parlavo con lui mi sembrava di avere di fronte un bambino, perché, vista l'età, non conosceva i personaggi e diceva sempre: ma vero? Stai scherzando? Io penso che la redazione delle Iene non sapeva nulla su questa sua iniziativa. Chiedeva documenti particolari, nomi particolari...per fare cosa? Mi viene da ridere quando mi trovo giornalisti come questi. Un altro giornalista palermitano mi ha intervistato ma, prima di iniziare la conversazione gli chiesi se potevo parlare di Orlando. Risposta: No perché a Palermo ci devo lavorare....e Minchia! I giornalisti che hanno seriamente affrontato questa storia hanno dovuto pagare con la giustizia italiana... E ci tengo a ricordare Daniela Pellicanò, Giammarco Chiocci e Roberta Ruscica.
Stefano Santoro 13 novembre 2019 alle ore 06:10 pagina Facebook ha condiviso un link. Ecco chi è NICOLA BIONDO, colui il quale chiama bestie in divisa i carabinieri di Alcamo , ecco a chi ha affidato Giuseppe Gulotta, la stesura del suo libro. Leggete l'articolo. Mitrokhin, “palestra” per manipolatori occulti Il caso Nicola Biondo di Gabriele Paradisi – Gian Paolo Pelizzaro – Sextus Empiricus il 24 ottobre 2011. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin ha fatto da palestra ad alcuni manipolatori più o meno occulti. Come abbiamo più volte scritto, il caso più eclatante di manipolazioni multiple riguarda il “Documento conclusivo” di minoranza, presentato il 23 marzo 2006 dai commissari di centrosinistra. A quella relazione lavorò un agguerrito pool di consulenti, composto da magistrati, storici, ricercatori, giornalisti e aspiranti tali, fra cui tale Nicola Biondo. Durante i lavori della Commissione, Biondo ha vissuto in una sorta di totale anonimato. Raramente è uscito allo scoperto, mai è stato delegato a svolgere attività istruttorie come ricerche d’archivio, in Italia o all’estero, rare le sue comparsate durante le audizioni, sporadiche le sue presenze a Palazzo San Macuto per lo svolgimento di quelle attività di studio e lettura degli atti. Questa sorta di apatia, però, ha subito uno scossone nel luglio del 2005 quando Gian Paolo Pelizzaro, dopo 25 anni di totale segreto, ha trovato negli atti della Questura di Bologna il nome di Thomas Kram, ossia del terrorista tedesco presente in città il giorno della strage. Da quel momento, Biondo ha ritrovato il fuoco sacro del lavoro di ricercatore, vestendo immediatamente i panni di un inflessibile e zelante investigatore. Ha iniziato ad estrarre copia degli atti depositati in Commissione, ha fatto le ore piccole a leggere, studiare e congetturare. Si è documentato, a modo suo, facendo una sorta di corso accelerato sulla storia del superterrorista Carlos e della sua organizzazione “Separat”, scaricando da internet intere rassegne stampa e quant’altro. Da un giorno all’altro, si è trasformato in un “grande esperto” di terrorismo internazionale e in particolare di quello di matrice arabo-palestinese (per il quale ha tradito una “passione” molto speciale), capace di dispensare – a destra e a manca – patenti e certificati di attendibilità di questo o quel documento, su questa o quella ricostruzione dei fatti. Il personaggio, dall’alto della sua profonda conoscenza e suprema competenza, ha iniziato ad esprimere giudizi e a sparare sentenze su questo o quell’argomento: l’importante è che si parlasse di Carlos e del suo ipotetico ruolo (come capo di “Separat”) nell’organizzazione della strage alla stazione di Bologna. Obiettivo: demolire, anche con informazioni e notizie fasulle, ogni ipotesi di collegamento tra il gruppo del terrorista venezuelano, il terrorismo di matrice arabo-palestinese e l’attentato del 2 agosto 1980. Lentamente, ma inesorabilmente Biondo, da anonimo e svogliato collaboratore della Mitrokhin, si è tramutato in un infaticabile censore e castigatore. Uno dei più severi e spietati. Meglio tardi che mai, si potrebbe obiettare. Il suo nome è venuto fuori prepotentemente un anno dopo la scoperta del nome e del ruolo di Kram a Bologna e quattro mesi dopo la formale chiusura dei lavori della Commissione Mitrokhin, in due articoli-fotocopia pubblicati il 28 luglio del 2006 dai quotidiani di sinistra Liberazione e l’Unità, basati su un medesimo elaborato, proprio a firma Biondo. Gli articoli erano titolati “2 agosto strage di Bologna: smentita la pista araba” (Saverio Ferrari, Liberazione”) e “Quanti depistaggi per coprire la strage fascista” (Vincenzo Vasile, l’Unità) e cercavano, partendo proprio dalle avventurose “ricostruzioni” di Biondo, di dimostrare l’esistenza di un fantomatico piano da parte di alcuni esponenti di An per depistare (non si sa cosa, visto che su Bologna dal 1995 c’è il giudicato della Cassazione), dalla matrice fascista della strage. In uno degli articoli si leggevano frasi di questo tenore: «Smascherato l’ultimo depistaggio di Alleanza nazionale costruito con documenti mai esistiti». Non solo temerari, ma pericolosamente superficiali. Ebbene, grazie a Biondo e alle sue teorie, i direttori responsabili dei due quotidiani, così come gli estensori degli articoli, sono stati tutti querelati e rinviati a giudizio per diffamazione aggravata dal mezzo stampa. C’è un processo in corso davanti al Tribunale Penale di Roma e la prossima udienza dibattimentale è fissata al 7 novembre 2011 (per un approfondimento sulla vicenda, si veda anche l’articolo “Un omicidio senza colpevoli”, LiberoReporter, febbraio 2011). Anche con un certo coraggio (vista la palese violazione delle norme e delle regole sulla tenuta del segreto e sulla riservatezza alle quali si devono attenere coloro che hanno fatto parte delle commissioni d’inchiesta), Biondo è citato come teste da parte degli imputati. Vedremo cosa dirà, sotto giuramento, il nostro castigatore. Intanto, abbiamo scoperto un altro prezioso riscontro al metodo scientifico impiegato da Biondo per svolgere il suo lavoro di ricercatore attento e scrupoloso. Abbiamo così preso in esame l’edizione italiana del libro di Emmanuel Amara, “Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra” (Cooper, febbraio 2008, pp. 205), con introduzione di Giovanni Pellegrino, traduzione di Alice Volpi e curato proprio da Nicola Biondo. Per apprezzare la qualità e la raffinatezza dei suoi interventi, è però necessario procurarsi l’edizione originale francese del libro di Amara, “Nous avons tué Aldo Moro” (Patrick Robin Éditions, novembre 2006, pp. 175). Mettendo a confronto i due testi si rileva una serie impressionante di modifiche che spesso cambiano il senso del discorso. Interventi, questi, che non possono certo essere imputati alla traduzione. Volendo farne una dettagliata classificazione, possiamo riconoscere:
1. L’aggiunta di 46 note a pie’ di pagina, intervento in apparenza migliorativo, ma non segnalato come tale (nel testo originale francese non vi è infatti alcuna nota).
2. L’eliminazione di brani (significativa ci sembra la soppressione delle cinque pagine di testo con le dichiarazioni di Giulio Andreotti sul caso Gladio dell’ottobre 1990).
3. Traduzioni modificate mediante aggiunte o sottrazioni di parole o manipolazioni di testo.
4. Trasformazioni di parti di testo virgolettate (ossia citazioni degli intervistati) in brani apparentemente attribuiti all’autore (ossia Amara).
Va dato atto che Biondo, a pagina 14, ha avuto l’accortezza di preavvisare i lettori con una dichiarazione pedagogico-programmatica: «La versione originale di questo volume ha subito alcune modifiche nell’edizione italiana. Ciò è dipeso dalla necessità di rendere il testo quanto più comprensibile a coloro che non hanno vissuto direttamente quella storia e a chi l’ha dimenticata. Altre modifiche si sono rese necessarie a causa dell’emergere di documenti e testimonianze successive alla pubblicazione dell’opera in Francia». Il lettore dell’edizione italiana non è tuttavia in grado di identificare nessuna delle modifiche apportate dal curatore. Volendo anche seguire il ragionamento di Biondo (excusatio non petita?), non si capisce nemmeno quali siano i nuovi documenti emersi tra la pubblicazione in Francia del lavoro di Amara (novembre 2006) e la pubblicazione in Italia dell’edizione curata da Biondo (febbraio 2008). Ad ogni modo, veniamo al dunque per fare apprezzare alcuni eclatanti e macroscopici esempi di “chirurgia giornalistica”, veri e propri “trapianti multipli” eseguiti da quel ligio e solerte “gendarme della memoria” di Nicola Biondo. Cerchiamo ad esempio di verificare cosa c’era nel testo originale francese di così poco fruibile per il pubblico italiano. Presto detto: c’erano alcuni “organi” decisamente corrotti e impresentabili che andavano assolutamente e tempestivamente rimossi e sostituiti con organi “sani”. Qui di seguito alcuni esempi.
Testo originale edizione francese
Testo manipolato edizione italiana
[p. 15] “L’OLP de Yasser Arafat fournit des armes de tous calibres aux Brigades rouges et le magistrat [Ferdinando Imposimato] y voit également une connexion entre le KGB et les brigadistes.”
[traduzione] “L’OLP di Yasser Arafat fornisce armi di tutti i calibri alle Brigate rosse e il magistrato [Ferdinando Imposimato] vede anche una connessione tra il KGB e i brigatisti.”
[p. 31] “Una fazione dell’Olp di Yasser Arafat riforniva le Brigate rosse di armi di ogni calibro e il magistrato [Ferdinando Imposimato] si chiede se attraverso questi rapporti accertati le Br siano entrate in contatto con i servizi segreti di altri Paesi.”
Subdolo intervento di sublime maestria. L’Olp di Yasser Arafat, icona della sinistra fin dagli anni Sessanta, non poteva certo essere citata e messa sul banco degli imputati come responsabile dei traffici di armi con le Brigate rosse. Quindi era meglio coinvolgere qualche imprecisata fazione palestinese, magari eretica ma pur sempre in termini generici, senza calcare la mano su Arafat. Poi, la certezza di un magistrato [“che vede connessioni”] si trasforma in una semplice domanda [“si chiede se esistano connessioni”]. Ma il finale indubbiamente ha qualcosa di straordinario, di funambolico. Il famigerato Kgb, che però dobbiamo ricordare è stato pur sempre il potente servizio segreto della Grande Madre Sovietica “sol dell’avvenire”, è eliminato dal testo e soppiantato da più rassicuranti e imprecisati “servizi di altri Paesi” (quali poi? non è dato saperlo), con la speranza che nella testa di un lettore qualsiasi possa spuntare anche l’idea della Cia, perché no. Ora viene da domandarsi se l’autore del libro, Amara, sia stato consultato e se abbia concordato con Biondo queste manipolazioni che, da un punto di vista tecnico, alterano in profondità il significato originale. Biondo nello stesso libro si è adoperato anche in difesa di un’altra “sacra icona” della sinistra, ovvero il mitico Sessantotto. In questo caso il trapianto ha comportato anche un leggero spostamento temporale.
Testo originale edizione francese
Testo manipolato edizione italiana
[p. 29] “Depuis la fin des années 60, L’Italie est plongée dans le chaos”.
[traduzione] “Sin dalla fine degli anni Sessanta, l’Italia è immersa nel caos”.
[p. 50] “Dalla metà degli anni Settanta l’Italia è piombata nel caos”. Tutto questo non può essere derubricato come un banale caso di (scorretta o errata) esegesi. È qualcos’altro. Nasconde dell’altro. Ha altre e più inquietanti implicazioni. Il mettere mano ai testi, ai documenti, manipolare il contenuto, alterare il loro significato è un’attività non casuale, non banale, non innocente. È un’attività che ha delle finalità. Tutto questo nasconde una volontà e un movente. Tutto questo deve avere un perché. Ciò che stupisce e inquieta è l’assoluta mancanza di rispetto del dato reale. In Italia, c’è un piccolo esercito di “gendarmi della memoria” che lavora per imbrogliare, occultare e manipolare i fatti. C’è ancora chi, a distanza di 22 anni dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo dei regimi dell’Est, teme la verità come fosse un morbo mortale per la coscienza collettiva. Per questi signori, cresciuti nelle menzogne della propaganda ideologica, la verità deve essere funzionale al dato politico. Altrimenti va estirpata come una pianta malata.
Pillole di saggezza «La cultura, la lingua, la forma mentis del falsario finiscono sempre per fare capolino, anche nelle più sagaci fabbricazioni». (Luciano Canfora, “Il viaggio di Artemidoro”, Rizzoli, Milano 2010, pp. 313). (Dal nostro portale tematico segretidistato.it)
Stefano Santoro pagina facebook 27 ottobre 2019 alle ore 15:09. Il movente, solo il movente resta il mistero sulla morte di Salvatore e Carmine. Di recente ho appreso ,da fonte autorevole, che in Calabria la stessa notte, in una casermetta di campagna , un plotone di carabinieri era pronto ad affrontare una incursione di alcuni terroristi. Non accadde nulla, o meglio, una strage avvenne ad Alcamo Marina, e quei carabinieri si spostarono ad Alcamo per i rastrellamenti. Rimane il mistero sulla figura di Giuseppe Vesco, i suoi rapporti con i Nap, le sue lettere inviate al più grande anarchico italiano, Alfredo Maria Bonanno, che non solo pubblicò le lettere sulla rivista Anarchismo, ma commentò il "fatto" . Perché Bonanno le pubblica , e ne trae spunto per esprimere le sue idee , e perché Vesco fa riferimento a Sansone ,ex brigatista e ai compagni ? Chi conosceva Vesco, nell'ambiente anarchico? Siamo certi che non aveva una preparazione letteraria, anarchica ideologica, tale , da non poter scrivere quelle lettere ? Perché Giuseppe Vesco , tentò di arruolare ad Alcamo, suoi coetanei , proponendo una lotta di classe (vedi intervista nel dossier Ammazzaru du sbirri) . È chiaro che i carabinieri non approfondirono all'epoca, la figura di Vesco . Quali soggetti , quali mandanti, o quali complici Vesco coprì durante le sue rivelazioni ? Perché i carabinieri si spinsero fino a Cinisi, a casa di Peppino Impastato , dopo aver perquisito attivisti di sinistra e di destra , nel territorio tra Alcamo e Castellammare ? Chi aveva l'interesse di "suicidarlo" ? Esiste ancora oggi qualcuno, che potrebbe dare risposte a queste domande ? Voi che leggete come al solito rimarrete muti , si dice in gergo alcamese..."mi fazzu lu me filaru". Siamo un popolo a cui hanno imposto una cultura del mutismo, dinanzi a certe situazioni. La libertà di ogni uomo, è anche partecipazione, senza la paura di dover esprimere la propria opinione. Questa società d'altronde, ci ha lasciato solo la libertà di opinioni, e poco, pochissimo potere decisionale sulla vita pubblica. Grazie per la lettura.
GLI SCHELETRI DELLA DC.
Quando Moro bocciò i due ministri del Pci e rifiutò di sostituire Bisaglia e Donat Cattin. Erano le richieste di Berlinguer per votare la solidarietà nazionale, ma la Dc rifiutò. Francesco Damato il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nella ricerca ormai ossessiva delle discendenze o analogie politiche si è cercato di scavare nel passato anche a proposito della scissione del Pd consumata questa volta da Matteo Renzi, come due anni e mezzo fa dai suoi nemici ormai per la pelle Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni. Che avevano brindato alla sua sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, dopo averla apertamente osteggiata. Ho sentito da qualche parte evocare persino il povero Aldo Moro, già scomodato durante la crisi d’agosto come anticipatore di Giuseppe Conte, per usarne il ricordo stavolta contro Renzi. Che si sarebbe comportato con la stessa irrazionalità e assurdità di un Moro che nel 1976, dopo avere spinto la Dc verso l’intesa di carattere eccezionale col Pci di Enrico Berlinguer, nonostante la contrapposizione elettorale, se ne fosse andato dal suo partito. Il paragone, sia pure rovesciato – ripeto- in negativo, fatto per deplorare e non per giustificare l’iniziativa di Renzi, è di una evidente esagerazione per l’abisso, più che per la differenza, fra i due personaggi, anche se l’ex segretario del Pd e fondatore di “Italia Viva” è in qualche modo riconducibile alla storia della Dc: più a quella però del suo corregionale Amintore Fanfani che a quella di Moro, l’altro “cavallo di razza” dello scudo crociato. Eppure, scavandoci sotto o riflettendoci sopra, il riferimento a Moro potrebbe diventare meno stravagante e assurdo di quanto non abbia pensato chi vi ha fatto ricorso in funzione antirenziana. E spero che quanto sto per scrivere, ove mai letto dall’interessato, non lo imbaldanzisca troppo facendolo molto, troppo paradossalmente sentire un nuovo Moro. Cui Renzi potrebbe paragonarsi davvero se solo volesse esprimere pubblicamente eventuali riserve sulla natura strutturale, persino a livello locale, che la dirigenza del Pd vorrebbe dare all’accordo con i grillini da lui proposto, a sorpresa, in via del tutto eccezionale, e con una prospettiva non di legislatura. Moro fu certamente l’artefice dell’intesa del 1976 con Berlinguer, al quale però fece ingoiare persino un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti: uno degli esponenti della Dc fra i più lontani, obiettivamente, dal Pci. E che proprio per questo costituiva un elemento di riequilibrio e di garanzia oltre Tevere e Oceano Atlantico. Il guaio fu, per l’allora presidente ella Dc, che ad un certo punto la gestione di quell’intesa da parte di Andreotti a Palazzo Chigi e del suo amico ed estimatore Benigno Zaccagnini a Piazza del Gesù, come segretario del partito, andò ben oltre i suoi progetti o intenzioni. Se ne accorse, poveretto, un anno e mezzo dopo, verso la fine del 1977, quando Berlinguer non ce la fece più a trattenere i mal di pancia nel Pci e provocò la crisi reclamando un passo avanti sulla strada di nuovi equilibri politici. Il leader comunista chiese ad Andreotti e a Zaccagnini per via riservata, ma non tanto da sfuggire alle orecchie e all’intuito di Moro, di fare entrare nel governo almeno due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci. Quando Moro se ne accorse non si lasciò certo tentare – figuriamoci, col suo carattere- di minacciare e tanto meno di preparare e realizzare un’uscita dalla Dc, come ha appena fatto Renzi col Pd. Egli lavorò con pazienza e ostinazione per impedire che la richiesta di Berlinguer fosse accettata da Andreotti e da Zaccagnini, che ne erano molto tentati pur di non chiudere anzitempo la stagione politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” e trattare un nuovo centrosinistra col Psi passato nel frattempo dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Che era disponibile a riprendere la collaborazione con lo scudo crociato, e ricacciare il Pci all’opposizione, ma non a buon mercato, diciamo così. Moro afferrò nelle sue mani le trattative, dietro e davanti alle quinte, e convinse Berlinguer della impraticabilità politica della sua richiesta, sul piano interno per i rischi di rottura dell’unità democristiana e sul piano internazionale per i rapporti con gli Stati Uniti. Dove già avevano storto il muso per la mezza partecipazione del Pci alla maggioranza, astenendosi nelle votazioni di fiducia al governo Andreotti, e avrebbero storto qualcosa di più e di diverso in caso di nomina a ministri di eletti nelle liste comuniste. Berlinguer si acquietò ripiegando su un programma di governo da concordare più dettagliatamente e incisivamente di quanto non fosse stato fatto nel 1976. E ciò per consentire al Pci di passare dall’astensione al voto di fiducia vero e proprio, dalla mezza maggioranza alla maggioranza intera, dall’anticamera alla camera della spartizione del potere e sottopotere, perché esistevano già allora enti pubblici, consigli d’amministrazione, cariche di alta burocrazia e quant’altro da assegnare con criteri politici. A trattativa conclusa, tuttavia, Berlinguer tentò, con un altro approccio diretto ad Andreotti e a Zaccagnini, di ottenere qualcosa in più da spendere sul terreno della propaganda: la testa di qualche ministro uscente. Furono individuate, in particolare, quelle di Antonio Bisaglia e di Carlo Donat- Cattin, distintisi nella Dc durante la crisi per le resistenze opposte ad una maggiore apertura al Pci. Ma quando Moro se ne accorse, leggendo la lista dei ministri portata di sera da Andreotti a un vertice democristiano alla Camilluccia, prima di salire al Quirinale per sottoporla alla firma del capo dello Stato, il presidente del partito disse no. E impose la conferma di entrambi i democristiani dicendo che la Dc sarebbe finita se avesse accettato di farsi selezionare la classe dirigente dagli altri. Alcune decine di migliaia di copie del giornale ufficiale del Pci già stampate con la lista dei ministri promessa a Berlinguer dal presidente del Consiglio furono ritirate dalla spedizione e macerate. Nei gruppi parlamentari comunisti il malumore crebbe sino alla minaccia di non votare più la fiducia al governo che stava per presentarsi alle Camere. Lo stesso Zaccagnini nella Dc voleva dimettersi da segretario. Tutto rientrò solo perché la mattina del 9 marzo 1978, andando proprio alla presentazione del governo a Montecitorio, Moro fu sequestrato dai brigatisti rossi fra il sangue della sua scorta, decimata. Dopo 55 giorni di drammatica prigionia, e di convulsa gestione governativa e partitica della cosiddetta linea della fermezza imposta dal Pci ad una Dc a dir poco sconvolta dagli eventi, sarebbe stato ucciso pure Moro. Meno di un anno dopo sarebbe finita anche la maggioranza di “solidarietà nazionale”, o di “compromesso storico”, come preferiscono chiamarla persone di cattiva memoria o storici improvvisati. Il compromesso storico proposto da Berlinguer era tutt’altra cosa dall’operazione concepita e gestita da Moro.
· Aldo Moro e la sua idea di centro.
Il genio politico di Aldo Moro e la sua idea di centro: la persona perno di un cambiamento reale e duraturo. Sergio Carlini il 24 luglio 2019 su Il Dubbio. Un genio politico che, dal carcere brigatista, profetizza, dopo la sua morte, “un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco” per il nostro Paese. Giuseppe Genna ha svolto sull’ultimo numero de L’Espresso una riflessione mirabile. Tanto che chi volesse cimentarsi con essa – come in questo momento fa il sottoscritto – corre il serio rischio di una semplificazione o peggio di una banalizzazione. Credo che la questione fondamentale posta da Genna sia la seguente: che cosa sostiene un’azione giusta, soprattutto da parte di un uomo politico? Un uomo politico che si trova di fronte e alle prese con le forze spurie, primordiali, caotiche e drammatiche della società e della storia. L’azione giusta è sempre e comunque giustificata e motivata da principi morali oppure è quella che, guidata dall’intuito del genio politico e dalla conoscenza del “tempo giusto per ogni cosa”, conduce a sminare i pericoli e aprire prospettive nuove? Machiavelli ha risposto una volta per tutte a questa domanda, dimostrando non solo che il fine giustifica i mezzi, ma che l’azione politica è volta, soprattutto, a ristabilire le condizioni in cui le leggi morali e la retta coscienza dell’individuo possono reggere autonomamente una società armonica. Giuseppe Genna conduce questa riflessione fino alla realtà italiana, individuando giustamente in Aldo Moro l’artefice di un genio politico capace di “tenere unito il molteplice, rallentare, accelerare, comporre”. Nel contesto di un Paese, l’Italia, attraversato da drammatiche tensioni internazionali, segnato da arretratezze storiche, dilaniato da forze oscure e dalla presenza del più potente partito comunista dell’Occidente. Un genio politico che, dal carcere brigatista, profetizza, dopo la sua morte, “un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco” per il nostro Paese. La linea di condotta di Aldo Moro, “fare della Dc una forza di mediazione di tutta la realtà politica e sociale italiana ivi compresa la sinistra”, è stata per lo più fraintesa, anche dai suoi interlocutori comunisti più avveduti, i quali si piegarono, anzi imposero l’infausta linea della fermezza. A questo punto Giuseppe Genna introduce il concetto di centro, non come punto intermedia di una linea retta, bensì come centro di un cerchio. Mi ha fatto piacere che Genna abbia citato Gianni Baget Bozzo, che pochi oggi ricordano come una figura davvero importante del dibattito religioso, della cultura e della politica in Italia, il quale concepiva il centro in termini dinamici, come mediazione. Certo, si potrebbe dire che questo concetto e soprattutto la pratica della mediazione, sottratta dal rigore intellettuale e morale di Aldo Moro e affidata al doroteismo democristiano, ha condotto anche alla piega del clientelismo, del consociativismo più deteriore e, infine, ad accumulare un enorme debito pubblico, che oggi pesa come un macigno sul nostro futuro. Così come si potrebbe affermare con ragione che questo concetto di mediazione, di cui peraltro Franco Cassano, nel volume “Il teorema democristiano”, metteva in luce gli aspetti di autonomia rispetto alla sfera dell’economia, confligge alla lunga con un’autentica visione liberale dello Stato, del sistema politico e dell’economia. Ma qui tocchiamo con mano le caratteristiche dell’Italia del dopo Moro, l’Italia violenta di tangentopoli, l’Italia volgare del berlusconismo, l’Italia della speranza fulminea rappresentata da Renzi e, in ultimo, l’Italia del governo più populista e sovranista d’Europa. Evidentemente se siamo finiti in questa situazione qualcosa non ha funzionato. Di Aldo Moro rimane, però, come ricorda Genna, l’ispirazione “di una politica condotta, se non dal centro, in nome del centro stesso. E quel centro è la persona: il valore dell’inalienabilità della persona da se stessa e da tutto ciò che il fenomeno umano produce”. La vera rivoluzione per Aldo Moro è la metanoia, una rivoluzione interiore attraverso cui l’umano si arricchisce e di trasforma, diventando il perno solido di un cambiamento reale e duraturo. In fondo, ciò che auspicava anche Machiavelli, anche se quando cadono queste solide strutture morali diventa imprescindibile farsi guidare dal dovere, di cui ha parlato Marco Damilano, che consiste in qualcosa di “trascendente che supera anche le leggi dell’uomo, imparziali o addirittura ingiuste”.
· Chi amò e chi odiò Aldo Moro.
Vittoria Leone: «Un anonimo mi scrisse dov’era il covo di Moro, la lettera fu ignorata». Pubblicato sabato, 05 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. La moglie del presidente Leone: «Ogni sforzo di mio marito per liberarlo fu inutile. Venivo definita l’ambasciatrice della moda italiana, ne ero orgogliosa. Andreotti? Un ingenuo»
Lei si sente donna Vittoria, come la chiamavano i giornali, o la signora Leone?
«Per me non ha mai fatto differenza. La mia vita privata ha sempre coinciso con quella pubblica di mio marito. Avevo 28 anni quando divenne presidente della Camera, 36 quando fece per la prima volta il presidente del Consiglio, 44 quando fu eletto capo dello Stato. Ora non ci sento così bene come prima; e mi piace pensare di essere chiamata semplicemente Vittoria dalle persone più vicine».
Qual è il suo primo ricordo?
«La mia bicicletta Wolsit di Legnano. Andavamo a scuola a piedi o in bici, con qualsiasi tempo. Mio padre, medico, aveva una macchina; ma non veniva messa a disposizione dei bambini. Allora non si cresceva viziati. Avevo anche un cane. Mi morse, ma non lo dissi: temevo che lo punissero. Ero sicura di aver preso la rabbia, la notte pregavo di morire in fretta».
Come finì?
«Feci la cura antirabbica».
La sua famiglia è di origine inglese?
«Un trisavolo, Andrea Graefer, architetto botanico, fu chiamato dai Borbone per progettare i giardini inglesi della reggia, che ancora oggi portano il suo nome. Si innamorò di una casertana. La mia famiglia viene da lì».
Quando ha visto per la prima volta l’uomo che sarebbe diventato suo marito?
«Giovanni venne a casa nostra con mio fratello Luigi. La guerra era appena finita. Era professore universitario, e tenente colonnello alla procura militare di Napoli: aveva liberato tutti i prigionieri per sottrarli alla vendetta nazista, poi era scappato travestito da prete. Mio fratello era tenente. Divennero amici. Così me lo vidi comparire a casa».
È vero, come ha scritto Vittorio Gorresio, che si offrì di raccomandarla per l’esame di maturità?
«È vero, e io pensai: ma che invadenza! Alla fine l’esame non lo diedi. Mi sposai prima, il giorno del mio diciottesimo compleanno».
Lo sa cosa viene da pensare nel vedere le vostre fotografie? Lei era bellissima; lui no. E aveva vent’anni di più. Com’è potuto nascere il vostro amore?
«Me lo sono chiesto anch’io. Non esistono spiegazioni razionali. Accadde. Certo lui mi aveva affascinato con fiumi incessanti di parole. Mi aveva stordito con la sua testa».
Cosa l’ha colpita di Giovanni Leone?
«Un carattere fuori dagli schemi, un’immensa cultura, una rara capacità di ragionare e convincere. E un grande senso dell’umorismo. Era molto curioso, di mente aperta, di una lungimiranza fuori dal comune, di un’umanità straordinaria. Non mi dette il tempo di capire quello che stava succedendo, ed eravamo già sposati».
Com’era la vita quotidiana al suo fianco? È vero che lui di notte leggeva, mangiava, accendeva e spegneva la luce di continuo?
«Giovanni ha sempre sofferto di insonnia. Libri e discorsi li scriveva di notte. Era il terrore delle dattilografe che dovevano trascrivere blocchi interi partoriti nottetempo. A un certo punto abbiamo deciso di dormire in stanze separate, ma comunicanti. Non era facile reggere i suoi ritmi forsennati. Amava stare in compagnia, spesso mi trovavo ospiti a casa senza preavviso. Una cosa è certa: con lui non ci si poteva annoiare».
Leone era presidente del Consiglio quando incontraste Kennedy. Che impressione le fece?
«Volendomi fare un complimento galante, mi disse, in inglese: “Ora capisco il successo di suo marito”. Risposi che all’evidenza gli sfuggivano le doti di Giovanni».
In sostanza, ci provò...
«Ma no, voleva essere simpatico. Era una persona affascinante, nello stesso tempo educata e concreta. Adorava Napoli, dove fu accolto da due milioni di persone. Ho ancora la lettera che scrisse a Giovanni. Vuole vederla? Guardi qui in fondo. Kennedy scrisse “Viva Napoli” di suo pugno. È datata luglio 1963. Gli restavano quattro mesi».
E Jackie?
«Bella. Elegante. Altera».
Fanfani e Moro: i cavalli di razza democristiani. Chi erano veramente?
«Moro era molto legato a mio marito, era stato suo assistente di diritto penale all’università di Bari. Il destino li volle entrambi candidati della Dc al Quirinale: votarono i gruppi parlamentari; Giovanni vinse per otto voti, e Aldo fu leale, non armò i soliti franchi tiratori».
Com’era Moro?
«Un uomo triste. Veniva a trovarci nella nostra casa di Roccaraso, si sedeva, e stava zitto. Non parlava quasi mai, ma quando parlava non smetteva più; e non si capiva niente. Avevamo un barboncino nero e l’avevamo chiamato Moro. Suonarono alla porta e lui si agitò, io lo rimproverai: “Moro piantala, Moro stai buono!”. Poi andai ad aprire: era Moro, quello vero. Ci era rimasto malissimo».
Come ricorda i giorni del suo rapimento?
«Mio marito è l’unico democristiano che Moro non abbia maledetto nelle sue lettere. Fece disperatamente e inutilmente di tutto per farlo liberare. Ma avemmo la sensazione che fosse un destino segnato».
Perché dice così?
«Arrivò una lettera anonima, indirizzata a me, che segnalava il covo brigatista. La portai al ministero dell’Interno. La ignorarono. Quando la chiesi indietro, mi dissero che era sparita. E le Br lo uccisero poche ore prima che Giovanni firmasse la grazia per una terrorista malata che non aveva sparso sangue, Paola Besuschio».
Anche Fanfani era per la trattativa.
«Fanfani era uomo di partito, oltre che delle istituzioni, mentre mio marito incarichi di partito non ne volle mai, per non trovarsi a gestire troppi compromessi e giochi di potere. Questo talvolta li allontanava, nonostante avessero un ottimo rapporto personale. Io ero molto amica di sua moglie Biancarosa, che scomparve prematuramente. Poi lo sono stata di Mariapia».
Su cosa Leone e Fanfani si trovarono lontani?
«Il referendum sul divorzio. Lo scontro fu duro e lungo. Fanfani lo volle a tutti i costi. Giovanni era contrario: “Servirà solo a sancire che siamo minoranza” diceva. E questo non lo fece amare da Papa Montini».
Che opinione si è fatta di Andreotti?
«L’ho sempre considerato un amico di famiglia. Adorava giocare a carte con me e alcuni amici comuni. Giovanni condivideva la sua apertura a Mosca e al Medio Oriente. Lo considerava un grande politico che, a dispetto di quel che si crede, alternava all’astuzia anche momenti di ingenuità».
Ingenuo, Andreotti?
«A volte si fidava troppo degli altri».
Come ricorda i leader che incontrò? Ford, lo Scià, Pompidou...
«Pompidou e la moglie erano due persone straordinarie: lei simpatica e cordiale, lui statista con una visione. Ford era una persona schiva e sincera, però la sensazione era che comandasse Kissinger: uomo brillante, di apparente bonomia, ma dagli occhi cattivi. Anche al Cremlino si faceva notare di più Gromyko, che parlava un ottimo inglese, che non Breznev, uomo timido, introverso. Lo Scià era un leader illuminato ma taciturno: sapeva molte lingue e non ne parlava nessuna».
Franco lo incontrò mai? E Peron?
«Franco mai. Ho un bel ricordo di Juan Carlos, che conversava amabilmente in un ottimo italiano. Peron venne con Isabelita e propose che il nostro governo comprasse un pezzo di Argentina, per risanare il loro debito pubblico. Mio marito e io ci guardammo imbarazzati; poi lui con le sue doti diplomatiche sbrogliò la situazione».
E tra le mogli chi la colpì di più? Farah Diba?
«Una donna dolcissima e intelligente. A Teheran parlammo in inglese a lungo e ci trovammo d’accordo su molte cose, dall’educazione dei figli alla moda. Volle sapere chi era il mio stilista. Quando le dissi Valentino, non si stupì: sapeva riconoscere l’eleganza. Erano gli anni in cui mi definivano l’ambasciatrice della moda italiana nel mondo, ne ero così orgogliosa... Mi colpì molto anche la regina Fabiola. Lei e Baldovino erano visceralmente legati al loro popolo».
La regina Elisabetta era ancora giovane.
«La prima volta che la incontrai aveva 35 anni, mio marito era presidente della Camera. I nostri figli avevano una governante inglese, miss Bertha. Elisabetta la volle conoscere. Miss Bertha svenne in avanti per l’emozione. Ci spaventammo».
E la regina?
«Imperturbabile».
Con suo marito andaste da padre Pio.
«Non amava i politici e ci trattò con durezza. Però mi diede tre rosari: “Per i suoi figli”. “Ma io ne ho solo due, Mauro e Paolo”. “Ne prenda tre” disse. L’anno dopo nacque Giancarlo».
Lei è considerata la prima e ultima first-lady italiana. Perché siamo allergici a questo ruolo?
«La prima fu Ida Einaudi. Si affezionò molto a me. Anche troppo, voleva sempre che la accompagnassi... Saragat, presidente prima di Giovanni, era vedovo. Gli altri predecessori erano molto più anziani. Il Paese non era abituato a vedere al Quirinale una famiglia al completo, con moglie giovane e figli piccoli. Del resto, né Mussolini né i Savoia hanno evidenziato figure femminili accanto a loro, per scelta. Veniamo da un passato maschilista. E restiamo il Paese dove la maldicenza primeggia e il rispetto delle istituzioni è dote rara».
Da sinistra foste accusati di aver trasformato il Quirinale in una reggia. Poi venne il libro della Cederna. Cosa provò nel leggerlo?
«Ero troppo impegnata a sostenere mio marito per avere il tempo di metabolizzare quelle ingiurie. Eravamo una famiglia normale, che conduceva una vita normale in un contesto eccezionale. La campagna denigratoria del gruppo Espresso e il libro della Cederna furono palesemente un’orchestrazione per colpire il cuore dello Stato, il cui presidente veniva dalla Democrazia cristiana, e un’ambigua operazione anche commerciale, per accreditarsi come la vera controinformazione. La fonte principale della Cederna era OP di Mino Pecorelli, agenzia ricattatoria e legata ai servizi segreti deviati e ai poteri occulti dell’epoca. La maldicenza trovò terreno fertile anche nel Pci e nei radicali».
Un capitolo era intitolato «I tre monelli»: i suoi figli. Come reagì?
«I tre monelli era il nome della nostra casa di Roccaraso. Neanche i ragazzi, nonostante fossero giovanissimi, furono risparmiati dalle diffamazioni della Cederna: talmente ridicole da non poter essere prese sul serio. E così fu. Io però capii che si stava aprendo una voragine nel nostro Paese: in nome della faziosità e di interessi di varia natura, nessuno sarebbe stato più risparmiato».
Chi costrinse suo marito a lasciare, i democristiani o i comunisti? Leone era un intralcio sulla via del compromesso storico?
«Lo scopo era favorire un cambio nella gestione del Paese a favore della sinistra, spostando il baricentro democristiano. Alla campagna si unirono altri soggetti interessati: la P2, già in azione ma ancora ignota ai più; politici e ministri Dc in odore di corruzione; membri del governo contrari all’apertura di mio marito per salvare Moro. Quell’immenso polverone riuscì per un po’ a distrarre l’opinione pubblica dai veri scandali, destinati comunque a esplodere. Leone si dimise perché la Dc non lo difendeva dagli attacchi interessati del Pci. Proprio quella Dc che qualche mese prima lo aveva implorato di non dimettersi come lui avrebbe voluto, per potersi difendere meglio. Tutto cambiò con la terribile morte di Moro».
Perché?
«Quella tragedia, che si poteva evitare se gli avessero lasciato firmare la grazia, spinse Dc e Pci a forzare un ricambio, una ripartenza scioccante, fornendo al Paese un capro espiatorio. Così uccisero anche Giovanni Leone, psicologicamente e umanamente».
Lei provò a convincerlo a non dimettersi?
«Non dovevo, perché lui era determinato da tempo a lasciare. Voleva farlo già nel 1975, quando il suo messaggio alle Camere rimase ignorato. La politica gli chiese di restare e lui, galantuomo fino in fondo, aderì fino a quando la politica gli chiese il passo indietro. In questo dimostrò di essere molto diverso dal suo partito, per correttezza e onestà. Come quando disse no a Togliatti...».
Togliatti?
«Quando Giovanni era presidente della Camera, il leader comunista gli disse riservatamente che avrebbe fatto convergere voti del Pci su di lui per il Quirinale, se avesse preso tempo prima di indire una nuova votazione. Lui declinò l’offerta, e convocò subito la votazione che elesse Segni. Quanti altri politici si sarebbero comportati così?».
È vero che cadde in depressione?
«Era amato e popolare; una campagna infondata lo precipitò nel mondo che aveva sempre combattuto, quello dell’illegalità e del sospetto. Fu come essere colpito da un fulmine. Non era preparato, non poteva esserlo. Non aveva gli strumenti di difesa tipici dei corrotti, che sono sempre pronti a tutto. Lui era del tutto indifeso. Sì, cadde in una depressione da cui non si riprese più. Gli sono stata accanto per altri 23 anni, e con me i figli. Ma non era più lui. Era la testimonianza vivente e dolente del sacrificio di una persona troppo perbene».
Però lei conosceva il dolore. Aveva perso un figlio, Giulio, a 5 anni, per la difterite.
«Dopo aver visto la guerra, la morte di Giulio, la malattia di Mauro, che da piccolo fu colpito dalla poliomelite, non potevo impressionarmi di fronte alla meschinità e alla falsità. Per il nostro bambino, Giovanni scrisse allora un libro per pochi, Dialoghi con Giulio. Non riesco a rileggerlo perché ancora oggi mi commuove. Penso a lui sempre. Era di una dolcezza senza confini».
Come si comportò con voi il successore, Pertini?
«Rapporti formali. Giovanni non se ne meravigliò. Lo conosceva troppo bene».
Molti anni dopo i radicali chiesero scusa.
«Ne fui sorpresa. Mi ero fatta un’idea molto diversa di Pannella. Con la Bonino fece un atto di onestà intellettuale, scusandosi per le accuse ingiuste di anni prima. Mi commossi: Giovanni lo meritava. Il Pci invece non si è mai scusato. Anche se Napolitano da presidente ebbe parole durissime contro quella campagna».
Suo marito però fu al centro di altre polemiche: dalla difesa della Sade nel processo sul Vajont, alla famosa foto delle corna agli studenti di Pisa. «Da avvocato ha sempre sostenuto le cause giuste. La difesa della Sade non andava contro le vittime; serviva per stabilire la verità dei fatti. Lasciò presto l’incarico per impegni istituzionali. Da penalista amava difendere i più deboli, gratis. Quel gesto delle corna fu istintivo: era il suo modo di rispondere ai contestatori violenti che gli urlavano “a morte Leone!”. Apparteneva al suo spirito napoletano. Anche in questo non era un politico di professione; era un grande giurista prestato alla politica».
Lei come immagina l’aldilà?
«Sono credente, ma proprio per questo vivo incertezze che tengo per me. Nella nostra cappella di famiglia a Napoli è scolpita una frase di san Paolo: Vita mutatur, non tollitur».
Virginio Rognoni, quando Andreotti lesse (o rilesse?) il Memoriale di Aldo Moro. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it.
Virginio Rognoni, tu sei stato uno dei massimi dirigenti della Dc e il ministro dell’Interno succeduto a Francesco Cossiga dopo la morte di Moro. Che cosa era la Democrazia Cristiana? Che cosa è stata nella storia italiana?
«Non si capisce la Democrazia Cristiana se non con riferimento alla storia politica e civile del Paese. Non è un partito che nasce dal nulla. Durante il fascismo i cattolici antifascisti, per tradizione familiare e radicata convinzione, erano assoluta minoranza; la gran parte del mondo cattolico faceva massa intorno a Mussolini; erano gli anni Trenta; giusto gli anni del grande consenso; un patrimonio ingannevole che porta Mussolini definitivamente nelle braccia di Hitler. Finita la guerra, ma già prima, a ridosso del 25 luglio, c’è l’incontro dei vecchi “popolari” del partito di Sturzo, con De Gasperi in testa, e i giovani professori che venivano dalla Fuci e dai Laureati cattolici; queste due realtà si incontrano, vi confluiscono altri gruppi già clandestini, come i neoguelfi di Milano, e nasce il partito. Oggi si racconta che quella politica era in mano a vecchi, ma perché non ricordare che Aldo Moro arriva alla Costituente a 29 anni e Dossetti a 33, e che entrambi sono stati tra i costituenti più ascoltati e apprezzati?».
La Dc era un arcobaleno che copriva posizioni reazionarie e il loro contrario. Nella Dc poterono convivere Lima e Tina Anselmi, Sbardella e persone come te o Zaccagnini. Esclusivo prodotto della Guerra fredda?
«L’unità politica dei cattolici non era certamente un dogma e neppure una sorta di obbligazione morale; era semplicemente un fatto politico inevitabile in quel determinato momento. L’Italia è stata subito segnata da due grandi questioni, la questione cattolica e quella comunista; due realtà che contrapponendosi radicalmente hanno irrigidito il sistema, quasi bloccato. La questione comunista, con il richiamo allora fortissimo all’Unione Sovietica, al mito della Rivoluzione ha finito per arroccare la Dc ben oltre la sua cultura di partito. La Dc era diventata argine, diga contro il comunismo: un problema. Il contrasto tra De Gasperi e Dossetti circa il modo di interpretare la grande vittoria del 18 aprile mi è sempre parso come la denuncia di questo problema e giusta mi è sempre parsa la soluzione presa da De Gasperi. D’altro canto, il Pci non era semplicemente l’emanazione dell’Urss; non era il Partito comunista tedesco (tra l’altro messo fuori legge) e neppure quello francese o spagnolo; aveva alle spalle diverse culture e soprattutto era il partito che aveva contribuito alla rinascita della democrazia con un ruolo rilevantissimo nella Resistenza. Ma eravamo in quegli anni. E il mondo era separato in blocchi e aree di influenza. C’erano vincoli internazionali, appartenenze, alleanze militari, insomma la “Guerra fredda”. Per la Democrazia cristiana, il Pci doveva essere combattuto e allo stesso tempo cooptato nel gioco democratico: da qui il riconoscimento di un’area, il cosiddetto “arco costituzionale”, dove palese fosse la continuità di un legame tra tutti i partiti che avevano scritto la Costituzione. Un equilibrio non semplice, ma necessario, in un Paese di frontiera come l’Italia».
La Dc muore con la morte di Moro?
«Con Moro finisce la prima Repubblica. Ferma la pregiudiziale antifascista, Moro, con un’azione di carattere quasi pedagogico, era diventato protagonista del progressivo allargamento della base democratica del Paese. Esaurita la formula centrista, ecco i socialisti al governo, poi la solidarietà nazionale con i comunisti nella maggioranza parlamentare; a quel tempo, una vera e propria sfida alla stessa Dc e in campo internazionale. Moro non è mai stato vicino al compromesso storico di Berlinguer, una strategia che prevedeva l’unità al governo dei partiti popolari, quasi un ritorno all’alleanza dell’immediato dopoguerra prolungata nel tempo. Moro invece riteneva che per il Pci stare fuori dal governo, ma dentro la maggioranza, fosse un passaggio necessario di legittimazione democratica così da arrivare, senza strappi, all’alternanza. Un percorso confermato nell’intervista postuma a Scalfari. Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e avrebbe accompagnato questa transizione per uno o due anni. Alle elezioni successive i due partiti si sarebbero presentati in conflitto. Una sorta di 18 aprile purgato di tutte le scorie, le durezze e le anomalie, nazionali e internazionali, del ’48. Ma il Pci sarebbe stato così legittimato a governare, se avesse avuto i voti. Era un grande progetto, che avrebbe completato il disegno costituzionale. La morte di Moro ha impedito che si realizzasse».
Conosco la tua tesi e la condivido: il rapimento di Moro e il suo assassinio sono stati compiuti dalle Brigate rosse. Però Moro viene ucciso per far saltare il suo disegno. Quindi uno di quegli omicidi politici che cambiano il destino di un Paese...
«Ero convinto e lo sono ancora che il terrorismo delle Brigate rosse fosse nazionale, italiano, non eterocomandato da un “grande vecchio”. Ho spesso discusso con Pertini; il Presidente riteneva che ci fosse una centrale straniera in ragione della posizione geopolitica italiana, al confine tra patto di Varsavia e Nato. Tanto è vero che quando fu sequestrato il generale Dozier mi telefonò preoccupatissimo: “Hai visto? Hai visto? Un generale americano”. Come ministro dell’Interno io avvertivo l’assoluta necessità di seguire ogni congettura, nessuna esclusa; il mio compito, dopo via Fani e la tragedia di Moro, era che il Paese rimontasse la china, sconfiggesse il terrorismo senza uscire dalla democrazia e senza imbarbarire lo Stato. Il clima era pesantissimo, avevamo avuto un ’68 diverso dagli altri Paesi. Il ’68 italiano è stato una cosa eccezionale. Sia chiaro: il ’68 esprimeva un bisogno di modernità, postulava uno sbocco politico che però non c’è stato. Il ’77, con tutte le sue violenze, in fondo è la manifestazione drammatica di quella delusione. Dico questo anche perché quando sono arrivato al Viminale sentivo dentro di me quel grido, nato giusto in ambienti “sessantottini”, “né con le Brigate rosse, né con lo Stato”. Era un grido spaventoso, che poneva sullo stesso piano negativo le Br e lo Stato, uno Stato vissuto come lontano, sempre uguale, torbido».
Durante la Guerra fredda quelli che erano considerati nemici in un fronte non dovevano partecipare al governo dell’altro. Credo che questo abbia detto con rudezza Kissinger a Moro e anche Berlinguer viene messo nel mirino dai sovietici, fino all’attentato in Bulgaria. Moro e Berlinguer, ciascuno nei due campi, erano un’anomalia pericolosa. Ribadito che il rapimento Moro lo hanno fatto le Br tu non pensi che nei cinquantacinque giorni ci sia stato l’intervento di questi soggetti per evitare che Moro fosse liberato?
«Cominciamo col dire che nei cinquantacinque giorni probabilmente la linea della fermezza è stata inevitabile. Se fosse avvenuto il contrario le istituzioni non avrebbero retto. Ma la cosa grave non è stata la scelta della “fermezza”. Lo scandalo — come qualcuno lo ha chiamato — è stato che per cinquantacinque giorni non si sia riusciti a trovare la prigione di Moro. Il Presidente non era prigioniero, che so io, in Alaska, era a Roma, nella capitale, e dalla prigione mandava continui messaggi, accorati e struggenti. Che poi questa incapacità sia stata in qualche modo “aiutata” da chi era contro la politica di Moro e il suo ruolo nel concerto internazionale non è affatto da escludere; troppo fitto era il bosco di personaggi inquietanti e pericolosi che giravano intorno all’intera vicenda».
Tu vieni nominato ministro dopo questo inaccettabile fallimento.
«La proposta è venuta da Zaccagnini e gli altri leader della maggioranza l’hanno condivisa. Al Viminale non volevo e non potevo fare “rivoluzioni”. Tuttavia ero fermamente convinto che fosse necessario introdurre elementi di netta discontinuità rispetto alla passata gestione. Perché — mi domandavo — Cossiga aveva chiamato esperti stranieri sul terrorismo internazionale, americani o di altro Paese che fossero? Molto meglio, innanzitutto, rifarsi alla memoria di Polizia e Carabinieri. Di qui la scelta del generale dalla Chiesa, che bene già aveva conosciuto le prime Br di Curcio e Franceschini. Non bisognava perdere tempo. C’erano anche da governare l’ansia, le aspettative, la paura, la rabbia, la speranza della gente. Era impresa difficile; mai come in quel momento mi sono sentito ministro della convivenza civile: ministro “terzo” rispetto alle fortune e alle sfortune del proprio partito».
Tu mettesti alla porta Ledeen e Pieczenik. Perché erano stati chiamati?
«Veramente non è così; al Viminale da pochissimi giorni, sento trillare il telefono, d’istinto prendo la chiamata; chi era? Ledeen; mi diceva che vi erano ancora parcelle insolute per sue consulenze; per tutta risposta l’ho mandato a quel paese. Pieczenik non l’ho mai visto e conosciuto. Entrambi erano stati chiamati da Cossiga; purtroppo scelte sbagliate, prima ancora che inconcludenti».
Pieczenik ha detto testualmente: «Mi aspettavo che le Br si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo — con il rapimento — e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro».
«Liberato dalle Br, dalla prigione dove era detenuto, Moro, libero, fa paura. È la sua parola che fa paura; la paura — l’immagine me la concedo — dei mercanti di essere cacciati dal tempio».
Nel comitato che ai tempi di Cossiga seguiva le indagini, erano quasi tutti iscritti alla P2. Undici su dodici.
«Pensare che intorno a Cossiga, nel comitato dei cinquantacinque giorni, ci fosse questa gente, forse la peggiore, è veramente doloroso, ma soprattutto inquietante».
Di Gladio tu sapevi?
«No; non ne sapevo nulla; l’ho saputo quando, verso la fine di luglio del ’91, Andreotti andò in Parlamento a parlarne; a parlarne e a dichiararne senza mezzi termini lo scioglimento. Gladio era l’espressione italiana di una segretissima organizzazione denominata Stay behind che, in piena Guerra fredda, i Paesi della Nato avevano creato nell’ipotesi che l’Europa potesse essere invasa dalle truppe sovietiche: un primo punto di resistenza contro l’invasore. Cessata la Guerra fredda, con il superamento definitivo dei blocchi, simile organizzazione non aveva alcuna ragione per sopravvivere: così Andreotti. Subito scoppia il finimondo, l’ira di Cossiga è incontenibile, tutta la segretezza di Gladio è in frantumi, le polemiche non cessano. La mattina precedente il 4 novembre — da pochi giorni ero ministro della Difesa — mi telefona Cossiga: “Domani a Redipuglia devi difendere Gladio”. Gli rispondo: “Francesco, a Redipuglia di Gladio non voglio parlare”. Per me era inaccettabile che Gladio fosse stata tenuta nascosta a uomini di governo che avevano il diritto di conoscerne l’esistenza. Mi risulta che anche Fanfani non ne sapesse niente».
Ricordi l’attentato del ‘73 alla questura di Milano? A tirare la bomba fu quell’anarchico, che invece era stato in Gladio.
«Sì: anarchico e gladiatore e, se ben ricordo, informatore del Sismi».
Gladio è stata usata per condizionare la vita italiana?
«Escludo un impiego del genere. Il vero condizionamento è stato lo stragismo di destra: colpire nel mucchio per provocare una reazione autoritaria dello Stato». Quindi non ritieni credibile che Gladio sia dietro e dentro alcune delle pagine di sangue di quegli anni?
«A parte il caso di Bertoli, con la bomba alla questura di Milano, non mi risulta la compromissione di altri esponenti di Gladio».
Il vero colpo di Stato in Italia fu l’assassinio di Moro?
«Le Br pensavano che il rapimento di Moro, il cosiddetto processo che ne è seguito e la sua uccisione avrebbero portato alla “rivoluzione”, ritenuta ormai imminente, dietro l’angolo; i brigatisti erano rivoluzionari senza rivoluzione. Tuttavia un colpo di Stato c’è stato, perché con l’uccisione di Moro si ferma e si ribalta l’intera vicenda politica del Paese».
Descrivimi due personaggi che per me sono shakespeariani: Cossiga e Andreotti.
«Cossiga era un uomo politico di elevata e vasta cultura, una personalità singolare dalle analisi acute come certamente lo era, nel suo complesso, il messaggio inviato alle Camere immediatamente dopo la caduta del Muro di Berlino. Un messaggio che avrebbe dovuto essere preso in seria considerazione. Gli è nuociuto l’insieme delle sue debolezze e stravaganze che, ripetute, diventavano manie e ossessioni insopportabili. Mi ha sempre colpito e addolorato la sua solitudine». E Andreotti?
«Andreotti non lo so descrivere, e questa credo sia la risposta più onesta. Come ministro di alcuni dei suoi tanti governi devo dire che ha sempre rispettato le proposte che gli venivo facendo: così la nomina del generale dalla Chiesa; non ha opposto alcuna riserva, pur sapendo io dei rapporti tutt’altro che buoni che egli aveva con il generale. Non una piega, ancora, quando, dovendo cambiare il capo della Polizia, scelsi un prefetto diverso da quello che mi aveva suggerito, e scelsi bene perché il candidato che mi proponeva è poi risultato appartenere alla P2. Era un uomo algido, di una freddezza impressionante. Quando gli portai le carte che gli uomini del generale dalla Chiesa avevano trovato il 1° settembre del 1978 in via Montenevoso, carte contenenti giudizi severissimi su di lui, egli le lesse imperturbabile; una lettura tranquilla, una trentina di minuti. Una volta finito, ha alzato gli occhi e ha detto solamente: “Eleonora era una Fucina come noi, una donna di straordinario valore”. Nessun altro commento. Sembrava quasi che quelle pagine le avesse già lette: se fosse così sarebbe stato un vero e proprio uomo di teatro con il copione pronto per il caso che gli stava davanti...».C’è qualcuno che ti manca, tra le persone che hai incrociato nella tua vita pubblica?
«Sì, Pietro Scoppola e Leopoldo Elia, cattolici democratici di straordinario spessore. Sono stati dalla parte giusta ma hanno sempre lavorato perché i democratici, dopo l’ottantanove, si ritrovassero insieme. E per liberare la democrazia dalle serrature, politiche e istituzionali, della Guerra fredda. Mi mancano, ma soprattutto mancano a questo Paese che pare si accontenti di uomini casuali».
Vittorio Feltri: "Vi dico chi era davvero Berlinguer". Il bluff della sinistra: così smonta il mito comunista. Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Walter Veltroni è diventato un editorialista del Corriere della Sera. Normale che scriva articoli sul Pci facendolo passare per un partito morbido e tollerante quanto la Dc. Egli infatti disse di essere più kennediano che comunista, pur rimanendo fedelmente inchiodato a Botteghe Oscure. Le contraddizioni in politica sono all' ordine del giorno. Ma rileggere le vicende dei marxisti italiani è un esercizio stupefacente che insegna molte cose. E Veltroni è capace di presentare Enrico Berlinguer sul quotidiano di via Solferino come un super democratico. La mia opinione è diversa. Penso che il famoso segretario rosso non fosse affatto rosso. Neppure lui sapeva di quale colore fosse, forse era bianco, cioè innamorato della Dc a capo della quale avrebbe voluto ergersi. Egli era un tipo tranquillizzante, come Rumor e come Piccoli, uomini miti e furbi, praticamente volpi in grado di muoversi con disinvoltura nel ginepraio capitolino. È un fatto che Berlinguer, pur dichiarandosi bolscevico, tale non era per mancanza di fede e di adesione alla folle ideologia sovietica. Tanto è vero che a un certo punto, egli si inventò il compromesso storico, ossia una possibile alleanza tra Pci e Democrazia cristiana ovvero un matrimonio spurio, non compatibile, tra pauperisti di centro e di sinistra, allo scopo di spartirsi il potere. Il nobile Enrico si illuse di realizzare simile progetto non calcolando che la Dc era un partito-mamma, strutturalmente identico al fascismo nel senso che inglobava chiunque, purché non rompesse i coglioni. Il cosiddetto compromesso storico rimase una sterile teoria, suggestiva e tuttavia irrealizzabile. Cosicché il politico sardo, di fronte alle difficoltà tecniche di realizzare il proprio piano, ripiegò su un' altra formula altrettanto astrusa: l' eurocomunismo che nessuno capì mai in che cosa consistesse. L' unico Paese in Europa che avesse una parentela stretta con Mosca e dintorni era l' Italia che non aveva certo la forza di persuadere il continente a sposare i sogni berlingueriani. Ogniqualvolta un giornalista, per esempio Scalfari, chiedeva al segretario come intendesse l' eurocomunismo e con quali tecniche trasformarlo in realtà, non riceveva che risposte fumose, prive di connotati credibili. Enrico era un sognatore bravo nel marketing ma fuori dal mondo. Probabilmente neppure lui sapeva che desiderare per la falce e martello. Gli piaceva comandare e arringare le folle ciononostante ignorava dove portarle. Se aggiungiamo che il nostro a un dato momento tirò fuori dal cilindro la questione morale, il quadro confuso si completò. In effetti tutte le formazioni della prima Repubblica rubavano a mani basse, incluso il Pci, attraverso il sistema degli illeciti finanziamenti, eppure Enrico accusò chiunque tranne se stesso e il suo gruppo. Semplicemente ridicolo. Costui in sostanza, pur in buona fede, fu un grande bluff e proprio per questo è ricordato quasi fosse un fenomeno di onestà. Mentre all' epoca sua, Botteghe Oscure riceveva montagne di rubli dall' Urss per stare a galla. Ora che Veltroni lo santifichi non ci stupisce, la nostalgia fa brutti scherzi, però il comunismo rimane una porcheria che Walter dovrebbe risparmiarsi di santificare. Vittorio Feltri
Rino Formica e il caso Moro: «La prigione delle Br? Lo Stato non ha voluto trovarla». Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it. Rino Formica, cominciamo con te, autorevole dirigente socialista, una serie di incontri per ricostruire la fine della prima Repubblica, assai più certa della nascita della seconda. Cos’ era la prima Repubblica? «L’Italia è stato un Paese di frontiera, ma di più frontiere. Frontiera Est-Ovest e poi Nord-Sud. È stato luogo di scambio tra due imperi, quello sovietico e quello americano. E aveva una frontiera in più, quella dello Stato del Vaticano. Infine vi era una frontiera tutta interna del sistema politico: quella tra forze politiche che dovevano stare insieme necessariamente per ragioni costituzionali, ma erano divise per appartenenza a due campi ideologici diversi. Come hanno risolto i problemi della frontiera le classi dirigenti della prima Repubblica? Con un miracolo di equilibrismo in tutti i campi. Sulla frontiera Est-Ovest sono stati un Paese fedele all’alleanza, ma contemporaneamente coltivavano aperture al dialogo con il campo dell’Est. Poi c’erano ragioni commerciali. Insomma era un miracolo di equilibrio: un po’ di Helsinki, un po’ di Tangeri».
E sul fronte interno?
«La frontiera interna era tra i partiti del campo occidentale ed il Partito Comunista, che aveva un legame ideologico con l’Est. Lo regolava con il patto costituzionale e con la grande intuizione del partito di massa del Partito Comunista, un partito che si doveva non isolare come partito minoritario di avanguardia, ma doveva entrare all’interno della società nelle aree più ramificabili dall’influenza politica. Si saldava così un legame costituzionale. Il legame del compromesso patriottico. Nessuna forza politica del campo occidentale avrebbe messo fuori legge il Partito Comunista e il Partito Comunista non sarebbe mai stato un partito falange armata in caso di attacco all’Italia dei Paesi dell’Est».
Quel patto muore con la morte di Moro e tutto il sistema comincia uno squilibrio che esploderà con la caduta del muro? Che idea ti sei fatto di quel grumo di anni che c’è tra il golpe in Cile, il rapimento Moro volto a far saltare il compromesso storico, l’assassinio di Falcone?
«Tra il 1948 e il 1989, quaranta anni, in un Paese di frontiera come l’Italia, si è combattuta una guerra fredda. I due campi ideologici non erano in condizione di poter dialogare senza misurarsi costantemente sul piano della forza. Ma non più la forza militare. Ogni volta che si stava per arrivare al punto dello scontro, del passaggio dalla guerra fredda alla guerra calda, i due imperi frenavano. Questa guerra di aggiustamento delle condizioni di squilibrio che si andavano a creare nelle due aree non poteva non avvenire che con mezzi occulti, coperti, non visibili. Ho letto un tuo articolo sulla strage di Brescia. Ti sembra possibile che in un Paese di frontiera non si sappia cosa c’era nell’uso del terrorismo di destra e di sinistra? Noi pensiamo: il terrorismo di sinistra ha una base ideologica. E quindi ha un retroterra anche idealistico, pazzoide, quello che vuoi, ma c’era idealismo, sporco di sangue. Il terrorismo di destra non aveva nulla di ideologico, è stato strumentalizzato ed utilizzato a fini di manovalanza. Non esisteva una centrale del fascismo che utilizzava il terrorismo di destra per ragioni ideologiche, c’era una centrale di farabutti che dovevano dare una veste ideologica allo stragismo. Il terrorismo di destra è assimilabile alle bande criminali della mafiosità. Perché è roba da criminali, da mafiosi».
Cos’era Gladio? Tu sapevi che esisteva?
«Gladio, nella sua manifestazione plateale, appare nel ‘90-91 con le dichiarazioni di Andreotti. Delle organizzazioni parallele fuori dell’ordinamento costituzionale, parla lo stesso Andreotti in un articolo sul Sifar pubblicato sul giornale Concretezza nel febbraio del ’68. “Ma di che cosa si sta parlando qui? Qui è tutto noto, tutti sanno. I rapporti, anche le forme clandestine”. Fa accenno esplicito ad organizzazioni, all’interno del nostro sistema di sicurezza e del nostro sistema di alleanze, non costituzionalmente rispettabili, o compatibili costituzionalmente. Andreotti era uno che non si faceva coinvolgere nei problemi, ma era informato. Lui non si immischiava. Sapeva e tesaurizzava. Quando, nell’84, feci l’intervista sulla questione dell’attentato al treno...»
La strage del rapido 904, diciassette morti all’antivigilia di Natale.
«Sì. Dissi: “Ci hanno mandato un avvertimento”. Dissi che c’erano forze che volevano ledere la nostra sovranità. Spadolini fece un casino. C’era il governo Craxi, voleva fare una crisi per la mia intervista. Craxi mi telefonò: “Vieni ad una riunione a Palazzo Chigi”. Vado, ci sono Craxi, Forlani, Andreotti ministro degli Esteri, Spadolini ministro della Difesa e Amato che stava lì come sottosegretario ai Servizi. Spadolini fa uno sproloquio: “Tu vuoi rovinare questo governo tu, così come hai fatto cadere il mio governo, vuoi far cadere anche il governo di Craxi!”. Io dissi: “No, io ho semplicemente espresso il mio pensiero. Non voglio far cadere nessun governo”. Andreotti, che ce l’aveva con Spadolini e che voleva darmi una dritta, dice col suo modo: “La sovranità limitata è un problema sempre aperto, un problema antico. La sovranità limitata con l’America noi l’abbiamo sancita con un atto amministrativo, la circolare Trabucchi”. Silenzio. Mette lì queste cose: circolare Trabucchi, sovranità limitata, atto amministrativo. Spadolini non capisce perché è disorientato da questa cosa. Forlani guarda l’orologio e dice: “Ho un appuntamento”, si alza e se ne va. Due minuti dopo Amato dice a Craxi che ha un impegno e se ne va. Restiamo Spadolini, Andreotti, io e Craxi. Craxi vede l’imbarazzo generale e dice: “Va bene, ci siamo chiariti”. Andreotti mi stringe la mano come per dire: approfondisci. E in effetti Trabucchi nel giugno 1960, durante i fatti di Genova con il governo Tambroni, accettò una richiesta degli americani, evidentemente molto preoccupati, che ottennero, con una circolare del ministro delle Finanze, che negli uffici doganali delle basi americane venissero sostituiti i doganieri italiani con quelli statunitensi. Di lì passò tutto l’armamento in Italia. Passò attraverso le basi militari americane. Entrava ed usciva. E la circolare Trabucchi non fu mai abolita».
C’è stato un momento in cui Moro stava per essere liberato?
«Io credo di sì. Noi socialisti, gli amici di Moro e persone spinte da una preoccupazione umanitaria, come Vassalli, cercammo di spingere per la liberazione del presidente dc. La nostra azione era alla luce del sole e gli incontri con le persone che pensavamo potessero essere tramite con le Br avvenivano all’aperto. Insomma ti pare possibile che Pace, esponente dell’estrema sinistra che dialogava con le Br attraverso Morucci, si incontra con i socialisti alla luce del sole, si vede più volte nei bar con Morucci e Faranda... E tutti questi non sono controllati? Non sono ascoltati? Seguendo lui sarebbero arrivati alla prigione».
Ci si è sempre chiesti se voi informaste il governo dell’epoca...
«Non è vero che non informavamo, tutti erano informati, Cossiga era informato, il Quirinale era informato, il Quirinale e chi stava al Quirinale oltre il Presidente, erano informati, tutti erano informati. Ora come è possibile che ci sia stata tanta voluta trascuratezza? A mio modo di vedere il covo era conosciuto. Se poi metti in connessione che oramai è quasi certo il fatto che Mennini il prete, andò a confessarlo e poi andò via dall’Italia, fu mandato lontano dalla Chiesa...».
Chi è che voleva Moro morto?
«Questa è una domanda che non va fatta perché non otterrai mai la risposta. Devi fare un’altra domanda. Chi non lo voleva operante? I comandi militari della guerra fredda. Perché lui stava innovando le regole del passato. Sapeva che, nella guerra fredda, non potevano stare nei governi nazionali del campo occidentale quelli che erano considerati i nemici internazionali. Ma Moro, negli anni settanta, fece un ragionamento inedito. Stava nascendo un nuovo rapporto Est-Ovest, andava avanti una politica di distensione, di dialogo tra le grandi potenze. Questo, pensava, permetteva un superamento, sul piano nazionale, della logica derivata dalla guerra fredda. Non per fare governi tra Dc e Pci, ma per realizzare una legittimazione di governo delle masse popolari anti-Stato in Italia. Che erano i cattolici, i socialisti e i comunisti. E la legittimazione avviene attraverso il governo del Paese. Dei cattolici è avvenuto, dei socialisti anche, doveva avvenire pure dei comunisti».
In Italia c’è stato il rischio di un colpo di Stato negli anni ’70?
«In Italia dal 1948 in poi hanno convissuto due tendenze di fondo. La tendenza alla soluzione autoritaria dei problemi difficili a risolversi e la scelta difficile, faticosa, della via democratica. Questo nasce dal fatto che non è stato risolto in via definitiva l’appartenenza toto corde delle masse alle ragioni dello stato democratico. La maturazione democratica delle masse in Italia è stato un processo sempre interrotto. È continuato sempre, ma ha avuto sempre delle interruzioni perché , anche nell’opinione pubblica, talvolta ha prevalso la suggestione della semplificazione. Tanto è vero che oggi la vera questione non è rievocare regimi passati o rischi di regimi passati, il problema sempre aperto in Italia è quello della opzione tra la soluzione autoritaria e quella democratica».
La prima Repubblica si spegne per sempre con l’attentato a Falcone, nei giorni di Tangentopoli e con il parlamento che non riesce a eleggere il Capo dello Stato...
«Falcone aveva accumulato nella sua vita tante ostilità perché aveva saputo agire sempre senza domandarsi: “Mi giova o non mi giova?”. Ad un certo momento c’è un vuoto politico e istituzionale che apre spazio ad uno o a più di quelli che sono stati colpiti da quell’agire indipendente. La responsabilità, quando avviene qualcosa di questo genere, è sì di chi ha colpito, è sì di chi ha fornito l’arma, ma è anche di coloro, e possono essere moltissimi, che sapevano e si sono voltati dall’altra parte. Che Falcone andasse incontro a qualcosa di terribile c’era più di uno che lo sapeva. E si è voltato».
La fase finale di Cossiga, le picconate e il resto... Come la spieghi?
«È un dramma shakespeariano. Cossiga era uno che ha rappresentato veramente il dramma politico italiano nel suo unicum, cioè il dilemma tra autoritarismo e democrazia. Quello è stato ed è il dramma vero. Soluzione autoritaria o soluzione democratica».
Cossiga le aveva tutte e due dentro?
«Sì».
Ed è per questo che dopo la vicenda Andreotti perde il controllo?
«Sì».
1956. Cosa sarebbe stata la sinistra italiana se allora il Pci avesse avuto il coraggio di una secca condanna?
«Nel ’56 Togliatti sferra un attacco violento contro il revisionismo. È rivolto a Nenni che pone il problema dei socialisti e alla dissidenza interna, quella di intellettuali come Giolitti, Fabrizio Onofri che poi rompono con il Partito. Pongono il problema che non è una crisi nel sistema, ma è una crisi del sistema. Il socialismo reale è lo Stato che diventa Stato del partito. Il revisionismo rompe questo assunto. Il partito politico non può essere Stato, perché, se diventa Stato, ha dentro di sé gli elementi della oppressione. Se nel ‘56 il Pci avesse condannato la repressione ungherese cosa sarebbe successo? Sarebbe stato lacerato da una scissione. E avrebbero prevalso i filosovietici. Ecco perché insisto sul tema dell’assenza di cultura istituzionale da parte della Sinistra. La Sinistra e i cattolici, la stragrande maggioranza delle masse italiane nascono anti-Stato. I cattolici per la questione vaticana, i socialisti e i comunisti per ragioni sociali, economiche, ideologiche».
Neanche dopo il 1989 la sinistra riesce a unirsi.
«Dopo il 1989 Craxi va a Praga. Su un muro trova scritto “viva il Comunismo”. Allora lui cancella e scrive “abbasso il Comunismo, viva il Socialismo”. Passa un giovane ceco, legge e gli dice, facendogli il segno del taglio della testa, “Socialismo Kaputt”. Comunismo e Socialismo, nell’immaginario generale, erano identificate. Craxi dopo l’89 doveva compiere una grande operazione politica: chiedere, dopo la Bolognina, che Partito Comunista e Partito Socialista si sciogliessero e riunificassero superando la scissione di Livorno del 1921. Ma non andando a prima di Livorno, andando più avanti. Si doveva sapere che si sarebbe aperta nelle nuove generazioni una crisi di rigetto nei confronti anche della socialdemocrazia e di ogni forma di socialismo. Realizzato o realizzabile. Bisognava andare oltre. Craxi invece fa una sola operazione distensiva, nei confronti del Pci. Dice: vi do tempo, cioè non vado alle elezioni anticipate sulla vostra crisi, vi do tempo per riorganizzarvi e riconvertirvi. Ora secondo me questa era una linea totalmente sbagliata perché la riconversione affidata semplicemente all’iniziativa interna del Partito Comunista avrebbe avuto tempi lunghi, e abbiamo visto che, ancora oggi, in aree del Partito Comunista, dopo trent’anni, non è maturata ancora questa consapevolezza».
Qual è l’ultima volta che hai sentito Craxi?
«Prima che partisse».
Dopo non lo hai più sentito?
«Non l’ho più sentito. Io ebbi con lui un dissenso finale. Ho sempre ritenuto che, andando via, sbagliasse. Un errore forse inevitabile per le ragioni di un profondo dolore . Al culmine del suo dramma personale e politico, alla fine della legislatura nel ‘94, io gli dissi: «Non andare all’estero, noi abbiamo tutti il dovere di stare qui. All’inizio sarà dura, sarà difficile, tutto sarà pieno di amarezze e di sofferenze, ma il tempo fa maturare le ragioni, si spengono le passioni più aspre. Le passioni sono naturalmente ingovernabili solo in due casi: quando il soggetto è ancora sul piedistallo e quando il soggetto è scappato». Quando tu scendi dal piedistallo e non scappi, la ragione ti arriva non dico subito, ma in tempi ragionevoli».
E lui questo non lo accettò?
«Non lo accettò perché sentiva forte l’ingiustizia, l’offesa ricevuta, l’inaccettabilità della selezione per decimazione. Credo che ci fosse anche una ragione di sofferenza fisica, morale, personale. Temeva di non farcela».
Delle persone che hanno fatto politica con te chi ti manca di più?
«Matteo Matteotti. Era una persona splendida: aveva un profondo distacco dal suo dramma umano e la ragione della sua lotta politica era sicuramente l’incarnazione di un ideale e di una sofferenza. La sinistra non esiste senza la sofferenza. Io ricordo sempre una frase che la Kuliscioff aveva pronunciato nel 1926 , intervistata da Giovanni Ansaldo allora ancora antifascista, che le chiese: “Ma dove avete sbagliato?” Una domanda che si può, si deve, fare sempre quando un grande patrimonio viene improvvisamente distrutto. Si può fare anche oggi, a chi lo ha distrutto. Lei rispose: “Non vi esercitate in grandi elucubrazioni, cercate di capire una cosa: alla base di una sconfitta vi è sempre una dirigenza che non ha sofferto”».
Chi amò e chi odiò Aldo Moro, scrive Renato Moro il 9 maggio 2018 su Tempi. Questi tempi sono lontani. Il fatto che Moro sia stato un leader politico odiato come pochi non va però dimenticato. Nel quarantennale della morte di Aldo Moro, pubblichiamo un articolo tratto dall’Osservatore romano – Tre anni prima della strage di via Fani, Pier Paolo Pasolini, nel celebre articolo dedicato nel 1975 alla scomparsa delle lucciole, denunciava il «drammatico vuoto di potere» di un paese governato non da una classe dirigente ma da «maschere». Tra di esse la più emblematica gli appariva proprio Aldo Moro, l’uomo dal «linguaggio incomprensibile come il latino». Pochi mesi dopo lo scrittore propose pubblicamente un vero «processo penale» contro gli esponenti democristiani del «Palazzo», per trascinarli, «come Nixon» (erano gli anni dello scandalo Watergate), «sul banco degli imputati». E aggiunse: «Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos», cioè come il dittatore greco che era allora stato processato e condannato a morte. L’anno dopo un regista vicino alla sinistra extraparlamentare, Elio Petri, trasformava in un film il giallo politico di Leonardo Sciascia Todo modo. Vi si vedeva, impersonato da Gian Maria Volonté, il presidente «M», leader di un partito cattolico corrotto e che governava da decenni un paese in ginocchio. Era un politico viscido, dall’eloquio complesso e dalla sempiterna attitudine a mediare, giunto a orchestrare, in un albergo per ritiri spirituali, la carneficina dei suoi complici di partito, per la loro manifesta inadeguatezza e al solo scopo di sancire la propria supremazia. Nell’ultima scena, in un grottesco sacrificio di redenzione, «M» offriva se stesso al boia e, recitando il Padre nostro, attendeva in ginocchio il proprio destino. Questi tempi sono lontani. Il fatto che Moro sia stato un leader politico odiato come pochi non va però dimenticato. Sin dai primi anni sessanta, a destra si denunciava il «comunismo moroteo» e accusava Moro di essere una sorta di complice “attivo” del Partito comunista italiano (Pci). A sinistra il quotidiano comunista ne bollava il sistema di «ricatto» mascherato «sotto il velo delle parole dette e non dette, delle ambiguità, delle polivalenti interpretazioni». Sarebbe stato così Eugenio Scalfari ad attribuire a Moro la celeberrima formula delle «convergenze parallele», che lui, in realtà, non aveva mai usato: perché aveva semplicemente parlato di «convergenze democratiche»; ma la leggenda era più vera della realtà, e, nonostante le sue smentite, Moro era stato coperto da un coro di ironia. Insomma, negli anni settanta Pasolini e Petri esprimevano un topos interpretativo già largamente diffuso: quello del “gattopardo levantino”, trasformista perché nulla cambiasse. E Sciascia stesso, nel suo pamphlet sull’affaire Moro, l’avrebbe di lì a poco definitivamente codificato scrivendo di «un grande politicante: vigile accorto, calcolatore, apparentemente duttile ma irremovibile». Naturalmente, Moro venne anche profondamente amato. Innanzitutto, dai suoi elettori: va ricordato che nel 1968 fu il politico che ottenne il record delle preferenze. Poi, intorno a lui, da una parte, il cattolicesimo di sinistra e, dall’altra, la cultura comunista costruirono l’immagine, speculare e non meno distorta, del principale ideatore dell’accordo con il Pci. Sarebbe stato così facile, dopo la sua morte, farne il martire di questa causa: nel 1998, non certo a caso, la città natale, Maglie, ha scelto di porre a suo ricordo una statua che lo rappresenta con in mano una copia dell’«Unità». Quei tempi sono lontani. Ancora oggi, però, non è facile un discorso su Moro: non è facile evitare il peso di tante passioni; non è facile nemmeno evitare il peso della sua stessa tragedia. Eppure, continuando a focalizzare esclusivamente lo sguardo su di essa, non solo rischiamo di mettere quei cinquantacinque giorni avanti a quasi 62 anni di vita pienissima, ma rischiamo una sorta di paradossale proiezione interpretativa all’indietro che legga Moro dalla fine, come se quest’ultima fosse la chiave rivelatrice di tutto. Eppure, di lui si deve parlare. Per “liberarlo” una volta per tutte dal carcere delle Brigate rosse e riconoscergli il ruolo di protagonista di quasi vent’anni di storia della democrazia italiana che certamente merita. Formatosi nella nidiata montiniana dei giovani intellettuali cattolici della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, e del Movimento laureati, educato a una fede pensante, Moro non aveva scelto la politica: avrebbe sempre dichiarato di sentire lo studio e l’insegnamento universitario come la propria vera vocazione. Se non l’aveva seguita, era stato solo per senso di responsabilità, verso la chiesa e il paese. Fu così che, giovanissimo (non aveva ancora compiuto trent’anni), Moro divenne uno dei costituenti, e con un ruolo decisivo: per l’attitudine a suggerire formule di mediazione e di sintesi; per il fermo sostegno alla necessità di collocare i principi fondamentali nella costituzione, e non in un limitativo preambolo; per il ruolo nella scelta dell’espressione «fondata sul lavoro» dell’articolo 1; per l’accoglimento dell’istituto del referendum; per la rivendicazione di una democrazia sociale, basata su una forte presenza dello Stato; per l’affermazione della valenza «antifascista» della nuova democrazia. Moro fu il primo ministro della giustizia (1955-1957) a visitare sistematicamente le carceri, il primo ministro della pubblica istruzione (1957-1959) a istituire l’educazione civica. Soprattutto, fu colui che, con un paziente lavoro di convincimento e di rassicurazione, riuscì a portare il suo partito, il mondo cattolico e la Chiesa ad accettare l’apertura ai socialisti, e cioè la formula politica che avrebbe regalato agli italiani la maggiore crescita economica e civile della loro storia. Il centro-sinistra è sempre rimasto per Moro il vero orizzonte di riferimento: nel 1968 fu sensibile a capire i «tempi nuovi» della contestazione giovanile, dell’emancipazione femminile, della protesta del mondo del lavoro, ma avrebbe voluto continuare a governare coi socialisti. Furono gli anni settanta, con la crescita inarrestabile dei voti al Pci e l’indisponibilità socialista, a rendere il suo disegno impossibile. Fu ancora lui, tuttavia, a farsi perno e garante di una soluzione difficilissima, quasi acrobatica, per fare andare avanti, e non indietro, la democrazia italiana: governi democristiani con l’ingresso comunista nella maggioranza e con l’avvio di un complesso processo di legittimazione reciproca che avrebbe potuto favorire il superamento degli invalicabili muri della Guerra fredda. Quei tempi sono lontani. Il centenario della nascita di Moro nel 2016 e il quarantennale della sua morte hanno visto un numero davvero straordinario di commemorazioni, di celebrazioni, di documentari, di interventi a ogni livello. È un caso che tutto questo interesse mediatico coincida con un momento di profonda incertezza, di crisi, forse addirittura di tramonto dell’Italia? Certo, Moro pare oggi venire da un altro pianeta. In un’epoca di leadership fortemente personalistiche, lui è, come scrisse allora un giornalista, un uomo «che non vuole essere fotografato, che non vuole essere intervistato, che non vuole essere citato, che non vuole essere nemmeno lodato». In un’epoca in cui tutte le forze politiche ripetono insistentemente ai loro elettori che le soluzioni sono semplicissime ed evidenti e che, se i loro avversari non lo riconoscono, è solo per malafede o corruzione, Moro è il politico convinto che la realtà è sempre complessa, che un elemento profondo di verità esiste in ogni posizione sincera, che occorre studiare seriamente e mettersi dal punto di vista degli altri. In un’epoca di politica esclusiva e intollerante, che ha creato il termine “inciucio” per bollare come cedimento corruttivo ogni forma di accordo politico, Moro è convinto che compromesso significa esattamente quello che la sua etimologia latina dice: cum promittere, “promettere insieme”, e dunque l’atto più alto che si possa compiere in politica. Forse, proprio perché gli italiani sembrano non sapere più chi sono essi sentono l’interesse (e, chissà, la nostalgia) di una leadership non della forza, non del decisionismo, non della delegittimazione, ma dell’intelligenza e del dialogo.
La sinistra morì con Aldo Moro. Il nuovo libro di Giovanni Bianconi, scrive giovedì, 07 marzo 2019, Il Corriere.it. Il 16 marzo del ’78 finì il ’68. L’euforia rivoluzionaria che aveva dominato il decennio affogò nel sangue dei cinque uomini della scorta uccisi dalle Br, e poi, 55 giorni dopo, di Aldo Moro. Si chiuse così la lunga stagione in cui una sinistra che si chiamava ancora comunista poté realisticamente sperare di vincere in un Paese occidentale; e non solo sul piano politico, ma anche su quello sociale e culturale, quasi inverando l’idea gramsciana di egemonia. Dalla morte del leader democristiano, che voleva metabolizzare quella sinistra e assorbirla in una «terza fase» della democrazia italiana, cominciò il decennio che l’avrebbe invece espulsa dalla storia, con Craxi e Canale 5, con Forlani e il pentapartito, per finire poi con la sua sepoltura definitiva sotto le macerie del Muro di Berlino, nel 1989. Quando ci si confronta con una data storica, si tende a fare ragionamenti del genere che avete appena letto. Si assume cioè il punto di vista, un po’ pomposo, della profezia che si autoavvera, come se gli eventi di allora, osservati quarant’anni dopo, contenessero già in sé, in nuce, le tracce di ciò che hanno prodotto. E invece una giornata storica è innanzitutto una giornata del suo tempo, non del nostro. E se la riguardi da vicino per com’era, non con il senno di poi, ti accorgi di due cose. La prima è l’incredibile forza che esercita, nelle vicende umane, l’eterogenesi dei fini: i protagonisti compiono azioni di cui non possono veramente prevedere l’esito, tentano di influenzarlo ma agiscono in realtà sotto un velo di ignoranza: per questo talvolta appaiono «sonnambuli» mentre si dirigono verso il ciglio di un burrone. La seconda è che ogni giornata storica poteva andare in un altro modo, anzi, in mille altri modi; e che ciò che ne risultò fu solo la combinazione di comportamenti individuali contraddittori e fallaci, di errori e omissioni. È questo il valore di testi come quello che ha scritto Giovanni Bianconi per Laterza. Un lavoro quasi virtuosistico di ricostruzione di tutto ciò che accadde davvero quel giorno, un libro così da cronista da diventare un libro di storia. Perché del rapimento di Moro si sa quasi tutto, e lo si sa anche grazie a ciò che ne ha scritto negli anni Bianconi. Però ogni volta c’è qualcosa che ti colpisce come se non fosse nota. La vicenda di Antonio Spiriticchio, per esempio, il fioraio ambulante che si era piazzato da un paio di anni tra via Mario Fani e via Stresa, proprio dove era progettato l’agguato. La notte prima due brigatisti, Seghetti e Fiore, andarono sotto casa sua, in tutt’altra zona di Roma (erano risaliti all’indirizzo fingendosi avvocati al Pra), e gli bucarono tutte e quattro le gomme del Ford Transit che usava. Un dettaglio, certo. Ma che al fioraio salvò la vita; e che a leggerlo oggi basta a render chiaro quanto superiore fosse il livello di preparazione e di organizzazione del gruppo armato rispetto alla risposta che le forze dello Stato riuscirono a dare quel giorno e nei successivi due mesi. Giovanni Bianconi (Roma, 1960) Oppure la vicenda di Tullio Ancora, l’ex alto funzionario della Camera, che lo statista democristiano usava come messaggero segreto con il Pci, attraverso Luciano Barca, allora membro della direzione comunista. La sera prima di esser rapito, Moro chiese ad Ancora di pregare il Pci di non fare scherzi. Il 16 marzo avrebbe dovuto votare la fiducia al governo Andreotti. Si sarebbe trattato del primo monocolore dc con il voto favorevole del Pci, dopo due anni di governi delle astensioni e della non sfiducia. Ma le correnti democristiane imposero una lista di ministri impresentabile per i comunisti, e questi non erano più così sicuri di fare il grande passo. L’azione delle Br fu dunque decisiva nello spingere il Pci a votare a favore del governo Andreotti (perfino nella direzione che si riunì subito dopo l’attentato, Pajetta espresse i suoi dubbi su quella che chiamò «una fiducia listata a lutto»). I brigatisti colpirono dunque per affondare il connubio Dc-Pci, ma in effetti lo accelerarono. Fu di nuovo Tullio Ancora, un mese dopo il rapimento, a portare al Pci una lettera dell’ostaggio che chiedeva aiuto: «Ricevo come premio dai comunisti, dopo la lunga marcia, la condanna a morte. Non commento». Ma stavolta Barca non poteva più nulla. «Di fatto», scriverà poi, «dipendiamo in tutto e per tutto da ciò che Cossiga dice e non dice a Pecchioli. Ma io (…) sono escluso anche da queste comunicazioni». È stata decisa la linea della fermezza, e non verrà più smentita, né dallo Stato, né dalle Br, che alla fine uccisero Moro, come forse avevano già deciso di fare fin dall’inizio, dopo la discussione critica che aveva aperto al loro interno la liberazione senza condizioni del giudice Sossi, anch’egli rapito quattro anni prima. Persero le Br? Sicuramente sì. Dopo l’uccisione di Moro non era più possibile alzare ulteriormente il livello dello scontro, per scatenare una guerra civile che gli italiani non volevano e che non ci fu. La sconfitta politica del terrorismo rosso cominciò proprio con la vittoria della «geometrica potenza» di via Fani. Ma forse un po’ vinsero. Perché la morte di Moro fu l’inizio della fine della collaborazione tra Dc e Pci, che infatti si interruppe nel 1979, dieci mesi dopo, quando i comunisti fecero cadere il governo Andreotti, e tornarono all’opposizione. Berlinguer annunciò la decisione della rottura (presa col voto contrario di Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Perna, Trivelli, Bufalini) il 17 gennaio del 1979, sette giorni prima che le Br uccidessero Guido Rossa, l’operaio del Pci e sindacalista Cgil dell’Italsider di Genova che aveva denunciato un brigatista infiltrato in fabbrica. Così che, in quello spazio temporale tra il sacrificio della più celebre vittima democristiana e quello della più celebra vittima comunista del terrorismo rosso, si compì nei fatti il disegno dell’estremismo che aveva contrastato fin dall’inizio l’evoluzione democratica del Pci. Dalla morte di quel progetto di compromesso non nacque però una nuova sinistra rivoluzionaria, tutt’altro. Il ‘79 fu anzi il canto del cigno della sinistra in tutte le sue manifestazioni. Quattro mesi dopo in Inghilterra vinse Margaret Thatcher. Un altro anno e alla Casa Bianca arrivò Ronald Reagan. Di tutti i calcoli e le macchinazioni del 16 marzo 1978, nota con implicita e amara ironia Bianconi chiudendo il libro, alla fine la previsione più azzeccata resta quella metereologica, diramata regolarmente alla fine della giornata: «Sull’Italia settentrionale e su quella centrale molto nuvoloso o coperto. Nevicate sull’arco alpino. Attività temporalesca in Sardegna. Sulle regioni meridionali nuvolosità in graduale intensificazione. Venti forti. Mari generalmente agitati». Brutto tempo in arrivo. Il libro di Giovanni Bianconi sarà presentato a Roma presso la fiera Libri Come sabato 16 marzo alle ore 18, in sala Studio 2, con Gianni Cuperlo, Marco Damilano, Monica Galfré. Un secondo incontro si svolgerà a Roma il 29 marzo alle ore 17 presso la Treccani, con Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini e Massimo D’Alema.
L’archivio segreto della Dc, scrive "Il Tempo" il 20/09/2016. Riemerge ad Avellino il carteggio sui conti della Democrazia Cristiana Spuntano lettere di Moro, raccomandazioni, contabilità in nero e guerre tra correnti. Migliaia di faldoni impolverati, tutta la leggenda della Dc. Per la prima volta vedono la luce dopo 30 anni di oblio. Conti correnti, movimenti bancari per 30 miliardi di lire solo nel '92, lettere di raccomandazioni, report dei servizi segreti, litigi fra vecchi segretari, contabilità in nero. Un volume immenso di carta ingiallita che racconta un pezzo di storia italiana.
La signora che custodì (senza saperlo) quarant’anni di politica italiana, scrive Daniele Di Mario su "Il Tempo" il 20/09/2016. Iole scomparsa a giugno di due anni fa a novant'anni, ha ospitato nella sua casa faldoni e documenti. La signora Iole se n’è andata all’inizio del giugno di due anni fa, poco dopo aver portato a termine una missione di cui non era a conoscenza ma che pure le era stata affidata, consegnando questa donna irpina in qualche modo alla storia di questo Paese. La signora Iole si è spenta il 3 giugno del 2014, dopo aver custodito, senza saperlo l’archivio della Democrazia Cristiana. Migliaia di faldoni, documenti, appunti, ricevute, note spese messi in salvo da Gianfranco Rotondi e da Rocco Buttiglione, grazie a un furgoncino rimediato mentre in piazza del Gesù si consumava l’abbandono della storica sede della Balena Bianca ormai sciolta e il prezioso archivio rischiava di andare perduto per sempre. Era il 1993. La Democrazia Cristiana - liquidata dall’ultimo segretario Mino Martinazzoli, sconvolta da Tangentopoli e fiaccata da vent’anni di crisi di un partito che non aveva saputo rinnovare il cattolicesimo politico dopo le novità portate dal Concilio del Vaticano II nell’impegno del laicato - esauriva la sua storia in una scissione che avrebbe finito col generare una diaspora infinita dei cattolici democratici. La Democrazia Cristiana divenne Partito Popolare, non senza fratture importanti: la frangia cattolico-sociale guardò a sinistra; il Centro Cristiano Democratico (Ccd) ruppe gli argini verso il centrodestra che si andava aggregando attorno alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Il patrimonio della Dc restò al Ppi, il simbolo seguì invece il Cdu. Nel 1995 poi, il segretario del Ppi Rocco Buttiglione lasciò il partito per fondare i Cristiano Democratici Uniti (Cdu). Nel 2002 Ccd e Cdu si fusero per fondare l’Udc; nello stesso periodo il Ppi - rottamato nel 1999 alle elezioni europee dai Democratici di Romano Prodi - confluì nella Margherita. Ma questa è un’altra storia. Torniamo al 1993. Mentre la Dc moriva Rotondi e Buttiglione, con un furgone, misero in salvo l’archivio. Migliaia di faldoni, documenti, appunti, ricevute che coprono un arco temporale dal 1946 al 1993 presero la via di Avellino, dove vennero conservate in tre stanze di un appartamento il cui canone di locazione e utenze venivano pagate dagli eredi della Balena Bianca. In quella casa viveva la signora Iole, che conservò per vent’anni un archivio tenuto rigorosamente sotto chiave e che rappresenta un pezzo di storia della nostra Repubblica. La gente passava davanti a quella casa - racconta divertito Rotondi - e sentiva l’odore della divina pasta e fagioli o del fantastico ragù che la signora Iole sapeva cucinare e non immaginava che lì dentro ci fosse un archivio tanto importante. L’accordo era che quei documenti non potessero essere resi pubblici per vent’anni, dal 1993 al 2013. Un embargo finito pochi mesi prima della scomparsa della novantenne irpina. All’indomani della morte della signora Iole, Rotondi annunciò la propria intenzione di voler trasferire l’intero archivio della Dc all’Istituto Sturzo, a condizione che anche il simbolo fosse consegnato alla Fondazione sottraendolo alla contesa elettorale. Lo Scudo Crociato non fu ovviamente consegnato a via delle Coppelle. Così Rotondi si tenne l’archivio e oggi, a tre anni dalla fine dell’embargo ventennale che lo teneva celato, lo regala in esclusiva ai lettori de Il Tempo.
Documenti, lettere e conti in nero. Ecco l’archivio della Dc, scrive Daniele Di Mario su "Il Tempo" il 20/09/2016. Riemergono ad Avellino migliaia di volumi che raccontano la storia della Democrazia Cristiana. Migliaia di faldoni impolverati, tutta la leggenda della Dc. Per la prima volta vedono la luce dopo 30 anni di oblio. Conti correnti, movimenti bancari per 30 miliardi di lire solo nel '92, lettere di raccomandazioni, report dei servizi segreti, litigi fra vecchi segretari, rapporti su società immobiliari, contabilità in nero, finanziamenti a giornali, associazioni, sindacati. Un volume immenso di carta ingiallita che racconta un pezzo di storia italiana a testimonianza dei cinquant'anni di vita della Democrazia Cristiana, dal 1946 al 1993, anno del suo scioglimento. Si tratta dell'archivio amministrativo della Balena Bianca, documenti che non hanno nulla a che fare con il patrimonio immobiliare finito poi al Partito Popolare. L'archivio, portato ad Avellino con un furgone da Gianfranco Rotondi e Rocco Buttiglione, che così lo salvarono dal macero, è stato coperto da embargo per vent'anni. Ora Il Tempo ha potuto visionarlo in esclusiva nella sede della Fondazione Sullo, ad Avellino, dov'è conservato. In quelle carte c'è la vita del partito che ha governato l'Italia dal secondo dopoguerra alla fine della Prima Repubblica. In fin dei conti c'è un pezzo consistente della storia di tutti noi. Tutto si può dire della Democrazia Cristiana, fuorché che non fosse trasparente. Tutt'altro, i democristiani che nel tempo si sono succeduti nell'amministrazione del partito annotavano qualsiasi cosa. Cambiavano i segretari politici, cambiavano i segretari amministrativi, cambiavano i tesorieri, ma la rendicontazione del fiume di denaro che entrava e usciva dai conti correnti della Dc restava sempre la stessa, annotando anche i contributi in nero sotto diverse locuzioni, ad esempio “contributi non formalizzati”. Così orientarsi in quel mare di numeri è la cosa più facile del mondo, indipendentemente dall'anno che si prende in considerazione. Parliamo naturalmente di cifre miliardarie. Ovviamente in lire. Peschiamo a caso dalle migliaia di cartelline usurate dal tempo. Le spese sostenute da piazza del Gesù nell'Anno Domini 1961 furono di oltre 4 miliardi e 650 milioni di lire. Un'enormità, considerando che stiamo parlando di oltre 55 anni fa. Le spese indivisibili ammontavano a oltre 439 milioni. C'erano poi i contributi ai vari movimenti: 123 milioni al giovani, 97 al femminile, 23 ai reduci di guerra, 22 alla polisportiva Libertas e mille altri. Gli Uffici Gestionali rappresentavano invece il cuore operativo della Balena Bianca. Piazza del Gesù assorbiva il grosso dei costi. La segreteria politica, ad esempio, costava 169 milioni l'anno, quella amministrativa 139 e quella organizzativa, su cui pendeva l'onere del tesseramento, dei comizi, delle campagne elettorali, arrivava a pesare per quasi 270 milioni di lire dell'epoca sui conti del partito tra stipendi, spese logistiche, stampe, noleggio automobili. Le sole spese di preparazione del congresso nazionale ammontarono a 4,8 milioni, mentre di manifestazioni elettorali furono spesi oltre 320 milioni. Le manifestazioni straordinarie pesarono in bilancio per oltre 139 milioni. Nel 1961, ad esempio, in televisori la Balena Bianca spese 22 milioni, per la cancelleria 3 milioni. Tornando alle articolazioni di Piazza del Gesù, nei conti di quell'anno si riscontrano anche 114 milioni per l'ufficio Spes, 35 per le attività culturali, 48 per l'ufficio enti locali, 25 per l'elettorale, 72 milioni erano invece appannaggio del centro studi e formazione. La Dc destinava anche 21 milioni per l'anno 1961 ai problemi assistenziali. Un fiume di milioni anche alla stampa di partito: un miliardo al Popolo, 84 milioni alla Discussione fondata da De Gasperi, 10 milioni a Civitas, 368 al Giornale del Mattino, 74 al Corriere del Giorno, 60 all'Avvenire d'Italia e 22 all'Adige. I contributi ordinari ai comitati provinciali e regionali ammontavano a 667 milioni di lire. Le società collegate – come l'Immobiliare, la Società Edilizia Romana, la Sari Camiluccia e la Affidavit – pesavano per 274 milioni. Gli interessi passivi sullo scoperto di conto corrente erano di 103 milioni. La situazione debitoria generale invece era di oltre 4,3 miliardi. Il volume dei movimenti bancari della Dc crebbe a tasso d'inflazione. Aumentavano i prezzi, si svalutava la lira e la mole di denaro nei conti correnti di Piazza del Gesù cresceva nonostante la scala mobile fosse stata abolita da qualche anno. Tra il 1991 e il 1992 la Dc aveva sei conti correnti presso altrettanti istituti di credito: Banca Nazionale dell'Agricoltura, Banco di Santo Spirito, Monte dei Paschi di Siena, Banca Popolare di Bergamo, Banco Roma e Banco di Napoli. Nei movimenti bancari si notano entrate mensili tra contributi non meglio specificati – probabilmente tangenti o altri contributi in nero – e versamenti per il tesseramento. Nelle uscite c'è di tutto. Gli stipendi ogni mese pesavano per oltre 850 milioni di lire. Ma a venire finanziate erano anche agenzie di pubblicità che beneficiavano di erogazioni periodica mensili per 200, 600 o 800 milioni ognuna. Nel maggio del 1991 Il Popolo, il quotidiano Dc che riceveva ogni mese 580 milioni di lire, versò 3,9 miliardi alla Dc che ne rigirò altrettanti pochi giorni dopo per ripianare delle uscite. Registrati anche i contributi previdenziali: rate da 519 milioni all'Inps. Gli stipendi delle società immobiliari ammontavano a 20 milioni al mese, mentre quelli della Camilluccia a 5. Annotati anche prelievi di cassa per conto di Ciriaco De Mita, alcuni dei quali ammontano a oltre 30 milioni. Daniele Di Mario
Raccomandazioni, liti e tante lettere anonime, scrive Daniele Di Mario su "Il Tempo" il 20/09/2016. Tra le carte anche i rapporti dei servizi segreti su diverse persone. Miliardi di vecchie lire, certo. Ma non solo. Perché la vita della Dc era fatta anche di altro. Nelle migliaia di faldoni custoditi nella sede della Fondazione Sullo, spuntano anche migliaia di lettere di raccomandazione, di assunzione e persino rapporti dei servizi di sicurezza rigorosamente anonimi. Spulciando nelle carte del 1958 emerge la lettera di assunzione del direttore amministrativo del quotidiano Il Popolo. Germano Bodo ricevette una lettera dalla segreteria amministrativa della Dc firmata da Renato Barzi in cui veniva informato dell’assunzione. Ma quanto guadagnava il direttore amministrativo del quotidiano della Dc? Nel 1958 percepiva 4 milioni e 800mila lire l’anno. Per l’epoca un signor stipendio. Nelle carte spunta anche altro. Ad esempio piccole beghe interne. Nel 1960 negli uffici di Piazza del Gesù ci si interroga su un assegno da 200mila lire recante le firme di Guglielmoni e Gonella, probabilmente contraffatte. Ci sono poi i rapporti dei servizi segreti, vere e proprie informative chieste dal partito per cercare di capire chi fossero i personaggi che si avvicinavano al partito, che magari lo finanziavano, che chiedevano o ricevevano una raccomandazione. E le informazioni richieste puntualmente venivano rese sotto forma di «promemoria» anonimi, ma molto dettagliati che raccontavano fedine penali, sentenze pendenti o passate in giudicato, professione e stato civile della persona di cui si chiedevano informazioni. Così si apprende che nel 1959 nella segreteria di un senatore lavorava un uomo sposato con un figlio, denunciato e arrestato per appropriazione indebita, poi rilasciato e denunciato di nuovo per omicidio colposo in seguito a un incidente stradale, poi condannato a 4 mesi di reclusione con pena condonata e quindi riarrestato proprio nel 1959 per bancarotta fraudolenta. Un altro che non andando a donne e nemmeno a uomini meritava «un approfondimento investigativo». Nell'archivio Dc non potevano mancare le lettere riservate. Come quella che nel 1960 l'onorevole Nocentini riceveva da parte di Renato Branzi, della segreteria amministrativa, per conto di Aldo Moro: «Ci siamo domandati come manifestare gratitudine che ambedue proviamo per la illuminata e assidua assistenza dataci in questo anno. Siamo così giunti alla conclusione di chiedere di accettare una piccola somma, la cui stessa modesta misura, esclude che la si possa considerare un compenso». E poi nell'archivio ci sono centinaia, ma centinaia davvero, raccomandazioni. Nel 1960 se ne occupava lo stesso Branzi, che con riservate personali rigorosamente protocollate, scriveva ai top manager delle aziende pubbliche per chiedere. Dan. Dim.
«Io, avvocato Dc derubato durante i processi Moro», scrive Daniele Di Mario su "Il Tempo" il 20/09/2016. Il legale che difendeva il partito denunciò una serie di furti nel suo studio. Nell’archivio della Dc non poteva mancare Aldo Moro, lo statista ucciso dalle Brigate Rosse di cui quest'anno ricorre il centenario della nascita. Decine di fascicoli, su correnti, amici e nemici. L'ex presidente della Democrazia Cristiana spunta un po' dappertutto, per la sua attività di presidente del Consiglio e di segretario politico. Ma Moro figura nelle carte della Dc soprattutto dopo la sua morte, per i numerosi processi celebrati sul suo rapimento e sul suo assassinio. I fascicoli sulle spese legali custoditi nell'archivio riguardano per larga parte i processi legati all'omicidio di Moro. Con particolari a volte inquietanti. Un avvocato, ad esempio, scrive a Piazza del Gesù per informare che, da quando ha accettato l'incarico di difensore della Dc nel processo Moro, ha subìto ben sette furti nel proprio studio legale, veri e propri blitz che hanno distrutto gli uffici. Ruberie che il legale attribuisce alla sua attività di difensore del partito dell'ex presidente del Consiglio assassinato. Incursioni notturne sospette e ripetute, cominciate proprio nel momento in cui il professionista ha iniziato a occuparsi del caso Moro con alcune iniziative particolarmente delicate. Pertanto il principe del Foro spiega ai responsabili della segreteria amministrativa della Democrazia Cristiana di voler rinunciare all'incarico e di non avere nulla a pretendere dal partito, chiedendo in cambio solo la ristrutturazione dei propri uffici a carico della Balena Bianca. Lo stesso avvocato arrivò a intentare una causa per vedersi riconosciuto il diritto ad aver ristrutturato il proprio studio, chiedendo 350 milioni di vecchie lire. La rinuncia all'onorario da parte dell'avvocato non è cosa di poco conto, visto che le spese legali per i processi Moro sono state davvero esorbitanti. Nel Moro Ter, solo di copie atti, la Dc ha dovuto onorare una fattura di 78 milioni di lire. Lo stesso avvocato che inviò quella nota di pagamento non era tuttavia stimato dallo stato maggiore democristiano. Giulio Andreotti, ad esempio – si legge in alcune lettere – «è tornato alla carica» per il «comportamento non edificante» del legale e lagnandosi del fatto che il professionista in questione «lavora male» e «si comporta in maniera strana e insolita». Al Divo Giulio risponde Flaminio Piccoli, spiegandogli di aver discusso a lungo con l'avvocato e rassicurandolo che la situazione sarebbe stata risolta. E così fu, con una classica pax democristiana a sei zeri che mise d'accordo tutti: l'avvocato, Andreotti che voleva sostituirlo e il partito. Dan. Dim.
L’immobiliare Dc finisce in procura. Caccia al patrimonio scomparso, scrive Valeria Di Corrado su "Il Tempo" il 10/02/2016. Il segretario Sandri e gli iscritti del 1993 presentano una nuova denuncia STORIA Sedi e miliardi svaniti tra vendite e scissioni. Chi ha fatto sparire l’immenso patrimonio immobiliare della Democrazia cristiana? È questo il nuovo fronte d’indagine della Procura di Roma, che potrebbe rivelare sorprese interessanti. Lo scorso 27 novembre è stato presentato negli uffici di piazzale Clodio un esposto firmato da Angelo Sandri, segretario nazionale pro tempore della Dc, Franco De Simoni, segretario ragionale della Dc Lazio e Raffaele Cerenza, presidente dell’Associazione degli iscritti al partito della Dc del 1993. «Sussiste il fondato timore – si legge nell’esposto – che buona parte dei beni e delle risorse patrimoniali della storica e vivente Dc siano confluiti nei partiti di successiva formazione, i cui dirigenti hanno così potuto disporre d’ingenti cespiti, senza dichiararli né riportarli nei rispettivi rendiconti/bilanci». Stiamo parlando di un patrimonio di beni mobili e immobili, partecipazioni societarie e sedi in tutte le città italiane, il cui valore oggi ammonterebbe a un miliardo di euro. Tutto è cominciato quando, con una delibera del 18 gennaio 1994 adottata dall’ Assemblea della Democrazia cristiana, la Dc ha cambiato nome ed è diventata il Partito popolare italiano. «Il processo modificativo della denominazione – spiega l’esposto – ha determinato un’evidente distorsione tra il soggetto che poteva disporre dei beni e il soggetto che ne ha effettivamente disposto». In effetti, la sentenza della Corte d’appello di Roma dell’11 marzo 2009, poi confermata dalla Corte di Cassazione l’anno successivo, ha accertato «l’insussistenza di una dimostrata continuità tra la "storica" Democrazia cristiana, attiva con questa denominazione e il noto simbolo dello scudo crociato con la scritta "Libertas" fino al 18 gennaio 1994, e il partito della Democrazia cristiana di Giuseppe Pizza». Questo significa che i partiti politici che negli anni si sono proclamati eredi della Democrazia cristiana (con le sigle Ppi, Ppi ex Dc, Ppi Gonfalone, Cdu, Ccd e Udc), l’hanno fatto a fronte di «una continuità ideale certamente non coincidente – spiega la sentenza d’Appello – con una continuità associativa giuridicamente rilevante». In ballo, però, non c’era solo un’eredità di valori o ideali, bensì quella più ambita di decine e decine di immobili sparsi per l’Italia. «Tali beni – si legge sempre nella documentazione depositata in Procura – sono stati illegittimamente alienati e sottratti al patrimonio della Democrazia cristiana storica. Alcune delle società intestatarie sono state addirittura sottoposte a procedure fallimentari ancora non definite davanti al Tribunale di Roma, relativamente all’Immobiliare spa e alla Ser spa». Viene definita «gravissima» l’operazione con la quale il patrimonio e l’organizzazione della Dc è stata fatta confluire nel 2001 nella formazione politica «La Margherita», che quello stesso anno ha partecipato alle elezioni politiche, percependo il relativo contributo statale. Ma c’è di più, perché dal 1995 al 2015 Ppi e Cdu non avrebbero dichiarato anno per anno le variazioni patrimoniali e ipotecarie dei beni della Dc, «in grave violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti». L’ultima traccia di questo patrimonio immobiliare si ha nel bilancio-rendiconto della Dc del 1993, confluito nel Ppi, come conferma il bilancio di quel partito, relativo al 1994. Sandri, De Simoni e Cerenza hanno inviato anche una lettera alla presidente della Camera Laura Boldrini per chiedere di ricostruire i bilanci della Dc dal ’94 a oggi e dei partiti ai quali è stato trasferito il suo patrimonio immobiliare che «deve essere restituito alla Dc e ai suoi iscritti del 1993». Ma nessuno finora ha risposto. Valeria Di Corrado
Sedi e miliardi svaniti tra vendite e scissioni. Oltre 120 gli appartamenti sparsi in tutta Italia, scrive il 10/02/2016 Daniele Di Mario su "Il Tempo". Dell’«unità politica dei cattolici», la fusione tra il Partito popolare di Alcide De Gasperi e il Movimento Guelfo d’Azione di Piero Malvestiti che nel 1942 diede la vita alla Democrazia Cristiana, oggi rimane l’idea del cattolicesimo democratico. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ad esempio, è moroteo. Ma anche una diaspora che ha portato i suoi esponenti moderni a frammentarsi un po’ i tutti i partiti e una pletora di sigle che negli anni hanno dato vita a scissioni ed evoluzioni. Dall’ultima Dc del segretario «liquidatore» Mino Martinazzoli, al Ppi e alla prima scissione del Ccd datate 1994 passando per la scissione dal rinato Partito popolare del Cdu del 1995. Dal 1942 al 1994 la Dc ha governato l’Italia per cinquant’anni, frutto dell’intuizione dell’allora assistente spirituale della Fuci Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, che mise insieme l’elité cattolica del tempo. Prossima la caduta del fascismo, in casa dell’imprenditore milanese Giorgio Maria Flick, presero a incontrarli Alcide De Gasperi, Mario Scelba, Attilio Piccioni, Camillo Corsanego e Giovanni Gronchi provenienti dal disciolto Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo; Piero Malvestiti e il suo Movimento Guelfo d’Azione; Aldo Moro e Giulio Andreotti dell’Azione Cattolica; Amintore Fanfani e Giuseppe Dossetti della Fuci; i leader della Resistenza Paolo Emilio Taviani, Giovanni Marcora ed Enrico Mattei e Giuseppe Alessi. Nacque così la Dc che elesse come simbolo lo storico scudo crociato scelto da Sturzo e finito al Cdu con la scissione del ’95. Ricostruire la geografia attuale del cattolicesimo politico vuol dire ripercorrere tutta la storia della Seconda Repubblica. Una frammentazione che ha portato, dalla crisi dei primi anni Novanta, alla nascita di una miriade di sigle confluite poi in partiti più grandi. La prima scissione all’assemblea di scioglimento del 1994. I Cristiano Sociali di Ermanno Gorrieri e Dario Franceschini scelsero di andare a sinistra con il Pds di Occhetto. Rinacque il Partito popolare italiano, da cui si staccò anche il Centro cristiano democratico (nato il 18 gennaio 1994, nell’anniversario dell’appello ai liberi e ai forti di Sturzo, che avviò subito contatti con Silvio Berlusconi) di Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella (che nel 1999 fonderà l’Udeur dopo una ennesima scissione). Il Ccd rimase in vita fino al 2002 quando fondendosi con il Cdu divenne Udc. Nel 1995 un nuovo trauma, con la frattura tra il Ppi (simbolo «gonfalone») e il Cdu di Rocco Buttiglione che tenne lo scudo crociato. Nodo del contendere le alleanze: il Ppi nel 1994 si presentò alle politiche da solo, poi la rottura con Buttiglione che scelse l’alleanza con Berlusconi e i popolari di Gerardo Bianco con Prodi nel 1996. Il nuovo Ppi del gonfalone, incardinato nell’area dei centrosinistra, restò in vita fino al 2002 quando si sciolse nella Margherita di Francesco Rutelli e poi confluì nel Partito democratico. Nel frattempo nascevano nuovi movimenti parademocristiani: la Dc di Flaminio Piccoli (1997-2002), i Cristiani Democratici per la Repubblica, i Cristiani Democratici per la Libertà di Roberto Formigoni (1998-2001), il Partito Democratico Cristiano di Giovanni Prandini (2000), la Dc di Giuseppe Pizza (2002-2013), la Dc di Angelo Sandri (2004), la Dc per le Autonomie di Gianfranco Rotondi (2005), Rinascita Popolare di Publio Fiori (2006), la Federazione dei Cristiano Popolari di Mario Baccini (2008-2013), i Popolari Liberali di Carlo Giovanardi (2008), l’Alleanza di Centro di Francesco Pionati (2008), la Dc di Gianni Fontana (2012), il nuovo Cdu di Mario Tassone (2012), la Dc di Annamaria Ciammetti (2014). Nel frattempo il patrimonio della Dc, circa un miliardo di euro tra soldi e immobili, svaniva con la scissione tra Ppi e Ccd prima e tra Ppi e Cdu poi. Gli immobili (circa 120 in tutta Italia di cui 7 a Roma, 9 nella sua provincia, 5 a Firenze, 6 a Trieste, 5 ad Arezzo, 4 a Bologna e altrettanti ad Ancona) venivano conferiti a quattro società immobiliari (tra cui la Ser Spa e l’Immobiliare Spa). Alcuni furono venduti, altri addirittura finirono a improbabili personaggi in Croazia. Di debiti e contributi elettorali non c’è più traccia nei bilanci dei partiti. Così come del patrimonio immobiliare. Padre Bartolomeo Sorge, storico direttore de La Civiltà Cattolica, ebbe a dire nel 1992: «Se dovesse fallire l’ennesimo tentativo di rinnovamento della DC, dalla tradizione cattolico-democratica gemmerà spontaneamente, come partito rinnovato, il vero Partito popolare di Sturzo». Una previsione ottimista finita in diaspora e tesori scomparsi. Daniele Di Mario
LA SANTIFICAZIONE DI ALDO MORO.
Aldo Moro, avviato il processo di beatificazione, scrive il 29 settembre 2016 "Blitz Quotidiano". La notizia è stata diffusa, in diretta da Radio Vaticana, dall’avvocato Nicola Giampaolo, promotore della causa di beatificazione di Aldo Moro: il “supplice libello sulla fama di santità”, il documento d’avvio della causa, è stato accolto dal tribunale della diocesi di Roma. La causa di beatificazione è iniziata quattro anni fa: era il settembre 2012. Secondo l’avvocato Nicola Giampaolo, ad appoggiare la causa, oltre alla primogenita di Moro, Maria Fida, c’è anche il giudice Ferdinando Imposimato, all’epoca giudice istruttore del processo Moro. Come ricorda Antonio D’Anna di Italia Oggi, qualche mese fa la causa ha rischiato di arenarsi. «Colpa», si fa per dire, della Commissione d’inchiesta sul caso Moro guidata da Giuseppe Fioroni. Che nel marzo 2015 ha sentito l’arcivescovo Antonio Mennini, Nunzio apostolico (ambasciatore vaticano) a Londra e confessore di Moro, autorizzato da Papa Francesco a farsi interrogare. Tema dei quesiti: Mennini incontrò o no lo statista scudocrociato durante la sua prigionia nel 1978, per giunta confessandolo? La risposta fu lapidaria: «Io purtroppo non sono mai stato nella prigione di Aldo Moro, né ho confessato il presidente». Ma aggiunse: «La stessa signora Moro commentò con me che se ciò fosse davvero accaduto sarebbe avvenuto tramite un amico di questi mascalzoni». Un prete vicino ai Br? E chi? Polemiche a non finire e Giampaolo costretto a chiedere a tutti di calmare le acque temendo che la causa potesse subire uno stop. Adesso c’è da capire su quale base si continuerà nel cammino di beatificazione. Le strade sono due. Aldo Moro potrà diventare Beato perché martire o per qualche miracolo a lui attribuito. Secondo Andrea Venezia, canonico della basilica di San Giovanni in Laterano “la sua fine fu anche la conclusione di una testimonianza ed è per questo che nel suo caso possiamo parlare di martirio”. Nel secondo caso – scrive ancora Antonio D’Anna di Italia Oggi – “il miracolo potrebbe esserci. Sempre nel 2012 la Gazzetta del Mezzogiorno ricordò quanto accaduto a monsignor Francesco Colasuonno, tra il 1974 e il 1981 Delegato Apostolico in Mozambico. Quando attorno al 1980 la Nunziatura in cui risiedeva venne presa d’assalto da un gruppo di guerriglieri, egli si rinchiuse in una stanza nella quale c’era una foto di Moro e si mise a pregarlo, salvandosi. Da allora lo considera il suo Santo”.
"Aldo Moro Santo": l'annuncio da Carlentini e Sortino: "l’avvio del processo di Beatificazione e Canonizzazione è vicino", scrive il 2 Ottobre 2016 "Siracusa News". "Se i politici cercano un santo cui votarsi, forse tra non molto lo avranno davvero: per Aldo Moro, lo statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, presto, dopo la consegna dei documenti e firme per la “fama di santità” potrebbe aprirsi il processo vero e proprio che si aprirà dopo il nullaosta della Conferenza episcopale. Una data precisa ancora non c’è, ma siamo vicini". Lo ha detto il dottore Nicola Giampaolo, il postulatore che da quattro anni, per conto del Vaticano, coordina la raccolta delle testimonianze per la beatificazione e canonizzazione dello statista della Democrazia cristiana, giovedì e venerdì in Sicilia a Sortino e Carlentini in occasione della presentazione del libro “Aldo Moro, un cristiano verso l’altare” per Giuseppe Laterza editore. I due eventi sono stati promossi e organizzati dall’Unione cattolica della Stampa Italiana, sezione di Siracusa con il sostegno dell’associazione “Argomenti 2000”, il patrocinio dei comuni di Carlentini, Sortino, di Radio Una Voce Vicina e del settimanale cattolico “Cammino” di Siracusa. Nella due giorni in Sicilia, il postulatore accreditato alla Santa Sede Nicola Giampaolo ha partecipato, giovedì mattina, a Lentini alla celebrazione eucaristica nella chiesa dell’Immacolata presieduta dal Rettore don Enzo Salemi, canonico dell’ex cattedrale di Lentini. Nel pomeriggio a Sortino, nella sala conferenze del convento dei Cappuccini l’incontro con il postulatore moderato dalla giornalista Pia Parlato. “Per noi è un momento intenso di storia e di ricordi – ha detto il sindaco di Sortino Vincenzo Parlato – parlare di Aldo Moro, uomo, politico e padre di famiglia. Aldo Moro è stato nel nostro paese negli anni settanta quando l’allora sindaco Mario Giardino lo ospitò in un momento intenso di confronto politico”. Nicola Giampaolo, venerdì mattina, ha incontrato l’arcivescovo di Siracusa monsignor Salvatore Pappalardo con il quale ha avuto un lungo colloquio privato. Nel pomeriggio a Lentini, in piazza Aldo Moro, davanti alla lapide che ricorda il 34 anniversario della scomparsa, alla presenza del sindaco Saverio Bosco ha deposto un mazzo di fiori. Alla sobria cerimonia hanno partecipato l’onorevole Luigi Boggio, il comandante della polizia municipale Alfio Vacanti e l’ex presidente del Consiglio comunale ed ex assessore Salvatore Di Mari. A Carlentini è stato ricevuto dal sindaco Giuseppe Basso, dal vice sindaco Angelo Ferraro, dal presidente del consiglio Salvatore Genovese a Palazzo di Città. Poi nell’aula consiliare la presentazione del libro, moderato dalla giornalista Maria Chiara Catalano e la relazione del vice presidente diocesano dell’Azione cattolica Alfio Castro, docente di Storia e Filosofia al liceo “Megara” di Augusta e del giornalista Luca Marino. Poi la testimonianza del sindaco Giuseppe Basso su Aldo Moro. “Dopo il nulla osta del cardinale Agostino Vallini, vicario del Papa, che ha proclamato Moro servo di Dio - ha detto Nicola Giampaolo - in breve tempo il presidente del Tribunale diocesano di Roma, sede competente perché lì s’è svolta la tragica vicenda, ha introdotto la causa, acquisendo gli atti del supplice libello sulla fama di santità. Alla raccolta di firme per la “fama di santità” di Moro hanno d’altra parte aderito 50 vescovi e 25 cardinali, oltre a personalità del mondo civile e politico, soprattutto di matrice democristiana ma non solo. Lo statista Dc, quindi, si avvicinerebbe il momento in cui verrà proclamato beato. Ma anche martire, perché caduto, addirittura, in odio alla fede cristiana. E questo è un passaggio molto importante, che attribuisce alla figura di Moro uno spessore ancor più evidente. Del resto, non bisogna dimenticare che la figura e la vicenda di Moro, con tutta la loro tragicità, ma anche grandezza rientrano nel terzo segreto di Fatima”. E poi c’è la presa di posizione dei vescovi, per i quali andrebbe dichiarata l’opportunità della causa per la beatificazione di Moro come “modello di vita per la politica italiana. Per la beatificazione occorre un miracolo, o una grazia. Non però se si parla di martirio, come nel caso di Moro. I miracoli ci sono, li metteremo in campo per la canonizzazione”, per quando cioè si tratterà di fare un ulteriore passo in avanti verso la santità di Moro. Le segnalazioni non mancano, come quella di un presunto miracolo, una guarigione. Un altro requisito è quello di una fede cristiana e cattolica forte e inconfutabile, e ciò spiega perché sia stato già aperto un analogo procedimento nei confronti di Giorgio La Pira e Alcide De Gasperi in fama di virtù, per il giurista Vittorio Bachelet, come Moro giustiziato dalle Br, s’è in attesa del nulla osta. Aldo Moro assieme a Paolo VI fu protagonista del disegno, poi realizzato compiutamente da Giovanni Paolo II, di un allargamento della fede alla Russia e a tutti i Paesi dell’Est europeo. Risiede qui la ragione profonda del suo assassinio. E la Populorum progressio è l’Enciclica più politica fatta da Paolo VI, si vocifera che la parte iniziale sia stata redatta proprio da Moro. “Abbiamo – ha detto il presidente dell’Ucsi di Siracusa Salvatore Di Salvo – contribuito a far conoscere, tramite il postulatore, la figura di Aldo Moro, comunicatore, uomo, cristiano, padre di famiglia, in questo momento che l’avvio del processo di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Aldo Moro è vicino”.
FRANCESCO COSSIGA.
In ricordo del Presidente Francesco Cossiga. Stefania Craxi su Il Corriere del Giorno 17 Agosto 2019. Il 17 agosto di 9 anni fa veniva a mancare Il Presidente Francesco Cossiga. La senatrice Stefania Craxi lo ricorda con questo testo, uscito come speciale per l’Adnkronos. La Fondazione Craxi pubblica nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista Bettino Craxi scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet. A quasi un decennio dalla sua scomparsa, Francesco Cossiga resta una delle figure di maggior spessore politico e di altro profilo istituzionale della nostra storia repubblicana. Una personalità enigmatica, le cui scelte e decisioni sono state spesso di difficile lettura, a tratti incomprensibili, e mai definitive. Era anche questa una delle cifre caratterizzanti del rapporto con Bettino Craxi. Dalle dimissioni anticipate dalla Presidenza della Repubblica alle oscure vicende di “Tangentopoli“, passando alla sua mutevole relazione con il “giudice” e il “politico” Di Pietro – senza tralasciare le vicende degli anni ’80 come Sigonella, in cui i due gestirono la vicenda l’uno dal Quirinale l’altro da Palazzo Chigi – sono molti i momenti che congiungono due personalità diverse ma con sensibilità comuni. Su tutto, basti pensare al tema delle riforme istituzionali che mai come in questi giorni, segnati da una crisi che più di governo potremmo definire l’ennesima crisi di sistema, si presenta come questione aperta. Infatti, dopo il saggio “VIII legislatura” vergato da Craxi sulle colonne de “L’Avanti” nel settembre del 1979 in cui il leader socialista invocava una "grande riforma" che abbracciasse insieme l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale, fu proprio Cossiga a recuperare con forza il tema delle riforme in un messaggio alle Camere del giugno ’91. È sufficiente rileggersi le cronache del tempo per comprendere il clamore, l’isolamento e la portata riformatrice di quel messaggio presidenziale che evidenziava la necessità, un anno e mezzo dopo la caduta del muro di Berlino, di adeguare il dettato costituzionale, specie alla vigilia del varo di Maastricht. Cossiga come sappiamo fu bersagliato e isolato. Il suo messaggio trovò di fatto, non a caso, il solo Craxi come sostenitore, vista la freddezza di una parte della DC e, addirittura, la richiesta di messa in stato di accusa da parte del PCI. Ma quell’atto presidenziale resta ancora oggi un punto di riferimento, poiché ha il merito di indicare le principali direttrici di una ‘vera’ riforma costituzionale: dalla forma di governo al ruolo delle autonomie, passando per la disciplina dell’ordine giudiziario, ai nuovi diritti di cittadinanza, fino agli strumenti di finanza pubblica che, tra l’altro, da lì a poco le norme europee avrebbero radicalmente modificato. Il messaggio resta quindi, oggi come ieri, un prezioso vademecum per le riforme’, ignorato quanto utile, anche perché individuava le procedure possibili ed alternative, seppur rispettose del 138, per una revisione organica della Carta. Altro che le riforme "un tanto al chilo" di cui si parla oggi! Ma, il rapporto tra Craxi e Cossiga continuò, tra diversità e comunanze di vedute, anche dopo la "falsa rivoluzione" di "Mani pulite" e negli anni dell’esilio tunisino. Craxi si chiese spesso il perché di quelle dimissioni anticipate dalla Presidenza che, guardate a posteriori, cambiarono e influirono molto sugli accadimenti successivi. Viste i suoi legami internazionali e la nuova geopolitica che si schiudeva, era conoscenza di qualcosa? Viveva un altro dei suoi contrasti interni come negli anni del delitto Moro? Molto c’è ancora da capire e su molto c’è ancora da indagare e studiare. Ad ogni modo ricordo la sua visita ad Hammamet pochi mesi prima della morte di Bettino. È un incontro che ancora oggi mi emozione modi e intensità. Fu un pranzo tra due vecchi amici, con poche parole e molti sguardi, un incrocio tra due combattenti, duri e franchi, con due stili diversissimi, con alcune domande di Bettino e alcuni silenzi di Cossiga. Fu proprio l’ex Presidente a chiedere in quella occasione a Craxi di raccontare la verità sulla vera natura del finanziamento irregolare del PSI e sul suo principale impiego, ossia il sostengo a quanti, da Est a Ovest, in Medioriente come in Sudamerica, lottavano per la democrazia e la libertà. Ma in quella circostanza la perseveranza di Cossiga non ebbe la meglio. Craxi gli rispose che non avrebbe mai e poi mai mischiato le cause di libertà di mezzo mondo con le miserie italiane. Chissà, nell’opportunismo e nella confusione delle contingenze, nell’incapacità di leggere e agire nel quadro internazionale, quanti sarebbero oggi coloro disposti a farlo! Nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, la Fondazione Craxi pubblica una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet.
La lettera di Bettino Craxi a Francesco Cossiga. “Caro Presidente, mi auguro che tu stia bene e leggo con piacere ciò che scrivi a proposito di questa Araba Fenice chiamata ‘riforma costituzionale’. Leggo però anche cosa scrivi riguardo a Di Pietro: ‘Poveretto ha tanti guai. Lasciate in pace Di Pietro’. Ti confesso che sin dall’inizio non ho mai capito la tua posizione a proposito di questo signore. Mi sono chiesto tante volte a che cosa fosse dovuta” si legge nell’incipit della missiva. Gran parte della lettera è dedicata all’ex pm di Mani pulite, definito un “avventuriero” ma l’ex leader del Psi assicurava a Cossiga: “In ogni caso non starò zitto io. Sino ad ora subendo quello che ho subito e subisco, ivi compresa una sentenza della Cassazione che si è messa sotto i piedi anche una pronuncia chiarissima della Corte Costituzionale, senza che un’ombra di costituzionalista levasse una parola di protesta, mi sono imposto una condotta di estrema responsabilità. Aspetto ancora con pazienza una soluzione politica”. “Se non verrà e se mi convincerò che è inutile farsi illusioni – proseguiva Craxi – credo che la mia reazione, peraltro molto documentata, non mancherà, e renderà un buon servizio all’Italia e alla storia. Quanto al Di Pietro, come un suo libro, certo non scritto da lui, non meritava una tua prefazione, la sua attuale situazione non merita proprio quello che dici. Io mi auguro ancora che tu stesso riprenda il tema della ‘operazione verità’ di cui si è parlato e si parla. Ricordo, di tanto in tanto, i tempi passati e ti invio un fraterno saluto. Bettino Craxi”.
Br, l'intervista a Cossiga del 2003: "Terroristi come partigiani". Le Iene 20 gennaio 2019. Dopo il caso Battisti e la nostra intervista all'ex brigatista latitante Alvaro Lojacono, vi riproponiamo una nostra intervista del 2003 all'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga sugli "anni di piombo". Dopo la cattura e l’estradizione di Cesare Battisti e la nostra intervista all’ex brigatista Alvaro Lojacono (scovato e intervistato da Gaetano Pecoraro in Svizzera, dove è latitante, mentre in Italia è stato condannato all’ergastolo), ci sembra importante riproporre questa nostra intervista del 2003 all’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Cossiga, nemico giurato dei terroristi rossi, si era fatto promotore di un’iniziativa per l’amnistia sugli anni di piombo. Sulla base di un concetto, a cui fa riferimento lo stesso Lojacono e che l’ex Capo dello Stato, scomparso nel 2010, ribadisce anche davanti alle nostre telecamere: “Fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”.
Cesare Lanza per “la Verità” il 2 ottobre 2019. Tutto cominciò quando dirigevo La Notte, alla fine degli anni Ottanta. Mi urtavano i continui attacchi, le perfidie, le malizie e i sottintesi da cui Francesco Cossiga - presidente della Repubblica - era tormentato: in particolare le allusioni alla sua salute mentale. L' intento dei suoi critici era evidente, a volte esplicito, dichiarato: indurlo alle dimissioni. E così un giorno scrissi un fondino, per esprimergli simpatia e stima. Non ricordo con precisione il contenuto del mio breve articolo, ma il titolo sì, che mi inventai lì per lì: «Uno, due, dieci, cento, mille Cossiga». In breve sostenevo che un uomo come Cossiga bisognava tenerselo caro, e peccato che non ce ne fosse un migliaio di altri simili, nella vita politica del nostro Paese. Cossiga mi ringraziò con una formula affabile, ma convenzionale: pensai che non fosse di suo pugno, sapevo che aveva l' abitudine di scrivere biglietti estrosi, bizzarri, spontanei. Non avevo avuto questo onore, e invece nacque un rapporto reciprocamente corretto e cortese, oserei dire amichevole. Qualche volta andai a trovarlo al Quirinale, gli attacchi contro di lui non erano affatto cessati, anzi l' accanimento era diventato più feroce. Una volta gli chiesi: «Cosa avresti fatto al posto di Leone, quando i delegati del Pc e della Dc gli chiesero, o ingiunsero, di dimettersi?». Cossiga replicò con uno sguardo beffardo e disse: «Semplice, avrei chiamato i carabinieri!» (Leone invece, sgomento, si dimise subito e lasciò il Quirinale. Era innocente di fronte a tutte le accuse che gli erano rivolte, ma cedette alla arrogante violenza degli alleati comunisti e democristiani). In seguito, lessi risposte più o meno uguali di Cossiga, quando gli rivolsero una domanda come la mia. Il Presidente però non ebbe mai la necessità di chiamare i carabinieri. Leone era un personaggio timido, uno studioso estraneo ai veleni della politica. Cossiga aveva un carattere forte, risoluto, sbeffeggiava perfino i suoi avversari. Era detestato, ma temuto. Qualche anno dopo commisi un errore professionale molto grave. Lasciai La Notte, dove mi trovavo benissimo anche se i popolari giornali del pomeriggio erano destinati a sparire, e accettai un' offerta principesca di un finanziere temerario e spregiudicato, Gianmauro Borsano. Si trattava di fondare e dirigere un nuovo giornale, La Gazzetta del Piemonte, nelle sue intenzioni erede di un quotidiano, La Gazzetta del Popolo, molto amata non solo a Torino, e purtroppo scomparsa, da tempo, dalla scena. Borsano aveva acquistato la squadra del Torino e astutamente, conoscendo la mia passione per il calcio, mi offrì la vicepresidenza, per superare le mie esitazioni. Per mia fortuna l' incarico non fu mai formalizzato: in seguito infatti tutti i consiglieri di amministrazione furono indagati, coinvolti - a prescindere - dai disastri che Borsano aveva combinato. Portai Borsano con me al Quirinale e fummo accolti con cordialità, alla vigilia dell' uscita della Gazzetta. Chiesi a Cossiga di promettermi di farci visita a Torino, in redazione, e lui me lo promise. Sinceramente, non me l' aspettavo. E invece, promessa mantenuta! Qualche settimana dopo, il Quirinale ci inserì nel quadro di una visita di Cossiga a Torino: c' eravamo noi, un giornalino neonato, e non c' era La Stampa, uno dei più grandi quotidiani italiani, di proprietà della famiglia Agnelli! Con Cossiga non ne parlai mai, ma intuii il retroscena: il risentimento che nutriva verso il grande giornale torinese, che non gli risparmiava critiche pungenti e frecciate. Ad accogliere il Presidente c' erano non solo i giornalisti e tutto il personale della Gazzetta, ma anche tutti i calciatori del Torino e il loro allenatore, Emiliano Mondonico. Devo dire che l' esperienza con la Gazzetta fu tormentosa e infelice, ma con il calcio mi divertii moltissimo: quarto posto in campionato e finalissima in Coppa Uefa (oggi Europa League): risultato mai più raggiunto dalla gloriosa squadra granata.
La visita di Cossiga si svolse secondo tradizione. Fotografie, discorsi, scambi di regali...Ma c' è un episodio che merita di essere ricordato, per il divertimento dei lettori. All' arrivo di Cossiga, un suo timido ammiratore, agricoltore ad Alba, si era fatto avanti e aveva offerto al Presidente un gigantesco cesto di tartufi. Cossiga aveva ringraziato e benignamente aveva fatto cenno a un suo collaboratore di posare quel ben di Dio sul mio tavolo... Dopo un' ora, finita la visita, Borsano e io, insieme con la scorta, avevamo accompagnato il Presidente fino alla sua automobile. Tornai nel mio ufficio e notai subito che i tartufi erano spariti. Chiesi alla mia segretaria... «Direttore, è arrivato Borsano di corsa e se li è portati via!». L' attrazione che Cossiga esercitava su di me era incentrata, tra altri aspetti, sulla sua meravigliosa qualità di esprimersi controcorrente, secondo i casi con audacia e impertinenza, sempre con ironia. Una volta mi disse che la strage di Bologna era nata da un fortuito incidente, gli attentatori non avevano l' Italia nel mirino. Mi ero abituato a credere a tutto ciò che diceva, a rispettare battute e rivelazioni. Perciò scrissi tranquillamente di ciò che mi aveva detto. Nessuna reazione. C' erano argomenti di cui il nostro mondo preferiva non occuparsi. E fu così anche, tranne qualche eccezione, quando fu pubblicato un suo straordinario libro, La versione di K. Sessant' anni di controstoria (Rizzoli, Rai Eri). «Anche se talvolta misteri inestricabili si sono addensati in alcuni passaggi della vicenda italiana - scriveva - la mia impressione è che ormai nessuno creda più alla realtà così come è. E dunque c' è sempre una seconda realtà da ricercare. Non credo che sia un principio sbagliato, e non posso certo dirlo io che ancora non ho smesso di scavare, chiedere, provocare. Ma aspirare sempre alla quadratura del cerchio fa sì che spesso ombre riottose sfidino le leggi della percezione e affollino impazzite la scena fino a oscurarla del tutto». Come dire: attenzione che le cose sono più semplici di come si crede, ma proprio perché sono semplici non vogliamo crederci e andiamo alla ricerca del retroscena e del mistero, infilandoci in un tunnel senza via d' uscita. È così che la verità, a portata di mano, finisce per allontanarsi per sempre.
Tragedie come Ustica, Piazza Fontana, il caso Moro, la strage di Bologna, andrebbero rilette senza frequenti, artificiosi scenari dietrologici. Molte facili convinzioni e vecchie ricostruzioni giornalistiche, e persino giudiziarie, potrebbero mostrare tutta la loro inconsistenza. Cossiga: «Ci si accanisce sulla strage di Bologna, si chiedono a gran voce giustizia e verità. Capisco. Come potrei non capire il vuoto e la disperazione prodotti da quell' esplosione del 2 agosto 1980? Ottantacinque morti, oltre 200 feriti: un bilancio insopportabile. Ma perché non credere a Giusva Fioravanti e a Francesca Mambro che si dicono innocenti per quello che è successo a Bologna, pur dichiarandosi responsabili di altri atti criminali? [] Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso. Una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell' occasione e che invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento». Questa audacia di analisi, mi attrae. Cossiga offre anche una interessante rilettura del rapporto mafia-politica, di quella contiguità fra Cosa nostra e la Democrazia cristiana siciliana della quale «molto si è detto e molto si è immaginato. Forse troppo». Argomento di grandissima attualità. La ricostruzione di Cossiga parte dallo sbarco alleato in Sicilia, e arriva alle prime elezioni amministrative, per ricordare ai troppi che lo hanno dimenticato che la mafia si presentava come apertamente antifascista e fece convergere i voti sulla più antifascista delle forze politiche: il Partito comunista. La circostanza mise in allarme i moderati. Allora, ecco Cossiga: «Fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, a mettere in guardia la Dc. "Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì" disse. E con "quelli lì" intendeva i mafiosi. L' ingrato compito toccò a Bernardo Mattarella, vicepresidente dell' Azione cattolica». Cossiga è convinto che non esistano «politici mafiosi», mentre «esistono uomini vicini alla mafia, collusi, ma non mafiosi». La spiegazione: Cosa nostra può ammettere nelle sue fila professionisti, medici, avvocati, ma non politici, rappresentanti cioè di un altro potere organizzato. Cossiga tante volte mi ha detto quanto sia impervio spazzare via i «luoghi comuni». Sia per pigrizia, comunque sono duri a morire. E concordo con chi ha scritto che nei libri «forniva il suo punto di vista, la sua visione sui cosiddetti "misteri italiani". In troppi, superficiali e altezzosi, lo liquidarono come "le solite cose del picconatore"».
Eppure cose da leggere e rileggere. E proprio in omaggio a Cossiga, uno che di intelligence se ne intendeva, va proposto ai lettori questo scritto, uno degli ultimi. «L' Italia dei misteri. O forse l' Italia senza misteri. Siamo abituati da sempre a cercare un grande burattinaio, anzi "il grande vecchio", dietro spezzoni della nostra storia, dietro le tragedie che hanno travagliato il nostro Paese, dal dopoguerra a oggi. [...] Il fatto è che nessuno fino a oggi ha saputo dare una risposta a domande-chiave: perché l' Italia dal 1969 è stata funestata dal terrorismo e dalla violenza politica con centinaia di morti e migliaia di feriti? Perché le inchieste giudiziarie hanno dato finora molta importanza al ruolo dei Servizi segreti definiti "deviati", della P2, della Cia, con il risultato di non approdare ad una verità giudiziaria e ad una verità storica condivisa? Forse è ancora presto per parlare di Storia, in un Paese che non ha ancora superato il trauma e la lacerazione dell' 8 settembre e soltanto adesso comincia a fare i conti con il Risorgimento».
Cossiga, le lettere agli ex Br: “Ormai la giustizia contro di voi è vendetta”. Alice De Gregoriis su meteoweek.com il 7 agosto 2020. Il Corriere pubblica stralci di lettere segrete tra Cossiga e gli ex Brigate Rosse. Tra i nomi al centro della corrispondenza epistolare: Renato Curcio, Toni Negri, Prospero Gallinari, Paolo Persichetti e Fabrizio Melorio. A Paolo Persichetti, ad esempio, scrive: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura”. Siamo nel 1992, precisamente il 25 novembre, nel carcere di Rebibbia: l’ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontra Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. L’incontro tra i due avviene l’anno dopo il tentativo di Cossiga di concedere la grazia a quello che lui stesso definiva “un sovversivo di sinistra”. Un tentativo non andato a buon fine. Durante il colloquio, tra i tanti temi toccati (come il caso Moro), Cossiga spiega che quell’atto di clemenza (fallito) doveva rappresentare un primo passo verso il superamento di leggi di emergenza alla cui creazione lui stesso aveva partecipato. Ma quella manovra raccolse l’opposizione dei parenti delle vittime e di alcune forze politiche, come l’ex Pci. A fornire i dettagli dell’incontro, riportati dalle parole degli stessi partecipanti, sarebbe un resoconto conservato nell’archivio privato del presidente emerito, oggi riportato dal Corriere. Nel resoconto Curcio avrebbe scritto: “Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare“. Poi ancora: “Ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale… Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato”. Ma Cossiga non avrebbe intrattenuto rapporti epistolari esclusivamente con Curcio. A dimostrarlo è il suo archivio donato alla Camera dei deputati. Tra gli altri brigatisti al centro dello scambio di lettere ci sarebbero anche: Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, e anche esponenti dell’Autonomia operaia fuggiti in Francia come Toni Negri. Significativa la lettera che Cossiga scrisse a Prospero Gallinari, ex carceriere di Moro. Gallinari fu scarcerato per motivi di salute, e subito arrivarono gli auguri di Cossiga: “Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena”. Importante anche la lettera che nel 2002 Cossiga invia a Paolo Persichetti, ex Udcc appena estradato dalla Francia e arrestato: “Ormai la cosiddetta giustizia che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o vendetta o paura, come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato”. Non manca anche qualche lettera a Fabrizio Melorio, che partecipò all’omicidio del generale Licio Giorgieri. Cossiga scrive: “Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera… perché in fondo mi sento anche un po’ ‘colpevole’ della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori”.
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2020. Un anno dopo il fallito tentativo di concedergli la grazia nell'estate 1991, l'ormai ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga incontrò Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse. Il colloquio avvenne a quattr' occhi, nel carcere romano di Rebibbia, il 25 novembre 1992, quando Cossiga aveva lasciato il Quirinale da sei mesi. Parlarono di molte cose, dal «carattere sociale e politico del fenomeno armato», che l'ex capo dello Stato non definiva terrorismo bensì «sovversivismo di sinistra», al caso Moro, alla vicenda della grazia abortita. Cossiga spiegò che nelle sue intenzioni quell'atto di clemenza unilaterale doveva essere un primo passo per superare le leggi di emergenza a cui lui stesso aveva contributo, prima da ministro dell'Interno e poi da presidente del Consiglio, quando le Br avevano lanciato il loro «attacco al cuore dello Stato». I vertici delle forze di sicurezza erano d'accordo, ma i parenti delle vittime no, al pari di alcune forze politiche; in primo luogo l'ex Pci divenuto Partito democratico della sinistra. «Il senatore Cossiga ha commentato che, in effetti, la nostra esperienza, per molti di quel partito, rappresenta ciò che essi hanno segretamente desiderato e mai apertamente osato fare», ha scritto Curcio in un resoconto dell'incontro conservato nell'archivio privato del presidente emerito. Insieme e a un biglietto inviato al fondatore delle Br per ringrazialo dell'incontro che «è stato per me di grande interesse politico, culturale, e soprattutto umano». Risposta dell'ex brigatista: «Debbo dirle che dopo anni di fuoco, non solo metaforico, e di K (nell'estrema sinistra il ministro dell'Interno del '77 veniva chiamato Kossiga, con la doppia S stilizzata come il simbolo delle SS naziste, ndr ), ho sentito la nostra stretta di mano come segno di una nuova maturazione personale... Il colloquio mi ha lasciato una visione più chiara dei sentieri percorsi e anche di me stesso, e di ciò le sono grato». Curcio comincerà a uscire dal carcere solo l'anno successivo, in un periodo in cui Cossiga (non più Kossiga bensì il «picconatore» del sistema di cui era stato parte) ha intrattenuto rapporti epistolari e diretti con molti ex terroristi. In prevalenza di sinistra, ma non solo. Nel suo archivio donato alla Camera dei deputati, oltre al carteggio con Curcio ci sono le lettere inviate ad altri brigatisti come Prospero Gallinari, Mario Moretti e Germano Maccari, militanti dell'Unione dei comunisti combattenti, pentiti come Marco Barbone e l'ex di Prima linea Roberto Sandalo, esponenti dell'Autonomia operaia fuggiti in Francia per evitare il carcere, a cominciare da Toni Negri. Il quale, una volta rientrato in Italia per finire di scontare la pena, si rivolse all'ex presidente per chiedere una buona parola con un dirigente della Digos. Su sollecitazione di Cossiga, in virtù di un'antica conoscenza personale e «come primo effetto della reciproca smobilitazione ideologica», Negri gli dava del tu, e il 12 aprile 1998, giorno di Pasqua, gli scrisse per fargli gli auguri e «per chiederti di intervenire eccezionalmente in mio favore». Dopo un primo diniego, il professore detenuto aspirava a ottenere un permesso per «una brevissima vacanza», però serviva che la polizia «dichiarasse insussistente, come in realtà è, il pericolo di fuga». Così Negri s' era rivolto al presidente emerito: «Mi permetto di insistere con te perché, se ti è possibile, tu faccia questo intervento. Ti ringrazio fin d'ora per quello che potrai fare». All'ex carceriere di Moro Prospero Gallinari, scarcerato per motivi di salute, Cossiga scrisse il 5 maggio '94: «Sono lieto che Lei sia rientrato a casa e formulo gli auguri più fervidi per una vita normale e serena». Aggiungendo il rammarico perché nell'ex Pci c'era chi considerava le Br «uno strumento della Cia e della P2! Che vergogna e che falsità, che viltà e che malafede! Ma non se la prenda. Se viene a Roma me lo faccia sapere». In una lettera a Mario Moretti, il «regista» del caso Moro, l'ex presidente lo ringrazia per il libro sulla storia delle Br scritto nel 1994, e ribadisce la sua idea di un fenomeno «radicato socialmente e radicalmente nella società e nella sinistra italiana, e collegata alla divisione ideologica dell'Europa». È per questa sua analisi che Cossiga, morto dieci anni fa, è stato e continua ad essere pressoché l'unico politico apprezzato dagli ex militanti della lotta armata di sinistra. Compresi i giovani aderenti alla fazione brigatista che nel 1987 uccisero il generale Licio Giorgieri, come Francesco Maietta e Fabrizio Melorio. «Le sue esternazioni hanno avuto per me lo stesso effetto di rottura e di nuovo punto di partenza delle considerazioni del professor De Felice in materia di fascismo e resistenza», gli scrive Maietta dalla cella nel 1993; cinque anni dopo Cossiga sarà ospite al matrimonio dell'ex brigatista, uscito dal carcere. E al suo compagno di cella Melorio, che all'ex presidente aveva raccontato il passaggio dall'essere suo nemico giurato nel '77 a «condividere molte delle cose che lei sostiene», Cossiga confida: «Ho letto con attenzione, trepidazione e commozione la sua lettera... perché in fondo mi sento anche un po' "colpevole" della Sua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori». Nel 2002 il «picconatore» manda una lettera a Paolo Persichetti, altro ex dell'Udcc appena estradato dalla Francia e chiuso in prigione: «Ormai la cosiddetta "giustizia" che si è esercitata e ancora si esercita verso di voi, anche se legalmente giustificabile, è politicamente o "vendetta" o "paura", come appunto lo è per molti comunisti di quel periodo, quale titolo di legittimità repubblicana che credono di essersi conquistati non col voto popolare o con le lotte di massa, ma con la loro collaborazione con le forze di polizia e di sicurezza dello Stato». In un altro faldone, insieme a documenti e atti parlamentari e giudiziari sulla strage di Bologna di quarant' anni fa, sono conservate alcune lettere inviate a Cossiga da Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, quando ancora erano sotto processo per la bomba alla quale si sono sempre proclamati estranei. Dopo la condanna nell'appello bis, a luglio '94, gli scrisse pure la mamma di Francesca Mambro: «Io e i miei figli Le chiediamo aiuto per la ricerca della verità, perché chi è dalla parte della Giustizia si senta anche dalla parte della difesa di Francesca e Valerio». Ma un anno dopo arrivò l'ergastolo definitivo».
Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 25 luglio 2020. Gli sarebbe piaciuto. Il «Premio Cossiga per l'Intelligence» promosso dalla Società italiana di Intelligence, assegnato al prefetto Carlo Mosca dalla giuria presieduta da Gianni Letta, con vicepresidenti Giuseppe Cossiga e Mario Caligiuri, lo avrebbe molto divertito. La prima edizione si svolgerà in modalità virtuale il 17 agosto, in occasione del decennale della scomparsa di Francesco Cossiga. Avrebbe voluto certamente premiare lui il Prefetto Carlo Mosca, ma c'è suo figlio. L'ultima volta che lo andai a trovare a casa sua, Cossiga era un po' malandato, ma mi avvertì subito che il mio telefonino Sony non eravamo ancora agli smart e gli iPhone, era un modello superato. La sua casa era piena di soldatini, di truppe sarde di piombo, di carabinieri in alta uniforme, ma non era un museo, era piuttosto la casa di un grande piccolo patriota. Quando mi chiamò per avvertirmi che avrebbe lasciato il Quirinale, lo andai a trovare con la mia compagna di allora e il suo bambino Andrea. A lui consegnò, con estrema solennità, la bandiera di combattimento: «A te che rappresenti le nuove generazioni». Poi io lo seguii fino in Irlanda. Ma la sua passione per i giocattoli dell'Intelligence era molto più di una mania da collezionista. Cossiga aveva imparato già negli anni Cinquanta che cosa significasse far parte dell'Intelligence Community, e per giunta di lingua inglese. Non so quanto fluente fosse in inglese, ma lo capiva bene e scherzavamo sul fatto che in inglese per dire «rapporto sessuale» si dica sexual intercourse. Lo faceva ridere. Ma era un lettore scaltro di informazioni diplomatiche e aveva protetto e difeso con le unghie e coi denti l'organizzazione della Nato Stay behind (dietro le linee) che in Italia era stata curiosamente ribattezzata «Gladio» ma che esisteva tale e quale in tutti i Paesi della Nato. Era una organizzazione partigiana che si sarebbe dovuta attivare nel caso di occupazione sovietica. Quello fu il suo vero war game che finì malissimo quando Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, consegnò le chiavi dell'organizzazione segreta al giudice Casson, sicché tutto finì in piazza e in uno scontro politico rovente. Come sardo, si sentiva più vicino agli irlandesi che agli inglesi, ma era molto bravo nell'usare i codici, decifrare un rapporto diplomatico e saper trattare le materie di intelligence anche con gli ambasciatori. Ricordo la sua grande amicizia con l'ambasciatore sovietico e poi russo Adamishin che gli dette informazioni essenziali sulla più grande operazione di riciclaggio del tesoro sovietico di cui si occupò poi Falcone, non più procuratore, ma suo delegato personale e subito prima di essere ucciso. Cossiga mi diceva sempre che il suo vero maestro di Intelligence era stato Aldo Moro: il criptico intellettuale e professore che si sentiva perennemente tenuto d'occhio dal Kgb in Italia. Cossiga era il supervisore italiano del passaggio di denaro fra Mosca e il Partito comunista italiano, come ministro o rappresentante del governo, in compagnia di due agenti del Tesoro americano che controllavano soltanto la genuinità dei dollari che da Mosca arrivavano a Roma e che Cossiga (sue personali confidenze) faceva cambiare in lire alla banca dello Ior vaticano (Istituti Opere Religiose) da Monsignor Marcinkus. Che non era proprio uno stinco di santo. Conosceva perfettamente gli schieramenti di missili europei di media gittata sovietici, gli SS20 e quelli di teatro americani Pershing e Cruise. Adorava, letteralmente adorava gli avversari sovietici con un sentimento che lo accomunava a John LeCarré: «Quei distinti signori che erano i grandi comunisti di quei tempi», mi diceva. E poi, sì, c'era anche l'apparato giocoso: le microspie, i rivelatori di microspie (gli portai un detector che avevo comprato a New York che faceva molti ronzii quando lo accostavamo ai suoi muri, cosa di cui era orgoglioso). Il suo amore possessivo per l'Arma dei Carabinieri dipendeva anche dal fatto che i Carabinieri sono sia polizia militare che civile, forza combattente e di intelligence, all'occorrenza polizia stradale. Che è anche il motivo per cui i Carabinieri sono stati sempre molto apprezzati anche dagli americani per le operazioni di peace keeping all'estero. Adorava le uniformi, i gradi, le mostrine e mi regalò solennemente un maglione blu della Marina militare che conservo come una reliquia. Non aveva per natura un portamento militare, ma aveva una passione per la Storia e i suoi dettagli. Non si trattava solo di soldatini di piombo, ma di combattenti cibernetici. Mi regalò anche un grande album dell'intelligence con tutte le armi che si usavano trent' anni fa, introvabile nelle librerie. Da vero uomo di intelligence, ascoltava con piacere anche i pettegolezzi e si informava con curiosità dei particolari piccanti delle relazioni amorose nel mondo politico. Aveva una straordinaria collezione delle bandiere di combattimento di reggimenti e divisioni del passato, ma anche lettere che certificavano la sua competenza anche tecnica che gli permetteva di riconoscere una operazione mediatica da una «fabbricazione» che è una sostituzione del falso con il reale. Sapeva molto di più di quello che possiamo immaginare e tutti speriamo che abbia lasciato scritto da qualche parte ciò che ancora ci manca per ricostruire quel che accadde, come e agito da chi, perché e quando. Lui lo sapeva, Andreotti anche e oggi il teatro politico è molto disadorno senza questi due personaggi. Specialmente senza Cossiga.
Francesco Cossiga, un cattolico liberale in un partito di affaristi. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 28 Febbraio 2020. Era ancora l’altra Italia, quella precedente. Sì, c’era stato il muro di Berlino, molto rumore e accesi dibattiti, ma ancora non si sapeva dove si sarebbe aperta la crepa. Un indizio c’era, ma non andava molto oltre l’aspetto in apparenza buffo, aneddotico e magari leggermente psichiatrico del solo fatto degno di nota: il signor presidente della Repubblica in carica, Francesco Cossiga, che per anni se ne era stato buono e tranquillo anzi invisibile e misterioso dietro le tende del Quirinale, improvvisamente era diventato matto. Fu creato un verbo per indicare le sue azioni verbali: «Esternava». Mandava all’esterno del suo corpo e della sua mente ciò che vi albergava da tempo, represso come in un fucile ad aria compressa. Da mite e ossequioso, istituzionale e quasi invisibile, si era fatto aggressivo, e diceva che doveva togliersi i sassi che aveva nelle scarpe e menava botte da orbi a destra e a manca, più a manca che a destra. Io ero appena approdato a La Stampa diretta da Paolo Mieli, condirettore Ezio Mauro che sei anni dopo sarebbe diventato direttore di Repubblica, da cui io provenivo dal giorno della fondazione. Questa è la storia di come, per puro caso, diventai non soltanto il confidente del presidente della Repubblica ma colui che, con pochi altri, difese persino la sua follia e vide che – a parte qualche eccesso in liquerizia e qualche compressa di litio – il primo cittadino era non soltanto sano di mente, ma probabilmente vedeva più lontano di tutti gli altri. E che aveva tirato l’allarme facendo suonare tutte le sirene e quasi sbandare il convoglio istituzionale. Erano dunque i primi di gennaio del 1990, nei giorni in cui ogni anno le singole Procure inaugurano l’anno giudiziario. Mi chiamò Ezio Mauro e mi disse: «Perché non vai a Gela? Domani Cossiga inaugura l’anno giudiziario e probabilmente farà il matto anche lì». Per puro caso la sera prima era andata in onda, ma non lo sapevo, la registrazione di una puntata di Harem di Catherine Spaak. In quella trasmissione Catherine mi aveva chiesto notizie di mia figlia Sabina che muoveva i suoi primi e gloriosi passi nella satira televisiva. Io non lo sapevo, ma Cossiga, che era un animale televisivo informatissimo, sì. A Gela un servizio d’ordine poliziesco piuttosto brusco aveva confinato la fastidiosa massa dei cronistacci e dei paparazzi in un androne dell’ingresso, mentre la macchina del presidente della Repubblica e della sua scorta arriva con stridore di gomme e luci lampeggianti. Io non avevo mai visto Cossiga e dunque quando lo vidi dirigersi a passo di carica verso di me, mi chiesi se ci fosse qualcosa di molto strano. Cossiga mi afferrò per un braccio portandomi via dalla mischia, dicendomi col suo accento sardo che gli raddoppiava tutte le consonanti: «Non sapevo che lei avesse una figlia attrice. Mi sembra anche molto bella e molto brava». Capii allora che aveva visto la mia intervista dalla Spaak e risposi con parole di circostanza, mentre il presidente mi trascinava sui gradini di una scala con tutto il codazzo di guardie del corpo e dignitari, fra cui il sindaco di Gela disperato per essere stato estromesso dal suo posto di accompagnatore ufficiale con fascia tricolore del presidente, il quale lo ignorava e invece seguitava a parlarmi. Il sindaco, furibondo, si aggrappò allora alla giacca della mia grisaglia e la aprì verticalmente in due lasciandomi in maniche di camicia e brandelli come in un film di Charlie Chaplin. Cossiga non mi mollò e il sindaco mi prese a gomitate molto decise all’altezza dello stomaco. E non mollai neanche io. Arrivammo nell’aula e io restai incollato a Cossiga in una ressa senza ossigeno, ma colma di rancori. Il presidente fece il suo discorso e senza alcun preavviso attaccò Giorgio Bocca, uno dei principi del giornalismo italiano. Erano i tempi dei delitti della banda detta della “Uno Bianca” in cui erano stati implicati alcuni carabinieri. Bocca aveva scritto quel giorno un articolo in cui sosteneva più o meno che i carabinieri erano storicamente degli eversori (alludendo al famoso “Piano Solo” ai tempi del generale De Lorenzo, accusato di propositi golpisti) e Cossiga diventava una belva se qualcuno gli toccava i “suoi” carabinieri di cui si considerava il supremo protettore. Dunque, fra l’altro, pronunciò una invettiva contro Bocca molto dura, accusandolo di vilipendere. Io prendevo nota su un piccolo notes. Il punto su cui ero chiamato a render conto ai miei lettori era: Cossiga è matto o no? Sembrava davvero preda di un delirio fuori controllo, oppure diceva semplicemente cose che molti consideravano sgradevoli? Fra pazzia e divergenze d’opinione, c’è un abisso. Così, ricordo che mi dedicai al suo body language, i movimenti minimi che potevano suggerire segni di agitazione e scompostezza e potevo farlo perché ero attaccato a lui come una cozza, in una ressa irrespirabile. Ricordo in particolare i suoi radi capelli bianchi che erano composti e immobili. La voce era alta, ma secca, con un tono sprezzante costante. Non isterico. Poi ci salutammo, ci separammo e corsi in albergo per scrivere un pezzo in cui facevo la cronaca dell’accaduto dando conto di parole e fatti (non della mia sventurata giacca) ignorando di compiere in questo modo un gesto eversivo. Il giorno successivo infatti quasi tutti i giornali titolavano sulla follia presidenziale, l’evidente patologia mentale e il fatto – che di lì a poco sarebbe emerso come fatto istituzionale – che Cossiga non sarebbe stato nelle condizioni mentali per reggere il suo ufficio: «Not fit» per l’Economist e una celebre giornalista inglese lo definì matto come le lepri di marzo quando vanno in amore, un’espressione ripresa da Lewis Carroll nel Tè del Cappellaio matto (una lepre) in Alice in Wonderland. Tutti avevano scritto che Cossiga era matto, tranne me. Ero forse matto io? Fu così che mi accorsi per la prima volta (ne sarebbero seguite molte altre) che alcune persone preferivano cambiare marciapiede quando mi incontravano per strada. Cossiga non usava ancora il verbo «picconare» (l’avrebbe inaugurato alla presentazione del mio libro su di lui Cossiga uomo solo) ma assestava colpi micidiali al suo partito e ai partiti che lo avevano eletto quasi all’unanimità. Che cosa gli era preso? Me lo spiegò man mano che il nostro rapporto si trasformava in amicizia. Ma fu un processo lento. Dopo alcuni giorni dal mio primo articolo mi telefonò all’alba allarmando il bambino della mia compagna il quale mi svegliò scuotendomi: «Che cosa hai fatto a Bush?». A Bush?, chiesi «Sì, c’è il presidente al telefono e ti vuole parlare subito». Per un bimbo di cinque anni l’unico presidente noto era quello americano. Andai al telefono e mi sentii chiedere: «Che cosa sa lei dei cattolici liberali?». E mi impartì una dottissima lezione il cui significato era: io sono l’unico cattolico liberale in Italia, sono solo come un cane in un partito di affaristi o integralisti. Gli mandai per corriere (non esistevano ancora le e-mail) un articolo in cui ricostruivo la nostra conversazione chiedendogli l’autorizzazione a pubblicarlo. Mi rispose: «No, ma venga domattina alle sette a fare colazione al Quirinale». Andai e trovai la crème de la crème della sinistra italiana: Andrea Barbato, Sandro Curzi, Valentino Parlato e mezza redazione de il manifesto con qualche scampolo de l’Unità. Tutta gente intelligentissima, un po’ anarchica ed eretica impegnata fra cappuccini, cornetti e uova strapazzate con cui Cossiga aveva una familiarità molto giocosa. Quello sì, che sembrava il Tè del cappellaio matto. Ma allora erano tutti matti, o così sembrava. Lo stesso Cossiga che veniva scudisciato sulla carta stampata, era il beniamino di un bel gruppo di intelligentissimi e spiritosissimi pensatori e giornalisti. Non c’era Eugenio Scalfari, che era in quel momento uno dei suoi principali avversari e questo faceva soffrire molto Cossiga perché per anni – mi diceva – era stato a pranzo da Eugenio una volta alla settimana. Eugenio stesso mi aveva raccontato di aver lui stesso suggerito a De Mita il nome di Cossiga per succedere come presidente del Senato ad Amintore Fanfani che si era giocato la poltrona pur di fare un governicchio estivo. Poi, dopo mille premesse, promesse ed emozioni, venne il momento della prima intervista ed era allora un vero scoop, perché tutti speravano di poterlo intervistare. Mi spiegò il senso della sua azione, che era la semplice presa d’atto di quel che stava per accadere: «L’Italia, con la fine della Guerra Fredda – disse – ha perso il suo potere di ricatto sugli americani e gli altri alleati. Non contiamo più niente e coloro che ci hanno dovuto sopportare con tutti i nostri tradimenti, ricatti, ruberie e arroganze, stanno per presentarci il conto e sarà salatissimo. Sto cercando di fare capire ai democristiani e ai comunisti (che considerava come i carabinieri, dei suoi parenti, vista la cuginanza con Enrico Berlinguer il quale gli rispondeva che «con i parenti si mangia l’agnello a Pasqua» e lo mise in stato d’accusa) che nel nuovo mondo tutte le regole sono cambiate ed è mio compito traghettare l’Italia nella nuova realtà storica». Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Ma la Dc di Ciriaco De Mita, e non solo, non aveva alcuna intenzione di farsi rieducare da Cossiga, il quale vantava – con parecchia millanteria – una frequentazione nelle altissime sfere dell’intelligence mondiale delle segrete ruote che governavano il pianeta. Aveva un caratteraccio, questo è indubbio. Era certamente un po’ paranoico (la paranoia consiste nel vedere complotti e veleni, ma è una sindrome utile se si vive in un’epoca di complotti e veleni), era soggetto ad accessi di collera che erano però più di natura sarda che psichiatrica: il codice cavalleresco dei gentiluomini sardi impone delle furie di facciata che soltanto i veri sardi possono capire. Ed è una furia fredda, che non fa salire la pressione, anche se siamo nell’antropologia e nel nazionalismo sardo, perché Cossiga era anche un nazionalista sardo più o meno come lo sono i corsi. Fu così che le mie interviste con il presidente della Repubblica, da formali e in pompa magna si fecero frequenti e convulse. Decise di darmi del tu e di chiamarmi “A Guzzà”. Recalcitravo alla richiesta di fare altrettanto ma non fu contento finché non passai a un improbabile “A Francé”. Si palpava benissimo il desiderio della nomenklatura italiana di levarselo dalle scatole e rimuoverlo con acrobazie procedurali accompagnate da comitati di psichiatri che avrebbero dovuto proclamare un reggente finché il Parlamento non avesse eletto un successore. Per fortuna non ero solo nel difendere il presidente che aveva previsto Mani Pulite e l’assalto alla cittadella e che senza pensarci due volte, aveva mandato una legione di carabinieri in assetto anti-sommossa a Palazzo dei Marescialli per mandare un segnale inequivocabile al Consiglio superiore della Magistratura riunito nel Palazzo dei Marescialli, di cui lei era il presidente, anche se nel Csm chi governa è il vice presidente, ai tempi Giovanni Galloni. Dovetti a un certo punto scoraggiarlo dalla sua pretesa di affidare a me tutte le sue punzecchiature contro gli altri politici. Ma era un’impresa quasi disperata. Un giorno pretese di farmi scrivere che Achille Occhetto era «Uno zombie coi baffi». E io mi rifiutai: «Non è da te, presidente, io non lo scrivo». Poco male: il giorno dopo «Occhetto è uno zombi coi baffi» era un titolo de il Messaggero. Mi aveva bypassato senza tragedie e meglio così. Quando si dimise mi volle al Quirinale fra le sue scartoffie, consegnò la bandiera di combattimento al bambino che gli aveva risposto al telefono raccomandandogli di custodirla per la generazione dei futuri patrioti e mi chiese di accompagnarlo in esilio in Irlanda. Mi mandò al 33mo Stormo di Ciampino dove lo attendeva il jet presidenziale e gli fui accanto mentre il pilota metteva la prua sull’Irlanda. Parlammo poco e lui si lasciò vincere da una lacrima o due. Io gli detti una goffa pacca sulla spalla. Poi andammo in taxi fino al monastero dove lo attendevano e dove il bibliotecario era sulla soglia a braccia aperte per discutere con lui i libri dei pensatori cattolici irlandesi. La porta si richiuse e finì così la mia straordinaria avventura giornalistica con un presidente molto speciale che poi ho sentito solo poche volte per telefono e che visitai una sola volta nella sua casa al quartiere Prati, ormai abbandonato da tutti.
Quando Cossiga mandò i carabinieri al Csm. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 29 Novembre 2019. “Ma certo che mandai i carabinieri!”. Mi disse Cossiga quando diventammo amici: “Mandai un generale di brigata con un reparto antisommossa, pronti a irrompere nel palazzo dei Marescialli”. Oggi fa impressione riascoltare nelle registrazioni la voce del “matto” Cossiga quando attaccava lo strapotere di alcuni magistrati e lo faceva spavaldamente come un Cyrano de Bergerac, odiato da tutti nel 1985 – trentaquattro anni fa – quando invece aveva ragione. Il Consiglio superiore della magistratura si è recentemente infangato con l’inchiesta di Perugia che ci ha fatto assistere in diretta al mercato delle procure, alla vendita del diritto.Tutto già parte di un vizio d’origine contro cui oggi pochi hanno il fegato di combattere. Cossiga mi aveva invitato a fare colazione al Quirinale. C’era il meglio del giornalismo di sinistra a inzuppare il cornetto nel cappuccino di quelle stanze mentre Cossiga raccontava. A quei tempi era ministro dell’interno Oscar Luigi Scalfaro, che sarebbe diventato il suo successore e il suo principale nemico. Ricorderemo ancora Scalfaro quando, assestando il colpo dell’asino a Cossiga dimissionario, urlò stentoreamente in aula “Viva il Parlamento!” come se lui fosse stato il Parlamento. Allora era ministro degli interni e quando Cossiga decise di far intendere chi comandasse sugli abitanti del Palazzo dei Marescialli (di stile fascista, curiosamente decorato con teste di Mussolini con l’elmetto), il ministro del Viminale disse di sì. Dissero di sì anche i comunisti che poi si scatenarono contro Cossiga. Erano con lui il giudice costituzionale Malacugini e il senatore Perna, capo del gruppo comunista al Senato. I membri del Csm allora pretendevano di comandare come terza camera dello Stato, in barba della Costituzione. Volevano colpire il presidente del Consiglio Bettino Craxi che aveva polemizzato sulle inchieste seguite all’assassinio del giornalista socialista del Corriere della Sera Walter Tobagi, ucciso dalla Brigate Rosse, che Craxi considerò sempre interne ai salotti milanesi di sinistra. Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati, i quali godono di una autonomia prossima all’extraterritorialità, salvo poi trasformare tanta autonomia in un mercato di interferenze e abusi talmente terrestri da produrre fatti come quelli messi a nudo dall’inchiesta di Perugia che hanno inferto alle istituzioni delle ferite probabilmente non rimarginabili. L’organo di autogoverno fu concepito come massimo baluardo del servizio pubblico della giustizia- e non come privilegio degli operatori togati della giustizia – allo scopo di garantire ai cittadini un servizio di assoluta indipendenza da poteri esterni a cominciare da quelli politici. Il presidente del Csm è il Capo dello Stato, ma è una carica solo formale perché chi comanda è il vicepresidente del CSM. Cossiga ingaggiò nel 1985 un braccio di ferro istituzionale in cui, malgrado i suoi colpi, alla fine fu lui ad essere disarcionato. La sua battaglia contro il vicepresidente Giovanni Galloni (un radicale rappresentante storico della sinistra cattolica che detestava apertamente tutto ciò che Cossiga rappresentava) espose Cossiga ad un vero massacro mediatico. Le camionette dei carabinieri erano a piazza Indipendenza. I carabinieri in assetto antisommossa, con gli elmetti calati in testa, pronti a sfondare il portone se solo il presidente Cossiga, in quanto Capo dello Stato, lo avesse ordinato. La carica non avvenne, il portone restò integro, ma lo schieramento delle forze che rappresentavano lo Stato – i carabinieri in questo caso – contro un ridotto nelle mani di chi si riteneva di essere separato dallo Stato, in quanto organo separato dello Stato, rappresentò uno schieramento concreto, militare, non diverso – per qualità istituzionale – a quello che lo Stato rinunciò ad opporre nel 1922 alla marcia su Roma di Mussolini. Non che esista una comparazione tra la marcia su Roma e il conflitto affrontato da Cossiga, ma restano i comuni termini di una difesa anche militare contro l’eversione. Cossiga individuò nell’arroganza di un ristretto gruppo di magistrati la formazione di un potere insurrezionale “ultroneo” rispetto a quelli previsti dalla Costituzione e dunque un nucleo eversivo. Il punto allora era politico: il Csm usurpava il diritto – non contemplato tra le sue funzioni – di muovere critica o censura alle parole o alle azioni del presidente del Consiglio dei ministri. Cossiga sospese la delega a Galloni, cioè lo degradò sul campo strappandogli le spalline, sia pure temporaneamente. E dopo aver disarmato quello che riteneva il leader di una corrente eversiva, impose che si prendesse atto di un punto fermo: l’organo di autogoverno dei magistrati è soltanto l’organo di autogoverno dei magistrati e mai, in alcun modo, un potere dello Stato. Come invece pretendevano allora le correnti politiche dell’Anm che Cossiga accusava di usurpazione contro lo Stato.
FILMOGRAFIA SUL CASO MORO. PIAZZA DELLE CINQUE LUNE: STORIA O FINZIONE?
Quello che la fiction può raccontare senza ritorsioni.
RECENSIONE PIAZZA DELLE CINQUE LUNE (2002) di Claudia Catalli del 5 marzo 2005. Un film sugli intrighi di potere, sulle mezze verità, sui dati occultati, sulla sete di ideali, che fra fotogrammi sgranati stile documentario e flashbacks in bianco e nero, si cimenta in un'interessante ipotesi storico-politica sul sequestro di Aldo Moro.
Storia d'una ragnatela letale. Colpisce, questo film di Enzo Martinelli, distribuito dall'Istituto Luce. Colpisce per l'impeccabile precisione della sceneggiatura, per l'efficace resa fotografica, per la meticolosa quanto fedele ricostruzione storica, nonché per la buona interpretazione degli attori e non ultima la grande regia, capace di far scivolare la pellicola lungo piani diversi, dal giallo al thriller al film d'azione al drammatico allo storico al sentimentale. Rosario Saracini, magistrato senese fresco di pensione, riceve all'improvviso da uno sconosciuto un misterioso pacchetto, il cui contenuto si rivela un vecchio film girato in super8 sul sequestro di Aldo Moro in Via C. Fani, datato 16 Marzo 1978. Da qui ha inizio una lunga e appassionata indagine, (non ufficialmente) condotta proprio dall'anziano Saracini che, consultandosi costantemente con due dei suoi più fedeli colleghi, tali Branco e Fernanda, impegna tutto se stesso in questa ricerca quasi ossessiva di una verità sepolta da un silenzio colpevole da ben venticinque anni...Tralasciando di dibattere sulla convenienza della scelta del soggetto -scelta senza dubbio rischiosa quanto forse provocatoria: nel film si dice che il sequestro di Moro fu deciso in realtà dalla CIA, colpevole per altro di aver manipolato le Brigate Rosse-, c'è da dire che Piazza delle cinque lune vanta una discreta potenza suggestiva non solo grazie all'architettura minuziosa che da filmica si fa in ultimo urbanistica, per così dire, ma anche per merito di interpreti mediamente (e si sottolinei mediamente) convincenti. A parte Stefania Rocca, che resta in bilico fra sì e no (molto meno espressiva rispetto al suo solito, fatta eccezione per l'incisiva scena in ospedale coi figli), Giancarlo Giannini si dimostra attore degli sguardi, più che delle parole, e riesce a reggere il confronto con Donald Sutherland - da non perdere il faccia a faccia finale. Se è vero che in alcuni tratti la vicenda si fa scontata e prevedibile, è anche vero d'altra parte che i difetti comunque presenti nella pellicola vengono presto perdonati grazie ai titoli di coda, che regalano l'emozione di un Luca Moro che, chitarra alla mano, inveisce contro tutti coloro che sapevano e non sapevano, che vedevano e non vedevano, complici anche inconsapevoli della tragica fine del nonno: "Maledetti voi!"
Il film risulta, infine, di fatto suddiviso in due parti - nella prima si assiste ad una scrupolosa ricostruzione storica del sequestro, studiata e sviscerata dai magistrati in ogni minimo dettaglio, mentre nella seconda, decisamente più intrigante, la macchina da presa segue attentamente tutte le mosse dell'arguto Saracini, spiando silenziosamente al tempo stesso il contrattacco dell'avversario, come in un'avvincente partita a scacchi, dove però non c'è nessun vero vincitore. O meglio, vince chi bara, chi riesce a camuffare la propria identità fino all'ultimo istante; vincono i sotterfugi, le menzogne, le ragnatele d'una politica malvagia. Alla schermata finale è consegnato il messaggio del film, messaggio indimenticabile per la sua maledetta, cruda verità: "La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi" (Solone)
Quando si è fuori dal coro, si han contro tutti…
Da destra. Film su Moro con polemica, scrive il 9 maggio 2013 “La Repubblica”. Esce oggi in 200 sale Piazza delle Cinque Lune, il film di Renzo Martinelli sul caso Moro, a 25 anni esatti di distanza dal ritrovamento del cadavere dello statista ucciso dalle Br, dentro un'automobile parcheggiata a due passi dalle sedi del Pci e della Dc. Interpretato da Donald Sutherland, Giancarlo Giannini e Stefania Rocca, il film ha ricevuto la "benedizione" della famiglia Moro ed è stato realizzato con la consulenza dell'ex senatore Sergio Flamigni, che all' argomento ha dedicato per anni approfondite inchieste. «Questa non è la verità ma si avvicina molto alla verità» dice il regista, riferendosi ai molti lati ancora oscuri del caso Moro. E, insieme ai coautori del film, si aspetta polemiche. Che non tardano ad arrivare: un deputato di An, Enzo Fragalà, chiede al ministro Urbani di «verificare la congruità e i requisiti del progetto finanziato con i soldi pubblici dell'Istituto Luce», sostenendo che «da sinistra si è fatta una nuova indecente azione di disinformazione con i soldi pubblici». Allarga le braccia Flamigni: «Quando si dice la verità la querela bisogna aspettarsela. Polemico, d' altronde, lo stesso Martinelli, che se la prende con Bruno Vespa: «Mi chiedo come mai non ospiti a Porta a porta questo Piazza delle cinque lune. Vespa ha detto che è un argomento che non fa audience, ma mi chiedo: di cosa ha paura?». Pronta la replica di Vespa, che afferma di non aver mai detto niente del genere, e che Porta a porta ha dedicato una puntata al caso Moro l'11 marzo, vigilia del 25esimo anniversario della strage di via Fani.
Da sinistra. "Piazza delle Cinque Lune", scrive Renzo Martinelli il 12 maggio 2003 Fulvio Baglivi su "Sentieri selvaggi". Si può vivere senza Rossellini. Il cinema italiano lo ripete da anni e Piazza delle Cinque Lune lo afferma senza esitazioni; forte dei 9 milioni incassati dal precedente film di Renzo Martinelli, Vajont, della presenza di un cast con Donald Sutherland e Giancarlo Giannini affiancati da Stefania Rocca, del suo "linguaggio moderno, accattivante, pieno di suspense e di ritmo" (Martinelli). Il titolo è il nome di una piazza romana, dove sembra che Mino Pecorelli fosse venuto a conoscenza del "Memoriale Moro", e nel film diventa la chiave d'accesso di un dischetto (contenente appunto il mai interamente ritrovato memoriale che Aldo Moro avrebbe scritto durante la sua prigionia) che un brigatista, prossimo alla morte, consegna al procuratore Saracini (Sutherland) appena andato in pensione. La verità? (permetteteci di interrogarci ancora…) proviene dai libri di Sergio Flamigni, in particolare La tela del ragno, che legge il "casomoro" in chiave antiPCI, con gli statisti democristiani (in particolare Andreotti, capo del governo e il ministro degli interni Cossiga) a coprire una manovra di CIA, P2 e SISDE con le BR di Mario Moretti semplice braccio armato al servizio dello spionaggio internazionale (questa parte nel film è spiegata con il cameo di F. Murray Abraham, chiamato Entità, con cui Saracini si incontra a Parigi). Il fine del film è dire tutto questo e per due volte i protagonisti si ritrovano intorno ad un tavolo a snocciolare dati e date. Intorno al "messaggio" Martinelli e il cosceneggiatore Campus costruiscono un giallo-spy-thriller d'ambientazione senese, con il procuratore Saracini affiancato dalla giovane collaboratrice Doni (Rocca) e dal capo della scorta Branco (Giannini), che indaga a partire da un Super8 con le immagini del rapimento di Moro in via Fani consegnatogli da un ex-brigatista ammalato di tumore. Intorno ai tre protagonisti, che incarnano l'uomo che non si arrende all'età (trascurando i consigli della figlia) pur di fare luce sui fatti, la donna in carriera che sacrifica la sua famiglia (nonostante i litigi col marito) sull'altare del vero e della patria a cui Branco è asservito, vi sono le figure del brigatista e del "potere" che agiscono in direzioni opposte e di cui vediamo i volti soltanto alla fine. Schema applicato alla lettera, Hollywood è il riferimento di Martinelli che "omaggia" il "giallo" JFK di Oliver Stone, la saga 007 e l'ultimo thriller di Fincher Panic Room con la mdp che attraversa i corpi (tutto con il digitale) dimostrando quanto sia irrisorio il Caso Moro nella colonizzazione statunitense. Piazza delle Cinque Lune è il rovesciamento di pensiero e opere di Rossellini, qui la verità non è qualcosa da ricercare attraverso la forma, è già data all'inizio (la frase di Solone La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi) e il film ne è una spiegazione (che finisce appunto con l'immagine della ragnatela). Martinelli continua a credere che falso su vero è uguale a vero (come già in Porzus e Vajont), con tecnica pubblicitaria (e la macchina che corre nella campagna senese svela le sue origini) sa qual è il prodotto a cui vuole arrivare e ci costruisce intorno improbabili fiction, svilendo il cinema a mero linguaggio/mezzo con cui giocare a piacimento. Finché resterà questo lo Stato del cinema italiano noi continueremo a stare con le Brigate Rosse(llini).
Aldo Moro nel labirinto di fantasmi. Un volume curato da Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santelena per DeriveApprodi percorre la parabola delle Brigate Rosse, scrive su “Il Manifesto" Andrea Colombo il 16 marzo 2017. Il tempo non è stato galantuomo. A 39 anni di distanza dall’agguato di via Fani e dal sequestro di Aldo Moro la verità, invece di avvicinarsi, si è allontanata, almeno agli occhi dell’opinione diffusa. La verità sul caso Moro è affondata in una palude di coincidenze spacciate per prove, di sospetti sconfinanti nei territori della psicopatologia, di dicerie elevate a fatti. La vittoria di quella che uno dei più brutti neologismi in circolazione ha battezzato «dietrologia» non consiste tanto nell’aver affermato la sua confusa e sgusciante «verità» quanto nell’aver imposto il proprio terreno di confronto: quello in cui ci si deve misurare sempre su voci e ipotesi fantasmagoriche, sino a che dalla storia dell’organizzazione politica Brigate rosse, del sequestro del leader politico Aldo Moro e del braccio di ferro proseguito per 55 giorni con l’intero establishment politico italiano vengono espunti proprio i due elementi fondamentali, la storia e la politica, sostituititi da una frenetica caccia al mistero. Almeno per quanto riguarda il versante storico un passo avanti decisivo è segnato dalla pubblicazione di Brigate rosse, (DeriveApprodi, pp. 550, euro 28), di Marco Clementi, Paolo Persichetti ed Elisa Santelena. È il primo volume di una storia delle Br tracciata con gli strumenti propri della ricerca storica. Ne dovrebbero seguire altri due, forse con l’apporto di nuovi o diversi autori, anche se non è escluso che il progetto si riduca solo a un secondo volume. Clementi, da questo punto di vista, è un pioniere. È stato il primo, nel libro del 2001 La pazzia di Aldo Moro, a cimentarsi da un punto di vista rigorosamente storico con gli scritti di Moro dal carcere del popolo, poi con la Storia delle Brigate rosse, del 2007. Nei dieci anni trascorsi dall’uscita di quel libro, però, si sono aperte molte nuove fonti per la ricerca storica, e i tre autori le hanno esplorate tutte con incredibile minuzia. Pur trattandosi di un libro sulle Br e non sul caso Moro, l’operazione Fritz, come fu definita in codice dai brigatisti stessi, occupa ben 411 pagine su 550. È una scelta editoriale che veicola un preciso taglio storico: una costruzione del genere, infatti, mette in prospettiva l’intero percorso delle Br sino a quel momento come progressivo avvicinamento al culmine, rappresentato appunto dalla loro azione più clamorosa. Inevitabilmente i tre autori sono costretti a confrontarsi con la ricostruzione della verità storica, sfatando molte leggende: dalla insufficiente protezione assicurata dallo Stato al presidente della Dc, alle minacce di cui sarebbe stato oggetto sin dal 1975; dalle diverse versioni offerte dal presunto «super-testimone» Marini alla ormai leggendaria Honda di via Fani. Ma la parte più interessante riguarda la politica, sia nel senso di esplorare le motivazioni politiche che muovevano le Br sia in quello di esaminare dallo stesso punto di vista le scelte dello Stato e dei partiti. La politica, ancora più della Storia, è la grande rimozione nel dibattito pluridecennale sul caso Moro. Da questo punto di vista la «dietrologia» è la prosecuzione con altri mezzi di quella che all’epoca fu definita «linea della fermezza». Quella linea non significava affatto rifiuto di trattare. Lo Stato era pronto a trattare, però come si faceva d’abitudine con i banditi comuni: senza dirlo e offrendo in cambio della vita dell’ostaggio soldi. Nel caso specifico moltissimi soldi. Fermezza voleva dire negare l’identità politica e non criminale delle Br. Le fantasie che impazzano da decenni sul caso Moro fanno lo stesso, trascinando tutto sul terreno di un complotto oscuro, nel quale le Br fanno più o meno la figura dei burattini. Proprio la scelta di negare quella identità politica portò come conseguenza inevitabile, almeno nel solco dell’analisi brigatista, all’uccisione dell’ostaggio. Il riconoscimento di quella identità, secondo gli autori, avrebbe avuto conseguenze enormi. Tanto, si direbbe, da giustificarne in pieno il rifiuto da parte dello Stato. Sia il sequestro che la scelta di uccidere Moro furono decisioni dettate da un’analisi politica che non si può liquidare come «delirante», secondo l’aggettivo più in voga all’epoca. L’analisi della fase del capitalismo contenuta nelle Risoluzioni strategiche del 1975 e del 1978 risulta in effetti tutt’altro che delirante, mentre certamente superficiale è il ruolo che le Br assegnavano alla Dc all’interno di quel processo globale. Si può discutere su alcune delle analisi elaborate dagli autori, come il carattere deflagrante del riconoscimento politico. Ma fino a che la ricostruzione storica e politica non si snoderà sul terreno posto con questo libro, un momento essenziale della storia repubblicana resterà ridotto a un labirinto di fantasmi.
Aldo Moro, una contro-inchiesta rivela nuovi elementi, scrive Angela Mauro, Giornalista politica, su "L'Huffington Post" il 16/03/2017. I postini delle Brigate Rosse durante i 55 giorni del sequestro Moro erano tre e non due: Bruno Seghetti, Valerio Morucci e Adriana Faranda. L'agguato in via Fani, di cui oggi ricorre il 39esimo anniversario, costò circa 700mila lire, e furono impiegati in totale 10 mezzi. Soprattutto la 127 bianca, parcheggiata da Morucci e Franco Bonisoli all'alba di quel 16 marzo dietro al mercato di via Trionfale, ebbe un ruolo strategico: i brigatisti la usarono come deposito temporaneo per le armi lunghe. E ancora: fu nella base di via Chiabrera e non in via Gradoli che i brigatisti tennero la riunione decisiva, quella dell'8 maggio 1978, che decretò la morte di Aldo Moro. Sono solo alcuni dei particolari ricostruiti nel libro 'Brigate rosse - Dalle fabbriche alla 'campagna di primavera' (Derive Approdi), scritto dagli storici Marco Clementi ed Elisa Santalena e da Paolo Persichetti, ricercatore indipendente che aderì alle Br-Unione dei comunisti combattenti, per questo estradato dalla Francia, arrestato, ha scontato la pena. Il libro è il risultato di un lungo lavoro di ricerca nell'Archivio di Stato, dove per effetto della direttiva Prodi (2008) e della direttiva Renzi (2014) è stata trasmessa tutta la documentazione degli apparati di sicurezza sui tragici eventi che hanno segnato la storia della Repubblica dal 1969 al 1984, dalla strage di piazza Fontana alla strage del rapido 904 nel 1984, passando per il sequestro Moro, oggetto particolare della direttiva Prodi. E in più nel testo ci sono le testimonianze inedite di alcuni ex brigatisti. E così a 39 anni di distanza dai fatti, una nuova pubblicazione sul sequestro e l'assassinio del presidente della Dc aggiunge altri elementi alla storia. La particolarità è che va a confutare molte delle tesi cui è giunta di recente la commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro presieduta dal deputato del Pd Giuseppe Fioroni. Per esempio, secondo la ricerca di Clementi, Santalena e Persichetti, non è vero che le armi usate in via Fani furono custodite in un garage in via Licinio Calvo. Invece erano in un borsone nella 127 bianca parcheggiata dietro il mercato da Morucci e Bonisoli e furono recuperate alcune ore più tardi da Barbara Balzerani e Seghetti che per trasportarle le misero in un carrello della spesa, nascoste sotto ortaggi appena acquistati. E poi c'è il particolare dell'auto parcheggiata dai brigatisti la sera dell'8 maggio in via Caetani, per bloccare il posto dove poi fu invece lasciata la Renault 4 con il cadavere di Moro. C'è la ricostruzione del percorso compiuto dalla Renault 4, la descrizione del piano di emergenza della polizia messo in atto dopo il ritrovamento del corpo di Moro: triplo anello concentrico a chiudere la capitale. Ci sono le domande sulle carte del Nucleo speciale del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Stando alla documentazione consegnata dall'Arma dei Carabinieri all'Archivio di Stato, il generale ha coordinato un'attività di indagine sul sequestro Moro molto approfondita. Risultano "16.161 fascicoli e 19.780 schede personali che però oggi non risultano consultabili (potrebbero anche essere andati distrutti"), concludono i tre autori. Nel libro c'è il racconto dei luoghi che servirono da base alle Br. Per esempio, il libro confuta la tesi giudiziaria secondo cui la base centrale dei brigatisti durante il sequestro Moro su quella di via Gradoli 96. Invece, sostengono gli autori, si trovava in via Chiabrera 74 e fu usata per le riunioni decisive, come quella della sera dell'8 maggio 1978 che decretò la morte di Moro e le modalità di trasporto del corpo in via Caetani. La cornice storica, il Vaticano e il Pci, l'Italia degli anni di Piombo e una tesi che scorre nel libro dall'inizio alla fine. E cioè che il sequestro Moro fu l'epilogo di una campagna messa in atto dalle Br dagli inizi degli anni '70: dalle fabbriche al sequestro del presidente della Dc. Un'inchiesta indipendente destinata a far discutere.
Il golpe di Via Fani svela le sue ombre, scrive Gino Gullace Raugei su "Oggi.it" il 7 maggio 2010. Si è sempre creduto che il nodo inestricabile dei mille misteri che hanno caratterizzato una delle vicende più oscure d’Italia fosse nei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro. Invece, la chiave del giallo è nei poco più di 55 secondi che si impiegano per percorrere 400 metri di alcune anonime strade di Roma: chi ha avuto interesse ad eliminare dalla scena il presidente della Democrazia cristiana che con la forza delle sue idee turbava pesantemente i delicati equilibri politico-militari dell’Alleanza atlantica e la logica del mondo diviso in due blocchi, proprio qui lascia la sua firma. E le Brigate rosse? Non furono che uno strumento, più o meno inconsapevole, di una inquietante trama molto più grande di loro? La nostra è stata un’inchiesta lunga, faticosa e difficile. Alla fine, siamo riusciti a ricomporre secondo un rigido ordine logico tutte le tessere del puzzle. Ecco che cosa abbiamo scoperto.
LA MATTINA DELL’AGGUATO. Giovedì, 16 marzo 1978, è una mattina di cielo plumbeo e aria frizzantina: la dolce primavera romana si fa attendere. La Fiat 130 blu ministeriale di Aldo Moro e l’Alfetta bianca di scorta spuntano invece puntuali, alle 9.01, da un largo curvone di Via Trionfale, nel quartiere di Monte Mario. Il presidente della Dc, che abita lì vicino, e i cinque uomini della sua scorta (il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, le guardie di Pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera e il brigadiere Francesco Zizzi) sono diretti alla Camera dei deputati dove quel giorno si vota per la nascita della controversa creatura politica di cui lo statista pugliese è il padre storico: il governo Andreotti IV, un monocolore Dc con l’appoggio esterno - per la prima volta nella storia della Repubblica - del Partito comunista. «Via Trionfale», come si legge sul quotidiano Il Tempo, in un articolo del 17 marzo 1978, «è il percorso più diretto verso il centro dell’Urbe». Eppure, Moro e la sua scorta rallentano all’improvviso e svoltano a sinistra, sulla stretta Via Mario Fani, correndo ignari all’appuntamento con la morte. «Infinite volte, mi sono chiesta come potevano essere le Brigate rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora, in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato da Via Fani», dichiarò la signora Eleonora Chiavarelli, vedova dello statista, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage della scorta, sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, nell’udienza del 1° agosto 1980. Un dubbio atroce che, tra indagini lacunose, reticenti, frammentarie o, addirittura, inesistenti, non ha avuto mai una risposta. Eppure in quel chilometro scarso che separa Via del Forte Trionfale 79 (dove al tempo abitava la famiglia Moro) e l’incrocio di Via Trionfale con Via Fani c’è qualcosa di non trascurabile importanza che proprio non torna. In quei mille passi, come direbbe un giallista, c’è probabilmente la traccia decisiva per identificare i complici di quel gravissimo delitto. E, attraverso di loro, identificare probabilmente il mandante. Tra le quattro o cinque alternative di itinerario possibile, qualcuno insospettabile indirizzò Aldo Moro sul percorso meno conveniente, ma fatale. Senza il concorso di questo qualcuno l’agguato delle Brigate rosse non avrebbe probabilmente mai avuto luogo.
BASTAVA PEDINARLO? Dal punto di vista della verità ufficiale, cioè giudiziaria, le deposizioni fondamentali per ricostruire le dinamiche del clamoroso agguato brigatista furono rilasciate tra il 13 e il 26 settembre 1978 dai cinque agenti superstiti della scorta di Moro (che il giorno della strage erano di riposo o in licenza) interrogati uno per volta dai giudici istruttori Ferdinando Imposimato e Achille Gallucci. «Ogni mattina il presidente Moro si recava sempre alla messa delle ore 9 nella chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici», dicono, parola più, parola meno, l’appuntato dei carabinieri Otello Riccioni, il maresciallo di Pubblica sicurezza Ferdinando Pallante, il brigadiere Rocco Gentiluomo e gli agenti Vincenzo Lamberti e Rinaldo Pampana. «Il percorso seguito era sempre lo stesso, il più breve e il più veloce: via del Forte Trionfale, via Trionfale, via Fani, via Stresa, via della Camilluccia fino a piazza dei Giuochi delfici». L’agente Pampana, nella sua deposizione, aggiunge un particolare molto preciso: «L’onorevole Moro usciva, costantemente, salvo rare eccezioni, intorno alle ore 9. Era precisissimo nell’orario, nel senso che poteva anticipare o posticipare l’ora di uno o due minuti». Stando così le cose, tutto sembra sufficientemente chiaro: alle Brigate rosse - come racconteranno in seguito i vari Moretti, Morucci, Faranda e compagnia - è bastato pedinare neanche troppo a lungo Moro e la scorta per avere una precisa contezza delle loro abitudini e quindi per scegliere il punto più adatto dove posizionare la trappola mortale.
LA VERSIONE DI ELEONORA. Eppure, il 23 settembre 1978, la signora Eleonora Moro, interrogata dal giudice istruttore Achille Gallucci, smentisce clamorosamente le deposizioni dei primi tre agenti (Gentiluomo, Pallante e Riccioni, ascoltati il 16 settembre). «Non posso affermare», dice la signora Eleonora, «che mio marito sia stato un abitudinario. Per quanto attiene all’orario di uscita del mattino, non è esatto quanto affermato dai superstiti della scorta. Essi, come la Signoria vostra mi precisa, sostengono che l’onorevole Moro era solito uscire di casa verso le ore 9. Invece, particolarmente negli ultimi tempi, a causa della crisi di governo, egli non aveva mai un orario fisso di uscita poiché bastava una telefonata per fargli cambiare il programma della giornata. Era solito andare a messa tutti i giorni, anche nel pomeriggio, a seconda dei suoi impegni. Egli, fra l’altro, cambiava spesso le chiese, frequentando quella di Santa Chiara, a Piazza dei Giuochi delfici, ma anche quella di San Francesco, sulla Via Trionfale, oppure quella del Gesù, in viale Regina Margherita ed altre ancora. «Faccio altresì presente», aggiunge la vedova di Moro, «che mio marito non faceva di solito la stessa strada e ciò per motivi di sicurezza. Ritengo di dover affermare che il percorso veniva deciso al momento da mio marito e dal maresciallo Leonardi, il caposcorta. La sua auto percorreva alle volte Via Cortina d’Ampezzo, alle volte Via Fani, alle volte Via Trionfale». Malgrado gli altri due agenti superstiti della scorta, Pampana e Lamberti, vengano convocati dallo stesso Giudice Gallucci tre giorni dopo la signora Moro, non vi è traccia nei verbali dei loro interrogatori di alcun contraddittorio mirato a far luce su testimonianze tanto divergenti.
“PARTICOLARI” TRASCURATI. A 32 anni di distanza dal fatto ci rechiamo dall’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato con i verbali di quegli interrogatori che lui stesso contribuì a raccogliere. «Non c’è dubbio», dice Imposimato, scorrendo le carte, «che le deposizioni fotocopia degli agenti sembrano concordate. Qualcuno, evidentemente, gli avrà ordinato di dire quelle cose. Perché non ce ne siamo accorti subito? Perché in violazione del codice di procedura penale del tempo, gli atti del rapimento Moro non furono trasmessi all’ufficio del giudice istruttore entro 40 giorni dal fatto, ma ben 64 giorni dopo, esattamente il 19 maggio. A quella data Moro era già stato ucciso e l’obiettivo era assicurare alla giustizia i brigatisti colpevoli. Un particolare come quello degli orari e dei percorsi della scorta è sembrato minore».
PARLA LA FIGLIA. Sempre a proposito degli orari e degli itinerari seguiti da Moro e la sua scorta, ecco ciò che dichiarò sua figlia Agnese ai giudici della corte d’Assise di Roma che stavano processando i brigatisti assassini nell’udienza del 20 luglio 1982: «Vorrei sottolineare che mio padre non faceva sempre gli stessi percorsi, che Via Fani non era che una delle strade che potevano essere percorse la mattina come nel corso della giornata, anche perché è una strada stretta, disagevole, spesso trafficata. I percorsi si cambiavano spesso perché c’erano delle preoccupazioni da parte di mio padre, inerenti al suo ruolo politico, preoccupazione per sé e per i familiari». «Vorrei sapere dalla teste se sa chi decideva il cambio dei percorsi nel trasferimento del padre dall’abitazione nei vari posti dove doveva recarsi», chiede l’avvocato Enzo Ciardulli, dell’Avvocatura di Stato. «Io ho sentito abbastanza frequentemente non delle discussioni in senso polemico, ma delle conversazioni fra Ricci e Leonardi al momento di uscire di casa sul percorso da scegliere. A volte mi è capitato anche di sentir dire: mi hanno detto che lì c’è traffico, passiamo da un’altra parte. I percorsi credo che poi venissero stabiliti anche a seconda del ritardo in cui era mio padre per arrivare a destinazione, cioè anche alla messa della mattina: spesso non ci andava più perché magari era in ritardo, cosa che gli capitava in maniera frequentissima. Quindi, voglio dire che c’era anche questa variabile di quello che poi succedeva realmente la mattina, cioè quale era l’orario effettivo di uscita di casa di mio padre». «Poteva capitare», chiede il presidente della giuria, «che il percorso da fare la mattina veniva stabilito la sera precedente?». «Non credo proprio», dice Agnese. «Mi pare veramente impossibile anche perché mio padre era un tipo veramente ritardatario, quindi, magari, usciva con tre quarti d’ora di ritardo rispetto all’orario previsto e magari avevano deciso di andare prima in un posto eppoi non ci potevano più andare perché l’orario era passato. Sono sicura che i percorsi venivano stabiliti la mattina stessa». «Quindi il percorso di Via Fani la mattina del 16 marzo venne stabilito casualmente quella mattina stessa?», chiede l’avvocato Ciardulli. «Credo proprio di sì», risponde Agnese Moro. «Questa Via Fani era uno dei percorsi che si facevano?», domanda il presidente. «Sì, ma ce n’erano parecchi», precisa Agnese Moro. «Altre volte era passato da Via Fani suo padre?», dice il presidente. «Sì», spiega Agnese Moro, «però non è che il percorso di Via Fani corrispondeva all’andare, poniamo, sempre per fare un esempio concreto, alla Chiesa di Santa Chiara perché per andare in Piazza dei Giuochi delfici passava indifferentemente da lì oppure da via Cortina d’Ampezzo. Questo per rendere l’idea, non è che per andare in un posto abituale c’era sempre quella strada. Anche per andare in un posto abituale ci potevano essere vari percorsi».
CAMBI DI PERCORSO. «Nelle settimane precedenti l’agguato di Via Fani mio padre era preoccupato per il continuo cambio dei percorsi per raggiungere le varie destinazioni di Moro», ci dice oggi Giovanni Ricci, figlio dell’appuntato Domenico Ricci, autista della Fiat 130 dello statista pugliese. «“Devo guidare a velocità elevata perché il presidente è sempre in ritardo”, spiegava papà, “e siccome transitiamo a volte per strade che non conosco, finirò prima o poi per fare un incidente».
LA NOSTRA PROVA COL GPS. A titolo puramente indicativo abbiamo sottoposto gli itinerari del presidente Moro alla prova del Gps o navigatore satellitare, uno strumento di precisione che allora non esisteva e che oggi serve per determinare la strada più breve e veloce che conviene fare per andare in un certo posto. Parcheggiamo dunque la nostra auto davanti al numero 79 di Via del Forte Trionfale, dove abitava lo statista, e chiediamo al Gps di guidarci verso Piazza dei Giuochi delfici. Lo strumento dice di proseguire per Via Cortina d’Ampezzo, svoltare a destra su via Cassia e poi andare diritti fino alla piazza. In totale sono 4 chilometri che percorriamo in 5 minuti e 42 secondi. Torniamo a Via del Forte Trionfale, 79, e raggiungiamo Piazza dei Giuochi delfici passando stavolta per Via Trionfale, Via Mario Fani, Via Stresa, Via della Camilluccia. L’incrocio tra Via del Forte Trionfale e Via Trionfale non è oggi transitabile nella direzione che ci interessa poiché sono intervenuti dei notevoli lavori di modifica della planimetria viaria che allungano il percorso di circa un chilometro. Sottraendo questa distanza e il tempo che impieghiamo a percorrerla dal dato finale si ottiene che passando per quelle strade si arriva a Piazza dei Giuchi delfici dopo 5 chilometri e 500 metri e quasi 9 minuti a causa delle numerose svolte e incroci con stop. A titolo puramente indicativo, come dicevamo, possiamo affermare che il percorso per Piazza dei Giochi delfici passando per Via Fani, oggi, come allora, non è il più breve né il più veloce.
IL DOCUMENTO SCOMPARSO. Per tagliare la testa al toro, come si suol dire, servirebbe un documento inoppugnabile: il diario della sala operativa del Viminale, relativo al giorno 16 marzo 1978 e precedenti, dove venivano annotati tutti i contatti radio con le auto di scorta e quindi tutti gli orari e tutti i percorsi. A quanto dichiara il dottor Guido Zecca, dirigente dell’ispettorato generale (l’ufficio responsabile dei servizi di scorta) presso il Viminale alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, nella seduta del 7 novembre 1980, «tutti i movimenti venivano sempre controllati dalla nostra sala operativa che segnava su un brogliaccio tutti gli spostamenti. Gli agenti di scorta dicevano: siamo partiti, siamo arrivati in questo punto, siamo qui fermi». Peccato però che questo fondamentale documento sembra misteriosamente scomparso: «Lo abbiamo chiesto ripetutamente», ricorda il senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, «ma non ci è stato mai trasmesso».
IL FIORAIO AMBULANTE. Per saperne di più, non resta che tentare di rintracciare alcuni testimoni, peraltro mai prima d’oggi interrogati. Il primo è Antonio Spiriticchio, il famoso fioraio ambulante di via Fani a cui, nella notte tra il 15 e il 16 marzo 1978, furono squarciate le gomme del furgone per impedirgli di trovarsi, al momento dell’agguato, proprio nel punto cruciale: in prossimità dello stop all’incrocio con Via Stresa. «Quella mattina dovevo recarmi al mercato generale per rifornirmi di fiori e piante», ricorda Spiriticchio, che oggi ha 82 anni, «perciò uscii di casa verso le 6.30. Quando vidi tutt’e quattro le gomme del mio Transit a terra pensai all’atto vandalico di qualche teppista. La mia prima preoccupazione fu quella di andare comunque al lavoro, rimettendo il furgone in condizioni di circolare: nel cassone, infatti, c’erano molti fiori invenduti il giorno precedente che si sarebbero rapidamente deteriorati aggiungendo danno al danno. Perciò mi detti da fare con un amico gommista che venne a sostituirmi nel più breve tempo possibile le quattro ruote. Ero quasi arrivato a Via Fani, quando la radio dette la notizia dell’agguato». Spiriticchio ricorda Aldo Moro in Via Fani come una presenza abbastanza familiare. «Qualche volta passava in auto col solo Leonardi», dice, «qualche volte scendeva addirittura a piedi con la moglie che si fermava a comprare dei fiori». Ricorda, chiediamo, se Moro e la scorta passavano ogni giorno da Via Fani, più o meno alla stessa ora, verso le 9 del mattino? «No, su questo non ci potrei proprio giurare», risponde Spiriticchio. «Passava spesso, ma non sempre. Dopo l’agguato delle Br mi hanno interrogato un mucchio di volte, ma una domanda del genere non me l’hanno mai fatta».
GLI ALTRI TESTIMONI. I signori Ferrando e Santina, che avevano una rivendita di frutta e verdura sul tratto iniziale di Via Fani, confermano i ricordi del signor Spiriticchio. «Il presidente Moro e la sua scorta passavano frequentemente, ma non possiamo mettere la mano sul fuoco che passassero sempre e alla stessa ora», spiegano. «Quando il presidente passava, io ero intento a sistemare la merce in vetrina», racconta Bruno Marocchini, titolare di una gioielleria. «Me lo ricordo ancora, sul sedile posteriore della Fiat 130, intento a sfogliare i giornali. Passava sempre da Via Fani? Diciamo che passava spesso, ma se non passava non è che mi mettevo a piangere!».
IL PARROCO ATTUALE. A questo punto ci rechiamo alla Chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici, dove incontriamo don Giuseppe, uno dei parroci attuali. «Sto qui da appena sei anni e non sono dunque un testimone diretto dei fatti che vi interessano», premette. «Però sono molto legato alla figura di Aldo Moro perché anche io sono pugliese, di Castellaneta». Don Giuseppe ricorda il bailamme che turbò i ritmi parrochiali quando, circa tre anni fa, la chiesa fu invasa dalla troupe cinematografica che girava la fiction di Canale 5 Aldo Moro, il presidente con Michele Placido nei panni dello statista. «I parrocchiani, specie i più anziani, erano un po’ infastiditi e ricordavano che Aldo Moro, in fondo, frequentava abbastanza saltuariamente la nostra chiesa. Comunque, per saperne di più, dovete cercare il parroco di allora, Gianni Todescato».
IL PARROCO DI ALLORA. Don Gianni, attuale rettore della chiesa di Sant’Agnese a Piazza Navona è un anziano parroco vicentino, molto disponibile e cortese. Infatti accetta volentieri di riceverci. «Sono stato parroco di Santa Chiara per quarantuno anni», dice, «e certo non posso dimenticarmi di Aldo Moro. Proprio il 15 marzo, il giorno prima di essere rapito, gli detti io il sacramento della comunione. Quella mattina, certo prima delle 9, orario di inizio della messa, venne il maresciallo Leonardi a chiedermi la cortesia di somministrare in privato l’eucarestia al presidente che, dovendo tenere di lì a breve un importante discorso, non aveva tempo di assistere alla funzione religiosa». Don Gianni ricorda l’assidua presenza di Aldo Moro anche se ammette: «In tutti gli anni che è venuto alla mia chiesa non abbiamo mai stabilito un rapporto particolare. Riservato sono io e riservatissimo era lui». Gli chiediamo se si ricorda come si disponeva la scorta del presidente fuori dalla chiesa. «Me lo ricordo benissimo: due agenti lo accompagnavano dentro e gli altri tre aspettavano con le auto fuori. Parcheggiavano proprio davanti all’ingresso. Alcune volte arrivavano da Via della Camilluccia; altre volte venivano invece da Via Cortina d’Ampezzo». Ne è sicuro, padre? «Assolutamente: alcune volte venivano da sopra, da Via della Camilluccia; altre volte venivano da sotto, dalla parte di Via Cassia su cui sbocca Via Cortina d’Ampezzo. «Io non sono stato mai interrogato dagli inquirenti», dice don Gianni. «Altrimenti gli avrei detto che per circa due anni, tutte le volte che Moro entrava in chiesa, appariva un giovane sconosciuto in fondo al sagrato. Dopo il rapimento del presidente, quel giovane non si fece più vedere. Secondo me, era un brigatista». Gino Gullace Raugei
Caso Moro, ex poliziotto: “Il giorno dell’agguato in via Fani furono sospesi i controlli di bonifica nelle strade vicine”. Ascoltato in Commissione l’ex agente di Pubblica Sicurezza Adelmo Saba. Senatore Federico Fornaro: "Per la prima volta abbiamo appreso che esisteva questa prassi e che sicuramente quel giorno non fu garantita", scrive Stefania Limiti il 9 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Sedici marzo 1978: in via Mario Fani nessuna delle auto civetta del commissariato di zona svolge le consuete operazioni di ‘bonifica’ del territorio. Il servizio di controllo, che precede il passaggio di personalità importanti, viene misteriosamente sospeso. Lo ha detto davanti alla commissione d’inchiesta sul caso Moro l’ex agente di Pubblica Sicurezza Adelmo Saba che quella mattina si trova inaspettatamente libero perché il suo capo, Enrico Marinelli, ha deciso, senza avvisarlo, di metterlo in ferie forzate. L’audizione di Saba rompe la serie dei non ricordo ascoltata troppo spesso nelle recenti audizioni e riporta al centro dell’interesse della Commissione il tema piuttosto insidioso delle strane circostanze che precedono l’assalto del commando brigatista – come quello del capo della Digos Spinella che arrivò troppo presto in via Fani (leggi). “Dopo la testimonianza di Saba senz’altro aumentano le coincidenze”, ha detto il senatore Federico Fornaro che, per niente distratto dalla sua ormai nota passione e competenza per i dati elettorali, coglie la novità dell’audizione: “Oggi per la prima volta abbiamo appreso che esisteva un servizio di bonifica, una prassi di cui nessun documento dell’epoca parla, e che sicuramente quel giorno non fu garantito”. Saba ha poi ricordato le parole del suo collega che faceva parte della scorta di Moro: era il più esperto, molto affidabile con le armi ma quel giorno viene anche lui esentato dal servizio senza un motivo. “Mi disse che qualcuno evidentemente aveva voluto salvargli la vita”. Un altro aspetto dell’audizione – nella quale non mancano spunti di riflessione sulle incertezze e sulle fragilità delle ricostruzioni che si affidano ai ricordi lontani – riguarda il ritrovamento della Fiat 128 bianca in via Licino Calvo. Saba ha confermato che quell’auto per tutto il giorno del 16 marzo non c’era nel punto in cui lui e il suo collega Antonio Pinna la ritrovarono nella notte del 17: il rilascio delle auto usate dal commando fu dunque controllato, cioè realizzato in fasi successive.
Una modalità che richiama l’esistenza di un ‘garage compiacente’, come lo definì il giornalista Mino Pecorelli, cioè di una base brigatista proprio in prossimità dell’agguato. E, ovviamente, sempre negata dalle Br. Ultimo aspetto della testimonianza riguarda il ricordo di una enorme pozza di sangue non coagulato sul sedile anteriore a fianco del guidatore della 128 blu – nel loro rapporto Saba e Pinna fecero una descrizione meno enfatica. Le perizie fatte all’epoca dalla Scientifica rilevano genericamente schizzi di sangue: a chi apparteneva? Certamente non ad Aldo Moro – l’autopsia lo esclude – e le Br non hanno mai parlato del ferimento di uno dei loro. Vedremo se gli esperti guidati da Giuseppe Fioroni riusciranno a trovare risposte a questi pesantissimi interrogativi.
Quel 16 marzo Moro e la sua scorta non dovevano passare per via Fani, scrive Martedì, 4 maggio 2010 "Affari Italiani". “Ogni giorno Aldo Moro usciva puntualmente di casa alle nove di mattina e si recava sempre alla chiesa di Santa Chiara, in Piazza dei Giuochi delfici, transitando con la scorta sempre sullo stesso percorso: Via del Forte Trionfale, Via Trionfale, Via Fani, Via Stresa, Via della Camilluccia fino alla chiesa”, dichiararono ai magistrati i cinque agenti superstiti (che quel giorno erano in ferie o in turno di riposo) della scorta del presidente della Democrazia cristiana. Otello Riccioni, Ferdinando Pallante, Rocco Gentiluomo, Vincenzo Lamberti o Rinaldo Pampana. “No, Aldo Moro non usciva mai di casa allo stesso orario, era solito frequentare chiese diverse e cambiava continuamente gli itinerari per motivi di sicurezza”, dichiararono invece i parenti dello statista rapito e poi ucciso dalle Brigate rosse. A 32 anni dall'agguato di Via Fani, un'inchiesta di OGGI ricostruisce in due puntate le dinamiche degli attimi precedenti l'attacco terroristico al cuore dello Stato e svela il mistero delle deposizioni chiave che pur clamorosamente contraddittorie non furono mai chiarite né dagli inquirenti, né durante i vari processi. Alcune testimonianze inedite consentono inoltre di ipotizzare un nuovo, inquietante scenario: Aldo Moro e la sua scorta, il 16 marzo del 1978, non dovevano passare per Via Fani; eppure il commando terrorista tese proprio lì la sua complicata trappola, certo che invece sarebbero passati.
Il precedente-fotocopia nel film «Piazza delle Cinque Lune». Quanto raccontato dall’agente era già stato documentato nella pellicola di Martinelli sul rapimento dello statista Dc, scrive il 26 Marzo 2014 “Il Tempo”. Un misterioso uomo sta per morire a causa di un tumore. Non vuole portarsi nella tomba alcuni segreti, di cui è al corrente, sul rapimento di Aldo Modo e decide, prima di passare a miglior vita, di rivelare che il 16 marzo 1978, in via Fani, a bordo di una Honda, c’erano due agenti dei servizi segreti: uno era lui, seduto sul sellino posteriore della moto. Può sembrare la storia svelata, nei giorni scorsi, dall’ex ispettore di polizia Enrico Rossi, sulla base di una lettere anonima di cui è entrato in possesso nel 2011. E invece no. È la trama di Piazza delle Cinque Lune, un film del 2003 diretto da Renzo Martinelli, ispirato proprio alla vicenda del rapimento e l’omicidio dello statista democristiano da parte delle Br. Una ricostruzione fantasiosa, quella di Martinelli, priva di qualsiasi ancoraggio alla realtà, ma identica, in quel passaggio, alla versione rivelata dall’ex poliziotto. Nella lettera anonima inviata nel 2009 a La Stampa, su cui Rossi ha indagato, si legge: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte (…). Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando (…). La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo (…); il nostro compito era quello di proteggere le Br». Ed ecco, invece, il dialogo, tratto dal film di Martinelli, fra un componente del commando di via Fani, misterioso pure lui, e il giudice Rosario Saracini, interpretato da Donald Sutherland: «Ricorda la moto Honda? Quello dietro che spara con il mitra? Quei due non li avete mai trovati. Io ero seduto dietro». E quando il giudice chiede il perché di quella «confessione», dopo tanti anni, l’uomo risponde: «Ho un tumore, mi hanno dato due mesi, forse meno. Non voglio portarmi la verità nella tomba. Sono state dette così tante bugie». Sia nel film che nella lettera, lo 007 è seduto sul sellino posteriore; la malattia terminale è alla base della «lettera confessione» che ha scatenato nuove teorie sul rapimento Moro, e della «confessione verbale» rilasciata, nel film, al giudice Saracini. C’è dell’altro. In Piazza delle Cinque Lune al giudice viene consegnata una pellicola inedita con impressi i momenti drammatici del rapimento del presidente della Dc. Nel filmato compare un uomo con un impermeabile: è Camillo Guglielmi, il colonnello del Sismi che nella realtà, la mattina del 16 marzo 1978, si trovava in via Stresa, nei pressi di via Fani. Ed è lo stesso Guglielmi citato nella lettera che ha dato il via all’ennesimo mistero sul caso Moro. Un’incredibile similitudine tra fiction e «presunta» realtà.
Caso Moro: via Fani, quello che già sapevamo, scrive Rita Di Giovacchino, Giornalista e scrittrice, il 24 marzo 2014 su "Il Fatto Quotidiano". Sono passati quasi 36 anni dal 16 marzo 1978 e finalmente arriva la testimonianza, post mortem, di uno degli agenti del Sismi presenti in via Fani. Non per proteggere la vita di Moro (quelli sono stati uccisi), ma le Brigate rosse che, come già sapevamo, non erano in grado di gestire un’operazione militare di tale livello e pertanto andavano aiutate, anzi “protette da disturbi di qualsiasi genere”. L’obiettivo? Eliminare dalla scena politica il leader Dc favorevole al compromesso storico, ovvero al coinvolgimento del Pci a livello di governo. C’era la “guerra fredda” e l’Italia non si poteva permettere un simile strappo. Per una strana coincidenza la rivelazione arriva nei giorni in cui il film di Veltroni su Berlinguer ci fa sapere che, nonostante la linea della “fermezza” proclamata dal più amato dei segretari comunisti, il Pci cominciò a morire durante il sequestro Moro. In realtà cominciò a morire anche la Dc ma ci vollero altre 5 stragi, quelle degli anni Novanta, perché uscisse di scena. La verità è affidata a una lettera anonima, ingrediente d’obbligo in ogni spy story, di cui si occupò senza venirne a capo un ex ispettore dell’antiterrorismo, Enrico Rossi, 56 anni, che seguendo i sassolini indicati nella missiva era quasi arrivato alla soluzione del giallo quando una mano (superiore) lo ha bloccato. L’indagine è durata un anno, dal 2011 al 2012, poi l’ex ispettore è stato costretto a fermarsi e ha chiesto di essere collocato anticipatamente in pensione. Nel frattempo era riuscito a identificare i due agenti a bordo sulla misteriosa moto Honda, che entrò in azione all’incrocio tra via Fani e via Stresa: seduto sul sellino posteriore era l’autore della lettera anonima, nel frattempo morto di cancro, aveva il volto coperto dal casco e sparò una raffica di mitra contro l’ingegnere Marini, che intralciava la scena del delitto. Alla guida c’era invece un giovane dal volto scavato che assomigliava in modo impressionante a Eduardo De Filippo. L’ispettore Rossi fece a tempo a scoprire che il secondo agente del Sismi era separato dalla moglie, ma nel frattempo era prematuramente deceduto, perquisì la cantina, trovò due pistole, una Beretta e una Drulov cecoslovacca, chiese che le armi fossero periziate e cercò di rintracciare gli elenchi degli appartenenti a Gladio nel 1978. Ma gli fu impedito e le armi furono distrutte, lui capì che era meglio uscire di scena non senza informare la procura di Roma per dovere di ufficio. Tanto in 40 anni non aveva scoperto niente. C’è un passaggio significativo nella lettera che ha sollecitato il mio amor proprio: “Non credo che voi giornalisti non sappiate come andarono le cose”, scrive l’anonimo divorato dal cancro e dai rimorsi. Ha ragione, qualcosa abbiamo scoperto nel corso degli anni nonostante il giornalismo investigativo in Italia non aiuti a fare carriera. Ad esempio già sapevamo che il colonnello del Sismi Camillo Guglielmi, diretto superiore degli agenti sulla Honda, anche lui deceduto (ma è un’epidemia!), non era un passante in via Fani, come ha cercato di far credere a Santiapichi, presidente del primo processo Moro. Guglielmi addestrava truppe di sbarco e assalto a Capo Marrargiu, la base militare Nato vicina ad Alghero, dove venivano istruiti anche i capi scorta di alte personalità. In via Fani Guglielmi era nell’esercizio delle sue funzioni, dirigeva un’operazione militare. E pensare che siamo stati accusati di dietrologia, quando ci eravamo limitati a sospettare che era lì per prelevare le borse di Moro! Molto probabilmente, ma è soltanto un’ipotesi, il colonnello Guglielmi e il maresciallo Oreste Leonardi, caposcorta di Aldo Moro, si conoscevano. La sottoscritta, in un libro di qualche anno fa, sosteneva che il nodo di molti misteri di via Fani andava cercato proprio nel rapporto gerarchico tra Guglielmi e Leonardi. Se cliccate su Internet scoprirete che mi viene attribuita la tesi, cui non credo fino a prova contraria, che Moro sia stato rapito nella chiesa di Santa Chiara dove era andato a messa prima di recarsi in Parlamento per varare il governo sostenuto dal Pci. Penso però che nella chiesa di Santa Chiara qualcosa di importante sia accaduto: bisognava convincere il caposcorta a imboccare via Fani, dove erano in attesa brigatisti e altri ancora, dove erano state tagliate le ruote del Fiorino per impedire al fioraio di aprire il chiosco, dove tutto era stato predisposto. Leonardi sceglieva all’ultimo momento la strada da fare, senza comunicarlo a nessuno per motivi di sicurezza, e via Fani era soltanto uno dei tre possibili percorsi. La logica conclusione è che sia stato il colonnello Guglielmi a trarlo in inganno, magari adducendo motivi di sicurezza, era l’unico che poteva impartirgli ordini. A proposito chi ha ucciso Leonardo, Zizzi e tutti gli altri? Le Brigate rosse? No, sembra si trattasse di uno ‘ndranghetista, tal Gustino De Vuono, il legionario “De”, come scriveva Mino Pecorelli, uno che sparava come un dio e che, al centro della scena con un giubbetto azzurro e una mitraglietta Scorpio, ha esploso 84 proiettili. Gli unici che hanno colpito gli agenti, ma per averne conferma dobbiamo aspettare la prossima lettera anonima. p.s.: qualcuno di voi dirà, ma chissenefrega di una storia di mezzo secolo fa, non eravamo manco nati. Attenti, magari non lo sapete, ma quella di Moro è una ferita ancora aperta e c’è un filo che lega questa strage a quelle del 1992-93. Quasi fosse un’unica operazione, in due tempi, che ha sottratto ai cittadini italiani la possibilità di decidere sul proprio futuro.
"La nuova verità del caso Moro? Era già raccontata nel mio film". Parla il regista Renzo Martinelli che girò "Piazza delle Cinque Lune", scrive il 27 Marzo 2014 “Il Tempo”. La trama del film Piazza delle Cinque Lune «ispiratrice» delle nuove rivelazioni sul rapimento di Aldo Moro? La lettera anonima su cui ha indagato l’ex agente Enrico Rossi, che parla della presenza di due agenti dei servizi segreti in via Fani, a bordo di una Honda, è solo una «patacca» camuffata da nuova verità? Le similitudini fra il film, del 2003, e il contenuto della lettera che risale al 2009 e che è stata scritta da un misterioso 007, sono impressionanti. E se è vero che Piazza delle Cinque Lune va oltre nella fantasia, mettendo in scena delle Br infiltrate anzi comandate dalla Cia, è altrettanto vero che molti particolari presenti nel film e nella lettera, sono praticamente indistinguibili. Una coincidenza? Oppure una storia quantomeno «orientata» dal film? Ne parliamo con il regista di quel film, Renzo Martinelli.
Allora, le analogie tra il film e la lettera anonima sono impressionanti. Cos’ha pensato quando l’ha letta?
«Sono rimasto sconcertato perché confermano quanto abbiamo sostenuto dieci anni fa nel film. Solo che all’epoca tutti ci hanno ignorato. Ciò che avevano messo in scena con Piazza delle Cinque Lune trova oggi un’incredibile conferma».
L’autore della lettera dice di essere un agente segreto in fin di vita che vuole «confessare» prima di morire. Anche l’uomo che nel film consegna al giudice il filmato inedito su via Fani ha una malattia terminale. Una coincidenza?
«La nostra era un’invenzione drammaturgica. L’uomo che avvicina il magistrato era un brigatista che faceva parte del commando e che prima di morire vuole rivelare la verità sulla dinamica dell’agguato. Ora la realtà supera la fantasia. Quanto alla malattia, beh, la gente muore di tumore tutti i giorni. Probabilmente si tratta di una coincidenza».
Nel film l’uomo che confessa dice che la mattina della strage era seduto sul sellino posteriore della Honda. La stessa versione di colui che ha vergato la lettera.
«Credo sia un’altra coincidenza. D’altronde la moto aveva una funzione indispensabile per la perfetta riuscita dell’operazione».
Ancora un’altra similitudine. Lei nel film parla del ruolo del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi; l’autore della misteriosa missiva afferma di essere stato al suo servizio in via Fani. Un’altra coincidenza? Che Guglielmi fosse presente all’angolo tra via Fani e via Stresa, da dove assiste all’agguato, è un dato di fatto. Guglielmi, poi, non è un colonnello qualunque, è uno che insegna agli uomini di Gladio le tecniche d’imboscata. Dunque per lei è verosimile anche, come scritto nella lettera, che sulla moto fossero presenti due agenti dei servizi segreti italiani?
«Non è solo verosimile, è la realtà. È questa la verità. Sono assolutamente convinto che quanto scritto nella lettera sia vero».
Ritiene, quindi, che dopo tutti questi anni si stia andando verso la verità su quella tragica pagina della storia italiana?
«Nessuno conosce la verità sul caso Moro, ma sono sicuro che quell’operazione avesse delle coperture ad alto livello. Come sempre, però, col tempo si creano delle smagliature. Questa lettera può rappresentare la prima. Magari fra 30 anni scopriremo che probabilmente la nostra ricostruzione era tutta corretta».
Nel suo film, però, lei va oltre, teorizzando che dietro le Br ci fosse la Cia.
«Quando parlo della Cia come "regista" dell’agguato di via Fani è perché l’intuito mi porta là. In via Fani c’è stata una manovra d’attacco militare perfetta. Oltre ai brigatisti c’erano degli specialisti. Sì, le Br erano eterodirette».
Non pensa che l’autore della lettera possa essersi lasciato suggestionare, o addirittura guidare, dal suo film?
«Lo escludo. Credo che chi ha messo nero su bianco quelle parole è solo un uomo che ha raccontato un pezzo di verità coincidente con un altro pezzo di verità che noi avevamo già svelato».
Martinelli: "Contro tutti, al servizio della verità: vi racconto il mio cinema". Dai comunisti alla Lega "alle cantanti che fanno film": intervista di Dario Crippa senza peli sulla lingua al regista Renzo Martinelli il 26 giugno 2016 su “Il Giorno”. Era ancora un ragazzo quando uscì nelle sale Effetto notte di Truffaut. "E innamorandomi di quel film, come tanti della mia generazione, decisi che un giorno avrei voluto fare il regista". Ci è voluta però molta gavetta, anni a girare documentari, spot pubblicitari, video musicali. Ma alla fine, Renzo Martinelli da Cesano Maderno – già 10 film all’attivo - è diventato pure lui un cineasta. Massacrato spesso dalla critica, discusso, rompiscatole, ma un cineasta.
Partiamo dall’inizio.
"Nasco a Seveso il 4 ottobre 1948, ma cresco a Cesano Maderno".
Cosa faceva la sua famiglia?
"Papà era falegname, mamma faceva le pulizie, ho un fratello più piccolo".
Origini umili.
"Mi hanno insegnato a essere consapevole delle mie radici e mi hanno costretto a lavorare. Sempre. D’estate facevo il cameriere in un ristorante di Varedo, e dopo la maggiore età sono diventato istruttore di guida per pagarmi gli studi...".
Gli studi li fa a Milano.
"Tre lauree: Lingue e letterature straniere, Comunicazione sociale e Scienze politiche".
E poi?
"Ho fatto il documentarista col grande direttore della fotografia Lamberto Caimi: con lui ho imparato sul campo a fare il regista...".
Cosa significa?
"Oggi tutti fanno i registi, anche comici, cantanti, mignotte... ma in pochi conoscono la tecnica, occuparsene – curiosa eredità del Neorealismo - è considerato plebeo, quando invece pittori come Vermeeer o il Perugino impastavamo personalmente i colori: questo era essere un Maestro e questo ho sempre tentato di essere io. La mia fortuna è stata quella di andare a bottega come nel Rinascimento. Un aneddoto?".
Prego.
"Una volta sul set feci una scommessa con l’attore Harvey Keitel: avrei girato dieci primi piani diversi di lui senza muovere la macchina. Con suo grande stupore (ride) dovette darmi i 100 euro in palio!".
Vantaggi di questo modo di girare?
"Risparmi decine di migliaia di euro... i miei colleghi danno il primo ciak di pomeriggio, prima devono attendere che il set sia preparato. Io invece faccio tutto da solo e inizio alle 8 di mattina. E anche con gli attori...".
Cosa?
"Il tipico regista italiano sta sotto un tendone davanti a uno schermo a 50 metri di distanza dal set, e per ogni scena l’aiuto regista deve andare a dare istruzioni all’attore... Risultato? Perdi ogni volta in adrenalina. Se invece conosci bene la tecnica, hai un rapporto più carnale con l’attore, non ti sente distante, con spreco di energie ed emozioni continuo... insomma, quando si gira io sono in macchina, vicino al set".
Si dovrebbe fare sempre così?
"I più grandi registi, da Kubrick a Spielberg, stanno in macchina”.
Quali sono i suoi modelli?
"Oliver Stone, autore di film di grosso impegno civile e coraggio".
In Italia?
"Il cinema civile di Rosi, Petri, Damiani. In tanti dopo il ‘68 pensavamo si potesse finalmente indagare anche con i film, c’era un grosso interesse sociale...".
E invece?
"Poi però la paghi in sala. Un proverbio arabo dice che gli uomini somigliano al loro tempo più che ai loro padri. E oggi interessa solo l’immediato: io invece tento di affrontare momenti della storia di questo Paese".
Perché?
"In settant’anni di Repubblica non c’è un solo episodio che non sia rimasto un mistero, in cui la verità non sia stata manipolata, da Portella della Ginestra alla strage di Piazza Fontana o Ustica. La ragion di Stato interviene sempre pesantemente. Borges, il grande scrittore argentino, diceva: “La storia è un atto di fede”. Ecco, credo che la forza maieutica del cinema invece possa avvicinare alla verità...".
Il 27 giugno ci sarà l’anniversario di un’altra strage, quella di Ustica (1980, un aereo si squarciò in volo, 81 morti). Lei gli ha dedicato il suo ultimo film, Ustica appunto.
"Quando decido di lavorare a una storia faccio un lavoro di documentazione enorme, ho avuto la fortuna di conoscere il giudice Priore, che mi ha consegnato un dischetto con le 5mila pagine della sua sentenza. E mi resi conto che già a pagina 118 si parlava di pezzi di un caccia americano rinvenuti in mare che facevano pensare a una collisione in volo...".
Su quel disastro vennero fatte tre ipotesi: il cedimento strutturale dell’aereo, una bomba nella toilet, un missile francese che l’avrebbe colpito per errore. Lei ne avanza una quarta: un caccia americano che inseguiva un Mig libico...
"Solo dopo 8 anni si andò a cercare nel fondale, la Dc aveva fatto in modo che non lo si facesse prima, ma si scoprì che qualcuno era già andato di nascosto a recuperare i rottami".
Lei ha toccato temi scottanti: le violenze partigiane, il Vajont, il delitto Moro, il terrorismo islamico... La critica spesso però l’ha demolita.
"In Italia se non appartieni a una parrocchia, te la fanno pagare... ho subito critiche impietose e a tratti offensive".
Lei a quale parrocchia appartiene?
"A nessuna... e non voto da anni. Cerco solo di fare film che mi interessano: con Porzûs sono andato contro i comunisti, con Vajont-La diga del disonore contro la Dc... Lo storico francese Marc Bloch diceva che il giudice e lo storico hanno un dovere in comune, “l’onesta sottomissione alla verità”. Il mio dovere di cineasta, come in Ustica, era di comunicare la verità che ho scoperto".
“Regista uscito dalla pubblicità” è uno dei marchi malevoli che le hanno affibbiato.
"Anche perché col mio cinema cerco di far convivere impegno civile e spettacolarità e i critici non me lo perdonano".
Prima di approdare al cinema, è vero però che ha fatto tanta pubblicità...
"E non me ne pento: l’ho fatto per 10 anni e ho imparato il lavoro di sintesi, un’esperienza che mi ha aiutato molto a curare l’immagine e il ritmo".
E...
"Ho girato anche sigle televisive come La Notte Vola con Lorella Cuccarini e tanti video musicali, da Battiato ad Alice".
Divertente?
"(ride) I Van Halen (gruppo hard rock, ndr) prima del ciak pretesero due casse di whisky!".
Dice che non apparteneva a nessuna parrocchia, però girò Barbarossa, film fortissimamente voluto dalla Lega Nord.
"Me lo propose la Rai: mi incuriosiva fare un film d’azione con grandi scene di battaglia e accettai... tutto qui".
Non andò tanto bene.
"In Italia fui massacrato, ma è stato il film che è stato venduto di più all’estero, 60 Paesi! Lì delle nostre polemiche non interessava niente".
Fece fare una comparsa anche a Umberto Bossi.
"Compare in una scena da fermo, ma non ho mai avuto nessuna richiesta o intromissione, non mi è stato chiesto nemmeno di far recitare qualche raccomandato come accade quando c’è di messo un partito. Però...".
Però?
"La Lega fagocitò quel film e fu un danno, perché scatenò critiche feroci".
Lei insegna anche cinema. Per fare un buon film, cosa conta di più: soggetto, sceneggiatura, attori?
"Da una buona sceneggiatura può uscire un buon film, senza no... è la base di una macchina molto complessa in cui ti trovi a muovere molto denaro".
Quanto costano i suoi film?
"In media, dai 3 ai 6 milioni di euro. Ma il confronto con altri Paesi è impietoso... Solo la scena della lotta con l’orso nel recente Revenant è costata 3 milioni di dollari, la stessa cifra che mi ci è voluta per girare tutto Ustica!".
Il suo attore feticcio?
"Murray Abraham: a lui mi lega un’amicizia vera, affetto, mi invita spesso a New York a trovarlo... lavorare con lui è come guidare un purosangue, è talmente bravo che fa subito scene perfette. Con lui spesso basta un solo ciak... trovo stupido chi ne fa 200 per una scena, non puoi spremere un limone per ore".
Il film a cui è più legato?
"Vajont, esperienza umana irripetibile. Quando andai la prima volta a Longarone, la gente aveva ostilità e rancore nei miei confronti. Quando però videro l’impegno che ci mettevo, le ore passate sul set, alla mattina cominciai a trovare cesti di frutta e salami davanti a casa".
E dopo il film?
"Ebbi la folle idea di organizzare l’anteprima davanti alla diga del disastro, c’era una tensione da tagliare col coltello e migliaia di persone sedute lì davanti a vederlo. Andò bene. Oggi mi adorano e mi hanno anche dato la cittadinanza onoraria".
Progetti?
"Mi piacerebbe fare un film sulla morte di Mussolini, altro evento su cui non è mai stata fatta luce. Ho già fatto uno studio approfondito scoprendo verità molto scomode, ma l’Italia è un Paese di pavidi... e per ora non trovo nessuno che mi appoggi. Intanto conto di farne comunque un libro".
La felicità per il regista Renzo Martinelli?
"È il momento in cui vedi proiettato per la prima volta la tua pellicola, punto di arrivo di un percorso costato magari anni di lavoro, con la consapevolezza che il tuo film rimarrà nella storia. Con Piazza delle Cinque Lune, dedicato al caso Moro, andò così: contestato all’uscita, oggi è oggetto di studio nelle università".
Piazza delle 5 lune: la sfuggente verità sul caso Moro, scrive Nicola Cappelli il 19 agosto 2010 su "Orizzonte Universitario". Piazza delle Cinque Lune: qui fu ammazzato da ignoti il giornalista Mino Pecorella, direttore della rivista Osservatorio Politico, famosa per i suoi scoop e la pubblicazione di notizie riservate. Pecorella aveva promesso ai suoi lettori per il giorno successivo lo svelamento di un fascicolo in suo possesso, che avrebbe illuminato il caso Moro, dissolvendo la sua nebbia grazie al memoriale dello statista democristiano. Non potè mai il povero giornalista rivelare ciò che sapeva, dei suoi documenti non si trovò mai più traccia. Il film Piazza delle Cinque Lune, unico film “approvato” dalla famiglia Moro (le altre riduzioni sono state tutte senza scampo stroncate dai familiari del presidente DC, contestando inoltre il fatto che i registi si siano sempre serviti di ex brigatisti come consulenti), narra la storia di Rosario Sarracini, piccolo procuratore di provincia: la vita sua e dei suoi collaboratori sarà sconvolta quando – mentre è ormai prossimo al pensionamento – un brigatista ignoto lo avvicina e gli consegna un microfilm con le riprese della strage di via Fani, rivelandogli di possedere il memoriale di Aldo Moro. Scatenerà così la curiosità dell’ex procuratore, la quale finirà per diventare morbosa, ossessiva, irrefrenabile e quasi irrazionale pulsione verso la Verità. E’ proprio sul motivo della ricerca della Verità che si incunea tutto il film, simboleggiata dal memoriale introvabile. La Verità è il filo conduttore, la vera protagonista del film; ma il rapporto con lei è conflittuale: da una parte la si desidera ardentemente, con tutte le proprie forze, ci si tende verso di lei in uno spasmo, tentando disperatamente di raggiungerla, ma d’altra parte lei si cela a noi e si sottrae ai nostri sguardi; è il senso stesso che muove la vita umana. La Verità è ciò che cerca il giudice Saracini. Ma la meta sembra lontanissima, anzitutto perché si presenta come una catena di dubbi e di interrogativi, nella quale non appena verrà sciolto un anello subito altri cento se ne troveranno collegati; in secondo luogo per il travaglio che il percorso comporta, per la sofferenza e il dolore che continuamente rallentano il passo del giudice e dei suoi collaboratori; in terzo luogo per la complessità inconcepibile del disegno che sta sotto il mistero da svelare, per lo shock inevitabile che ogni nuova scoperta porta. Alla fine, non si potrà tuttavia che rimanere delusi: proprio mentre Sarracini sta per aprire la porta della Verità, dopo essere riuscito con molte peripezie a procurarsi la chiave, quella porta gli si richiuderà addosso. Perché questo è l’insegnamento del film: non è vero che il tempo è sufficiente a dissolvere la nebbia del mistero, a squarciare il velo del segreto. In mezzo a tutto questo, il regista ripercorre tutte le ipotesi, tutte le sconvolgenti scoperte, le incredibili coincidenze e le tremende scoperte, facendo incarnare in Sarracini tutti i magistrati che si sono spesi per gettare luce sul caso. Ecco dispiegarsi allora davanti a noi la nebulosa del caso Moro. Il risultato di tutto ciò? Poveri illusi: la Verità rimarrà chiusa dietro una porta che non potremo aprire, eterno supplizio di Tantalo. D’altra parte, non è forse vero che la giustizia è come una ragnatela, che cattura gli insetti piccoli, ma finisce rotta dagli individui più grossi? Un film tremendo nelle sue conclusioni e nei suoi insegnamenti, condito da un’atmosfera di ansia e tensione, quella stessa provata da Sarracini. Colpi di scena a ripetizione, rivelazioni di realtà (o meglio, di ipotesi coerenti e verosimilissime) che vanno di pari passo con lo svolgersi cronologico della vicenda: un brivido lungo la schiena e un rivolo di sudore sulla fronte non vi abbandoneranno mai mentre guarderete questo film. Il quale sarebbe troppo semplice definire poliziesco, troppo riduttivo definire inchiesta. La conclusione, pessimista, ci lascia intendere che troppi hanno interesse che la vicenda rimanga insabbiata, troppi lavorano per gettare altre ombre. Non ci resterà, quindi, che unirci al grido di Luca Moro, e rivolgendoci contro gli sconosciuti burattinai, urlare: «Maledetti voi, signori del Potere!». Giovanni Pigozzo
PIAZZA DELLE CINQUE LUNE: FILM STORICO O RACCONTO DI FINZIONE? ANALISI DEL FILM DI RENZO MARTINELLI ALLA LUCE DI NUOVI ELEMENTI STORICI. Relazione di Andrea Lomartire del 2005 pubblicata su "L'Archivio".
INTRODUZIONE. Un film è sempre un fatto narrativo, un racconto formato da un intreccio destinato alla soluzione finale, composto di eventi e di esistenti. Lo statuto è in primo luogo estetico e non politico o storiografico. Tuttavia esiste una narrazione cosiddetta “impegnata” che ambirebbe a divenire cinema politico e che si riferisce ad una serie di opere profonde e minuziose, le quali rifletterebbero, ineccepibilmente, il contesto storico sociale da cui provengono. Si tratta di racconti legati agli uomini della contemporaneità. In questo ambito si può affermare che il primo film politico della cinematografia italiana è quello di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano che partendo da un piccolo fatto di cronaca, la morte di Turiddu, il re di Montelepre, inizia un’indagine del contesto politico del periodo, attraversando circostanze e nomi che hanno preso realmente parte in quella intricata vicenda. Da Salvatore Giuliano a all’ultimo Piazza delle Cinque Lune, il cinema italiano ha proposto una serie di opere “politiche” che hanno contribuito fortemente alla formazione di una coscienza storica, morale e nazionale del pubblico italiano. Il fruitore dell’opera cinematografica, lo spettatore, è colui che assume un ruolo importante ancora prima di entrare nella sala e vedere un film. Tale definizione riguarderebbe proprio il film politico, in quanto, l’atto stesso di raccontare una storia si completa nella mente dello “spettatore civile”. Non è soltanto un atto percettivo, un puro meccanismo formale, di relazione tra significato e significante. È molto di più: è in questo modo che lo spettatore dilata la sua consapevolezza sociale, e acquisisce una coscienza critica della modernità in cui egli si trova. Appartenere ad una comunità democratica e civile significa, prima di tutto, vivere coscientemente il ruolo di cittadino. Esisterebbe, quindi, un cinema politico, un cinema che guarderebbe senza troppe velature, alla società in cui viviamo. Lo scopo di questo cinema è quello di ampliare e approfondire la visione storica di quegli eventi che hanno caratterizzato la vita pubblica e civile del paese tentando, al tempo stesso, una interpretazione-sensibilizzazione su alcuni temi scottanti ancora oggi irrisolti: il caso Mattei, l’omicidio di Pasolini, il sequestro Moro, la scomparsa di Matteotti, lo stragismo, il terrorismo, la bancarotta di Michele Sindona, la vicenda di Ambrosoli, la strage di Ustica. Il cinema di questo genere avrebbe, per tanto, una funzione sociale e politica nel senso più filosofico del termine: diverrebbe specchio e memoria di un percorso storico fondamentale per il cittadino e che altrimenti rischierebbe di essere travolto dal magma indistinto e, molto spesso, confuso dell’informazione. Senza la possibilità di studiare il passato, non esisterebbe quella di realizzare un futuro psicologico, sociale e politico. Dunque il cinema è la memoria, il supporto storico e sociale, è la possibilità di sviluppare una coscienza storica e culturale, necessaria per il progresso di una Nazione o Paese, che dir si voglia. Tuttavia, come affermavo all’inizio, non bisogna dimenticare che il cinema è prima di tutto un fatto narrativo, una finzione scenografica, formata da attori e stampata su di una pellicola e riprodotta a 24 fotogrammi al secondo. Nondimeno non si può negare una sorta di autentico impulso di ricerca storica che costituisce uno dei suoi aspetti peculiari: se il cinema è svago, spettacolo, emozione, è anche ricerca storica, indagine, proprio come i film summenzionati, proprio come Piazza delle Cinque Lune, film quasi passato in sordina all’interno del panorama cinematografico italiano. A tale proposito, il regista afferma: «Quando sento parlare di "rinascita del cinema italiano" mi viene da ridere. Su 50 film italiani prodotti, 45 sono commedie. Noi viviamo in un paese che ha avuto 18 anni di terrorismo con 540 morti. Ci sono stati 3 film. Tangentopoli ha prodotto un film. La società e il cinema seguono binari differenti, mentre il tanto criticato cinema americano affronta ogni segmento del sociale: la Cia, Kennedy, la Corea, le multinazionali del tabacco... Io sono cresciuto stimando il cinema di Petri, Rosi, Vancini, Pontecorvo, Damiani, decine di registi che attraversavano il sociale come delle locomotive. Perché è difficile fare un buon cinema civile in Italia? Io spero che questo film serva ai giovani per riflettere». Dunque un cinema la cui funzione è ricordare, sviscerare il passato rimosso, tentando di creare un dibattito acceso e produttivo. Da questo punto di vista il cinema di Martinelli, si veda l’esempio di Porzus o di Vajont, è certamente un alto contributo alla ricerca della verità storica, giudiziaria e al tempo stesso, opera di alto impegno civile e “politico”. Nel caso specifico, come metterò in evidenza attraverso l’ausilio di documenti giudiziari e il confronto semantico narrativo del film, l’impegno civile viene fortemente evidenziato dall’indagine proposta: i misteri di via Fani, le dichiarazioni ambigue di alcuni brigatisti, la dinamica balistica del sequestro. Si tratta di elementi specificatamente giudiziari che finiscono per avvalorare l’ipotesi investigativa del film. Il valore civile emerge nel tentativo di spazzare via la menzogna, l’occulto, e mostrare il possibile complotto. Al centro del film c’è la vicenda di Aldo Moro, la cui storia ha continuato a ispirare alcune opere cinematografiche: Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, quello grottesco e profetico di Elio Petri, Todo Modo, e in fine, anche se con un tono assai diverso, quello di Marco Belloccio, Buongiorno Notte. Tuttavia, soltanto nell’ultimo film di Martinelli si può iniziare a parlare di indagine giudiziaria in cui vengono rappresentati, con tanto di nome e cognome, i principali protagonisti di questa tragica vicenda. La verosimiglianza della narrazione costituisce un alto contributo del cinema di indagine, da divenire, un importante esempio di ricerca storica. Da qui, come analizzerò, prenderanno forma due racconti: quello dei personaggi che compiono l’indagine sul sequestro Moro e quello specifico del caso Moro. Si tratta di due racconti sovrapposti, da cui emerge la particolare struttura del film. Anche da questo, mi preme ricordare, che l’efficacia di un film, e di questo film, è data dalla costruzione narrativa ed estetica del racconto. Tale costruzione è il vero obiettivo del film, il compito di suggerire elementi inquietanti attraverso uno stile specifico e particolare. Solo se si comprende il valore estetico e semantico del film, possono emergere gli indizi inquietanti che lo stesso regista Martinelli ha messo in scena. Il trattamento di eventi storici, riferiti a circostanze esatte e documentate, offrono, indubbiamente, l’idea di un cinema impegnato e “politico”; ma è soprattutto la forma estetica del racconto, il montaggio, l’intreccio, la costruzione narrativa, la sua realizzazione che costituisce la fonte inesauribile del cosiddetto cinema politico e poetico.
1. PIAZZA DELLE CINQUE LUNE, UN FILM POLITICO. «Quando si dice la verità, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi». Si tratta della didascalia iniziale del film, una citazione dello stesso Aldo Moro. E Martinelli, sembra averla presa alla lettera: con questo film ha voluto «tentare un avvicinamento onesto alla verità […] il caso Moro rappresenta un mistero in assoluto […] gli anni di piombo hanno prodotto in questo paese, in 18 anni, più di 500 morti. Questa galassia del terrorismo ha prodotto 3 o 4 film. Quindi vuol dire che la cinematografia italiana è malata. Quando un cinema non interpreta il sociale, non lo vive attraverso i suoi cineasti è un brutto segno». La didascalia, in primo luogo, assume un ruolo fortemente “ideologico”: non soltanto attraverso il racconto che sta per svelarsi al pubblico, ma anche attraverso la scelta di un tema particolare e spinoso come il caso Moro. Il regista è inevitabilmente presente sin da questo livello verbale: la «verità» non è soltanto un punto di vista storico e giudiziario, ma è anche un punto di vista estetico e ideologico, che preme contro l’altro cinema italiano, quello che inconsapevolmente rimuove il dovere di descrivere la storia del paese, quello che dimentica il compito civile e sociale di un arte indirizzata verso l’impegno costruttivo della società. In questo preambolo, il regista introduce lo spettatore all’interno della storia e, al tempo stesso, gli indica una direzione precisa: la ricerca della verità. In oltre, la didascalia si riferisce, inevitabilmente, ad un contesto storico e ad un contesto narrativo. La funzione storica è indicata dalla ricerca di un difficile equilibrio politico sostenuto da Aldo Moro, spinto da un’opera di mediazione e di equilibrio tra le diverse forze del paese. Durante la sua prigionia, lo statista avrebbe analizzato, attraverso le sue lettere, l’assurdo comportamento di uno Stato che si era trovato lui stesso a servire e ad incarnare. Moro tenterà di trattare i suoi “segreti”, elaborando, in più di un’occasione uno scambio con altri prigionieri brigatisti. Sarà un tentativo inutile, scartato in principio dal suo stesso partito. L’unico esito della trattativa sarà quello del 9 maggio: Moro, il suo corpo, verrà ritrovato dentro il cofano di una Renault 5 senza che egli abbia potuto comprendere, probabilmente, la forza oscura di un certo livello della “politica” che lui stesso si era trovato a praticare e poi a interrogare. Dunque la «verità» della didascalia scelta dal regista Martinelli tende a ribadire il significato di ricerca, di mediazione e di accordo che ha caratterizzato l’attività politica di Aldo Moro, fuori e dentro la sua prigionia. Insieme alla funzione storico-biografica, si può rintracciare la funzione narrativa che il film si propone di portare a compimento secondo la migliore tradizione cinematografica italiana. Il film può tranquillamente essere inserito in ambito del cosiddetto cinema politico. Si tratta di osservare come il film tenti di raccontare il “caso” Moro anche attraverso gli “indizi” giudiziari, evitando di limitare la narrazione soltanto al puro intreccio. Il film, mentre racconta la storia del Giudice Saracini, un personaggio inventato, tratta la verità giudiziaria del misterioso sequestro dello statista, avvalendosi di una precisa e dettagliata documentazione e della consulenza del senatore Sergio Flamigni. Dunque, il film argomenta la sua storia intorno alla ricerca di una verità possibile, di una verità giudiziaria tentando di mettere insieme i vari tasselli del caso e trarne un’immagine d’insieme quanto più vicina alla drammatica vicenda dello statista. La ricerca della verità è presente anche attraverso il linguaggio verbale che culmina in molti dialoghi: l’esclamazione di Branco (Giancarlo Giannini), guardia del corpo del giudice, il quale considera il Memoriale un’ossessiva ricerca della verità; attraverso il misterioso agente segreto a Parigi (F. Murray Abraham) che imposta un discorso piuttosto sibillino sulla verità e il corso della storia; o ancora, caso più drammatico, attraverso il marito di Fernanda Doni (Stefania Rocca) che ironizza piuttosto pesantemente sulla ricerca di una verità impossibile che rischia di sfaldare tutta la famiglia. Dunque, da questo punto di vista, il film presume di raccontare la verità sul caso Moro. Le inquadrature, i tasselli del puzzle Moro, sono gli indizi che tentano di ridare il senso di quella verità perduta e attraverso l’ausilio delle immagini girate: il caso estremo, ma verosimile si ha con il sequestro di Via Fani, o ancora attraverso i frammenti di flashback che si palesano improvvisamente sullo schermo durante l’indagine dei tre protagonisti (si pensi all’arresto di Curcio e di Cagol, alle scene di Via Gradoli, l’uccisione di Pecorelli, l’esecuzione del colonnello Varisco). In questa prospettiva, la verità, quella costruita dalla finzione scenica, finisce per divenire l’unico elemento storico giudiziario che mostra il crimine come oggettivamente avvenuto. In tal senso si può scorgere l’ambizione implicita del film, e cioè quella di divenire una sorta di resoconto giudiziario, la versione più verosimile degli eventi che dettero vita al caso Moro. Da un punto di vista narrativo, quello che Seymour Chatman ha definito come la forma del discorso, si può osservare come sia fondamentale il rapporto che si stabilisce tra l’evento raccontato e il punto di vista della macchina da presa. Il film ricorre molto spesso all’inquadratura dall’alto (la panoramica) quasi ad indicare l’importanza di una visione globale che possa mostrare i tasselli del racconto, altrimenti non visibili. Non è certo un caso che il film si chiude con l’ennesima inquadratura dall’alto, la quale, oltre a schiacciare il personaggio del giudice colto di sorpresa dall’incontro con Branco, ribadisce il fatto che “sopra” alla visione provinciale del giudice, o “oltre” il punto di vista ideologico e terroristico delle famigerate Brigate Rosse, vi sarebbe stata una strategia più ampia, di livello internazionale che spiegherebbe la possibilità di un complotto ordito contro il fautore della politica di Solidarietà Nazionale. Il giornalista Willan descrive, nel suo bel volume, I burattinai, tutte le incongruenze dell’affaire: «e, infine, va sottolineata la profonda differenza che esiste – anche a livello psicologico – tra i due modi di muovere l’ “attore di legno”: il burattinaio costituisce un prolungamento della mano del burattinaio, una amplificazione dei suoi movimenti compiuta in positivo; esso prende corpo e vita dal braccio e dalle dita di chi lo manovra: la marionetta invece viene mossa come in negativo, in un modo indiretto, che da qualche marionettista ho sentito paragonare all’atto di suonare uno strumento musicale a corde: richiede dunque un attenzione di tipo razionale». L’interpretazione è presto data: i brigatisti sono stati delle marionette, mosse a loro insaputa da una serie di interessi nazionali e internazionali. Il punto di vista, la veduta su Siena, la visione di Roma, spiega questa fondamentale impostazione narrativa del film. La teoria del complotto prende forma attraverso un’attenta analisi storica e giudiziaria, con precisi riferimenti collusivi tra Stato, servizi segreti e apparati militari. Per Willan il complotto esiste, non è soltanto una teoria, ed è quel movimento “negativo” che appartiene alle diverse marionette che hanno occupato la scena. Lo stesso Sciascia, nel suo acuto scritto L’affaire Moro, aveva osservato che la “verità” e il “punto di vista” sono, in qualche modo, coincidenti: il lettore comprende che tutti i suoi sospetti sono erronei e per questo, sul finire del racconto (il punto di vista) è costretto a ri-iniziarlo, «il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un'altra soluzione, la vera». Dunque, il film nasce come ricerca della verità non più metaforica o simbolica, ma immagine diretta e immediata, come l’organigramma dei Comitati di sicurezza istituiti subito dopo il sequestro Moro, esibito all’interno di un’inquadratura, con i nomi degli affiliati alla Loggia Propaganda Massonica P2. La verità non è più allegorica o sottesa come avveniva in certe opere italiane. Si pensi a Salvatore Giuliano in cui Francesco Rosi evita di citare il nome del ministro degli Interni Mario Scelba che lo stesso Gaspare Pisciotta aveva chiamato in causa durante il processo di Viterbo. Nel 1986 Il caso Moro di Giuseppe Ferrara fa un accenno, se pur minimo, alla loggia P2, ma evita di citare nomi importanti. Il racconto di Piazza delle cinque lune mostra con estrema chiarezza la trama che ha generato l’affaire Moro, evitando di costruire il suo racconto attraverso complicate allusioni storiche o con l’ausilio di complesse forme simboliche. Il film parla chiaro e non risparmia accuse e sospetti. Dove esiste un margine per l’indagine, il racconto penetra la materia storica e tenta di approfondire gli eventi e i comportamenti degli uomini politici che, volenti o nolenti, hanno preso parte alla tragica vicenda.
2. I PRIMI INDIZI. Il film costruisce il suo inizio con due elementi fondamentali: il sequestro di Via Fani e il Memoriale Moro. Si tratta di due aspetti estremamente importanti che, a livello narrativo, servono a ricostruire le circostanze storiche della vicenda Moro e di cui, ancora oggi, persiste un’imbarazzante ambiguità sulla loro dinamica. Sono i primi due “indizi” dell’indagine che il film si propone. Il giornalista fiorentino Marcello Coppetti ricorda come lo stesso Licio Gelli, il capo venerabile della Loggia P2, facesse riferimento ad un filmino relativo al sequestro Moro: «loro erano abituati a filmare tutto, l’avranno anche filmato quando l’hanno ucciso, io credo. Non credo che lui si aspettasse di morire, almeno così mi hanno detto». Lo stesso Willan cita Flaminio Piccoli il quale aveva osservato la scomparsa della “pizza” delle riprese televisive a circuito chiuso che avrebbero registrato ogni attimo delle giornate del sequestro, «tale patrimonio è in possesso di non più di due o tre persone che lo renderanno pubblico, si presume, quando lo riterranno, per loro, più politicamente opportuno». Tale materiale, secondo quanto scrive Il Borghese (17 febbraio 1985) sarebbe stato recuperato in un baule durante l’arresto del terrorista Giovanni Senzani. Forse i servizi segreti ne ebbero una prima visione onde farne un numero di copie. Il giornale ipotizza tre soluzioni:
1. i servizi decidono di tenere il film nei loro archivi senza informare il governo dandone una copia ai servizi di un paese alleato (CIA?);
2. i servizi mostrano il film ad un “personaggio” importante che lo mostra alla corrente politica e ai suoi dirigenti i quali decidono di nasconderlo;
3. i servizi informano l’ufficio della Presidenza del Consiglio della scoperta, e il video è tenuto nascosto come segreto di stato. A presumere tale circostanza è anche lo stesso ex-brigatista Bonisoli durante l’intervista con Sergio Zavoli.
Bonisoli ricorda che tutti gli attimi della prigionia di Moro venivano filmati da una «telecamera a circuito chiuso», ma non da un «videoregistratore». Si è parlato anche del nastro magnetico con la voce di Moro, anche questo mai trovato. Adriano Sofri cita la possibile esistenza del film che ritrarrebbe Moro durante la prigionia e dichiara «che i documenti dell’impresa contro Moro siano stati distrutti “per ragioni di sicurezza” è difficile da credere, per il feticismo brigatista di allora…». Tuttavia, ancora oggi non è dato sapere a chi siano state consegnate le presunte bobine audio e video. Il silenzio di Moretti, come ricorda Flamigni, non fa che ostacolare la ricerca di una verità giudiziaria e storica fondamentale. Tuttavia nessuna di queste testimonianze comproverebbe l’esistenza reale del filmato relativo al sequestro del 16 marzo. Per la realizzazione del film, il regista Martinelli è stato colto da una circostanza simile e in particolare dalla frase sibillina di Gelli relativa al «rapimento del secolo» il quale molto probabilmente era stato filmato dalle stesse Br[20]. Questa ipotesi non fa che avvalorare la soluzione narrativa adottata dal regista, ovvero la messa in scena del rapimento di Moro come documento oggettivo e reale, realmente esistito. Le immagini sono lì presenti e colpiscono tanto il giudice quanto lo stesso pubblico che si sente violentemente catapultato nella tenebrosa atmosfera di via Fani e nella feroce esecuzione: gli eventi visivi, in questo senso, vengono percepiti come veri, come il reale resoconto di quel giorno. Tale funzione narrativa viene descritta eccellentemente da Lotman, attraverso la sovrapposizione di due codici: il livello cinematografico (quello della sala in cui si trova il pubblico o quello della finzione) e il livello filmico (quello della proiezione del super8 di via Fani). Questo fatto fa percepire come “vita reale” o “non-finzione” le immagini della strage proprio perché lo stesso personaggio della storia, il giudice Rosario, guarda quelle immagini proiettate sul muro della sua abitazione. Si tratta della rappresentazione all’interno della stessa rappresentazione, il cinema nel cinema, “lo scherno nello schermo”, per cui lo spettatore è indotto a percepire tutto il filmato del sequestro Moro come realmente accaduto. Tutto il film si baserà sul “ritrovamento” di questo filmato e sull’indagine che i tre protagonisti, il giudice Rosario, la sua assistente Fernanda Doni e il caposcorta Branco, effettuano nelle diverse circostanze del racconto. Questo materiale visivo, inteso come documento storico all’interno della narrazione si basa soprattutto sullo studio di questo filmato, tanto da poter dire che il film Piazza delle cinque lune nasce e si costruisce su questa idea “estetica” particolarmente forte. Il secondo elemento riguarda il misterioso Memoriale Moro di cui si hanno ufficialmente due versioni. Si tratta di analizzare le misteriose rivelazioni che Moro fece ai suoi carcerieri durante l’interrogatorio del “popolo”. Il primo Memoriale venne ritrovato in via Montenevoso a Milano nel 1 ottobre del 1978; il secondo verrà ritrovato nello stesso luogo il 9 ottobre del 1990. Colpisce la strana coincidenza, due memoriali ritrovati nello stesso luogo a distanza di 12 anni: responsabilità dei carabinieri o manovra politica (?), «un muro alzato a regola d’arte», ricorda Sofri proprio mentre ne cadeva un altro, quello di Berlino. Si parlò, ma senza prove, di una consegna da parte del generale Alberto dalla Chiesa al ministro Andreotti. L’elemento più importante riguarderebbe la differenza esistente tra i due memoriali. Nel secondo Memoriale risaltano le parti mancanti: sono evidenziati chiaramente i paragrafi relativi a Gladio (la segretissima struttura militare pronta per un intervento armato contro una probabile invasione dell’Unione Sovietica), i rapporti Andreotti-Sindona (i cosiddetti «pranzi americani» a cui seguiva l’esplicito disappunto di Moro) e i finanziamenti degli Stati Uniti diretti alla corrente democristiana attraverso la Cia. Ovviamente i due “indizi” summenzionati non entrano in scena in modo autonomo, ma sono incastrati nella struttura narrativa attraverso la vicenda del giudice Saracini. Il film è dunque iniziato quando il giudice viene assalito fuori la sua abitazione: «non si tratta di una rapina […] voglio solo che dia un’occhiata a questo», dice l’aggressore che gli consegna un misterioso microfilm. Rosario tenta una prima visione manuale, ma senza riuscire a distinguere gli elementi all’interno del fotogramma. La scena passa immediatamente alla proiezione del Super8, dove prendono forma le immagini della strage del 16 marzo 1978 (ancora una volta l’inquadratura dall’alto). Lo straordinario documento cinematografico ricostruito da Martinelli (in realtà girato in 16mm e in seguito rielaborato in postproduzione digitale) ripropone con particolare minuzia i particolari di quel tragico giorno: la macchina bianca dietro a quella della scorta, l’assalto da sinistra, un altro terrorista che attacca la scorta da destra, la presenza di un misterioso uomo con l’impermeabile e tutta la dinamica del prelevamento di Moro. L’argomento centrale del film è dunque Aldo Moro e la sua apertura al partito comunista di Enrico Berlinguer, iniziata sin dal 1964 attraverso la conciliazione con il partito socialista. Dietro la genesi di un nuovo corso politico che va sotto il nome di Solidarietà Nazionale, i gruppi eversivi di sinistra vedono la minaccia del Potere “imperialista”. Per l’estrema sinistra rivoluzionaria, Moro è il nemico del “popolo” e del progresso sociale di tutto il proletariato. Moro è bersaglio della rivoluzione comunista: «dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di quel regime democristiano che da trent'anni opprime il popolo italiano», per i brigatisti Moro è il fautore della «controrivoluzione», artefice delle politiche «sanguinarie» degli anni ’50, «il padrino politico e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste». E nel secondo comunicato si legge «chi meglio di Aldo Moro potrebbe rappresentare come capo del SIM (Stati Imperialisti delle Multinazionali, ndr) gli interessi della borghesia imperialista? Chi meglio di lui potrebbe realizzare le modifiche istituzionali necessarie alla completa ristrutturazione dello SIM? La sua carriera però non comincia oggi: la sua presenza, a volte palese a volte strisciante». Al momento del sequestro Moro non era certo un politico particolarmente popolare, osserva Willan, poiché rappresentava trent’anni di governi corrotti e incapaci, guidati da un partito criticato. Moro era in oltre definito mister omissis per i suoi numerosi segreti di Stato imposti ai rapporti sugli abusi dei servizi segreti e per le dubbie attività dei compagni di partito per lo scandalo Lockheed. Le attività finanziarie del partito non l’avevano arricchito, poiché egli era effettivamente interessato più al bene pubblico che all’ottenimento del potere fine a se stesso. La sua politica di mediazione lo fece salire al centro della politica italiana da divenire il principale obiettivo dell’eversione rossa e, contemporaneamente, politico poco gradito dalle correnti atlantiche. Se l’argomento centrale del racconto è Aldo Moro, il film pone al centro della scena la storia di un giudice che in un altro tempo e in un altro spazio viene a contatto con il caso Moro. Il racconto è filtrato da un contesto narrativo “estraneo” alla peculiarità del caso Moro e per questo tutti gli elementi che entrano in contatto sono “indiretti” a differenza, per esempio, del film di Ferrara che tratta specificatamente il rapimento Moro dall’inizio alla fine, con tanto di nomi e cognomi seguendo una precisa ricostruzione temporale. Tuttavia il racconto di Martinelli finisce per avere una forte valenza “storica” proprio perché i protagonisti storici della vicenda sono ancora oggi presenti sulla scena giudiziaria e istituzionale del paese. Di fronte ad un evidenza così prorompente, come la strage di via Fani, si presenta il problema principale, lo scopo narrativo, del giudice Saracini. Attraverso il suo “problema”, si gettano le basi per l’intreccio della narrazione: se lo scopo del personaggio sarà quello di indagare sul misterioso filmato, lo scopo della narrazione sarà quello di analizzare tutti i misteri esistenti nell’affaire. La formalità e il rigore che seguono nella scena del discorso commemorativo, fanno da contrasto allo stato d’animo del giudice. In tal senso le sue parole sembrano essere ancora più “vuote” e distanti da quel potere che fino all’ultimo giorno aveva servito, un potere che probabilmente nasconde ancora molti misteri. Sono parole che rivelano un presagio sinistro e oscuro: «oggi entro, ufficialmente nella categoria dei pensionati», un mondo, sembra dire il giudice, insidioso e pericoloso in cui si è soli. La citazione del poeta russo Joseph Brodsky, non è soltanto una semplice affermazione di copione; e non è soltanto funzionale alla struttura del racconto: la ricerca della verità e la necessità della passione sono l’espressione più vitale e civile della partecipazione al mondo e rappresentano un dichiarato “testamento spirituale” del regista: «solo il cercando la verità, solo comunicando la verità si dà senso alla propria esistenza». Tale discorso, inizia il percorso investigativo del giudice, e avvia definitivamente l’indagine del film. L’ulteriore incontro con il misterioso aggressore, ha la funzione di chiarire gli obiettivi di questo secondo personaggio. Egli si identifica come ex-brigatista che prese parte alla strage di via Fani (dietro alla moto Honda) che a causa di un tumore giunto allo stadio terminale ha deciso di consegnare il filmino al giudice. L’ex terrorista si fa portavoce di un importantissimo indizio relativo al Memoriale di cui sono state dette molte «bugie» e in cui «i punti cruciali non si conoscono ancora». In sostanza, attraverso il personaggio brigatista, di cui il pubblico non vedrà mai il volto, il racconto rivela che esisterebbe una versione integrale e originale del Memoriale Moro. Qui nasce una sorta di rapporto dialettico tra realtà e finzione. Il filmato e il Memoriale sono chiaramente due elementi narrativi, di fiction, ma finiscono per essere percepiti come elementi storici e reali. La loro presenza determina la narrazione, genera il racconto del film (finzione) e produce l’indagine sul caso Moro (analisi storiografica). È la caratteristica tematica del film, il quale nasce e si sviluppa su elementi immaginari, trattando al tempo stesso la storia reale di Moro. Su tale costruzione fa leva la verosimiglianza dell’opera. Da questo punto prende avvio la parte del film in cui si analizzerà la dinamica del sequestro di via Fani, in cui emergeranno alcuni elementi giudiziari delicatissimi che non si limiterebbero soltanto alla finzione del racconto.
3. LA VISIONE DEL SUPER8. Una delle caratteristiche narrative del film è quella di trattare gli elementi giudiziari del caso Moro attraverso l’ausilio di un filmato completamente inventato per il racconto. Da questo confronto, tra la realtà oggettiva del caso e la fiction narrativa, emerge il valore tematico del film. La forza del racconto è offerta da un filmato di finzione che riesce a descrivere con esattezza storica gli eventi del sequestro Moro, senza modificare o alterare la presunta veridicità dei fatti. La realizzazione del filmato, costituisce un fondamentale esempio di costruzione “filologica” della strage di via Fani, da divenire la fonte principale non soltanto del racconto, ma anche della detection proposta dal film. Gli elementi evidenziati in questa prima parte sono tre: il mancato tamponamento, l’uccisione di Leonardi attraverso un misterioso quinto uomo e la misteriosa presenza di un superkiller. La visione del filmato debutta con la descrizione di quella mattina del 16 marzo 1978. I vari indizi, oltre ad essere chiaramente visibili sullo schermo, sono evidenziati dal commento del giudice Saracini, Fernanda Doni e il caposcorta Branco. La scelta formale del regista è quella di supportare il linguaggio visivo del filmato con quello verbale, permettendo di far emergere più chiaramente gli elementi indiziari. Rosario fa notare una Fiat 128 familiare, con targa diplomatica posteggiata all’angolo di via Stresa, guidata dal capo brigatista Mario Moretti. Quando la Fiat 130 di Moro arriva da via Trionfale verso Via Fani insieme alla Alfa della scorta, una moto Honda li supera, dando così il segnale a Moretti. Quest’ultimo fa marcia indietro parcheggiando la sua auto a circa 30 metri dello stop di Via Fani. Vedendo poi arrivare la Fiat 130 di Moro, riesce dal parcheggio ostacolando il suo arrivo. La prima novità emerge proprio in questa circostanza. La versione ufficiale dei fatti, riferita da Morucci, riferisce che la macchina di Moro fu costretta a tamponare quella di Moretti. Ma il filmato mostra una circostanza assai diversa: la macchina di Moro non tampona affatto quella di Moretti, ma si ferma poco prima, costretta dagli spari provenienti dal lato destro della strada. Durante la loro deposizione (osserva il personaggio di Fernanda) Moretti e Morucci avevano dichiarato una dinamica completamente differente: il primo aveva affermato che lo scontro con la macchina di Moro era stato violento e che egli aveva dovuto tirare il «freno a mano» per fermare l’avanzata della macchina; il secondo aveva affermato che il tamponamento era ripetuto. Il filmato mostra inequivocabilmente che le due macchine si erano appena sfiorate (circa 20 cm), senza «nessun graffio […] nessun segno di frenata sull’asfalto», come osserva Rosario. Se ne deduce che rallentarono e poi si fermarono senza toccarsi. La forza semantica della scena, la descrizione minuziosa dei diversi momenti, rappresenta il punto più alto del film e forse il più riuscito. Le immagini sembrano uscite dalla cronaca di quei giorni per divenire storia. I gesti e le azioni raccontano con estrema precisione quelle drammatiche circostanze. Il filmato sembra essere, al di là della finzione scenica, un documento di altissimo valore storico. Ma questo avviene anche per la rigorosa costruzione dell’agguato, basato su un precisa documentazione e sulla logica consequenzialità degli eventi. La forza estetica del filmato è quindi supportata da una ragione filologica fondamentale. Morucci dichiarerà di essere stato il quinto uomo sul lato destro della strada, quello che doveva colpire mortalmente il maresciallo Leonardi. In quello stesso frangente, un gruppo di quattro brigatisti, posti sul lato sinistro della strada, avrebbero avuto il compito di eliminare la scorta. Fu questo fatto a causare il tamponamento. Ma il film mostra un'altra dinamica, e non lo fa attraverso un atto deliberato e parziale, ma attraverso la stessa fenomenologia dell’evento. Il regista conosce bene questa circostanza. L’uccisione di Leonardi sarebbe avvenuta in un tempo incomprensibilmente lungo, in cui il maresciallo sarebbe stato seduto ad osservare l’impatto: da questo si deluciderebbe già una strana dinamica balistica che forse si riferisce agli stessi attentatori. La 128 di Moretti, frena bruscamente allo stop: seguirebbe l’ipotetico tamponamento della 130 di Moro e dell’Alfetta della scorta. Dalla 128 sarebbero scesi due brigatisti, mentre quasi contemporaneamente, dal lato sinistro della colonna sarebbero giunti altri quattro terroristi preposti all’eliminazione di tutta la scorta. L’unico a reagire sarà Iozzino che, infatti, verrà trovato ucciso con 17 colpi sull’asfalto. E in tutto questo tempo, cosa fa il maresciallo Leonardi? Ricorda Martinelli: «lo stunt che è seduto nella posizione del maresciallo Leonardi, mi blocca l’azione… Renzo, ma io che ci faccio qui? Me ne sto seduto ad aspettare che quelli mi arrivino addosso?». Si tratta di una perplessità scenica che riflette quella della dinamica e lascia pensare sulle veridicità delle versioni. Probabilmente l’evento traumatico che avrebbe bloccato Leonardi in quella posizione non è l’impatto tra le macchine (falso) ma qualcos’altro. Leonardi venne ucciso da destra e quindi c’era un quinto sparatore oltre ai quattro di sinistra, un killer solitario. Leonardi viene trovato in una posizione rilassata e serena, come mostra la foto scattata dopo l’attentato, come se stesse parlando con Ricci. Il capo scorta sarebbe stato ucciso senza accorgersi di cosa stesse succedendo. Sei pallottole lo colpiscono dietro la schiena, provenienti dalla destra da uno sparatore che ha saputo muoversi in perfetto sincrono con l’incidente. Subito dopo, due pallottole avrebbero colpito il petto di Leonardi. Soltanto attraverso questa dinamica è stato possibile giare la scena: volendo anche seguire la versione di Moretti o di Morucci, sarebbe stato impossibile. Da questo punto di vista, la costruzione della scena, assumerebbe il valore di una perizia giudiziaria senza precedenti. Si tratta di un caso formidabile in cui l’impegno civile dell’arte cinematografica si concilia con quello della verità storica: è l’esempio in cui il cinema, come immagine movimento può intervenire nella realtà sociale per rappresentare il suo più alto contributo etico ed estetico. La costruzione della scena costringe il film, per forza di cose, ad ipotizzare un'altra dinamica dell’evento e per questo scorge senza imbarazzo brigatisti e istituzioni dietro una versione troppo spesso superficiale. Dopo l’eliminazione di Leonardi, il quinto uomo si toglie dall’azione per dare la possibilità agli altri quattro terroristi di continuare l’assalto. Ed è in questo punto del film che emerge il secondo indizio: il misterioso superkiller. Il personaggio di Fernanda ricorda che secondo le deposizioni, il misterioso killer sarebbe giunto in via Fani insieme a Moretti. Qui si sarebbe appartato con gli altri tre brigatisti, sul lato sinistro della strada. Dopo l’esecuzione di Leonardi da parte di Morucci, sarebbe entrato in azione. Il commento del giudice descrive la perizia balistica. I bossoli ritrovati dimostrano che il lavoro militare fu di «alta specializzazione»: i brigatisti spararono da punti contrapposti e soltanto un brigatista, sembrerebbe, ne uscì ferito. Il gruppo riesce ad uccidere la scorta, senza colpire Moro pur essendo da mezzo metro dal maresciallo Leonardi. Saracini osserva che in via Fani furono sparati 93 colpi in soli 90 secondi provenienti da sette armi diverse. I colpi furono soprattutto dei brigatisti. Soltanto 20 furono quelli della scorta mentre 49 colpi, andati tutti a segno, furono sparati da un arma unica, una pistola mitra calibro 9 Parabellum Stern o forse FNA 1943, appartenente al misterioso superkiller. Il teste Pietro Lalli, benzinaio di via Fani, esperto di armi, descrive l’agguato e la tecnica di questo superkiller con “autentica ammirazione”. Il terrorista spara con un’arma a recupero di gas, ha la mano guantata sulla canna per evitare i sobbalzi e colpisce con precisione: la prima raffica contro Leonardi e Ricci, poi un salto indietro per allargare il raggio di tiro e sparare contro l’Alfetta di scorta: «la professionalità criminale dell’attentatore è talmente elevata, a giudizio degli stessi periti, da non potersi ragionevolmente inquadrare in nessuna delle figure dei brigatisti noti». Rispetto a questo superkiller gli altri brigatisti fanno ben poco: sparano 4 colpi con un arma, 5 con un'altra, 3 con quella di Raffaele Fiore, 8 con la Smith & Wesson poi sequestrata a Prospero Gallinari. In tutto sei armi. Il racconto introduce le testimonianze oculari del tragico giorno e, naturalmente, lo fa secondo un criterio oggettivo e storico senza alterare la veridicità dei fatti. Pietro Lalli, racconta delle «raffiche complete contro la Fiat 132». Alessandro Marini, l’ingegnere civile in motorino viene addirittura bloccato da una mitragliata dall’uomo dietro la moto Honda. Egli vede Moro salire in macchina con un andamento passivo, dimesso e soprattutto illeso. Luca Moschini studente di medicina a bordo di una Fiat 500 vede la moto Honda e due uomini in divisa. Quella mattina era presente anche l’agente di polizia del settimo reparto celere di Roma, Giovanni Intrevato che vede distintamente il prelevamento di Moro. Per raccontare la scena, il film adotta un montaggio alternato tra la ricostruzione delle testimonianze e la fiction degli eventi descritti. Tale commistione di tempi e spazi diversi, che il cinema conosce come flashback, sono potenziati dallo stile “sporco” e mosso della macchina da presa. Le inquadrature sembrano rubate da un archivio storico. Tuttavia il film evita di trattare l’identità del superkiller in maniera dettagliata e precisa. Uno stranissimo elemento, non inserito nel film, costituisce un importane indizio. Questo si riferisce ai proiettili dell’agguato coperti da una speciale vernice impermeabile, adatta alla conservazione di munizioni in nascondigli sotterranei e normalmente in dotazione alle forze speciali. Questo elemento, se provato, dimostrerebbe la possibilità di un’oscura strategia tra Moro e i suoi sequestratori e la possibilità di un intervento straniero o comunque estraneo al contesto rivoluzionario del partito armato. In sede processuale emerge, poi, un'altra ipotesi inquietante: l’eliminazione di Leonardi sarebbe avvenuta non soltanto per l’attacco improvviso sul quel lato, ma anche perché nel commando terrorista vi sarebbe stato qualcuno che egli conosceva. Questo fatto, evidenziato dall’avvocato di parte civile della famiglia Moro, non è però trattato dal film, per ragioni prettamente narrative. Tuttavia il resoconto di Rosario ricorda l’azione di questo brigatista il cui obiettivo è stato principalmente quello di eliminare l’autista e il maresciallo Leonardi: «lo fredda e si defila». A partire da questo elemento, il film inizia un’operazione investigativa che non collima con la versione ufficiale. Lo spettatore è colto dal dubbio: alcuni indizi discreditano le versioni dei brigatisti a tal punto che «le diverse verità potrebbero voler nascondere la partecipazione al blitz di uomini diversi dai brigatisti comunemente intesi».
4. VIA FANI: INDIZI E MISTERI. Dopo aver trattato la dinamica del tamponamento, il film continua la sua indagine giudiziaria. Attraverso il dialogo incalzante del giudice Saracini e di Fernanda, il racconto fa emergere i nodi cruciali dell’eccidio di via Fani. Questi si possono riassumere in quattro punti fondamentali, non ancora chiarite dalle stesse indagini: le borse di Moro; la strage violenta e deliberatamente “spettacolare”; l’organizzazione del sequestro; il colpo di grazia alla scorta. Il giudice Saracini ricorda che Moro possedeva cinque borse: una conteneva documenti riservati; una seconda, medicinali ed effetti personali; le altre tre contenevano articoli di giornali e tesi di laurea (Moro era professore di Diritto Penale). Come facevano i brigatisti a sapere quali erano le borse giuste, ammesso che siano stati loro ad effettuare il prelevamento? Durante la deposizione in Commissione, Eleonora Moro aveva dichiarato; «loro (i brigatisti [N.d.R.]) dovevano sapere quali e dove stavano nella macchina perché c’era una bella costellazione di borse, messe così, così e così, prendere a colpo sicuro quella…». Tuttavia Eleonora ricorda che quella mattina quando arrivò in via Fani si accorse che la borsa da cui Moro non si staccava mai era stata prelevata (se ne accorge attraverso il rivestimento pulito della automobile quando tutt’intorno era macchiato dal sangue delle vittime). Due borse, la ventiquattrore e una borsa diplomatica, saranno poi consegnate nelle mani dell’agente di pubblica sicurezza Otello Riccioni (uno degli autisti della scorta che quel giorno era in ferie). Riccioni a sua volta le consegnò alla signora Moro. Una terza borsa piena di libri viene ritrovata cinque giorni dopo nel baule della Fiat di Moro all’interno della questura. Un fatto piuttosto inquietante che rivela in ultima analisi le modalità di indagine in via Fani. Borsa “insignificante”, ma estremamente importante per comprendere quale giro strano avesse fatto, se di questo si è mai trattato. In Commissione Parlamentare il mistero delle borse occuperà gran parte dei dibattimenti. Secondo le testimonianze, emerse che i brigatisti ne presero soltanto due: quella personale e quella con i documenti riservati. Dentro quest’ultima si sa di certo che contenesse una nota dello stesso Moro sulla crisi di governo, una nota sull’ordine pubblico, una nota sul terrorismo e una delicata relazione sul coordinamento tra polizia e carabinieri. Forse vi era quel documento sui collegamenti dei servizi dell’interno della NATO. Dichiarerà il generale Dalla Chiesa: «io penso che ci sia qualcuno che possa avere recepito tutto questo… dobbiamo pensare anche ai viaggi all’estero che faceva questa gente, Moretti andava e veniva…». Il film di Giuseppe Ferrara, Il caso Moro, racconta tale episodio attraverso l’appropriamento della borsa da parte di un misterioso funzionario dei servizi segreti, che si scoprirà in seguito un esponente della Loggia Massonica P2. E’ in questa circostanza che la signora Moro inizia un colloquio piuttosto teso con il militare. Si tratta della trascrizione del vero dialogo, relativo alla mattina del 18 marzo 1978, che Eleonora Moro depone in Commissione. Il generale Dalla Chiesa avrebbe affermato che la strage e il sequestro sarebbero state opera delle Brigate Rosse. Qui emergerebbe un altro elemento: Moro non era a conoscenza del “destino” di quelle borse: «bisognerebbe cercare di raccogliere le 5 borse che erano in macchina», scrive nella quarta lettera a sua moglie; ovviamente ignorava che le valigette erano nelle mani dei suoi sequestratori; nella lettera a Rana (suo segretario) scrive: «sono state recuperate delle borse in macchina? O sono sequestrate come corpo di reato?». Una curiosità viene dall’intervista a Bonisoli nel documentario televisivo di Zavoli: egli non sa chi ha preso le borse, «forse la colonna romana», afferma. La storia delle borse di Moro e del loro contenuto rimane quindi avvolta nel mistero, tanto nel film, quanto nella storia ufficiale del caso Moro. L’altro mistero riguarda la modalità della “strage” che lascia pensare, senza ombra di dubbio, ad un episodio che vuole far parlare di se. Il personaggio di Fernanda si domanda perché è stato realizzato un colpo così spettacolare, quando vi sarebbe stata la possibilità di fare tutto più tranquillamente allo Stadio dei Marmi, dove Moro era solito fermarsi per fare una passeggiata insieme al maresciallo Leonardi. Il personaggio di Fernanda, con questa sua osservazione finisce per divenire una sorta di alter ego della vedova Moro che riguardo alla strage di via Fani affermò: «mi sono chiesta infinite volte perché li abbiano uccisi tutti, quando mio marito potevano prenderlo tranquillamente in altri posti… questa è una delle cose che la Commissione la scopre, secondo me scoprirà una grossa parte della verità». Le Br erano sicure del percorso che avrebbe fatto la scorta (si tratta di un ulteriore indizio di Fernanda) che il giorno prima erano andati in via Brunetti a tagliare le gomme di un furgoncino, di proprietà di un fioraio, che ogni mattina parcheggiava tra via Fani e via Stresa e che di fatto avrebbe costituito un ostacolo per le manovre di attacco delle Br. Anche questo episodio è raccontato nel film di Ferrara. Secondo le testimonianze dei brigatisti il giorno prescelto per il sequestro non fu affatto previsto con precisione: un «giorno probabile» affermò Morucci, una «coincidenza» dichiarò Moretti, «casuale» disse Bonisoli. L’ultima osservazione di Fernanda riguarda il colpo di grazia inferto agli uomini della scorta che ripropone in maniera drammatica la necessità di eliminare ogni prova e ogni testimonianza di quel tragico giorno e, al tempo stesso, dimostrare la violenza e la determinazione di quell’atto “politico”. Nessuno doveva rimanere in vita perché nessuno doveva raccontare cosa fosse accaduto quella mattina. Si tratta di un’ipotesi portata avanti dal racconto. Nel numero del 2 maggio, Mino Pecorelli dava una chiara allusione al sequestro Moro. L’articolo era intitolato «Yalta in via Mario Fani» e analizzava il sequestro: «[…] l’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche […] L’obiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il Partito Comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del Paese. È un fatto che si vuole che ciò non accada. Perché è comune interesse delle due superpotenze mondiali modificare l’ascesa del Pci, cioè del leader dell’eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un Paese industriale». Il giornalista continuava affermando che la partecipazione governativa del Pci sarebbe stata «ancor meno gradita ai sovietici […] la dimostrazione storica che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare, rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla Terza Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperialista moscovita». Si tratta in sostanza della logica di Yalta, la logica di guerra e di potere che decise il destino della politica italiana e le sorti di Aldo Moro. Nello stesso numero di OP, ma in un diverso articolo dal titolo «E anche Renato Curcio fa il suo dovere», Pecorelli affermava: «i rapitori di Aldo Moro non hanno nulla a che spartire con Brigate rosse comunemente note. Curcio e compagni non hanno nulla a che fare con il grande fatto politico-tecnicistico del sequestro Moro». In tal senso Pecorelli prospettava un allargamento dell’affaire Moro. Nell’articolo del 12 settembre 1978, dopo aver ricordato l’interesse di Washington e Mosca nel porre fine all’eurocomunismo, scrive: «per essere sicuri che le Br hanno agito per conto di terzi, italiani o stranieri, italiani e stranieri». L’abilità comunicativa di Pecorelli, i codici linguistici e giochi verbali, attribuiscono al giornalista una profonda forza storica. Egli era in grado di predire fatti e avvenimenti grazie al suo inserimento nei centri nevralgici del potere e dello spionaggio. Si tratta del punto di vista del film, che insiste sull’aspetto segreto e internazionale della guerra di cui sarebbe stato vittima Moro.
Alle quattro evidenze, si aggiungerebbe quella della divisa di avieri che si ricollega alla presenza del superkiller: si sarebbe trattato di un modalità di riconoscimento utile agli stessi brigatisti. Ma forse, tra loro, vi era qualcuno che non li conosceva personalmente e questo espediente avrebbe rappresentato un ottimo sistema di identificazione. Attraverso questa ipotesi, il film riprende il tema del superkiller. Egli sarebbe giunto a via Fani con la macchina di Mario Moretti, avrebbe attraversato la strada, e sarebbe andato verso il bar Olivetti, per incontrare il resto del comando, riconoscibili poiché tutti vestiti da avieri. Questo comportamento presume che il misterioso personaggio, che spara da solo 49 colpi, non conoscesse affatto il comando terrorista. E’ in tale circostanza, implicherebbe, secondo il personaggio di Branco, la possibilità che si trattasse di un «professionista» assoldato dalle Br. Con la divisa di avieri sarebbe stato più facile essere avvistati e riconosciuti. La testimonianza del giornalista Ernesto Viglione, depositata agli atti della Commissione Parlamentare, evidenzia la possibilità di gruppi militari presenti quella mattina in via Fani. Egli aveva contattato le Br per intervistare Aldo Moro durante la sua prigionia. Un anonimo brigatista gli avrebbe confidato che tutta la vicenda Moro sarebbe stata guidata «da due parlamentari e da una persona legata al Vaticano» e che in via Fani vi avrebbero partecipato uomini dei carabinieri e della polizia. Tale indizio, tuttavia, è apparso debole e ricco di lacune. Un elemento importantissimo, non raccontato nel film, è rappresentato da una testimonianza diretta. La giornalista Cristina Rossi occupata presso l’Asca (agenzia stampa Dc) aveva scattato delle foto dalla finestra del suo appartamento sito in via Fani 109: «il 18 marzo consegnai al giudice Infelisi, nel suo ufficio a piazzale Clodio, il rollino dei negativi che il 16 marzo mio marito [Gherardo Nucci N.d.T.] aveva scattato pochi minuti dopo il tragico fatto… la cosa gli era stata possibile abitando proprio nel palazzo di fronte al quale viene consumato l’eccidio… ritenni che i sette-otto fotogrammi riguardanti la vicenda, uno in particolare avrebbe potuto essere di qualche utilità per le indagini: infatti, sebbene nel fotogramma si vedesse che già sul posto si trovava un’autovettura di PS… vi era un capannello di una decina di persone tra le quali gli inquirenti avrebbero potuto individuare la presenza di qualche terrorista nella eventualità che questi, invece di allontanarti, si fosse mischiato tra i primi curiosi». La giornalista affermò che il giudice Infelisi tagliò con una lametta i fotogrammi interessati, ma in futuro quei stessi fotogrammi sparirono. Il giudice fece sapere che i negativi erano stati «riconsegnati alla proprietaria», quando lei stessa non avrebbe saputo più niente. Quelle foto scompariranno misteriosamente e il tutto fu reso più complicato da strane incomprensioni tra la Rossi, il dottor Infelisi e il capo delle Digos Spinella che aveva convocato la testimone il 26 maggio 1978. Willan ricorda che quelle foto vennero ingrandite per identificare i primi passanti e di come, probabilmente, si finì per identificare qualche personaggio scomodo. Un’intercettazione telefonica, trascritta da Willan, datata il 1 maggio del 1978, tra Benito Cazora e Sereno Freato evidenzierebbe la presenza di un presunto uomo “scomodo”. Dalla telefonata traspare la preoccupazione di certi ambienti malavitosi calabresi per quelle foto. Forse avrebbero potuto portare gli inquirenti su di un sentiero piuttosto pericoloso sia per gli stessi ambienti calabresi, sia per la precisa ricomposizione dello scenario di quella tragica mattina. Tuttavia, per quanto riguarda questo episodio, il film non ne fa accenno. Come si vedrà il coinvolgimento della malavita nel sequestro Moro avverrà, con il personaggio piuttosto ambiguo di Antonio Chichiarelli.
5. PEDINAMENTI E MINACCE FUORI DAL FILM. L’inseguimento costituisce un elemento narrativo e cinematografico di altissima tensione. Attraverso la costruzione tecnica dell’inseguimento, il cinema classico ha prodotto un vero e proprio tema narrativo che va sotto il nome di thriller. Si tratta di uno schema narrativo che ha delle regole precise. In primo luogo, l’inseguimento o pedinamento, inteso come azione fisica e narrativa, deve essere realizzato da almeno due personaggi in chiaro antagonismo. In secondo luogo, questi stessi personaggi, o esistenti, debbono essere plasmati dalla forma del discorso o se si preferisce dall’estetica stessa: un montaggio serrato e veloce, inquadrature strette e rapide. In terzo luogo, deve emergere il senso di paura e di tensione psicologica degli stessi personaggi. Questa costruzione è finalizzata alla suspense. Si tratta di un momento peculiare del racconto filmico, in cui si concentra l’intreccio narrativo e costringe lo stesso spettatore ad una maggiore attenzione. Da questo momento emotivo dipende il destino stesso dei personaggi e di tutto il racconto. Tale costruzione è presente anche nel film di Martinelli, a livello di racconto filmico, ovvero attraverso il rapporto che si stabilisce tra il punto di vista dei personaggi (soggettivo) e quello della macchina da presa (oggettivo del narratore). Ma gran parte degli eventi raccontati dal film, l’inseguimento in metropolitana, l’inquadratura all’interno del garage, la scena dell’attacco aereo, costituiscono un fatto narrativo ed esclusivamente di finzione: sono gli eventi che costringono il racconto verso una determinata direzione e portano i personaggi verso un determinato destino. Questa impostazione è data anche dal trattamento particolare che la vicenda storica di Moro subisce in ambito narrativo, per il solo fatto di dover essere raccontata. Ed è proprio per questo motivo che molti eventi storici non possono essere inseriti nel film. La vicenda di Moro è costellata da eventi particolarmente inquietanti, che tuttavia non sono inseriti nel film, ma che potrebbero evidenziare maggiormente alcune circostanze storiche molto gravi. Si tratta di certi episodi, precedenti al sequestro di via Fani, che descrivono il clima teso di quei giorni e offrono una chiara descrizione del contesto politico in cui si sarebbe trovato Moro. Una serie di strani episodi costringono Moro a ipotizzare di essere pedinato. Lo statista era stato particolarmente impressionato per il sequestro del figlio dell’ex segretario del Partito socialista, Francesco De Martino nell’aprile 1977, da temere il peggio per i suoi stessi figli. Secondo la vedova Leonardi, il marito era stato particolarmente in ansia durante il periodo precedente il 16 marzo a causa di un’informativa che segnalava la presenza di elementi brigatisti a Roma provenienti da paesi stranieri. La cosa sconcertante, affermò Leonardi ad Eleonora Moro, è che gli stessi organi di polizia avevano avuto l’ordine di non occuparsi di questa cosa e di lasciare stare. Questo fatto costituisce un primo indizio storico. Particolarmente grave è il caso della richiesta della macchina blindata. L’istanza risulta agli atti ufficiali e indicherebbe che lo stesso Sismi avrebbe consegnato la domanda al ministro dell’interno Cossiga. Scarano – De Luca scrivono che questi avrebbe negato di aver mai ricevuto una tale richiesta direttamente da Moro come invece sembra sostenere Eleonora. Tuttavia la scorta e lo stesso Moro non ebbero mai una risposta e, cosa molto più importante, non ebbero mai una macchina blindata. Particolarmente significativi furono gli eventi accaduti in Via Savoia 86, la strada in cui c’era lo studio di Moro dove lo stesso Moretti avrebbe acquistato delle armi. La porta dello studio di Moro venne forzata mentre la sua macchina venne manomessa almeno una decina di volte. Ma anche in questo caso, le indagini non aprirono nessuna pista rilevante. Due vicende, non ancora chiarite, descriverebbero la situazione di tensione che avrebbe caratterizzato l’atmosfera in quella via. Si tratta del caso Franco Di Bella e del caso Francesco Moreno. Nel novembre del 1977, Francesco Di Bella, direttore del Corriere della Sera, si era recato in via Savoia per un appuntamento con Moro. Alla sua macchina (una Fiat 125) improvvisamente si affiancarono due motociclisti armati. Leonardi denunciò il fatto. Il 15 marzo 1978, Spinella, capo della polizia, fece sapere che i motociclisti erano soltanto dei «volgari scippatori». Ma forse, la formulazione è troppo sicura: due scippatori in via Savoia che attirano l’attenzione della scorta di Moro e del giornalista Francesco Di Bella, indicherebbe, in qualche modo, una circostanza che andava quanto meno approfondita. L’evento è fatto passare senza particolari provvedimenti. Secondo il lavoro di Scarano - De Luca, il caso Moreno è un elemento assai inquietante a causa di strani collegamenti legati al soggetto. Gli inquilini dello stabile avevano notano per più giorni una Bmw sostare troppo a lungo davanti allo studio di Moro. Dopo la segnalazione, si apre un’indagine e si scopre che il giovanotto a bordo è Francesco Moreno. Si tratta di un individuo misterioso, in contatto con i servizi segreti libanesi, imputato nel 1973 per spionaggio politico, vicino agli ambienti dell’estremismo di destra (in particolare con la Società Radiofonica dove sembra si producessero informazioni a scopo spionistico, frequentata da un certo Schuller «ex nazista in rapporti stretti con servizi tedeschi e svizzeri, ma soprattutto arabi»). Il suo contatto con il caso Moro avviene anche per una strana coincidenza. Scarano – De Luca affermano che la sirena, destinata all'auto di Moreno, era del tipo di quella usata da un'auto che partecipò al rapimento Moro. Tuttavia una delle due è risultata acquistata soltanto nella mattina del 16 marzo 1978. Osserva De Luca: «in via Savoia non sembra che Francesco Moreno stesse per controllare Moro, ma proprio i brigatisti che controllavano Moro. Per contro di chi?». Si tratta di un ipotesi particolarmente grave, che è, tuttavia, in sintonia con il racconto filmico. Alcuni elementi indiziari avevano in qualche modo anticipato l’eccidio che si sarebbe compiuto in via Fani. Il primo riguarda un rapporto (6 marzo 1978) che giunge al Sismi da parte della Securpena, la struttura che gestisce la supervisione delle carceri: «comunicare subito che ci sarà un altro attentato, a grossa personalità di Roma». Ma obiettivamente rappresenta soltanto un indizio e per di più molto vago. Santovito, allora capo del Sismi si pronunciò argomentando le vie burocratiche: «la legge 108 stabilisce che noi Servizi informazioni arriviamo fino a un certo punto… una volta prodotta l’informazione e data all’organo operativo non possiamo nemmeno domandare che cosa ne fanno di questa informazioni». Un'altra informazione venne dal carcere di Matera da un certo Salvatore Senatore (16 febbraio 1978): «è possibile il rapimento di Moro». La velina viene passata al Sisde e li si ferma. Un’altra informativa giunse da Silvano Maestrello, un informatore già conosciuto dai servizi, che venne ucciso il 12 maggio del 1978 durante una rapina a Venezia. Anche in questo caso il Sismi accolse l’informativa senza dare origine ad azioni preventive ed investigative. Questi eventi sono di fatto indicativi per l’atmosfera che circolava intorno alla sorte di Aldo Moro. Ma gli elementi non si esauriscono qui. Particolarmente sinistre erano state le dichiarazioni raccolte da un’assistente, Giuseppe Eusebi presso la facoltà di filosofia a Roma, testimone di un dialogo tra due studenti: «hai messo tu la bomba all’Università?». La risposta: «queste cose io non le faccio, tanto rapiremo Moro». Giuseppe Marchi, altro testimone, sente in una piazza di Siena, un dialogo, con forte accento straniero tra due individui che dichiarano di aver rapito Moro e la sua scorta (siamo nel 18 marzo). Gian Gustavo D’Emilia, studente di 17 anni, dice ai compagni della scuola romana Merry Del Val: “oggi sequestriamo Moro e ammazziamo la scorta”, una confidenza che viene fatta prima dell’attacco terrorista. Dunque, tante informative, molti nomi e testimonianze dirette che citano il nome di Moro. Ma nessuno che voglia ascoltare: «davvero troppi sapevano per non pensare a una lunga, inerte attesa, rispetto a un fatto che “doveva” accadere», scrivono gli autori Scarano e De Luca. Il caso più eclatante si ha con la trasmissione radiofonica in diretta su Radio Città futura la mattina del 18 marzo. Renzo Rossellini parlerà in trasmissione della preparazione di un attentato e di una delle sue possibili vittime tra cui Aldo Moro. Quarantacinque minuti dopo, Moro veniva rapito. Si parlò di «supposizione metafisica», ma in seguito lo stesso Rossellini affermò che si era trattato di un ipotesi più che probabile: «noi sapevamo che il 16 marzo doveva presentarsi alle Camere il primo governo sostenuto dal Pci… Era evidente per noi che questa era l'occasione sognata dai brigatisti». L’ipotesi circolava già da tempo nei circoli dell’estrema sinistra, dichiarò in seguito Rossellini. Egli ricorre ad un elemento prettamente induttivo. Il Sismi, che solitamente registrava tutte le trasmissioni, dichiarò attraverso il suo generale Santovito che dall’archivio mancava proprio quella mezz’ora in cui Rossellini avrebbe fatto quella dichiarazione. Il nastro poi risulterà tagliato. La presenza di strane convergenze è dato direttamente da un evento che il film mette nelle parole di Branco. Si tratta di un elemento storico evidenziato da un personaggio di finzione. Durante la visione del Super8, il capo scorta osserva: «c’è qualcosa che non avete notato […] il tipo con l’impermeabile non si muove e si limita ad osservare». È un elemento fondamentale del caso Moro che si ricollega con la presenza dei servizi segreti durante la mattina del 16 marzo. Il nome dell’uomo, come rivelerà la scena seguente, è Camillo Guglielmi, colonnello dei servizi segreti, appartenente alle rete clandestina della Nato, responsabile dell’addestramento e della preparazione dei “gladiatori”. Anche in questo caso il film si riferisce alla ricostruzione giudiziaria di quel giorno. Nella Relazione della Commissione Parlamentare si legge che la presenza in via Fani di un colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, «non ha mai ricevuto una accettabile spiegazione […] il Guglielmi riferì di aver ricevuto un invito a pranzo presso un collega; quest'ultimo confermò di averne ricevuto la visita, ma non la circostanza dell'invito a pranzo, che comunque non avrebbe potuto giustificare la presenza del Guglielmi in via Fani alle nove del mattino». Tutti questi elementi costituiscono nell’insieme una sorta di disegno eversivo che probabilmente poteva essere debellato sul nascere. Tuttavia, soltanto a posteriori di questi eventi si riesce a comprendere il filo rosso che avrebbe descritto il progetto di destabilizzazione: l’eliminazione della politica di Moro che inevitabilmente sarebbe coincisa con l’eliminazione fisica dello stesso statista. La presenza di un colonnello del Sismi, dopo i pedinamenti avvenuti in via Savoia, i strani passaggi del Moreno, i misteriosi “scippatori”, costituiscono una complessa struttura di rapporti strani e non ancora chiariti. Spie, poliziotti, servizi segreti e militari costituiscono la colonna portante dell’enigma Moro e contribuiscono ad ispessire il segreto. Ad aumentare il senso di mistero, contribuisce la figura di Antonio Chichiarelli, un personaggio appartenente alla malavita romana, che Martinelli decide di inserire nella scena seguente. Si tratta di un affiancamento non soltanto narrativo, ma molto probabilmente anche allusivo, riferito alle strane alleanze che avrebbero favorito il tragico destino di Moro.
6. ANTONIO CHICHIARELLI. All’interno del sequestro Moro esiste un giorno, forse il più problematico di tutti, che costrinse le parti in causa, investigatori e brigatisti a confrontarsi con alcuni eventi particolari e piuttosto ambigui. Si tratta del 18 aprile, anniversario trentennale della Democrazia Cristiana, giorno in cui venne scoperto il covo di via Gradoli e consegnato il settimo comunicato dei brigatisti, poi risultato falso. Il compito narrativo del film è quello di analizzare la strana traccia che si era delineata in quel giorno e lo fa attraverso la figura misteriosa di Antonio Chichiarelli, oscuro manipolatore, falsario della banda della Magliana. Si tratta di un punto nevralgico della narrazione, in cui il regista tenta di analizzare le collusioni che avrebbero caratterizzato la perpetuazione del sequestro Moro, attraverso linguaggi criptati, molto spesso in codice e oscuri personaggi non meglio definiti. La scoperta del covo di via Gradoli avviene in maniera piuttosto strana da mettere in dubbio la stessa verosimiglianza dell’evento. Uno sciacquone difettoso avrebbe causato l’intervento dei pompieri e quindi delle forze dell’ordine. Quando la polizia entrò nell’appartamento, trovò in bella mostra una serie di documenti scottanti. Perché i brigatisti avrebbero commesso una tale ingenuità? È possibile che Moretti e Balzerani abbiano trascurato così superficialmente un guasto nel loro appartamento, rischiando di far saltare il sequestro di Moro? Si tratta di domande legittime che secondo alcuni giornalisti, i cosiddetti dietrologi, e secondo lo stesso Martinelli, troverebbero una risposta soltanto in un contesto più complesso. L’ipotesi accreditata è quella del messaggio in codice. È possibile che i servizi segreti abbiano “bruciato” il covo per permettere di recuperare alcune carte di Moro legate ai segreti Nato (P2, Gladio) e forse sulla stessa rete italiana del Kgb. L’operazione sarebbe stata fatta in modo particolarmente evidente da permettere a Moretti e alla Balzerani di essere informati da radio e televisione e continuare così il loro sequestro, ma in modo sempre vigilato. In questo modo i brigatisti sarebbero stati avvertiti: possiamo prendervi quando vogliamo. In questa prospettiva il falso comunicato, quello del lago della Duchessa, è servito a creare un potente diversivo per catalizzare l’attenzione sulla prigionia di Moro, piuttosto che sulla scoperta del covo di via Gradoli. L’autore del comunicato è Antonio Chichiarelli, personaggio ambiguo, falsario, pittore, il quale sembra occupare un ruolo di mediazione tra servizi segreti e malavita romana. Secondo Willan, Chichiarelli conosce e frequenta Luciano Del Bello (informatore del Sisde) ed è in possesso di numerose informazioni relative al sequestro Moro, all’omicidio Pecorelli e del sottufficiale dei carabinieri Antonio Varisco. Come racconta il film, fu Chichiarelli a scrivere il settimo falso comunicato. Chi aveva commissionato il falso comunicato a Chichiarelli? Gladio? I servizi segreti? E perché? Sono le domande che offrono la pista investigativa del film. Attraverso le parole di Fernanda, il racconto inizia la sua indagine. Fernanda ricorda che ad un giorno di distanza dall’omicidio Pecorelli, Chichiarelli “dimentica” su di un taxi un misterioso borsello. Questo conteneva una Beretta 9 mm, una serie di documenti, alcuni oggetti collegati alla vicenda di Aldo Moro da suggerire strane complicità tra servizi militari e civili. Probabilmente si trattava di un messaggio criptato, rivolto a chi poteva comprendere: undici proiettili calibro 7.65 e uno di calibro maggiore, una testina ruotante Ibm simile a quella usata dalle Br per scrivere i loro comunicati (light Italia numero 12), un portachiavi con nove chiavi (possibile riferimento ai possibili terroristi che avevano collaborato all’agguato), due flash Silvania (due come le Polaroid scattate durante la prigionia), un pacchetto di tovagliolini di carta Palma (tipo per tamponare le ferite del prigioniero), e tre piccole pillole bianche, forse un’allusione alle medicine di Moro. Il film descrive direttamente questi elementi e relaziona tutti gli oggetti con il caso Moro. I documenti della borsa includevano dieci pagine dell’elenco telefonico di Roma riguardanti alcuni ministeri governativi, in cui comparivano messaggi in codice, simili a quelli usati dalle Br per il comunicato consegnato a Roma il 20 marzo 1978. In oltre, vi erano quattro documenti che trattavano un piano d’attacco a personaggi di rilievo (Pietro Ingrao, il figlio del magistrato romano Achille Gallucci, l’avvocato milanese Giuseppe Prisco). Sorprende l’appunto sulla morte di Pecorelli in cui si leggeva, “da eliminare”, con data martedì 6 marzo 1979, con alcune indicazioni di depistaggio. Probabilmente lo scopo del messaggio era quello di collegare l’omicidio di Pecorelli con quello di Moro suggerendo che lo stesso Pecorelli era in possesso di documenti riservatissimi. In questa circostanza compare un ulteriore indizio che fornisce il titolo alla storia. Si tratta del messaggio che descriveva il rinvio dell’omicidio di Pecorelli, causa «intrattenimento prolungato», presso Piazza delle Cinque Lune. Qui, il 6 marzo del 1979, come racconta il film, Pecorelli avrebbe partecipato ad un incontro segreto con alcuni esponenti del servizio segreto militare, il colonnello Antonio Varisco ed un altro altissimo carabiniere, probabilmente il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mentre fuori dall’edificio, alcuni killer avrebbero atteso la sua uscita. Ma il delitto venne rinviato per fine marzo, anche perché, come si legge nei documenti lasciati da Chichiarelli, «sarebbe problematico concedergli tempo». Dunque, la piazza rappresenta un passaggio obbligato nella vicenda di Pecorelli, di Varisco e inevitabilmente di Moro. Pecorelli doveva incontrare i servizi segreti. Ma chi aveva commissionato l’attentato? I stessi servizi segreti che Pecorelli stava incontrando? Probabilmente no. Il film precisa che Pecorelli voleva incontrare il conoscente Antonio Varisco, colonnello dei carabinieri, l’uomo che il 16 marzo 1978 aveva avvisato i servizi di sicurezza di cercare una Renault 4 rossa. Egli venne ucciso il 13 luglio 1979 per mano delle Br, ma la scelta dell’arma, un fucile a canne mozze, lascia pensare ad un esecuzione di tipo mafiosa. Uno dei colleghi di Varisco, il capitano Antonio Straullu, fece una fine analoga per mano dei Nar e anche lui aveva affermato, di saperne abbastanza per far saltare il “palazzo”. Molto probabilmente gli attentatori non erano soltanto legati ad un “semplice” gruppo malavitoso. Il film ricorda che fu lo stesso Pecorelli ad aver collegato il falso comunicato del Lago della Duchessa con la scoperta del covo di via Gradoli. E per queste sue “rivelazioni” aveva probabilmente infastidito più di qualche “potere forte”, appunto la loggia di Gelli. E in questi termini si spiegherebbe l’eliminazione del colonnello Varisco. Tutti questi cadaveri eccellenti, sono legati da un unico destino: il legame con il Memoriale di Moro. Inizialmente, attraverso alcuni articoli sibillini, Pecorelli aveva il compito di scoraggiare la politica di Moro. Per questo motivo, quasi sempre, il nome del segretario della Dc veniva associato a quella di “morte”. Osserva Willan: «è possibile che la cosa facesse parte di un piano orchestrato dalla P2 per mettere Moro sotto pressione e forzarlo ad abbandonare il suo programma politico». In seguito Pecorelli assume un comportamento contraddittorio, di allontanamento dagli ambienti dei servizi segreti e dalla stessa P2. La posizione di Pecorelli si fa ambigua: da uomo facente parte del presunto complotto (iscritto alla P2, amico di militari, politici e alta finanza), sembra improvvisamente chiamarsi fuori da questo coinvolgimento. È questo comportamento, il tentativo di trattare le sue informazioni con i servizi segreti e altri gruppi occulti, che sancisce la sua condanna. Nel numero del 18 marzo 1977 di OP, scrive una lettera indirizzata a Gelli per informarlo della sua intenzione di dimettersi dalla P2. Una decisione che sembra derivare dalle difficoltà economiche del giornalista. Da questo momento in poi la figura di Pecorelli sembra divenire particolarmente fastidiosa per la stessa Loggia. Negli articoli di OP, la struttura di Gelli è descritta come macchinosa, misteriosa, pericolosa e potente. In un articolo datato una settimana prima della sua morte, Pecorelli scriveva: «attentati, stragi, tentativi di golpe, l’ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese all’Anonima sequestri, alla fuga di Sindona dall’Italia». Si tratta dell’ultimo articolo di Pecorelli, in cui aveva promesso importanti notizie sul caso Moro. Tre giorni dopo, proprio quando doveva incontrare Gelli, come era appuntato nella sua agenda, Pecorelli veniva eliminato (20 marzo 1979). Sotto il suo ufficio in via Tacito, nel quartiere Prati, Pecorelli è colpito in bocca: «la punizione mafiosa per chi aveva parlato troppo». Tra gli appunti trovati sul taxi c’erano dei paragrafi relativi ai segreti Nato (il film cita i paragrafi 162, 168, 174 e 177) che corrispondevano alle pagine mancanti del Memoriale Moro in possesso di Pecorelli il giorno della sua morte. Con questa spiegazione il film collega inequivocabilmente l’uccisione di Pecorelli al sequestro Moro, e lo fa attraverso quegli indizi che Chichiarelli avrebbe intenzionalmente lasciato sul taxi. Questa informazione finisce per essere un indizio piuttosto compromettente per i presunti personaggi che avrebbero preso parte all’affaire Moro. Gli eventi descritti dal film, che corrispondono perfettamente al livello delle indagini fatte fino ad oggi, finiscono per descrivere il gruppo brigatista in maniera misteriosa e complessa. Ed è la strada scelta dal racconto, la domanda assillante che percorre tutto il film. Osservano Scarano e De Luca: «la strage di Via Fani, il sequestro di Aldo Moro e infine l’assassinio sono stati “gestiti” a più mani. Sotto il drappo con la stella a cinque punte, accanto alla folta e più forte componente terroristica, si sono nascosti i maneggi e gli interventi di altre due componenti ugualmente aggressive: quella di una delinquenza organizzata tipo camorra e mafia, e quella più occulta di spezzoni di vecchi servizi segreti». Da questo punto di vista, la figura di Chichiarelli fungerebbe da collante tra la legalità e l’illegalità, in una situazione in cui non si è mai chiarita del tutto la relazione esistente tra i diversi elementi dei servizi segreti e alcuni esponenti della malavita organizzata. Il film prosegue con un ulteriore evento che riguarda la biografia di Chichiarelli e che sembra apparentemente sganciato dall’affaire Moro. Si tratta della rapina Brinks Securmark, il 23 marzo 1984, dove sono lasciati, ancora una volta, alcuni oggetti che alludono ad un messaggio in codice. La sua funzione, come si potrà osservare, è quella di chiudere il cerchio e dare un senso preciso alla presenza di Chichiarelli all’interno del caso Moro. I rapitori, identificati come brigatisti, prelevano dall’edificio 35 miliardi di lire. Prima di legare le guardie, i terroristi enfatizzarono l’aspetto politico e rivoluzionario del loro gesto, fotografando una delle guardie davanti una bandiera rossa con la famosa stella a cinque punte. I rapitori abbandonarono un certo numero di oggetti di chiaro significato simbolico: una granata fumogena Energa (riferimento all’omicidio Varisco), sette proiettili Nato calibro 7.62, sette piccole catene e sette chiavi. Le chiavi e le catene vennero poi interpretate come riferimento al rapimento di Moro. Il giudice Saracini afferma che il ricorrente numero sette rimanda al falso comunicato del lago della Duchessa. Le granate erano di provenienza americana ed erano state originariamente conservate, secondo quanto scrive Willan, da Egidio Giuliano nel deposito del ministero della Sanità. Afferma Willan che le armi erano servite per l’operazione “Terrore sui treni” come depistaggio per la strage di Bologna. L’abbandono delle granate Energa avrebbe rappresentato una sorta di linguaggio cifrato: sappiamo chi ha ucciso Varisco e perché. Un ulteriore elemento, un documento politico redatto dal vertice delle Br, chiarisce la relazione con i terroristi. Come afferma il personaggio di Fernanda, la mente della rapina è Antonio Chichiarelli, che dopo aver scritto il falso comunicato, e aver lasciato del materiale scottante in un taxi, riappare attraverso una rapina, lasciando strani indizi, quasi un’intimidazione a chi gli aveva garantito la libertà. Il film sostiene la tesi dello scambio: la rapina, consistente e molto facile, sarebbe stata una ricompensa per il lavoro svolto fino a quel giorno. Ma pochi mesi dopo la rapina, come ricorda il giudice Saracini, un killer munito di pistola con silenziatore uccide Chichiarelli. È il 28 settembre 1984. E’ l’ennesimo cadavere eccellente che articola l’affaire Moro e lo ammanta di un ulteriore mistero. A collegare il caso Moro a quello di Chichiarelli esistono altri elementi che per motivi di narrazione il film non può raccontare. Willan ricorda che il 25 marzo Pecorelli avrebbe telefonato a Il Messaggero comunicando che in un cestino di piazza Gioacchino Belli, lo stesso luogo del falso comunicato numero 7, si troverebbero alcuni proiettili dello stesso calibro usato per la rapina della Brinks. Vi era, in oltre, un documento definito “allarmante”: c’era il riferimento alla presenza finanziaria di Sindona nella banca Brinks, cosa che non era affatto di pubblico dominio. Chiunque si addossasse la responsabilità della rapina del 1984 era indubbiamente l’autore del comunicato in codice del 1978 o gli era molto vicino. Tra i documenti ritrovati in piazza Belli c’erano anche gli originali dei rapporti su Pecorelli, Gallucci e Ingrao, lasciati da Chichiarelli nel taxi. Il film non si sofferma, però, su un ipotesi inquietante: Chichiarelli aveva spedito sempre a Il Messaggero due frammenti originali di Polaroid fatte risalire alle due foto fatte a Moro durante la sua prigionia. Ne consegue che Chichiarelli, o qualcuno molto vicino, era venuto in contatto con la prigionia di Moro. Si tratta di un fatto gravissimo: un membro della malavita romana in contatto con i servizi segreti si sarebbe introdotto nella prigione di Moro mentre questi era ancora vivo; dal che si deduce che i servizi segreti conoscevano l’ubicazione della prigione di Moro (e Pecorelli l’aveva detto) ma anche, nonostante questo, non avevano fatto nulla per assicurarne il rilascio. È un’ipotesi inquietante che si collega nuovamente agli oggetti lasciati sul taxi. Il primo elemento riguarda la patente intestata a Luciano Grossetti priva di foto che probabilmente, secondo Willan, si riferiva all’informatore Luciano Del Bello. Il secondo riguarda un biglietto per Messina (Villa San Giovanni), che indicherebbe una possibile relazione con il mondo mafioso siciliano e che si riferirebbe alla presenza dei carabinieri nell’affaire Moro. Con questa manovra, Chichiarelli sembra voler evidenziare tutta il lavoro svolto da Pecorelli. Anche Chichiarelli sembra spinto da una volontà “strana”: quella di svelare i collegamenti già descritti dal giornalista. Ma il suo vero obiettivo non sembra essere molto chiaro e forse, anche per questo, sarà eliminato in circostanze misteriose. La morte di Chichiarelli, il falso comunicato e l’episodio della borsa finiscono per assumere, come sottolinea lo stesso giudice, un chiaro significato collusivo: la rapina di Chichiarelli era la ricompensa che i servizi segreti, legati agli interessi della P2, avevano offerto allo stesso falsario per la collaborazione al settimo comunicato. L’evento collusivo spiega, per tanto, la complicata alleanza che si era creata dietro l’affaire, dove servizi segreti e criminalità sembrano convergere sull’obiettivo di eliminare in ogni modo la presenza “politica” di Moro. Dunque il film, trattando il personaggio di Chichiarelli, costruisce un'altra pista indiziaria che si affianca al caso Moro e allude alle possibili collusioni: sono coinvolti Pecorelli, Varisco, Chichiarelli stesso, servizi segreti deviati e gruppi potenti e oscuri che fanno gli interessi di qualcosa che nel film ancora non si capisce chiaramente[99]. Fino a questo punto lo scopo del racconto filmico è quello di sollevare quanti più dubbi sulle versione ufficiale del sequestro Moro. E’ soltanto in questo momento che il film inizia ad affrontare il motivo del suo racconto, ovvero fornisce una prima spiegazione del suo titolo Piazza delle Cinque Lune. La Piazza è il luogo che spiegherebbe le strane alleanze che avrebbero dato origine all’eliminazione di Moro, che spiegherebbe la collusione tra terroristi, servizi segreti deviati e gruppi internazionali: le “cinque lune” possono assurgere al valore simbolico della vicenda di Moro, incastonata in una sorta di zona grigia che ancora oggi, malgrado i cinque processi, rimarrebbe misteriosa e irrisolta. Attraverso l’inserimento di immagini brevi e verosimili (il bianco e nero dei Super8) e la descrizione di elementi indiziari riservati e compromettenti per la politica nazionale e internazionale, il film minaccia la fruizione passiva dello spettatore, portandolo ad un coinvolgimento emotivo e razionale. Rispetto alla struttura narrativa di Rosi, o ancora di Oliver Stone (si pensi a JKF) il film mantiene le unità di luogo e di tempo, concedendosi brevi flashback di forte impatto percettivo e storico, senza lasciare il “presente storico” dove si svolgono le indagini. I due livelli del film, l’indagine degli esistenti e l’affaire Moro, finiscono per sovrapporsi da dare l’illusione di un unico tempo storico. In realtà di tratta di due momenti ben distinti, sia per quanto concerne la collocazione temporale degli eventi, e sia per quello che concerne la costruzione estetica dei vari momenti. Tuttavia questa sovrapposizione di tempi diversi, può giustamente considerarsi un unico tempo narrativo, in quanto sono tematicamente legati al tema dell’indagine. Probabilmente è quello che intende Deleuze, quando tratta l’argomento “tempo”: si scopre un tempo interno all’avvenimento, fatto di simultaneità di tre tempi, passato, presente e futuro, contemporanei, e dunque «arrotolati», «simultanei», «inesplicabili». La narrazione consisterebbe, da questo punto di vista, nel distribuire i differenti presenti a seconda delle circostanze. Tuttavia, il film di Martinelli non costituisce una narrazione particolarmente destrutturata per quanto concerne l’ordine del tempo, come invece avviene nel film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi o in JFK di Oliver Stone.
7. INDAGINI E MASSONERIA. Dopo la prima indagine sul caso Moro scaturita dalla visione del Super8, il racconto punta l’attenzione sui protagonisti, Rosario, Branco e Fernanda. Qualcuno li sta spiando. La scena della metropolitana di Milano informa chiaramente che i personaggi sono al centro di un misterioso pedinamento. La conferma viene dallo stesso Branco che attraverso il vecchio trucco del cerino, incastrato nella portiera della macchina, scopre che qualcuno è stato li. Qualcuno ha aperto la macchina. Le immagini in bianco e nero fanno da contrappunto alla scena nel garage: l’inquadratura riprende gli stessi personaggi, ma cambia la qualità e il punto di vista di chi osserva. Se prima era il racconto del film a mostrarci il loro movimento, adesso è un punto di vista diverso, estraneo all’oggettività narrativa della macchina da presa. Quel punto di vista sembra indicare la presenza di un altro esistente, di un altro personaggio, che il racconto non ha ancora presentato. Il movimento “sporco” dell’inquadratura contiene una sorta di terzo senso, è offre un ulteriore significato semantico: è il punto di vista di qualcuno che sta spiando i tre personaggi, che li controlla in ogni piccola mossa. Questo evento ha due significati narrativi: il primo, evidentemente, è di ordine informativo, cioè dice che qualcuno o qualcosa sta controllando le azioni del procuratore (brigatisti? servizi segreti? malavita?). Il secondo è di ordine prettamente narrativo in quanto tende a rafforzare l’intreccio del racconto: attraverso queste misteriose minacce, il film “ri-attualizza” il clima che aveva caratterizzato il caso Moro. Il “potere” è dunque sempre in agguato, intollerante e spietato. Chiunque ha che fare con il caso Moro, come ricordano le parole di Fernanda, è inevitabilmente coinvolto in un gioco molto più grande che sembra non avere scrupoli sull’incolumità delle persone e delle rispettive famiglie. È proprio questo tipo di intreccio che rafforza l’ipotesi del “complotto” contro Moro e quindi contro chi tenta di indagare sullo stesso affaire. Da questo punto di vista il tempo storico sembra non essere trascorso: il potere è costantemente presente, onnisciente, determinato, spietato, come racconta lo stesso film. La morte del marito di Fernanda, che il film racconta attraverso un “incidente” creato a regola d’arte, mostra l’estrema conseguenza di questo potere: uccide le persone, distrugge le famiglie, sopprime la società civile. La scena della recita risorgimentale, impersonata dai figli di Fernanda, assume un valore simbolico. La bandiera dell’Italia che copre il corpo caduto del soldato oltre ad essere un evento narrativo, la recita scolastica appunto, è anche una rappresentazione simbolica di tutto quello che coinvolge il caso Moro. Durante la recita, Rosario viene raggiunto da un nuovo messaggio dall’anonimo terrorista (si tratta del quarto contatto all’interno del film): «controllate i rogiti di via Gradoli 96». L’espressione indica chiaramente la mancanza di chiarezza sul covo brigatista sito in via Gradoli. Il biglietto provoca una furibonda reazione di Fernanda, la quale inizialmente si scaglia contro Rosario nel tentativo di dissuaderlo da questa folle indagine, ma subito dopo è lei stessa che si immerge nei fascicoli del caso Moro. Tale costruzione del personaggio è senza dubbio contraddittoria. Se la sua funzione narrativa è quella di alimentare la “paura” che aleggia intorno alle indagini, che di fatto si tradurranno con la perdita del marito, e pur vero che l’integrità del personaggio, la sua costruzione, è poco chiara e sostanzialmente ambigua. Fernanda preme affinché la famiglia debba restare fuori, ma poi si lascia trasportare dal vortice delle indagini ed è lei stessa a conoscere l’esito delle indagini e dei vari processi. Da un punto di vista diegetico, il suo scopo narrativo è particolarmente debole o, comunque, subisce un’evoluzione che resta un tantino forzata. La scoperta del presunto covo di via Gradoli 96 (scala A interno 11), nella zona nord di Roma, costituisce uno degli elementi più misteriosi del caso Moro in cui si può intravedere una sorta di “collusione” tra malavita, brigatisti e servizi segreti. Il covo, come ho accennato nel paragrafo precedente, viene scoperto durante la prigionia di Aldo Moro, esattamente il 18 aprile: la data coincide con il trentesimo anniversario della democrazia cristiana e con la diffusione del settimo “falso” comunicato. Il film evidenzia che nella stessa via, al numero 89, sarebbe vissuto il sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani, agente del Sismi e originario di Porto San Giorgio, luogo di nascita del capo brigatista Mario Moretti. Si tratta di una coincidenza significativa. Durante il sequestro Moro, l’agente Arcangelo Montani ufficialmente “non faceva parte del Sismi”, ma il 31 marzo 1978 lo stesso contrammiraglio Fulvio Martini (allora vice direttore del servizio segreto militare) era intervenuto a favore del Montani in seguito a un esposto presentato al comando dei carabinieri da alcuni inquilini del condominio di via Gradoli 89, i quali avrebbero lamentato di aver subito vessazioni da parte del sottufficiale. Si tratta di un primo elemento misterioso a cui seguiranno una serie di “indizi”. Attraverso uno scorcio veloce sul personaggio di Rosario, il film mostra una serie di nomi di società immobiliari di coperture del Sisde, presenti in via Gradoli ad incominciare dagli appartamenti della palazzina dove si trovava il covo. Le società sono l’immobiliare Gradoli, l’immobiliare Case Roma srl e l’immobiliare Monte Valle Verde srl. Flamigni si chiede, come sia possibile che il Sisde, che aveva in locazione gli appartamenti accanto e di fronte al covo brigatista, non si sia accorto di niente. Come è possibile che il Sisde non abbia saputo della presenza dei brigatisti in una delle sue proprietà immobiliari? Questa parte del film è chiaramente ispirata al lavoro d’indagine del senatore Flamigni, il quale si è basato su due ricerche principali:
«…1) ho voluto concentrare l’attenzione su uno degli aspetti principali del caso Moro, le vicende del covo di via Gradoli, da cui emerge che i nostri servizi segreti hanno controllato i brigatisti, ma li hanno lasciati agire indisturbati fino al 18 aprile 1978, quando hanno fatto scoprire il covo in concomitanza con il comunicato falso del lago della Duchessa.
2) Dato che alcune notizie pubblicate nel mio libro “Convergenze parallele” erano state contestate in particolare da Francesco Cossiga che aveva presentato una interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno, ho voluto rendere noto che lo stesso Capo della Polizia, dott. Masone, ha ammesso la veridicità di quanto avevo scritto nel precedente libro Convergenze parallele a proposito dei legami con fiduciari del Servizio segreto civile di società immobiliari proprietarie di appartamenti in via Gradoli 96 (nello stesso palazzo dove vi era il covo delle Br), e a proposito del fatto che Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde e capo della polizia, era proprietario di diversi appartamenti in via Gradoli».
La tesi portata avanti dal film è quella della collusione tra servizi segreti, apparati della polizia e brigatisti: insieme, controllati da un’organizzazione per ora non meglio definita, avrebbero contribuito a determinare lo svolgimento degli eventi. Rosario ricorda come il ministro degli interni Cossiga aveva istituito tre Comitati con una rapidità senza precedenti i quali, però, non produssero risultati determinanti. Questi furono il Comitato tecnico-operativo (presso il gabinetto del Ministero dell’Interno), il Comitato informativo (Sismi, Sisde, Cesis e Sios) e il Comitato “esperti”, di tipo informale composto da intellettuali, aggregato intorno al professor Vincenzo Cappelletti. Il film non può “raccontare” ogni indizio giudiziario (non è il suo compito precipuo), ma tra le righe tenta di dare valore ad alcuni eventi. In effetti la questione relativa alla formazione e alla funzione dei Comitati è piuttosto recente: del Comitato di “esperti” si è avuta ufficialmente notizia solo il 15 maggio 1991, quando Francesco Cossiga, che lo istituì, ha deciso di renderlo noto, senza peraltro chiarirne fino in fondo, l’attività e le decisioni. Di questo gruppo parallelo facevano parte: Stephen Pieczenik del Dipartimento di Stato Usa e uomo di fiducia di Kissinger, e i professori Franco Ferracuti, Stefano Silvestri, Cappelletti, Conte Micheli, Dalbello, Mario D’Addio, Ermentini. Su questa struttura di consulenza, ha reso testimonianza uno degli appartenenti, Stefano Silvestri, ascoltato in Commissione Stragi nel giugno 1998. Secondo Silvestri non fu mai tenuta una riunione di questo organismo, ma ai singoli componenti venivano chiesti pareri su alcune questioni senza alcun coordinamento con strutture operative. Il dato più importante riguarda il lavoro relativo al Comitato di esperti che risulterebbe, tutt’oggi, inesistente: mancherebbero i verbali e una precisa documentazione. La stessa Commissione ha concluso: «la mancanza dagli archivi del Viminale di tutta la documentazione concernente il periodo di prigionia dell’On. Moro e dei tentativi di liberarlo da parte delle forze dell’ordine non trova alcuna plausibile spiegazione». Le ipotesi in merito possono essere tre: «La soppressione dei documenti stessi, la loro sottrazione da parte di ignoti, ovvero il loro trasferimento dalla sede propria. Si conferma così una costante dell’affaire Moro: prove importanti sulla gestione della crisi sono state sottratte agli organi istituzionali, ma non è escluso che altri ne dispongano e le utilizzino, o minacci di farlo, nel momento più conveniente». L’elemento di spicco del Comitato “esperti” è senza dubbio Steve Pieczenik, fautore di una precisa linea strategica: occorreva dimostrare che Moro non era indispensabile alla vita del Governo e della nazione. Per il comitato, Aldo Moro è affetto dalla sindrome di Stoccolma e quindi è inaffidabile. Tutto il contributo del consulente americano è quella di rafforzare la decisione del governo italiano a non negoziare la liberazione di Moro. Si tratta di una strategia che entra fortemente in relazione con la tesi portata avanti dal film di Martinelli. Ad occuparsi del consulente americano è Pecorelli, nel suo ultimo articolo (16 gennaio 1979) intitolato Vergogna buffoni. Il giornalista minacciava di tornare in futuro su alcuni aspetti dell’oscura vicenda: «Parleremo di Steve R. Pieczenick vicesegretario di Stato al governo Usa, il quale, dopo aver partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare». Willan ricorda che la stessa presenza del consulente americano era stata tenuta nascosta alla stampa e perfino, come afferma Rosario, alla stessa ambasciata Americana. La sua presenza a Roma è dunque segretissima. Se fosse vero, questo fatto proverebbe la particolare ambiguità del Comitato in cui faceva parte lo stesso Steve Pieczenik. Ma non basta. Un altro comitato, quello tecnico operativo, dimostra strane incongruenze. Questo è composto dal Sismi, dal Sisde, dall’Ucigos, più i vertici dell’esercito e della marina. La struttura si rivelerà quasi subito impotente, perfino depistante: i verbali del 3 aprile, data che coincide con la presenza dell’amico americano di Cossiga e della nuova strategia relativa al sequestro Moro, spariranno misteriosamente. Tutto il lavoro delle indagini è caratterizzato da un imponente sforzo investigativo basato sul movimento di mezzi logistici e posti di blocco. Come aveva osservato Sciascia, si aveva l’impressione di assistere ad una parata che voleva impressionare l’opinione pubblica. E si tratta di una tesi che il film sviluppa ulteriormente: tutte le indagini, secondo il giudice Saracini, sarebbero state manovrate da un misterioso gruppo di potere, la Loggia «ultrasegreta e clandestina» P2. La Loggia Massonica, come evidenzia il giudice, ebbe una funzione di collegamento tra l’esito delle indagini e il lavoro dei Comitati con lo scopo di impedire la realizzazione della politica di Moro e «l’ingresso del partito comunista nel governo italiano». È la prima volta che un film italiano tratta in maniera approfondita la funzione specifica e strategica di questo gruppo massonico deviato. Da questo momento in poi il film costruisce il caso Moro in relazione a questo gruppo di potere; per la prima volta nella storia del cinema fa il nome del suo capo e dei suoi appartenenti in relazione al caso Moro. L’inserimento della P2 all’interno del film è quindi un evento importante anche da punto di vista strettamente narrativo. Giuseppe Ferrara aveva tentato l’inserimento della Loggia nel suo film con tanto di luogo fisico, un elegante salone dove gli affiliati si sarebbero riuniti (compreso l’uomo che avrebbe preso alcune valigie di Moro). Tuttavia il racconto di Ferrara rimane circoscritto in questo evento e non allarga l’indagine come invece fa il film di Martinelli. Lungi dal fare un confronto diegetico tra i due film, i quali se pur trattando lo stesso argomento sono film diversissimi, è doveroso osservare che Piazza delle cinque Lune è un racconto basato sull’ipotesi del complotto a partire dal compito che la stessa Loggia avrebbe perpetuato all’interno del caso Moro. Martinelli non esita a fare il nome del capo venerabile Licio Gelli compiendo un ulteriore passo verso il cinema cosiddetto impegnato, rompendo il muro di omertà e di autocensura che ha caratterizzato la cinematografia politica.
8. VIA GRADOLI. Tutte le indagini portate avanti sembrano essere determinate da un potere che le gestisce, e al tempo stesso, ne impedisce lo sviluppo in senso definitivo. L’evento più indicativo, in questo senso, è il caso di via Gradoli, che costituisce uno dei punti fermi del racconto di Martinelli. La via nasconde molte contraddizioni. Una piccola via di città, sconosciuta, persa nella periferia nord di Roma, trova una collocazione “giudiziaria” che la pone al centro di un contesto internazionale complesso e delicato. Le strane modalità di indagine avvenute in via Gradoli sono argomentate da Fernanda. Il 18 marzo del 1978, gli agenti di pubblica sicurezza erano già stati nella via senza conseguire risultati. Gli agenti del commissariato Flaminio capeggiati dal brigadiere Domenico Merola non apriranno la porta dove, in seguito, verrà scoperto uno dei covi delle Br. Fernanda evidenzia un fatto estremamente strano, un indizio inequivocabile. Si tratta della relazione firmata da Merola riguardo a quella perquisizione intestata su carta con il bollo Polizia di Stato. La nuova sigla, pero, è adottata con la riforma della pubblica sicurezza nel 1981. E’ una relazione “falsa” che mette in dubbio l’operato della polizia e delle perquisizioni. Il dirigente del commissariato, il dottor Costa, fornirà una versione dell’evento: la relazione era stata riscritta e fatta firmare al brigadiere Merola poiché l’originale era stato consegnato alla Corte. Per gli appartamenti non perquisiti lo stesso Costa affermerà che erano state prese «opportune informazioni» sugli inquilini occupanti. Un ulteriore indizio viene dalla dichiarazione-denuncia di Lucia Mokbel datata 18 marzo, la quale sente provenire dall’appartamento in cui si sarebbe trovato il prigioniero Moro alcuni segnali morse, denuncia che consegnerà al suo amico vicequestore e funzionario del Sisde Elio Cioppa (P2) uno degli uomini del generale Giulio Grassini. In Corte d’Assise gli agenti sarebbero caduti dalle nuvole, e non avrebbero ricordato nessuna denuncia della Mokbel. Altri fatti strani offrono uno spunto investigativo. Delle segnalazioni riguarderebbero alcune automobili viste passare nella via. Vengono annotate targhe automobilistiche e si pedinano persone come riporta un rapporto della Digos riscritto il 18 agosto 1978. In particolare viene osservato un furgone Volkswagen targato Roma 589133 appartenente ad un certo Giulio del Petra, il quale si recherà in Calabria con il furgone stesso. In Calabria c’è nello stesso periodo (1975) anche Mario Moretti in circostanze mai chiarite. In una testimonianza di Enrico Triaca, si afferma che un furgone simile è utilizzato dalle Br per portare la stampatrice presso la tipografia in via Foa. Il numero di De Petra verrà trovato nell’agenda di Morucci. Ma tutto questo si scoprirà più tardi. Un'altra informazione sul covo di via Gradoli era giunta anche dal parlamentare democristiano Benito Cazora in data 25 marzo 1978 da un misterioso emissario appartenente alla malavita calabrese di nome “Rocco”. Lo stesso Cazora afferma di essere stato portato sulla Cassia all’altezza dell’incrocio di via Gradoli dove gli sarebbe stato detto che questa era la “zona calda”. Cazora riportò immediatamente l’informazione al questore di Roma, dove si fermò. Ma l’elenco delle segnalazioni non finisce qui. Altre informazioni sarebbero giunte all’ex ufficiale del Sid Antonio La Bruna attraverso un suo informatore, un certo Benito Puccinelli in una notte di fine marzo 1978: in via Gradoli c’era un appartamento interessante che si nota anche per un “antenna” radio sul tetto. Francesco Solimeno pentito ed esponente di Guerriglia comunista afferma di essere stato informato su via Gradoli da un certo Fritz (4 aprile 1978) durante un giro dalle parti di via Cassia. Secondo un appunto trovato nel covo, un certo “Fritz” aveva consegnato alle Br la mitraglietta Skorpion usata per il rapimento Moro. E naturalmente come ogni indagine che si rispetti non poteva mancare l’elemento metafisico. Il nome di via Gradoli uscì durante una seduta spiritica a cui aveva partecipato il futuro presidente dell’Iri Romano Prodi. Tuttavia Andreotti e Cossiga hanno sempre affermato che l’informativa a Prodi gli sarebbe giunta, probabilmente, attraverso l’area dell’Autonomia Operaia di Bologna. Lo stesso Cossiga, in chiara polemica con le modalità delle indagini, ha poi dichiarato in un’intervista a Radio Radicale del 18 aprile 2001: «nessuno di coloro che hanno partecipato alla seduta spiritica e che lo hanno ammesso, e che mi hanno passato l’informazione, sono stati minimamente incriminati, io sono stato sentito 68 volte, il presidente Prodi che mi passò l’informazione, non è stato mai chiamato di fronte alla Commissione Stragi, questo perché non è vero che tutti siamo uguali davanti alla legge». Malgrado le moltissime segnalazioni, l’appartamento verrà scoperto soltanto il 18 aprile del 1978 in seguito ad un evento definito accidentale: una perdita d’acqua provocata dal rubinetto della doccia appoggiato contro le screpolature del muro. Ciò nonostante Moretti dirà: «la scoperta di via Gradoli fu normale: io sapevo che c’era un sifone che perdeva in un alloggio vicino al nostro e l’amministratore ne era informato, dunque niente P2 ma la disonestà dei palazzinari romani». il contratto sottoscritto da Mario Borghi alias Mario Moretti, è datato il 31 dicembre 1975. I primi inquilini brigatisti sono Lauro Azzolini e Carla Brioschi. Dal gennaio all’estate del ’77 ci abitano Valerio Morucci e Adriana Faranda. Le indagini di Sergio Flamigni, descritte nei diversi volumi (La tela del ragno, Il covo di Stato e la Sfinge delle Brigate Rosse), puntano l’attenzione su un elemento extrafilmico: la figura dell’ingegner G. F, locatore dell’appartamento. L’ingegnere, che secondo Flamigni sarebbe stato il proprietario dell’immobile affittato a Mario Moretti, avrebbe visto avanzare la sua carriera negli anni consecutivi al caso Moro. Flamigni ricostruisce le vicende a partire dallo stranissimo contratto d’affitto, a suo dire, stipulato in fretta e furia, senza date di stipula e decorrenza. Flamigni evidenzia come non sia stato possibile dimostrare quanto l’inquilino Borghi-Moretti pagasse di canone d’affitto, e neppure se lo pagasse regolarmente. Per Flamigni, la strana dinamica che si sarebbe generata dietro la figura dell’ingegnere, rappresenta un valido elemento di indagine da gettare un ombra di sospetto sugli eventi di via Gradoli. Ma si tratta di supposizioni e di indagini che non hanno trovato, per ora, una conferma giudiziaria e storica. È ancora Pecorelli (aprile 1978) a puntare l’attenzione sulle strane circostanze relative alla scoperta del covo di via Gradoli: «l’allagamento è soltanto un pretesto di comodo inventato dalla polizia, allo scopo di depistare l’interesse della stampa da chi per ben due volte, da Roma e da Torino, fornì l’informazione sul covo. Informazione che usata meglio avrebbe potuto essere risolutiva». Nello stesso articolo Pecorelli non esita a inserire alcuni strani “errori”. Primo fra tutti il numero civico che è indicato erroneamente con il numero 92. Nello stesso articolo, Pecorelli chiama Mario Borghi con il nome di Vincenzo Borghi. Sarà proprio il film a risolvere questi misteri. Questo nome era stato preso dal rapporto ufficiale redatto dal colonnello dei carabinieri, nonché amico dello stesso Pecorelli, Antonio Cornacchia. Riguardo il numero “92” il film chiarisce immediatamente il significato di quel messaggio: presso quel civico c’era un appartamento del Sisde. Fernanda afferma che Pecorelli stava collegando il sequestro Moro e le attività delle Br con i servizi segreti. Un altro articolo di Pecorelli affermava «la scoperta del covo si doveva ad una soffiata della malavita romana, malgrado Infelisi e la polizia abbiano sostenuto che l’allagamento fosse stato accidentale». Si scoprirà in seguito, come scrive Flamigni, che all’interno del covo Br era stato trovato il numero di telefono dell’immobiliare Savellia, società di copertura del Sisde e che in via Gradoli (civico 96 e 75) c’erano intestati alcuni appartamenti all’ex capo della polizia Vincenzo Parisi (Flamigni osserva che l’immobiliare Savellia risulta di proprietà del Sovrano militare Ordine di Malta). In tale contesto, è lo stesso personaggio di Fernanda che cita il nome di Vincenzo Parisi come destinatario del rogito del box al numero civico 75 di via Gradoli, «esattamente dove un anno prima il capo della Brigate Rosse parcheggiava le auto dei terroristi» e dei due «appartamenti al numero 96, esattamente dove si trovava il covo brigatista». Non solo: l’amministratore dello stabile (a cui evidentemente si rivolgevano le Brigate Rosse per la normale gestione delle spese), è un certo Domenico Catracchia «professionista di fiducia del Servizio segreto civile» come ricorda il personaggio di Fernanda. Il documento storico o l’indagine filmica, che dir si voglia, è quindi prevista in sceneggiatura con un’impostazione del racconto che non ha certamente precedenti nel cinema di inchiesta italiano. Anche da questo di evince il coraggio civile del film di Martinelli che si espone, probabilmente, a non pochi problemi giudiziari. In questo ambito è doveroso ricordare che il senatore Flamigni riporta due documenti “riservati” che comprovano inequivocabilmente la presenza del Sisde in via Gradoli: una relazione e un appunto, datati entrambi il 7 maggio 1998, firmati rispettivamente dal capo della polizia Fernando Masone e dal capo del Sisde Vittorio Stelo, e inviati al ministro dell’Interno e al Cesis in seguito alla pubblicazione del libro Convergenze parallele. La relazione firmata dal dottor Masone, conferma che la Fidrev srl, società di consulenza del Sisde era a sua volta controllata dall’immobiliare Gradoli. Ma non basta. Flamigni continua le sue indagini e scopre che il prefetto Parisi avrebbe acquistato, con atto notarile del 10 settembre 1979, un appartamento al civico 75 di via Gradoli e, successivamente, sempre al civico 75, altri due appartamenti e un box. Secondo lo studio di Flamigni, Parisi acquistò, altri due appartamenti nel 1987. L’appunto del prefetto Stelo precisa inoltre che «la società Fidrev, azionista di maggioranza dell’immobiliare Gradoli, risulta aver svolto assistenza tecnico-amministrativa per la Gus e la Gattel [società di copertura del Sisde, ndr], dalla loro costituzione fino al 14 ottobre 1988. Strane convergenze, dunque, per parafrasare l’inchiesta di Sergio Flamigni, strani accostamenti che lasciano il sospetto che qualcosa di strano sia avvenuto in quella zona di Roma. Le ambiguità che gravano in un luogo frequentato dalla polizia, dai brigatisti e dai servizi segreti, portano nel cuore del Ghetto romano. Willan ricorda che Elfino Mortati, arrestato per l’omicidio del notaio Gianfranco Spighi (Prato, 10 febbraio 1978), chiede di essere ascoltato per alcune informazioni relative a questo covo. Ricorda il giudice istruttore Ferdinando Imposimato: «Io e il collega Priore caricammo Mortati su un pulmino dei carabinieri e girammo in lungo e in largo, anche a piedi, per il Ghetto, ma senza alcun risultato. Pochi giorni dopo il mistero s’infittì quando mi vidi recapitare in ufficio una foto scattata quella sera, e nella foto c’eravamo io, Priore e Mortati»; la foto, che ritraeva i tre mentre erano in via dei Funari angolo via Caetani, venne scattata da un osservatorio dei servizi segreti italiani. Di quell’intimidazione non venne informata la Commissione d’inchiesta sul caso Moro, né le foto risultano agli atti del processo Moro trasmessi alla Commissione. Dalle dichiarazioni di Mortati, dagli accertamenti svolti dai vigili urbani, dalle notizie delle fonti confidenziali trasmesse, gli inquirenti arrivarono a individuare un covo brigatista situato nel Ghetto ebraico di Roma durante il sequestro Moro in via Sant’Elena n° 8, interno 9. Ma a quel punto tutto si fermò: una speciale immunità protesse le Brigate rosse anche nel Ghetto ebraico. Il film non trova spazio per inserire tale elemento ma il collegamento con il Ghetto, come ricorda Flamigni, continua. Nel covo Br di via Gradoli il 18 aprile 1978 venne trovata la chiave di un’auto con un talloncino di cartone sul quale c’era scritto su un lato «Jaguar 2,8 beige H 52559 via Aurelia 711», e sull’altro «FS 915 FS 927 porte Sermoneta Bruno». Era una traccia che portava nuovamente nel Ghetto ebraico, dove c’erano alcune basi e punti d’appoggio delle Br che tenevano prigioniero Moro, ma le indagini vennero avviate solo a partire dal 12 ottobre 1978 (cioè 5 mesi dopo l’uccisione del presidente Dc). A tale proposito la signora Moro ricorda una circostanza piuttosto inquietante. Quando Eleonora Moro suggerì che la parola “Gradoli” poteva riferirsi ad una strada romana, si sentì rispondere dal ministro degli Interni Cossiga che lo stradario di Roma non registrava quel nome. In realtà la strada esiste ed esisteva anche all’epoca. La signora Moro e altri membri della sua famiglia riferirono questo episodio nel corso del processo, ma Cossiga smentì recisamente la circostanza durante la sua testimonianza. Nel covo vengono trovati volantini delle BR, numerose armi, esplosivo ed altri documenti. Vengono rinvenute patenti automobilistiche, carte di identità e tessere per concessioni ferroviarie per impiegati dello Stato in bianco, centinaia di volantini delle Brigate Rosse, rivendicanti attentati, tra cui quello al Procuratore Generale di Genova, dott. Francesco Coco (Genova, 8 giugno 1976), e quello al Maresciallo Rosario Berardi (Torino, 10 marzo 1978). Inoltre vengono sequestrati, una divisa da Guardia di PS; una divisa da aviatore di linee aeree, una tuta da operaio della SIP, un camice da impiegato delle PP.TT., nonché numerosi manoscritti, una piantina di un carcere imprecisato, matrici di ciclostile ed altro. Ma la cosa più allarmante come ricorda Fernanda e che non venne fatto nessun rilevamento delle impronte, cosa che si fa nelle procedure più semplici relative ai furti d’appartamento. Insomma, la scoperta di via Gradoli come afferma Rosario è stata una «scoperta pilotata». Sul collegamento del Sisde con Borghi-Moretti, emergono le conclusioni portate avanti dall’indagine di Flamigni. Fra il materiale trovato nel covo c’era un appunto manoscritto di Moretti: «Marchesi Liva – 659127 – mercoledì 22 ore 21 e un quarto» (la data corrispondeva a mercoledì 22 marzo 1978, sei giorni dopo la strage di via Fani e il sequestro), e un altro «foglietto manoscritto con recapito telefonico n° 659127 dell’immobiliare Savellia». Ancora la Savellia! La sede della Savellia si trovava in palazzo Orsini nella zona del ghetto romano a pochi passi da via Caetani. Il segretario della Savellia secondo Flamigni, risulta essere il ragioniere commercialista G. C. Ma perché il manoscritto appuntava Marchesi Liva, marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani, nobildonna romana che si firmava anche Liva residente in palazzo Orsini? Flamigni evidenzia che il commercialista risulta essere responsabile di altre società immobiliari (Proim srl, immobiliare Palestrina III e l’immobiliare Kepos) tutte collegate al Sisde. Altri nomi, altri individui e altre società immobiliari quasi sempre di copertura collegate al servizio segreto civile finiscono per rendere ancora più complesso l’affaire Moro. Si tratta di eventi che gettano un’oscura ombra su tutta la vicenda di Via Gradoli e pongono conseguentemente domande urgenti: quale alleanze trasversali si sarebbero formate dietro l’affaire Moro? A favore di chi? Perché Moretti avrebbe dovuto incontrare Liva? Che legame sarebbe esistito tra Moro, i brigatisti e il ghetto ebraico? Quale funzione avrebbe dovuto avere lo schizzo planimetrico di palazzo Orsini attribuito a Valerio Morucci, trovato nel materiale di via Gradoli? Sono domande, ancora oggi, in attesa di una chiara risposta. De Luca – Scarano ricordano che il 20 aprile, due giorni dopo la scoperta del covo, il perito balistico Ugolini avrebbe scritto al magistrato una lettera “riservata”, relativa alle possibili connessioni tra il materiale trovato nel covo di via Gradoli e la strage di via Fani. Il perito avrebbe puntato l’attenzione sul calibro delle pallottole: un bossolo 7.65 parabellum marca Sako con capsula percossa e un bossolo, anch’esso esploso, di calibro 30 M Winchester (carabina in dotazione ai carabinieri). Il bossolo Sako risulta essere uguale a quelli trovati a via Fani, probabilmente sparati dalla MAB P 15 e quindi testimonierebbe il legame tra via Gradoli e via Fani. Ma, inspiegabilmente, non vengono approfondite le indagini. E siamo all’evento più complesso di tutto il sequestro: il settimo comunicato delle Br. In esso reso, noto lo stesso giorno del ritrovamento di via Gradoli, viene annunciato il «suicidio» di Aldo Moro e il recupero della salma nei fondali limacciosi («ecco perché si dichiarava impantanato» si legge) del lago della Duchessa. In seguito si scoprirà essere un comunicato falso, elaborato dal già citato Antonio Chichiarelli. Il 20 aprile giungerà alla stampa il vero comunicato numero sette che smentirà categoricamente quello precedente, definito come «una lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica». Nella sua Relazione, l’intellettuale Leonardo Sciascia aveva visto giusto: il falso comunicato poteva essere indistintamente assegnato sia alle Br e sia al Governo. Il falso comunicato «serviva ed è servito ad entrambi: come ballon d’essai, come prova generale, come ovvio sistema per far scaricare su una notizia falsa – che sarebbe poi stata dichiarata falsa – quelle tensioni, emozioni e giudizi che si sarebbero scaricati sulla vera; e di rendere quindi la vera, che a distanza più o meno calcolata sarebbe esplosa, come ridotta, come devitalizzata». La notizia dell’esecuzione doveva avere una funzione strategica: annunciando la morte di Moro, avrebbe dovuto abituare l’opinione pubblica e le stesse istituzioni a tale evento. In relazione al falso comunicato, emergono altri elementi indiziari non meno importanti. Enrico Paghera (già incontrato per il caso Ronald Stark) spiegherà alla Commissione Moro che si è trattato di uno stratagemma per distogliere l’attenzione delle forze dell’ordine dalla città di Roma, in modo da consentire la fuga indisturbata dei suoi compagni. Tale ipotesi è avvalorata anche da Mario Moretti il quale è sempre pronto ad allontanare dal caso Moro ogni possibilità di complotto e negando ogni “altra” interpretazione. Willan ricorda che lo stesso avvocato di Curcio, Giannino Guiso, ipotizzò persino che Licio Gelli fosse implicato nel depistaggio del lago della Duchessa: «quella fu la prova generale della morte di Moro… il fatto che un falso fosse stato considerato autentico, quando in realtà era palese la sua in autenticità, deve pur significare qualcosa. Di certo Chichiarelli non lo preparò di sua spontanea volontà». Una testimonianza del terrorista di destra Massimo Sparti, secondo Willan, dichiarò ai magistrati che Chichiarelli gli aveva raccontato di aver preparato per scherzo e divertimento il comunicato, versione poi confermata anche dalla moglie di Chichiarelli, Chiara Zossolo. Come si è visto, la funzione di Chichiarelli all’interno del caso Moro era stata quella di distrarre l’opinione pubblica sulla scoperta del covo di via Gradoli. Ma il film non si limita a questa spiegazione: la figura di Chichiarelli serve ad ipotizzare legami più profondi tra la malavita organizzata e i servizi segreti, da alludere ad uno scenario più inquietante e più complesso. Tutto quello che accade in via Gradoli, inevitabilmente, grava ulteriormente l’affaire Moro, da divenire essa stessa luogo di strani incontri e oscure collusioni. Da questo punto di vista, si rinforza la traccia proposta dal film, ovvero la possibilità che la teoria del complotto non sia soltanto una teoria.
9. MORETTI E HYPERION. L’incontro del giudice con il misterioso aggressore costituisce la continuazione del racconto. La scena si svolge nel duomo di Siena, all’interno di un confessionale. Da un punto di vista narrativo, molto probabilmente, la scelta della scena coincide con una sorta di sottotesto, di codice tematico che accosta il caso Moro con un ambiente principalmente ecclesiastico. Se questo elemento sia voluto o accessorio poco importa. Di fatto il regista sembra aver scelto questa traccia narrativa. A rendere più misteriosa la scena è indubbiamente il cammeo del bravo scrittore e archeologo Valerio Manfredi, nella parte del vescovo nel confessionale. Ma ovviamente si tratta di una presenza scenica limitata soltanto a questa parte del film. È in questa circostanza che prende forma l’identità piuttosto ambigua del temibile capo delle Br, Mario Moretti. L’anonimo terrorista definisce Moretti un «capo anomalo» giocando con un sillogismo evidente, quello con il covo di via Gradoli. Se Gradoli è stato un covo singolare, contiguo alle attività del Sisde, anche il ruolo di Moretti potrebbe indicare uno strano contatto “esterno” con altri gruppi di potere. Rosario è invitato ad andare dietro all’altare. Il terrorista prima di sparire allude alle simbologie misteriose del caso Moro. A questo punto Rosario si accorge di essere rimasto solo e trova un floppy per computer. La consultazione del file si rivela carica di tensione. Il giudice clicca sul file Memoriale, ma non possiede la password per entrare. In un secondo momento clicca sul nome di Moretti. Come un videogioco, prende forma una catena di associazioni: la torre “Eiffel”, che allude chiaramente alla città parigina, e in fine una strada, Quai de la Tornelle 24, numero 7. E’ il luogo dove risiede la scuola di lingue Hyperion. Dopo qualche secondo compare il nome Entità. Da questo evento Rosario decide di partire per Parigi per incontrare tale “entità” e comprendere quale relazione vi sia tra Moretti e Parigi. Cosa sia questa Hyperion è subito spiegato dal misterioso intermediario contattato da Rosario: Hyperion è una compagnia, una scuola di lingue, di centro di assistenza dove sono presenti un grandissimo numero di marxisti, quasi tutti collegati con gruppi eversivi e terroristici come l’OLP, l’ETA, l’IRA e le stesse Br. La vera essenza della società è quella della «lotta tra bande». Ma in realtà, continua l’entità, questa organizzazione faceva parte della Cia, infiltrata all’interno dei stessi gruppi eversivi per poterli strumentalizzare e manipolare a seconda delle necessità politiche. Obiettivo: cooptare i gruppi violenti e fornirgli aiuti e organizzazione. Attraverso una battuta esemplificativa di Rosario, il film prende dunque una chiave narrativa inedita attraverso un percorso storico giudiziario diverso da quello ufficialmente conosciuto: «trovo stupefacente il grado di infiltrazione, l’insidiosità della presenza americana nelle nostre azioni, incredibile». È il momento in cui il film incomincia ad allargare il caso Moro, elevandolo ad un contesto internazionale che ha come riferimento il trattato di Yalta. Il trattato, che sanciva la divisione politica del mondo in due grandi blocchi, ha avuto l’effetto di determinare la politica nazionale e le scelte economiche di ogni governo del pianeta. In Italia, come osserva l’ex terrorista, esisteva il partito comunista più forte di tutta l’Europa occidentale e questo poteva rappresentare una seria minaccia per l’equilibrio mondiale. La nozione inserita nel film è offre una visione inedita e fino ad ora ignorata della vicenda di Moro e confermerebbe, in questo senso, una prima prova del complotto dietro la sua eliminazione. Ma l’ipotesi portata avanti dal film, non sembra essere soltanto un’evidenza. La Commissione d’inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani aveva evidenziato che la scuola di lingue disponeva «di locali di un certo tono, per la cui locazione viene corrisposto un canone di notevole importo che, aggiunto alle spese di gestione, comporta un impegno costante di spesa». Le entrate dichiarate dalla scuola, come rivela Flamigni, non potevano certo compensare gli impegni finanziari assunti. In relazione a questa scuola, secondo un rapporto della polizia evidenziato da Flamigni, si legge il nome di Duccio Berio (addetto alle pubbliche relazioni), Francoise Tuscher (presidente dell’Hyperion) e Corrado Simioni (consigliere culturale). Tutti avrebbero un reddito superiore alle loro entrate. Nelle fila della scuola si registrano nomi importanti e molti viaggi in Europa che evidenzierebbero una fitta rete di rapporti a livello internazionale. Il coinvolgimento di questa struttura, che aveva sede in un prestigioso ufficio di Qua de la Tornelle, a pochi passi da Notre Dame, era stata analizzata dal giudice Pietro Calogero come organizzazione che avrebbe dettato le direttive strategiche a diversi gruppi terroristici. Hyperion sarebbe stata creata per dare rifugio e protezione ai latitanti di tutta Europa, secondo la deposizione del brigatista veneto Michele Galati. Per quest’ultimo le Br si sarebbero fornite dalla scuola Hyperion attraverso la figura di Moretti. Si tratta di un ulteriore elemento indiziario che mette in discussione la figura del capo delle Br, Mario Moretti. Il film, per motivi specificatamente narrativi non può inserire troppe nozioni e per questo si limita ad evidenziare la funzione proteiforme e sostanzialmente ambigua di questa organizzazione. Tuttavia esisterebbero delle prove sconcertati riguardo alla strana identità del gruppo brigatista. L’Hyperion aveva altri protettori, ancora più potenti e sinistri come suggerisce il giudice Calogero attraverso le indagini su Toni Negri e l’autonomia operaia francese. L’indagine del magistrato Carlo Mastelloni, incentrata sul traffico d’armi tra l’Olp e le Brigate rosse aveva analizzato l’insolita posizione della scuola Hyperion. La vicenda salì agli onori della cronaca nel 1984 con la clamorosa emissione di un mandato di cattura per Yasser Arafat, con l’accusa di aver autorizzato la vendita alle Br di numerosi carichi d’armi, un procedimento che non ebbe, però, conseguenze giudiziarie. Tuttavia il giudice affermò, anche se con una certa cautela, che tale traffico era, molto probabilmente, avvallato e protetto dai servizi segreti italiani e dalla stessa Cia. Il volume di Willan evidenzia come all’interno di questa vicenda si possano individuare eventi particolarmente gravi. In particolare emerge il ruolo del colonnello Stefano Giovannone, ufficiale del Sismi, la cui attività si sarebbe inserita tra alcune organizzazioni terroristiche come l’Olp, o le stesse Br e la Cia, sempre pronto a mantenere un costante equilibrio tra le parti. Secondo Willan, l’ufficiale sarebbe stato coinvolto nel traffico di armi con lo stesso Moretti sul noto incontro sulla nave Papago. Sempre Willan ricorda un'altra strana circostanza: la funzione di un non meglio specificato “gruppo speciale” creato dal direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sin dal’79 quando Moretti organizzava la consegna delle armi dal Libano che avrebbe sorvegliato tale operazione. Ambigua è anche la presenza del colonnello Silvio Di Napoli le cui missioni sarebbero rimaste coperte dal Segreto di Stato. Willan ricorda il caso sconcertante dell’archivio del generale Maletti in cui si leggerebbe con data 25 marzo 1975, di uno strano contatto tra brigatisti e Olp: «coordinamento Br – Olp, nostra brillante azione, relazionare». Nel dicembre del 1990 la corte d’Assise di Venezia assolse tutti i quattordici imputati accusati di complicità nel traffico d’armi. Il pubblico ministero minimizzò la tesi del giudice Mastelloni, chiedendo la condanna solo per quattro degli accusati. Tuttavia, come osserva Willan, «per la prima volta ufficiali dei servizi segreti e terroristi di sinistra si trovavano assieme in un processo, imputati per gli stessi fatti». Se tutte queste ipotesi giudiziarie fossero in qualche modo storicamente rilevabili, per quale motivo la Cia o i servizi segreti italiani, avrebbero lasciato campo libero alle azioni terroristiche dei brigatisti? Hyperion dunque corrisponderebbe ad un disegno strategico assai complesso, con un preciso obiettivo politico. Duccio Berio, incaricato delle pubbliche relazioni della scuola, aveva affermato che dietro gli attentati della sinistra in realtà si sarebbe nascosto un disegno di destra. Per una strana coincidenza, come ricorda l’Entità, la scuola aprì una sede anche a Roma, in via Nicotera 26 poco prima del rapimento di Aldo Moro (nello stesso edificio dove sono domiciliate alcune società di coperture del Sismi) e una a Milano. Entrambe le scuole saranno poi chiuse l’autunno seguente. Dopo l’arresto di Moretti, avvenuto nel 1981, i contatti con Parigi furono affidati a Giovanni Senzani, un altro brigatista sospettato di essere in contatto coi servizi segreti, proprio come lo stesso Moretti. Il compito narrativo del film è quello di scavare sotto il velo ufficiale e definitivo della storiografia, innescando un’indagine complessa e difficilissima. Tuttavia, se quanto detto corrispondesse ad una verità storica, sarebbe inevitabile pensare alle estreme conseguenze storiche e politiche di una simile organizzazione. Da questo presupposto, verrebbe spontaneo dubitare sui reali obiettivi di Moretti, che con i suoi comportamenti strani, quasi mai giustificati chiaramente, finisce per spiazzare i suoi stessi compagni di lotta. «Dove c’è Moretti, ci sono i servizi segreti», afferma il personaggio dell’ex terrorista, spingendo il ragionamento oltre a qualsiasi interpretazione scontata. E così facendo provoca una strana possibilità di costruzione del racconto, non solo nel giudice, ma soprattutto nel pubblico, che sin dall’inizio è costretto a mettere in dubbio tutte le versioni “ufficiali” delle indagini giudiziarie. Lo sconcerto di Rosario è placato dalla consegna di uno strano opuscolo: «se vuole sapere la verità, legga questo». Quando il giudice Saracini arriva a Parigi, scoprirà il filo rosso che lega Moretti alla scuola Hyperion. Da questo punto di vista il film rivela la portata internazionale delle Br italiane. Il compito narrativo spetta all’Entità (F. Murray Abraham), di cui non viene fatto il nome e ne si mostrano indizi anagrafici da far pensare a qualcuno realmente esistito. Da qui, la peculiarità della scena. Si tratta di una scelta narrativa precisa che attraverso un personaggio di finzione racconta chiaramente il “quarto livello” di questa vicenda. In questo modo la fiction viene a contatto con i documenti storici in modo da non tradire la veridicità dei fatti. Se il personaggio è inventato, è un esistente, lo stesso non si può dire dei contenuti che riferisce e del suo ruolo all’interno della vicenda. L’Entità, questo è il suo nome, è dunque un personaggio inventato, ma con una funzione narrativa e storica che poco si allontanerebbe dalla verità dei fatti proposta da Martinelli. La sua funzione è quella di spiegare, appunto, la vera ragione “politica” delle Br, sconosciuta ai stessi aderenti della lotta armata. Nel 1980 il giornalista Guido Passalacqua sollevò la questione della vera identità dei capi delle Br in un articolo su La Repubblica (12 aprile 1980): «c’è qualcuno più in altro, una, due, tre persone, che decide le “campagne del terrorismo”… Una direzione decisamente impenetrabile se si pensa che, stando alle indiscrezioni, l’unico collegamento con gli operativi era costituito da Moretti». Il 7 maggio, Passalacqua venne gambizzato perché nemico di classe. Fortemente sospettosi sulla funzione di Moretti sono gli stessi compagni di partito: secondo Curcio, Moretti è sicuramente una spia; anche per Giorgio Semeria, appartenente alla colonna milanese, Moretti è una spia. E probabilmente Moretti non era l’unico elemento “anomalo”. Secondo una dichiarazione allusiva di Bettino Craxi, dietro la Brigate rosse e dietro la stessa Hyperion si sarebbe nascosto un “grande vecchio” ovvero, il già citato Corrado Simioni. Flamigni ricorda che Corrado Simioni aveva catturato l’attenzione degli investigatori italiani per i suoi esili guadagni e le moltissime spese della scuola Hyperion. Il mistero di questa scuola si infittisce per una strana vicenda relativa ad un sequestro di persona. Un uomo di affari italiano (non viene specificato il nome) aveva donato circa 20 milioni di lire alla scuola poco dopo che il fratello era stato rapito dalla ‘ndrangheta calabrese. Avvicinarsi alla villa di campagna di Simioni, forse di proprietà della stessa scuola, era impossibile a causa del grande numero di guardie armate da cui era presidiata. Flamigni ricorda che il protettore ufficiale di questa scuola era un certo Henri Groues, conosciuto come Padre Pierre, un prete cattolico che aiutava in senzatetto, eroe della Resistenza, deputato e candidato nel ’89 al Nobel per la pace. Secondo la polizia italiana nel ’72, Padre Pierre si teneva in contatto con Renato Curcio e altri brigatisti che sosteneva come vittime della “persecuzione politica” (anche sua nipote, Francoise Tuscher, era un attivista politica che aveva militato nella Sinistra proletaria). Quando nel ’65 Simioni è espulso dal Psi, entra a far parte del Usis (servizi di informazione Usa), con un ruolo di provocatore e di indebolimento del Partito comunista e di rafforzo del sentimento filoatlantico. Una delle strategie proposte dall’Usis prevedeva la formazione di una nuova corrente socialista che avrebbe dovuto rompere con la linea marxista filosovietica e occidentalizzarsi. Funzione, secondo Flamigni, che ebbe il suo amico e compagno di partito Bettino Craxi. Nel 1969, Simioni aveva fondato e diretto il Cip, Centro informazione politica, composto su un doppio livello, uno ufficiale e uno riservato. Secondo la Commissione controinformazione di Avanguardia operaia, Simioni avrebbe avuto collegamenti con l’intelligence statunitense e sarebbe stato addestrato dalla stessa Cia in Francia. Sono circostanze importanti che tuttavia non possono essere trattate nel film, per ovvi motivi di narrazione. Il racconto sceglie di puntare su Moretti, sui suoi comportamenti strani e molto spesso superficiali. Molto spesso Moretti commette errori madornali, ma subito dopo non perde occasione per scusarsi, senza essere chiaro nelle spiegazioni date. Le circostanze sono diverse. Nel 2 maggio 1972 la polizia scopre l’appartamento di via Boiardo e arresta Giorgio Semeria e Marco Pisetta. Gli altri terroristi riescono a fuggire grazie anche al sorprendente numero di giornalisti che si era appostato sul luogo con netto anticipo rispetto alla polizia. Moretti, secondo il suo resoconto, riesce a fuggire perché una “vecchietta” lo avrebbe informato sulla scoperta del covo pieno d’armi. Il noto giornalista Enzo Tortora, collaboratore del mensile Resistenza Democratica, si era appoggiato proprio alla macchina della moglie di Moretti, una 500 blu. La macchina, che verrà sequestrata dalle forze dell’ordine quello stesso giorno, è uno dei primi indizi dello strano comportamento di Moretti. La polizia risalirà alla moglie di Moretti. Tuttavia anziché arrestare la banda al completo, Curcio, Cagol e lo stesso Moretti, l’operazione di via Boiardo può considerarsi un reale insuccesso. Ma un fatto è certo: siamo nel maggio del 1972 e «il futuro capo delle Br al momento è dunque conosciuto, latitante e ricercato e tutti – polizia, carabinieri, apparati di sicurezza, ministero dell’Interno, magistratura – ne sono informati, a Milano così come a Roma». Nel covo vennero trovati i negativi scattati all’ingegner Macchiarini, fotogrammi che avrebbero permesso di riconoscere uno dei terroristi, Giacomo Cattaneo detto il Lupo. Afferma Franceschini che quei negativi non dovevano stare lì, «Moretti ci aveva garantito di averli distrutti […] si giustificò di essersi sbagliato in quanto i negativi si erano incollati tra di loro […] Giacomo Cattaneo, arrestato si era convinto che Moretti era una spia». Ma non basta. La polizia troverà una foto di Renato Curcio. Moretti si era dimenticato di distruggere la foto dopo aver preparato il falso passaporto al brigatista. Si tratta di un'altra dimenticanza del capo brigatista. Ogni volta, Moretti è pronto a chiedere scusa per le sue “sbadataggini” e a tergiversare immediatamente su altre questioni. Durante il sequestro Mincuzzi (28 giugno 1973), dirigente tecnico dell’Alfa Romeo, Moretti lascia un comunicato con una stella a sei punte, la stella di David. Moretti disse di essersi sbagliato. Per pura combinazione il Mossad prenderà contatto con lo stesso Moretti e lo aiuterà a trovare l’informatore Pisetta nascosto a Friburgo. Ricorda Franceschini che il Mossad offrì, senza volere niente in cambio, armi e munizioni a patto che gli stessi brigatisti continuassero a destabilizzare il paese in modo che gli «Usa fossero costretti a far riferimento a Israele per il mantenimento delle posizioni nell’area del Mediterraneo […] avevano assicurato che avrebbero comunque sostenuto la lotta armata in Italia». Si tratta di un'altra ipotesi inquietante, molto spesso sorvolata dalle diverse versioni storiche del caso Moro, ma che costituisce un importantissimo riferimento dell’affaire, come ricorda lo stesso senatore Pellegrino. Scarnado - De Luca ricordano il comportamento anomalo di Moretti. Primo fra tutti la misteriosa partenza per la Calabria, in una strana missione di cui non avrebbe offerto giustificazioni plausibili ai compagni di lotta. Il 12 e il 15 dicembre Moretti e la Balzerani sono a Catania. Il 6 febbraio 1975 è al Jolly Hotel Excelsior di Reggio Calabria. In questa città, come in buona parte del sud italiano, non ci sono colonne brigatiste da fondare come non ci sono progetti “rivoluzionari”. Semmai è l’epoca della nuova mafia. Eppure Moretti e la Balzerani se ne stanno in alberghi di lusso, senza informare il resto dell’organizzazione. Tra i due viaggi, Moretti stipula il contratto di affitto per il covo di via Gradoli, in una via ricca di strane convergenze. Tutto questo confermerebbe un comportamento ambiguo e poco chiaro da far insospettire gli stessi compagni di lotta. «È il tempo a determinare la verità della storia», afferma l’Entità. Di fronte allo sbigottimento del giudice Saracini, l’uomo incalza la dose, e attraverso questa frase sibillina, rende concreta la possibilità del complotto. Una frase che ha una forte valenza storiografica e al tempo stesso investigativa. Soltanto da una precisa prospettiva storica si possono comprendere certi eventi e giungere alla verità. Un’affermazione che sembra ribadire il punto di vista di chi conosce il retroscena dell’affaire. Il tempo e lo spazio, dunque, sono le coordinate del caso Moro raccontato da Martinelli. Il tempo che aggiunge nuove nozioni, piccoli indizi che gettano inquietanti dubbi sull’ultimissima costruzione dell’affaire; e contemporaneamente lo spazio, quello storico e quello scenico, rappresentato dalla scena finale della torre di Siena come metafora del punto di vista narrativo. Più si sale in alto e più il “complotto” e il suo obiettivo, prendono forma. All’interno di un contesto tutto interno e nazionale, il caso Moro appare come un episodio di importanza internazionale. Allargando la prospettiva, le cose prendono un significato diverso: la torre, la salita dei personaggi, le scale, sono la metafora di un allargamento dell’affaire ad un livello internazionale che avrebbe riguardato gli interessi e l’equilibrio dei governi mondiali. Da questo punto di vista, il film non solo sostiene la possibilità del complotto, ma diventa un primo abbozzo di tutte quelle dinamiche politiche e finanziarie che saranno decise a livello mondiale dai governi più potenti, attraverso una politica molto spesso oscura e belligerante, che sembra determinare gli interessi del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale. Se il film di Martinelli può infastidire, e perché mira senza troppe scuse al cuore del problema storico e politico del mondo, inquadrando gli interessi delle potenze economiche e internazionali in un contesto dettato della legge del dominio e del controllo finanziario, e definendo, così, la necessità di mettere in pratica le perfide strategie militari e geopolitiche. Eventi molto spesso sottaciuti o nascosti alla maggioranza del mondo civile che, per forza di cose, non riesce e ne può comprendere la spietata strategia degli Imperi.
10. LA FAMIGLIA DENTRO E FUORI IL FILM. Un aspetto in cui il film costruisce la sua narrazione è quello del contesto familiare. La famiglia è il gruppo elementare dove l’individuo nasce, si forma e cresce. Si tratta di un punto di riferimento particolarmente importante per le persone che la compongono, dove si formano le basi psicologiche e affettive del gruppo. In oltre, la famiglia è la struttura basilare su cui si costruisce la società, cellula fondamentale per lo stesso Stato. Ne consegue che sia da un punto di vista sociologico e sia da un punto di vista psicologico è un fondamentale snodo dell’individuo. In tal senso la famiglia riveste un ruolo centrale nel racconto, sia attraverso il caso Moro e sia attraverso i protagonisti che portano avanti l’indagine. Il film costruisce una parte dell’intreccio sulla famiglia di Fernanda e, considerando lo stesso caso Moro, tale scelta narrativa non è data unicamente da questa necessità. Aldo Moro, come viene evidenziato nelle sue lettere, scriveva costantemente alla sua famiglia, con un calore e un affetto esemplare. I suoi interventi sono sempre mirati a tranquillizzare i suoi cari e la “dolcissima Noretta”, richiamandosi alle prove dure della sua vicenda. Per lo statista la famiglia assume un ruolo fondamentale come interlocutore intimo e a volte perfino poetico. Una famiglia che non ha smesso di soffrire la perdita del caro congiunto, ancora oggi incredule del tradimento di amici e del suo partito. Il film, a suo modo, tenta la descrizione di questa sofferenza attraverso lo stato d’animo la famiglia di Fernanda. Quando suo marito viene a conoscenza degli eventi in cui sta indagando la moglie, minaccia di portare via i figli. È la parte narrativa del film che insiste sull’importanza degli affetti familiari e sulla loro incolumità e che bilancia il racconto dell’indagine. La libertà individuale rischia di essere messa in discussione a causa degli impegni improrogabili del lavoro, le indagini portate avanti dalla moglie. Il privato viene usurpato dalle necessità “pubbliche” (Fernanda è un magistrato) mettendo a rischio la cosa più importante: la famiglia e gli stessi figli. Tuttavia qui devo riscontrare una contraddizione sulla costruzione del personaggio di Fernanda, già summenzionata, la quale inizialmente fa di tutto per bloccare l’entusiasmo e le indagini private dello stesso Rosario e poi, in seguito, è mostrata nell’atto di studiare le carte processuali e i documenti delle varie Commissioni Parlamentari. Dunque, il personaggio di Fernanda si divide, con non poche contraddizioni diegetiche tra la famiglia e la carriera, tra la sfera privata (i figli e il marito) e la pista investigativa. Un dualismo sembra forzare un pochino le varie sfaccettature del personaggio e non sembrano offrire una sua perfetta costruzione narrativa e psicologica. Tuttavia si può tentare un confronto tra la scelta narrativa del film e del personaggio di Fernanda con l’uomo Moro, che agisce tra l’importanza della sua famiglia politica e l’affetto della famiglia naturale. L’ultima lettera di Moro a Noretta, recapitata il 5 maggio, rivela tutta la sua intensità umana e intellettiva, una sorta di componimento poetico, un testamento che tocca il cuore e che confermerebbe l’importanza del fattore umano dietro l’affaire. Verso l’epilogo, verso la consapevole fine fisica del prigioniero, cruda e razionale, c’è spazio per una lucida analisi di quello che sta per avvenire, annuncio del «momento conclusivo»: Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell'incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l'indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E' poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall'idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c'è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo. L’affetto e l’emozione con cui Moro scrive le ultime parole alla moglie, lasciano comprendere quanto egli fosse premuroso e protettivo nei confronti della sua famiglia. In oltre emerge, senza troppe velature, l’intensa umanità dell’uomo Moro, che smentirebbe chiaramente la definizione di un uomo duro e freddo, come qualcuno lo avrebbe descritto. La lettera si comunica attraverso due livelli, quello famigliare e quello politico, dimostrando una sorta di inseparabilità, di coerente continuità tra la vita privata e la vita politica, un’integrità etica e morale, di “fare” politica e di “essere” politico. Tuttavia, quello che mi preme evidenziare è la presenza di un elemento, in un certo senso, estraneo al contesto familiare, che si riferirebbe ad una serie di indizi cifrati, che lo stesso Sciascia non aveva esitato a prendere in considerazione. Questo aspetto avrebbe dovuto attirare l’attenzione, se non della narrazione, che non può raccontare tutto, almeno degli investigatori. Adriano Sofri aveva posto l’attenzione su quella strana espressione di Moro, «vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». La frase indicherebbe, probabilmente, una sorta di luogo chiuso in cui lo statista sarebbe stato rinchiuso, luogo in cui era privato della luce del sole. Da questo prenderebbe corpo l’ipotesi che lo statista avrebbe inserito dei messaggi in codice nelle sue lettere. La trasmissione televisiva di Enigma (Rai Tre, martedì 22 marzo 2004) ha messo in evidenza la particolare propensione di Moro per l’enigmistica e la possibilità che lo stesso abbia inserito alcuni anagrammi in alcuni passi “strani” nelle sue lettere. Il giornalista Gianni Gennari, ospite delle trasmissione, riferisce della passione di Aldo Moro per l’enigmistica attraverso la testimonianza degli amici del politico, il professor Filippo Sacconi, Giorgio Bachelet (fratello di Vittorio), Alberto Malavolti. Fu proprio questo gruppo di amici che si sarebbe accorto della possibile esistenza di messaggi cifrati all’interno delle lettere di Moro attraverso frasi non molto chiare, le stesse frasi che aveva preso in esame Leonardo Sciascia. La prima lettera è quella rivolta a Zaccagnini, del 4 aprile. Si legge «se non avessi una famiglia bisognosa di me sarebbe un po’ diverso». Giocando sull’anagramma, di cui Moro è sarebbe stato un esperto conoscitore, gli amici di Moro avrebbero individuato «son fuori Roma, dove la Cassia in basso forma un asse, vedo pini e bimbi» (rimane fuori la lettera “g”). L’altra lettera è quella del 29 aprile che risalterebbe agli occhi per una strana caratteristica visiva. Improvvisamente dopo aver scritto a Misasi, Moro salta un quarto di pagina iniziando una frase strana. Si tratta forse di un'altra indicazione: «è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono le ragioni fondamentali della mia lotta contro la morte». Anagrammando uscirebbe: «le Br mi tengono prigioniero nel Cottage a mattoni a somma della valle di Formello tra Flaminia e Cassia» (rimangono fuori “h”, “i” e “u”). Secondo la testimonianza di Gennari si tratta di una tesi che aveva una sua forza comprovata anche da un importante enigmista, Ennio Peres, il quale aveva notato la forte presenza della lettera “s” e la costante indicazione della parola “famiglia”. L’uscita di questo articolo presso il giornale Paese Sera (1983) non ebbe ripercussioni. Un evento stranissimo però accadde: un signore anziano, ex pilota della Raf, grafico e pittore si presentò alla redazione del giornale, raccontando allo stesso Gennari e all’allora direttore Claudio Fragassi, di aver conosciuto e visitato la prigione di Moro, in una cantina di un noto magistrato, escluso dal suo ruolo proprio da Moro poiché coinvolto nella vicenda Sindona. L’anziano pittore evidenziò le strane parole del magistrato in relazione a questo scantinato: «da qui salveremo l’Italia». L’anziano signore, racconta Gennari, venne trovato morto (morte naturale) 20 giorni dopo nella sua abitazione di Vertica di Amalfi. Il mistero si infittisce quando nel 1987 esce la nuova rivista Giochi in cui viene pubblicato l’articolo sull’enigmistica di Moro e le lettere anagrammate: la rivista viene fatta chiudere il giorno dopo. Si tratta di una storia che andrebbe presa con tutte le riserve del caso e su cui si dovrebbe fare più chiarezza. Satta, da parte sua, ricorda che lo stesso fratello dello statista, Alfredo Carlo Moro, aveva fatto presente che lo statista non sarebbe stato un enigmistam. L’autore ritiene improbabile che Moro abbia inserito dei messaggi segreti nelle sue lettere. Attraverso la famiglia, Moro tenta di stabilire un canale di comunicazione privilegiato e probabilmente sotto forma di codice. Per Sciascia, Moro darebbe due significati diversi al termine “famiglia”. Il bisogno di protezione e di affetto che porta alla sua famiglia non coincide con lo stato sociale della stessa: «peraltro, da meridionale, non credo potesse vedere come bisognosa – di denaro e di protezione – una famiglia come la sua. Un meridionale ai cui figli non manca il lavoro e le cui figlie hanno, oltre al lavoro, un marito; che lascia alla moglie una casa e una pensione e all’intera famiglia un buon nome, si considera come sciolto dal problema della famiglia e in regola con la vita e con la morte. È da pensare, dunque, che appunto perché trovavano immediata e oggettiva smentita, Moro continuasse, insomma, che voleva dire altro». Per cui Moro non avrebbe trattato la famiglia nel «sentimento, nella sentimentalità, nel pietismo in cui gli italiani lo usano», poiché questo fare «torto alla sua intelligenza, alla sua misura, alla sua lucidità». Dunque nel messaggio preso in esame da Sciascia, la lettera datata 29 aprile, Moro allude ad un’altra famiglia: «è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte». Con il termine “noto” Moro intende sottolineare «quel che noto non è: e che dunque un'altra ragione bisogna riconoscere nella sua lotta contro la morte». Sciascia allude ad un'altra famiglia, probabilmente quella politica, quella all’interno del partito stesso, che si sarebbe trasformata durante il suo sequestro, e che forse è condizionata da altri eventi esterni. Probabilmente l’allusione dello statista è rivolta a chi dentro il partito conosce le priorità dell’altra politica. Nel caso Moro, la famiglia assume in todo un aspetto importantissimo. E probabilmente grande importanza hanno i sentimenti, al di là dei possibili codici inseriti nelle comunicazioni. Tuttavia, questo aspetto non ha ancora smesso di incoraggiare un’indagine seria e rigorosa che possa far emergere qualche elemento importante. Insomma, anche nella chiara possibilità di vedere un uomo segnato dal suo destino, pronto a comunicare il suo dolore ai suoi cari, esisterebbe spazio per un Moro “diverso”, preciso, puntuale, che avrebbe cercato di comunicare in codice alcuni elementi utili alla sua liberazione. Si tratta naturalmente di un’ipotesi, ma ciò costituisce inevitabilmente un fatto storico importante che lo stesso Sciascia aveva indicato all’indomani della scomparsa di Moro e che non può essere dimenticato. Di fronte al Moro emotivo, debole, forse colpito dalla sindrome di Stoccolma, esisterebbe un Moro lucido, razionale pronto ad utilizzare con abilità e precisione qualsiasi spiraglio di comunicazione per tentare la sua liberazione. Sono due immagini quasi opposte, diverse che non coincidono affatto e che dovrebbero suggerire in qualche modo una possibile soluzione. Da una parte c’è la perfezione del sequestro, dell’azione militare di via Fani; dall’altra esiste una strana imperfezione dei terroristi, dei comportamenti di Moretti, degli arresti improvvisi, dove addirittura emerge il fattore umano e debole dei stessi brigatisti, come ricorda Sciascia. Nella perfezione del caso Moro, nell’ipotetico scenario del complotto, esiste la faccia imperfetta e debole del sentimento degli stessi personaggi che vi prendono parte, proprio come nella palese imperfezione dei protagonisti reali della drammatica vicenda. Il film Buongiorno Notte di Marco Belloccio, tratto dallo scritto della Braghetti, Il prigioniero, insiste molto su questa lettura del caso Moro, anche se si tratta di un’interpretazione legittima, storica e soggettiva. Probabilmente il caso Moro con le sue implicazioni politiche e strategiche è più complesso di quello che la Braghetti, dal suo punto di vista, ha descritto nel suo bel libro. E affermando questo, vorrei evitare di cadere nella facile dietrologia storica. E’ opportuno ricordare, che Anna Maria Braghetti ha continuato a rifiutare la tesi del complotto e senza troppi misteri, ha sostenuto che dietro le stesse Brigate Rosse «non c’erano potenze nazionali o internazionali che potessero influire sulla situazione, o aprire canali coperti di comunicazione e di trattativa». Si tratta di una visione semplice e lineare della vicenda Moro, che entra chiaramente in contrasto con le conclusioni sostenute dal film. Una recente trasmissione televisiva, L’infedele di Gad Lerner (20.9.2003), trattando l’argomento Moro, ha glissato su tutti i misteri che avrebbero generato l’affaire. Il programma ha invece scelto di argomentare altre questioni, come il rapporto tra gli intellettuali e il terrorismo, la militanza del marxismo – leninismo, la rivoluzione fallace e illusoria di molti giovani, brigatisti compresi. Nemmeno una parola sulla possibilità che gli stessi brigatisti potessero essere stati strumentalizzati, nemmeno una parola su Hyperion, o su Moretti. Nessuna parola è stata proferita per i misteri del caso Moro. In parte, questo dimostrerebbe che il tabù Moro sia piuttosto diffuso all’interno del panorama culturale e politico italiano. Dalla trasmissione è emersa un’immagine delle Brigate Rosse ingenua, lacerata, inconsapevole, edulcorata proprio come la racconta la Braghetti e come lo ha raccontato, seppur in modo diverso, il film di Marco Bellocchio. Tuttavia, esiste un’imperfezione costante in tanti aspetti dell’affaire, una sorta di sviluppo illogico di alcuni eventi che, proprio per questo, finiscono per incrementare l’incerto sviluppo del caso. Un’imperfezione che inevitabilmente suggerisce un'altra pista investigativa, una serie di fatti che affiancati l’uno all’altro, suggeriscono un'altra immagine del sequestro. Da questo punto di vista, la strage di via Fani finisce per essere la fine di un lungo percorso che sembra partire molto prima. Il sequestro Moro rappresenterebbe, alla luce di questi eventi, una sorta di cappello conclusivo. Sciascia osserva che non è soltanto l’incongruenza di alcuni indizi ad essere messa in discussione, ma esiste un’umanità che traspare negli eventi del sequestro che finiscono per ribadire la fragilità degli stessi terroristi di fronte ad un piano preciso e portato a termine. Un’imperfezione che Moro ribadisce alla «unanimità fittizia» della linea della fermezza, in riferimento ad un possibile scambio con i brigatisti: «…applicare le norme del diritto comune non ha senso. E poi questo rigore in un paese scombinato come l’Italia». La telefonata a Franco Tritto del brigatista Nicolai è uno degli esempi di questa umanità involontaria presente nel caso Moro. La telefonata, secondo Sciascia, è costretta alla terribile necessità del caso e, al tempo stesso, è intrisa di un’emotività incontrollata: la freddezza e la passione del terrorista indicano, nel suo divenire evento storico, un terzo senso, un significato nascosto, che richiederebbe una nuova valutazione dell’affaire. Attraverso la telefonata si comunicano dei piccoli particolari, forse insignificanti per un magistrato, ma fondamentali per uno scrittore: la titubanza del figlio del professore che inizia a piangere per telefono, l’esitazione del freddo Nicolai che in più di un’occasione si ripete perdendo l’obiettivo di quella comunicazione, una modalità anomala per una telefonata lunga più di tre minuti che si scoprirà fatta dalla Stazione Termini: «che cosa dunque trattiene il brigatista a quella telefonata, se non l’adempimento di un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nella umana pietà? La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà […] forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vincere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti». La telefonata ricalca un’anomalia italiana, l’imperfezione di una organizzazione, quelle delle Brigate rosse che lasciano continuamente tracce e commettono errori madornali. Al di la della straordinaria lucidità di Sciascia, viene da chiedersi ancora oggi, come è possibile che le Brigate rosse, ragazzi con qualche idea rivoluzionaria e un armamento piuttosto ridotto, abbiano potuto realizzare un attacco così preciso e determinante nel cuore dell’Europa. Osserva Sofri: con Moro, qualcuno ha ancora sorriso della piccineria italiana e democristiana, del “tengo famiglia”. Tuttavia, attraverso le lettere di Moro, è la famiglia – e proprio la famiglia del più esemplare leader cattolico e democristiano – a contrapporsi fino alla rottura alla ragione di stato e di partito». Da questa spaccatura sono poi seguite le famiglie delle vittime delle altre stragi Ustica, Bologna, famiglie che ancora aspettano, nella loro dura lotta quotidiana, la verità sulla morte dei loro congiunti, figli e mariti, mogli e madri. Il coinvolgimento della famiglia è dunque una scelta narrativa ma è anche un dato storico, un fatto reale. Sarà proprio la famiglia di Moro ad entrare in scena dimostrano la commistione tra vita privata e vita pubblica del presidente, attraverso un duro comunicato stampa del 27 aprile diretto al mondo politico italiano e alla stessa Democrazia Cristiana. Si tratta di un atto di accusa rivolto alla Dc per la liberazione di Moro, in riferimento al «comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti» che ratificherebbero la condanna a morte di Aldo Moro. Il contatto tra il pubblico e il privato è quindi tanto inevitabile quanto evidente. La famiglia è tutto. Sarà proprio da questa comunicazione che prenderà origine la risposta di “pugno” di Andreotti, autore dell’incomprensibile fermezza. Così traduce Sciascia il comunicato di Andreotti: «il governo ha deciso di non trattare in nessun modo con le brigate rosse, per il rispetto che si deve alle famiglie i cui congiunti sono stati uccisi dai brigatisti». Inizia un lungo processo di deresponsabilizzazione che finirà con l’esplodere con la definitiva condanna a morte fine del prigioniero. Ma la condanna a morte siglata da chi? La stessa domanda percorre il film in relazione alle indagini di Rosario, Fernanda e Branco: qualcuno li segue segretamente, li spia, li minaccia. Ma chi è? Quale scopo avrebbe? Perché? Da un punto di vista prettamente narrativo, il pedinamento dei personaggi indicherebbe che il caso Moro nasconderebbe dei dettagli importanti, alcuni campi inesplorati che riaprirebbero il caso e metterebbero in discussione l’attuale verità giudiziaria. Questa struttura narrativa è basata, per tanto, sull’analisi critica delle versioni ufficiali, e sulla possibilità di delineare una vicenda assai diversa. Si tratta del compito narrativo delle prossime scene del film.
11. LA MORTE DI ALDO MORO. Il racconto è giunto al punto finale, la morte di Moro. Il regista sceglie la nota telefonata del brigatista Nicolai al professor Franco Tritto, per narrare le circostanze relative all’eliminazione e all’ubicazione del cadavere di Moro. Anche in questa situazione il film utilizza uno stile particolare: attraverso il supporto sonoro originale, il film inserisce dei spezzoni di fiction che descrivono gli eventi drammatici di quella telefonata: c’è spazio per un inquadratura mossa in cui si intravede il presunto brigatista al telefono con il professor Tritto. Più avanti il film ricorre alle immagini del 9 maggio di Via Caetani, immagini indubbiamente vere, girate dai cineoperatori, cui vengono affiancante quelle di fiction dell’esecuzione di Moro dentro la Renault rossa. Questo tipo di linguaggio utilizza la commistione tra il materiale di repertorio, storico e autentico, e il repertorio di finzione, girato dallo stesso regista per supportare visivamente la descrizione che i protagonisti fanno degli eventi. L’effetto di una simile impostazione è di certo molto forte, ma forse potrebbe creare una qualche confusione nel pubblico. Dov’è la verità storica e oggettiva rispetto a quella proposta dal regista? Credo che si tratti di una questione di non poco conto su cui si giocherebbe il valore narrativo del film, il suo valore “investigativo”. Tale costruzione richiama inevitabilmente l’attenzione intellettiva e culturale dello spettatore, il quale deve saper scindere e analizzare il testo filmico, riconoscere il repertorio storico da quello “inventato” dal regista e, al tempo stesso, deve riuscire a comprendere quali sono le novità investigative proposte dal film, rispetto a quelle ufficiali e giudiziarie. Si tratta di un lavoro impegnativo che, in un certo senso, può essere facilitato dal presente studio, in cui si tenta di porre una linea di demarcazione tra la versione ufficiale e quella “nuova” proposta dal regista Martinelli. Tuttavia un fatto è certo. L’eliminazione di Moro nasconde molte incongruenze e il film lo mostra con straordinaria lucidità, argomentando chiaramente il momento che avrebbe preceduto l’uccisione di Moro. Tutte le contraddizioni esistenti sono enumerate e analizzate dalle indagini portate avanti da Fernanda e il giudice Rosario. Esiste una versione dei brigatisti che non sembra essere molto esaustiva. Per i brigatisti Moro venne ucciso nel covo di via Montalcini con una raffica di mitra Skorpio (l’immagine di fiction ribadisce piuttosto violentemente l’evento) e in un secondo momento da una pistola Walther Ppk modificata a calibro 9. I brigatisti dichiararono che la morte dello statista sarebbe avvenuta tra le 6 e le 6.30 del mattino. Ma per Rosario si tratta di una menzogna palese. In questo punto interviene l’energica relazione di Fernanda che evidenzia le incongruenze della deposizione dei brigatisti. Che Moro sia stato ucciso in via Montalcini è assai improbabile considerando che il tratto di strada da fare fino a via Caetani, luogo del ritrovamento del cadavere, sarebbe stato piuttosto lungo (7-8 km), rischioso e pieno di posti di blocco. Un rischio che le Br probabilmente non erano abituate a correre. Dal rapporto della scientifica, in oltre, emergerebbe che la vittima sarebbe deceduta dopo l’ultimo colpo della pistola calibro 9. Considerando il tratto di strada tra via Montalcini e via Caetani e il traffico esistente, è quasi impossibile sostenere che il corpo della vittima, sia rimasto immobile fino alla fine del percorso. In relazione alla balistica, Fernanda ricorda che le pallottole entrate sul fianco sinistro del prigioniero sono state sparate da dentro la macchina e non dall’esterno come invece sostengono Moretti e Maccari. È per questo motivo che si sono trovati tre bossoli all’interno della macchina sotto il sedile ribaltabile. Fatto che non viene affatto citato nelle versioni di Moretti e di Maccari. Emerge il quarto elemento: che via Montalcini fosse stata l’unica e duratura base in cui Moro era stato recluso per tutti i 55 giorni è un'altra menzogna. L’elemento indiziario di questa incongruenza è evidenziato dalla presenza di sabbia e bitume nei risvolti dei pantaloni di Moro, il quale probabilmente avrebbe camminato in una zona costiera, in «bagnasciuga». I brigatisti hanno sempre sostenuto che il bitume, cosparso da loro, abbia avuto lo scopo di depistare le indagini. Insomma, e si tratta del quinto elemento, l’esecuzione di Moro sarebbe stata compiuta nel pieno centro di Roma, dove erano presenti i servizi segreti. Come afferma il procuratore Saracini dal rapimento fino all’uccisione compaiono i servizi segreti, «in via Fani, dove avviene il sequestro del Presidente… in via Gradoli, dove hanno il covo …in via Caetani, dove viene fatto ritrovare il cadavere». Dopo il delitto, il corpo di Moro non sarebbe stato spostato, ma sarebbe rimasto esattamente in quel luogo. Si tratta di un’ipotesi inquietante che confermerebbe una diversa ricostruzione delle ultime ore di Moro. Tuttavia il film non tratta l’argomento di chi avrebbe ucciso Aldo Moro. Molti elementi indiziari, oltre alle contraddizioni degli stessi brigatisti descriverebbero un contesto estremamente diverso e porterebbero nel cuore del ghetto ebraico, dove fu rinvenuto il corpo di Moro. Nel covo di via Gradoli la polizia aveva trovato alcuni elementi che avrebbero portato nella zona del ghetto ebraico: un mazzo di chiavi di una Jaguar con un talloncino con su scritto Sermoneta Bruno, un telefono (grafia di Moretti) che portava il nome di Marchesi Liva con tanto di appuntamento, un altro recapito telefonico dell’immobiliare Savellia, altra sede di copertura del Sisde, uno schizzo planimetrico, attribuito a Morucci, di palazzo Orsini. Quale interesse avrebbero avuto i brigatisti per questo palazzo? Perché Moretti avrebbe dovuto incontrare Marchesi Liva, ovvero la marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani, nobildonna romana? Che legame sarebbe esistito tra il sequestro Moro, i brigatisti e il ghetto ebraico? Si tratta di alcune questioni fondamentali che il film non può trattare per una ragione essenzialmente narrativa. Tuttavia, emergono alcuni elementi essenziali che indicherebbero la strana tendenza di quelle indagini. Le ricerche partirono in ritardo: soltanto il 15 maggio, il consigliere istruttore Achille Gallucci ordinò l’identificazione dell’immobiliare Savellia e i necessari accertamenti. Il tutto porterà al già citato commercialista G. C., che come scrive Flamigni, è il presidente e amministratore della società, in contatto con altre immobiliari tutte collegate al Sisde (l’immobiliare Palestrina III, la Kepos, e la Proim srl). Ma la relazione a quanto pare non produsse conseguenze giudiziarie. Il già citato Sermoneta Bruno, (talloncino di via Gradoli) porta nel cuore del ghetto ebraico: è un commerciante di tessuti e possiede diversi automezzi tra cui alcuni autofurgoni. Quale collegamento esiste con Moretti e le Brigate Rosse? Le indagini vengono, inspiegabilmente avviate in ritardo (12 ottobre 1978) e senza soluzione di continuità. Flamigni osserva che un gruppo di fiancheggiatori delle Br venne individuato in via Sant’Elena, proprio nel Ghetto Ebraico, abitato dai coniugi Raffaele De Cosa e Laura Di Nola, militanti della sinistra extraparlamentare. Emergerà poi che la stessa Di Nola, deceduta nel luglio 1979, figlia di un commerciante di tessuti, sarebbe stata legata all’intelligence israeliana. Si tratta di una figura oggettivamente strana, che pur non costituendo un elemento giudiziario, va situata in una strana zona di confine la zona il Mossad e l’estrema sinistra armata. Il ghetto ebraico ritorna attraverso la figura di Igor Markevich, il “misterioso intermediario”, esponente della nobile famiglia Caetani, indicato da alcune informative come possibile capo delle Br, nonchè il possibile inquisitore che avrebbe interrogato Moro. Le indagini sul direttore d’orchestra non offriranno nessun riscontro significativo. Tuttavia Flamigni osserva che il nome di Igor Markevich finisce per essere legato a Palazzo Caetani, sede di altre organizzazioni come l’ambasciata del Sovrano ordine dei Cavalieri di Malta, un ordine religioso- militare che ospitava diversi iscritti al P2 nonché il direttore del Sismi il generale Santovito. Altro elemento riguarda palazzo Mattei, confinante con palazzo Caetani, ideale luogo per ricetto di autovetture: «la Renault delle Br avrebbe potuto entrare e uscire dallo spazioso passo carraio collocato in via dei Funari», forse quel misterioso passo carraio di cui parla lo stesso Pecorelli. O forse questo passo carraio è quello di un edificio di via Paganica, adiacente con tre entrate. Una di queste porterebbe ai magazzini di Guglielmo Di Nola, padre della citata Laura. I tessuti rappresentato un elemento importante nell’indagine poiché vengono trovati sotto la suola delle scarpe di Moro, sui parafanghi e nel pianale delle Renault 4 e definiti come «strutture filamentose». Questo fatto potrebbe provare gli spostamenti che venivano imposti al prigioniero, indicando un’altra verità. Tuttavia il film preferisce evidenziare la sola presenza di “bitume” e del «materiale sabbioso misto a una formazione vegetale tipo cardo, con aculei non essiccati» piuttosto che allargare l’indagine su ulteriori elementi indiziari. In oltre, palazzo Mattei è ricco di sotterranei con vari magazzini di tessuti, è sede di entri culturali e accoglie una sede del Sisde (quarto piano). Insomma la conclusione del sequestro Moro ha come scenario il ghetto ebraico circondato da strane coincidenze, personaggi misteriosi, di cui non si è fatta piena chiarezza: ma secondo il film e il senatore Sergio Flamigni, è anche molto probabilmente il luogo dell’uccisione di Moro. Le perizie effettuate sul corpo di Moro, smentiscono la versione di Morucci, confermata da Moretti, dalla Braghetti e da Maccari. I brigatisti hanno sostenuto che il prigioniero sarebbe stato rinchiuso in una stanza di 90 centimetri per 3 metri in via Montalcini per tutti i 55 giorni del sequestro. Ma le risultanze peritali affermano che il corpo di Moro era in buone condizioni igieniche, senza nessun segno di anchilosi muscolare e che probabilmente il corpo di quell’uomo avrebbe vissuto in un luogo spazioso. Il materiale sabbioso presente nei risvolti dei pantaloni, giustificato dai brigatisti come depistaggio, potrebbe indicare il possibile luogo dove il prigioniero avrebbe trascorso una parte della prigionia. In effetti, ricorda Flamigni, che un covo brigatista era stato individuato nella zona Fregene – Focene. Secondo Flamigni, alcuni volantini trovati il 26 marzo confermerebbero tale ipotesi. Particolarmente rilevante è la testimonianza relativa all’episodio avvenuto il 6-7 maggio, in cui un certo Sergio Cardinaletti avrebbe visto lo stesso Mario Moretti, in zona Focene, riconosciuto subito dopo in una foto segnaletica. Tutto questo getterebbe una luce sinistra sulle dinamiche del delitto e insisterebbe sulla necessità di riaprire il caso Moro. Lo scambio di battute tra Branco e Fernanda sintetizza la tesi portata avanti dal film: «dunque, stando a quanto dite, il Presidente sarebbe stato ucciso non nel covo di via Montalcini, ma nel centro di Roma, a poche centinaia di metri dal luogo del ritrovamento del cadavere». Si tratta di un’ipotesi inquietante e rivoluzionaria, presa in considerazione da un articolo di Massimo Caprara, pubblicato presso la rivista Pagina (25 febbraio 1982), in cui si faceva riferimento al dubbio assassinio di Moro. Caprara aveva osservato come i pochi soldi trovati in tasca allo statista, avessero avuto una precisa utilità: «una somma pari a quanto occorre… per pagare un taxi dalla periferia urbana, dall’Ostiense, la Magliana, la Cassia o poco più là». Ma forse i soldi erano un trucco per illudere lo stesso Moro di un suo imminente rilascio. Tuttavia, osserva ancora Caparra, che «la famiglia Moro non ha mai rinunziato a sottolineare questo dettaglio inquietante che porta ad una conclusione altrettanto torbida: Moro fu liberato dagli uni e trucidato da altri?». E come ricorda il senatore Dc, Giovanniello, probabilmente «Moro stava per essere affidato a criminali comuni per il terribile atto conclusivo». Si tratta di un’ipotesi che ravviserebbe la presenza di altri esecutori materiali, di altri gruppi misteriosi di cui ancora oggi non si conosce la vera identità. Per la notissima immagine in cui Moro veniva fotografato con la stella a cinque punte, il film elabora una nuova location, modificando ancora una volta la versione ufficiale. Il racconto mostra la circostanza in cui sarebbe stata scattata quella foto, “ricreando” gli ultimi istanti prima di quell’evento: si vede il prigioniero (ricreato in post produzione), si sentono le voci fuori campo dei terroristi. Ma quello che colpisce è la costruzione di una location molto più ampia che sembra ribadire, attraverso un codice iconico, che il prigioniero non fu rinchiuso sempre e soltanto in un unico luogo stretto e inospitale come viene dichiarato dai brigatisti. Lo spazio di questo luogo, che appare attraverso un flashback per pochissimi secondi, evidenzia un’ipotesi diversa. L’autopsia fatta sul corpo di Moro, aveva evidenziato, come ho già summenzionato, la mancanza di anchilosi e contratture che avrebbero potuto testimoniare la costrizione in cui si sarebbe trovato il prigioniero: «il cadavere risulta curato, con indumenti in buono stato, le unghie non debordano dai polpastrelli e ne si rileva materiale ematico. È evidente, osserva il regista, che il prigioniero fu tenuto in un locale ampio, dotato di servizi igienici, che gli consentì di lavarsi, di scrivere e di radersi. Si tratta di una ipotesi avvallata anche dalla perizia calligrafica che riferisce una situazione comoda e rilassata e non stando sdraiato a letto con i gomiti sulle gambe come, invece, dichiarano le deposizioni dei brigatisti e di cui si può vedere una chiara rappresentazione nel film di Giuseppe Ferrara. Anche in questo caso ci si troverebbe di fronte ad un resoconto che non coincide con la versione ufficiale degli eventi. Si tratta di una sorta di ricostruzione spaziale che assurge ad una nuova dinamica del dopo sequestro e diverge dalla versione ufficiale. Il valore figurativo dell’inquadratura ha il potere di mettere in discussione la versione ufficiale della prigionia di Moro. Le evidenze enumerate da Fernanda, continuano a smontare la versione ufficiale. Il luogo del ritrovamento del cadavere di Moro è contiguo a via Foa dove lo stesso Moretti aveva preso un immobile presso Via Foa per redigere i comunicati brigatisti. Si tratta del sesto indizio inserito nella scena. La vicinanza tra il luogo del delitto e via Foa indicherebbero una importante relazione tra le attività dei brigatisti e il ghetto ebraico di Roma. Ma il film punta l’attenzione sulla macchina topografica utilizzata dalle Br, la quale proveniva da un reparto definito Rus (raggruppamento unita speciale) dell’ufficio Sismi, in via di Forte Bravetta, sotto il comando del Generale Giuseppe Santovito. Si trattava di un reparto d’addestramento responsabile dell’allora organizzazione paramilitare Gladio. Questo è un fatto certo, come afferma Fernanda: «una stampatrice appartenente ad un ufficio del controspionaggio militare viene usata per redigere tutti i comunicati relativi al rapimento del presidente all’interno di una topografia gestita clandestinamente dalle Br». È il momento in cui il film ammette la strana collusione che sarebbe esistita tra i brigatisti di Moretti e i servizi segreti militari. È quindi la conclusione di un percorso investigativo estremamente grave che espone i protagonisti a non pochi rischi. La sentenza di Corte d’assise racconta che la Rotoprint A.B. Dych matricola 938508 era stata fornita il 31 gennaio 1972 dalla stessa ditta RUS del ministero della Difesa. Dichiarata “fuori uso” era stata venduta come rottame ad un commerciante di vecchi strumenti grafici, un certo Noto Stefano, il quale aveva trovato un acquirente nel brigatista Sebregondi Stefano per tre milioni di lire. Quel giorno risulta essere presente anche Triaca Enrico. È l’inizio di una vicenda contorta. Per il Sid esiste un'altra storia, declassata nel 1975, per la quale la stampante sarebbe stata venduta a Bentivoglio, il quale, però in Corte d’assise avrebbe negato. Affermerà Eleonora Moro: «quando hanno scoperto la tipografia, mio marito era ancora vivo. E si doveva fare questa cosa prima della data che era stata fissata. La data stabilita per andare e prendere le persone della tipografia era molto interiore alla data in cui mio marito morì. Perché fu poi rimandata al 9 e poi rimandata ancora? Perché?». Risponde Sciascia: «tanta lentezza crediamo dovuta principalmente a quello che il dottor Fariello (dell’Ucigos) chiama “pedinamento a intervalli”: che sarebbe il pedinare le persone sospette, a che non si accorgano di essere pedinate, quando sì e quando no. Il che, afferma Sciascia, sarebbe come non pedinarle affatto, poiché soltanto il caso e la fortuna possono dare senso ad una simile pratica investigativa, «come se il recarsi in luoghi segreti, gli incontri clandestini e tutto ciò che s’appartiene all’occulto cospirare e delinquere, fosse regolato da abitudini ed orari». È sempre Fernanda a ricordare che in data 28 marzo, dodici giorni dopo la strage di via Fani, al Viminale era giunta un importante informativa riguardo Teodoro Spadaccini. L’informazione è precisa ma viene tenuta in “sonno” per oltre un mese. Verrà trasmessa alla questura soltanto 32 giorni dopo, il 29 aprile: «da questa data inizia il pedinamento del brigatista Teodoro Spadaccini, che faceva parte della brigatista universitaria che gestiva la custodia della Renault rossa utilizzata per l’uccisione di Aldo Moro. Ebbene nove giorni dopo la morte del Presidente, il pedinamento di Spadaccini porterà alla localizzazione della tipografia di via Pio Foà». Ma si tratta del giorno in cui Moro viene trovato morto. La detection viene interrotta dalle necessità narrative, che pure fanno parte del racconto complessivo. L’indagine avanza vorticosamente e pericolosamente e gli effetti sui propri cari, sulla famiglia sono quasi immediati. Fernanda è avvisata da suo marito che i loro figli non sono ancora tornati a casa e questo è naturalmente fonte di preoccupazione per tutti, Rosario compreso, il quale sa benissimo che la sua indagine non è ancora autorizzata dal Consiglio Superiore della Magistratura. L’intreccio del racconto porta a confronto il valore investigativo del film e quello umano dei personaggi, realizzando un pericoloso corto circuito. Come avevo osservato nei paragrafi precedenti si tratta di una scelta narrativa ma anche molto precisa che ha a che vedere, probabilmente, con l’inevitabile pericolosità dell’affaire che come una piovra stringe nei suoi tentacoli chiunque si lascia coinvolgere dal caso, colpendo gli stessi familiari. L’uccisione di Moro trova un drammatico riscontro con un fatto: probabilmente nessuno era interessato a liberare un uomo che presumibilmente aveva parlato dei numerosi segreti di Stato, di un uomo che rappresentava la diretta testimonianza sul suo stesso sequestro e degli strani avvenimenti relativi al covo. La sua liberazione avrebbe avuto un effetto destabilizzante. Ricorda Pecorelli che lo stesso Cossiga era stato avvisato della presenza dei brigatisti in via Montalcini, alludendo, attraverso espressioni simboliche, alla presenza della P2 in tutta la vicenda. Con i suoi scritti e il possibile Memoriale che gli sarebbe stato estorto, Moro annunciava cose gravi da non poter essere tollerate da un sistema politico fragile come quello italiano. Il messaggio di Pecorelli indicava chiaramente che il sequestro Moro rappresentava l’ulteriore continuazione di una strategia della tensione, attraverso mezzi nuovi. Per questo motivo la liberazione e il reinserimento di Aldo Moro all’interno della politica italiana era pressoché impossibile. Moro conosceva il comportamento finanziario e politico del suo partito, il potere di Governo che dal dopoguerra fino agli anni ’70 aveva dominato la scena sociale e civile. La sua politica filoaraba era in chiaro contrasto con la politica americana. Durante la guerra dei Sei Giorni, Moro si sarebbe opposto alla concessione delle basi militari, provocando le animose lamentele di Kissinger. Moro sapeva e parlava del coinvolgimento americano nella strategia della tensione che aveva lo scopo di ricondurre alla “normalità” l’Italia, dopo la destabilizzazione del ’68. Moro, nel suo Memoriale, aveva rivelato dei finanziamenti Cia alla Dc e faceva riferimento a Gladio. Aveva descritto negativamente i suoi colleghi di partito, Andreotti, Taviani, Zaccagnini, e molti altri. Era divenuto da vittima a pubblico ministero della politica italiana e della stessa Dc dei quali conosceva tutti i segreti. Come aveva osservato Pecorelli (24 ottobre 1978), Moro rappresentava una «bomba ad orologeria che avrebbe ancor più minato le già cotte strutture della repubblica». E per questo motivo non si sarebbe potuto tornare indietro, il prigioniero doveva essere eliminato. Esisteva un gruppo di potere contro Aldo Moro e la sua politica di solidarietà nazionale. Qualcun altro avrebbe poi pensato, inevitabilmente, alla sua “eliminazione”. La genesi della linea della fermezza potrebbe trovare una valida interpretazione alla luce di quanto detto: la liberazione di Moro avrebbe potuto significare la fine di altri personaggi politici a livello di partito e forse anche a livello internazionale. Tuttavia all’opinione pubblica, veniva descritto un Moro influenzato, alterato, drogato. Il culmine della linea di fermezza si sarebbe raggiunto con la notizia che lo statista starebbe scrivendo sotto l’influsso di un potente psicofarmaco, l’aloperidolo, «una medicina insapore e inodore che rende la persona facilmente dominabile e che modifica la scrittura rendendola incerta». I politici confermarono incredibilmente la tesi di scienziati e neurologi: Cossiga, «… missiva completamente estorta», Rognoni, «Moro è ormai uno strumento delle Brigate Rosse», Colombo, «non c’è niente del pensiero di Aldo, cose infantili, assurde». La linea della fermezza si sarebbe espressa anche attraverso questi particolari e non soltanto attraverso una logica politica e giustizialista. Così la spiegherà Andreotti «i rapitori hanno posto il preciso tema del cosiddetto “scambio di prigionieri”. L’inaccettabilità di un tale disegno è palese… Ancora: se gli agenti dell’ordine e ancor più le guardie carcerarie, che quotidiane soffrono disagi e dileggi e purtroppo in parecchi casi hanno pagato con la vita il difficile servizio di vigilanza e di prevenzione; se questi umili servitori dello Stato vedessero che per liberare un uomo politico si calpestano le leggi e si aprono le prigioni, la reazione sarebbe immediata, con conseguenze gravissime. E che dire delle vedove e degli orfani degli uccisi?» Sofri ricorda che Andreotti aveva più volte ribadito questa intenzione della linea della fermezza. Nella relazione finale della Commissione Moro si legge che «la liberazione, anche di uno solo dei tredici, avrebbe imposto un gravissimo strappo alla legalità, incrinando profondamente le ragioni stesse della resistenza del Paese contro il terrorismo e offeso i valori di fondo di giustizia e di uguaglianza del nostro ordinamento». Ironicamente aggiunge Sofri: «tutto questo disastro sarebbe stato provocato dalla liberazione, per esempio di Paola Besucchio?». Il ritrovamento del cadavere di Moro è commentato dallo stesso Pecorelli attraverso uno dei suoi scritti più criptici. Il 23 maggio 1978 pubblicò qualcosa di molto simile a una telecronaca: oltre il muro dove sarebbe stato trovato il cadavere, «ci sono i ruderi del teatro di Balbo, il terzo anfiteatro di Roma». E continua «ho letto in un libro che a quei tempi gli schiavi fuggiaschi e i prigionieri vi venivano condotti perché si massacrassero tra loro. Chissà cosa c’era nel destino di Moro perché la sua morte fosse scoperta proprio contro quel muro? Il sangue di allora e il sangue di oggi». Pecorelli parlava dei gladiatori riferendosi alla morte di Moro, ma fino a poco tempo fa pochissimi avrebbero capito il senso del messaggio. Sembrerebbe, però, che Pecorelli si riferisse anche a delle precise responsabilità dei gladiatori nella morte di Moro. Per Pecorelli, Gladio è certamente presente dietro all’affaire Moro come una delle organizzazioni che avrebbe determinato l’esito del sequestro. L’esecuzione di Moro, l’abbandono tra la sede nazionale della Dc (piazza del Gesù) e quella del Pci (via delle Botteghe Oscure) confermerebbe la strana guerra in cui si trovò lo statista e il motivo per il quale fu eliminato. Da questo punto di vista la sua eliminazione avrebbe significato la sconfitta violenta e traumatica della stessa democrazia, e affermato il valore subliminale di una guerra che si combatteva soprattutto sul piano psicologico e non più propriamente militare. Scriveva nel 1944 il giovane Moro: «ciascuno accetti in pace, quando è la sua ora, di uscire dalla scena del mondo, con la gioia di avere costruito qualcosa per gli uomini e con la certezza di finire». Contro la sua stessa volontà, prematuramente, lo statista uscì drammaticamente di scena, senza aver potuto realizzare il suo progetto solidarietà nazionale, senza poter completare la sua missione. Come una marionetta «dai fili spezzati, come un fagotto», il cadavere di Moro è stato collocato all’interno di un’anonima automobile, ucciso insieme alla sua stessa idea di ricostruzione di una società probabilmente diversa.
12. LA SCENA DELLA TORRE. In una lettera datata tra il 27 e il 30 aprile e indirizzata a sua moglie Eleonora, Moro scriveva: «si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) […]». L’interpretazione non lascia scampo e sottolinea fortemente lo stato di «guerra» in cui il mondo politico italiano si sarebbe trovato. Moro parla di scambio di prigionieri, come possibile “oggetto” della trattativa. Analizzando tutto il contesto del sequestro, colpisce ineccepibilmente l’espressione «guerra» usata dallo statista. Nella ricerca effettuata sulle lettere di Moro, il termine “guerra” e “guerriglia” compare in tutto nove volte e quasi sempre ad indicare la possibilità di scambio tra prigionieri. Moro cita esempi internazionali, il caso Lorenz, gli eventi Palestinesi, la Croce Rossa. Particolarmente sibillina è l’ultima lettera in cui compare il termine “guerriglia”: si tratta di quella indirizzata a Riccardo Misasi in cui le parole di Moro descrivono la triste constatazione di questa guerra. Appellandosi al diritto umanitario, alla stessa Croce Rossa, alle procedure adottate in caso di scambio di prigionieri, Moro scrive che «c’è un rifiuto […] un allineamento su posizioni esterne», quasi a rilevare la presenza di una forza esterna che controllerebbe gli eventi e che impedirebbe la sua liberazione. Dunque, anche questo elemento insiste sul contesto bellico in cui il paese è coinvolto. In altre lettere Moro richiama l’attenzione sulle potenze straniere, evidenziando una possibile patologia della sovranità nazionale dello Stato Italiano: «vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?». Scrive Sofri: «la sensazione che fra i terroristi agisse una mano straniera, quella ossessione di una perfezione e di una ferocia “tedesca”, si ritrova nel sospetto che assilla Moro, che i democristiani siano a loro volta ispirati nella “fermezza” da una volontà esterna». Moro sapeva perfettamente che la sua vicenda non poteva limitarsi ad un ambito personale e privato. Sapeva che le sue scelte politiche avrebbero avuto un importante effetto sull’equilibrio nazionale e da poter alterare l’equilibrio politico di tutto il mondo e per questo, sarebbe stato inviso a molti capi di Stato. Sapeva, quindi della “guerra” che gli si sarebbe rivolta contro e intuiva, forse, che sarebbe stato colpito da una manovra politica di altissimo livello. Ma come sarebbe stato attuato il “colpo”? Chi sarebbe stato l’esecutore materiale di tale manovra? Quali interessi sarebbero entrati in gioco? Gli interrogativi sono sviluppati in questa parte del film. La guerra può essere definita come il conflitto violento scaturito tra società e gruppi armati organizzati. Essa presuppone lo scontro tra due o più blocchi militari e politici fino alla sua estrema conclusione, dove una delle due parti, o schieramenti, sancisca la propria impossibilità di continuare il conflitto, e iniziando, così, il primo passo verso il trattato di pace. Questa definizione indicherebbe in primis la chiarezza degli obiettivi che scatenerebbero la guerra, e la presenza chiara e distinta di un nemico da combattere. Nell’affaire Moro, non si possono riconoscere questi elementi bellici. Per tanto, la guerra che avrebbe combattuto Moro non conserverebbe nessuno di questi tratti essenziali. Ma allora, di quale guerra sta parlando lo statista? Moro è oggetto di una guerra strana, di un conflitto simbolico e criptato, una guerra invisibile, una guerra fatta tra idee e strutture politiche non proprio evidenti di fronte alla storia e alla stessa opinione pubblica. Si tratta di una guerra che, in primo luogo, si compie sul piano psicologico, quello personale, di una guerra che può essere compresa soltanto da chi aveva scritto quelle lettere. Si tratta della tesi sostenuta nel film. La scena della torre di Siena argomenta il livello “occulto” della presunta guerra in cui sarebbe coinvolto lo statista, il cosiddetto quarto livello internazionale. Le scelte narrative e stilistiche del film convergono sulla descrizione di un livello politico avanzato, in cui prenderebbero vita segreti rapporti politici e finanziari tra governi e lobby internazionali. Si tratta della teoria del doppio Stato, assai avversata dagli storici accademici secondo la quale, oltre allo Stato trasparente, fatto di istituzioni, di un governo e di un parlamento eletto dal popolo, esisterebbe in ogni Nazione, uno stato occulto, segreto composto di famiglie finanziarie, di massonerie e di potenti gruppi economici che possono determinare il ciclo storico. Al di la di ogni possibile veridicità sull’esistenza di questo livello, che per altro precluderebbe da questo lavoro, bisognerà ammettere che il racconto di Martinelli avanza una serie di elementi giudiziari e probanti, assai imbarazzanti per le stesse istituzioni. Il film adotta uno stile storico e scenografico: molti elementi architettonici, edifici, chiese, palazzi e torri, divengono il luogo candidato per affrontare l’argomento Moro. Questa scelta, probabilmente, risponde a due ragioni narrative. Da una parte, la scenografia rifletterebbe una certa tradizione storica italiana, caratterizzata da un’imponente architettura bellica e politica, composta da torri, chiese, castelli in cui le potenti Signorie hanno esercitato il loro specifico potere temporale e militare. Da questo punto di vista, l’ambientazione risponde ad un’esigenza analitica che tenta di comprendere il corso storico degli eventi. Dall’altra, evidenzierebbe la stessa vicenda di Moro, la quale coinciderebbe con il tentativo di stabilire un equilibrio tra le diverse spinte politiche italiane e internazionali, di porre una sorta di pace, di compromesso. La frammentazione della politica italiana, l’eccessivo partitismo e una vivacissima attività governativa, evidenziano la particolare instabilità della storia politica e civile dell’Italia. La scena iniziale del famoso palio di Siena, potrebbero assumerebbe questo significato. Le immagini sono veloci, strette su dettagli e montate con un ritmo serrato e brevissimo. Suggeriscono una forte conflittualità tra gli elementi. La funzione semantica del particolare chiuso all’interno dell’immagine, l’inquadratura specifica che sottrae lo spazio intorno all’oggetto, destruttura e mette in conflitto tutta l’integrità dell’oggetto e della stessa scena. Attraverso un montaggio rapido, concentrato sulla brevità dell’inquadratura e sulla specificità dei dettagli, emerge un significato conflittuale tra gli elementi mostrati. Tale struttura suggerirebbe la forza rituale del palio di Siena, ma anche la tradizione storica della cavalleria, dei soldati, e in una parola della guerra: il film si apre attraverso la messa in scena di una guerra. Attraverso il rituale storico del palio, come paradigma degli eserciti e della conquista, emerge l’idea di un conflitto permanente che attraversa tutto il racconto filmico e che ha determinato la vicenda storica dell’Italia e dello stesso Aldo Moro. Ma esiste anche un altro aspetto importante che emerge dalla scena della Torre e che posso definire di valore squisitamente cinematografico. Si tratta del valore simbolico che assume lo spazio scenico in cui avviene il racconto. Questo valore spaziale è propriamente la dimensione dell’altezza della Torre. L’altezza della Torre corrisponde al punto di vista di chi nell’insieme analizza l’affaire Moro; più si va in alto e più sono chiare le strategie del Potere. Questa scena ha lo scopo di svelare lo scenario internazionale dietro l’episodio prettamente nazionale, contro chi, fino ad oggi, ha insistito per far prevalere l’interpretazione del sequestro Moro solo e soltanto attraverso le Brigate rosse. Lo scopo precipuo della scena è quindi di dare una risposta al significato particolare che Moro dava alla parola guerra. La metafora adottata per questa scena è quindi il punto di vista dei protagonisti, una metafora che viene realizzata dal basso verso l’alto. Il punto di vista spaziale corrisponde al punto di vista narrativo e conseguentemente al punto di vista storico. La finzione cinematografica e narrativa è il presupposto per una possibile verità storica che avrebbe generato la drammatica vicenda di Aldo Moro: questa, a mio avviso, sarebbe la forza semantica di questa scena. Martinelli afferma che si è trattato di una metafora per dare corpo all’idea del complotto: «dalla cima della Torre, molti fatti apparentemente slegati tra loto tradiscono così il filo sotterraneo che li lega». Ogni piano della torre corrisponde ad un nuovo e inquietante livello del caso Moro, dove si svelerebbero i tasselli dell’indagine. Rosario accosta tutte le conclusioni raggiunte fino ad ora: quello di via Fani è un sequestro anomalo, come anche quello di via Gradoli è un covo anomalo. Ancora una volta emerge l’idea di una situazione strana, non chiara, esattamente come la «guerra» di cui scriveva Moro. Il film raggiunge il suo scopo puntando l’attenzione sulla figura anomala e ambigua del presunto capo delle Brigate rosse, Mario Moretti, un «capo anomalo». Il giudice rivela le ultime informazioni avute a Parigi dalla cosiddetta entità. Tutta la strana vicenda del sequestro Moro è fatta risalire alla scuola di lingue Hyperion, il cui scopo nascosto era quella d’impedire l’ascesa del partito comunista italiano. Un obiettivo che coincideva con quello della Loggia Massonica P2. Rosario conclude affermando che dentro le Brigate rosse vi erano gli infiltrati di presunti e misteriosi servizi segreti che dovevano convogliare gli interessi dei terroristi con gli interessi delle potenze internazionali: in una parola l’impraticabilità del compromesso storico. Questo aspetto emerge in maniera piuttosto diretta attraverso le parole di Saracini: «il programma della P2 era diametralmente opposto alla politica di Moro, la loggia di Gelli avversava il partito comunista come un esiziale nemico… proprio in quegli anni nel nostro Paese era nato un fenomeno nuovo, le Brigate Rosse, appunto». In questo punto del film si tratta l’ennesima anomalia dell’affaire Moro. L’esempio è fornito da Frate Mitra, meglio conosciuto come Silvano Girotto. La sua biografia può essere equiparata a quella dell’agente provocatore: studente, ladro, rapinatore, legionario in Algeria, disertore, frate francescano, guerrigliero in Bolivia, resistente in Cile. Sempre salvo mentre chi gli sta intorno viene arrestato. Si ha l’impressione di vedere un infiltrato di altissimo livello, agli ordini di un servizio segreto che determina gli eventi storici, «usato dagli strateghi della tensione che procedono alternando attentati di destra e attentati rossi». Il primo incontro tra Curcio e Girotto avviene il 28 luglio 1974. L’incontro è fotografato dai carabinieri del generale Dalla Chiesa. Il secondo incontro è del 31 agosto. Curcio e Moretti sono insieme. Girotto aveva offerto la sua conoscenza di guerrigliero andino. Moretti trasse l’impressione che Girotto fosse sincero. Ma Curcio e Cagol non ne erano affatto convinti, ricorda Franceschini. Il terzo incontro è fissato per l’8 settembre. Il 6 settembre una telefonata anonima giunge ad Enrico Levati, medico già presente nell’incontro di Pecorile, arrestato e poi rilasciato in merito alle indagini sui Gap di Feltrinelli. Flamigni ricorda che Levati avrebbe ricevuto l’informazione di avvisare Curcio che l’incontro di settembre sarebbe stato una trappola. Ma la notizia non arriverà mai a Curcio, ma soltanto a Moretti. Gli incontri tra il gruppo armato e Girotto sono di fatto una trappola gestita dal Nucleo speciale dei carabinieri del generale Dalla Chiesa. Ma questa operazione si rivela, comunque, gravida di enigmi e di ambiguità a partire dallo strano comportamento di Moretti e dalla misteriosa fuga di notizie che avrebbe avvisato Enrico Levati. L’otto settembre del 1974 Girotto partecipa all’operazione organizzata dai carabinieri del Generale Dalla Chiesa, che si concluderà con l’arresto di Franceschini e Curcio, in località Pinerolo. Si tratta di un evento che muta radicalmente l’attività delle Brigate rosse e tutti gli obiettivi politici della lotta armata contro il “regime”. Il film evidenzia i lati oscuri dell’arresto di Pinerolo a partire da un fatto strano: perché Curcio e Franceschini sono stati arrestati così in anticipo da bruciare la stessa copertura di Girotto? Se Girotto avesse potuto continuare le sue indagini, avrebbe sgominato l’intera organizzazione e impedito, probabilmente, lo stesso sequestro Moro. Il generale Dalla Chiesa, in Commissione Parlamentare, diede una risposta poco esaustiva, affermando che una volta identificati i criminali dovevano, nell’obbligo della legge, intervenire nell’arresto. Ma non basta. Tra il materiale che i carabinieri raccolsero non risulta, stranamente, nessuna immagine di Moretti. Fino a quel 8 settembre, Moretti era già stato pedinato, fotografato e quindi era un elemento classificato come pericoloso dalle stesse Forze dell’Ordine. Eppure nei suoi confronti, come ricorda Flamigni, non vennero fatte ulteriori fotografie comprovanti la sua presenza a Pinerolo. Questo spiegherebbe, ricorda Fernanda, «come mai in nessuna foto agli atti del processo torinese delle Brigate Rosse non compare Moretti». Cosa più strana è che Mario Moretti non è arrestato. Ne consegue che la presenza di Girotto, non solo comproverebbe l’ingerenza dei servizi segreti dietro gli stessi Brigatisti, ma evidenzierebbe che la retata sarebbe stata organizzata con lo scopo preciso di arrestare soltanto una parte della Brigate rosse e lasciare poi spazio al nuovo capo Mario Moretti. Moretti è il vero beneficiario dell’arresto. Egli cambia strategie e obiettivi del gruppo armato, dando una svolta violenta e bellicosa: il film mostra le immagini del telegiornale relative al 6 giugno del 1976, quando le Br uccisero il magistrato Francesco Coco e i due carabinieri della scorta. Come ricorda Saracini, «è a partire da questo preciso momento che le Br adottano l’omicidio come metodo di lotta». Quando Moretti assume il comando, le Brigate Rosse stanno progettando il sequestro dell’onorevole Giulio Andreotti, «Moretti invece, convince l’organizzazione a spostare il tiro su Aldo Moro… nel momento in cui quelli che manovrano Moretti decidono il sequestro di Moro, il presidente della Democrazia Cristiana è un uomo morto». Ricorda Franceschini, che nel ’74 si era deciso di organizzare il sequestro Andreotti con il quale i brigatisti avrebbero chiesto in cambio i compagni della XXII Ottobre e di Maurizio Ferrari (arrestato dopo la liberazione di Sossi). Nel ’76, dopo il reclutamento di Morucci, i brigatisti iniziarono un’inchiesta su Moro, spingendo verso la realizzazione del suo sequestro. Moretti, spiegherà che molto probabilmente le Br non avevano compreso in pieno la differenza tra Moro e Andreotti. Ma appunto, ricorda Flamigni, «perché Moro e non Andreotti?», perché il leader democristiano vicino alla sinistra, progressista, filoaraba, inviso agli americani e allo stesso Mossad? Perché non Andreotti, capo della destra anticomunista accusato dalle stesse Br di essere il regista politico della svolta “neo-gollista” di Sogno? Sono domande che Moretti evade con sfrontata ambiguità. Sofri ricorda una dichiarazione di Moretti: «non mi risulta che si sia pensato ad altri per la grande campagna di primavera del ’78 […] la nostra attenzione e il nostro impegno si concentrarono su Moro». Dunque, strane contraddizioni. Rosario illustra le nuove priorità delle Br, il cambiamento di rotta. Moretti è l’unico brigatista importante ancora libero: trasforma l’obiettivo delle Br attraverso un’opera di propaganda per sequestrare il vero nemico del proletariato e del partito armato, l’esponente di spicco dei Stati Imperialisti Multinazionali: Aldo Moro. Da adesso in poi, Moro è il vero responsabile del regime democristiano. Rosario ricorda che intorno ad Aldo Moro esisteva già una «cortina di ferro» anche nell’area di partito, di governo e nel mondo politico internazionale. La realizzazione del suo progetto politico, attraverso l’entrata del partito comunista nell’area di governo, avrebbe rappresentato un serio pericolo per le forze democratiche e per lo stesso regime comunista. Si tratta del punto più delicato e fondamentale del film. La politica di Moro era destabilizzante, avrebbe permesso ad un partito “nemico” di accedere ai segreti militari della Nato. L’entrata del Pci nel Governo avrebbe significato svelare tutti i segreti Nato al nemico. Di contro, avrebbe significato che un partito comunista poteva partecipare al processo democratico attraverso un consenso popolare ed elettorale, senza il bisogno di costruirsi su di una solida impalcatura burocratica come poteva essere l’Unione Sovietica di Breznev. Dunque, il compromesso storico rappresentava oggettivamente un problema geopolitico e strategico-militare tanto per Washington, quanto per Mosca. È il punto chiave del film. Lo stesso Pecorelli aveva evidenziato il carattere internazionale del sequestro Moro attraverso un articolo intitolato Yalta in via Mario Fani: «l’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale». Più avanti aggiunge che l’obiettivo principale di questo sequestro è l’allontanamento del partito comunista dall’area di governo, e al tempo stesso, l’allontanamento di una prospettiva troppo democratica per lo stesso comunismo o «eurocomunismo». Il film diviene la descrizione narrativa di questo articolo: il fattore Yalta e la divisione del mondo in due blocchi. Pecorelli insiste in questa prospettiva: la partecipazione del Pci non era gradita nè a Washington e ne a Mosca, «la dimostrazione storica che un comunismo democratica può arrivare al potere grazie al consenso popolare, rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla Terza Internazionale, ma alla fine dello stesso sistema imperiale moscovita». L’apertura al “quarto livello” è da identificare con la logica di Yalta, «è Yalta che ha deciso via Mario Fani». Da questo presupposto il film introduce il dubbio sulla identità organica e unitaria delle stesse Brigate rosse e su alcuni suoi componenti, proprio come aveva fatto lo stesso Pecorelli attraverso un altro articolo: E anche Renato Curcio fa il suo dovere. Si tratta di un articolo sibillino che allude al fatto che i rapitori di Moro non avrebbero niente a che vedere con le Brigate rosse, con il «grande fatto politico – tecnicistico del sequestro Moro». La scelta di Moretti di puntare l’attenzione su Aldo Moro coincide “stranamente” con la volontà internazionale dei due blocchi di scongiurare a tutti i costi la realizzazione del compromesso storico in un paese, l’Italia, in cui esisteva il partito comunista più forte sotto giurisdizione Nato. Da qui, il film, spinge ulteriormente sulle strane anomalie del brigatista Moretti: la sua straordinaria fortuna nell’evitare gli arresti, fino all’aprile 1981, i suoi misteriosi viaggi, i contatti con Hyperion, i suoi evasivi resoconti sulla dinamica del sequestro Moro, versioni non sempre chiare e soddisfacenti. Tanto che, in carcere Moretti verrà emarginato da tutti gli altri brigatisti, come ricorda Galati, perché considerato spia. Il film mostra l’opuscolo che il giudice avrebbe avuto dall’Entità a Parigi. L’opuscolo definisce i piani d’intervento militare da adottare in caso di vittoria elettorale del partito comunista o in caso d’invasione dell’Armata Rossa, attraverso l’azione di agenti infiltrati. Si tratta, afferma Rosario, della direttiva FM 30/31 B che prevedeva azioni di provocazione e reazione di alti esponenti della sinistra comunista e azioni di sequestro, fino all’assassinio di leader politici. Il dato più significante è quello che riguarda i piani d’intervento militare presenti nell’opuscolo in mano a Rosario sono incredibilmente simili ai piani di intervento politico e finanziario in programma per le elezioni politiche del 18 aprile 1948. Si tratta dei piani di Gladio, di cui Moro stesso era a conoscenza, e della struttura segreta Stay Behind, nata per lo stesso motivo: osteggiare il pericolo di un’avanzata politica e militare comunista[256]. Ed è probabilmente a questa guerra che Moro si sarebbe rivolto nelle sue lettere. Aspetti militari e politici che in quel periodo ancora erano del tutto sconosciuti all’opinione pubblica e a buona parte del mondo politico, ma di cui Aldo Moro, noto anche con il nomignolo di Signor Omissis, ne conosceva gli interessi e la gestione. Da un punto di vista narrativo la scena della torre assume un’importanza fondamentale per risolvere definitivamente l’indagine. Rosario, si rivolge a Branco, affermando che forse conosce l’ubicazione del presunto vero Memoriale Moro. Ed è in questa direzione che il film tenta il suo percorso investigativo. Il Memoriale che tutti conoscono quello riscoperto nel ’91 sarebbe dunque incompleto e il giudice Saracini starebbe per raggiungere quello vero e definitivo.
13. LA FINE DEL RACCONTO. Nella ricorrenza della strage di Via Fani del 16 marzo 1988, Il Messaggero pubblicò alcune dichiarazioni del pubblico ministero Domenico Sica. Il magistrato affermava: «non ci sono verità nascoste sul caso Moro... tutto quello che poteva essere scoperto è stato scoperto… sono convinto che ciò che resta da sapere è assolutamente irrilevante ai fini dell’individuazione del nucleo terroristico responsabile». È un punto di vista condiviso dalla maggior parte delle Istituzioni e dalla politica italiana: nel caso Moro non c’è più niente da scoprire e per questo sono da escludere tutti quei misteri che continuerebbero a destabilizzare la verità giudiziaria. Tutte le indagini personali portate avanti da un certo settore dalla pubblicistica apparterebbero, quindi, ad una dietrologia speculativa e fantastica. Quella di De Sica è un’affermazione molto forte che stride con l’idea narrativa del film di Martinelli e con le ipotesi proposte da altri scrittori, giornalisti e intellettuali. Lo stesso Moretti, ancora oggi, è fermamente convinto che le Br, di fatto, furono un gruppo rivoluzionario armato che voleva attuare una lotta contro il Potere. Tuttavia, molti sono i buchi neri che confermerebbero le strane circostanze del sequestro Moro. Ci si trova di fronte ad uno strano bivio, un doppio percorso che descriverebbe i due approcci del caso Moro. Da una parte esiste la versione ufficiale, divulgata in ogni dove, di cui si fanno portavoce maggiori rappresentati della cultura e della politica italiana. È il caso dell’Odissea del caso Moro, di Vladimiro Satta, ricordato polemicamente dallo stesso Flamigni, o ancora di alcuni interventi giornalistici di Pierluigi Battista o ancora di Paolo Mieli che avrebbero sminuito il lavoro investigativo di Flamigni o criticato lo stesso film di Martinelli. Dall’altra esiste una “strana” minoranza, che continuerebbe il personale percorso investigativo, molto spesso solitario e difficoltoso, cercando di portare alla luce gli elementi poco definiti della vicenda. Due tendenze che, effettivamente, sembrano rispecchiare un divario storico e politico tutto italiano e che rappresentano due tendenze opposte e contrarie che sembrano andare molto al di là della semplice ricerca storiografica. Forse, come ha osservato il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino «la classe politica italiana non ha un reale interesse all'accertamento della verità sulle stragi in quanto ciascuna forza politica punta ad una verità che giovi al proprio interesse». Sopra le due tendenze, sembra esistere un potere molto più ampio, che gestirebbe la verità storica e giudiziaria: è la tesi narrativa proposta dal film e che colpirà direttamente i familiari di Fernanda e lo stesso procuratore Saracini. Si tratta, almeno da un punto di vista filmico, della conferma della tesi del complotto, e di come esista un potere che convive con gli eventi quotidiani della società civile, che gestisce gli eventi della storia. La morte del marito di Fernanda, in circostanze che il film presenta chiaramente delittuose, e la scoperta della vera identità di Branco, indicherebbero la presenza di un potere insidioso dedito al controllo delle informazioni, proteso ad un incessante spionaggio. Martinelli racconta che il caso Moro nasce in un contesto storico e politico determinato da una guerra di spie di altissimo livello internazionale. Gli eventi incalzano tutti verso il finale: l’inseguimento di un misterioso elicottero che tenta di eliminare il giudice[263]; la visita intimidatoria nella casa del giudice che viene messa a soqquadro[264]; la strana telefonata che Rosario riceve dal capo della magistratura che lo invita a presentarsi immediatamente a Roma. Si tratta, ineccepibilmente, di un superpotere che esiste e convive concretamente con la vita del procuratore, che controlla segretamente tutti gli eventi privati e pubblici della vita del singolo cittadino. Quando Rosario scoprirà la chiave per accedere al programma informatico, comprenderà che si tratta del nome di una nota zona romana, prossima a piazza Navona, dal nome piazzadellecinquelune: è la password che gli consentirà di svelare il mistero intorno al memoriale Moro. Piazza delle Cinque Lune è anche il luogo dove Varisco, Pecorelli e il generale Dalla Chiesa si sarebbero incontrati in più riprese e dove, molto probabilmente, sarebbero venuti a conoscenza, già durante il 1978, dei passi censurati del memoriale Moro. Piazza delle Cinque Lune sarebbe la chiave per accedere al Memoriale, il luogo dove si sarebbe creata una strana collusione tra servizi segreti e occulti superpoteri. Ma sarebbe anche lo spazio scenico del finale narrativo del racconto, il telos della storia. Quindi il livello storico si sovrappone al codice narrativo, delineando una nuova possibilità investigativa. Il titolo del film spiegherebbe tale circostanza complottistica e insidiosa, la rappresentazione di “poteri” non meglio definiti. Piazza delle cinque lune è il luogo fisico carico di misteri, è l’elemento narrativo che scioglie l’intreccio e spiega la logica del racconto. Un luogo che sosterrebbe il significato storico e storiografico di tutta la vicenda: il caso Moro nasconderebbe un’intricata matassa da districare, resa contorta dalla mancanza di documenti troppo spesso confusi o addirittura scomparsi. Se il giudice Saracini scopre di essere stato spiato sin dal primo momento, lo spettatore scopre che tutto il caso Moro è controllato da un superpotere nascosto e onnisciente. Tutta la storia raccontata è quindi travolta dal poderoso dubbio finale che travolgerebbe tutta la storiografia riferita al caso Moro. Tutta la finzione narrativa, quindi, corrisponderebbe ad un reale livello storico ancora da esplorare. Nell’incontro con Branco si assiste allo svolgimento dell’intreccio narrativo che però non risolve quello storico: anzi lo ammanta di un dubbio maggiore. Chi si nasconderebbe dietro il caso Moro? È l’invisibilità dell’evidenza, per dirla con Sciascia. Il potere dentro il sistema è onnicomprensivo, onnisciente e onnipresente. Convive a fianco della magistratura, della politica, nell’esecutivo e per poi intervenire quando crede. L’inquadratura dall’alto assume anche questo significato: il controllo. Il punto di vista rappresenta la visione complessiva degli eventi e come un potere più grande che controlla gerarchicamente quelli più in basso. Il film, come ho osservato precedentemente, adotta questo linguaggio semantico per evidenziare questo aspetto del racconto, ovvero la relazione esistente tra il punto di vista narrativo (la macchina da presa) e il punto di vista storico (lo svelamento di alcuni indizi giudiziari). Il Memoriale non sarà scoperto nemmeno alla conclusione del racconto: «il film ha una conclusione amara, ovvero che la verità è destinata a rimanere nascosta in questo paese. Il famoso Memoriale non verrà fuori neanche nel film […] in Italia certi misteri sono destinati a non essere svelati mai, come è successo per i fatti di Ustica, per la strage di Bologna e in tanti altri tragici episodi della nostra storia». Il Memoriale Moro fa riferimento ad espressioni tipo «come dirò più avanti» oppure «come ho già detto altrove». Nelle 229 pagine fotocopiate, trovate nel covo di via Montenevoso il 9 ottobre del ’90, mancherebbero tali rimandi. Perché i brigatisti non hanno divulgato il Memoriale, pur avendo affermato che “niente doveva essere nascosto al popolo”? Dov’è finito l’originale scritto a mano del Memoriale Moro? Dove sono finite le pagine mancanti? Dove le bobine registrate? Dove sono le trascrizioni degli interrogatori? Il regista sceglie la strada del finale aperto. L’impossibilità narrativa di trovare il Memoriale è la triste constatazione di una storia politica e giudiziaria ancora da risolvere. Da questo punto di vista, il film raggiunge il suo scopo narrativo. Il discorso della storia e il discorso della forma coincidono nell’impossibilità di non poter chiudere il film. Si tratta di un film che inquieta lo spettatore, il quale non riesce a trovare un finale perché non esisterebbe, secondo Martinelli, nemmeno nella storia ufficiale, perché nessuno è ancora riuscito a trovare la versione definitiva del Memoriale Moro. Il collante di questi misteri è rappresentato da una location virtuale, un luogo che per tutto il film non esiste, se non nell’indagine che compiono i protagonisti, e compare soltanto nel finale del film, nella soluzione amara dell’intreccio: Rosario non troverà il Memoriale, ma scopre la doppia faccia dello Stato. Il Memoriale, è molto probabilmente dietro a questo superpotere. Cercare di scoprire l’ubicazione del Memoriale, significherebbe affrontare la presunta identità di uno Stato che si muove nel segreto, con tutte le conseguenze che questo comporterebbe. Il punto di vista è confermato anche dalla scelta stilistica del regista, dalla costruzione scenica e narrativa della scena finale. L’ending shot, è realizzato attraverso il ritorno della forma elicoidale della rampa delle scale e dalla panoramica sulla mappa della città. Tutto richiamerebbe alla rete in cui è caduto il giudice. La forma essenziale di questi due elementi, già presenti durante la narrazione, sono esasperati attraverso l’utilizzo di un piano sequenza che partendo dall’interno del palazzo, in cui si trova il giudice, arriva a coinvolgere una zona enormemente più grande e più complessa. La violenza del zoom out non indica soltanto lo stato d’animo del giudice, sorpreso e spaventato della presenza di Branco, ma è anche l’espressione diretta, tangibile ed estetica del complotto. Il film, attraverso questo finale, offrirebbe un’ulteriore spiegazione sull’utilizzazione semantica del punto di vista. Lo svelamento del reticolo delle strade, visto dall’alto, indica chiaramente l’incastro diabolico e perfido di tutta la storia, quella del giudice che tenta l’indagine e quella stessa di Moro, ricca di contraddizioni irrisolte. La figura ellittica, come ho già evidenziato precedentemente, è la metafora di una ragnatela che circoscrive l’affaire, la stessa che fa riferimento alla citazione in esergo al film: «la giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi». Si tratta di una conclusione inquietante che entra nettamente in contrasto con quella garantista e risoluta delle istituzioni. Ce lo ricorda Franceschini. Per lui Moretti era un infiltrato di terzo livello: il primo livello era il movimento rivoluzionario; il secondo livello erano le stesse Br; e il terzo era rappresentato da chi «utilizzava anche la lotta armata per garantire gli equilibri del mondo sanciti a Yalta nel 1945». D’altra parte, è lo stesso Moretti a ricordare la valenza storica dell’affaire Moro sarebbe rimasta ancora aperta, «perché questa storia che politicamente è finita non è una storia giuridicamente finita». E Franceschini parla apertamente di trattative: «nelle galere c’è stata la contrattazione su quello che si doveva e non si doveva dire, e il silenzio è stato pagato con la libertà o i benefici di legge a favore degli ergastolani». Flamigni, a suo modo giunge ad alcune conclusioni simili a Franceschini, in totale disaccordo con gli esiti giudiziari: la verità ufficiale raccontata dai brigatisti e sancita dai tribunali come tale è, in più punti, inverosimile; non crede alla purezza rivoluzionaria delle Brigate rosse morettiane e tanto meno a quella di Moretti; egli è convinto che nel delitto Moro vi siano state implicazioni dei servizi segreti e collusioni “atlantiche”. Si tratta di tesi soggettive e per tanto opinabili, afferma Flamigni, ma libere di essere espresse e di essere argomentate. Ed è, al contempo, il filo rosso che percorre tutto il film di Martinelli, nel racconto di finzione e nell’indagine giudiziaria. Un film, come ricordavo all’inizio è prima di tutto un fatto narrativo, che rientra di diritto nel campo estetico. Ma non per questo deve essere necessariamente destinato al mondo della finzione e dell’invenzione intellettuale. Da questo punto di vista, il film di Martinelli può essere definito come un fondamentale esempio di impegno civile e sociale interessato all’analisi e allo studio della verità storica. Non si tratta di puntare l’attenzione sul fattore spettacolare che tenta di trarre il massimo dai tanti misteri che esistono nella prima repubblica. E ne si può accusare il film di Martinelli di faziosità politica o giudiziaria. Gli elementi presentati nel film, sono in primo luogo indizi, tracce reali, segni oggettivi che messi insieme definiscono una possibile pista investigativa, una possibile interpretazione storica che non può essere tacciata come difettosa o paranoica. Il film è l’esempio in cui il cinema, come immagine movimento, possa intervenire nella realtà sociale per rappresentare il suo più alto contributo etico ed estetico. La costruzione della trama, il rifacimento delle scene, costringe il film, per forza di cose, ad ipotizzare un'altra dinamica degli eventi a tal punto da scorgere, senza imbarazzo, brigatisti e istituzioni dietro una versione troppo spesso superficiale. Così accade nella ricostruzione della strage di via Fani dove due elementi giudiziari non hanno permesso, a rigore di logica, lo svolgimento drammatico e fattivo dell’incidente: l’impatto della macchina di Moro, che non c’è mai stato e l’uccisione del maresciallo Leonardi. Qui il film insinua il dubbio e lo fa secondo una base oggettivamente riscontrabile nei resoconti giudiziari e nelle versioni fornite dai stessi brigatisti. Probabilmente, come afferma il regista, se brigatisti hanno potuto mentire sull’azione di via Fani e su un aspetto evidente come il mancato tamponamento, forse hanno mentito su tutto il resto. Dunque, il film non è esclusivamente un fatto finzione o di invenzione. Da questo punto di vista il racconto ribadisce continuamente il suo sforzo di costruzione semantica e al tempo stesso storiografica, degna di un cinema della migliore tradizione italiana, del cinema di Rosi, di Petri, del cosiddetto cinema politico. In oltre, il film ha un altro primato: per la prima volta all’interno del cinema italiano viene trattato senza troppi formalismi l’argomento P2. Non solo. Nel film esiste una vera e propria struttura gerarchica, un organigramma, che si mostra chiaramente in tutta la sua forza storica e giudiziaria, attraverso alcune inquadrature chiare e distinte in un contesto storico preciso. Prima di questo film, nessuna opera aveva osato tanto, nessun racconto aveva tentato di presentare i nomi di uomini politici, militari e civili per inserirli in un racconto. Da questo punto di vista, il film di Martinelli ha effettivamente rotto un muro di omertà e per questo, volenti o nolenti, bisogna dargliene atto. Ma la conclusione spetta proprio allo spettatore, poiché il film è creato soprattutto per stimolare la sua conoscenza e la sua intelligenza. Allo spettatore spetta il compito di unire i spezzoni proposti nel film, di operare un scelta tra le tante versioni esistenti, di creare un unico percorso narrativo unendo i diversi tempi e i diversi spazi proposti nel film: il flashback, il repertorio, le immagini di finzione, le telefonate dei brigatisti, il filmato di via Fani, i nuovi elementi indiziari. Tutto questo deve essere necessariamente contestualizzato se si vuole dare un senso al racconto narrativo e al racconto storiografico. Per dirla insieme a Deleuze, l’attività dello spettatore finisce per coincidere con quella «falda di trasformazione» che inventa una sorta di continuità, di comunicazione trasversale, liberando così la stessa narrazione dall’impaccio del racconto e operare un senso compiuto. Percezione, ricezione e riflessione: la sintesi deve essere data e offerta proprio dallo spettatore, che completa il finale aperto del film. Ma forse «è un lavoro che rischia lo scacco, talvolta produciamo soltanto una polvere incoerente fatta di prestiti giustapposti, talvolta formiamo soltanto generalità che prendono in considerazione solo delle somiglianze» e in tutto questo, lo spettatore comune può perdersi, confondendo ulteriormente la ricerca della verità. Ma si tratta, inevitabilmente, di un rischio che il cinema deve correre se vuole intervenire positivamente nei gangli dello sviluppo sociale e civile, modificare i punti nevralgici del Potere e incentivare la crescita degli individui. La costruzione finale del racconto indica inequivocabilmente l’allargamento del caso Moro: l’affaire è «una vicenda di intelligence internazionale, non circoscritta solo all’Italia e nella quale molti sono i punti oscuri». Il film propone dunque l’idea di questa storia e non pretende, secondo la più alta ambizione del cinema politico italiano, di risolvere la vicenda e nè tanto meno di schierarsi su di un fronte interessato e partitico: «vorrebbe sollecitare gli spettatori a riflettere su tutte le incongruenze e le menzogne che da venticinque anni ruotano intorno a questo evento epocale». Lo scopo dell’arte impegnata del cinema cosiddetto politico è quello di incitare allo studio della propria storia, stimolare la curiosità e comprendere le cause e gli effetti del proprio paese, significa crescere e costruire il futuro. Lo scopo del cinema verità è quello di impedire l’oblio, provocare l’indignazione non per il gusto estetico di provocare emozioni forti e violente: semplicemente per non dimenticare la propria storia e gli strani revisionismi che non collimano tra loro, molto spesso forzati e interessati. L’indignazione è il gesto rivoluzionario dello spettatore, è una delle possibilità per acquisire coscienza critica. È uno dei modi per poter raggiungere la verità. E la verità è sempre illuminante e ci aiuta a essere coraggiosi, come scriveva Moro. Il film di Martinelli è un film coraggioso proprio perché cerca una verità senza tornaconti. Andrea Lomartire